SOMMARIO
I CONTRATTI•ANNO XIV
SOMMARIO
GIURISPRUDENZA
Parte I - Contratti in generale
L’APPLICAZIONE DEL PRINCIPIO DEL KNOW YOUR CUSTOMER RULE AI CONTRATTI DI DEPOSITO ED AMMINISTRAZIONE TITOLI
Trib. Napoli 22 marzo 2005, n. 3257
Commento di Xxxxx Xxxxxxxxx Xxxxx 113
RITENZIONE DELLA CAPARRA CONFIRMATORIA E DOMANDA DI RISARCIMENTO DANNI SECONDO LE REGOLE GENERALI
Cass. 4 marzo 2005, n. 4777
Commento di Xxxxxx Xxxxxxxxxx 122
RASSEGNA DI LEGITTIMITÀ 129
Parte II - I singoli contratti
LA PRELAZIONE NELL’ACQUISTO DI «SALE CINEMATOGRAFICHE» AL VAGLIO DELLA CORTE DI CASSAZIONE
Cass. 18 settembre 2005, n. 15813
Commento di Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxxx 131
ILLECITI ANTITRUST E RIMEDI CIVILI DEL CONSUMATORE
App. Milano 2 febbraio 2005
Commento di Xxxxxx Xxxxxxxx 141
RASSEGNA DI LEGITTIMITÀ 155
PANORAMA FISCALE
A cura di Xxxx Xxxxxxx e Xxxxxxxxx Xxxxxxx 157
ARGOMENTI
CODICE DEL CONSUMO ED ESPRIT DE GÉOMÉTRIE
di Xxxxxxx Xxxxxxx 159
DIVAGAZIONI SULL’ATTIVITÀ NEGOZIALE DELLA P.A. NELLA NUOVA DISCIPLINA DEL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
di Xxxxx Xxxx 175
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA
CONTRATTO DI DISTRIBUZIONE E INDENNITÀ DI FINE RAPPORTO NEL DIRITTO TEDESCO
di Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx 179
BUONA FEDE E CONTRATTI STANDARD: RIFLESSIONI SULL’IMPIEGO DELLA CLAUSOLA GENERALE NEL DIRITTO PRIVATO COMUNITARIO
di Xxxxxxx Xxxxxxx 191
OSSERVATORIO COMUNITARIO
A cura di Xxxxx Xxxx, Studio legale De Xxxxx, Jacchia, Xxxxxxxxx, Forlani - Bruxelles 199
QUESITO
RICORSO AD ARBITRATO IN ASSENZA DI CLAUSOLA ARBITRALE
di Xxxxxx X. Xxxxxxx 203
I CONTRATTI•ANNO XIV
RUBRICHE
UNA PRIMA LETTURA DEL CODICE DEL CONSUMO (D.LGS. 6 SETTEMBRE 2005, N. 206)
a cura di ISDACI 208
INDICI
AUTORI 213
CRONOLOGICO 213
ANALITICO 213
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Contratto di deposito
L’applicazione del principio del know your customer rule ai contratti di deposito
ed amministrazione titoli
Tribunale di Napoli - Sentenza del 22 marzo 2005, n. 3257 Giud. Balletti - Ric. Tizio - Res. Banca Caio
Intermediazione finanziaria - Strumenti finanziari derivati - Responsabilità della banca - Deposito e amministrazione titoli
I covered warrant, riferendosi ad una attività sottostante, finanziaria o reale (azioni, indici, valute, materie prime e qualsiasi attività della quale sia possibile stabilire un prezzo ufficiale), appartengo- no senza ombra di dubbio al genus dei c.d. «strumenti derivati» e gli intermediari finanziari hanno l’obbligo di valutare l’adeguatezza dell’operazione - e di segnalare l’eventuale inadeguatezza - anche nel caso in cui l’acquisto degli strumenti finanziari avvenga per iniziativa del cliente e nell’ambito di un contratto di deposito titoli e strumenti finanziari a custodia e amministrazione.
C
Svolgimento del processo
on atto di citazione notificato il 7 gennaio 2002, Xxxxx esponeva di aver aperto in data 16 marzo 2000 ed intrattenuto con la Banca Caio
rapporto di conto corrente di corrispondenza n. xxxxx e di deposito titoli e strumenti finanziari a custodia ed amministrazione; che dal 25 aprile 2000 esso attore, av- valendosi del servizio Internet Banking della Banca, aveva disposto operazioni di compravendita aventi per oggetto quasi esclusivamente strumenti derivati (cove- red warrant); che in data 29 dicembre 2000 la Banca aveva invitato esso attore, a mezzo mail, a sottoscrivere un’integrazione contrattuale; che l’istante non sotto- scriveva l’integrazione, sicché gli veniva impedita la vendita di xxxxx covered warrant, presenti nel suo por- tafoglio, con il risultato che, alla loro scadenza, in data 16 marzo 2001, egli aveva riportato una perdita del 100% dell’investimento; che il comportamento della Banca si poneva in contrasto con la lettera d) e con la lettera c) dell’art. 2 delle Condizioni Generali; che l’art. D stabiliva che sin dall’inizio del rapporto il clien- te avrebbe potuto «conferire alla banca ordini aventi ad oggetto strumenti finanziari derivati soltanto a seguito di specifiche pattuizioni integrative»; che nel caso de quo la Banca aveva richiesto tali pattuizioni integrative solo a partire dal 31 gennaio 2000; che la lettera c) im- poneva alla Banca di astenersi dall’effettuare operazio- ni se l’ordine impartito dal cliente fosse risultato non
adeguato alle caratteristiche del cliente e di darne co- municazione immediata al cliente; stabiliva che, nell’i- potesi di insistenza del cliente, la Banca poteva esegui- re l’operazione solo in presenza di determinati requisiti formali (ordine scritto, etc.); che la Banca aveva viola- to tali norme in quanto non avrebbe dovuto trasmette- re i singoli ordini disposti dall’attore su strumenti deri- vati; che non vi era alcun dubbio che la lettera D) si ri- ferisse ai covered warrant, in quanto per stessa ammis- sione della convenuta, la Banca «non trattava altri strumenti derivati» al di fuori dei covered warrant; che a seguito, dell’inadempimento contrattuale della Banca, costituente anche violazione dei doveri di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1375 e 1175 Codice civile, esso attore aveva subito un danno di Euro xxxxx,xx quale minusvalenza complessiva e di Euro xxx,xx pari ai capital gains addebitati al Sig. Tizio.
Tanto premesso, l’istante conveniva in giudizio dinanzi a questo Tribunale, la Banca Caio, chiedendone la con- danna al pagamento delle somme sopra precisate, oltre al pagamento delle spese di lite.
Costituitasi in giudizio, la convenuta banca Caio dedu- ceva l’infondatezza delle pretese attoree chiedendone il rigetto.
Assumeva in particolare:
- che soltanto con delibera Consob n. 12716 del 6 set- tembre 2000 erano state estese ai covered warrants le norme contenute nel regolamento Consob n. 11522
dell’1° luglio 1998 che, fino alla data del 31 dicembre 2000 erano applicabili ai soli strumenti derivati;
- che i prodotti warrant e covered warrants non rientrano negli strumenti derivati, tant’è vero che interessano due mercati diversi: i primi vengono negoziati sul Mercato Italiano dei Derivati (cd. IDEM), i secondi sui mercati
c.d. «cash» o «a pronti»;
- che l’obbligo di integrazione decorreva per i covered warrants solo a partire dal 31 dicembre 2000 e di tale cir- costanza la Banca aveva dato regolare comunicazione al Sig. Tizio con la e-mail del 29 dicembre 2000, con cui lo invitava a sottoscrivere l’integrazione entro il 31 dicem- bre 2000, pena il blocco della operatività dalla data 16 gennaio 2001;
- che pertanto il blocco delle operazioni era ascrivibile unicamente all’inerzia del Sig. Xxxxx, che non aveva sot- toscritto l’integrazione contrattuale;
- quanto alla violazione della lettera C), che non era te- nuta ad alcun obbligo di informare il Sig. Tizio della ina- deguatezza degli ordini impartiti dal 25 aprile 2000 al 2 gennaio 2001, in quanto col documento, sottoscritto dal Sig. Tizio il 9 marzo 2000, quest’ultimo informava la Banca della propria esperienza in materia di investimen- ti in strumenti finanziari;
- che pertanto gli ordini impartiti dall’attore risultavano perfettamente adeguati alle caratteristiche del cliente, desunte dalle stesse informazioni, rese dall’attore alla Banca.
La causa, istruita solo documentalmente, sulle conclu- sioni in epigrafe trascritte, veniva assegnata a sentenza all’udienza dell’1° luglio 2004, previa assegnazione dei termini di legge per il deposito delle comparse conclu- sionali e delle memorie di replica.
L’
Motivi della decisione
attore addebita sostanzialmente alla Banca due comportamenti costituenti, a suo dire, inadempi- mento degli obblighi contrattuali:
a) l’avergli consentito di operare con covered warrant, senza avere sottoscritto specifiche pattuizioni integrative.
b) l’avergli consentito di operare anche se gli ordini, per l’altissimo rischio che presentavano, non erano adeguati alle caratteristiche del cliente.
Relativamente al primo profilo il Sig. Tizio precisa che solo in data 29 dicembre 2000 (e quindi a distanza di ol- tre otto mesi dall’inizio del rapporto) la Banca lo ha in- vitato a sottoscrivere la integrazione contrattuale (aven- te ad oggetto la norma che impone alla Banca l’obbligo di informare «prontamente e per iscritto l’investitore ap- pena le operazioni in strumenti derivati e in warrant da lui disposte per finalità diverse da quelle di copertura ab- biano generato una perdita, effettiva o potenziale, pari o superiore al 50% del valore dei mezzi costituiti a titolo di provvista e garanzia per l’esecuzione delle operazioni...», nonché la norma per cui il contratto tra intermediario ed investitore deve «…indicare e disciplinare, nei rap- porti di negoziazione e ricezione e trasmissione di ordini,
le modalità di costituzione e ricostituzione della provvi- sta o garanzia delle operazioni disposte, specificando se- paratamente i mezzi costituiti per l’esecuzione delle ope- razioni aventi ad oggetto strumenti finanziari derivati e warrant»).
Tale omissione, secondo l’attore, si pone in contrasto con l’art. 2 lett. d) delle condizioni generali di contratto, il quale stabilisce che: «Il Cliente - anche in relazione ai rischi connessi all’effettuazione di tali operazioni - può conferire alla Banca ordini aventi ad oggetto anche stru- menti finanziari derivati soltanto a seguito di specifiche pattuizioni integrative alle presenti norme».
La Banca, pertanto, fin dall’inizio del rapporto doveva dare attuazione a tale norma.
La convenuta ha sostenuto:
- che la lett. D trovava applicazione soltanto per gli stru- menti derivati e tali non sono i covered warrant;
- che l’art. 28, terzo comma e l’art. 30 lett. e) del Regola- mento Consob n. 11522 dell’1° luglio 1998, concernen- ti le cd. pattuizioni integrative, previste inizialmente so- lo per gli strumenti derivati, sono stati estesi ai warrant solo a seguito della delibera Consob n. 12409 del 1° mar- zo 2000.
Relativamente al secondo profilo il Sig. Xxxxx ha soste- nuto che la Banca ha violato l’art. 2 lett. c) delle condi- zioni generali di contratto (che testualmente stabilisce:
«La Banca si asterrà dall’effettuare le operazioni se l’ordi- ne impartito dal cliente fosse risultato non adeguato alle caratteristiche del cliente - secondo le informazioni da questi comunicate o, in mancanza, secondo le informa- zioni di cui la Banca comunque dispone - dandone co- municazione immediata ed esponendo le ragioni per cui non è opportuno procedere all’esecuzione. Se il cliente richiede comunque l’esecuzione delle operazioni, la Ban- ca può eseguirle solo sulla base di un ordine impartito per iscritto, ovvero, nel caso di ordini telefonici, registrato su nastro magnetico, in cui sia fatto esplicito riferimento al- le avvertenze ricevute»).
Tanto premesso, al fine di risolvere la controversia, è op- portuno premettere alcuni cenni circa la natura e le ca- ratteristiche degli strumenti finanziari per cui è causa.
I covered warrant sono dei titoli liberamente negoziabili in borsa, rappresentativi di opzioni.
Il compratore ha facoltà ma non l’obbligo, di acquistare (warrant call) o di vendere (warrant put) una determina- ta attività finanziaria sottostante (o underlying) ad un prezzo (strike price) e ad una scadenza prefissati.
A fronte di questo diritto, il compratore del warrant pa- ga un certo controvalore: il premio.
Entro la data di scadenza l’investitore può esercitare il di- ritto conferitogli dal CW, incassando un controvalore pari alla differenza, se positiva tra il prezzo di mercato dell’attività sottostante e lo strike price. Alternativa- mente l’investitore può vendere il CW in Borsa (come un normale titolo azionario) per monetizzare l’eventuale profitto.
Ad avviso di questo giudicante i covered warrant, riferen-
dosi ad un’attività sottostante, finanziaria o reale (azioni, indici, valute, materie prime e qualsiasi attività della quale sia possibile stabilire un prezzo ufficiale), apparten- gono senza ombra di dubbio al genus dei cd. «strumenti derivati».
Ed invero si definiscono tali quegli strumenti finanziari che non rappresentano «titoli» in senso stretto, bensì il contratto di acquisto e/o di vendita potenziale, a termi- ne, degli stessi. Detta denominazione discende dal fatto che il loro valore «deriva» dal valore di un’attività sotto- stante, reale o finanziaria.
Trattandosi di strumenti che, per la loro aleatorietà, pre- sentano un rischio economico piuttosto elevato per gli investitori, il legislatore ha provveduto alla protezione dei loro interessi mediante l’introduzione di regole di comportamento.
In particolare la Banca deve comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati; acquisire le informazioni necessa- rie dai clienti ed operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati; organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse e, in situazioni di conflitto, agire in modo da assicurare co- munque ai clienti trasparenza ed equo trattamento; di- sporre di risorse e procedure anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi; svolgere una gestione indipendente sana e prudente ed adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei clien- ti sui beni affidati.
Ciò posto in generale, devesi rilevare che nella fattispe- cie la convenuta ha violato taluni di questi obblighi.
In particolare la Banca Caio, pur rivestendo i covered warrant la natura di strumenti derivati, in violazione del- la lettera d) delle condizioni generali ometteva di inte- grare il contratto con le specifiche pattuizioni, che face- va sottoscrivere solo nel corso del contratto.
Né appare condivisibile l’assunto della convenuta, se- condo cui solo con la delibera Consob n. 12409 del 1° marzo 2000 e, pertanto, solo a partire dal 31 dicembre 2000, sarebbe stata estesa anche ai CW la disciplina re- lativa alla integrazione contrattuale.
Ed invero a prescindere dalla considerazione che, già in forza di contratto dovevano applicarsi anche ai CW, quali strumenti derivati, le pattuizioni integrative, si os- serva che dalla stessa lettura della nota tecnica, allegata alla memoria ex art. 184 Codice di procedura civile de- positata dalla Xxxxxx in data 18 giugno 2003, si evince che la delibera, più, che introdurre una modifica agli artt. 28, terzo comma, e 30, secondo comma, lett. e) del Regolamento Consob, ne contenesse una sorta di inter- pretazione autentica, nel senso di precisare che la disci- plina indicata nei suddetti articoli trovasse applicazione anche con riferimento all’operatività in warrant (e quin- di anche in covered warrant).
Pertanto dal combinato disposto delle condizioni gene- rali di contratto e del Regolamento Consob emerge che la Banca Caio non poteva accettare operazioni di com-
pravendita aventi ad oggetto CW ed in genere stru- menti derivati, senza aver prima fatto sottoscrivere al cliente le specifiche pattuizioni integrative previste in materia.
Peraltro trattasi di pattuizioni particolarmente impor- tanti per la tutela degli interessi del cliente, atteso che concernono l’obbligo per la Banca di informarlo per iscritto qualora le operazioni da lui effettuate generino perdite sul capitale investito oltre il 50% del capitale stesso.
Orbene nel caso in esame le perdite, subite dall’attore, riguardano il 100% dell’investimento.
Passando all’esame del secondo profilo di responsabilità, ascritto alla Banca, ritiene questo giudicante che esso sia effettivamente ravvisabile.
Dando attuazione a quanto stabilito dall’art. 29 del Re- golamento Consob n. 11522/98, l’art. 2 lett. c) delle Condizioni generali di contratto, impone all’interme- diario di valutare l’adeguatezza dell’operazione rispetto al profilo dell’investitore e nell’ipotesi in cui la valuti ina- deguata, di segnalare immediatamente al cliente l’inade- guatezza e la ragioni della stessa.
Gli intermediari non sono esonerati da tali obblighi an- che nel caso in cui l’investitore abbia rifiutato di fornire le informazioni relative alla propria situazione finanzia- ria, obiettivi di investimento e propensione al rischio; in tal caso la valutazione andrà condotta, in ossequio ai principi generali di correttezza diligenza e trasparenza, tenendo conto di tutte le notizie di cui l’intermediario sia in possesso (es. età professione, presumibile propen- sione al rischio del cliente alla luce anche della pregres- sa ed abituale operatività; situazione del mercato).
Nella fattispecie non risulta che la Banca abbia mai se- gnalato al Sig. Xxxxx che le operazioni da lui eseguite era- no inadeguate alle sue caratteristiche.
È pur vero che, come sostenuto dalla difesa della Banca, l’attore, nel compilare il modulo informativo, aveva di- chiarato di essere in possesso di un dossier di custodia ed amministrazione di valori mobiliari e di avere già opera- to con strumenti derivati, ma, tuttavia, tenuto conto delle sue caratteristiche soggettive (investitore non pro- fessionale, dotato di un diploma di maturità classica, pri- vo, per la giovane età, di una grossa esperienza nel setto- re degli investimenti mobiliari), della tipologia degli strumenti finanziari utilizzati (covered warrants, che sono strumenti derivati ad alto rischio economico), della di- mensione dell’investimento (in grado di mettere a re- pentaglio l’intero capitale investito) ed inoltre dell’an- damento decisamente negativo delle operazioni in un lasso di tempo alquanto esiguo (pochi mesi), tenuto conto di tutto ciò, la Banca avrebbe potuto facilmente avvedersi dell’assoluta inadeguatezza delle operazioni, da lui compiute e, pertanto, provvedere alle segnalazioni del caso. A tanto la Banca non risulta abbia mai ottem- perato.
La violazione di siffatti obblighi da parte della convenu- ta costituisce inadempimento rilevante, tale da giustifi-
care l’accoglimento della domanda di risoluzione, avan- zata dal Sig. Tizio.
Ne consegue che va dichiarata la risoluzione del con- tratto di custodia ed amministrazione di strumenti fi- nanziari, intercorso tra le parti. Per quanto concerne l’imputabilità alla Banca convenuta del danno, che il Sig. Xxxxx assume di aver subito, non pare a questo giudi- ce che essa possa farsi discendere tout court dalla descrit- ta violazione degli obblighi di comportamento.
In particolare ai fini dell’imputabilità alla Banca del pre- giudizio risentito dall’investitore occorre che sussista il nesso di causalità tra il danno e la violazione del peculia- re obbligo di condotta.
Nella fattispecie è indubbio che, non avendo il Sig. Ti- zio sottoscritto le pattuizioni specifiche previste dalle condizioni generali in materia di strumenti derivati, la Banca non avrebbe potuto accettare gli ordini dello stesso, aventi ad oggetto covered warrant. Parimenti è indubbio che, qualora la convenuta avesse adempiuto agli obblighi di segnalazione, impostigli dall’accerta- mento della inadeguatezza dell’investimento, con mol- ta probabilità, l’attore non si sarebbe spinto a compiere operazioni che presentavano un rischio economico così elevato in relazione alla capienza del suo portafoglio. Va tuttavia rilevato che la perdita del capitale investito so- lo in parte può essere ricondotta a tali circostanze, in quanto, come asserito dallo stesso Xxx. Xxxxx nell’atto di citazione (confronta gli ultimi righi della prima pagina ed primi righi della seconda), essa era stata anche pro- vocata dal fatto che, non avendo l’attore sottoscritto le integrazioni contrattuali, sottopostegli nel corso del rapporto, le operazioni gli erano state bloccate e pertan- to non aveva potuto procedere alla vendita dei 43.000 CW presenti nel suo portafoglio. Ne consegue che le perdite subite dall’attore sono in parte attribuibili alla condotta della Banca, costituente inadempimento con- trattuale, ed in parte sono ascrivibili allo stesso attore che volontariamente provocò il blocco dello operazio- ni, non sottoscrivendo le integrazioni contrattuali. Ne consegue che, ad avviso di questo giudicante, il pregiu- dizio economico, subito dal Sig. Xxxxx, quantificato dal- lo stesso in Euro Xxxxx,xx (pari alla minusvalenza ri- sultante dalle operazioni compiute tra il 25 aprile 2000 ed il 27 dicembre 2000) ed in Euro Xxx,xx (pari al ca- pital gain, addebitati al Sig. Tizio il 30 giugno 2000, 31 luglio 2000, 31 agosto 2000, 29 settembre 2000 ed il 31 ottobre 2000), va posto a carico della convenuta solo nella misura del 50%.
Sulla scorta di tali considerazioni la Banca va condanna- ta al pagamento della somma di Euro xxxxx,xx, oltre agli interessi nella misura legale, dalla domanda (2 gen- naio 2002) al saldo.
Tenuto conto dell’esito globale della controversia e del- la complessità delle questioni trattate, si ritiene sussista- no giusti motivi per compensare le spese di lite per la metà, ponendo la restante metà a carico della convenu- ta in forza del principio della soccombenza. Le spese si li-
quidano come da dispositivo ex officio in mancanza di nota specifica.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunziando, ogni con- traria istanza eccezione e deduzione disattesa, così prov- vede:
a) accoglie la domanda per quanto di ragione e, per l’ef- fetto, dichiara la risoluzione del contratto di custodia ed amministrazione di strumenti finanziari, intercorso tra il Sig. Tizio e la Banca Caio per inadempimento della Banca;
b) condanna la Banca Caio al pagamento in favore del- l’attore, a titolo di risarcimento dei danni, della somma di Euro xxxxx,xx, oltre agli interessi nella misura legale, dalla domanda (2 gennaio 2002) al saldo;
c) determina le spese di lite in Euro xxx,xx per esborsi, Euro xxxx,xx per diritti ed Euro xxxx,xx oltre rimborso forfettario spese generali ed oltre IVA e CPA come per legge e le dichiara compensate per la metà, condannan- do la convenuta al pagamento della restante metà in fa- vore dell’attore.
IL COMMENTO
di Xxxxx Xxxxxxxxx Xxxxx
L’Autrice, sottolinea come il principio del know your customer rule e l’obbligo di segnalare la non adegua- tezza dell’operazione trovino applicazione anche ai contratti di deposito ed amministrazione titoli che, per loro natura, escluderebbero il dovere di consulen- za al cliente da parte dell’intermediario e la discrezio- nalità operativa di quest’ultimo. Tanto si afferma giacché la normativa imperativa in materia di inter- mediazione finanziaria prevista dal TUF e dai regola- menti Consob (c.d. statuto dell’imprenditore finanzia- rio) si applica a tutti i contratti di investimento fi- nanziario indipendentemente dal conferimento di un espresso mandato gestorio in capo all’intermediario e dall’espressa pattuizione del dovere di consulenza. In tal senso, la sentenza del Tribunale di Napoli rappre- senta una vera evoluzione della giurisprudenza nel- l’affermazione del principio che il dovere di protezio- ne e consulenza grava sull’intermediario anche quan- do il cliente operi autonomamente - ad esempio tra- mite l’home banking - l’acquisto di strumenti finan- ziari derivati i quali per loro natura rappresentano in- vestimenti ad alto rischio.
Premessa
Con la sentenza che di seguito brevemente si anno- ta il Tribunale di Napoli si pronuncia in materia di stru- menti finanziari derivati, ed, in particolare, di covered warrant, per affermare, ancora una volta, la responsabi- lità dell’intermediario finanziario (nella specie della banca) per non aver segnalato al cliente la non adegua- tezza e la rischiosità elevata dell’investimento finanziario compiuto. La decisione suscita particolare interesse per- ché aggiunge un tassello ulteriore al quadro dei principi che regolano il rapporto tra intermediario e cliente, at- teso che la responsabilità della banca viene affermata con riferimento ad un investimento compiuto dal clien- te in esecuzione di un contratto di deposito ed ammini- strazione titoli che non dovrebbe prevedere alcuna di- screzionalità dell’intermediario in ordine alla scelta del- lo strumento finanziario oggetto della compravendita.
Il fatto
La vicenda sulla quale interviene la decisione del Tribunale di Napoli si origina dall’esecuzione di un con- tratto di conto corrente di corrispondenza cui era colle- gato un contratto di deposito titoli in amministrazione e custodia sul quale la banca offriva al cliente, altresì, il ser- vizio di home banking. In particolare, il cliente autonoma- mente - ed avvalendosi di detto servizio - aveva disposto operazioni di compravendita aventi ad oggetto quasi esclusivamente strumenti finanziari derivati, nella specie
covered warrant. Successivamente all’acquisto, tramite e- mail, la banca aveva invitato il cliente a sottoscrivere una integrazione contrattuale del rapporto che, però, il clien- te non aveva accettato. Di conseguenza, la banca impe- diva al cliente di procedere alla vendita dei covered war- rant presenti nel portafoglio del cliente. La permanenza di tali strumenti finanziari derivati nel conto deposito ed amministrazione titoli arrecava grave danno all’investi- tore che perdeva il totale del capitale investito.
Pertanto, l’investitore conveniva dinanzi il Tribu- nale di Bari la banca lamentandone l’inadempimento contrattuale per violazione delle condizioni generali di contratto che espressamente riconoscevano la facoltà del cliente di conferire alla banca ordini di acquisto di strumenti finanziari derivati solo a seguito di specifiche pattuizioni integrative del contratto la cui sottoscrizione, nel caso, era stata proposta solo successivamente all’ac- quisto avvenuto. Assumeva, inoltre, l’investitore che la banca aveva, altresì, violato la disciplina imperativa del TUF considerato che non si era astenuta dall’effettuare operazioni di acquisto o vendita di strumenti finanziari derivati non adeguati al proprio profilo.
Il Tribunale di Napoli, disattendendo le difese della banca - principalmente orientate a dimostrare che i co- vered warrant non potevano considerarsi strumenti fi- nanziari derivati - in accoglimento della domanda, di- chiarava la risoluzione per inadempimento del contratto di deposito ed amministrazione titoli condannando la banca al risarcimento del danni.
La qualificazione giuridica
degli strumenti finanziari derivati
La sentenza si inquadra decisamente nell’ambito dell’indirizzo giurisprudenziale di recente affermazione che riconosce la massima tutela al cliente nell’esecuzione dei contratti di investimento finanziario dichiarando la nullità dei contratti conclusi in violazione della discipli- na del TUF e dei regolamenti relativi, ovvero - come nel caso di specie - la risoluzione per inadempimento (1).
Nota:
(1) Alpa, Qualche rilievo civilistico sulla tutela dei mercati finanziari e sulla tu- tela del risparmiatore, in Banca, borsa e tit. cred., 1998, I, 378; Alpa - Capri- glione (cur.), Commentario al testo Unico delle disposizioni in materia di inter- mediazione finanziaria, Padova, 1998 (in tre tomi), 212-213. In giurispru- denza l’orientamento è inaugurato dalla decisione del Trib. Mantova, sez. II, 18 marzo 2004 che ha stabilito che l’«l’intermediario autorizzato ha l’obbligo di informare il cliente sulle caratteristiche del titolo e del rischio dell’investimento; tale obbligo va assolto in modo puntuale e analitico e non può ritenersi soddisfatto dalla generica rappresentazione di elementi di rischio dell’investimento. È nullo ex art. 1418 Codice civile, in quanto contrario a norma imperativa, il contratto di acquisto di titoli concluso con una banca quando quest’ultima, in violazione degli obblighi di infor- mazione imposti dall’art. 21 TUF, non abbia informato il cliente sui rischi dell’operazione», in Dir. e prat. soc., 2004, 19, 76 - 88.
Il Tribunale di Napoli definisce strumenti finanzia- ri derivati quegli strumenti che non rappresentano «ti- toli» in senso stretto, bensì il contratto di acquisto e o di vendita potenziale o a termine dei «titoli». La denomi- nazione di tali strumenti finanziari discende dalla circo- stanza che il loro valore «deriva» da quello di una atti- vità sottostante, reale o finanziaria. Inoltre, il Tribunale sottolinea come la peculiarità degli strumenti finanziari derivati sia rappresentata proprio dalla aleatorietà che determina un incremento di rischio per gli investitori i quali si accolleranno con siffatto investimento anche il rischio insito nello strumento finanziario principale.
Con la decisione che si annota la giurisprudenza prende posizione in ordine alla qualificazione di un par- ticolare tipo di strumenti finanziari derivati quali sono i
c.d. covered warrant. Secondo il Tribunale di Napoli, in- fatti, i covered warrant riferendosi ad una attività sotto- stante di natura reale o finanziaria - che può essere rap- presentata da azioni, indici, valute, materie prime e qual- siasi altra attività della quale sia possibile stabilire un prezzo ufficiale - appartengono senza ombra di dubbio al genus degli strumenti finanziari derivati. I covered war- rant, infatti, sono titoli liberamente negoziabili in borsa e rappresentativi di diritti di opzione. Il compratore ha la facoltà e non l’obbligo di acquistare (nella specie dei warrant call) o di vendere (qualora si tratti di warrant put) una determinata attività finanziaria sottostante (c.d. un- derlyng) ad un prezzo (strike price) e ad una scadenza pre- fissata. A fronte di tale diritto il compratore del warrant paga un certo controvalore rappresentato dal premio. Infine, entro la scadenza, l’investitore ha la facoltà di esercitare il diritto che gli viene attribuito dal covered warrant incassando il controvalore pari alla differenza, se positiva, tra il prezzo di mercato dell’attività sottostante e lo strike price. In alternativa, potrà vendere il covered warrant in borsa come un normale titolo azionario così da realizzare un profitto dalla alienazione.
Xxxxxx, se pure la sentenza de qua è fra le poche che riguardano più precisamente le operazioni di investi- mento in strumenti finanziari derivati, di recente altri giudici di merito hanno avuto occasione di pronunciarsi sull’argomento, cogliendo l’occasione per contribuire al- la qualificazione giuridica degli strumenti finanziari c.d. derivati. Il Tribunale di Brindisi, infatti, suddivide gli strumenti finanziari derivati in: a) financial derivates che sono relativi ad entità finanziarie come, ad esempio, le valute, i tassi di interesse o gli indici finanziari; b) com- modities derivates relativi a materie prime come l’oro; c) credit derivatives, relativi a crediti (2). Gli strumenti fi- nanziari derivati, pur nella loro diversità, sono accomu- nati dalla circostanza che il loro valore di mercato deri- va dal prezzo di un’altra merce (3) e che la loro esecuzio- ne è differita nel tempo. Infatti, mentre in un contratto di compravendita di strumenti finanziari che non si qua- lifichino derivati il prezzo viene pagato al momento del- l’accordo, con contestuale consegna del titolo (che, nel- la specie avviene mediante l’accredito delle somme cor-
rispondenti al valore sul conto corrente collegato al de- posito titoli), allorquando l’investimento abbia ad ogget- to strumenti finanziari derivati all’accordo delle parti non segue la consegna del titolo ed il pagamento del prezzo che sono differiti ad un momento anche molto lontano nel tempo.
La Corte capitolina, invece, in passato si era soffer- mata prevalentemente in ordine al profilo della validità di alcune fattispecie di contratti derivati, affermando che contratti di swap (nel caso di specie «domestic in- dexed lire swap») stipulati dopo l’entrata in vigore della Legge 2 gennaio 1991, n. 1 (recante la disciplina dell’at- tività di intermediazione mobiliare e disposizioni sull’or- ganizzazione dei mercati mobiliari) da soggetto diverso dalle Sim (società di intermediazione mobiliare), essen- do contrari a norme da ritenersi imperative, perché di- rette a tutelare interessi di carattere generale (alla rego- larità dei mercati ed alla stabilità del sistema finanzia- rio), sono affetti da nullità assoluta (4).
Ad ogni modo, proprio alla luce delle caratteristi- che su evidenziate come proprie degli strumenti finan- ziari derivati, la giurisprudenza ha sottolineato come la funzione di tali contratti sia da individuare nella nego- ziazione dei rischi connessi alle fluttuazioni delle variabi- li di mercato (c.d. rischi finanziari) separatamente dal- l’operazione che li ha generati (5).
Orbene la definizione di strumenti finanziari deri- vati che proviene dalla giurisprudenza è notevolmente diversa da quella elaborata dalla dottrina tradizionale in ordine ai contratti derivati in senso stretto. Tali sono, se- condo autorevole pensiero, gli accordi che si configura- no allorquando da un contratto già perfezionato (defini- to anche contratto base o contratto principale o con- tratto padre) discende e dipende un altro contratto, con- cluso separatamente dal primo e che a questo si contrap- pone e si qualifica come «contratto nuovo» che genera un diritto (6).
Il principio del know your customer rule
nell’amministrazione titoli
La dottrina ha affermato in ordine agli strumenti fi-
Note:
(2) Trib. Brindisi 27 agosto 2004, n. 1969, in Dir. e prat. soc., 2005, 16, 73 e ss.
(3) Xxxxxx Xxxxxxxx, Profili civilistici dei contratti «derivati» finanziari, Mila- no, 1997, 2 e ss.; Xxxxxxxxx, I derivati finanziari tra vendita a termine e con- tratto differenziali, in I Derivati finanziari, a cura di Riolo, Milano, 27; Ca- priglione, I prodotti derivati: strumenti per la copertura dei rischi o per nuove forme di copertura finanziaria?, in Banca, borsa e tit. cred., 1995, I, 361; Lembo, La rinegoziazione dei contratti derivati: brevi note sulle problematiche civilistiche e fallimentari, in Dir. fall., 2005, 354.
(4) Cass., sez. I, 5 aprile 2001, n. 5052, in Mass. Giur. it., 2001.
(5) Trib. Brindisi 27 agosto 2004, n. 1969, cit.
(6) Messineo, Il contratto in generale, Milano, 1973, 733; Colavolpe, Ap- plicabilità del nuovo rito societario al contratto di «opzione put», in Dir. e prat. soc., 2005, 16, nota a Trib. Brindisi 27 agosto 2004, n. 1969, il quale sot- tolinea la valenza «espansiva della nozione di derivates».
nanziari derivati che il rischio di tali investimenti non deriva dall’affidamento ad altri della gestione dell’inve- stimento stesso, bensì - come è tipico dei contratti diffe- renziali - dall’andamento dei mercati dei valori di riferi- mento (7).
Xxxxxx, è noto che gli strumenti finanziari si posso- no collocare presso il pubblico attraverso l’appello al pubblico risparmio, operazione con la quale gli strumen- ti finanziari vengono offerti direttamente al pubblico at- traverso una operazione di sollecitazione all’investimen- to (artt. 00-000 XXX), oppure attraverso il c.d. «colloca- mento privato», attraveso la quale procedura gli emit- tenti privati non si rivolgono direttamente al pubblico, ma operano attraverso investitori professionali ai quali viene demandato il compito di collocare gli strumenti fi- nanziari presso il pubblico. Il «collocamento privato» tende a diffondersi in maniera particolarmente incisiva in quanto, essendo rivolto a soggetti qualificati ed in quanto sorretto da un documento di offerta che è redat- to secondo regole internazionali (8), permette una ope- ratività decisamente semplificata perché non rivolto al pubblico risparmio. Il collocamento presso il pubblico, infatti, si configurerà solo ed esclusivamente nel caso in cui gli investitori istituzionali vogliano vendere al pub- blico i titoli che hanno acquistato in precedenza con il collocamento privato.
Il contratto di consulenza all’investimento finanzia- rio rimanda alla disciplina del contratto di gestione pa- trimoniale, nelle forme della gestione individuale e col- lettiva. In particolare, il contratto di gestione individua- le dei patrimoni è stato, per lungo tempo, considerato una specie della più generale figura del mandato (9) i cui tratti peculiari si possono cogliere fin dalla lettera del- l’art. 1 Legge n. 1/91 (10), che già considerava l’attività
tuale nel caso in cui l’investitore non abbia fornito al ri- sparmiatore le informazioni adeguate circa il rischio insi- to nel prodotto finanziario o nel caso in cui al risparmia- tore non siano state richieste le notizie necessarie per in- dividuare la forma di investimento più adeguata. Attra- verso il dovere di informativa, pertanto, si realizza a pie- no la regola del know your customer rule (12).
Nella fase antecedente alla conclusione di un con- tratto, pertanto, le parti hanno, in ogni tempo, piena fa- coltà di verificare la propria convenienza alla stipulazio- ne e di richiedere tutto quanto ritengano opportuno in relazione al contenuto delle reciproche, future obbliga- zioni, con conseguente libertà, per ciascuna di esse, di re- cedere dalle trattative indipendentemente dalla esisten- za di un giustificato motivo, con il solo limite del rispet- to del principio di buona fede e correttezza, da intender- si, tra l’altro, come dovere di informazione della contro- parte circa la reale possibilità di conclusione del contrat- to, senza omettere circostanze significative rispetto all’e- conomia del contratto medesimo (13). Tuttavia, gli ob- blighi di informazione, come su accennato, non sono circoscritti alla sola fase della stipula del contratto, ma si estendono anche per tutta la durata del rapporto, aven- do l’intermediario l’obbligo preciso di aggiornare il «pro- filo informativo del cliente». Orbene, il più delle volte, gli intermediari finanziari ritengono di ottemperare al- l’obbligo di informazione attraverso la consegna del sem- plice «prospetto informativo». Invero, l’effettiva valenza informativa del prospetto appare del tutto limitata nella pratica, considerato che la consegna del documento vie- ne il più delle volte percepita dall’intermediario come un «adempimento formale», mentre il cliente allo stesso non presta attenta lettura (14). È fondamentale, pertan- to, che tra l’investitore ed il cliente si instauri un rappor-
di gestione dei patrimoni, mediante operazioni aventi ad
oggetto negoziazioni di valori mobiliari, come un’attività di intermediazione mobiliare.
L’intermediario deve operare nel rispetto degli ob- blighi di informazione ex art. 21 TUF, meglio specificati nell’art. 28, primo comma, lett. a) Reg. Consob n. 11522/98 che stabilisce che «gli intermediari finanziari devono chiedere al cliente le informazioni necessarie circa la sua esperienza in materia, circa la sua propensio- ne al rischio, la sua situazione patrimoniale e gli obietti- vi di investimento». All’atto della stipula del contratto di investimento, pertanto, si rende necessario che l’inve- stitore fornisca al cliente una serie di informazioni in merito al prodotto che è oggetto del contratto. Il consu- matore deve essere reso edotto circa particolari aspetti della prestazione che sarà eseguita in suo favore, ovvero in ordine alla convenienza economica dell’affare (11). Gli obblighi di informazione rientrano nel dovere gene- rale di buona fede nelle trattative e nella esecuzione del contratto che gravano sui contraenti nella fase prece- dente la stipula e durante il corso del rapporto contrat- tuale. La violazione di tali obblighi, pertanto, potrebbe portare esclusivamente ad una resonsabilità precontrat-
Note:
(7) Xxxxxxx, I valori mobiliari, Milano 1993, 264.
(8) Si tratta del c.d. offering circular, redatto secondo prassi internazio- nale.
(9) In verità, al mandato si continua ancora a far riferimento, almeno per colmare le lacune che presenta la attuale disciplina del contratto di ge- stione individuale dei portafogli.
(10) Xxxx - Xxxxxxxxxxx, Commentario al testo unico delle disposizioni in ma- teria di intermediazione finanziaria, Padova, 1998, art. 24, 275. In particola- re laddove si evidenzia che la gestione cui si riferisce l’art. 24 TUF corri- sponde alla gestione di patrimoni mediante operazioni aventi ad oggetto valori mobiliari già disciplinata dalla legge sulle s.i.m., come attesta l’art. 60, quarto comma, D.Lgs. n. 415/96.
(11) Ritiene tali obblighi espressione della regola di correttezza (in fun- zione integrativa) di Majo, La correttezza nell’attività di intermediazione mo- biliare, BBTC, 1993, I, 293.
(12) Xxxxxxxxxx, Nullità dei contratti di acquisto di «bond argentini», in Dir. prat. soc., 2005, 19, 85, nota a Trib. Mantova, sez. II, 18 marzo 2004.
(13) Cass., sez. II, 29 maggio 1998, n. 5297, in Mass. 1998.
(14) Annunziata, La disciplina del mercato mobiliare, Torino, I ed., 2001, 107, e specialmente nella parte in cui si afferma che l’intermediario, al di là della semplice consegna dell’asettico documento informatico, deve as- sicurare al cliente la propria assistenza e la propria guida nella scelta del- le operazioni da compiere.
to di costante informazione, così da superare le notizie
«sommarie» ed i profili piuttosto generici che vengono raccolti all’atto della stipula del contratto (15). L’inter- mediario finanziario deve evidenziare la sconvenienza economica dell’operazione, informando preventiva- mente il mandante del rischio negativo dell’operazione e potrà procedere alla esecuzione della stessa nel solo caso in cui il mandante lo autorizzi attraverso un ordine o una richiesta (16).
Diverso dal contratto di investimento è il con- tratto di deposito ed amministrazione titoli. Siffatto ac- cordo non implica un mandato gestorio per l’investi- mento eventualmente conferito dal cliente all’interme- diario il quale dovrebbe limitarsi esclusivamente alla amministrazione in senso stretto degli strumenti finan- ziari che il cliente decide di negoziare. Alcuna discrezio- nalità dell’intermediario, pertanto, potrebbe ravvisarsi nell’investimento.
La giurisprudenza si è pronunciata sul contratto di deposito ed amministrazione titoli soprattutto in ordine alla titolarità del rapporto, stabilendo che detto contrat- to non presuppone necessariamente la proprietà, ma so- lo la disponibilità dei titoli stessi, con la conseguenza che la contitolarità del contratto non comporta necessaria- mente la dimostrazione della comproprietà dei titoli da parte dei contitolari, comproprietà che deve essere de- sunta da ulteriori elementi (17).
Con il contratto di deposito a custodia ed ammini- strazione titoli la banca, con un contratto di deposito re- golare, assume a custodia i titoli o - nel caso - gli stru- menti finanziari obbligandosi a restituirli in individuo ai clienti. In particolare, con il contratto di deposito in am- ministrazione la banca avrà l’obbligo di curare l’esercizio dei diritti inerenti i titoli (18). La giurisprudenza ha chiarito che si ha gestione patrimoniale ove siano pre- senti gli elementi del mandato e dello svolgimento su base discrezionale ed individualizzata; ove difettino tali elementi, si è al di fuori della gestione patrimoniale, rientrandosi nell’area, consentita ai promotori finanzia- ri, della consulenza ed assistenza nelle attività decisiona- li del cliente (19).
La natura del contratto di deposito titoli in ammi- nistrazione dovrebbe escludere la responsabilità dell’in- termediario in tutti quei casi in cui il cliente operando in perfetta autonomia e, quindi, senza che vi sia stata alcu- na consulenza da parte dell’intermediario, abbia deciso di investire operando negoziazioni di strumenti finanzia- ri ad alto rischio o dannosi. Sennonché, l’orientamento che di recente si va formando presso le corti di merito sembra essere quello di richiedere all’intermediario un obbligo di protezione del cliente anche nelle fattispecie contrattuali nelle quali non si ravvisano i caratteri pro- pri del mandato gestorio, sempre che l’oggetto del con- tratto sia rappresentato da strumenti finanziari. A siffat- ta conclusione si giunge prescindendo dalla qualificazio- ne dell’accordo intercorso tra il cliente e l’investitore e focalizzando l’attenzione sulla natura di norme imperati-
ve che appartiene ormai al TUF e ai regolamenti relati- vi (20).
Ne deriva che indipendentemente dalla possibilità di individuare un contratto di gestione patrimoniale o di deposito ed amministrazione titoli, l’intermediario, nel- l’esercizio della sua attività, deve osservare quanto dispo- sto imperativamente dallo statuto dell’imprenditore finan- ziario. Tanto consente di affermare che anche quando la discrezionalità dell’intermediario sarebbe esclusa dalla natura tipica del contratto di investimento intercorso con il cliente, egli è tenuto pur sempre ad operare nel ri- spetto del principio del know your customer rule che ope- ra non solo nella fase di stipula del contratto, ma anche durante l’esecuzione dello stesso, richiedendo che l’in- termediario ottemperi al dovere di consulenza orientato al dovere di protezione del cliente. In particolare, anche se in una fattispecie differente, la giurisprudenza ha espressamente affermato che la banca ha un espresso do- vere di protezione cui è tenuta nei confronti del proprio cliente (21).
La decisione in commento consente, per quanto esposto, di affermare che l’obbligo per l’intermediario fi- nanziario di richiedere ed aggiornare costantemente il profilo di propensione all’investimento del cliente sussi- ste anche quando il rapporto che intercorre tra i due non si qualifichi espressamente contratto di gestione patri- moniale, bensì consista in un contratto di deposito ed amministrazione titoli di tipo statico. Anche in tal caso, infatti, l’intermediario dovrà assumere informazioni fi-
Note:
(15) Xxxxxxxxxx, Conformità agli interessi dei clienti negli investimenti mobi- liari e statuto comportamentale degli intermediari, in Dir. ed econ. ass., 2001, 4, 931 e particolarmente nella parte in cui si afferma che «il sistema sof- fre di una visione assolutamente irrealistica dei concreti assetti dei rap- porti tra cliente ed intermediario, nel momento in cui si basa, evidente- mente, sull’assunto che il cliente rilasci la scheda alla struttura dell’inter- mediario incaricata di porre in essere l’operazione di investimento o co- munque ad una struttura ad essa contigua, con la conseguenza che le informazioni dovrebbero essere acquisite da chi ha la responsabilità, poi, dell’investimento, valutandole proprio con il cliente, mentre, di conver- so, la realtà percepita, sia pure implicitamente, anche dall’ordinamento, nel momento in cui correttamente include la distribuzione nell’interme- diazione (art. 30 D.Lgs. n. 58/98) si basa sulla circostanza che il rapporto con il cliente è caratterizzato in senso commerciale ben distinto da quel- lo, pur tipico di intermediazione, relativo all’espletamento vero e proprio dell’investimento: in tale ottica il rapporto fiduciario è tra il cliente e, chi non è abilitato ad espletare l’investimento, ma chi lo è a procurare l’affa- re e ad assistere il cliente poi».
(16) Gaeta, Responsabilità oggettiva degli intermediari finanziari e validità dei contratti di investimento, in questa Rivista, 2005, 6, 589-591.
(17) Xxxx, sez. I, 22 settembre 2000, n. 12552, in Giust. civ., 2001, I, 393.
(18) Xxxxxxxxxxx, Deposito di titoli a custodia o in amministrazione, in Dige- sto delle discipline privatistiche, sez. comm., IV, 264 e ss.
(19) Cass., sez. I, 2 luglio 2004, n. 12126, in Mass. Giur. it., 2004 ed in
CED Cassazione, 2004.
(20) Xxxxxxx, Il dovere di consulenza al cliente nei servizi di investimento e l’e- stensione del modello al credito ai consumatori, in questa Rivista, 2005, 1, 13, nota a Trib. di Venezia 22 novembre 2004, n. 2654.
(21) Trib. Roma 26 maggio 1995, in Banca, borsa, e tit. cred., 1997, II, 71.
nanziarie in merito al cliente e dovrà valutare se nel mo- mento in cui vengono gli impartiti meri ordini di nego- ziazione di strumenti finanziari questi sono adeguati o no al profilo dell’investitore, segnalando l’eventuale inade- guatezza.
In definitiva, la decisione del Tribunale di Napoli induce a ritenere che il dovere di consulenza che grava sull’intermediario al momento della stipula di un con- tratto di gestione patrimoniale e durante l’esecuzione dello stesso rappresenta un principio generale cui deve ispirarsi l’attività di intermediazione finanziaria, in quanto anche in fattispecie contrattuali che potrebbero avere carattere assolutamente statico - come, per l’ap- punto, sarebbe l’amministrazione titoli che esclude la di- screzionalità dell’intermediario in ordine alle scelte di investimento finanziario che sono rimesse al cliente - l’intermediario è obbligato a proteggere il cliente da in- vestimenti rischiosi attraverso la consulenza.
La risoluzione del contratto per inadempimento
La violazione della normativa predisposta dal D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 e dai regolamenti di attuazione, che è stata posta a tutela di interessi generali, quindi pub- blici, comporta la nullità di quegli atti negoziali che siano conclusi in contrasto con essa. Tuttavia, allorquando la violazione inerisce il contratto ormai perfezionatosi, con- figurandosi l’inadempimento quale vizio funzionale, in
quanto il difetto riguarda le prestazioni che dovevano es- sere rese sulla base del negozio concluso, il contratto di investimento non può essere dichiarato nullo ai sensi del- l’art. 1418 Codice civile, bensì può essere risolto per ina- dempimento ex art. 1453 Codice civile.
Con la decisione in commento il Tribunale di Na- poli condanna la banca a risarcire al cliente il danno ar- recatogli per non avergli segnalato l’inadeguatezza del- l’operazione e, pertanto, dichiara la risoluzione del con- tratto di deposito ed amministrazione titoli per inadem- pimento. La Banca, infatti, tenuto conto delle caratteri- stiche del cliente avrebbe dovuto segnalare l’inadegua- tezza e la rischiosità dell’investimento nel rispetto del di- sposto dell’art. 29 del regolamento Consob n. 11522/98. Xxxxxx, nel caso non viene comminata la nullità del contratto, bensì il rimedio di tutela offerto è la risoluzio- ne per inadempimento atteso che la violazione dello sta- tuto dell’imprenditore finanziario si verifica nel corso del rapporto ed in riferimento alla esecuzione dello stesso.
Da ultimo, qualche considerazione merita il com- portamento assunto dalla banca nella esecuzione del contratto anche sotto il profilo della buona fede. Infatti, solo successivamente all’esecuzione dell’ordine di acqui- sto di strumenti finanziari derivati la banca intendeva sottoporre al cliente le clausole integrative del rapporto che, al più avrebbero attenuato e giammai escluso la re- sponsabilità dell’intermediario.
Inadempimento
Ritenzione della caparra confirmatoria e domanda di risarcimento danni secondo le regole generali
Cassazione Civile, sez. II - Sentenza del 4 marzo 2005, n. 4777
Pres. Pontorieri - Rel. Xxxxxxxxx - P.M. Destro (Conf.) - Ric. R. - Res. E. S.p.a.
Contratti in genere - Caparra confirmatoria - Azione per la restituzione della caparra - Parte non inadempiente - Accertamento del diritto alla ritenzione della caparra - Eccezione di inadempimento dell’attore - Sufficienza - Espressa richiesta o damanda di risarcimento danni - Necessità - Esclusione
In caso di pattuizione di caparra confirmatoria, la parte non adempiente, convenuta in giudizio per la restituzione della caparra, può limitarsi, per resistere alla domanda ed ottenere la declaratoria di le- gittimità della ritenzione della caparra, ad eccepire l’inadempimento dell’altra parte, senza necessità di richiedere espressamente di ritenerla o di proporre in via riconvenzionale domanda di risarcimento danni, in quanto quest’ultima domanda si collega ad una situazione giuridica autonoma ed alternati- va rispetto a quella della ritenzione della caparra.
C
Svolgimento del processo
on citazione ritualmente notificata, R. D. con- veniva in giudizio davanti al tribunale di Bolo- gna la S.p.a. E. e, premesso che con contratto del
18 luglio 1989 aveva acquistato dalla convenuta un’au- tovettura «Lamborghini Diablo», versando contestual- mente, a titolo di caparra, la somma di Lire 30.000.000, e che la venditrice aveva garantito la pronta consegna della prima autovettura che le sarebbe stata posta a di- sposizione dalla casa costruttrice; premesso, altresì, che con lettere del 7 febbraio 1990 e 12 febbraio 0000 xx xxxx- xx venditrice gli aveva dato conferma che l’autovettura era stata messa in produzione, per cui sarebbe stata con- segnata nel gennaio 1991, e che, nonostante egli avesse versato, sempre a titolo di caparra, un’ulteriore somma di Lire 20.000.000, alla data del 6 luglio 1992 la convenu- ta non aveva ancora provveduto alla consegna del vei- colo; tutto ciò premesso, chiedeva, essendo la E. ina- dempiente all’obbligazione assunta, la condanna della stessa la pagamento del doppio della caparra versata o, quanto meno, della somma di Lire 50.000.000.
Si costituiva la convenuta, che, nel contestare la fonda- tezza della domanda, di cui chiedeva pertanto il rigetto, replicava che il R., benché più volte invitato dalla ditta produttrice a ritirare l’autovettura, si era sempre rifiutato di provvedervi; ribadiva comunque l’offerta di consegna dell’autoveicolo.
All’esito dell’espletata istruttoria, l’adito tribunale, con
sentenza del 24 marzo/15 settembre 1998, rigettava la domanda e condannava l’attore alle spese.
Proposto appello dal soccombente, la corte di appello di Bologna, con sentenza del 18 novembre 2000, lo ha ri- gettato, condannando l’appellante alle spese del grado, con la motivazione che qui di seguito si riassume.
Contrariamente a quanto pretenderebbe l’appellante, dalla missiva del 7 maggio 1990, a lui inviata dalla E., non si ricava affatto che fu fissato un termine essenzia- le per la consegna dell’autovettura e tanto meno che gli fu promessa la pronta consegna di questa, essendo chia- ro, invece, che la data del 31 maggio 1990 xxx indicata non è riferita alla consegna del mezzo, ma alla conse- gna dei relativi ordini alla casa costruttrice; con la con- seguenza che, decorso tale termine, la consegna del- l’autovettura sarebbe andata oltre l’anno 1991, o, addi- rittura, sarebbe stata risolta la prenotazione, nel caso che nel predetto termine non fosse pervenuta l’integra- zione della caparra.
Sta di fatto che dalla deposizione del teste R. risulta, in assonanza proprio con la missiva sopra menzionata del 7 maggio 1990, che l’autovettura fu effettivamente posta a disposizione del R. alla fine del 1991, per cui, in definiti- va, non potendo egli ignorare che il suo ordine avrebbe avuto esecuzione (con la consegna dell’auto) non prima dell’anno 1991, nessun inadempimento della E. è ravvi- sabile, e, quindi, non merita di essere accolta, secondo la corte, la domanda di risoluzione del contratto e di resti-
tuzione del doppio della caparra o, quanto meno, della somma di Lire 50.000.000.
Ricorre per la cassazione della sentenza D. R. in forza di tre motivi.
Resiste con controricorso la E. S.p.a., in persona del- l’amministratore unico.
D
Motivi della decisione
enuncia il ricorrente
1) «Omessa, insufficiente e contraddittoria mo- tivazione della sentenza impugnata circa la pre-
sunta inadempienza contrattuale del sig. R.», con riferi- mento all’errato giudizio della corte circa la non essen- zialità del termine di consegna dell’autovettura o quanto meno di offerta formale di consegna al promittente ac- quirente, che, secondo il ricorrente, va collocato tempo- ralmente, sulla base della corrispondenza in atti e delle assunte testimonianze, «al più tardi, a fine 1990, inizi 1991».
La censura, prima che infondata, è inammissibile a cau- sa della sua genericità.
Posto che nel promuovere il presente giudizio l’attore ebbe a chiedere, come ha ricordato nel ricorso, l’ac- certamento e la declaratoria di inadempimento della convenuta con riferimento al contratto di vendita da- tato 18 luglio 1989 e la condanna della stessa alla re- stituzione del doppio della caparra, e che il tribunale, con la decisione confermata poi dalla corte di appello, ha escluso l’inadempimento della E., non essendo sta- to previsto contrattualmente alcun termine essenziale per la consegna dell’autovettura, il ricorrente, nell’im- pugnare la statuizione della corte, ha contestato gene- ricamente, con il motivo in esame, la valutazione ne- gativa che il giudice ha fatto circa la pretesa essenzia- lità del termine di consegna dell’autovettura, senza specificare, peraltro, non solo, quale avrebbe dovuto essere, a suo dire, tale termine, ma neppure in che co- sa sia consistito precisamente l’inadempimento della E.. E ciò a prescindere dal fatto che il denunciato vizio di motivazione viene riferito alla «presunta inadem- pienza contrattuale del Sig. R.», che non risulta de- dotta in causa e sulla quale, pertanto, il giudice non si è pronunciato.
2) «Omessa decisione e motivazione, sulla richiesta di restituzione della caparra confirmatoria».
Anche tale motivo è infondato, risultando che la corte si è espressamente pronunciata in merito a tale richiesta, ritenendola non meritevole di accoglimento per le ra- gioni chiaramente spiegate in sentenza.
3) «Omessa decisione e motivazione della corte sul motivo di appello relativo alla pronuncia ultra petitum operata nella sentenza di primo grado», con riferimen- to alla «ritenzione della caparra» da parte della E., no- nostante che questa non avesse mai chiesto che il tri- bunale si pronunciasse sulla sua «legittimità» ad inca- merare la caparra confirmatoria di cui trattasi, pari a li- re 50.000.000.
Non sussiste il vizio lamentato dal ricorrente con il terzo ed ultimo motivo.
Secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, nei contratti di scambio accompagnati da dazione di caparra confirmatoria, la parte non inadempiente, con- venuta in giudizio per la restituzione della caparra, può limitarsi, per resistere alla domanda, ad eccepire l’ina- dempimento dell’altra parte, senza necessità di propor- re, in via riconvenzionale, domanda di risarcimento dei danni, in quanto quest’ultima domanda si collega ad una situazione giuridica autonoma ed alternativa ri- spetto a quella della ritenzione della caparra (Cass. n. 11684/93).
Alla luce di tale principio, non ha errato, pertanto, la corte che, nell’escludere il dedotto inadempimento del- la E. e nel ritenere, viceversa, correlativamente e per im- plicito inadempiente il R., ha confermato la decisione del tribunale circa la legittimità della ritenzione della ca- parra da parte della prima, in conformità all’art. 1385, se- condo comma, Codice civile, non essendo richiesto che la parte adempiente, la quale ha ricevuto la caparra, co- me nella presente fattispecie, xxxxxxx espressamente di ritenere la stessa.
Per le ragioni che precedono, il ricorso deve essere ri- gettato, con conseguente condanna del ricorrente alle spese.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in euro 1100,00, di cui euro 1000,00, per onorari, oltre accessori di legge.
IL COMMENTO
di Xxxxxx Xxxxxxxxxx
La Suprema Corte torna ad esprimersi sul rapporto in- tercorrente tra il diritto di ritenzione della caparra confirmatoria e il diritto al risarcimento dei danni se- condo le regole generali, prospettato dall’art. 1385 Codice civile in ipotesi di inadempimento contrattua- le. La facoltà di scelta rimessa in capo alla parte non inadempiente, tra i due rimedi, ha portato la Corte a dettare principi di diritto di particolare interesse sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello proces- suale.
Il caso
Il caso sottoposto all’attenzione della Corte di Cas- sazione riguarda la sorte della caparra confirmatoria ver- sata in relazione ad un contratto di compravendita di una lussuosa autovettura, rimasto inadempiuto.
La parte acquirente, che aveva versato la somma di Lire 50.000.000- a titolo di caparra confirmatoria, citava davanti al Tribunale di Bologna la società venditrice as- serendo che la stessa non aveva provveduto a consegna- re, nei termini previsti, l’autovettura di cui al contratto tra loro stipulato in data 18 luglio 1989. Prospettando l’i- nadempimento della convenuta, il compratore chiedeva all’Autorità Giudiziaria la condanna della prima al paga- mento del doppio della caparra o, quanto meno, dell’im- porto di Lire 50.000.000.
La società venditrice, costituitasi in giudizio, conte- stava le argomentazioni di parte attorea e chiedeva il ri- getto della domanda da questa avanzata eccependo,
- per omessa decisione e motivazione della Corte sul motivo di appello relativo alla pronuncia ultra petitum operata nella sentenza di primo grado, con riferimento alla ritenzione della caparra da parte della venditrice.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso ritenendo la prima censura inammissibile, poiché generica e la se- conda infondata; quanto alla terza, ha statuito che nei contratti di scambio accompagnati da dazione di caparra confirmatoria, il convenuto per la restituzione della stes- sa può limitarsi, per resistere alla domanda ed ottenere la declaratoria di legittimità di ritenzione della caparra, ad eccepire l’inadempimento dell’altra parte, senza neces- sità di chiedere espressamente di ritenerla o di proporre domanda riconvenzionale di risarcimento danni.
Struttura e funzione della caparra confirmatoria
È prassi diffusa che la stipula dei contratti di scam- bio sia accompagnata dalla previsione di una caparra confirmatoria. Quest’ultima si configura come un patto autonomo, ma accessorio rispetto al contratto principa- le (1), con il quale una parte (tradens) dà all’altra (acci- piens) una somma di denaro (2) o altre cose fungibili. Es- so ha natura di contratto reale (3), con effetti reali. La dottrina maggioritaria ritiene, infatti, che la dazione del- la cosa comporti il trasferimento della proprietà della stessa in capo all’accipiens (4).
La funzione della caparra confirmatoria è piutto- sto complessa e varia a seconda delle vicende del con- tratto principale: essa può fungere da anticipo sul do- vuto, presenta sicuramente un profilo risarcitorio e di garanzia, marginalmente riveste anche una funzione
contestualmente, l’inadempimento contrattuale dell’ac-
quirente non avendo, questo, provveduto al ritiro del- l’autovettura, regolarmente messa a disposizione per la consegna.
L’adito Tribunale rigettava la domanda attorea e di- chiarava la legittimità della ritenzione della caparra in favore della venditrice.
Proposto appello dal soccombente avverso la sen- tenza di primo grado, la Corte ribadiva che non risultava pattuito alcun termine essenziale per l’adempimento della venditrice e che questa aveva regolarmente offerto la consegna dell’autoveicolo, che l’acquirente non aveva ritirato. Viceversa e per implicito, riconosceva l’inadem- pimento di quest’ultimo.
Il soccombente impugnava la decisione e presenta- va ricorso per Cassazione sulla base di tre motivi:
- per omessa, insufficiente e contraddittoria motiva- zione della sentenza circa l’inadempimento dell’acqui- rente, con riferimento all’errato giudizio sulla non essen- zialità del termine di consegna dell’autoveicolo;
- per omessa decisione e motivazione sulla richiesta di restituzione della caparra;
Note:
(1) Il patto che prevede la caparra pur avendo una sua individualità, non può venire ad esistenza senza la preventiva o contestuale conclusione di un contratto, di cui seguirà le vicende, cfr. X. Xx Xxxx, voce Caparra, in Dig., disc. priv., sez. civ., Torino, 1988, 242.
(2) È importante sottolineare che quando la caparra ha ad oggetto una somma di denaro, l’obbligazione di restituzione costituisce un debito di va- luta e come tale è soggetta ai principi in tema di obbligazioni pecuniarie.
(3) È questa, ormai, l’opinione univoca e costante della dottrina e della giurisprudenza. Cfr. X. Xx Xxxx, Le clausole penali e la caparra confirmato- ria, in Tratt. dir. priv., diretto da X. Xxxxxxxx, X, Torino, 2004, 408 ss.
(4) In tal senso cfr. A Marini, voce Caparra, I) dir. civ, in Enc. giur., Ro- ma, 1988, 1 ss. L’opinione che effetto immediato della caparra sia il tra- sferimento della proprietà della cosa, non è univoca. In senso contrario cfr. V.M. Xxxxxxxxx, voce Caparra, dir. civ., in Enc. dir., VI, Milano 1960, 192 ss. il quale ritiene che la caparra non sia un contratto ad effetti reali e che il trasferimento della proprietà, ancorché compatibile, deve essere espressamente o tacitamente convenuto. In mancanza, la traditio della co- sa comporta esclusivamente il passaggio del potere di fatto di disposizione della stessa in capo all’accipiens.
(5) Fin dalla formulazione dell’art. 1385 Codice civile, che disciplina l’i- stituto della caparra confirmatoria, si è molto dibattuto sulla funzione del- la stessa. La dottrina meno recente aveva posto l’accento essenzialmente
(segue)
probatoria (5). Nell’insieme è certo che la previsione della caparra confirmatoria determina il rafforzamento dell’obbligazione principale (6). Nei contratti a presta- zioni corrispettive ricorrono interessi comuni e recipro- ci che meritano tutela. La caparra, tramite un sistema di sanzioni, garantisce al creditore della prestazione principale la possibilità di conseguire un vantaggio economico anche in assenza di danni risarcibili, ovve- ro una più spedita liquidazione degli stessi, sempre che non ritenga di pretendere la liquidazione del danno se- condo le regole generali.
La complessità della funzione della caparra deriva dalla disciplina dettata per l’istituto dall’art. 1385 Codi- ce civile; disciplina che, ancora in molti, ritengono esse- re un aspetto del diritto dei contratti piuttosto oscuro (7). Ed infatti, nonostante la frequenza con la quale si ri- corre alla caparra, l’istituto non ha trovato una partico- lare elaborazione giurisprudenziale.
La norma prevede quanto meno un duplice piano di sviluppo delle vicende relative alla caparra:
1) se le parti dell’obbligazione principale sono adempienti, la caparra deve essere restituita o imputata alla prestazione dovuta (art. 1385, primo comma);
2) in caso di inadempimento (8) di una delle parti occorre operare ulteriori sottodistinzioni:
- se inadempiente è colui che ha dato la caparra, l’accipiens può recedere dal contratto e trattenere la ca- parra stessa (art. 1385, secondo xxxxx);
- se inadempiente è colui che l’ha ricevuta, il tradens può anch’egli recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra versata (art. 1385, secondo comma) (9);
- la parte inadempiente (qualunque essa sia) può, altresì, nel proprio interesse, domandare l’esecuzione o la risoluzione del contratto principale ed in tal caso il risar- cimento del danno che potrebbe conseguirne è regolato dalle norme generali (art. 1385, terzo comma). Il che comporta, tra l’altro, che di esso dovrà essere data giudi- zialmente prova, con onere a carico del richiedente, sul- l’an e sul quantum.
La norma pone la parte non inadempiente di fron- te alla scelta tra l’utilizzo degli ordinari mezzi volti ad ot- tenere l’esecuzione o la risoluzione del contratto princi- pale con risarcimento del danno secondo le regole gene- rali e il recesso dal contratto con diritto per l’accipiens di tenere la caparra e per il tradens di ottenerne il doppio. In tal caso non dovrà essere data alcuna prova del sofferto danno poiché la sua liquidazione coincide con la misura della caparra o del doppio di essa (10).
Il diritto di ritenzione della caparra: risvolti processuali
La sentenza in commento si occupa della proble- matica relativa al diritto di ritenzione della caparra da parte del contraente (accipiens) non inadempiente, con- venuto in giudizio per il pagamento del doppio (o, nel caso di specie, quanto meno per la restituzione) della ca- parra stessa. La Corte nell’affrontare la questione applica
e contemporaneamente detta, con una sintesi estrema, diversi principi di diritto.
Nella pronuncia trova applicazione concreta ed im- mediata il disposto dell’art. 1385, secondo comma. La Corte valuta, poi, il rapporto che intercorre tra il diritto ivi contemplato e quello al risarcimento del danno «re- golato dalle norme generali» di cui al terzo comma del medesimo articolo. Non solo, essa proietta la differenza di disciplina tra i due rimedi all’inadempimento contrat- tuale dal diritto sostanziale a quello processuale, non esplicitando né motivando adeguatamente la soluzione - pur condivisibile - a cui tale passaggio conduce.
Statuisce la Suprema Corte che «nei contratti di scambio accompagnati da dazione di caparra confirma- toria, la parte non inadempiente convenuta in giudizio
Note:
(segue nota 5)
sulla funzione probatoria che essa assume circa l’esistenza del contratto principale. Questa funzione, seppur presente, ha nei recenti sviluppi una rilevanza marginale. Viene attualmente sottolineata soprattutto la fun- zione di liquidazione convenzionale del danno che la caparra riveste nel- l’ipotesi di esercizio del diritto di recesso e la funzione di garanzia che es- sa viene ad avere nell’ipotesi in cui si opti per la richiesta di risoluzione del contratto (o esecuzione del medesimo) con conseguente risarcimento del danno nelle forme ordinarie. In dottrina, cfr. X. Xx Xxxx, Il contratto, in Trattato di dir. civ., diretto da X. Xxxxx, II, Torino, 1993, 172. «In caso di inadempimento, il contraente non inadempiente può scegliere tra più so- luzioni. Può recedere dal contratto, e trattenere la caparra (o esigere il doppio della caparra, se è lui ad averla data): in questo caso la caparra ha funzione di risarcimento (art. 1385, secondo comma). Può invece chie- dere l’esecuzione del contratto o la risoluzione: in questo caso la caparra (se è stata data dal contraente inadempiente) ha funzione di garanzia, perché può essere ritenuta fino alla liquidazione dei danni, che è regolata dalle norme generali (art. 1385, terzo comma). Sulla caparra confirmato- ria come liquidazione convenzionale del danno, tra le pronunce più re- centi cfr. Cass., sez. III, 24 gennaio 2002, n. 849, in questa Rivista, 2002, 892 ss.; Cass. 19 ottobre 2000, n. 13828, in questa Rivista, 2001, 652. Per una analisi completa delle diverse funzioni attribuite alla caparra, cfr. A Marini, voce Caparra, cit., 1 ss., nonché V.M. Xxxxxxxxx, voce Caparra, cit., 201.
(6) In tal senso M. X. Xxxxxxxxx, xxxx Xxxxxxx, xxx., 000.
(7) In tal senso anche I. Xxxxxxx, Cumulatività degli effetti di risoluzione e recesso nella caparra confirmatoria, in Giur. civ., 1995, I, 951.
(8) L’inadempimento a cui fa riferimento la norma deve avere le caratte- ristiche dell’inadempimento che legittima la richiesta di risoluzione del contratto, sia sotto il profilo dell’imputabilità che sotto quello della gra- vità. Cfr. X. Xxxxxxx, Diritto civile e commerciale, II, 1, IV ed., Padova, 2004, 585: il diritto di recesso di cui al secondo comma dell’art. 1385 Codice ci- vile «è una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, che presuppo- ne pur sempre l’inadempimento della controparte, avente i medesimi ca- ratteri dell’inadempimento che giustifica la risoluzione giudiziale».
(9) Il secondo comma dell’art. 1385 Codice civile, prevede il diritto di re- cesso in alternativa rispetto alla risoluzione del contratto di cui al terzo comma della medesima norma. Si è discusso, senza peraltro pervenire a soluzioni univoche, sulla natura del recesso. Appare condivisibile, tutta- via e come innanzi sostenuto, ritenere che il recesso di cui all’art. 1385 Codice civile è «una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto». In tal senso X. Xxxxxxx, Diritto civile e commerciale, cit., 509.
(10) Si tratta di due diverse modalità per ottenere il risarcimento del danno: l’una - spedita - che porta ad attenere il danno nella misura con- venzionalmente stabilita con la caparra, l’altra che consente la liquida- zione del danno nella sua effettività, pur richiedendo maggiori oneri in capo al titolare del diritto.
per la restituzione della caparra» può resistere alla do- manda semplicemente eccependo l’inadempimento del- l’altra parte, senza necessità di chiedere espressamente di ritenerla o di proporre in via riconvenzionale domanda di risarcimento danni (11). «Quest’ultima domanda si collega ad una situazione giuridica autonoma ed alterna- tiva rispetto a quella della ritenzione della caparra».
Il medesimo principio era stato enunciato anche in una precedente pronuncia della Corte, risalente al 1993 (12), a cui la sentenza in commento fa espresso riferi- mento.
Tale posizione comporta, come detto, che, pur in mancanza di una specifica domanda di risarcimento danni avanzata in via riconvenzionale dal convenuto ac- cipiens (non inadempiente), sorge il suo diritto a ritene- re la caparra purché lo stesso eccepisca l’inadempimento dell’altra parte.
L’apparente automaticità con la quale la Corte col- lega all’inadempimento del tradens lo jus retinendi della caparra confirmatoria in capo a colui che l’ha ricevuta vede sotteso l’esercizio di una facoltà pacificamente rico- nosciuta, in dottrina e in giurisprudenza, in capo al non inadempiente. Si è gia avuto modo di dire, infatti, che il meccanismo previsto dall’art. 1385 Codice civile, secon- do e terzo comma, pone la parte non inadempiente di fronte alla scelta tra esercizio del recesso, con conse- guente ritenzione della caparra, e richiesta di risoluzione (o esecuzione) del contratto con diritto al risarcimento del danno nelle forme e nei modi ordinari (13). Certo è che questa facoltà necessita di un esercizio effettivo da parte del titolare.
Sul piano processuale se ad agire in giudizio fosse la parte non inadempiente, essa dovrebbe ovviamente qualificare in un senso o nell’altro la propria domanda. Nel caso di specie, però, la parte risultata non inadem- piente è quella convenuta in giudizio, alla quale viene ri- volta domanda ex art. 1385, secondo comma, Codice ci- vile (14) di pagamento del doppio o di restituzione della caparra versata.
L’azione è stata inoltrata dall’attore seguendo il bi- nario del recesso con conseguente possibilità di esigere il doppio della caparra dall’accipiens. Quest’ultimo resiste alla domanda sul presupposto del proprio adempimento ed eccependo l’inadempimento della controparte (15).
Nella condotta processuale del convenuto è da rav- visarsi l’esercizio della facoltà di cui alla disciplina codi- cistica dettata per la caparra. Ed infatti, ribadendosi che la domanda dell’attore è indirizzata nel senso della liqui- dazione convenzionale del danno tramite i meccanismi di cui al secondo comma dell’art. 1385 Codice civile, va da sé che, nel momento in cui l’accipiens - convenuto - resiste e chiede che venga disattesa la domanda di resti- tuzione della caparra, sceglie di ritenerla, (16) così rima- nendo nei limiti della domanda principale.
Non va, peraltro, dimenticato che alla pattuizione della caparra è correlato l’effetto reale che rende l’acci- piens proprietario della somma a tale titolo ricevuta. Il
Tribunale di prima istanza, una volta accertato l’inadem- pimento dell’attore, rigettando la domanda di pagamen- to del doppio (o di restituzione) della caparra da esso proposta, non poteva che statuire anche la legittimità della ritenzione della somma in capo al convenuto, non avendo quest’ultimo proposto una diversa domanda ri- convenzionale idonea a spostare il petitum su altra dispo- sizione normativa (si intende quella di cui al terzo com- ma dell’art. 1385 Codice civile) (17) e non essendo ne-
Note:
(11) Cfr. Cass., sez. III, 25 novembre 1993, n. 11684, in Giur. it., 1994, I, 1, 1510 e in Giust. civ., 1994, I, 674. La Corte afferma che «applicando questi principi (ovvero quelli stabiliti al secondo e terzo comma dell’art. 1385 Codice civile) alla fattispecie in esame ne discende: a) che O. T. (parte attorea) non avrebbe potuto pretendere la restituzione della capar- ra per la parte eccedente il prezzo della merce non ricevuta, in quanto si trattava del soggetto inadempiente; b) che a M.M. (parte convenuta) ba- stava eccepire l’inadempimento del O. T. per resistere alla domanda di re- stituzione della caparra che quest’ultimo aveva proposto», senza necessità di avanzare domanda riconvenzionale per il risarcimento del danno «la quale è una facoltà ulteriore, riconosciuta dal terzo comma del citato art. 385 Codice civile». In tal senso vanno anche alcune pronunce della giu- risprudenza di merito. Si veda la recente sentenza del Tribunale di Geno- va, sez. I, 16 gennaio 2004, n. 178, in Il Merito - il Sole 24 ore, 2004, 9, 37-
38. Nella massima si legge «l’azione del promittente venditore diretta a far dichiarare l’intervenuta risoluzione di diritto del contratto preliminare.., quando non sai accompagnata dall’istanza di risarcimento del danno, non è preclusiva della facoltà della parte adempiente di ritenere la caparra ai sensi dell’art. 1385 Codice civile, secondo comma».
(12) Cfr. Cass., sez. III, 25 novembre 1993, n. 11684, in Giur. it., cit., Nel- la sentenza si legge che la disposizione di cui all’art. 1385 Codice civile
«riconosce alla parte non inadempiente il diritto potestativo di recedere dal contratto e di ritenere la caparra, se l’ha ricevuta, oppure di richiede- re il doppio di questa. Agendo in questo modo la parte non inadempien- te si accontenta della caparra, con il vantaggio di non dover fornire la pro- va del danno subito dall’inadempimento dell’altra parte».
(13) Del potere di scelta e della facoltà della parte non inadempiente e del relativo esercizio si occupa G. De Nova, Il contratto, cit., 172.
(14) Tanto è dato desumere dalla sentenza in commento che, in sede di motivazione, fa riferimento a detto comma.
(15) Si tratta di una eccezione riconvenzionale volta a paralizzare gli ef- fetti della domanda principale: essa esprime una richiesta la quale, pur ri- manendo nell’ambito della difesa, amplia il tema della controversia senza tuttavia tendere ad altro fine che non sia quello della reiezione della do- manda, opponendo al diritto fatto valere dall’attore un diritto idoneo a paralizzarlo. L’eccezione riconvenzionale si distingue dalla domanda ri- convenzionale che ricorre quando il convenuto, traendo occasione dalla domanda contro di lui proposta, opponga una contro-domanda. Questa è necessaria e va proposta qualora il convenuto voglia ottenere un provve- dimento positivo a sé favorevole. Al proposito cfr. Cass., sez. II, 8 aprile 1987, n. 3443, in Arch. civ., 603.
(16) Xxxxxx implicita che, come detto, si traduce, in termini processuali, nella proposizione da parte del convenuto dell’eccezione di inadempi- mento della controparte e, quindi, nella «conclusione» che le pretese at- toree vengano disattese.
(17) In merito, occorre precisare che la causa pretendi è sicuramente la stessa nella domanda di recesso ex art. 1385 Codice civile, secondo com- ma ed in quella di risoluzione ex art. 1385 Codice civile, terzo comma, dal momento che la «ragione del domandare» coincide e si identifica con l’i- nadempimento dell’altro contraente. Non è condivisibile, invece, la tesi di chi ritiene che sia identico anche il petitum delle suddette domande. Appare evidente che le tre possibili domande azionabili ai sensi dell’art. 1385 Codice civile sono diverse e portano a richiedere provvedimenti di
(segue)
xxxxxxxx che esso espressamente chiedesse di ritenerla (18).
Sui rapporti tra ritenzione della caparra e domanda di risarcimento danni
da inadempimento
Principio di diritto di particolare interesse espresso dalla Suprema Corte è quello concernente i rapporti tra i rimedi all’inadempimento contrattuale prospettati dal secondo e terzo comma dell’art. 1385 Codice civile.
Nei contratti di scambio la previsione della caparra confirmatoria rafforza, come detto, il vincolo giuridico tra le parti: questa proietta sul contratto principale i suoi effetti determinando un maggiore consolidamento dei diritti del creditore della prestazione e garantendo un iter semplificato per il risarcimento del danno.
La caparra è, infatti, in primo luogo, una liquidazio- ne convenzionale del danno in ipotesi di inadempimen- to della prestazione oggetto del contratto a cui accede. Essa mette il contraente non inadempiente al riparo dal- la difficoltà di dimostrare l’esistenza del danno o, anche, più semplicemente può evitare allo stesso di percorrere l’ordinario iter per ottenerlo.
Tuttavia l’ulteriore tutela offerta dall’art. 1385 Co- dice civile, terzo comma, consiste proprio nel fatto che, ove la parte lo ritenga utile, fatte le dovute considerazio- ni, potrà comunque utilizzare i generali mezzi per l’ese- cuzione del contratto o per la sua risoluzione, nonché per il risarcimento dei danni connessi.
Vi è alla base una valutazione, una scelta della par- te non inadempiente che, in termini processuali, si tra- duce nella proposizione di un’azione diversa nelle due ipotesi quanto al petitum, ma non alla causa petendi (19). La Corte, al proposito, specifica che in materia di caparra confirmatoria «la domanda di risarcimento dan- ni si collega ad una situazione giuridica autonoma ed al- ternativa rispetto a quella della ritenzione della capar- ra». Con questo ribadendo un consolidato orientamen- to giurisprudenziale che va, appunto, nel senso della au- tonomia e dell’alternatività tra gli strumenti prospettati
dalla disciplina codicistica per la caparra (20).
Nulla quaestio sull’assunto che ritenzione della ca- parra e risarcimento del danno secondo le regole genera- li siano facoltà autonome. E nessun dubbio può ormai porsi con riguardo al fatto che, stabilito l’inadempimen- to di una delle parti, l’altra possa avvalersi del diritto di ritenzione della caparra o possa esigerne il doppio senza proporre domanda di risarcimento danni, evitando in tal modo di incorrere nelle difficoltà connesse all’onere pro- batorio sull’esistenza e sul quantum del danno.
È pacifico che la caparra sia una liquidazione antici- pata e convenzionale dello stesso che non necessita di alcuna dimostrazione se non quella dell’inadempimento della parte contro la quale il diritto (di ritenzione o di re- stituzione) viene fatto valere (21).
In questo senso nella sentenza si esplicita che, chiesta la restituzione della caparra, eccepito e dimostrato l’ina-
dempimento della parte istante, ne consegue il diritto di ritenzione in capo all’accipiens. Ciò non ha nulla a che ve- dere con la domanda di risarcimento danni. Si tratta di due strade diverse e non obbligate. L’accipiens ha optato per ritenere la somma ricevuta a titolo di caparra - di cui in forza della natura di patto reale con effetti reali era di- venuto proprietario - e a tal fine non doveva far altro che resistere alla domanda attorea dimostrando il proprio adempimento ed eccependo l’inadempimento di contro- parte. Nessun obbligo di avanzare domanda di risarcimen- to danni incombeva, quindi, sul convenuto in giudizio.
Altro e diverso discorso merita la posizione della Corte circa il carattere alternativo dei due rimedi pro- spettati dall’art. 1385 Codice civile. L’alternatività im- plica che scelta l’una via, risulta preclusa l’altra. Ed è questo, come detto, il prevalente orientamento giuri- sprudenziale in materia. Se si recede dal contratto e si ri- tiene la caparra (ovvero si chiede la restituzione del dop- pio della caparra versata) resta escluso che la parte non inadempiente possa, altresì, domandare anche il mag- gior danno patito (che andrebbe a integrare quella liqui- dazione convenzionalmente stabilita).
Note:
(segue nota 17)
diversa natura: in caso di recesso, si è di fronte ad una sorta di risoluzione stragiudiziale (cfr. in tal senso X. Xxxxxxx, Diritto civile e commerciale, 509) alla quale seguirà una sentenza dichiarativa; in ipotesi di risoluzione, la sentenza avrà carattere costitutivo; infine se si dovesse optare per chie- dere l’adempimento del contratto, la sentenza che ne consegue sarà di condanna. In tal senso cfr. X. Xxxxx, Rapporti tra caparra confirmatoria e integrale risarcimento del danno, in Corr. giur., 2002, 1026 (in particolare nota 22).
(18) In questo senso la Corte, nella sentenza all’esame, ha escluso la sus- sistenza del vizio di ultra petizione sostenuto dalla parte appellante co- me motivo di appello, riproposto, poi, in Cassazione. Occorre ricordare che il vizio di ultra o extra petizione ricorre quando il Giudice pronuncia oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti ovve- ro su questioni estranee all’oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello do- mandato, fermo restando che il giudice è libero non solo di individuare l’esatta natura dell’azione e di porre a base della decisione adottata con- siderazioni di diritto diverse da quelle prospettate, ma di rilevare, altre- sì, indipendentemente dall’iniziativa della parte convenuta, la mancan- za degli elementi che caratterizzano l’efficacia costitutiva o estintiva di una data pretesa, in quanto ciò attiene all’obbligo inerente all’esatta ap- plicazione della legge.
(19) Si richiamano, al riguardo, le considerazioni di cui alla nota 14.
(20) La giurisprudenza maggioritaria interpreta i rimedi di cui ai secondo e terzo comma dell’art. 1385 Codice civile come soluzioni alternative, ol- tre che autonome. Tra le pronunce più recenti cfr. Cass., sez. III, 2 gennaio 2002, n. 849, in Corr. giur., 2002, 1020 ss. In dottrina Cfr. V.M. Xxxxxxxxx, Xxxxxxx, dir. civ., cit., 200; X. Xxxxxxx, Con la scelta del meccanismo alterna- tivo cade il diritto al risarcimento ulteriore, in Il sole 24 ore-Guida al diritto, 2002, 49, 63; X. Xxxxxxxx, nota a sentenza Xxxx., sez. II, 19 ottobre 2000, n. 13828, in Giur. it., 2001, 2050.
(21) «Il diritto della parte non inadempiente di trattenere la caparra (o di pretendere dall’altra parte il pagamento del doppio della caparra versata) presuppone solo l’accertamento dell’inadempimento definitivo della pre- stazione dell’altra parte …ed è indipendente dai presupposti della risolu- zione, che sono, invece, necessari ai sensi dell’art. 1385 terzo comma, nel caso di domanda di pagamento degli ulteriori danni». Cfr. Cass. 19 feb- braio 1993, n. 2032, in Vita not., 1993, 778.
A questo proposito, se si pone attenzione alla ratio
(22) dell’istituto - interpretata, come sopra, nel senso di un manifesto favor per il contraente non inadempiente -
danno minimo risarcibile, al di sotto del quale non è da- to scendere» (27).
sorge qualche perplessità sul carattere strettamente alter-
nativo tra ritenzione della caparra e risarcimento del danno nelle forme ordinarie. Non appare, cioè, giustifi- cato che dalla scelta tra recesso e risoluzione discenda l’alternativa tra ritenzione (o diritto alla restituzione del doppio) della caparra e risarcimento danni (23).
In ipotesi di inadempimento, dal momento che l’intento del legislatore è sicuramente quello di tutelare la parte non inadempiente, sembra non coerente soste- nere che dalla volontà di recesso consegua sempre il di- ritto di ritenere la caparra o ottenerne il doppio e che, invece, con la richiesta di risoluzione (24) del contratto questo diritto si perda.
Di contro, logica si ravvisa l’interpretazione in base alla quale se il contraente opta per la risoluzione del con- tratto e per chiedere il risarcimento «dell’ulteriore dan- no» esso conserva comunque i diritti di cui al secondo comma dell’art. 1385 Codice civile. (25) Xxxxx scorta di tale posizione ribadita in più occasioni dalla giurispru- denza di merito: «i) se il danno accertato è superiore al- l’importo della caparra, a questo importo deve essere ag- giunta la differenza tra lo stesso danno e l’importo della caparra; ii) se il danno accertato è inferiore all’importo della caparra, il danno da risarcire viene a corrispondere, non al minor importo accertato nel giudizio, ma all’im- porto della caparra», importo, quest’ultimo, che viene a costituire «la misura minima del danno risarcibile deri- vante dall’inadempimento» (26).
Seguendo questo orientamento interpretativo - pur restando facoltativa la scelta tra recesso e risoluzione- i rimedi all’inadempimento contrattuale (ritenzione o pagamento del doppio della caparra) vengono a porsi non in termini di alternatività, bensì di complementa- xxxx e cumulatività e ciò porta a concludere che «la par- te che opta per il recesso perde la possibilità della liqui- dazione di ogni danno ulteriore (limitazione giustificata dalla celerità del rimedio risarcitorio), mentre la parte che opta per la risoluzione avrà la possibilità ma anche l’onere di dimostrare - secondo le regole ordinarie - i danni che superano l’ammontare della caparra … fermo restando che tale ultima somma costituirà comunque il
Note:
(22) Sulla ratio della norma appare coerente l’interpretazione data dalla Suprema Corte (Xxxx. 28 marzo 1988, n. 2631, in Mass. Giust. civ., 1988) la quale ha evidenziato che il legislatore «stabilendo che, se la parte non inadempiente preferisce domandare la risoluzione del contratto, il risar- cimento del danno è regolato dalle norme generali, non ha affatto inteso negare alla medesima il diritto di esigere il doppio della caparra, previsto dalla stessa norma in caso di recesso dal contratto della parte non ina- dempiente che la caparra abbia versato, ma ha voluto dare a quest’ultima, che agisca in risoluzione, la possibilità di conseguire un più cospicuo ri- storo patrimoniale quando il danno superi quello preventivamente de- terminato con la clausola che fissa l’importo della caparra».
(23) Tale conclusione è stata prospettata e ampiamente confortata da X. Xxxxx, Rapporti tra caparra confirmatoria e integrale risarcimento del danno, in Corr giur., cit., 1025 ss.
(24) In ipotesi di richiesta di esecuzione del contratto, la caparra potrà o essere restituita ovvero imputata al dovuto.
(25) Questa posizione era stata fermamente sostenuta dalla dottrina in epoca immediatamente successiva all’emanazione del codice civile. Cfr.
X. Xxxxxxxx, La Funzione della caparra secondo il nuovo codice civile, in Giur. it., 1946, IV, 47. L’A. sottolineava che «la posizione della parte in- colpevole non può mai divenire deteriore unicamente perché essa, anzi- ché valersi del diritto di recedere unilateralmente, ha voluto chiedere la risoluzione del contratto», così che il danno può ben essere liquidato in misura superiore alla caparra (o al doppio di essa) ma mai in misura infe- riore. Più di recente è tornato sul punto X. Xxxxx, nota a Xxxx. 29 agosto 1998, n. 8630, in questa Rivista, 1998, 10, 1447, il quale ritiene che alla base del recesso e della risoluzione di cui all’art. 1385 Codice civile vi sia la «regola generale della valutazione economica del proprio consenso»
… «e non si vede come la stessa valutazione del consenso, misurata eco- nomicamente dalla caparra, mentre resta ferma e inalterata nel secondo comma, si vede poi annullata nel terzo». L’A. conclude sostenendo che, in questa direzione, «l’interpretazione possibile non è certo quella che an- drebbe a falcidiare l’istituto della caparra, facendogli perdere una delle sue funzioni tipiche e cioè quella del risarcimento preventivamente valu- tato».
(26) È questo l’indirizzo prospettato anche da una parte della giurispru- denza di merito. Cfr. sentenza App. Genova 24 novembre 1994, in Giur. merito, 1995, II, 949 ss., con nota di I. Xxxxxxx, Cumulabilità degli effetti di risoluzione e recesso nella caparra confirmatoria, cit. L’A. pure osserva, che una diversa interpretazione verrebbe a svuotare di contenuto e di signifi- cato pratico il disposto di cui all’art. 1385 Codice civile. Nello stesso sen- so anche Trib. Monza, sez. dist. di Desio, 3 novembre 2000, in Giur. mil., 2000, 428. In quest’ultima pronuncia viene criticato il consolidato (di- verso) orientamento della Cassazione che porta ad una interpretazione riduttiva della norma.
(27) La conclusione è tratta dalla sentenza del Trib. Monza, sez. dist. di Desio, 3 novembre 2000, in Giur. mil., cit., 428.
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Rassegna di legittimità: contratti in generale
Formazione
Cassazione Civile, sez. II, 6 settembre 2005, n. 17797 (ord.)
Pres. Mensitieri - Rel. Xxxx - P.M. Xxxxx (Conf.) - Alimentare Xx Xxxxxxxx Xxxxxxxx x. Xxxxxx Prefabbricati S.p.a.
Contratti in genere - Requisiti (elementi del contratto) - Accordo delle parti - Condizioni generali di contratto - Ne- cessità di specifica approvazione scritta - In genere - Requisiti - Integrale enunciazione della clausola - Necessità - Esclusione - Richiamo della clausola contestualmente ad altre - Irrilevanza - Specifica sottoscrizione - Sufficienza
In tema di condizioni generali del contratto,al fine di integrare il requisito della specifica approvazione prevista dall’art. 1341 Codice civile, non è necessario che alla distinta sottoscrizione della clausola segua la trascrizione in- tegrale del suo contenuto, essendo sufficiente che la sottoscrizione sia apposta dopo indicazioni idonee a non fa- re dubitare del richiamo dell’attenzione del sottoscrittore, mentre è irrilevante che contestualmente vengano ap- provate anche altre clausole onerose ugualmente evidenziate.
Cassazione Civile, sez. I, 29 settembre 2005, n. 19024
Pres. Xxxxxxx - Rel. Marziale - P.M. Xxxxxxxx (Conf.) - Xxxxxxx x. Ist. Bancario San Paolo Imi S.p.a.
Contratti in genere - Requisiti (elementi del contratto) - Forma - in genere - Contratto di compravendita di valori mobiliari - Contratto concluso dalla S.I.M. in situazione di conflitto di interessi - Preventiva comunicazione per iscritto del conflitto di interessi - Necessità - Omissione - Conseguenze - Nullità del contratto per violazione del re- quisito della forma scritta - Esclusione - Annullabilità ex artt. 1394 e 1395 Codice civile - Ammissibilità - Fattispecie disciplinata ratione temporis dall’art. 6 Legge n. 1 del 1991
In materia di contratti di compravendita di valori mobiliari, la violazione da parte della società di intermediazione mobiliare del divieto di effettuare operazioni con o per conto del cliente nel caso in cui abbia, direttamente o in- direttamente, un interesse conflittuale nell’operazione, a meno che non abbia comunicato per iscritto la natura e l’estensione del suo interesse nell’operazione ed il cliente abbia preventivamente ed espressamente acconsentito per iscritto all’operazione (art. 6, primo comma, lett. g), applicabile nella specie ratione temporis), non determina la nullità del contratto di compravendita successivamente stipulato, ma può dare luogo al suo annullamento ai sen- si degli artt. 1394 o 1395 Codice civile.
Cassazione Civile, sez. I, 30 settembre 2005, n. 19212
Pres. Xxxxxxx - Rel. Benini - P.M. Xxxxxxxxxx (Diff.) - Xxxxx Matricardi c. Cons. Autostrade Siciliane
Contratti in genere - Requisiti (elementi del contratto) - Accordo delle parti - Condizioni generali di contratto - Ne- cessità di specifica approvazione scritta - Clausole vessatorie od onerose - Predisposizione di condizioni generali - Onere probatorio - Del soggetto deducente l’inefficacia della clausola - Mancanza della prova - Rilevabilità d’ufficio
La predisposizione, da parte di uno dei contraenti, di condizioni generali di contratto è un fatto costitutivo della pretesa di chi ha interesse a far valere l’inefficacia di una clausola vessatoria in mancanza di specifica approvazio- ne per iscritto, onde quest’ultimo deve provare la ricorrenza di quella particolare fattispecie contrattuale, e la man- canza di tale prova è circostanza rilevabile d’ufficio, al di là della contestazione della controparte, in quanto atti- nente alla titolarità del diritto di adire il giudice per far valere, in mancanza dei presupposti, l’inefficacia di quel- la clausola.
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Regolamento
Cassazione Civile, sez. unite, 13 settembre 2005, n. 18128
Pres. Carbone - Rel. Lo Piano - P.M. Xxxxxxxx (Conf.) - Sidoti c. Cond. Xxx Xxxxxx Xx Xxxxxx 00 Xxxx. Xxxx
Contratti in genere - Clausola penale - Riduzione - Poteri del giudice - Fondamento - Istanza di parte - Necessità - Esclusione
In tema di clausola penale, il potere di riduzione ad equità, attribuito al giudice dall’art. 1384 Codice civile a tu- tela dell’interesse generale dell’ordinamento, può essere esercitato d’ufficio per ricondurre l’autonomia contrat- tuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente ec- cessiva, sia con riferimento all’ipotesi in cui la riduzione avvenga perché l’obbligazione principale è stata in parte eseguita, giacché in quest’ultimo caso la mancata previsione da parte dei contraenti di una riduzione della penale in caso di adempimento di parte dell’obbligazione si traduce comunque in una eccessività della penale se rappor- tata alla sola parte rimasta inadempiuta.
Invalidità e scioglimento
Cassazione Civile, sez. I, 29 settembre 2005, n. 19024
Pres. Xxxxxxx - Rel. Marziale - P.M. Xxxxxxxx (Conf.) - Xxxxxxx x. Ist. Bancario San Paolo Imi S.p.a.
I
Contratti in genere - Invalidità - Nullità del contratto - Cause - Contrarietà a norme imperative - Presupposti - Con- trarietà concernente gli elementi intrinseci della fattispecie - Necessità - Contrasto con norme imperative della con- dotta tenuta nel corso della formazione o dell’esecuzione del contratto - Nullità del contratto - Esclusione - Fattispe- cie in tema di contratto di vendita di valori mobiliari
La nullità del contratto per contrarietà a norme imperative, ai sensi dell’art. 1418, primo comma, Codice civile, po- stula che siffatta violazione attenga ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, cioè relativi alla struttura o al contenuto del contratto, e quindi l’illegittimità della condotta tenuta nel corso delle trattative per la formazio- ne del contratto, ovvero nella sua esecuzione, non determina la nullità del contratto, indipendentemente dalla na- tura delle norme con le quali sia in contrasto, a meno che questa sanzione non sia espressamente prevista anche in riferimento a detta ipotesi, come accade nel caso disciplinato dal combinato disposto degli artt. 1469 ter quar- to comma, e 1469 quinquies, primo comma, Codice civile, in tema di clausole vessatorie contenute nei cd. contrat- ti del consumatore, oggetto di trattativa individuale (In applicazione di siffatto principio, la S.C. ha escluso che l’i- nosservanza degli obblighi informativi stabiliti dall’art 6 della Legge n. 1 del 1991, concernente i contratti aventi ad oggetto la compravendita di valori mobiliari, cagioni la nullità del negozio, poiché essi riguardano elementi uti- li per la valutazione della convenienza dell’operazione, sicché la loro violazione neppure dà luogo a mancanza del consenso).
II
Contratti in genere - Invalidità - Annullabilità del contratto - Per vizi del consenso (della volontà) - Dolo - Dolo in- cidente (o incidentale) - Danno risarcibile - Minore vantaggio o maggiore aggravio economico - Risarcibilità dei dan- ni ulteriori - Presupposti - Onere della prova
La violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, stabilito dall’art. 1337 Codice civile, assume rilievo non soltanto nel caso di rottura ingiustificata del- le trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche, quale dolo incidente (art. 1440 Codice civile), se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vitti- ma del comportamento scorretto; in siffatta ipotesi, il risarcimento del danno deve essere commisurato al «minor vantaggio», ovvero al «maggior aggravio economico» prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell’obbli- go di buona fede, salvo che sia dimostrata l’esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comporta- mento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto.
Vendita
La prelazione nell’acquisto di «sale cinematografiche»
al vaglio della Corte di Cassazione
Cassazione Civile, sez. III - Sentenza del 18 settembre 2005, n. 15813 Pres. Preden - Rel. Perconte Licatese - Ric. C. C. P. S.r.l. - Res. C. C. S.r.l.
Locazione - Disciplina delle locazioni di immobili urbani (Legge 27 luglio 1978, n. 392, cosiddetta sull’equo canone)
- Immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione - Prelazione (diritto di) - Trasferimento a titolo oneroso - In genere - Vendita di locali adibiti a sala cinematografica - Esercizio del diritto di prelazione da parte dell’affittuario dell’azienda cinematografia - Spettanza - Limiti - Riferibilità al solo caso di trasferimento a titolo oneroso dell’immobile adibito all’attività cinematografica - Esclusione nell’ipotesi di vendita dell’azienda nel suo complesso
La prelazione legale introdotta dall’art. 20, secondo comma, del D.L. 14 gennaio 1994, n. 26, conver- tito nella Legge 1° marzo 1994, n. 153 (sugli interventi urgenti in favore del cinema), in caso di ven- dita dei locali adibiti a sala cinematografica, spetta all’esercente non proprietario, e quindi anche al- l’affittuario dell’azienda cinematografica, ma unicamente nell’ipotesi di trasferimento a titolo onero- so dell’immobile (edificio o porzioni di edificio), nel quale si svolge l’attività di proiezione, non an- che nell’ipotesi di vendita dell’azienda nel suo complesso.
I
Svolgimento del processo
l 2 agosto 1996 la Diocesi di Treviso vendeva alla
S.r.l. C. C. P. l’azienda denominata «C. C.», corren- te in Treviso.
Insorgeva la S.r.l. C. C., affittuaria dell’azienda venduta, la quale, con citazione del 24 febbraio 1997, conveniva in giudizio la cessionaria affinché, accertata la sussisten- za, in capo ad essa attrice, del diritto di prelazione e del conseguente diritto di riscatto, in virtù di quanto previ- sto dagli artt. 38 e 39 della Legge 27 luglio 1978, n. 392, come richiamati dall’art. 20 del D.L. 14 gennaio 1994, n. 26, convertito in Legge 1° marzo 1994, n. 153, fosse ad essa trasferita la proprietà della predetta azienda, previo pagamento del prezzo di Lire 3.000.500.000.
La società convenuta contestava, come del tutto infon- date, le deduzioni avverse, e chiamava in causa la Dio- cesi venditrice affinché, nel denegato caso di accogli- mento della domanda, fosse condannata a tenerla in- denne da ogni conseguenza pregiudizievole e comunque a risarcirla di tutti i danni.
Rilevava in particolare la convenuta come l’invocato di- ritto di prelazione legale previsto dall’art. 20 della Legge
n. 153 del 1994 in materia cinematografica operasse a fa- vore dell’esercente del cinema soltanto in ipotesi di alie- nazione dell’immobile sede dell’attività cinematografi- ca, non operando, per contro, a favore dell’affittuario di azienda cinematografica nel caso, quale quello in esame, di alienazione a terzi dell’azienda stessa.
Si costituiva in giudizio anche l’Ente Diocesi di Treviso,
deducendo l’inammissibilità o l’infondatezza della do- manda.
Questa è stata rigettata dal Tribunale ma accolta dalla Corte d’Appello di Venezia, in accoglimento del grava- me della società C. C., con sentenza del 16 gennaio 2001. Con la stessa sentenza l’Ente Diocesi di Treviso è stato condannato al risarcimento dei danni in favore della società C. C. P., nella misura di Lire 534.482.976, oltre agli interessi legali dalla domanda.
Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto separa- ti ricorsi la società C. C. P. (n. 6867/2002 R.G.) nonché l’Ente Ecclesiastico Diocesi di Treviso (n. 7215 e 10378/2002 R.G.).
La società C. C. resiste con controricorso ad entrambi i ricorsi, mentre la società C. C. P. resiste al ricorso del- l’Ente diocesano con controricorso e contestuale ricorso incidentale.
Hanno depositato una memoria la S.r.l. C. C. e l’Ente Ecclesiastico Diocesi di Treviso.
’E
Motivi della decisione
preliminare, ai sensi dell’art. 335 Codice di pro- cedura civile, la riunione dei ricorsi.
Col primo motivo del ricorso principale, denun- ciando la violazione degli artt. 276, 132 e 161 Codice di procedura civile e 118 e 119 disp. att. Codice di proce- dura civile (art. 360 n. 3 e 5 Codice di procedura civile), la società C. C. P. lamenta il difetto assoluto di motiva- zione della sentenza, la quale, dopo una breve premessa
introduttiva, ad iniziare dalla fine della pag. 8 e, a segui- re, fino alla pag. 25, trascrive integralmente il tenore let- terale dell’atto di appello, oltretutto con alcuni errori di trascrizione che, in taluni passaggi, rendono il testo ad- dirittura intelligibile: ciò che concreta un caso di moti- vazione apparente, avendo la Corte abdicato al potere dovere di esporre un proprio autonomo convincimento. Col secondo mezzo, denunciando la violazione dell’art. 20, secondo comma del D.L. 14 gennaio 1994, n. 26, conv. dalla Legge n. 153 del 1° marzo 1994 senza modi- ficazioni sul punto (art. 360 n. 3 e 5 Codice di procedu- ra civile), espone le ragioni di ordine letterale e logico si- stematico per le quali deve escludersi dal novero delle fattispecie di prelazione cinematografica l’ipotesi in cui l’oggetto della vendita sia costituito non già dall’immo- bile nel quale l’attività di proiezione è esercitata, ma dal- la stessa azienda cinematografica. Illustra pertanto la ra- tio della norma, individuata nell’esigenza di tutelare la stabilità dell’impresa cinematografica, di evitare che gli immobili adibiti a sala cinematografica vadano distolti dalla loro specifica destinazione e di favorire, sul piano soggettivo, la concentrazione, in capo a un unico sogget- to, delle qualità di esercente imprenditore cinematogra- fico e di proprietario dei beni aziendali, in primis dell’im- mobile in cui l’attività cinematografica è esercitata.
Esigenza di tutela che può porsi soltanto allorché ci si trovi al cospetto di un conflitto tra un soggetto, impren- ditore esercente l’attività di gestione della sala cinema- tografica, e un soggetto estraneo alla detta attività d’im- presa; onde la disposizione normativa in questione non può trovare applicazione in presenza di atti di disposizio- ne estranei al surrichiamato conflitto d’interessi, che al contrario, come in ipotesi di cessione di azienda cinema- tografica, presuppongano proprio la conservazione della specifica destinazione a sala di proiezione cinematografi- ca, già assegnata ai locali.
Sottolinea altresì la ricorrente come contro la tesi del giudice di appello militi l’interpretazione letterale del dettato normativo («locali adibiti a sala cinematografi- ca»), sicuramente equivalente al concetto di «immobi- li», «edifici», e, meglio ancora, «porzioni di edifici», ov- vero, più genericamente, «spazi» adibiti alla predetta de- stinazione.
Insostenibile è, per converso, l’assunto della Corte, se- condo cui vi sarebbe identità di significato tra «locali» e
«sala cinematografica» o «cinema»; il termine «locali» non potendo invece che dirsi equivalente alla nozione di
«immobili», stante anche la specificazione l’adibiti a sa- la cinematografica, la quale chiaramente rinvia a un rap- porto di funzionalità o strumentalità con usi e destina- zioni che solo un’entità fisicamente e spazialmente indi- viduata, quale appunto un immobile, può avere.
La ricorrente ribadisce poi il concetto con un’altra serie di argomenti, per ricordare, infine, l’impraticabilità di un’interpretazione fortemente estensiva dell’art. 20 del- la legge cit., ossia di una norma relativa a un istituto, quale la prelazione legale, che limita la normale libertà
negoziale e che richiama l’applicazione di altre disposi- zioni (gli artt. 38, 39 e 40 della Legge n. 392 del 1978) già di per sé eccezionali al sistema.
A sua volta la Diocesi, denunciando la violazione del- l’art. 20, secondo comma del D.L. n. 26 del 1994, conv. in Legge 1° marzo 1994, n. 153, nonché degli artt. 38 e
39 della Legge 27 luglio 1978, n. 392 e omessa o insuffi- ciente o contraddittoria motivazione (art. 360 n. 3 e 5 Codice di procedura civile), col primo motivo sostiene anch’essa, con argomenti analoghi, che la prelazione non spetta nell’ipotesi di cessione dell’azienda cinema- tografica ma solo in caso di alienazione dell’immobile destinato a sala cinematografica, soffermandosi, in parti- colare, sul significato lessicale del termine «locali», che non può essere inteso come sinonimo di pubblico eserci- zio avente sede in un determinato immobile (come l’in- tende appunto la sentenza impugnata).
Soggiunge come, applicando la norma sulla prelazione nel caso di vendita dell’azienda, si finirebbe per tradire le finalità dell’istituto, preordinato a tutelare la destinazio- ne dei locali adibiti a sala cinematografica, dacché, a vo- ler seguire un simile assunto, proprio nell’ipotesi in cui fosse invece posto in vendita soltanto l’immobile, allo scopo di sottrarlo alla sua destinazione, l’esercente non potrebbe giovarsi della prelazione e vedrebbe sacrificate le proprie ragioni.
Col secondo motivo, denunciando la violazione degli artt. 1482, 1483, 1484 e 1218 Codice civile e omessa o insufficiente o contraddittoria motivazione (art. 360 n. 3 e 5 Codice di procedura civile), impugna la sentenza an- che nel capo attinente alla condanna al risarcimento dei danni lamentati dall’acquirente, sia perché il diritto di prelazione doveva essere rispettato tanto dal venditore quanto dal compratore, derivando il pericolo di evizione non da circostanze di fatto ma dall’interpretazione di una norma di legge condivisa da ambo le parti; sia perché l’importo dei danni è stato contestato e non è provato, specie per quanto riguarda l’asserita mediazione, attesa la conduzione diretta delle trattative, né è stata considerata la recuperabilità dei costi fiscali inerenti al contratto con- cluso, una volta che l’acquisto sia stato impugnato.
Col ricorso incidentale la società C. C. P., denunciando la violazione degli artt. 1218, 1223, 1224, 1476, 1479 e 1483 Codice civile nonché vizio di motivazione (art. 360 n. 3 e 5 Codice di procedura civile), lamenta il man- cato riconoscimento della richiesta maggiorazione da svalutazione monetaria, dovuta dal giudice anche d’uffi- cio, trattandosi di credito risarcitorio e quindi di valore. Dev’essere subito rilevata l’inammissibilità del ricorso in- cidentale proposto dalla S.r.l. C. C. P., avendo detta so- cietà, col ricorso principale, consumato il diritto d’impu- gnazione e non potendo pertanto, dopo la notifica del ri- corso dell’altro contendente (l’Ente Ecclesiastico), intro- durre, per tale via, nuovi e diversi motivi di censura (Cass. 2 dicembre 2000, n. 15407 e 11 luglio 1995, n.
7592).
Passando al merito, non ha pregio e dev’essere rigettato
il primo motivo del superstite ricorso principale del C.
C. Seppure la sentenza impugnata abbia recepito supi- namente gli argomenti esposti, in punto di diritto, a fa- vore della propria tesi, dall’appellante C. C., la circo- stanza non rileva e non induce un vizio di omessa moti- vazione, questo essendo denunciabile in cassazione solo in ordine all’accertamento e alla valutazione dei punti di fatto influenti sulla decisione e non anche alle questioni, come quelle cui unicamente si affida la decisione in pa- rola, di puro diritto; dacché, quanto alla soluzione di queste ultime, il sindacato del giudice di legittimità è li- mitato al controllo dell’esattezza giuridica della statuizio- ne, quantunque erroneamente (o per niente) motivata in diritto (cfr. l’art. 384, secondo comma, Codice di pro- cedura civile).
Ciò premesso, il secondo motivo del ricorso principale del C. C. e il primo motivo del ricorso dell’Ente Eccle- siastico, da trattare congiuntamente per la loro sostan- ziale identità, si palesano fondati.
Occorre ricordare, brevemente, che la società C. C., af- fittuaria dell’omonima azienda cinematografica di pro- prietà della Diocesi di Treviso, impugna la vendita di ta- le azienda alla società C. C. P., reclamando il riconosci- mento del suo diritto di prelazione e riscatto, asserita- mente sancito dall’art. 20, secondo comma del D.L. 14 gennaio 1994 n. 26, conv. nella Legge 1° marzo 1994, n. 153, a tenore del quale «nel caso di vendita dei locali adibiti a sala cinematografica, l’esercente non proprieta- rio ha diritto di prelazione ai sensi degli artt. 38, 39 e 40 della Legge 27 luglio 1978, n. 392».
Questa norma, contrariamente all’avviso della Corte d’ap- pello, non consente di accogliere la pretesa dell’attrice.
È bene subito sottolineare che gli sforzi dialettici com- piuti dall’odierna resistente e, con essa, dalla sentenza impugnata, allo scopo di piegare il significato delle paro- le «locali adibiti a sala cinematografica» fino a farlo coincidere con quello di «azienda di proiezione cinema- tografica», sono, da un punto di vista strettamente lessi- cale, destinati all’insuccesso.
Davvero non è seriamente revocabile in dubbio che il termine «locale» (aggettivo sostantivato) designi, se- condo il significato proprio delle parole (art. 12 delle preleggi), generalmente e primieramente, un luogo chiuso destinato a un determinato uso, un ambito spa- ziale chiuso da muri, o, per meglio dire, un edificio o una porzione di edificio.
È ben vero che, con l’andar del tempo, quello stesso vo- cabolo ha anche assunto un diverso significato, quello di esercizio pubblico collocato nell’edificio o porzione di edificio, di luogo di ritrovo e di svago, e simili, o, per suc- cessivo traslato, di azienda; ma tuttavia a fugare ogni dubbio in proposito e ad escludere anche la semplice supposizione che il legislatore abbia voluto accogliere proprio questo secondo, oltre che secondario, significa- to, vale la successiva, aggiuntiva specificazione «adibiti a sala cinematografica», la quale serve a individuare esat- tamente, come oggetto della vendita assoggettabile a
prelazione e conseguente retratto, non già l’esercizio pubblico o l’azienda cinematografica (attesa l’assurdità di sostituire l’espressione «locali adibiti a sala cinemato- grafica» con l’altra, priva di senso comune, «aziende adi- bite a sala cinematografica»), ma unicamente l’immobi- le sede dell’attività di proiezione, o meglio ancora la por- zione di edificio sede, in senso lato, dell’azienda.
Tale conclusione è decisamente corroborata dal rimando dell’art. 20, secondo comma cit. a un diritto da esercitare in conformità («ai sensi») degli artt. 38 e 39 della Legge n. 392 del 1978, dove è chiaro e indiscusso il riconoscimen- to della preferenza nel solo caso di trasferimento a titolo oneroso dell’«immobile locato»: ciò che conferma come le due prelazioni abbiano il medesimo oggetto, ovvero co- me tra «locali» e «immobili», ai fini che interessano, an- che secondo un’autorevole dottrina, non sia lecito fare di- stinzioni, nel senso che i «locali adibiti a sala cinemato- grafica», menzionati come oggetto di prelazione dalla nor- ma speciale in esame, coincidono con gli «immobili urba- ni» contemplati nella Legge 27 luglio 1978, n. 392.
Del resto, è facile replicare alla resistente e, con essa, al- la sentenza che ne ha accolto pedissequamente le ragio- ni, che la conferma del significato lessicale delle parole
«locali adibiti a sala cinematografica» dev’essere ricerca- ta, piuttosto che in una eterogenea normativa di settore, nel corpo della stessa Legge n. 153 del 1994 sugli «inter- venti urgenti in favore del cinema», dovendo ben a ra- gione presumersi, secondo un collaudato canone erme- neutico, che in un unico testo di legge un certo termine venga adoperato sempre nello stesso significato (cd. co- stanza terminologica del legislatore).
Ed allora sarà bene avvertire, in primo luogo, che l’art. 2 di tale legge, destinato a sostituire l’art. 4 della Legge 4 novembre 1965, n. 1213, contiene una definizione lega- le di «sala cinematografica»: per tale s’intende «qualun- que spazio, al chiuso o all’aperto, con uno o più schermi, autorizzato ai sensi della presente legge e adibito a pub- blico spettacolo cinematografico». Tanto basterebbe per ritenere che, secondo l’intenzione del legislatore del 1994, anche un puro e semplice riferimento alla vendita di «sale cinematografiche» si sarebbe già dovuto inten- dere nella disposizione del successivo art. 20, come diret- to a rendere oggetto di prelazione l’immobile, tale essen- do lo «spazio, al chiuso o all’aperto», e non già l’azienda. Ed ancora, sempre seguitando sulle orme della cennata dottrina, nell’art. 9, destinato a sostituire il testo dell’art. 31 della cit. legge del 1965, si subordina ad autorizzazio- ne «la costruzione, la trasformazione e l’adattamento di immobili da destinare a sale e arene per spettacoli cine- matografici»; e tanto conferma che, anche nella disposi- zione del successivo art. 20, i «locali» oggetto di prela- zione, in quanto adibiti a sala cinematografica, altro non sono che gli immobili e non pure le aziende.
Conferma ulteriore si ricava dal primo comma del me- desimo art. 20, il quale prevede mutui a tasso agevolato ai proprietari di «locali adibiti a sale cinematografiche» e alle imprese nazionali di esercizio delle sale stesse, an-
che per l’acquisto «dei locali per l’esercizio cinematogra- fico», dove è chiaro che, col sostantivo «locali», si sono voluti indicare gli immobili, non le aziende.
Alla stregua di tutte queste osservazioni, che esauriscono l’interpretazione letterale della norma in esame, è già sufficientemente stabilito, senza equivoco, che tra i «lo- cali adibiti a sala cinematografica» e l’azienda cinemato- grafica non può esservi coincidenza e che pertanto og- getto della speciale prelazione in discorso è l’entità fisica immobiliare che è una componente dell’azienda, non l’azienda medesima. Tuttavia numerosi altri argomenti, non strettamente letterali ma logici, militano a sostegno della soluzione testé accolta.
Ed invero: 1) in generale, come è noto, gli artt. 38 e 39 della Legge n. 392 del 1978 negano all’affittuario di azienda la prelazione per l’acquisto in caso di trasferimen- to a titolo oneroso dell’azienda stessa (Cass. 2 aprile 1992,
n. 3995), pure se l’immobile urbano sia di valore prepon- derante rispetto agli altri elementi del complesso oggetto della concessione in godimento; 2) è comune opinione che l’istituto della prelazione legale e del conseguente re- tratto, in quanto apporta speciali limitazioni alla piena esplicazione del diritto di proprietà, presenta un inconte- stabile carattere di eccezionalità, onde anche l’art. 20 se- condo comma in esame dovrà esser letto secondo criteri di stretta interpretazione e, ai sensi dell’art. 14 delle pre- leggi, non potrà trovare applicazione oltre i casi e i tempi in esso considerati; 3) in via del tutto eccezionale, al fine di attribuire all’affittuario di un’azienda una prelazione per l’acquisto, è stato ritenuto indispensabile un apposito intervento legislativo, in forza del quale, ai sensi dell’art. 3, quarto comma della Legge 23 luglio 1991, n. 223, l’im- prenditore che, a titolo di affitto, abbia assunto la gestio- ne di aziende appartenenti ad imprese assoggettate a li- quidazione concorsuale (per effetto di fallimento, con- cordato preventivo con cessione di beni, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria), ha diritto di prelazione nell’acquisto delle aziende stesse; intervento compiutosi proprio con l’indicare, con chia- rezza e precisione, l’azienda come oggetto della prelazione legale; 4) la norma in esame è tutt’altro che superflua, in relazione alla prelazione già prevista dalla Legge n. 392 del 1978, pur se si ritiene, come si deve ritenere, che l’og- getto di entrambe coincida, giacché la stessa, nel caso di vendita del solo immobile, estende la prelazione all’«eser- cente non proprietario», ossia a soggetti diversi dal con- duttore dell’immobile, a soggetti cioè che abbiano diritto al godimento dell’immobile a titolo diverso dalla locazio- ne; come può essere, per l’appunto, il caso dell’affittuario dell’azienda comprensiva dell’immobile (e l’utilità prati- ca della norma emerge proprio dalla sentenza impugnata, la quale annota che «la quasi totalità degli operatori ci- nematografici professionali italiani esercita la propria at- tività quale affittuario di azienda cinematografica, non certo come mero conduttore»).
Ma non basta. Qualora si accedesse all’interpretazione resa dalla Corte di merito, secondo cui i «locali» in que-
stione sono in definitiva sinonimo di «azienda di proie- zione cinematografica», se ne dovrebbe desumere, non potendo la prelazione avere un oggetto variabile (ora l’immobile, ora l’azienda), che, se invece si vendesse il solo immobile (cosa che non si potrà vietare al proprie- tario di esso e dell’azienda affittata di cui esso faccia par- te), non spetterebbe il diritto di prelazione all’affittuario dell’azienda: ciò che davvero contrasterebbe decisamen- te con la ratio della disposizione in esame, che indubbia- mente tende a favorire la conservazione e non la disgre- gazione delle aziende cinematografiche.
Sostenere che, nel caso di vendita del solo immobile adi- bito a sala di proiezione, l’esercente di questa in forza di un rapporto di affitto d’azienda non possa invocare alcun titolo preferenziale nei confronti di un terzo acquirente, sebbene questi operi per finalità estranee all’impresa ci- nematografica e perfino contrapposte, mirando, per es., proprio allo smembramento dell’azienda cinematografica avente sede nell’immobile acquistato, significa insomma disconoscere, in conflitto con le finalità perseguite dalla Legge n. 153 del 1994, che la prelazione in parola sia preordinata proprio a tutelare la destinazione dei «locali adibiti a sala cinematografica»: destinazione che non è affatto compromessa dalla vendita dell’azienda (dovendo presumersi che il compratore la acquisti per esercitarla o goderla come tale), bensì semmai proprio dalla vendita dell’immobile, in vista di futuri suoi diversi usi.
Che infine l’alienazione del solo immobile compreso nell’azienda cinematografica sia o possa essere, come so- stiene la sentenza impugnata, un’ipotesi residuale, anzi talmente residuale da trovare «una remota, quasi impos- sibile applicazione nella realtà», non solo è mera petizio- ne di principio, ma tocca un aspetto della questione af- fatto ininfluente sul piano ermeneutico, non dovendo interessare l’interprete la maggiore o minore frequenza statistica della fattispecie normativa.
Concludendo, la prelazione legale introdotta dall’art. 20, secondo comma del D.L. 14 gennaio 1994, n. 26, xxxxxx- xxxx nella Legge 1° marzo 1994, n. 153 (interventi urgenti in favore del cinema), in caso di vendita dei locali adibiti a sala cinematografica, spetta in genere all’esercente non proprietario, e quindi anche all’affittuario dell’azienda ci- nematografica, ma unicamente nell’ipotesi di trasferimen- to a titolo oneroso dell’immobile (edificio o porzione di edificio) nel quale si svolge l’attività di proiezione, non an- che nell’ipotesi di vendita dell’azienda nel suo complesso. Il secondo motivo del ricorso dell’Ente Ecclesiastico, lo- gicamente subordinato, è assorbito.
Non si ravvisano gli estremi (art. 89 Codice di procedu- ra civile) per disporre la cancellazione chiesta dal P.G. La sentenza va pertanto cassata, col rinvio, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, al giudice di pari grado designato nel dispositivo.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi;
- rigetta il primo motivo del ricorso della società C. C. P.;
- accoglie il secondo motivo del ricorso della società C.
C. P. e il primo motivo del ricorso dell’Ente Ecclesiastico Diocesi di Treviso;
- dichiara assorbito il secondo motivo del ricorso dello stesso Ente Ecclesiastico;
- dichiara inammissibile il ricorso incidentale della so- cietà C. C. P.;
- cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di Cassazione, ad altra Sezione della Corte d’Appello di Venezia.
IL COMMENTO
di Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxxx
L’art. 20 del D.L. 14 gennaio 1994, n. 26 (convertito
con modificazioni in Legge 1° marzo 1994, n. 153) prevede una speciale ipotesi di prelazione nell’acqui- sto di “sale cinematografiche”. La Suprema Corte af- fronta, per la prima volta, la questione relativa all’in- terpretazione ed applicazione della norma, chiarendo come la prelazione da essa prevista non si distingua da quella prevista dagli artt. 38, 39 e 40 della Legge 27 luglio 1978, n. 392 in ragione della diversità di oggetto (trovando applicazione pur sempre nel caso di vendita dell’immobile adibito a sala cinematografi- ca, e non nel diverso caso di cessione dell’azienda), ma solo in ragione del diverso criterio di individuazio- ne del titolare del diritto (che spetta, infatti, non so- lo al conduttore, ma a chi - a qualunque titolo - gesti- sca l’attività di proiezione cinematografica).
Il caso
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte af- fronta, per la prima volta, la questione relativa all’inter- pretazione ed applicazione della norma dettata dall’art. 20 del D.L. 14 gennaio 1994, n. 26 (convertito con mo- dificazioni in Legge 1° marzo 1994 n. 153), secondo la quale «nel caso di vendita dei locali adibiti a sala cine- matografica, l’esercente non proprietario ha diritto di prelazione ai sensi degli artt. 38, 39 e 40 della Legge 27
luglio 1978, n. 392».
L’esame della decisione adottata nel caso di specie costituisce, pertanto, una occasione per chiarire non sol- tanto i contorni della speciale prelazione prevista dalla norma appena richiamata, ma anche i tratti distintivi tra le diverse ipotesi di prelazione legale contenute nella di- sciplina della circolazione dei beni destinati ad attività produttive.
La controversia sulla quale la Corte di Cassazione era chiamata a decidere si poneva nei seguenti termini:
a) un Ente ecclesiastico era proprietario di una azienda di proiezioni cinematografiche, vale a dire non del solo immobile adibito a sala cinematografica, ma del complesso dei beni (del quale l’immobile costituiva un elemento) organizzati per l’esercizio di tale attività;
b) tale azienda non era utilizzata dall’Ente proprie-
tario, bensì da una società esercente l’attività di gestione del cinema, che ne godeva a titolo di affitto d’azienda;
c) la stessa azienda era stata venduta dall’Ente pro- prietario ad altra società (a sua volta operante nel setto- re della gestione di sale cinematografiche), e la circo- stanza che l’oggetto di tale contratto traslativo fosse co- stituito effettivamente dall’azienda era pacifica tra le parti;
d) xxxxxxxxx, l’affittuario dell’azienda, facendo valere la propria veste di «esercente non proprietario» del- la sala cinematografica, aveva sostenuto che dovesse operare anche in questo caso la prelazione legale previ- sta dall’art. 20 del D.L. 14 gennaio 1994, n. 26, sull’as- sunto che l’ipotesi contemplata da tale norma («vendita dei locali adibiti a sala cinematografica») fosse integrata anche da un contratto di cessione di azienda, qual era quello nella specie concluso;
e) l’affittuario aveva, pertanto, esperito l’azione di riscatto, alla quale avevano resistito l’acquirente ed il venditore dell’azienda in contesa, sostenendo l’inappli- cabilità dell’istituto della prelazione nel caso di specie.
Va subito precisato che, nel resistere alla pretesa di riscatto, i soggetti tra i quali era intercorso il contratto traslativo non negavano affatto che l’affittuario dell’a- zienda sia da annoverarsi tra i soggetti ai quali la legge al- lude, nell’accordare il diritto di prelazione, quando uti- lizza l’espressione «esercente non proprietario»; ciò che essi invece negavano fermamente era, semmai, che il di- ritto di prelazione, il quale competerebbe anche all’affit- tuario dell’azienda in caso di vendita dell’immobile de- stinato a cinematografo, gli competa pure nel diverso ca- so di vendita dell’azienda.
La soluzione adottata dalla Suprema Corte
Il problema che veniva in rilievo consisteva, dun- que, non già nel dimostrare che il diritto di prelazione va riconosciuto anche all’affittuario dell’azienda di proie- zioni cinematografiche, in quanto «esercente non pro- prietario» (circostanza, questa, che difatti la sentenza in commento dà per assodata, riconoscendo anzi in essa uno dei profili distintivi dell’istituto in parola rispetto al- la prelazione già accordata dagli artt. 38, 39 e 40 della Legge n. 392/1978), ma consisteva nella sussistenza - in caso di alienazione dell’azienda - della vicenda contrat-
tuale («vendita di locali adibiti a sala cinematografica») che dà luogo a prelazione.
La sentenza in commento (cassando la contraria decisione adottata dalla Corte d’Xxxxxxx nella sentenza impugnata) ha appunto negato che possa ricorrere que- st’ultimo presupposto oggettivo del diritto di prelazione quando a formare oggetto del trasferimento non sia la sa- la cinematografica intesa quale immobile destinato all’at- tività di proiezione di film per il pubblico, bensì l’azien- da organizzata per l’attività di pubbliche proiezioni. Ed ha, pertanto, individuato l’elemento distintivo tra la prelazione di cui all’art. 20 del D.L. n. 26/1994 e quella di cui agli artt. 38 ss. della Legge n. 392/1978 non già nel diverso oggetto del trasferimento (che in entrambi i casi è costituito dall’immobile, in ragione della sua destina- zione), bensì nel diverso presupposto soggettivo (essen- do la prelazione urbana di cui alla legge del 1978 riserva- ta al conduttore dell’immobile, e quella relativa all’ac- quisto di sale cinematografiche accordata invece all’«esercente non proprietario», nozione quest’ultima nella quale rientrano varie e diverse figure, ivi compresa quella dell’affittuario dell’azienda).
È solo questo diverso e più ampio presupposto sog- gettivo (e non altro) a conferire alla norma sulla prela- zione di cui all’art. 20 D.L. n. 26/1994 contenuto inno- vativo rispetto alla prelazione urbana già disciplinata dalla Legge n. 392/1978, giacché quest’ultimo istituto non opera se non nel caso in cui coincidano l’oggetto della locazione e quello del trasferimento da attuarsi ri- spettando la preferenza nell’acquisto accordata dalla leg- ge al conduttore. Cosicché, come non v’è prelazione nel caso in cui la locazione riguardi un immobile e l’aliena- zione riguardi invece un più complesso insieme di beni considerati come un unico «blocco» (1), parimenti (alla stregua delle sole norme di cui alla Legge n. 392/1978) non vi sarebbe prelazione a favore dell’affittuario di una azienda quando fosse alienato soltanto un immobile compreso tra i beni aziendali (2). In quest’ultima ipote- si, infatti, le norme degli artt. 38, 39 e 40 della Legge n. 392/1978 non entrerebbero in gioco, come è facilmente dimostrabile mediante molteplici e convergenti argo- menti: da quelli basati sulla più spicciola esegesi delle norme in questione, a quelli più elevati, circa il caratte- re tassativo - e dunque di stretta interpretazione - delle li- mitazioni all’autonomia privata nella scelta del con- traente. Ma soprattutto, sul piano sistematico e logico, è agevole osservare che, nel caso di affitto d’azienda, non si pone nemmeno l’esigenza di tutela dell’avviamento che ispira le norme del 1978 sulla prelazione urbana. Non va dimenticato, infatti, che l’avviamento è - a sua volta - un elemento dell’azienda, e pertanto l’affittuario (come non è titolare dell’azienda, avendone solo il godi- mento) non è titolare del diritto sull’avviamento (3).
Ecco perché la prelazione riconosciuta dal D.L. n. 26/1994 all’esercente di sale cinematografiche si distin- gue da quella riconosciuta al conduttore di immobili ur- bani: essa non è preordinata alla tutela dell’avviamento,
ma semmai a salvaguardare la destinazione impressa al- l’immobile (destinazione che non è affatto minacciata nel caso di trasferimento dell’azienda, salvo che nel caso in cui questo trasferimento sia in realtà un negozio indi- retto, ma tale questione non si poneva nel caso di cui ci occupiamo, né corrispondeva ai fatti, atteso che l’azien- da era stata ceduta ad altro gestore di sale cinematografi- che).
Questa ricostruzione dell’istituto si avvale di diversi argomenti ermeneutici (basati sull’interpretazione te- stuale, su quella sistematica e su quella inerente alla ratio della norma) che la sentenza in commento sviluppa per- suasivamente, offrendo anche lo spunto per ulteriori ri- flessioni.
L’interpretazione testuale e lessicale
della norma sulla prelazione cinematografica
Viene anzitutto in considerazione, sul piano dell’in- terpretazione letterale, il senso della locuzione «locali adibiti a sala cinematografica» adottata dalla norma.
La Suprema Corte si preoccupa, anzitutto, di confu- tare l’assunto del giudice di appello, secondo il quale il legislatore, con la norma dell’art. 20, secondo xxxxx,
D.L. n. 26/94, avrebbe introdotto una prelazione di na- tura reale a favore dell’esercente l’attività di proiezione filmica in ordine alla vendita «del cinematografo», ed avrebbe pertanto assegnato alla locuzione «locali adibiti a sala cinematografica» il significato di «azienda di pub- blico esercizio destinata alla proiezione di pellicole cine- matografiche», e non quello di «immobile che ospita l’attività di proiezione».
Nel confutare siffatte conclusioni, la sentenza in commento ripercorre sostanzialmente la via che era sta- ta già tracciata dalla dottrina che si è occupata del tema (4), giungendo meditatamente alle medesime soluzioni oggi accolte dalla Suprema Corte.
Rileva, con accurata argomentazione, tale dottrina che «oggetto di prelazione per l’acquisto sono … secon- do la formulazione letterale della norma … i ‘locali adibi- ti a sala cinematografica’, e quindi, evidentemente, ‘im- mobili urbani’ nel senso di cui alla Legge 27 luglio 1978,
n. 392; ma il titolare della prelazione stessa è individuato nell’esercente non proprietario, ossia in colui che in tali immobili svolge l’attività di proiezione. Non è detto che l’esercente non proprietario sia anche conduttore del- l’immobile: l’esercente potrebbe avere diritto al godi-
Note:
(1) Sul punto cfr. Xxxxxxx e Preden, Le locazioni per uso non abitativo, Mi- lano, 1985, 595 ss.
(2) Cass. 12 giugno 1995, n. 6591.
(3) In tal senso si è pronunziata anche la Corte Cost. nell’ord. 31 marzo 1988, n. 384, per giudicare manifestamente infondata la questione di le- gittimità costituzionale delle norme sulla prelazione urbana, nella parte in cui non accordano il diritto anche all’affittuario dell’azienda.
(4) X. Xxxxxxxxx, La prelazione dell’esercente non proprietario di sala cinema- tografica, in Contratto e Impresa, 1997, 439 ss.
mento di quest’ultimo a titolo diverso dalla locazione; per esempio in forza di comodato, oppure di conferimento del socio o dell’associato nel quadro di un rapporto di so- cietà o di associazione in partecipazione oppure, ancora, di sublocazione» (5). Ed anche se il godimento derivasse da una locazione immobiliare, essa potrebbe essere tale da escludere il diritto di prelazione secondo la disciplina del 1978 (locazione per l’esercizio di attività ricreative, assi- stenziali, culturali o scolastiche senza fini di lucro; loca- zione per attività lucrative, ma svolte in favore non del pubblico, bensì dei membri di una associazione o di una cooperativa; locazione di immobili complementari a sta- zioni, porti aeroporti, alberghi etc.; locazioni transitorie o stagionali, e via discorrendo): cosicché «la prelazione ur- xxxx, regolata dalla legge speciale del 1978, è data al con- duttore di immobile destinato ad esercizio d’impresa; la prelazione cinematografica, introdotta dalla legge specia- le, è data al soggetto che svolge l’attività di proiezione. Ora, poiché quest’ultimo non è necessariamente il con- duttore dell’immobile, deve per ciò stesso escludersi che il nuovo diritto di prelazione, pur se avente il medesimo oggetto del diritto già riconosciuto al conduttore stesso, risulti superfluo: la nuova norma vale, in ogni caso, ad estendere la cerchia degli aventi diritto» (6).
La dottrina richiamata, inoltre, si è espressamente prospettato il quesito se l’espressione «locali» possa esse- re intesa come diretta ad indicare il pubblico esercizio che ha sede in un determinato immobile (così come la intendeva, appunto, la società che aveva agito per il ri- scatto nel caso in esame). Ma a tale quesito ha dato, con decisione, risposta negativa, in forza di «considerazioni sia d’ordine letterale che sostanziale».
Ed infatti, sul terreno dell’esegesi letterale si può os- servare che «se con il sostantivo ‘locali’effettivamente si indicano, nell’uso, alcune specie di pubblici esercizi, e quindi di aziende, tale locuzione non si estende ai pub- blici esercizi che offrono spettacoli, indicati, nell’uso corrente, con il termine ‘sale’» (7). Se si guarda a come il legislatore del 1994 ha fatto impiego di questo uso lin- guistico, si può constatare che questi, da un canto, ha adoperato nell’intero provvedimento la locuzione «sala» per designare lo spazio fisico adibito a pubblici spettaco- li cinematografici (in particolare all’art. 2, che fornisce una definizione legale di «sala cinematografica»; all’art. 9, che subordina ad autorizzazione dell’autorità compe- tente in materia la costruzione, la trasformazione e l’a- dattamento di immobili da destinare a sale o arene per spettacoli cinematografici e all’art. 20, primo comma, che prevede la concessione di mutui agevolati, per effet- tuare lavori di trasformazione ed adeguamento, tanto ai proprietari dei locali adibiti a sala quanto ad una parti- colare categoria di esercenti le sale), e dall’altro lato si è preoccupato di specificare, tramite l’impiego nella for- mulazione della norma sulla prelazione cinematografica di entrambi i sostantivi «locale» e «sala», che oggetto di prelazione non sono le «sale», ma i «locali adibiti a sala». È di tutta evidenza, perciò, che oggetto della prelazione
legale è l’immobile nel quale la «sala» è gestita, e non la sala stessa.
Pertanto, non si tratta, nel caso di specie, di stabili- re se l’espressione «locali» adoperata dal legislatore pos- sa in astratto assumere il significato di «azienda», o di
«pubblico esercizio», bensì di chiarire che significato es- sa assuma nella norma in questione e quale sia l’univoca disciplina che ne discende.
A tal riguardo, la sentenza in commento richiama il principio di «costanza terminologica del legislatore», per dimostrare come il termine «locali» e quello «sala» ab- biano, nella legge sottoposta ad esame, sempre il mede- simo significato. Si potrebbe, però, aggiungere anche un’altra considerazione. E cioè quella secondo la quale è assai arduo tradurre una certa locuzione in un’altra, e dunque istituire una sinonimia, quando l’una sia generi- ca e «povera» di capacità denotativa («locali»; «sale»; ecc.) e l’altra sia invece spiccatamente tecnica, com’è appunto la locuzione «azienda». Usando indistintamen- te come sinonimi i due termini, invero, si finirebbe per attribuire alla parola utilizzata dalla legge («locali») un significato più ampio e più fumoso rispetto a quello con- densato nella nozione tecnica di azienda, e si finirebbe per riferire quest’ultima nozione, in modo alquanto ge- nerico, a qualsiasi «struttura» impiegata nell’attività di proiezione di films. Non v’è chi non veda come una
«struttura» così definita non necessariamente è un’a- zienda, ma corrisponde ad un concetto privo di consi- stenza giuridica e raffigurabile come sintesi verbale di una certa realtà materiale.
L’interpretazione sistematica e teleologica della norma sulla prelazione cinematografica
Ai medesimi risultati si perviene se ci si cimenta, come fa la sentenza in oggetto, con la ricostruzione fun- zionale dell’istituto della prelazione cinematografica.
Anche a voler trascurare le numerose altre indica- zioni che (come si è visto) si ricavano dall’esegesi testua- le della norma, pare decisivo il rilievo secondo il quale il diritto di prelazione di cui si discute non può avere un oggetto variabile (ora l’immobile, ora l’azienda, ora un diverso, indistinto ed indefinibile insieme di beni quali- ficato come «struttura atta a consentire la proiezione di films», a seconda dei casi).
La norma esige che il proprio ambito di applicazio- ne sia circoscritto in ragione dell’oggetto del diritto al- l’acquisto in prelazione: se tale oggetto fosse individuato nell’azienda, l’istituto non potrebbe essere applicato in caso di vendita dell’immobile, e viceversa.
Ma se così è, applicando la norma sulla prelazione nel caso di vendita dell’azienda si finirebbe per tradire le
Note:
(5) X. Xxxxxxxxx, op. cit., 442 s.
(6) X. Xxxxxxxxx, op. cit., 443.
(7) X. Xxxxxxxxx, op. cit., 446.
finalità dell’istituto. Infatti, a voler seguire un simile as- sunto, proprio nell’ipotesi in cui fosse posto in vendita soltanto l’immobile, allo scopo di sottrarlo alla sua desti- nazione, il gestore non potrebbe giovarsi della prelazio- ne, e vedrebbe sacrificate le proprie ragioni.
Ora, proprio nell’ipotesi appena prospettata la pre- lazione ha un senso, mentre non ha giustificazione alcu- na nel caso di cessione dell’azienda, risolvendosi soltan- to - in tal caso - in una irragionevole disparità di tratta- mento, sia tra gli aspiranti alla proprietà del complesso di beni organizzato a fini produttivi (perché favorire il ge- store rispetto, ad esempio, ad altro imprenditore?), sia tra imprenditori già operanti e nuove imprese, con danno per la concorrenza (perché attribuire un privilegio al ge- store già insediato?), sia infine tra le diverse attività im- prenditoriali (perché prevedere il diritto di prelazione solo per i gestori di sale cinematografiche?): considera- zione, quest’ultima, che ha condotto la dottrina già sopra richiamata a rilevare come sarebbe «incoerente … e co- stituzionalmente illegittimo … che il vincolo venisse esteso ad una sola proprietà aziendale, quella delle sale cinematografiche, in ragione del tipo di attività esercita- to dall’impresa», cosicché «non vi è una sola buona ra- gione che possa giustificare la soggezione a prelazione del proprietario di questo tipo di azienda, e non di quelle or- ganizzate per offrire al pubblico altri servizi» (8).
La Corte di Cassazione si preoccupa, a questo ri- guardo, di smentire alcune illogiche considerazioni con- tenute nella sentenza d’appello sottoposta al suo esame. Quest’ultima aveva, ad esempio, osservato che la li- mitazione dell’istituto al solo caso della vendita dell’im- mobile incontrerebbe il seguente ostacolo: che la quasi totalità degli operatori cinematografici professionali ita- liani esercita la propria attività quale affittuario di azien- da cinematografica, non certo come mero conduttore (e tantomeno detentore a qualsivoglia titolo) dell’immobi- le in cui si svolge l’attività di proiezione. Ma è evidente l’inconferenza di questo argomento: non si può negare che la prelazione di cui si discute in causa spetti anche all’affittuario dell’azienda (quale «gestore non proprieta- rio»), ma proprio perché la quasi totalità degli operatori del settore esercita l’attività mediante contratti di affitto di azienda, ad essi - se il legislatore non fosse intervenu- to con la disposizione di cui si tratta in causa - non sa- rebbe riconosciuta la prelazione urbana di cui alla Legge
n. 392/78, poiché quest’ultima presuppone la piena cor- rispondenza tra oggetto della locazione ed oggetto della vendita in relazione alla quale opera la prelazione, sicché il diritto di prelazione di cui alla legge del 1978 non com- pete all’affittuario dell’azienda. La norma introdotta nel 1994 estende, dunque, anche a tale caso la prelazione nell’acquisto dell’immobile.
Né maggior pregio hanno le ulteriori affermazioni compiute dal giudice d’appello, secondo le quali la prela-
soggetto titolare dell’intera azienda, che ha affittato al- l’esercente sarebbe talmente residuale da non poter esse- re nemmeno presa in seria considerazione. Non è certo, infatti, il rilievo statistico di certi fenomeni che può far propendere per una interpretazione piuttosto che per un’altra.
In realtà, la prelazione di cui stiamo discutendo è preordinata proprio a tutelare la destinazione dei locali adibiti a sala cinematografica, destinazione che (come osserva la sentenza in commento) non è affatto messa in pericolo dalla vendita dell’azienda (dato che deve presu- mersi che il terzo acquirente compia tale acquisto di azienda per esercitarla, ovvero per goderne appunto qua- le azienda), bensì semmai proprio dalla vendita dell’im- mobile. Costituisce fatto notorio che un numero rile- vante di immobili un tempo adibiti a sale cinematogra- fiche sono oggi la sede di banche, supermercati, «drug stores», «sale Bingo», ecc.
Questa dispersione del patrimonio di sale cinema- tografiche sulle quali il pubblico può contare consegue non certo alla vendita di aziende di proiezione (vendita che presuppone l’esistenza e la permanenza in essere del- l’attività esercitata mediante l’azienda), bensì proprio dalla vendita dei «locali», vale a dire degli immobili de- stinati a cinematografo, e tale eventualità, come i fatti dimostrano, non è affatto «residuale» come affermava la sentenza d’appello che la Suprema Corte ha cassato.
E dinanzi a tale eventualità, il gestore della sala, proprio perché quasi sempre affittuario dell’azienda e non conduttore dell’immobile, si troverebbe privo della tutela accordata dall’istituto della prelazione urbana, se tale istituto non fosse stato esteso (pur sempre, necessa- riamente, conservandone l’originario oggetto) dalla di- sposizione sulla quale ci siamo intrattenuti. Il gestore, in- fatti, proprio perché non è proprietario dell’azienda, e dunque dell’avviamento, non potrebbe valersi della pre- lazione contemplata dalla Legge n. 392/1978, prevista proprio a protezione dell’avviamento commerciale del conduttore del locale. Ma la legge del 1994 estende l’ambito dell’istituto, adeguandolo alla diversa esigenza di tutelare (non più l’avviamento, ma) l’interesse alla conservazione delle attività di pubblici spettacoli cine- matografici. Con ciò, nondimeno, l’istituto non vede mutare il proprio oggetto: la prelazione continua ad ope- rare nell’acquisto dell’immobile, del quale si tratta di preservare la destinazione e l’utilizzazione, e non certo nell’acquisto dell’azienda, rispetto al quale non si vede quale ragione possa giustificare la preferenza per un ge- store rispetto all’altro.
Si può aggiungere che non varrebbe contrapporre a queste considerazioni l’assunto secondo il quale la prela- zione dell’esercente di sala cinematografica nel caso di vendita dell’azienda si giustificherebbe con la necessità
zione riferita esclusivamente all’immobile troverebbe
una remota, quasi impossibile, applicazione nella realtà, e l’ipotesi di alienazione del solo immobile da parte di un
Nota:
(8) X. Xxxxxxxxx, op. cit., 448 s.
di tutelare le piccole imprese di proiezione cinematogra- fica contro l’espansione di reti oligopolistiche. Infatti, è agevole replicare che la sopravvivenza di piccole impre- se di spettacoli cinematografici non è affatto protetta at- traverso il riconoscimento di un diritto sui «locali adibi- ti a sale cinematografiche», ma dipende dalla capacità di fronteggiare economicamente la concorrenza delle gran- di reti di gestione di cinema. Le quali grandi reti non so- no affatto interessate ad acquistare piccole sale, visto che
la loro politica commerciale è semmai rivolta a costruire grandi cinema multisala con servizi accessori, ed a tale obbiettivo sono semmai destinati i loro investimenti.
È sempre arduo, comunque, tentare di conferire ra- zionalità ad una certa interpretazione delle norme attri- buendo arbitrariamente al legislatore certi scopi: il ri- schio sempre incombente, in tali casi, è quello di non av- vedersi dello iato tra questi presunti scopi ed il senso concreto delle norme esaminate.
Assicurazione
Illeciti antitrust
e rimedi civili del consumatore
Corte d’Appello di Milano, sez. I - Sentenza del 2 febbraio 2005 Pres. Xxxxxxxxx - Rel. Lamanna - Ric. C. C. - Res. RAS S.p.a.
Contratti di assicurazione - Intese restrittive della concorrenza - Effetti sul contratto concluso con i consumatori - Azione risarcitoria - Azione di ripetizione di indebito
L’azione del consumatore che, avendo contratto con una delle imprese partecipanti ad un’intesa anti- concorrenziale vietata dall’art. 2 Legge n. 287/90, lamenti di essere stato costretto a pagare un prez- zo eccessivo, determinato dall’accordo di cartello, e chieda la restituzione parziale del prezzo (ovvero il risarcimento del danno patrimoniale subito), non rientra tra quelle riservate alla competenza della Corte d’Appello in unico grado ai sensi dell’art. 33, secondo xxxxx, Legge n. 287/90.
C
Ritenuto in diritto
on atto notificato in data 6 marzo 2003, l’avv. C.
C. citò in giudizio avanti al Giudice di pace di Codogno la società RAS - riunione Adriatica di
sicurtà S.p.a. allegando che:
- l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato (cd. ANTITRUST) aveva irrogato in data 27 luglio 2000, con provvedimento poi confermato dal T.A.R. del Lazio e dal Consiglio di Stato, una sanzione amministra- tiva pecuniaria ad alcune società di assicurazione parte- cipanti ad un accordo di cartello (intesa orizzontale in forma di pratica concordata consistente nello scambio sistematico di informazioni commerciali sensibili tra im- prese concorrenti) risultato e riconosciuto vietato dalla legge;
- la RAS - Riunione Adriatica di Sicurtà S.p.a. era una delle compagnie assicuratrici sanzionate dall’antitrust, e le era stata inflitta la sanzione pecuniaria di euro 48.944.422,51;
- tale accordo aveva avuto come effetto immediato e consequenziale l’aumento del costo delle polizze ai dan- ni dei contraenti, in misura pari al 20% del costo totale del premio versato;
- ne seguiva una responsabilità restitutoria da indebito a carico della convenuta, e comunque una sua responsabi- lità da inadempimento contrattuale anche in relazione agli artt. 1175 e 1375 Codice civile.
Tanto premesso, chiese la condanna della convenuta al- la restituzione della somma di euro 859,41 oltre rivaluta- zione monetaria ed interessi dalla data di messa in mora (27 dicembre 2002) al saldo effettivo, quale importo in- debitamente pagato in ratei semestrali per le polizze RC AUTO n. 90802781-4, GLOBALE AUTO n.
32802469-8 ed RC AUTO n. 39805821 per i periodi 25 gennaio 1995-25 gennaio 1996, 25 gennaio 1997-25 lu-
glio 1998, 25 gennaio 1999-25 gennaio 2001, nonché dell’ulteriore somma dovuta per i premi versati nei se- mestri 25 gennaio/25 luglio 1996, 25 luglio 1996/25 gen- naio 1997 e 25 luglio 1998/25 gennaio 1999, non con- teggiati in quanto da lui non documentabili direttamen- te, oltre gli interessi sulle dette somme e rivalutazione monetaria sino al saldo effettivo, ovvero di quelle altre somme eventualmente dovute che fossero state ritenute di giustizia, oltre al risarcimento del danno per responsa- bilità contrattuale, anch’esso da determinarsi in via equitativa e comunque in misura non inferiore ad euro 150,00.
Radicatosi il giudizio, vi si costituì la RAS - Riunione adriatica di sicurtà S.p.a. eccependo la nullità della cita- zione per indeterminatezza dei motivi di fatto e di diritto posti a sostegno delle domande; la mancanza di efficacia vincolante esterna erga omnes del provvedimento del- l’Autorità Antitrust, con cui peraltro non era stata ac- certata alcuna effettiva incidenza della condotta delle compagnie assicuratrici ai fini della fissazione di tariffe concordate, ma solo effetti potenzialmente dannosi per la concorrenza, e senza che comunque vi fosse prova che da tale condotta fosse derivato un danno concreto per i singoli consumatori; la incompetenza funzionale e terri- toriale dell’adìto giudicante, in favore della Corte di Ap- pello di Milano, ex art. 33, secondo comma, della Legge
n. 287/1990, stante la implicita derivazione della pretesa attorea dalla invalidità delle clausole di polizza relative alla determinazione del premio per ipotetica violazione della normativa antitrust, invalidità che, conseguente- mente, andava accertata pregiudizialmente, ma solo presso il Giudice esclusivamente competente a cono- scerne in forza della detta legge, ossia la Corte d’Appel- lo, non potendo neppure l’adìto Giudice di pace eludere tale accertamento anche perché la convenuta richiede-
va in via riconvenzionale che fosse accertata la validità di dette clausole; l’impossibilità comunque per il giudice adìto di decidere secondo equità, trattandosi di contro- versia avente valore superiore a 1.100 euro; l’impossibi- lità in ogni caso di accogliere richieste restitutorie per polizze stipulate nel 1995 e nel 2000, avendo la conve- nuta partecipato alle attività sanzionate solo dal 1996 e non essendo state esaminate dall’Autorità Garante atti- vità successive al 1999; l’impossibilità, inoltre, di acco- gliere la domanda per un importo superiore a quello di li- re due milioni entro il quale lo stesso attore aveva con- tenuto la sua pretesa ai fini del pagamento del contribu- to unificato; (in via subordinata) l’impossibilità di acco- gliere la domanda di ripetizione di indebito non essen- dovi alcuna norma che, nel periodo considerato, vietas- se imperativamente di praticare premi di importo supe- riore a quelli praticati dalla generalità del mercato, do- vendo comunque considerarsi indimostrata la pretesa lievitazione dei premi apoditticamente quantificata dal- la controparte nella misura del 20% e il preteso inadem- pimento contrattuale della convenuta o una sua respon- sabilità anche in relazione agli artt. 1175 e 1375 Codice civile.
All’esito del giudizio, il Giudice di Xxxx, con sentenza n. 160/2003 del 28 luglio - 30 agosto 2003, ha dichiarato la sua incompetenza a favore di questa Corte in ragione della richiesta di accertamento della validità del con- tratto assicurativo formulata in via riconvenzionale dal- la RAS, fissando il temine di 60 giorni per la riassunzio- ne del giudizio avanti ad essa e compensando intera- mente fra le parti le spese di lite.
Con atto notificato in data 7 ottobre 2003 l’attore ha provveduto ad effettuare la riassunzione riproponendo le originarie domande, integrate dalla richiesta, proposta in via alternativa, di rimessione della causa al primo Giudice in caso di accertata validità del contratto de quo, e di ritenuta incompetenza della Corte a conoscere del merito della causa.
La convenuta è rimasta in questa sede contumace. Precisate di seguito le conclusioni - conformemente agli atti introduttivi - nei termini letteralmente trascritti in epigrafe, questa Corte ha infine trattenuto la causa in decisione all’udienza del 9 novembre 2004, concedendo all’attore il termine di sessanta giorni per il deposito del- la comparsa conclusionale.
Ritenuto in diritto
1. Deve preliminarmente evidenziarsi che correttamen- te la convenuta RAS è stata dichiarata contumace. Essa, costituendosi innanzi al giudice di pace di Codo- gno, aveva eletto domicilio presso lo studio di uno dei suoi due legali, l’avv. G. R., in Cremona, via XXX, ossia in un luogo diverso da quello previsto dall’art. 319 Codi- ce di procedura civile in relazione al procedimento in- nanzi al Giudice di pace (ossia nel Comune in cui ha se- de l’ufficio del Giudice di pace, nella specie Codogno). E siccome l’art. 58 disp.att. Codice di procedura civile
prevede che «alla parte, che non ha fatto dichiarazione di residenza o elezione di domicilio a norma dell’articolo 319 del codice, le notificazioni e le comunicazioni du- rante il procedimento possono essere fatte presso la can- celleria, salvo contrarie disposizioni di legge», ne conse- gue che legittimamente la causa è stata riassunta dall’at- tore avanti la Corte d’Appello notificando la citazione presso la cancelleria del Giudice di pace di Codogno.
Non essendosi costituita la RAS nel giudizio riassunto avanti la Corte, essa è stata dunque correttamente di- chiarata contumace nella prima udienza di trattazione collegiale del procedimento d’appello.
Resta solo da aggiungere che la S. Corte di Cassazione ha prospettato un’interpretazione derogatoria rispetto a quella appena esposta solo con riferimento a specifici ca- si in cui non può sussumersi la presente fattispecie, affer- mando, in particolare, che l’art. 58 disp. att. Codice di procedura civile (secondo il quale le notificazioni duran- te il procedimento dinanzi al Giudice di pace possono essere validamente eseguite presso la cancelleria dello stesso, ove sia omessa la dichiarazione di residenza o l’e- lezione di domicilio, a norma dell’art. 319, secondo com- ma, Codice di procedura civile, nel Comune sede del- l’ufficio giudiziario adito) opera unicamente nei con- fronti della parte che stia in giudizio personalmente, alla quale soltanto è riferibile la previsione del suddetto arti- colo del codice di rito; se, invece, la parte sia rappresen- tata da un procuratore ad litem (o si difenda personal- mente ai sensi dell’art. 86 Codice di procedura civile), questi, in difetto di prescrizioni al riguardo nello stesso codice di rito ed alla stregua della legge professionale (art. 82 X.X. 00 gennaio 1934, n. 37), è tenuto, ai fini delle notificazioni, ad eleggere domicilio nel luogo ove il giudice ha sede (venendo, in mancanza, considerato elettivamente domiciliato presso la cancelleria di quel giudice) solo quando eserciti il proprio ministero profes- sionale fuori dalla circoscrizione del Tribunale cui è asse- gnato, e non pure quando operi (in qualunque luogo, e perciò anche in Comune diverso da quello sede del Tri- bunale) nell’ambito di detta circoscrizione, nel qual caso le notifiche possono validamente eseguirsi solo presso il suo domicilio risultante dall’albo professionale, secondo le normali regole applicabili in materia (Cass. n. 9394/2002).
Nel caso di specie, appunto, l’avv. G. R. ha esercitato il proprio ministero in Codogno, ossia fuori dalla circoscri- zione del Tribunale cui risulta assegnato (Tribunale di Cremona, appartenente al distretto della Corte d’Ap- pello di Brescia).
2. Deve in secondo luogo ritenersi che erroneamente il Giudice di pace si sia dichiarato incompetente a deci- dere sulla questione di validità del contratto assicurati- vo, non solo perché tale questione - resa oggetto di do- manda riconvenzionale di accertamento della RAS - proprio perché finalizzata all’accertamento positivo del- la validità, non poteva propriamente ricondursi alla sfe- ra delle azioni di nullità contemplate dall’art. 33, secon-
do comma, della Legge n. 287/1990, ma anche perché comunque la questione, anche se si ritenesse in ipotesi comprensiva sia del profilo della validità, come anche del profilo alternativo della nullità, avrebbe come refe- rente oggettivo un contratto, quello assicurativo stipu- lato tra attore e convenuta, l’accertamento della cui va- lidità/invalidità non poteva affatto implicare la compe- tenza speciale della Corte d’Appello ai sensi della pre- detta norma.
Come ha, infatti, già avuto modo di affermare la S. Cor- te di cassazione con argomenti che a questo Giudice paiono pienamente condivisibili, in tema di normativa per la tutela della concorrenza e del mercato apprestata dalla Legge 10 ottobre 1990, n. 287 ed alla luce di quel- la che è la caratterizzazione tecnica degli istituti in essa delineati, né l’azione di nullità, né lo strumento risarci- torio connesso alla violazione dei divieti di intese restrit- tive della libertà della concorrenza e di abuso di posizio- ne dominante rimessi ai sensi dell’art. 33 di tale norma- tiva alla competenza esclusiva della Corte di Appello in un unico grado di giudizio di merito, sono aperti - in quanto tali - alla legittimazione attiva dei singoli c.d.
«consumatori finali» (Cass. 9 dicembre 2002, n. 17475). La Corte, peraltro, ha tratto tale conclusione restrittiva non solo sul piano della legittimazione soggettiva, ma anche su quello del referente oggettivo delle azioni di nullità, di risarcimento e cautelari. Ha infatti ritenuto che oggetto della tutela attivabile presso la Corte d’Ap- pello siano solo le intese vietate o l’abuso di posizione dominante, e non già i negozi stipulati «a valle» tra im- prese e consumatori finali.
Secondo la X. Xxxxx può cogliersi nello stesso impianto della Legge n. 287/1990 la prospettiva privilegiata dell’«impresa» quale termine comunque principale del dinamismo del «mercato», così come assumono la pro- spettiva privilegiata del modello dell’«impresa» e della concorrenza anche gli stessi divieti di cui all’art. 2, ri- spetto ai quali la citata legge delinea con l’art. 33 gli stru- menti sanzionatori, che non potrebbero conseguente- mente non corrispondere anch’essi, strutturalmente, a tale prospettiva ispiratrice; ragion per cui riguardo all’a- zione volta a conseguire una dichiarazione giudiziale di nullità delle «intese» vietate sarebbe difficilmente confi- gurabile, per l’intrinseca impossibilità di conseguirne un qualsiasi diretto riflesso (data la strutturazione di per se stessa meramente «obbligatoria» delle «intese»), una qualsivoglia soglia di interesse in testa a soggetti che non siano essi stessi partecipi di quello stesso livello operati- vo, e rivestano invece la mera veste di consumatori fina- li, non potendo in alcun modo reagire su di essi l’esisten- za in sé delle «intese», le quali - come strumento tecni- co-operativo - risultano concepite, in quanto tali, solo in funzione di chi appunto (le imprese) le possa conclude- re, e le abbia nel concreto concluse, ed apparendo, inve- ce, al riguardo, il possibile ruolo del consumatore finale, chiamato piuttosto ad esaurirsi nella sollecitazione del- l’esercizio dei loro poteri da parte degli organi individua-
ti dalla stessa Xxxxx n. 287/1990 in quella che si rivela la sua componente più propriamente «pubblicistica». Sic- ché, così ricostruiti i termini, le caratterizzazioni struttu- rali e le finalità ispiratrici della disciplina di cui alla Leg- ge n. 287/1990, lo strumento risarcitorio previsto - in stretta connessione con le azioni di nullità e di «inibito- ria» - dal medesimo secondo comma dell’art. 33, presup- porrebbe esso stesso una tipologia di danni strettamente connessa alle tematiche dell’impresa e della sua presenza nel mercato, in linea di continuità peraltro con le carat- teristiche strutturali della disciplina codicistica della concorrenza (in relazione agli artt. 2595 e ss. Codice ci- vile), che, appunto, non contempla la legittimazione at- tiva dei singoli consumatori finali.
Né - ha precisato la S. Corte - ciò equivale a postulare - di fatto - l’irrisarcibilità assoluta di ogni e qualsiasi delle eventuali ricadute estreme di quelle intese vietate dal le- gislatore in sede di Legge n. 287/1990, sul «consumatore finale», ma solo che:
a) da un lato tale risarcibilità non si configurerà per il so- lo fatto - in sé - che, a monte della singola operazione conclusa dal consumatore finale si ponga, dal lato del- l’impresa, l’intesa vietata, rendendosi invece necessario che, nel concreto, il rapporto instauratosi fra il consu- matore finale e l’impresa si connoti, in tutto o in parte, nello specifico, per i caratteri della «antigiuridicità», per l’avvenuta violazione di uno specifico diritto soggettivo vantato da quest’ultimo; diritto soggettivo il quale, a sua volta e naturalmente, per tutte le considerazioni sopra svolte, non potrà però di certo farsi discendere dal solo fatto in sé della pregressamente intervenuta «intesa vie- tata»;
b) da un altro lato, l’azione risarcitoria eventualmente spettante, rivestirà, per ciò stesso, i caratteri ordinari di un’ordinaria azione di responsabilità soggetta agli ordi- nari criteri di competenza, e non quelli dell’azione ex art. 33, secondo comma della Legge n. 287/1990, rimessa, in quanto tale, alla cognizione esclusiva della Corte di Ap- pello in unico grado di merito.
Per la Cassazione si rende dunque essenziale e necessaria ai fini della configurabilità delle azioni in oggetto:
a) una domanda che, transitando per la valutazione del- la nullità della singola «intesa vietata» dall’art. 2 della stessa legge, o dell’avvenuto abuso di posizione domi- nante previsto dall’art. 3, tenda a conseguire correlata- mente il risarcimento dei danni direttamente derivatine secondo quelli che sono i correnti criteri di individuazio- ne del nesso di causalità;
b) la deduzione di un profilo di diretta ed immediata in- cidenza causale della intesa ritenuta vietata o dell’«abu- so», nella produzione del danno lamentato, il quale si deve rendere effetto immediato e diretto della intesa medesima, e non di fenomeni che, pur attenendo alla vita del mercato, si pongano solo «a valle», in quanto mediati dal concreto comportamento tenuto dalle sin- gole imprese nella gestione di singoli e specifici rappor- ti intessuti direttamente con i singoli consumatori; rap-
porti già presidiati in quanto tali dalla loro logica giuri- dica interna.
Appare peraltro ancor più decisivo il fatto che la S. Cor- te, con una successiva pronuncia (Cass. 11 giugno 2003,
n. 9384), abbia ancor più chiaramente e radicalmente escluso che dalla declaratoria di nullità di una intesa tra imprese per lesione della libera concorrenza, emessa dal- la Autorità Antitrust ai sensi dell’art. 2 della Legge n. 287 del 1990, possa discendere automaticamente la nul- lità di tutti i contratti posti in essere dalle imprese ade- renti all’intesa, i quali mantengono invece la loro vali- dità e possono dar luogo solo ad azione di risarcimento danni nei confronti delle imprese da parte dei clienti. Alla luce delle premesse interpretative delineate dalla X. Xxxxx, è conseguente concludere che, nelle controversie di danno tra assicurati e imprese d’assicurazione, la com- petenza della Corte d’Appello debba negarsi o perché il consumatore finale non è annoverabile tra i soggetti di- rettamente tutelati dalla disciplina antitrust e quindi le- gittimati attivamente in relazione all’azione ex art. 33, secondo comma, legge citata, o, comunque, perché il fatto costitutivo della pretesa di rimborso deve indivi- duarsi nell’aumento ingiustificato del premio assicurati- vo, e non direttamente nell’intesa anticoncorrenziale considerata illegittima, mentre il danno considerato dal- la disposizione di cui all’art. 33, secondo xxxxx, che dà luogo ad un’azione di competenza della Corte, è appun- to solo quello originato dall’intesa vietata e non dalla singola pattuizione contrattuale «a valle».
A maggior ragione tale conclusione deve poi valere in casi, come quello di specie, ove davanti al primo Giudi- ce, e ora davanti a questa Corte, non è neppure azionata un’azione risarcitoria, ma solo una semplice azione di ri- petizione da indebito non necessariamente implicante una dichiarazione di nullità del contratto assicurativo strettamente dipendente dall’invalidità delle intese anti- concorrenziali poste a «monte» (basti pensare - tra l’al- tro - alla possibilità che, ove pure la nullità del contratto fosse considerata una premessa logica della richiesta re- stitutoria, tanto più alla luce della generica prospettazio- ne svolta dall’attore sulle ragioni giustificative della do- manda restitutoria, ebbene essa potrebbe anche dipen- dere da molteplici altri motivi di radicale invalidità affe- renti alla causa o all’oggetto del contratto, compresa la eventuale «abusività» delle clausole di aumento del pre- mio in relazione alla disciplina posta a tutela del consu- matore ex artt. 1469 bis e ss. Codice civile).
È peraltro appena il caso di sottolineare che la soluzione così prospettata dalla X. Xxxxx, a parte la inevitabile opi- nabilità di qualunque tesi interpretativa, ha nella specie comunque un particolare rilievo, perché espressa proprio in occasione di decisioni volte a dirimere questioni di conflitti di competenza, sulle quali essa è giudice in cer- to senso esclusivo e «naturale».
Né sarebbe possibile ritenere, a dispetto di tale inqua- dramento, che quando si invochi in via meramente in- cidentale l’accertamento della nullità dell’accordo anti-
concorrenziale per potersene far derivare la nullità di contratti posti «a valle», la causa debba essere rimessa per ciò stesso alla Corte Appello competente ratione ma- teriae. Se così fosse sarebbe infatti anche troppo facile eludere il limite soggettivo ed oggettivo appena visto sotto il profilo della competenza relativamente a cui la Corte d’Appello può essere adìta dal privato.
Dunque, al di fuori delle domande di accertamento del- la nullità delle intese proposte in via principale, che non possono essere azionate avanti alla Corte dai privati, quando la questione implichi un accertamento incidenter tantum essa potrà essere esaminata anche dal giudice competente ratione valoris nell’ambito e al limitato fine di giudicare su una domanda non diretta appunto, prin- cipaliter, a tale declaratoria, bensì solo a valutare gli effet- ti della pattuizione «a valle».
Deve perciò concludersi che il Giudice di pace si sia nel- la specie erroneamente spogliato della controversia radi- cata davanti a lui rimettendola a questa Corte.
Ciò impone di sollevare regolamento di competenza d’ufficio ai sensi degli artt. 45 e 47, quarto comma, Co- dice di procedura civile.
Questa conclusione s’impone nonostante la S. Corte ri- tenga che, siccome a norma dell’art. 38 Codice di proce- dura civile, nel testo introdotto dalla Legge n. 353 del 1990, l’incompetenza per materia o per territorio, nei ca- si previsti dall’art. 28 Codice di procedura civile, deve es- sere eccepita dalla parte o rilevata d’ufficio entro la pri- ma udienza di trattazione, anche il regolamento d’ufficio debba a pena d’inammissibilità immediatamente seguire al rilievo dell’incompetenza, ed essere sollevato nella stessa prima udienza di trattazione, anche a seguito di eventuale riserva assunta in quella sede (v. in ispecie Cass., ord. 5 febbraio 2002, n. 1553).
In relazione a tale criterio interpretativo può ritenersi, in fatto, che la questione nella specie sia stata e venga tem- pestivamente sollevata perché già in prima udienza que- sta Corte ha invitato l’appellante a precisare le sue con- clusioni fissando all’uopo apposita udienza dopo la quale ha trattenuto la causa in decisione esaminando la detta questione.
In diritto, inoltre, paia o meno condivisibile la tesi della
X. Xxxxx in relazione alle ordinarie ipotesi di incompe- tenza, deve ritenersi che essa non possa comunque im- porsi a dispetto e superamento anche di un principio - quello del doppio grado di giudizio di merito - che, an- corché non costituzionalizzato, è e resta pur sempre un principio generale dell’ordinamento, con la conseguen- za che non potrebbe questa Corte, per effetto di un’ipo- tetica preclusione formatasi in prima udienza, privare le parti di un grado di merito decidendo la proposta do- manda come se la Corte stessa fosse stata correttamente adìta ex art. 33, secondo xxxxx, Xxxxx n. 287/1990, pur essendo stata proposta invece una ordinaria domanda soggetta al doppio grado.
Più specificamente deve evidenziarsi che, siccome non è stata demandata a questa corte la cognizione di un’inte-
sa vietata per sancirne l’eventuale nullità, né alcuna azione di risarcimento dei danni consequenziali (che in- fatti non è stata proposta nel procedimento prima inizia- to avanti al giudice di pace, e poi proseguito in questa se- de, essendo stata azionata - come sì è già visto - solo una diversa domanda di ripetizione di indebito), bensì la co- gnizione di una domanda di accertamento della validità del contratto assicurativo «a valle» tra impresa e consu- matore, manca in ogni caso il referente oggettivo sul quale questa Corte potrebbe pronunciarsi ex art. 33 in ragione della sua competenza ratione materiae (sia pure emettendo una eventuale declaratoria di improponibi- lità/inammissibilità della domanda stessa per difetto di legittimazione attiva o passiva).
Ciò che viene in luce non è dunque la sua competenza in abstracto in relazione alla fattispecie delineata dall’art. 33, rispetto alla quale la competenza attribuita alla Cor- te è una «normale» competenza per materia in unico grado (con la conseguenza che la prevista mancanza di un grado di giurisdizione non potrebbe considerarsi pa- tologica, ma la naturale conseguenza di una speciale at- tribuzione di potestà decisoria concorrente con quella dei giudici di primo grado); ma viene invece in luce la sua ipotetica competenza rispetto ad una domanda di ac- certamento di un contratto assicurativo che invece im- plicherebbe anche in abstracto, oltre che in concreto, la competenza dei soli giudici aventi ordinariamente fun- zioni di primo grado, ossia una competenza che presup- pone in modo strutturale ed inderogabile la possibilità del doppio grado del giudizio di merito.
In altri termini, siccome questa Corte non viene adìta sulla base di una domanda di nullità di un’intesa vietata, non è affatto in discussione la sua speciale competenza per materia in unico grado, ma la malintesa associabilità a tale competenza di situazioni del tutto allotrie che nor- malmente implicano invece la competenza di un giudi- ce di primo grado (Giudice di pace o Tribunale) e poi, eventualmente, la competenza del Giudice d’Appello in sede di gravame (e infine della S. Corte di Cassazione in sede di controllo di legittimità).
E rispetto a domande, che ricadono nella sfera del dop- pio grado di giurisdizione, non è concepibile che la man- cata tempestiva rilevazione della questione di incompe- tenza (sotto il profilo della sollevabilità ufficiosa del re- golamento alla prima udienza) precluda la possibilità del rilievo successivo, poiché non può farsi applicazione a tale fattispecie di una disciplina dettata solo ed esclusi- vamente per il diverso caso in cui le questioni di incom- xxxxxxx xxxxxxxxxx il riparto della potestà decisoria se- condo il criterio territoriale, di valore o di materia con- cernente soltanto giudici equiordinati di primo grado. L’incompetenza funzionale (di grado) derivante dall’adi- zione del giudice di secondo grado anziché di un giudice di primo grado non è stata espressamente prevista e di- sciplinata nel codice di rito, nemmeno in sede di novel- lazione, né è assimilabile per le già dette ragioni a quelle testualmente previste e riguardanti i criteri di riparto
della potestà decisoria fra giudici di primo grado equior- dinati, il che autorizza a maggior ragione a concludere che essa non possa essere risolta sulla scorta delle norme disciplinanti le speciali preclusioni in relazione alla rile- vabilità di quelle diverse questioni di competenza, nem- meno in via analogica o estensiva, pena la violazione dell’inderogabile principio del doppio grado di merito, che potrebbe soffrire eccezioni solo espressamente previ- ste dalla legge. Di tale opinione si è peraltro mostrata an- che la più autorevole dottrina e del resto nemmeno la giurisprudenza ha mai dubitato che se la Corte d’Appel- lo fosse erroneamente adìta per la decisione di una causa normalmente appartenente alla competenza per valore o materia di un giudice di primo grado essa possa rileva- re la propria incompetenza funzionale di grado senza li- miti e preclusioni temporali di sorta.
Ne consegue che, essendo stata comunque adìta in rias- sunzione questa Corte non già come giudice dell’impu- gnazione, ma come giudice di primo ed unico grado per una controversia soggetta alla cognizione in due gradi di merito, il regolamento d’ufficio - afferente ad un conflit- to negativo di competenza correlato ad una questione implicante un profilo di incompetenza funzionale (di grado) assolutamente inderogabile - possa essere solleva- to senza preclusione di sorta.
P.Q.M.
La Corte d’Appello di Milano, Prima Sezione Civile, di- sattesa ogni diversa domanda ed eccezione, visti gli artt. 45, 47 e 48 Codice di procedura civile:
1) richiede d’ufficio alla Suprema Corte di Cassazione il regolamento di competenza onde porre fine al conflitto insorto tra questa Corte e il Giudice di pace di Codogno;
2) ordina che il fascicolo d’ufficio del presente procedi- mento - che resterà sospeso ai sensi dell’art. 48 Codice di procedura civile - sia rimesso alla cancelleria della Su- prema Corte di Cassazione;
3) manda la cancelleria in sede per la rituale comunica- zione della presente ordinanza.
IL COMMENTO
di Xxxxxx Xxxxxxxx
L’Autore esamina criticamente la sentenza in epigra- fe che, in difformità da quanto statuito dalla senten- za SS. UU. n. 2207/05, ha riconosciuto la legittima- zione ad esperire l’azione ex art. 33 della Legge n. 287/90 solo in capo agli imprenditori e non anche ad ogni altro soggetto del mercato interessato alla con- correnzialità dello stesso, in primis, il consumatore finale danneggiato da una intesa anticoncorrenziale tra le imprese di settore. Ciò vale sia nel caso in cui sia stata intentata azione risarcitoria, sia nel caso di azione di ripetizione di indebito ex art. 2033 Codice civile.
Il fatto e le questioni
La sentenza in esame ripropone nuovamente il di- battuto tema delle azioni civili del consumatore contro gli illeciti antitrust.
Il giudizio prende le mosse dal processo istauratosi presso il giudice di pace di Codogno ad iniziativa di un cliente di una delle società assicurative sanzionate dal- l’Autorità Antitrust con provvedimento n. 8546 del 28 luglio 2000 alla quale era stata, peraltro, inflitta cospicua sanzione pecuniaria avendo essa partecipato ad un ac- cordo di cartello (1) che aveva avuto come effetto im- mediato e consequenziale l’aumento del costo delle po- lizze ai danni dei contraenti in misura pari al 20% circa del costo totale dei premi versati.
Il contraente assicurato (denominato dalla giuri- sprudenza e dalla dottrina in modo uniforme: consuma- tore) conveniva, quindi, la società assicuratrice per sen- tirla condannare, in relazione al contratto di assicurazio- ne intercorrente tra le parti a partire dal 1995 e rinnova- to annualmente fino al 2001, alla restituzione di una somma pari proprio al 20% del valore dei premi versati, oltre interessi. Tale richiesta era giustificata, deducendo che la società convenuta aveva partecipato, insieme ad altre società di assicurazione al suddetto accordo (rectius: intesa anticoncorrenziale (2)) ritenuto sussistente anche dal Consiglio di Stato (3).
Avendo il giudice di pace adito dichiarato la pro- pria incompetenza, il giudizio veniva riassunto davanti la Corte d’Appello di Milano, la quale è stata chiamata a pronunciarsi sul quesito se domande di tal genere rien- trino nell’ambito di previsione dell’art. 33, secondo comma, della Legge 10 ottobre 1990, n. 287, cioè nella competenza funzionale, ivi sancita, della Corte d’Appel- lo, oppure abbiano, come statuito nel caso di specie dal- la sentenza in commento, una causa petendi estranea alle norme della legge antitrust, tale per cui il giudizio do- vrebbe essere attribuito alla competenza del Giudice di Xxxx.
La pretesa del contraente assicurato di recuperare giudizialmente il maggior costo subito a causa del com- portamento abusivo anticoncorrenziale della società as- sicuratrice è stata tuttavia respinta; si è, infatti, dovuta confrontare e scontrare con gli opposti convincimenti della Corte d’Appello adita, nell’ambito di due questio- ni giuridiche, in effetti, contestate e controverse, che meritano pertanto autonomo approfondimento: 1) quello della legittimazione attiva dei consumatori finali a far valere una tutela risarcitoria nei confronti delle lo- ro controparti contrattuali che, in esecuzione dell’accor- do anticoncorrenziale cui esse avevano partecipato, ave- vano imposto condizioni contrattuali più onerose di quelle che il libero gioco del mercato avrebbe consenti- to; 2) quello dell’inquadramento giuridico della «prete- sa» (4) del consumatore e della conseguente individua- zione della giurisdizione competente a conoscere di una siffatta domanda.
La questione di fondo e la normativa applicabile Il problema alla base della questione è noto. L’evo- luzione dell’attività d’impresa e del mercato economico,
Note:
(1) Complessa ed articolata intesa orizzontale nella forma di pratica con- cordata consistente nello scambio sistematico di informazioni commer- ciali sensibili tra imprese concorrenti, nonché in una pratica concordata di vendita congiunta di polizze CVT ed RCA.
(2) Sul tema vedi X. Xxxx, Concentrazioni e misure ripristinatorie della con- correnza. Aspetti di diritto contrattuale, in questa Rivista, 2003, 514 ss.; A.
M. Azzaro, Intese restrittive della concorrenza e (contr)atti in danno del con- sumatore, in Riv. dir. comm. e dir. gen. obbl., 2003, II, 330 ss; X. Xxxxxxxxx, Nullità «a cascata»? Divieti antitrust e tutela del consumatore, in Danno e re- sp., 2003, 1068 ss.; X. Xxxxxxxxx, Intese restrittive della concorrenza e legit- timazione ad agire del consumatore, ivi, 2003, 1183 s.; S. D’Ecclesiis, Tutela civilistica del consumatore e intese restrittive della concorrenza fra diritto inter- no e diritto comunitario, in Nuova giur. civ. comm., 2004, I, 531 ss.; X. Xxx- xxxxx, A proposito di intese restrittive della concorrenza, in Foro it., 2004, I, 464 ss. Per un quadro più generale delle tematiche strettamente connes- se consulta: AA.VV., Concorrenza e mercato: rassegna degli orientamenti dell’Autorità garante, raccolti da X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxxxx, Xxxxxxx, Milano, 2005.
(3) Le Compagnie di Assicurazione multate avevano impugnato il prov- vedimento dell’Antitrust, dapprima, dinanzi al TAR del Lazio, che con sentenza del 5 luglio 2001, n. 6139, aveva rigettato i ricorsi; successiva- mente davanti lo stesso Cons. di Stato che, con sentenza n. 2199 del 23 aprile 2002, aveva dichiarato la violazione dell’art. 2, secondo comma, della Legge n. 287/90, da parte di 17 Compagnie, tra le quali quella chia- mata in giudizio nel caso di specie dinanzi alla Corte d’Appello di Mila- no.
(4) Il dibattito concernente la figura evocabile: se di responsabilità con- trattuale, in dipendenza della nullità del contratto concluso dall’impresa in attuazione dell’intesa anticoncorrenziale, o se di responsabilità extra- contrattuale, riconnettendosi il danno ingiusto direttamente all’iniziati- va illecita anticoncorrenziale, ha visto da ultimo in efficace ed autorevo- le contrapposizione fra loro X. Xxxxxxxxxx, Antitrust e abuso di responsa- bilità civile, in Danno e resp., 2004, 1165 ss.; e X. Xxxxxxxxx, Ancora sui ri- medi civili conseguenti a violazioni di norme antitrust, ivi, 2004, 933 ss.
che, superando le frontiere nazionali, ha raggiunto di- mensioni europee con la creazione del c.d. mercato uni- co europeo, ha indotto il legislatore nazionale ad adotta- re una precisa regolamentazione attraverso la Legge n. 287 del 1990 (recante «norme per la tutela della con- correnza e del mercato»), con la quale è stata istituita l’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato, tra i cui compiti vi è l’accertamento delle infrazioni alla di- sciplina della legge nonché il potere di irrogare sanzioni amministrative pecuniarie fino al 10% del fatturato rea- lizzato nell’ultimo esercizio chiuso dall’impresa colpita dalla sanzione (art. 15).
All’art. 2 la legge suddetta vieta accordi e/o pratiche commerciali concordate dagli imprenditori che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsa- re in maniera consistente il gioco della concorrenza al- l’interno del «mercato nazionale o in una sua parte».
L’esercizio della concorrenza presuppone l’autono- mia delle imprese concorrenti nell’adozione delle rispet- tive scelte di mercato; ne deriva, pertanto, che rappre- senta un illecito ogni fatto che produca la riduzione di questa autonomia, assimilando o avvicinando i compor- tamenti di mercato all’esecuzione di accordi anteceden- ti che riducono la competizione, predeterminando il prezzo d’acquisto o di vendita di un bene e/o servizio che, in condizioni normali di mercato, dovrebbe formarsi sul- la base dell’incontro tra domanda e offerta. Tali intese sono, perciò, nulle e consentono al soggetto danneggia- to di agire finanzi alla Corte di Appello competente per territorio al fine di ottenere il risarcimento dei danni su- biti (art. 33).
Così esposta, in estrema sintesi, la normativa appli- cabile alla fattispecie oggetto della sentenza in esame, è opportuno adesso verificare se la tutela prevista dalla Legge n. 287/90 ha come destinatari diretti anche i con- sumatori finali ovvero si limita a regolamentare il com- portamento delle imprese, tutelando esclusivamente i soggetti concorrenti, anch’essi imprenditori.
È necessario, perciò, stabilire se il legislatore con la legge sulla «tutela della concorrenza e del mercato» ab- bia voluto assicurare la libertà d’impresa, già costituzio- nalmente garantita ai sensi dell’art. 41 Cost., agli opera- tori economici che subiscono un pregiudizio dalla collu- sione tra imprese concorrenti ovvero abbia mirato a ga- rantire la «correttezza delle contrattazioni» sul libero mercato nell’interesse di tutti i soggetti coinvolti, dun- que anche dei consumatori finali (5).
La legittimazione del contraente-assicurato
Con riguardo alla questione della legittimazione del consumatore-contraente assicurato, la decisione in esa- me non può essere, a giudizio di chi scrive, condivisa. Es- sa, infatti, si pone in contrasto con l’interpretazione for- nita dalla Cassazione con la quasi coeva pronuncia del 2 febbraio 2005, n. 2207 (6) la quale, intervenendo in se- de di composizione del contrasto di giurisprudenza ma- nifestatosi in materia, ha riconosciuto la legittimazione
attiva all’esercizio dell’azione prevista dall’art. 33 della Legge n. 287/90, non solo agli imprenditori ma anche agli altri soggetti del mercato che abbiano interesse alla conservazione del suo carattere competitivo, quindi, an- che al consumatore finale, contraente debole (7) che su- bisce danno da una contrattazione che non ammette al- ternative per effetto di una collusione tra gli imprendito- ri del settore, ancorché egli non sia partecipe del rappor- to di concorrenza con gli autori della collusione.
A ben vedere, difatti, l’intesa restrittiva crea una distorsione del mercato, agevolando talune imprese (quelle che partecipano al c.d. cartello) e non consen- tendo ad altre imprese (quelle escluse dall’intesa) di competere liberamente. L’accordo ha così l’evidente fi- nalità di impedire a quest’ultime di generare profitto, ri- ducendo sensibilmente la loro presenza su un determi- nato mercato di beni e/o servizi; tale per cui le imprese danneggiate sono certamente (8) legittimate a ricorrere all’autorità giudiziaria qualora intendano essere ristora- te del pregiudizio subito per effetto dell’intesa realizzata da altri concorrenti.
Tuttavia, se è vero (9) che il codice civile del 1942 non si è minimamente posto la questione dell’eventuale legittimazione ad agire in capo al cliente-consumatore (si pensi alla collocazione dell’art. 2598 Codice civile, in tema di «concorrenza sleale» (10), inserito nel titolo X, sulla disciplina della concorrenza e dei consorzi, all’in-
Note:
(5) Sull’accesso alla giustizia dei consumatori in dottrina AA.VV., Con- sumatori e processo. La tutela degli interessi collettivi dei consumatori, a cura di Xxxxxxxxx e Xxxxxx, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2005; X. Xxxxxxxxx, La tutela col- lettiva dei consumatori in materia contrattuale, in AA.VV., I contratti dei con- sumatori, a cura di X. Xxxxxxxxx ed X. Xxxxxxxxx, Utet, Torino, 2005, 427 ss.; X. Xxxxxxx, Sull’accesso alla giustizia dei consumatori, in Contr. e impre- sa, 2000, 680 ss.; X. Xxxxxxx, L’accesso alla giustizia e la tutela collettiva dei consumatori, in AA.VV., Il diritto privato dell’Unione Europea, a cura di X. Xxxxxxx, in Tratt. dir. priv., diretto da X. Xxxxxxx, vol. XXVI, II, Utet, To- rino, 2000, 1331 ss.
(6) Per un corretto inquadramento dei principi sanciti dalla sentenza ve- di X. Xxxxxxxx, Responsabilità extracontrattuale per violazione di norme anti- trust, in Danno e resp., 2005, 506 ss. (in commento adesivo alla sentenza); e di recente amplius X. Xxxxxx, Nullità delle intese anticoncorrenziali ed ef- fetti sui contratti a valle, in Quaderni e Tesi di dottorato, in www.scuoladotto- xxxxxxxxxxxxx.xx.
(7) Cfr. X. Xxxxxxxx, Nozione di consumatore e modelli economici, in AA.VV., Diritto dei consumatori e nuove tecnologie, a cura dello stesso X. Xxxxxxxx, I, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2003, 25 ss.; T. S. Xxxxxxxxx, X. X. Xxxxxxxxxx (ed. by), Handbook of consumer behavior, Englewood Cliffs, 1991; I. Xxxxxxxx, X. Xxxxxx, X. Xxxx, X. Xxxxxx, S. M. Xxxxxx, Con- sumer research: in search of identity, in 52 Annual Rev. Of Psychology (2001), 249 ss.
(8) Cfr., in una prospettiva anche comparatistica, a supporto di quanto affermato, X. Xxxxxx, La disciplina antitrust ed il risarcimento dei danni nella giurisprudenza americana e in quella italiana, in Il diritto comunitario e degli scambi internazionali, 2003, 79 ss.
(9) Cfr. in tal senso le osservazioni del Cons. di Stato nel parere reso dal- la sez. consultiva per gli atti normativi, adunanza 20 dicembre 2004, n. 11602/04, in Foro it., 2005, III, 348 ss. (sub 7).
(10) Sul tema, per tutti, in un’ottica assai attenta agli interessi dei consu- matori, X. Xxxxxxx, La concorrenza sleale, Utet, Torino, III ed.
terno del Libro V dedicato al lavoro) (11); la tutela di quest’ultimo ha ricevuto adeguato riconoscimento nel- l’ultimo decennio con una serie di provvedimenti legi- slativi, di derivazione comunitaria, culminati con l’ado- zione da parte del legislatore nazionale del Codice del consumo (12) dedicato, per l’appunto, alla tutela del consumatore ed all’atto di consumo in pressoché tutte le sue «manifestazioni» (13).
Ciò che in questa sede preme sottolineare è che se ancora alla fine degli anni ottanta, la legittimazione ad agire del consumatore non sembra (14) essere stata pre- sa nella debita considerazione, la sensibilità giuridica sul punto comincia a mutare proprio con la emanazione della disciplina contenuta nella Legge n. 287/90; que- st’ultima, pur non destinando alcuna norma specifica al- la tutela diretta del consumatore, a fronte dell’art. 81, n. 3, del Trattato CE, all’art. 4 consente «di accettare inte- se restrittive della concorrenza a condizione che generi- no un maggiore surplus di cui una fair share pervenga ai consumatori» (15).
Anzi a livello di Antitrust nazionale ed europeo, og- gi, si può affermare che: «il criterio prevalente di valuta- zione sembra essere il benessere dei consumatori» (16).
A ben vedere anche l’art. 2 della Legge n. 287/90, nel definire le intese restrittive, si riferisce espressamen- te a quegli accordi che hanno per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza, così sottolineando che il bene tutelato non è solo il diritto al libero (e non falsato) eser- cizio dell’attività d’impresa da parte di un singolo opera- tore economico, ma il mercato inteso come luogo nel quale si incontrano, da un lato, coloro che intendono of- frire beni e/o servizi e, dall’altro, coloro che intendono acquistare quei beni e quei servizi, estendendo così la tu- tela a tutti questi soggetti e, quindi, anche ai consuma- tori finali (17).
Tuttavia, di recente, la Cassazione (9 dicembre 2002, n. 17475) (18) chiamata ad esprimersi sul punto aveva escluso l’accesso allo strumento risarcitorio di cui all’art. 33 della Legge n. 287/90, sulla base della caratte- rizzazione tecnico-giuridica degli istituti in essa delinea- ti, considerati alla stregua di istituti inseriti nella disci- plina del rapporto tra imprenditori, ritenendo che «lo strumento risarcitorio, connesso alla violazione dei di- vieti di intese restrittive della libertà della concorrenza, e di abuso di posizione dominante, in essa normativa fis- sati rispettivamente agli artt. 2 e 3, e contemplato dal- l’art. 33 ed in quella sede rimesso, per la sua cognizione, alla competenza esclusiva della Corte di Appello, in un unico grado di giudizio di merito, non è aperto, in quan- to tale, alla legittimazione attiva dei singoli c.d. consu- matori finali (19).
La sentenza in commento, rifacendosi proprio a quanto statuito dalla giurisprudenza di legittimità nella sentenza n. 17475 del 2002 citata, con argomenti che a chi scrive non appaiono condivisibili, non ritiene pro- ponibili, nel caso di specie, da parte dei contraenti-con-
xxxxxxxx, né l’azione di nullità (20) né lo strumento ri- sarcitorio connesso alla violazione dei divieti di intese restrittive della libertà di concorrenza, rimessi, come è bene ribadire, ai sensi dell’art. 33 di tale normativa, pro- prio alla competenza esclusiva della Corte d’Appello.
L’interpretazione proposta dalla sentenza n. 17475 del 2002 fatta propria nella decisione in esame, privile- gia, infatti, nell’impianto complessivo della Legge n. 287/90, la «prospettiva dell’impresa» (21) quale attore principale del dinamismo del mercato anche con riferi- mento, quindi, agli strumenti sanzionatori dei divieti di cui all’art. 2, così come delineati dall’art. 33.
È in tale ottica che con riguardo ad una azione vol-
Note:
(11) Contra X. Xxxxxxxxx, I principi della correttezza professionale nella disci- plina della concorrenza sleale, in Studi in onere di X. Xxxxxx La Rosa, Xxxxxxx, Milano, 1999, I, 575 s.; secondo il quale anche nella disciplina della con- correnza sleale «il criterio fondante di valutazione della liceità dei com- portamenti imprenditoriali sia oggi costituito dall’interesse collettivo al buon funzionamento del mercato e quindi, anche qui, dalla tutela del consumatore».
(12) D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, in G.U., 8 ottobre 2005.
(13) Cfr. X. Xxxx, Il Codice del Consumo, in questa Rivista, 2005, 1047 ss.;
X. Xx Xxxxxxxxxx, Il «Codice del consumo»: un’occasione perduta?, in Stu- dium juris, 2005, 1137; X. Xxxxxx, Anche in Italia un codice del consumo, in Contr. e impresa/Europa, 2003, 1349 ss.; X. Xxxxxxx, Il Codice del Consumo ed esprit de geometrie, in questa Rivista, 2006, 159; AA.VV., Commentario al Codice del Consumo, a cura di X. Xxxx e X. Xxxxx Xxxxxx, XXX, Napoli, 2005; E. M. Xxxxxxx - C. Belli, Codice del consumo. Commento al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, Xxxxxxxx, 2005; M. Dona, Il codice del consumo: re- gole e significati, Giapprichelli, Torino.
(14) Per una autorevole analisi del dibattito, sotto diverse luci: X. Xxxxx- se, Lo spazio giuridico globale, Xxxxxxx, Xxxx, 0000; X. Xxxxxxx, Consumatori e mercato, in Riv. dir. comm., 2004, II, 330 ss.
(15) Come posto in evidenza quasi testualmente da X. Xxxxxxxxx, Le azio- ni civili del consumatore contro gli illeciti antitrust, in Corr. giur., 2005, 1095, quest’orientamento ha trovato di recente conferma nella Comunicazione della Commissione CE intitolata «Una politica della concorrenza proat- tiva per un’Europa competitiva» [COM (2004) 293 del 20 aprile 2004] che pone, fra gli obiettivi centrali dell’ordinamento comunitario, «la mi- gliore integrazione degli interessi dei consumatori nel dispositivo di rego- lamentazione della concorrenza».
(16) X. Xxxxx, Regole dell’efficienza e politica antitrust, in Liuc Papers, n. 48,
Serie Economia e impresa, 12, 1997, 7.
(17) Cfr. C. Poncibò, Il consumatore e la violazione della normativa antitrust, in Riv. critica dir. priv., 2003, 501 ss.
(18) In Danno e resp., 2003, 390 ss. con nota di X. Xxxxxxxxx, Antitrust e tutela civilistica: anno zero.
(19) X. Xxxx. 0 dicembre 2002, n. 17475. In tal senso X. Xxxxxxxxxx, Re- sponsabilità civile antitrust: balocchi e profumi, in Danno e resp., 2004, 1165, secondo il quale «la responsabilità civile, di cui pure è parola nella legge (art. 33, secondo comma), può riguardare soltanto i soggetti ai quali la di- sciplina così individuata fa riferimento e perciò in linea di massima non i consumatori ma le imprese, soggetti d’elezione della disciplina della con- correnza».
(20) Per un diverso orientamento amplius cfr. X. Xxxxxxx, Le invalidità, in I contratti in generale, a cura di X. Xxxxxxxxx, Utet, Torino, 1999, II, 1255; X. Xxxxxxxxx, Capacity and Capability in European Contract Law, in European Review of Private Law, 2005, 491 ss.
(21) Cfr. I. Xxxxx, La tutela civile antitrust dopo la sentenza n. 2207/05: la Cassazione alla ricerca di una difficile armonia nell’assetto dei rimedi del diritto alla concorrenza, in Corr. giur., 2005, 342 ss.
ta a conseguire una dichiarazione giudiziale di «nullità delle intese» per violazione della normativa antitrust non sarebbe configurabile (22), per l’intrinseca impossi- bilità di farne conseguire «un qualsiasi diretto riflesso»
(23) (data la strutturazione di per se stessa meramente obbligatoria delle intese), un qualsivoglia interesse meri- tevole di tutela in capo a soggetti che non siano essi stes- si partecipi di quello stesso livello operativo, rivestendo, invece, la mera veste di consumatori finali.
Secondo tale concezione (24), infatti, le intese so- no concluse, in quanto tali, esclusivamente in funzione di chi, per l’appunto le imprese, le possa concludere, e le abbia nel concreto concluse; e il ruolo del consumatore finale nel mercato è chiamato ad esaurirsi nella solleci- tazione dell’esercizio dei loro poteri da parte degli organi individuati dalla stessa legge antitrust, e quindi in un’ot- tica che qui pare opportuno qualificare come «mera- mente pubblicistica» (25).
Tuttavia, quanto statuito dalla Cassazione con la sentenza n. 17475 del 2002, non equivale (26) - come invece pare intendere la Corte d’Xxxxxxx nella decisio- ne in esame - a postulare, di fatto, l’irrisarcibilità assolu- ta di qualsiasi ricaduta sul consumatore delle intese vie- tate dal legislatore tramite la legge antitrust nazionale. Ciò emerge con maggiore evidenza, soprattutto, laddove si tenga conto che la Cassazione con la successiva pro- nuncia 11 giugno 2003, n. 9384, ha più chiaramente e radicalmente escluso che dalla declaratoria di nullità di una intesa tra imprese per lesione della libera concor- renza, emessa dalla Autorità Antitrust ai sensi dell’art. 2, Legge n. 287/90, possa discendere (27) automaticamen- te la nullità di tutti i contratti posti in essere dalle im- prese aderenti all’intesa, precisando però che i contratti stipulati dai consumatori sulla base di condizioni e prez- zi falsati dall’intesa restrittiva della concorrenza, in as- senza di una espressa previsione che li sanzioni con l’in- validità, rimarranno validi ed efficaci, lasciando, in ogni caso, al contraente «debole», la possibilità di esperire l’a- zione risarcitoria nei confronti delle imprese.
Il ragionamento della Corte d’Appello, invece, per- viene, sulla base delle medesime premesse argomentati- ve (28), alla conclusione di ritenere conseguentemente che, nelle controversie di danno tra assicurati e imprese d’assicurazione, la propria competenza debba negarsi sia perché il consumatore finale non è annoverabile tra i soggetti direttamente tutelati dalla disciplina antitrust e quindi legittimati attivamente in relazione all’azione ex art. 33, secondo comma, sia, comunque, perché il fatto costitutivo della pretesa di xxxxxxxx deve individuarsi nell’aumento ingiustificato del premio assicurativo, e non direttamente nell’intesa anticoncorrenziale consi- derata illegittima. In questa prospettiva il danno consi- derato dalla disposizione di cui all’art. 33, secondo com- ma, che dà luogo ad un’azione di competenza della Cor- te d’Appello, è appunto solo quello originato dall’intesa vietata e non dalla singola pattuizione contrattuale «a valle» (29).
Sulla base di una diversa impostazione, supportata dalla citata sentenza del 2 febbraio, 2005, n. 2207 in
Note:
(22) In tal senso vedi X. Xxxxxx, Struttura concorrenziale del mercato e tute- la dei consumatori. Una relazione ancora da esplorare, in Foro it., 2004, I, 479; X. Xxxxxxxxxx, Antitrust e abuso di responsabilità civile, cit., 469.
(23) Sulle ben note difficoltà di accertamento della sussistenza del nesso causale fra l’illecito antitrust e il danno subito dal consumatore finale vedi
X. Xxxxxxxxxx, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazio- ne della normativa antitrust, Xxxxxxx, Milano, 1996; ed ora l’ampia tratta- zione di X. Xxxxxxxx, Il risarcimento del danno da illecito concorrenziale, XXX, Xxxxxx, 0000.
(24) Ha sostenuto la tesi della estraneità degli interessi dei consumatori alla funzione delle norme antitrust, e quindi l’estraneità dell’eventuale le- sione di tali interessi all’ambito della norma violata: X. Xxxxxxxx, L’illeci- to antitrust degli assicuratori, le azioni degli assicurati ed una questione di com- petenza risolta dalle Sezioni Unite, in Resp. civ. e prev., 2005, 440; da ultimo, nell’ambito di una lettura critica della sentenza n. 2207 del 2005 C. Ca- stronovo, Sezioni più unite che antitrust, in Europa e diritto privato, 2005, 444 ss.
(25) Tale orientamento (per un più ampio quadro delle tematiche con- nesse vedi X. Xxxxxxx, La nuova costituzione economica, Laterza, Roma-Ba- ri, 2004) interpreta la legge antitrust alla stregua di uno strumento di tute- la della democrazia contro i poteri economici; lettura che si basa su una concezione delle funzioni della disciplina antitrust vista come una disci- plina di tutela delle piccole imprese contro le grandi; a tale concezione og- gi, pur nella sempre vivace attualità delle ragioni originarie, chiaramente si aprono nuovi e più vasti orizzonti.
(26) Vedi X. Xxxxxxxxxx, Responsabilità civile antitrust: balocchi e profumi, cit., secondo il quale negare ai consumatori l’esercizio di un’azione di ri- sarcimento extracontrattuale dei danni subiti in conseguenza di un con- tratto stipulato in conformità con una intesa antitrust «non significa as- senza di tutela per il consumatore danneggiato»; l’Autore individua, piut- tosto, «una forma di tutela alternativa, fondata sul contratto e perciò già ictu oculi più prossima sul piano della forma giuridica alla realtà che si trat- ta di disciplinare: il contratto stipulato dal consumatore con una impresa che mediante il contratto medesimo dà attuazione a una intesa vietata de- ve considerarsi nullo e dà adito alla tutela dall’ordinamento prevista in esito alla nullità».
(27) In modo significativo Cass. n. 2207 del 2005 sostiene che «il con- tratto «a valle» costituisce lo sbocco dell’intesa, essenziale a realizzarne gli effetti», per cui l’illecito antitrust comprende non solo la conclusione del- l’intesa, ma anche i singoli momenti attuativi della stessa.
(28) Fra le autorevoli osservazioni critiche sull’interpretazione della re- cente sentenza di Cassazione n. 17475 del 2002, in proposito vedi F. Fer- ro-Xxxxx, Prolegomeni in tema di mercato concorrenziale e «aurea aequitas» (ovvero delle convergenze parallele), in Foro it., 2004, I, 475 ss.; A. Guarne- ri, Il cartello degli assicuratori è fonte di danno per gli assicurati?, in Resp. civ. e prev., 2003, 365 ss.; M. R. Xxxxxxx, Xxxxx tutela di chi conclude un contratto con un’impresa che partecipa ad un’intesa vietata, in Riv. dir. comm. e dir. gen. obbl., 2003, II, 347 ss.; X. Xxxxxxxx, Intese restrittive della concorrenza e azio- ni risarcitorie del consumatore finale: argomentazioni «extravagantes» per un illecito inconsistente, in Foro it., 2003, I, 1122 ss.
(29) Contra lo stesso Cons. di Stato, confermando la tesi sostenuta dal- l’Autorità Antitrust, secondo cui se la dinamica delle tariffe per la RCA fosse stata (negli anni dal 1994 al 1998) in linea con quella europea, i consumatori avrebbero risparmiato circa il 20% dei premi versati; e che tale dato di fatto aveva procurato alle Compagnie Assicurative un ingiu- sto profitto con conseguente danno economico per tutti gli assicurati, consistente in un aumento illecito delle tariffe delle polizze assicurative RCA, ha ritenuto che: l’aumento illecito del premio assicurativo poteva essere valutato e quantificato presuntivamente, anche in forza dell’ingen- te importo della sanzione amministrativa pecuniaria comminata alle pre- dette società assicurative, nella misura del 20% del costo totale dei premi di polizza assicurativa versati da ciascuno degli assicurati nel periodo 1994-1998.
xxxxxx contrapposizione quindi con quanto ritenuto dal- la citata sentenza n. 17475 del 2002, gli interessi tutela- ti dalla disciplina della concorrenza, invece, riguardano tutti i soggetti coinvolti nel funzionamento del mercato, compresi proprio gli utilizzatori finali (30).
In tale visione (31) la Legge n. 287/90 non si limi- terebbe ad essere la legge soltanto degli imprenditori, ma sarebbe, appunto la legge di tutti i soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente ri- levante, alla conservazione del «carattere competitivo del mercato» (32), al punto da poter allegare uno speci- fico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminu- zione di tale carattere (33).
La disciplina di cui al combinato disposto degli artt. 2 e 33 della Legge n. 287/90 consente, quindi, di tutela- re anche i clienti i quali, sebbene non abbiano un inte- resse economico concorrente con quello degli autori del- l’accordo restrittivo, possono subire comunque un pre- giudizio economico (34) meritevole di tutela specifica da parte dell’ordinamento giuridico.
Tale principio deve ritenersi (35) operante sia quando sia stata spiegata azione risarcitoria, sia quando sia stata proposta azione restitutoria ex art. 2033 Codice civile, poiché il soggetto, che chiede la restituzione di ciò che ritiene aver pagato per effetto di un’intesa dichiara- ta nulla, «allega pur sempre quest’ultima nonché l’im- possibilità giuridica che essa produca effetti» (36).
La fondatezza di tale conclusione è ancora più evi- dente se si consideri la configurabilità, nella stessa pro- spettazione della domanda, non già di un indebito ma di un illecito, derivante dalla violazione del diritto indivi- duale a stipulare il contratto (di cui oltre tutto non è stata richiesta la nullità) in regime di libera concorrenza (37).
Ecco, perciò, che in merito alla questione del risar- cimento del danno patrimoniale arrecato al consumato- re dal proprio assicuratore, in quanto coautore di un ille- cito antitrust, la decisione della Cassazione del 3 febbraio 2005, n. 2207 si fonda su un iter logico-argomentativo, differente e contrapposto rispetto a quello seguito nella decisione in commento, che peraltro può dirsi condiviso dalla prevalente dottrina (38) (alla quale aderisce anche l’estensore della presente nota) e che si basa: da un lato sulla considerazione che le intese restrittive della con- correnza, violando una norma di condotta espressamen- te prevista dalla legge (art. 2, Legge n. 287/90) sono atti illeciti e costituiscono quindi, in linea generale e astrat- ta, fatti produttivi di danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 Codice civile; dall’altro sull’opinione, ampiamente dibattuta, che fra i soggetti titolari del diritto al risarci- mento possono esservi, in linea di principio, anche i consumatori finali «in quanto i loro interessi sono diret- tamente tutelati dalle norme antitrust» (39).
Qualificazione giuridica della pretesa del consumatore
In merito alla seconda questione, ovvero con ri- guardo all’inquadramento giuridico dell’azione proposta
Note:
(30) «La funzione illecita dell’intesa antitrust, rispetto all’interesse del consumatore, sta proprio nel lederne il «diritto di scelta effettiva fra pro- dotti in concorrenza»»; così X. Xxxxxxxxx, Le azioni civili del consumatore contro gli illeciti antitrust, cit., 1096; cfr. X. Xxxxxxx, Antitrust: leggi mono- polistiche e tutela dei consumatori nella CEE e negli USA, Il Mulino, Bolo- gna, 1988.
(31) Vedi X. Xxxxxxxx, Responsabilità extracontrattuale per violazione di nor- me antitrust, cit., 506, secondo il quale la Legge 287/90 «ha invece un re- spiro più vasto; regola la struttura e la logica competitiva del mercato, sancendo l’illiceità dei fatti che comunque riducono la (astratta) autono- mia operativa delle imprese. Ne conseguirebbe «plurioffensività» del comportamento vietato… incidendo negativamente sulle situazioni giu- ridiche… nei confronti del soggetto concorrente, di cui comprime abusi- vamente la capacità concorrenziale, … nei confronti del consumatore- cliente, anch’egli «soggetto del mercato», impedito nel suo diritto ad una scelta efficace in una situazione di concorrenza effettiva (e non altera- ta)».
(32) È proprio il «corretto funzionamento della concorrenza ciò che fa sì che la collettività dei consumatori abbia voce decisiva nel determinare la produzione e la più efficiente allocazione delle risorse nel sistema produt- tivo»; così X. Xxxxxxxx, Antirust e risarcimento del danno, cit., 501. Cfr. tra gli esponenti del pensiero politico ed economico X. Xxxxx, Il potere e l’antitrust: il dilemma della democrazia liberale nella storia del mercato, Il Mu- lino, Bologna, 1998.
(33) Per la sussistenza di un rapporto di causalità tra le intese illecite del- le compagnie assicurative e l’aumento del costo delle polizze è necessa- rio che, tra l’antecedente ed il dato consequenziale, sussista un rapporto di sequenza costante, secondo un calcolo di regolarità statistica, per cui l’evento appaia come conseguenza normale dell’antecedente (Cass. 20 dicembre 1986, n. 7801, in Riv. lav., 1987, II, 229). Nel caso di specie l’AGCM ha accertato che «si sarebbe registrato in 5 anni e mezzo, un sostanziale raddoppio del premio medio pagato dagli assicurati»; che
«l’aumento dei prezzi si è realizzato in un settore caratterizzato da una elasticità della domanda di mercato molto rigida, essendo tale assicura- zione obbligatoria. In altri termini, a fronte di un aumento generalizzato dei premi, l’unico strumento a disposizione dell’utente finale è la rinun- cia all’utilizzo del veicolo». Tali elementi dimostrano in maniera inequi- vocabile la riconducibilità in termini di normalità e di verosimiglianza dell’aumento del costo della polizza all’accordo illecito sanzionato dal- l’Antitrust.
(34) In tal senso v. App. Napoli 3 maggio 2005, n. 1310, inedita, secon- do la quale l’illecito comportamento della compagnia assicurativa «ha si- curamente cagionato» al contraente-consumatore «un danno, consisten- te nella differenza tra la somma pagata per la polizza assicurativa ed il prezzo senza l’alterazione derivante dalle intese illecite, che hanno falsa- to in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mer- cato ed hanno comportato la sostituzione del diritto del consumatore di scelta effettiva tra prodotti in concorrenza, con una scelta apparente».
(35) Ritiene «probabilmente eccessiva» l’esclusione dei consumatori fi- nali dalla cerchia dei destinatari della tutela approntata dalla legge anti- trust, X. Xxxxxxx, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italia- no, a cura di X. Xxxxxxx et al., II, Zanichelli, Bologna, 1993, 1456. Anche Cl. Scognamiglio, Prospettive europee della responsabilità civile e discipline del mercato, in Europa e dir. priv., 2000, 349 s., ritiene che la posizione dei consumatori possa reputarsi resa rilevante dalla disciplina in questione, intesa come luogo di una norma di protezione che, alla maniera del § 823, secondo comma, BGB, in quanto violata, renderebbe risarcibile il danno subito.
(36) Cfr. SS.UU. n. 2207 del 2005, cit., in motivazione.
(37) Così Xxxx. 20 luglio 2005, n. 15270 (inedita).
(38) Da ultimo X. Xxxxxxxxx, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), in Danno resp., 2005, 237 ss.; X. Xxxxxxxx, Abuso da intesa an- ticoncorrenziale e legittimazione aquiliana del consumatore per lesione della li- bertà negoziale, ivi, 2005, 498 ss.
(39) Così pressoché testualmente X. Xxxxxxxxx, Le azioni civili del consu- matore contro gli illeciti antitrust, cit., 1093.
dal consumatore e della competenza giurisdizionale, per rispondere al quesito proposto dall’attore, la Corte d’Ap- pello, circa la pretesa «responsabilità da indebito» a ca- rico della convenuta, ha applicato il classico principio secondo il quale la competenza si determina sulla base della domanda così come prospettata. Tale principio però, tradizionalmente, va temperato nel senso che «la determinazione della competenza va compiuta con rife- rimento al contenuto sostanziale della domanda (petitum e causa petendi) che il giudice può liberamente qualifica- re sotto l’aspetto giuridico, senza essere vincolato all’e- sposizione dell’attore» (40), senza vincolarsi, in altri ter- mini, al nomen juris utilizzato dall’attore (41).
Peraltro, ciò che conta (42) per il thema decidendum è che l’attore, qualificandosi come consumatore di un certo bene e/o servizio, deduca, come fatto lesivo del proprio interesse economico, per cui ritiene di potere esperire un rimedio civile restitutorio (43), un’intesa re- strittiva della concorrenza (un cartello), di cui il proprio assicuratore sia stato parte.
Su questa base, compito del giudice è decidere se la domanda del consumatore, così come prospettata, possa astrattamente inquadrarsi, relativamente a questo aspet- to, fra quelle cui si riferisce l’art. 33.
La risposta della Corte d’Appello di Milano, rite- nendo che la richiesta restitutoria del consumatore non rientri tra quelle previste dall’art. 33, è però, anche sotto questo aspetto, nettamente difforme dalla posizione del- la Cassazione secondo la quale la domanda, purché assu- ma come fatto lesivo del proprio interesse un’intesa re- strittiva della concorrenza, rientra astrattamente fra le azioni contemplate dall’art. 33, Legge n. 287/90.
La decisione in commento, peraltro, trova fonda- mento sul fatto che nel caso di specie non è stata neppu- re azionata un’azione risarcitoria, ma solo una semplice azione di ripetizione da indebito non necessariamente implicante (44), secondo la Corte, una dichiarazione di nullità del contratto assicurativo strettamente dipen- dente dall’invalidità delle intese anticoncorrenziali po- ste a «monte» (45).
Secondo la decisione in esame, inoltre, non sarebbe possibile in alcun modo ritenere che, a dispetto dello specifico inquadramento della pretesa attorea, quando si invochi in via meramente incidentale l’accertamento della nullità dell’accordo anticoncorrenziale per poterse- ne far derivare la nullità di contratti posti «a valle», la causa debba essere rimessa per ciò stesso alla Corte Ap- pello competente ratione materiae.
In quest’ottica, dunque, al di fuori delle domande di accertamento della nullità delle intese proposte in via principale (che secondo l’iter argomentantivo seguito dalla Corte d’Appello di Milano, non possono essere azionate avanti alla Corte d’Appello dai privati) quando la questione implichi un accertamento incidenter tantum, essa potrà essere esaminata anche dal giudice competen- te ratione valoris nell’ambito e al limitato fine di giudica- re su una domanda non diretta appunto, principaliter, a
tale declaratoria, bensì solo a valutare gli effetti della pattuizione «a valle» (46).
Come osservato dalla sentenza n. 2207 del 2005, peraltro, la domanda di rimborso configura un’azione di risarcimento del danno (47). Infatti, sebbene la richiesta abbia ad oggetto la ripetizione di parte del corrispettivo versato non ricorrerebbe una fattispecie di indebito og- gettivo ai sensi dell’art. 2033 Codice civile (secondo cui
«chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato»). La condotta dell’accipiens (nel caso di specie la società assicuratrice), infatti, avreb- be natura dolosa, o quantomeno colposa, costituendo così, come espressamente previsto dall’art. 33 della legge Antitrust, un fatto illecito ex art. 2043 Codice civile.
L’applicazione della disciplina sulle intese restrittive anche nel rapporto a valle tra impresa e cliente determi-
Note:
(40) Così, per tutti, X. Xxxxxxx, in Codice di procedura civile commentato, a cura di X. Xxxxxxxxxx e X. Xxxxx, Utet, Torino, 1997, I, 131.
(41) Xxx. Xxxx. Xxxxxx 00 ottobre 1994, in Gius, 1995, 165; Cass. 9 giu- gno 1983, n. 3948, in Giust. civ., 1983, I, 2625.
(42) Per significativi rilievi di ordine processuale, in senso critico, vedi X. Xxxxx, Il lento cammino della tutela civile antitrust: luci ed ombre di un atteso grand arrét, in Corr. giur., 2005, 346.
(43) Cfr. sul punto anche X. Xxxxxxxxx, Xxxxxxxx e contratti dei consumatori: da Xxxxxxx a Xxxxxxx?, in Foro it., 2004, I, 473.
(44) X. Xxx. Xxxxxx 0 maggio 2005, n. 1310, cit., secondo la quale «un automobilista, che, in sede di stipulazione della polizza di assicurazione RCA, dimostri di aver ingiustamente pagato un sovrapprezzo per effetto di una illecita intesa restrittiva della concorrenza fra le compagnie assicu- ratrici, è legittimato ad esperire davanti alla Corte d’Appello l’azione di nullità e di risarcimento del danno previste dall’art. 33 della Legge n. 287/90. Né è esperibile l’azione ex art. 2033 Codice civile, poiché una parte che chiede dichiararsi la nullità di una intesa, allega un fatto illeci- to nella cui struttura vi è l’elemento psicologico del dolo o della colpa, non integrante l’indebito oggettivo; pertanto, quale che sia la forma del- la domanda di ripristino della situazione patrimoniale che si assume lesa, essa prescinde dalla fattispecie di indebito ex art. 2033 Codice civile».
(45) La sentenza afferma che la parte contraente chiedendo la ripetizio- ne del prezzo «ingiustamente» pagato, allega un fatto illecito nella cui struttura vi è l’elemento psicologico del dolo e della colpa. In tale situa- zione, tipica delle vicende giudiziarie di questi ultimi anni, le circostanze di fatto poste a fondamento della domanda originaria e il petitum sono so- stanzialmente identici, quale che sia la formulazione usata dall’attore.
«Ricorrono dunque le condizioni che consentono al giudice di qualifica- re la domanda in modo diverso da come è stata qualificata dall’attore»; v.
X. Xxxxxxxxx, Le azioni civili del consumatore contro gli illeciti antitrust, cit., 1098; nella giurisprudenza recente cfr. Cass. 12 febbraio 2004, n. 2699, in Guida al diritto, 2004, 13, 52; Id., 29 aprile 2004, n. 8225, ivi, 2004, 25, 64.
(46) Sul punto, già il Governo era intervenuto con il D.L. n. 18 del 2003.
c.d. «decreto salvacompagnie», modificando l’art. 113, secondo comma, Codice di procedura civile, e sottraendo al Giudice di Xxxx la potestà a decidere secondo equità in ordine a tutti contratti che vengono stipulati su modelli prestampati, così cercando di arginare la numerosissima mole di citazioni nei confronti delle compagnie per vedersi restituire le somme versate in eccesso rispetto a quanto effettivamente si sarebbe dovuto pa- gare.
(47) «La motivazione della sentenza [n. 2207 del 2005] sembra, però, an- dare oltre, e sostenere che l’eventuale domanda di ripetizione parziale del prezzo pagato dalla vittima del cartello debba essere, in ogni caso, riquali- ficata dal giudice come domanda di risarcimento»; così X. Xxxxxxxxx, Le azioni civili del consumatore contro gli illeciti antitrust, cit., 1098.
na, pertanto, l’incompetenza del Giudice di Xxxx a deci- dere della controversia; tal per cui dovrà essere adita, co- me correttamente avvenuto nel caso in esame, la Corte d’Appello territorialmente competente ai sensi dell’art. 33, al fine di ottenere il rimborso del maggior prezzo pa- gato alla società assicuratrice previo accertamento inci- denter tantum della nullità dell’intesa tra quest’ultima e le altre compagnie assicurative.
Si tratterebbe quindi di una competenza speciale ratione materiae che non deroga alle regole sulla compe- tenza territoriale sulla base del foro generale delle perso- ne (fisiche o giuridiche) di cui agli artt. 18 e 19 Codice di procedura civile e del foro facoltativo per le cause re- lative a diritti di obbligazione ex art. 20 Codice di proce- dura civile.
Al fine di dimostrare l’illecita condotta della società assicuratrice convenuta bene farà, comunque, l’attore ad allegare il provvedimento sanzionatorio emanato dal- l’AGCM.
Il rimedio della «nullità di protezione»
Nel nostro ordinamento, tuttavia, la violazione del principio fondamentale del «neminem ledere» viene san- zionata mediante l’obbligo risarcitorio. Va quindi stabili- to se nel caso di specie sia ravvisabile la violazione del suddetto principio.
Sotto il profilo oggettivo, va puntualizzato il grave comportamento commissivo, già messo in evidenza, del- le imprese assicuratrici al fine di conseguire la maggiora- zione ed il livellamento dei premi in un campo in cui il consumatore/utente ha l’obbligo legale di contrarre. Ta- le comportamento, come sopra argomentato, ha causato un danno, che va qualificato come xxxxxxxx, poiché le intese poste in essere dalle imprese assicuratrici hanno violato l’art. 2 della Legge n. 287/90; il comportamento commissivo e il danno ingiusto sono, peraltro, collegati da un evidente nesso di causalità (48).
Nel caso in esame l’aumento del prezzo gravato sul consumatore/utente è derivato direttamente ed esclusi- vamente (49) dall’illecita intesa che ha alterato la libera concorrenza violando l’art. 2 della Legge n. 287/90. Il danno ingiusto è stato previsto e voluto (dolo o, comun- que, colpa grave) dalle imprese assicuratrici che hanno partecipato al «cartello» proprio al fine di gestire il mer- cato facendo lievitare i premi assicurativi. In un mercato senza alterazioni il consumatore non sarebbe stato dan- neggiato essendo in grado di trovare l’uguale servizio a prezzi in concorrenza, potendo effettuare scelte consape- voli (50).
Tuttavia, pare rispondente ai principi generali non solo del diritto europeo ai sensi dell’art. 153 (51), ma an- che del nostro ordinamento (segnatamente a quelli enunciati dall’art 2 e 41 della Costituzione nonché a quelli di cui all’art. 2, secondo xxxxx, Legge n. 206 del 2005, già art. 1 della Legge n. 281 del 1998 che di tali principi, costituisce attuazione) affermare che tutte le volte in cui si sia in presenza di contratti stipulati in vio-
lazione di norme poste a tutela della concorrenza e del mercato, al contraente, che concluda contratti con im- prese o, più in generale, con soggetti posti in posizione di supremazia economica, vada attribuita, ove dal con- traente stesso non sia richiesta, una specifica tutela con- sistente nella «invalidazione di singole clausole contrat- tuali» da accertarsi e dichiararsi anche d’ufficio (52) at- tesa la loro contrarietà alle norme dell’ordine pubblico economico (53).
Nell’affermare ciò si deve avere però la consapevo- lezza che la tutela del consumatore, impone inoltre che lo stesso sia posto al riparo dalle conseguenze negative che potrebbero derivargli anche dall’applicazione delle norme generali in materia di nullità negoziali. È di tutta evidenza, infatti, che il consumatore abbia interesse a veder caducato non l’intero regolamento contrattuale ma solo quella parte di esso che abbia dato luogo ad una illecita lesione del proprio patrimonio, mantenendo, per il resto, efficace il contratto (54).
Occorre pertanto fare riferimento ad una ipotesi di invalidazione del regolamento negoziale che colpisca la parte di questo più direttamente ed abusivamente lesiva degli interessi e del patrimonio del contraente debole e che «lasci in piedi il resto» (55) assegnando così alla de- claratoria di nullità parziale del contratto la duplice fun- zione di riequilibrare le prestazioni in esso dedotte e di sanzionare il contegno illegittimo del contraente econo-
Note:
(48) Vedi nota 33. Cfr. Cass. 21 dicembre 2001 n. 16163, in Mass. Giu- st. civ., 2200.
(49) Come sancito dalle pronuncie dell’Antitrust e del Cons. di Stato in precedenza richiamate.
(50) Cfr. sul tema X. Xxxxxxxxx, L’autonomia privata nel mercato interno: le regole d’informazione come strumento, in Europa e diritto privato, 2001, 257; X. Xxxxxxxxxx, La disciplina dell’atto e dell’attività: i contratti tra imprese e tra imprese e consumatori, in Tratt. Diritto Privato Europeo, a cura di X. Xx- xxxx, III, II ed., Cedam, Padova, 2003, 3 ss.
(51) Si tratta come noto dell’unica disposizione dell’attuale Titolo XIV
«Protezione dei consumatori», del Trattato U.E. In tema, AA. VV., Il di- ritto privato dell’unione europea, a cura di X. Xxxxxxx, in Tratt. dir. priv., di- retto da X. Xxxxxxx, XXVI, II, Utet, Torino, 2000, 1331; X. Xxxxx, Il consumatore, in AA. VV., Trattato di diritto privato europeo, a cura di N. Li- pari, II ed., I, cit., 435 ss; A. M. Xxxxxxxxxx, I contratti con i consumatori tra diritto comunitario e diritto comune europeo, Jovene, Napoli, 2005.
(52) Cfr. X. Xxxxxxxxx, La rilevabilità d’ufficio della nullità di protezione, in
Riv. dir. priv., 2004, 861.
(53) Cfr. da ultimo X. Xxxxxxxxxx, Ancora su norme antitrust e contratti «a valle», in Giur. it., 2000, I, 1, 1876 ss., che parla di violazione dell’ordine pubblico economico come fonte nella specie della nullità.
(54) In tema, cfr. X. Xxxxxxxxxx, Nullità speciali, Xxxxxxx, Milano, 1995; P.
M. Putti, Nuovi profili della disciplina sulla nullità, in I contratti in generale, aggiornamento 1991-1998, a cura di X. Xxxx e X. Xxxxxxx, Torino, 1999; X. Xxxxxxx, Nullità, annullabilità inefficacia (nella prospettiva del dirit- to europeo), in questa Rivista, 2003, 200.
(55) In tale ipotesi il rimedio approntato dall’art. 1418 Codice civile po- trebbe paradossalmente rivelarsi più favorevole al contraente forte che potrebbe sottrarsi alle prestazioni pattuite e spettategli alle quali il consu- matore manterrebbe interesse se fossero rese alle condizioni eque e ri- spettose dei propri diritti fondamentali.
micamente forte. Parrebbe, opportuno, quindi ricorrere allo strumento della: «nullità di protezione» (56) (sanci- ta adesso expressis verbis dall’art. 36 (57) del Codice del consumo, là dove si parla di «nullità che opera soltanto a vantaggio del consumatore» (58)).
In tale ottica, pertanto, pare condivisibile l’opinione di chi, premesso che «Nullità ed annullabilità…(omis- sis)…non sono in grado di fare fronte a tutte le ipotesi di patologia contrattuale di carattere genetico», sostiene che «la protezione del contraente debole non permette di adoperare lo strumento della nullità nella sua concezione classica perché il contraente debole potrebbe essere dan- neggiato, se l’altro, economicamente più agguerrito, deci- desse di fare venire meno l’intero contratto» (59) e che, di conseguenza la «nullità di protezione», correttamente intesa cessa di essere esclusivamente uno strumento di tu- tela dell’ordinamento in quanto tale per divenire al con- tempo strumento sanzionatorio di una delle parti e di protezione per la controparte più debole.
Ciò posto ci si deve chiedere se vi sia e in caso af- fermativo quale debba essere il rimedio conseguente alla declaratoria della nullità della clausola e se la «caduca- zione della clausola» (60) stessa o la neutralizzazione dei suoi effetti lesivi mediante la sua sostituzione con un trattamento più favorevole per il consumatore, mante- nendo per il resto il regolamento contrattuale nella sua integrità, sia la risposta più corretta alla questione posta dal caso oggetto della sentenza in esame.
Il punto è importante perché, nell’esperienza giudi- ziaria (61), molte domande di consumatori che si riten- gono danneggiati dall’intesa illecità «sono state prospet- tate come domanda di ripetizione parziale del prezzo pa- gato ex art. 2033 Codice civile, e non come domanda di risarcimento del danno ex art. 2043 Codice civile (ovve- ro sono state prospettate come domande promiscue, o alternative, o subordinate l’una all’altra)». Ovviamente, però, la domanda di ripetizione parziale presuppone (62) anche una dichiarazione di nullità parziale (63), ai sensi dell’art. 1419 Codice civile, del contratto del consuma- tore; e la nullità, di cui si chiede la dichiarazione, derive- rebbe dalla violazione della norma di divieto posta dalla legge antitrust.
Una domanda, così congegnata, peraltro, si confi- gurerebbe come una azione di nullità per violazione del- la Legge n. 287/90 e rientrerebbe dunque nell’ambito di applicazione di cui all’art. 33, Legge n. 287/90 (64).
Pertanto, attesa la già rilevata necessità di appresta- re all’utente- consumatore-contraente debole la più effi- cace tutela si può affermare che la clausola relativa alla determinazione del premio va dichiarata nulla, ribaden- do l’efficacia, per il resto, del contratto di assicurazione, perché contraria all’ordine pubblico economico (65), dovendosi assegnare alla declaratoria di nullità parziale del contratto una valenza sanzionatoria della condotta illecita del contraente economicamente forte. Di conse- guenza, il giudice adottando le «misure idonee a correg- xxxx o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accer-
xxxx» deve disporne la sostituzione della clausola dichia- rata nulla con altra che, mantenendo inalterato il resto del regolamento contrattuale, costituisca e renda possi- bile il riequilibrio delle prestazioni.
Il consumatore/utente, nel nostro ordinamento, è, dunque, titolare di un diritto soggettivo, inizialmente
Note:
(56) X. Xxxxxxxxxx, Nullità speciali, cit.; P. M. Putti, voce «Nullità (nella le- gislazione di derivazione comunitaria)», in Dig. Disc. Priv., sez. civ., aggior- namento, Utet, Torino, 2000, 685; vedi per ulteriori riflessioni X. Xxxxx, Nullità di protezione tra esigenze del mercato e nuova cultura del contratto conformato, in Corr. giur., 1999, 608; X. Xxxxxxxxx, L’inefficacia delle clau- sole abusive, in Eur. e dir. priv., 1998, 45.
(57) Xxxx X. Xxxxx, Commento all’art. 36 «Nullità di protezione», in Com- mentario al Codice del Consumo, a cura di X. Xxxx e X. Xxxxx Xxxxxx, cit., 255.
(58) Ciò «a livello letterale significa solo che la sentenza che accerta la nullità di una clausola non farà cadere quanto in essa al consumatore non nuoce ed ha ancora funzionalità: è dunque asseverazione della operatività necessariamente parziale, non della legittimazione necessariamente rela- tiva»; vedi X. Xxxxxxx, Il Codice del Consumo ed esprit de geometrie, cit.; Id., L’inefficacia delle clausole abusive, cit., 408; P. M. Putti, La nullità parziale. Diritto interno e comunitario, XXX, Xxxxxx, 0000.
(59) V. G. Gioia, Nuove nullità relative a tutela del contraente debole, in Con- tratto e impresa, 1999, 1334.
(60) Sull’«inefficacia» delle clausole abusive, in dottrina la bibliografia è molto ampia cfr. in particolare, tra i contributi di maggior respiro: AA.VV., I contratti dei consumatori, a cura di X. Xxxxxxxxx ed X. Xxxxxxxxx, cit., 5-423 (in particolare le riflessioni di X. Xxxxxxxxx, A.M. Xxxxxx, X. Sirena, G. Le- ner, X. Xxxxxxxx, F. Di Xxxxxxxx e X. Xxxxxxxx); X. Xxxxxxxx, I contratti per adesione e le clausole vessatorie, in AA.VV., Trattato di diritto privato euro- peo, a cura di X. Xxxxxx, II ed., III, cit., 313 ss.; AA.VV., Clausole vessatorie nei contratti dei consumatori, a cura di X. Xxxx e X. Xxxxx, Xxxxxxx, Milano, 2003; AA.VV., Commentario al capo XIV bis del codice civile: dei contratti del consumatore (art. 1469 bis - 1469 sexies), a cura di C. M. Bianca ed altri, Padova, 1999; AA.VV., La disciplina delle clausole vessatorie, in AA.VV., Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, a cura di X. Xxxxxxx, Ce- dam, Padova, 1999, 3 ss.; AA.VV., La nuova disciplina delle clausole vessato- rie nel codice civile, a cura di X. Xxxxxxxx, Jovene, Napoli, 1996; C. M. Bian- ca, F. D. Busnelli ed altri (a cura di), La nuova disciplina sulle clausole vessa- torie (Capo XIV bis del codice civile: dei contratti del consumatore), in Nuove leggi civ. comm., 1997, 751 ss.; X. Xxxxxx (a cura di), Clausole vessatorie e contratto del consumatore, II, Cedam, Padova, 1997; X. Xx Xxxx (a cura di), Le clausole vessatorie, Ipsoa, Milano, 1996; X. Xxxxxxxx, La tutela del con- sumatore contro le clausole abusive, Xxxxxxx, Milano, 2002; X. Xxxxxxxxx, Tu- tela del consumatore e clausole vessatorie, XXX, Xxxxxx, 0000; X. Xxxxxxxx, I contratti con i consumatori, Xxxxxxx, Milano, 2000.
(61) Come ricordato da X. Xxxxxxxxx, Le azioni civili del consumatore contro gli illeciti antitrust, cit., 1097.
(62) Sulla configurabilità di una domanda di nullità implicita, come ne- cessaria premessa di una pretesa pecuniaria fatta valere dall’attore cfr. Cass. 16 giugno 2003, n. 9652, in Gius, 2003, 2675.
(63) Per la ricostruzione del dibattito vedi X. Xxxxxxx, La risoluzione par- ziale, Xxxxxx, Napoli, 1991.
(64) Cosi quasi testualmente X. Xxxxxxxxx, Le azioni civili del consumatore contro gli illeciti antitrust, cit., 1097.
(65) Le molteplici ed ostiche questioni inerenti tale aspetto sono com- pendiate nel saggio di X. Xxxxxx, Mercato concorrenziale e teorie del contrat- to, in Riv. dir. comm., 1999, I, 69 ss.; e nell’opera monografica di X. Xxxx, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncor- renziali, Xxxxxxx, Milano, 2001. Per un riscontro giurisprudenziale: Xxxx. 30 giugno 2001, n. 8887, in Giur. it., 2002, I, 1, 1211 ss., con nota di X. Xxxxxxxxxx, Qualche ulteriore considerazione su intese vietate, contratti a «val- le» e sanzione di nullità.
configurato come interesse legittimo e/o diffuso (66), culminato con il riconoscimento della titolarità dei nuo- vi diritti del consumatore e dell’utente, oggi elencati dal- l’art. 2 del Codice del Consumo, a cui consegue la previ- sione di un sistema di tutela idoneo ad allontanare le ipotesi di lesione di questi diritti soggettivi ed a reinte- grarli eventualmente anche sul piano risarcitorio.
Conclusioni
La natura anticompetitiva dell’intesa realizzata e so- prattutto la potenzialità della stessa ad incidere in modo sostanziale sulle politiche strategiche delle imprese, con conseguente grave pregiudizio per il benessere dei con- sumatori, non è dubitabile (coinvolgendo nel caso delle polizze RCA oltre l’80% del mercato), soprattutto lad- dove si consideri che il pregiudizio è tanto più grave at- teso che il consumatore/utente è obbligato a contrarre per legge (67).
A conclusione del discorso innanzi articolato per- tanto si resta fermamente convinti che avendo acclara- to che l’aumento del prezzo della polizza RCA ha grava- to su tutti gli assicurati/consumatori e che detto aumen- to è derivato direttamente ed esclusivamente dall’illeci- ta intesa che ha alterato la libera concorrenza violando l’art. 2, Legge n. 287/90, l’azione dovrebbe rivestire il ca- rattere restitutorio, anche allorquando si voglia conside- rare che il danno xxxxxxxx è stato previsto e voluto (dolo o, comunque, colpa grave) dalla convenuta impresa assi- curatrice che ha partecipato al «cartello» proprio al fine di gestire il mercato facendo lievitare i premi assicurati- vi rispetto al premio dovuto per la polizza RCA come so- pra esposto.
Nella decisione qui in esame, erra quindi la Corte d’Appello laddove non ha ritenuto applicabile, ai fini del rimborso del maggior prezzo pagato dal cliente in conseguenza di un’intesa restrittiva della concorrenza tra imprese operanti nel mercato dei prodotti assicurativi, la disciplina contenuta nella Legge n. 287 del 1990 che at- tribuisce al soggetto danneggiato, nel caso di specie il consumatore finale, il diritto al risarcimento del danno patito, appartenendo la competenza, peraltro, ad Essa e non al Giudice di Xxxx.
Come ribadito dalla Cassazione Sezioni Unite n. 2207 del 2005 la legge antitrust è, difatti, legge di tutti i soggetti del mercato e l’interesse al mantenimento della competizione economica concorrenziale non è solo de- gli imprenditori ma di chiunque partecipi al mercato
(68) (rectius: anche dei consumatori).
Deve, perciò, riconoscersi la legittimazione del con- sumatore all’azione aquiliana o, nella prospettiva in que- sta sede solo tratteggiata, ma che meriterebbe maggiore ed autonomo approfondimento, all’esercizio della «nul- lità di protezione» (69) della clausola, contenuta nel contratto posto in essere con la società partecipe dell’in- tesa, relativa alla determinazione dell’importo del pre- mio del contratto RCA, per contrarietà all’ordine pub- blico economico (in quanto la stessa è stata formulata in
attuazione di un accordo illecito in violazione della leg- ge antitrust e del diritto soggettivo «alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità nei rapporti contrattuali» (70), riconosciuto, prima dall’art. 1 della Legge n. 281/98, og- gi dall’art. 2, secondo comma, lett. e, del Codice del Consumo) da esercitarsi, comunque, secondo la compe- tenza processuale della legge antitrust, davanti la Corte d’Appello territorialmente competente per il pregiudizio conseguente alla lesione della libertà negoziale derivan- te dalla privazione della possibilità di operare nel merca- to le scelte economiche più efficienti (71).
Note:
(66) Xxxxx, peraltro, dell’interesse legittimo come oramai «situazione giu- ridica soggettiva del tutto omogenea a quella dei «nuovi» diritti soggetti- vi», tra gli altri, S. Agrifoglio, Le sezioni unite tra vecchio e nuovo diritto pub- blico: dall’interesse legittimo alle obbligazioni senza prestazione, in Eur. dir. priv., 1999, 1253; cfr. anche AA. VV., Il diritto privato nel prisma dell’inte- resse legittimo, a cura di U. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxxxx, F. D. Xxxxxxxx, Xxxxxx- xxxxxx, Torino, 2001; X. Xxxxxxxxxx, L’interesse legittimo varca la frontiera della responsabilità civile, in Eur. dir. priv., 1999, 1264 ss.
(67) Sottolinea, infatti, X. Xxxxxxxx, Antirust e risarcimento del danno, in Danno e resp., 2005, 500, che «essendo la responsabilità civile automobi- listica obbligatoria e costituendo quindi la stipulazione della polizza assi- curativa un obbligo penalmente sanzionato, la restrizione della concor- renza comporta sul consumatore una vera e propria imposizione a sop- portare un costo e condizioni arbitrariamente decise a monte, imposizio- ne dalla quale è obbiettivamente impossibili sottrarsi, con conseguente maggiore gravità degli effetti manipolatori del mercato».
(68) In argomento vedi già X. Xxxxxxxxx, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1960, III ed., 164.
(69) Sulla differenza tra nullità «di direzione» e nullità di «protezione», cfr. X. Xxxxxxxx, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Na- poli, 2003, 317 s., secondo il quale l’interesse al corretto ed efficace fun- zionamento del mercato e dei meccanismi concorrenziali va concettual- mente distinto dalla mera finalità di protezione del contraente debole, con la quale pure talvolta si tende a confonderlo.
(70) Cfr. X. Xxxxxxxx, Il consumatore e l’antitrust, in Foro it., 2003, I, 1138.
(71) In tal senso X. Xxxxxxxx, Antirust e risarcimento del danno, cit., 500 s.
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Rassegna di legittimità: i singoli contratti
Appalto
Cassazione Civile, sez. II, 21 luglio 2005, n. 15283
Pres. Pontorieri - Rel. Napoletano - P.M. Xxxxxxxxx (Conf.) - Notaro ed altri x. Xxxxxxxxx ed altro
Appalto (contratto di) - Garanzia per le difformità e vizi dell’opera - In genere - Prescrizione - Decorrenza - Ristrut- turazione di immobile - Denuncia dei vizi effettuata da uno solo dei coniugi committenti - Presunzione di conoscen- za dei vizi anche da parte dell’altro coniuge - Configurabilità
Ai fini della decorrenza dei termini di prescrizione previsti dall’art. 1667 Codice civile, l’invio di una lettera da par- te di uno solo dei coniugi comproprietari dell’appartamento adibito ad abitazione comune, contenente una denun- cia di vizi nell’esecuzione di lavori, in difetto della prova del dissenso da parte dell’altro coniuge, è idoneo a far pre- sumere che l’esistenza dei vizi fosse a conoscenza di entrambi.
Assicurazione
Cassazione Civile, sez. III, 5 agosto 2005, n. 16582
Pres. Fiduccia - Rel. Frasca - P.M. Carestia (Conf.) - Xxxxxxxx ed altro c. Assitalia S.p.a.
Assicurazione - Contratto di assicurazione - Disposizioni generali - Xxxxxxx assicurato (oggetto del contratto) - In ge- nere - Inoperatività della polizza - Relativa deduzione da parte dell’assicuratore convenuto per l’indennizzo - Natura
- Diritto - Esclusione - Potere espressione del diritto di difesa - Conseguenze - Inapplicabilità della disciplina della pre- scrizione - Fondamento - Deduzione dell’inoperatività con azione di accertamento negativo - Diritto fatto valere - In- dividuazione
La deduzione da parte dell’assicuratore della inoperatività della polizza assicurativa in ragione dei limiti della stes- sa non integra un diritto, bensì è espressione del potere dell’assicuratore, nell’esercizio del suo diritto di difesa in giudizio, di far constare l’inoperatività della polizza di fronte alla pretesa alla garanzia assicurativa del contraente. Ne consegue che deve escludersi che con riferimento a detta deduzione possa venire in rilievo l’istituto della pre- scrizione, che trova applicazione ai diritti, mentre, qualora l’assicuratore, in ragione dell’insorgere di contestazioni sull’estensione del rischio coperto, agisca in accertamento negativo chiedendo che la polizza venga accertata ino- perante per un certo rischio, il diritto fatto valere in giudizio è quello ad ottenere l’accertamento del corretto mo- do di essere del rapporto contrattuale.
Contratti bancari
Cassazione Civile, sez. I, 28 settembre 2005, n. 18947
Pres. Proto - Rel. Salvato - P.M. Patrone (Diff.) - Calabrò c. Bnl S.p.a.
I
Contratti bancari - Operazioni bancarie in conto corrente - Compensazione tra i saldi di più conti o rapporti - Com- pensazione convenzionale - Obbligo di successivo avviso da parte della banca - Valutazione della tempestività del- l’avviso - Criteri - Obbligo di esecuzione del contratto secondo buona fede - Necessità - Conseguenze
In presenza di una clausola negoziale che nel regolare i rapporti di conto corrente consente all’istituto di credito di
GIURISPRUDENZA•SINTESI
operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qual- siasi momento, senza obbligo di preavviso e di formalità particolari, salva quella di darne pronta comunicazione, ed ancorché i crediti non siano liquidi ed esigibili, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della inter- venuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato in- contro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli (rappresentate, nella specie, dall’avere emesso un assegno privo di provvista e di essere stato sottoposto a procedimento penale) impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contrat- to, al fine di verificare, sulla base delle circostanze del caso concreto, se l’invio della comunicazione sia stato o me- no tempestivo ovvero se l’eventuale ritardo possa ritenersi giustificato, atteso che la violazione dell’obbligo di pronta comunicazione, se non incide sulla validità ed efficacia dell’operazione di compensazione, da ritenersi per- fezionata in forza della mera annotazione in conto della posta passiva proveniente dall’altro rapporto, può tuttavia essere fonte, per la banca, di una responsabilità per risarcimento danni.
II
Contratti bancari - Operazioni bancarie in conto corrente - Compensazione tra i saldi di più conti o rapporti - Com- pensazione convenzionale - Obbligo di successivo avviso da parte della banca - Valutazione della tempestività del- l’avviso - Criteri - Obbligo di esecuzione del contratto secondo buona fede - Necessità - Conseguenze
In presenza di una clausola negoziale che nel regolare i rapporti di conto corrente consente all’istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qual- siasi momento, senza obbligo di preavviso e di formalità particolari, salva quella di darne pronta comunicazione, ed ancorché i crediti non siano liquidi ed esigibili, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della inter- venuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato in- contro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli (rappresentate, nella specie, dall’avere emesso un assegno privo di provvista e di essere stato sottoposto a procedimento penale) impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contrat- to, al fine di verificare, sulla base delle circostanze del caso concreto, se l’invio della comunicazione sia stato o me- no tempestivo ovvero se l’eventuale ritardo possa ritenersi giustificato, atteso che la violazione dell’obbligo di pronta comunicazione, se non incide sulla validità ed efficacia dell’operazione di compensazione, da ritenersi per- fezionata in forza della mera annotazione in conto della posta passiva proveniente dall’altro rapporto, può tuttavia essere fonte, per la banca, di una responsabilità per risarcimento danni.
Locazione
Cassazione Civile, sez. III, 13 luglio 2005, n. 14737
Pres. Preden - Rel. Frasca - P.M. Destro (Conf.) - Verlight Italia S.r.l. c. Fall. Vtn La Vinicola Di Torre Le No- celle
Locazione - Obbligazioni del locatore - Vizi della cosa locata - Vizi esistenti alla conclusione del contratto - Assun- zione da parte del locatore dell’obbligo di eliminazione - Inadempimento - Applicabilità dell’art. 1578 Codice civile.
- Esclusione - Applicabilità dei rimedi normali - Fondamento
Allorquando in un contratto di locazione le parti si siano date atto dell’esistenza di vizi del bene locato ed il loca- tore si sia impegnato ad eliminarli e frattanto si sia fatto luogo comunque alla consegna del bene ed al suo godi- mento nelle condizioni in cui esso si trova, il regolamento contrattuale sfugge alla regola di cui all’art. 1578 Codi- ce civile, di modo che il conduttore, qualora l’obbligazione di eliminazione dei vizi non venga adempiuta dal loca- tore, di fronte all’inadempimento non ha la facoltà di chiedere la riduzione del corrispettivo, ma gode soltanto dei rimedi generali contro l’inadempimento e, quindi, ha l’alternativa fra l’azione di adempimento e l’azione di risolu- zione del contratto e, a livello di autotutela, ha la possibilità di sospendere il pagamento del corrispettivo propor- zionalmente alla diminuzione del godimento arrecata dalla inesecuzione delle opere di eliminazione dei vizi.
CONTRATTI E FISCO•SINTESI
Panorama fiscale
A cura degli Avv.ti XXXX XXXXXXX e XXXXXXXXX XXXXXXX Studio Uckmar
Fisco
INTERESSI E CANONI TRA SOCIETÀ CONSOCIATE
Agenzia delle entrate - Circolare 2 novembre 2005, n. 47
L’Agenzia delle entrate, con la circolare 2 novembre 2005, n. 47/E, è intervenuta per fornire chiarimenti sul nuovo regime fiscale applicabile ai pagamenti di interessi e canoni pagati a società consociate residenti in paesi diversi dell’Unione europea. La circolare ha specificato che il regime fiscale introdotto dalla direttiva del Consiglio UE 3 giugno 2003, n. 49/CE e dal D.Lgs. 30 maggio 2005, n. 143, consiste nell’esenzione degli interessi e canoni pagati da società ed enti residenti in Italia, nonché da stabili organizzazioni situate nel ter- ritorio dello Stato, a società e enti residenti in Stati membri diversi e appartenenti allo stesso gruppo, com- prese le stabili organizzazioni di tali società.
Un profilo soggettivo di particolare delicatezza, su cui si sofferma l’Ufficio, riguarda le stabili organizzazioni di soggetti non residenti, in quanto i pagamenti da queste provenienti possono beneficiare della disciplina di fa- vore a condizione che si tratti di stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato e assoggettata a Ires e, in particolare, che la società non residente possegga i requisiti richiesti dall’art. 26 quater, D.P.R. 600 del 1973. La ratio antielusiva della norma si riferisce, in concreto, alle ipotesi in cui gli effettivi beneficiari di pagamen- ti di interessi e canoni siano soggetti residenti extra-UE che intendano strumentalmente far transitare le ope- razioni da cui derivano detti pagamenti per uno Stato membro al solo scopo di fruire del regime di esenzione. Al fine di individuare le società che possono qualificarsi come «consociate», il legislatore nazionale ha utiliz- zato il criterio del «diritti di voto» in luogo di quello, pure consentito dalla direttiva CE, riferito alla parteci- pazione del capitale. Tale scelta è stata dettata dalla riforma del diritto societario, che non prevede più l’in- derogabile proporzionalità tra conferimento e partecipazione al capitale.
LOCAZIONE DI BENI PIGNORATI
Agenzia delle entrate - Risoluzione 11 novembre 2005, n. 158/E
Con la risoluzione 11 novembre 2005, n. 158/E, l’Agenzia delle entrate ha fornito alcune importanti preci- sazioni in merito al regime fiscale applicabile alla gestione di beni immobili sottoposti a pignoramento, for- nendo inoltre indicazioni per l’esecuzione dei connessi adempimenti in materia di Iva nell’ipotesi in cui la cu- stodia dei beni sia affidata a persona diversa dal debitore (in Corr. trib., 2005, 47, 3749).
È stato in special modo chiarito che la gestione, mediante locazione a terzi, dei beni pignorati a una società commerciale rientra nella sfera di applicazione dell’Iva e nell’ambito del reddito d’impresa, anche se affidata a un custode giudiziario diverso dal debitore.
In tali ipotesi, l’emissione della fattura, all’atto della riscossione dei canoni di locazione, spetta al custode giu- diziario, mentre i successivi adempimenti Iva fanno capo alla società pignorata. Nell’ambito di una procedu- ra di pignoramento di beni e diritti immobiliari - nello specifico in parte di una società di capitali e in parte di una persona fisica non esercente attività d’impresa - il custode giudiziario autorizzato dal giudice alla loca- zione degli immobili è obbligato a emettere fattura in sostituzione del contribuente. Tale formalità è, infatti, strettamente funzionale alla riscossione dei canoni locatizi, che rientra tra i compiti fondamentali del custo- de, tenuto a provvedere anche alla conservazione dei frutti del bene pignorato.
La circolare ha, inoltre, chiarito che l’impresa esecutata deve annotare nelle proprie scritture l’avvenuta con- segna dei beni all’incaricato della vendita che, al pari degli incaricati delle vendite fallimentari, ha l’obbligo di emettere la fattura con l’addebito della relativa imposta.
Il custode giudiziario ha, poi, l’obbligo di trasmettere alla società pignorata la copia della fattura e l’importo dell’Iva, affinché la società provveda alla registrazione della fattura stessa e ai conseguenti adempimenti rela- tivi all’imposta.
CONTRATTI E FISCO•SINTESI
VENDITA DI COSA ALTRUI
Cass., sez. trib., 27 luglio 2005, n. 15768
Con un’interessante sentenza, la Corte di Cassazione ha affrontato la questione del regime fiscale applicabi- le, ai fini dell’imposta di registro, a un contratto di compravendita di cosa altrui (Cass., sez. trib., 27 luglio 2005, n. 15768, in Corr. trib., 2005, 43, 3405). In particolare, il Giudice di legittimità ha riconosciuto dovu- ta l’imposta, nella misura proporzionale, qualora la volontà dei contraenti sia di porre in essere un contratto definitivo di vendita di cosa altrui, prescindendo dal nomen iuris attribuito al negozio.
Il caso esaminato dalla Corte concerne la compravendita di un immobile appartenente a un imprenditore commerciale che intende alienare il bene attraverso l’interposizione reale di un mandatario. Per effetto del- l’interposizione reale del soggetto non imprenditore, la Suprema Corte ha ritenuto corretta l’applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale, non potendosi invocare il principio di alternatività tra im- posta di registro e Iva, previsto soltanto per gli atti realizzati da un imprenditore commerciale (art. 40, D.P.R. 131 del 1986, testo unico sull’imposta di registro).
Ma la sentenza è interessante anche perché la vendita di cosa altrui non è specificamente disciplinata dalla normativa fiscale. È opinione consolidata, in diritto civile, che l’atto deve ritenersi perfezionato ab initio, es- sendo fornito di tutti i requisiti del contratto richiesti dall’art. 1325 Codice civile, di guisa che risulta trasla- to nel tempo il solo effetto reale.
Coerentemente con tale impostazione, la Corte di Cassazione ha ritenuto che l’imposta di registro non sia dovuta in misura fissa, prevista per gli atti sottoposti a condizione sospensiva ai sensi dell’art. 27 t.u., bensì nell’ordinaria misura proporzionale, trattandosi di atto già perfetto e non sospensivamente condizionato.
Codice del consumo ed esprit de géométrie
di XXXXXXX XXXXXXX
Il Codice del consumo reca in sé solo poche innovazioni e un limitato contributo al riassetto del diritto eu- ropeo dei contratti dei consumatori. Ma se letto con spirito di sistema, anche alla luce della recente diret- tiva sulle pratiche commerciali sleali, fornisce utili elementi sia per razionalizzare i rapporti con i consu- matori, sia per perfezionare la teoria del contratto estendendo la disciplina dei «vizi» negoziali.
R
La sistematica nel nuovo Codice del consumo
es sunt consequentiae nominum. Il Codice del con- sumo (1) riordina e solo marginalmente innova la legislazione sui consumatori. Ma grazie al no-
me ne fa apparire diversa la ricostruzione: autorizza a credere ovvio che sia divenuta un sistema giuridico (2). Vi è indubbiamente nel Codice un’opera di sistemazio- ne. Definizioni, concetti, rimedi ne escono in parte ri-
O forse no. Sfruttando i poteri di riassetto e semplifica- zione normativa compresi nella delega (7), il Governo ha lavorato con esplicite ambizioni di sistema, come di- chiara, del resto, la Relazione che accompagna il decre- to (8). Forse, semplicemente, aspira ad essere più di quel che è.
Una risposta per quanto possibile scevra da interferenze
maneggiati. Le modifiche però non sono molte né
profonde, e vi sono segni di sconnessione, e tracce di re- dazione affrettata. Non sono dunque le innovazioni che dispiegano luce di sistema sul diritto codificato dei con- sumatori; da questo punto di vista il progresso è inferiore alle attese (3).
La verità è un’altra: le norme preesistenti, riprodotte, anche invariate, sotto un aulico nome, legittimano operazioni ermeneutiche ed integrative che fanno pro- gredire il diritto privato europeo dei contratti. Per il so- lo fatto di cambiarne la geometria, il Codice ha inno- vato.
È realistico dare per scontato che pur con critiche a cer- te scelte e rammarichi per occasioni perdute il Codice segnerà agli occhi di tutti una importante tappa dell’e- voluzione in corso (4). L’interprete pragmatico farà bene allora a chiedersi di che e verso dove. Le pagine che se- guono, debbono perciò essere dedicate dapprima alla
«topografia» adottata (5); poi alle innovazioni apportate alla regolamentazione vigente; quindi ai rapporti con il codice civile e gli altri codici di settore; e infine ai rifles- si che il riordinamento produce sul sistema in fieri del di- ritto contrattuale europeo. Per mostrare la potenza del nome; e che anche la forma è contenuto.
L
La topografia del Codice del consumo
a forza evocativa delle parole fa parte del loro si- gnificato: un «codice» è ben di più, quindi è altro da un semplice testo unico.
Domandiamoci allora: il Codice del consumo è solo un testo unico della legislazione sui consumatori? Forse si. Il commentatore che constati pedantemente le novità ne troverà poche in generale e solo alcune importanti (6).
Note:
(1) D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, in G.U. 8 ottobre 2005, n. 235 - S.O. n. 162.
(2) X. Xxxx, Commento, in questa Rivista, 2005, 1047 ss., assume infatti che «la sua denominazione riflette una concezione oggettiva della mate- ria regolata».
(3) Come ha osservato il Consiglio di Stato nel parere reso dalla Sezione consultiva per gli atti normativi, nell’adunanza del 20 dicembre 2004, n. 11602/04, in Foro it., 2005, III, 348 ss., «lo schema in oggetto non sem- bra sfruttare in pieno le potenzialità della delega, che (…) consentono (..) un intervento di riforma sostanziale e non solo di riordino formale» (sub 3.4). Egualmente critico X. Xx Xxxxxxxxxx, Il «Codice del consumo»: un’occasione perduta?, in Studium juris, 2005, 1137, 1148: «Il testo del provvedimento appare in fin dei conti una pura e semplice compilazione, piana ed acritica, del testo previgente (come tale assai poco meritevole della denominazione di «Codice»!), realizzata perlopiù senza alterare la formulazione che le norme in esso confluite presentavano nei provvedi- menti in cui erano state originariamente inserite e senza affrontare in mo- do adeguato le più delicate ed urgenti questioni irrisolte del diritto dei consumatori,…».
(4) X. Xxxx, Commento, cit., loc. cit., lo definisce senza esitazione «una delle innovazioni più significative dell’attività parlamentare e di governo della legislatura in corso» (ma forse bisogna scontare una certa indulgen- za paterna, o il dichiarato approccio comparativo).
(5) Le pagine che seguono giustificheranno che non la si chiami qui si- stematica.
(6) Tali sembrano soprattutto la modifica della sedes materiae e della con- seguenza giuridica delle clausole vessatorie, e la sistemazione delle norme sull’accesso alla giustizia, su cui ci si sofferma nel successivo § 2.
(7) Conferitagli con l’art. 7 della Legge 29 luglio 2003, n. 229 (su cui X. Xxxxxxxx, Dall’«età della decodificazione» all’«età della ricodificazione»: a pro- posito della Legge n. 229 del 2003, in Studium juris, 2005, 697 ss.; X. Xxxx, Dai testi unici «misti» ai codici: un nuovo strumentario per le politiche di sem- plificazione, ivi, 2004, 157 ss.), che è all’origine anche degli altri codici di settore di cui si dice in seguito.
(8) X. Xx Xxxxxxxxxx, Il «Codice del consumo»: un’occasione perduta?, cit., 1137.
valutative risiede nella diretta considerazione della «to- pografia» del nuovo testo normativo. Descriverla è an- che un’occasione per presentarlo in formula sintetica al lettore che non voglia affaticarsi nel confronto dell’at- tuale sedes materiae e testo delle disposizioni preesistenti, e nella ricerca delle nuove. E soprattutto per qualche glossa.
L’intero Codice è diviso, come il fratello maggiore, in sei parti.
La Parte I riproduce essenzialmente le disposizioni gene- rali della Legge n. 281 del 1998. Vi sono infatti state in- serite: nell’art. 1 le disposizioni generali sulle finalità; nell’art. 2 quelle sui diritti dei consumatori; e nell’art. 3 le definizioni, ormai usuali nei moderni testi normativi. La norma iniziale sulle finalità contiene modifiche rile- vanti. Lo scivolamento nella disposizione successiva del richiamo ai diritti (che era invece nel comma primo del- l’art. 1 della Legge 281) è solo conseguenza del riparto dei temi. Sono però effetto di specifica scelta il richiamo alla Costituzione, l’esplicita citazione (nell’ambito dei trattati istitutivi europei, già in precedenza citati) del- l’art. 153 (9), e la formula «…il presente codice armo- nizza e riordina le normative concernenti i processi di acquisto e consumo, al fine di assicurare un elevato li- vello di tutela dei consumatori e utenti».
Al richiamo della Costituzione è difficile dare un senso definito (10). Il richiamo dell’art. 153 del Trattato UE appare invece specificamente significativo, perché gli scopi da esso previsti hanno fornito al Codice la griglia sistematica, non solo come è scontato a livello concet- tuale, ma anche a livello appunto topografico. L’impor- tanza di questo aggancio apparirà più chiara se si consi- dera che ad esso si è richiamata da ultimo anche la Di- rettiva sulle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori (11). Sicché la norma può ormai essere vi- sta come il perno del diritto dei consumatori. Il punto merita perciò particolare sottolineatura per i suoi riflessi sulla redazione.
Di quelli di contenuto si dirà. Iniziando da quelli di me- todo, bisogna ricordare che il Consiglio di Stato (12) esprimendosi, a proposito di questo Codice, in generale sulla metodologia delle nuove codificazioni di settore, aveva indicato tre momenti essenziali: perimetrazione, piano dell’opera, analisi interna della normativa. Non si può dire che il Codice abbia giovato molto alla prima: molti confini rimangono incerti (13). Appartiene al se- guito dire cosa abbia fatto quanto alla terza. Ha invece si- curamente tributato una sostanziale attenzione alla se- conda. Il precetto dell’art. 153 del Tratt. U.E. ha fornito appunto il piano dell’opera: da esso è stata ripresa la geo- metria secondo la quale la materia è stata ordinata. Il Co- dice, sia pur sconvolgendo un po’ l’ordine seguito nella disposizione comunitaria, regola infatti nelle sue Parti successive l’educazione e informazione (Parte II), gli in- teressi economici (Parte III), la salute e sicurezza (Parte IV), l’organizzazione per la salvaguardia degli interessi (Parte V) (14).
Detto della topografia complessiva, merita segnalarne qualche particolarità «regionale».
Nella seconda disposizione della prima Parte sono ripro- dotti i precetti generali della Legge n. 281 del 1998 (15) sui diritti e interessi individuali e collettivi dei consuma- tori. Essi danno subito un’occasione di analisi interna della normativa. Le corrispondenze di contenuto con le finalità realizzano con evidenza lo scopo di fare di tutti i precetti del diritto oggettivo basilare (salute, sicurezza, informazione, interessi economici, organizzazione di sal- vaguardia, ecc.) altrettanti oggetti di diritto soggettivo fondamentale. Questo modello costruttivo è altamente commendevole, ma un po’ insidioso. Oggi non porta grandi conseguenze: i diritti che hanno inciso concreta- mente nella prassi sono finora quelli specificamente iscritti in tutte lettere nelle leggi. Ma mette nelle mani dei giudici un potente strumento costruttivo, i cui effet- ti possono essere ottimi, o preoccupanti. Sarà infatti fa- cile in presenza di «diritti fondamentali» (16) espandere l’area della responsabilità del professionista. Ma non sarà troppo difficile neppure far interferire il «diritto» con la libertà e autonomia esercitata negli scambi. Finché il be-
Note:
(9) Si tratta come noto dell’unica disposizione dell’attuale Titolo XIV
«Protezione dei consumatori». Ne riporto per comodità parte del testo:
«1. Al fine di promuovere gli interessi dei consumatori ed assicurare un livello elevato di protezione dei consumatori, la Comunità contribuisce a tutelare la salute, la sicurezza e gli interessi economici dei consumatori nonché a promuovere il loro diritto all’informazione, all’educazione e al- l’organizzazione per la salvaguardia dei propri interessi. 2. Nella definizio- ne e nell’attuazione di altre politiche o attività comunitarie sono prese in considerazione le esigenze inerenti alla protezione dei consumatori…». In tema, AA. VV., Il diritto privato dell’unione europea, a cura di X. Xxxxx- no, in Tratt. di dir. priv., diretto da X. Xxxxxxx, XXVI, II, Torino, 2000, 1331; X. Xxxxx, Il consumatore, in AA. VV., Trattato di diritto privato eu- ropeo, a cura di X. Xxxxxx, II ed., I, Padova, 2003, 435 ss; A.M. Mancaleo- ni, I contratti con i consumatori tra diritto comunitario e diritto comune euro- peo, Napoli, 2005.
(10) Essendo evidente che i principi costituzionali non hanno bisogno di essere richiamati per operare; e non essendo evidente per quale scopo specifico sono stati qui richiamati.
(11) Cfr. il primo considerando della Direttiva 2005/29/CE del Parlamen- to Europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, in G.U.C.E, L149/22 dell’11 giugno 2005.
(12) V. ancora il parere reso dal Consiglio di Stato (sub 3.3).
(13) Con negative conseguenze concrete, come (per esempio) la diffi- coltà di stabilire se sussista la legittimazione delle associazioni di consu- matori ed utenti ad agire per la tutela degli interessi collettivi «nelle ma- terie disciplinate dal Codice», come prevede l’art. 139, primo comma. Sussistono poi enclaves non regolate (si pensi alle esclusioni di materie e tipologie contrattuali, come i contratti finanziari o assicurativi), ed evi- denti esclaves, come le norme di tipica tutela del consumatore o utente presenti nel T.U.B. e nel T.U.F.
(14) Le Parti successive alla prima hanno insomma ciascuna per oggetto uno di tali punti, ma con spostamenti, che saranno segnalati. Se esse so- no cinque e non quattro è perché una (la VI e ultima) è dedicata a «Di- sposizioni finali», non meno importanti delle iniziali per il quadro siste- matico generale: amplius infra.
(15) Fatta poi oggetto di successive aggiunte e ora abrogata.
(16) La loro costituzionalizzazione è sostenuta da X. Xxxx, Commento, cit., 1056 sulla base della Carta di Nizza.
ne protetto sarà sufficientemente determinato (salute, sicurezza), l’uso sarà certamente razionale. Ma quando sarà di grigi confini (informazione, interessi economici) saranno facili gli sconfinamenti e difficili gli equilibri. E si riproporrà non solo la domanda classica - se cioè i giu- dici possano fare i contratti - ma anche una più insidio- sa - se cioè possano farli meglio dei contraenti.
La terza disposizione reca le definizioni di «codice»,
«prodotto», «produttore», «professionista», «associazio- ne dei consumatori e utenti» e, naturalmente, di «con- sumatore o utente» (17). Ma è ben lungi dall’esaurire le definizioni impiegate nel documento normativo. Quella di «prodotto» (agli effetti del danno da prodotti difetto- si) (18), e quelle di «prodotto sicuro», di «prodotto peri- coloso», di «rischio grave», di «produttore» (per i fini della sicurezza), di «distributore», di «richiamo», di «ri- tiro» (19), di «prodotto difettoso» (20), in quanto fina- lizzate alla specifica disciplina ivi contenuta, sono nella Parte IV. Ed è stato notato che sono omesse alcune defi- nizioni invece diffuse nel Codice (21). Viene poi da chiedersi se le definizioni così fissate operino solo nel- l’interpretazione ed applicazione del Codice (22), o sal- vo deroghe espresse possano considerarsi nozioni basila- ri, e allora estensibili, come induce a pensare la posizio- ne logicamente centrale di questo testo normativo. Sa- rebbe un vistoso effetto della potenza del nome.
Nella Parte II vengono trattate l’educazione del consu- matore, l’informazione e la pubblicità (23). Il dato sa- liente, prescindendo da dettagli, è l’aver esplicitamente considerato la pubblicità, come momento prodromico del rapporto commerciale: un contatto che apre al con- tratto. Nella sistematica del Codice si è infatti inteso se- guire in tutte le sue fasi il processo d’acquisto del consu- matore, in una logica sequenziale. Un’espressa scelta co- struttiva: ce lo dichiara la Relazione, ce lo conferma la formula finale dell’art. 1 (24). Ciò rincalza la revisione del rapporto precontrattuale che l’espansione della disci- plina della pubblicità ha da tempo innescato. Anche laddove c’è un contatto ma non è detto che ci sarà un contratto, la legge da rilievo alla relazione che si instau- ra tra i soggetti, facendone un rapporto giuridicamente rilevante. Un segno inequivoco è nel riconoscimento
(25) della qualità di consumatore, con i diritti che ne conseguono, anche alla persona fisica o giuridica desti- nataria delle comunicazioni commerciali e della pubbli- cità.
Si può qui per sintesi scivolare rapidamente sull’unico articolo del Titolo I dedicato all’educazione. Bisognereb- be invece soffermarsi sul II, dedicato alle Informazioni ai consumatori. Ma è più giusto farlo più oltre, per analiz- zarne specificamente non solo la collocazione nel quadro generale, ma anche e soprattutto come sia stata compiu- ta l’opera di interno riassetto (26) che l’enfasi esplicita- mente posta dalla Relazione sulle asimmetrie informati- ve come anima della legislazione sui consumatori fareb- be immaginare profondamente meditato. Il Titolo III raccoglie la normativa sulla pubblicità e le altre comuni-
cazioni commerciali, che include quella sulle televendi- te (27).
La Parte III è dedicata al rapporto di consumo, che con- tiene in cinque Titoli anzitutto le norme generali sui contratti del consumatore, poi quelle sull’esercizio del- l’attività commerciale e quindi quelle sulle modalità contrattuali, cui seguono disposizioni su singoli contrat- ti e infine una disposizione sui servizi pubblici. Il civilista non può non dedicarle qui qualche considerazione di forma e più avanti di contenuto.
Le norme generali sui contratti del Titolo I si riducono in sostanza alla disciplina delle clausole vessatorie di cui meglio si dirà parlando delle innovazioni (28).
Le norme del Titolo II sull’esercizio dell’attività com- merciale si traducono invece in una disposizione di prin- cipio intesa a richiamare buona fede correttezza e lealtà nelle attività commerciali, e poi nelle regole sul credito al consumo. Queste ultime non propongono problemi particolari. Della prima (29) invece va notato che in parte duplica il precetto di correttezza trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali che l’art. 2 erige a speci- fico diritto dei consumatori. Esso merita una glossa. È le- cito infatti domandarsi, data quella parziale sovrapposi- zione, quale spazio autonomo avrà il precetto. Restereb- bero indubbiamente i rapporti commerciali che non so- no (ancora) contrattuali (30). Ma questi si riducono al- la pubblicità ed alle attività promozionali, per le quali
Note:
(17) Quanto a quest’ultima definizione, amplius infra, § 3.
(18) Vedi l’art. 115.
(19) Art. 103.
(20) Vedi l’art. 117.
(21) X. Xx Xxxxxxxxxx, op. cit., 1139, con riferimento alla definizione di comunicazione commerciale e di pubblicità.
(22) Così X. Xx Xxxxxxxxxx, op. cit., 1139.
(23) Nella prospettiva di queste pagine è rilevante il fatto che il Codice, riproducendo l’art. 2 del D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74, attragga nella propria disciplina qualsiasi forma di messaggio pubblicitario, diffuso «in qualsiasi modo» e dunque anche attraverso mezzi telematici e con stru- menti informatici. La tutela amministrativa e giurisdizionale da parte del- l’Autorità garante della concorrenza e del mercato si arricchisce nel caso di messaggi pubblicitari diffusi attraverso mezzi a stampa, radiofonici, te- levisivi, o altro mezzo di telecomunicazione, del parere dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
(24) Nella parte in cui allude ai processi di acquisto e consumo. Sul pun- to si sofferma X. Xx Xxxxxxxxxx, op. cit., 1139.
(25) Esplicitato nell’art. 5, primo comma, e nell’art. 18, secondo comma, ma presente in parte nelle legislazione previgente.
(26) L’«analisi interna della normativa» additata dal Consiglio di Stato e qui rinviata ai §§ successivi.
(27) Xxxxxxx sul punto, che qui sarà trascurato, X. Xx Xxxxxxxxxx, op. cit., 1141.
(28) Infra, § 4.
(29) Art. 39.
(30) Non darei troppo rilievo a distinzioni tra buona fede e lealtà: del re- sto, almeno per la negoziazione vige pur sempre il principio del codice ci- vile.
quei principi sono separatamente sanciti. Xxxx è però che parlando di attività commerciali si includono anche i rapporti tra imprese. Sicché l’esito - un po’ paradossale
- sembra essere che la disposizione così inserita nel Co- dice del consumo ha concretezza soprattutto nelle rela- zioni tra imprese.
Nel Titolo III, sotto l’elusivo ma corretto nome di «mo- dalità contrattuali», in concreto si riproduce la discipli- na già vigente dei contratti negoziati fuori dei locali commerciali, dei contratti a distanza, del commercio elettronico. Nel IV, i «singoli contratti «sono quelli rela- tivi all’acquisizione di un diritto di godimento ripartito di beni immobili, e ai servizi turistici. Il V si riduce ad un rinvio al problema dell’erogazione di servizi pubblici.
Nella Parte IV è invece disciplinata la Sicurezza e qualità dei prodotti, e sono quindi riprese nei Titoli I e II le nor- me sui danni da prodotti, e nel Titolo III le garanzie sul- la conformità dei beni di consumo. L’accorpamento del- la qualità, che concerne problemi di contenuto contrat- tuale ed esecuzione di prestazioni, con la sicurezza (31), che investe i problemi dell’illecito e della responsabilità per danni, sembra un po’ forzato: è un canone universa- le quello che distingue Torts e Contracts e le rispettive fi- losofie. Mescolarne gli approcci in quanto aspetti del prodotto appare pretestuoso.
Nella Parte V si disciplina quanto concerne le associa- zioni dei consumatori e il problema dell’accesso alla giu- stizia. Quest’ultimo aspetto costituisce uno dei punti sa- lienti del Codice, che qui però dev’essere trascurato (32).
La Parte VI contiene soltanto alcune disposizioni finali di raccordo tecnico con altra normativa (la modifica dell’articolo 1469 bis del Codice civile, l’irrinunciabilità dei diritti del consumatore, le competenze degli enti lo- cali, e una lunga serie di abrogazioni) su cui si tornerà a proposito dei rapporti con il codice civile e gli altri codi- ci di settore.
L’
I punti qualificanti e le omissioni nell’opera di xxxxxxxxx
analisi interna della normativa implica due diret- trici, che erano anche i compiti oggetto della de- lega: riassetto (33) (ovunque) e innovazione (do-
ve opportuno).
Il riassetto della legislazione sui consumatori era lo scopo basilare della delega. Il compito è stato assolto in modo diseguale.
In positivo va senz’altro sottolineata la simmetria al pre- cetto dei Trattati comunitari che il legislatore nazionale, come sopra osservato, ha rigorosamente applicato alla topografia del codice. Ma se si scende all’interno dei te- mi qualificanti, come - per stare ai principali - la nozione di consumatore, l’informazione, la trasparenza, non si trova altrettanto esprit de géométrie. Sorge anzi qualche sospetto di distorsioni.
La definizione di consumatore poteva fornire, implicita nel concetto asseverato, quella perimetrazione che il con-
sulente istituzionale del Governo aveva dichiarato indi- spensabile per la razionalità dei Codici di settore. L’indi- viduazione, nel Codice ribadita, del consumatore o utente come persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventual- mente svolta, conferma un concetto consolidato (della parte in cui è innovato si dirà nel prossimo paragrafo). Ma se la si legge nel contesto risultante dall’uso fattone, dai raccordi normativi con il codice civile e con altri compendi normativi (34), dalle dotte disquisizioni del consulente istituzionale (35) prima e della Relazione poi, la questione si ingarbuglia.
La legislazione a tutela dei consumatori era nata, in pro- spettiva economica, sotto la spinta di una revisione del- la teoria neoclassica: all’astratto homo oeconomicus infor- mato e razionale operante in un mercato perfettamente efficiente si era realisticamente sostituita la visione dei fallimenti del mercato, non solo sotto il profilo di una perfetta concorrenza, ma anche sotto il profilo della pie- na e libera circolazione delle informazioni. Vittime di ciò, coloro che, come soprattutto (ma non solo) i consu- matori, subirebbero costi troppo alti in operazioni di im- porto modesto o di effettuazione saltuaria, per poter ac- quisire piena informazione. Da che contratti irrazionali, rendite per imprese inefficienti, deterioramento del mer- cato. La tutela del consumatore si proponeva così come correzione di una debolezza tecnica del ruolo contrattua- le del consumatore, nell’ottica del rimedio giuridico al- l’inefficienza del mercato.
Del tutto estranea, invece, e priva di base, restava in questa prospettiva l’idea di una debolezza esistenziale e di
Note:
(31) Da ultimo sul tema X. Xxxxxxxx, Sicurezza dei prodotti e tutela pre- ventiva dei consumatori, Xxxxxx, 0000.
(32) Va segnalato però un punto rilevante: le procedure di composizione extragiudiziale delle controversie possono essere avviate anche per via te- lematica. Deve essere ricordato per connessione che ciò le affianca alla nuova normativa sul processo civile amministrativo e contabile per via telematica (cfr. il D.P.R. 13 febbraio 2001, n. 123, e ora il D.M. 14 xxxx- xxx 2004): dimostrazioni evidenti del crescente impiego delle tecnologie nella funzione non solo di creazione dei rapporti ma anche di soluzione dei conflitti. Sull’accesso alla giustizia dei consumatori in dottrina AA.VV., Consumatori e processo. La tutela degli interessi collettivi dei consu- matori, a cura di Xxxxxxxxx e Fiorio, Torino, 2005; E. Xxxxxxxxx, La tutela collettiva dei consumatori in materia contrattuale, in AA.VV., I contratti dei consumatori, a cura di X. Xxxxxxxxx ed X. Xxxxxxxxx, op. cit., 427 ss.; X. Xx Xxxxx, Tutela inibitoria degli interessi collettivi e diritto comunitario, in questa Rivista, 2001, 990; X. Xxxxxxx, X xxxxxxxxxxx x xx xxxxxxxxx, Xxxxxxxx, 0000;
X. Xxxxxxx, L’accesso alla giustizia e la tutela collettiva dei consumatori, in AA.VV., Il diritto privato dell’Unione Europea, a cura di X. Xxxxxxx, in Tratt. di dir. priv., diretto da X. Xxxxxxx, XXVI, II, Torino, 2000, 1331 ss.; e per ulteriori indicazioni bibliografiche X. Xxxxxxx, Sull’accesso alla giusti- zia dei consumatori, in Contr. e impresa, 2000, 680 ss.
(33) Autorità garante della concorrenza e del mercato, Parere 4 maggio 2005 (AS 299), Riassetto delle disposizioni vigenti in materia di tutela dei con- sumatori - Codice del consumo, in Discipl. comm. e servizi, 2005, 748 ss.
(34) Come per esempio il rinvio (art. 68) alle informazioni dovute nel- l’ambito del commercio elettronico, che notoriamente non intercorre so- lo con consumatori.
(35) V. il parere del Consiglio di Stato (spec. sub 4.1 e 7).
ruolo sociale del consumatore, e quindi l’ottica del rime- dio all’ingiustizia sostanziale. È pur vero, però, che il mu- tamento maturato nel passaggio dalla mera Comunità economica all’Unione politica aveva fatto della prote- zione dei consumatori uno scopo in sé nell’ambito della politica sociale (36). Ed è notorio che dottrina e giuri- sprudenza hanno spesso in questa prospettiva allineato i consumatori e utenti ai lavoratori, ai conduttori di im- mobili ad uso abitativo e simili, sotto la dizione di con- traente debole (37): economicamente, socialmente, esi- stenzialmente debole. Xxx altra faccenda da quella che si risolve nella mera dinamica negoziale della contrattazio- ne disinformata, dalla quale allora sarebbe finalmente giunto il momento di sganciarsi.
È perfettamente comprensibile la difficoltà di sistemare insieme organicamente precetti generalissimi, come la regola di chiarezza o la regola di adeguatezza alla tecnica di comunicazione, e precetti particolari come quelli su specifiche «modalità» contrattuali (la negoziazione fuo- ri dei locali commerciali, o a distanza) o su singoli con- tratti (multiproprietà, servizi turistici). Ma è meno com- prensibile che in questa parte siano regolate le indicazio- ni sulla qualità del prodotto e sul prezzo e da un’altra quelle sulla pericolosità: specialmente quando si sceglie, un po’ pretestuosamente, di costruire e dedicare una spe- cifica Parte, la IV, contemporaneamente a Sicurezza e qualità dei prodotti (46).
Quale che sia l’approccio da preferire, tutto ciò porta
una discreta confusione nella nozione di consumatore. Non si giudica qui della bontà dei fini ma di quella dei mezzi. La nozione normativamente confermata infatti, non possiede nulla che implichi debolezza economico- sociale e ingiustizia sostanziale: un ricco che acquisti una tantum un bene o servizio sarà probabilmente assai meno informato della controparte professionale; un povero esperto di quel settore merceologico subirà anch’egli i costi cari e le clausole vessatorie delle imprese dell’area. Se si sta a quella definizione è bene evitare costruzioni basate sul contraente debole, perché divengono subito equivoche, come certa risalente dottrina sul favor debito- ris, che sembrava pensare a Xxxxxxx e ignorare che i de- bitori più frequenti sono imprese e banche.
Quella definizione dunque va bene se si resta nell’ottica dell’efficienza e della debolezza nel ruolo contrattuale. Nell’ottica della giustizia e della debolezza del ruolo so- ciale ce ne vorrebbe invece un’altra, che finalmente co- gliesse gli unici tratti che giustificherebbero la correzio- ne degli equilibri economici (38). Tratti che vanno al di là dell’economico: non si può correggere il mercato (la regola del libero incontro della domanda con l’offerta) in nome del mercato. E per correggerlo in nome di qual- cos’altro senza arbitrio, bisogna che quest’altro qualcosa ci dica quale correzione è giusta, e perché. Il Codice non compie il passo, e il Relatore non distingue sul punto. Qualche considerazione critica, che al fondo si rivela non dissimile, stimola anche il modo in cui è stata disci- plinata l’informazione. In concreto, sebbene si apprezzi lo sforzo di sistemazione, va segnalato che il relativo Ti- tolo non riesce ad essere una normativa generale e com- pleta sull’informazione del consumatore. Contiene in- fatti precetti sul suo oggetto (sicurezza, composizione e qualità) e sul suo contenuto minimo, ma «dimentica» l’informazione sul recesso nei contratti negoziati fuori dei locali commerciali (39) e nei contratti a mezzo tele- visivo e audiovisivo (40), le informazioni e conferme do- vute nella contrattazione a distanza (41), e nel commer- cio elettronico (42), nei contratti attributivi di diritti di godimento ripartito di immobili (43), o relativi a servizi turistici (44), sull’informazione utile per la prevenzione dei rischi da prodotto (45), tutte regolate altrove.
Note:
(36) In dottrina X. Xxxxxx, Il nuovo consumatore: verso il postmoderno, Mi- lano, 2003, 23 (che riprende concetti esposti in Id., Consumatore e mer- cato, Milano, 1995); X. Xxxxxxxxx, Lo spettacolo della merce, Milano, 2000; X. Xx Xxxxx (a cura di), Il significato sociale del consumo, Roma-Bari, 1997; K.M. Xxxxxxxx, Revisiting the family tree: historical and future consu- mer behavior research, in Academy of Marketing Science Rev. (2003), 1 ss.;
X. Xxxxxxxxx, Il servizio dalla parte del cliente. Un approccio cognitivo all’e- sperienza di consumo, Xxxx, 0000.
(37) Cfr. X. Xxxxxxxx, Nozione di consumatore e modelli economici, in AA.VV., Diritto dei consumatori e nuove tecnologie, a cura dello stesso Boc- chini, I, Torino, 2003, 25 ss.; T.S. Xxxxxxxxx, X.X. Xxxxxxxxxx (ed. by), Handbook of consumer behavior, Englewood Cliffs, 1991; I. Xxxxxxxx, X. Xxxxxx, X. Xxxx, X. Xxxxxx, S.M. Xxxxxx, Consumer research: in search of identity, in 52 Annual Rev. Of Psychology (2001), 249 ss. Si legge nel pa- rere del Consiglio di Stato, sub 7, che «la normativa di fonte comunitaria a tutela del consumatore ruota intorno ad un’esigenza di protezione spe- ciale di questo soggetto, qualificato come ’parte debole’del rapporto con l’interlocutore professionale, rispetto al quale si trova in posizione di ’asimmetria contrattuale’…» e questo va senz’altro d’accordo con la pri- ma prospettiva; ma vi si legge anche, poco dopo, «di qui un approccio specifico, ignoto al codice civile del 1942 fondato su un concetto forma- le di eguaglianza, diretto a garantire una tutela fondata su un equilibrio ef- fettivo - normativo ed economico - del contratto. Ciò trova conferma nella previsione di meccanismi di riequilibrio, basati su nullità di prote- zione rilevabili, anche d’ufficio, a vantaggio del solo contraente debole e nella necessità di affiancare alla tutela individuale strumenti di tutela processuale a carattere associativo, capaci di sopperire alla debolezza eco- nomica e professionale del consumatore uti singulus», e questo entra nel- la seconda prospettiva.
(38) Come osserva giustamente X. Xxxx, Commento, cit., 1053, «Attual- mente si può dire che la nozione di consumatore ha assunto i contorni di una formula neutra, priva di quei connotati ideologici che negli anni Set- tanta del Novecento avevano appassionato gli studiosi, preoccupato i di- fensori del libero mercato, impensierito i legislatori neghittosi. Se si do- vesse accogliere la definizione che sottolinea gli aspetti sociali del diritto privato, dovremmo frantumare la nozione in altrettanti aspetti di volta in volta connessi con l’età (...), con il sesso (...), con le condizioni economiche e sociali (...)».
(39) Vedi invece l’art. 47.
(40) Vedi invece l’art. 59.
(41) Vedi invece l’art. 52.
(42) Cui si rinvia nell’art. 68.
(43) Vedi gli artt. 70, e 73, terzo comma.
(44) Vedi gli artt. 87 e 88.
(45) Vedi l’art. 104, commi secondo e seguenti.
(46) Accogliendo una specifica esortazione del Consiglio di Stato (sub 7).
Il drafting dissimula la sostanza (47). Il Codice restan- do all’elencazione e riproduzione delle disposizioni già esistenti elude il problema insolubile: premesso che la comunicazione di informazioni è cessione di valore, fi- no a che punto il professionista che ha speso per ac- quisirle deve cederle al consumatore (48)? Ogni nor- mativa sulla trasmissione di informazioni è al fondo espressione di giustizia redistributiva (49). Poiché di- pende dalla proporzione che si tratti davvero di giusti- zia (50), una politica legislativa efficiente dovrebbe determinarla. Non pare che il Codice abbia segnato progressi (51).
Egualmente debole l’opera di sistemazione di un altro te- ma maggiore del diritto dei consumatori: la trasparenza. La metodica adottata infatti non è servita ad evitare ri- petizioni e sovrapposizioni: basti rilevare le volte in cui si incontra la regola di trasparenza (52). Senza che tanta abbondanza giovi però, presuntivamente, a stroncare il malvezzo dei legali del professionista di scrivere i con- tratti seriali delle imprese in modo sconnesso, e soprat- tutto in quel dialetto del peggior «giuridichese», che è l’«aziendalese» (53).
Ad esser severi, non mancano poi ben altre omissioni dei redattori del Codice.
Disattendendo l’indicazione istituzionale (54) a ricom- penetrare contratti negoziati fuori dei locali commercia- li e contratti a distanza, portandoli a coerenza di fattispe- cie e disciplina, ci si limita ad omogeneizzarne il recesso, eludendo per tutto il resto il riassetto (55).
Disattenti alle altre «modalità contrattuali» pure proprie dei contratti dei consumatori si esclude dal Codice la coeva legge (56) sulla vendita diretta a domicilio (una variante della contrattazione fuori dei locali commercia-
xxxxx, in Pol. del dir., 1980, 304), o del dolus bonus (P. Di Xxxxx, In tema di pubblicità ingannevole e di dolus bonus - osservazione a AGCM 1° agosto 2001 n. 9848, in Giust. civ., 2002, 3010; X. Xxxxx, Informazione su un cliente e dolus bonus della banca, in Banca e banchieri, 1988, 740 ), e simili.
(52) Cfr. gli artt. 2, secondo comma, lettera e) («…trasparenza….nei rapporti contrattuali..»); 4, secondo comma («…rendere chiaramente percepibili benefici e costi…»); 5, terzo comma («informazioni…espres- se in modo chiaro e comprensibile….»); 6, primo comma («….chiara- mente visibili e leggibili, almeno le indicazioni relative:….»); 9, primo comma («…tutte le informazioni destinate ai consumatori e agli utenti debbono essere rese almeno in lingua italiana»), e secondo («indicazio- ni…con caratteri di visibilità e leggibilità….»); 11 («è vietato il com- mercio…di qualsiasi prodotto…. che non riporti in forme chiaramente visibili e leggibili…»); 15, quinto comma («….è fatto obbligo di esporre in modo visibile dalla carreggiata stradale i prezzi [scilicet: dei prodotti pe- troliferi] praticati al consumo»); 22 primo comma, lettera d) («[la pub- blicità comparativa è lecita se] non ingenera confusione sul merca- to…..»); 23, primo comma («la pubblicità deve essere chiaramente rico- noscibile come tale…»); 30, secondo comma («le televendite non devo- no contenere dichiarazioni o rappresentazioni che possono indurre in er- rore…»); 34, secondo comma («la valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto, né all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali ele- menti siano individuati in modo chiaro e comprensibile»); 35, primo comma («[le clausole scritte proposte al consumatore] ….devono essere redatte in modo chiaro e comprensibile»); 52, secondo comma («le informazioni di cui al comma 1, il cui scopo commerciale deve essere ine- quivocabile, devono essere fornite in modo chiaro e comprensibile, con ogni mezzo adeguato alla tecnica di comunicazione a distanza impiega- ta..»); 85, primo comma («il contratto di vendita di pacchetti turistici è redatto in forma scritta in termini chiari e precisi»); 88, primo comma («l’opuscolo ….indica in modo chiaro e preciso…»); 107, secondo com- ma, lettera b), n. 1 («…apposizione sul prodotto, in lingua italiana, di adeguate avvertenze sui rischi…»); 117, primo comma («Un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può ragionevolmente at- tendere tenuto conto di tutte le circostanze, tra cui: a) ….la sua presen- tazione, le sue caratteristiche palesi, le istruzioni e le avvertenze fornite;
..»). Vi sono poi disposizioni in cui la trasparenza è indirettamente impli- cata.
(53) Non mi trova molto d’accordo, perciò, l’osservazione di X. Xxxx, Commento, cit., 1053, secondo la quale, in questo campo: «… attraverso la certificazione di qualità (...) i consumatori sono provvisti di tecniche di
controllo dell’attività d’impresa che suppliscono alle iniziative difficili e
Note:
(47) Per la fase preparatoria del codice del consumo v. X. Xxxxxx, Anche in Italia un codice del consumo, in Contr. e impresa/Europa, 2003, 1349 ss.
(48) Sul problema (quanta informazione si debba fornire) X. Xxxxxx, Re- gulating Contracting Behaviour: the Duty to Disclose in English and French Law, in Europ. Rev. of Priv. Law, 2005, 621 ss., rileva il diverso approccio dei singoli ordinamenti nazionali: moralista e di giustizia (come in Fran- cia) o economicista e di efficienza (come in Gran Bretagna); sul costo dell’informazione e il disincentivo insito nel dovere di comunicazione v. 636
(49) Su questo aspetto generale del diritto dei contratti X. Xxxxxxx, Eco- nomics of dangerous liasons: deliberate misrepresentation of preference for en- tertainment, in Rivista internazionale di scienze economiche e commerciali, 1999, 46, 2, 285-300.
(50) Per la dimostrazione del principio in generale X. Xxxxx, Teorie della giustizia, Milano, 1996.
(51) Il lettore non sospetti in ciò un eccesso di retorica, si tratta di cose semplici e concrete: effettive qualità del bene, alternative esistenti, grado di soddisfazione che l’interesse dell’acquirente può trarne. Ovviamente, laddove non sono possibili precetti dettagliati varranno clausole genera- li; ma concrete, non puri nomi da decodificare ad arbitrio. Il problema è, se non insolubile, annoso: si pensi alla difficoltà di fissare i limiti della re- ticenza «dolosa» (in tema X. Xxxxxx, La labile memoria del mediatore im- mobiliare: ovvero, ancora in tema di dovere di informazione. Osservazioni a Cass. sez. III, 24 ottobre 2003, n. 16009, in Foro it., 2004, 1, 455; cfr. A.
T. Xxxxxxx, Errore e informazione nell’analisi economica del diritto contrat-
onerose che dovrebbero essere sostenute dalle loro associazioni». In realtà, è vero forse nel caso di specie citato dall’Autore, ma almeno fino a che la certificazione di qualità (in tema A. Luminoso, Certificazione di qualità di prodotti e tutela del consumatore-acquirente. Relazione al conve- gno sul tema: «La tutela preventiva del consumatore», Cagliari, 24-25 settembre 1999, in Europa e diritto privato, 2000, 27 ss.; X. Xxxxxxx, La ri- levanza giuridica della certificazione volontaria, ivi, 2000, 59 ss.) non si rive- lerà realmente customer oriented è da dubitare che possa rivelarsi vero in generale. Piuttosto c’è da domandarsi se non sia stata perduta l’occasione di varare precetti che, tenuto conto della circostanza che perlopiù i mo- delli contrattuali conformi predisposti dalle associazioni di imprese cor- rono il rischio di incorrere, soprattutto ai fini antitrust, nei rigori delle Autorità di settore, prevedano che laddove quei modelli siano negoziati con associazioni di consumatori effettivamente rappresentative, godano di una presunzione di legittimità, o di limitate possibilità di deroga.
(54) Data dal Consiglio di Stato, nel parere citato, (sub 11.1)
(55) Va aggiunto che la Sezione sui contratti a distanza si chiude con un Capo sul commercio elettronico composto di un solo articolo (cfr. il Ca- po II del Titolo III della Parte III, art. 68) che in relazione alle offerte di servizi della società dell’informazione, effettuate ai consumatori per via elettronica, non va oltre il richiamo dell’applicazione, per gli aspetti non disciplinati dal Codice, delle disposizioni sul commercio elettronico nel mercato interno.
(56) Cfr. la Legge 17 agosto 2005, n. 173, su cui X. Xxxxxxxx, L. 17 agosto 2005, n. 173. Vendita diretta a domicilio e vendite piramidali, in Il codice del consumo, diretto da X. Xxxxxxxx, a cura di X. Xxxxxxx, 0000, Xxxxxx, (in corso di pubblicazione).
li (57)) e le cosiddette vendite piramidali (quelle cioè in cui il primario incentivo economico è procacciare altri partecipanti (58)).
Lasciando cadere una diversa sollecitazione istituzionale (59), che dichiarava incomprensibile la ragione per cui il Progetto di Codice non disciplinasse altre tipologie di contratti di consumo come i finanziari e gli assicurativi si mantengono le esclusioni (60), e le deroghe (61) che già erano nella normativa previgente; e anzi si aggrava la frammentazione: restano infatti fuori le recenti norme di recepimento dell’ultima legislazione comunitaria sulla commercializzazione dei prodotti finanziari (62), con le relative iterazioni di definizioni (e qualche differenza), e di disposizioni analoghe sul contratto a distanza, sul- l’informazione, sulle comunicazioni non richieste, sul re- cesso, sull’irrinunciabilità dei diritti, sulla composizione extragiudiziale delle controversie.
Si potrebbero infine aggiungere all’elenco delle omissio- ni (63) le norme sul credito al consumo rimaste nel T.U.B., e quelle sulla tutela delle persone fisiche acqui- renti di edifici (64), nonché una serie di norme soprav- venute sulla contrattazione a distanza, qui riportate, ma nel vecchio testo (65).
Forse, la geometria che è stata preferita non è quella eu- clidea.
Le innovazioni apportate
L’
alla regolamentazione vigente
innovazione della legislazione sui consumatori era l’occasione offerta dal legislatore delegante ai redattori del Codice. Il compito è stato assolto in
modo a dir poco timido.
In tema di innovazioni in senso proprio si segnalano, almeno al primo esame, un’estensione della nozione di consumatore alle persone giuridiche, ma solo a certi ef- fetti, l’inserzione nel Codice della disciplina delle clau- sole «abusive», e la trasformazione dell’inefficacia di tali clausole in esplicita nullità, definita «di protezio- ne».
Della definizione di consumatore s’è già detto. Ma qui è da segnalare che essa è ora integrata dall’articolo 18, comma secondo, con l’espressa ricomprensione anche delle persone giuridiche (66), limitatamente alla disci- plina della pubblicità (67). L’estensione propone un pro- blema, assai complicato (68), che qui può essere solo ac- cennato. Questo problema ha due aspetti, uno riguarda l’ambito applicativo, l’altro la ratio giustificativa.
Questo il primo aspetto. Le persone giuridiche hanno uno scopo statutario che individua un’attività istituzio- nalmente tipica. Essa non è attività d’impresa, ma l’atti- vità d’impresa può essere da esse svolta per fini stru- mentali. Né è attività professionale nel senso di eserci- zio di professioni. È però professionale nel senso di abi- tuale, organizzata. C’è da domandarsi allora se le perso- ne giuridiche consumatrici avranno tutela di fronte a casi di pubblicità ingannevole solo quando ne siano vit- time al di fuori (sicuramente dell’attività imprenditoria-
Note:
(57) Cfr. la definizione dell’art. 1, primo comma, lett. a): «Ai fini della pre- sente legge si intendono: a ) per «vendita diretta a domicilio», la forma speciale di vendita al dettaglio e di offerta di beni e servizi, di cui all’xxxx- xxxx 00 xxx xxxxxxx legislativo 31 marzo 1998, n. 114, effettuata tramite la raccolta di ordinativi di acquisto presso il domicilio del consumatore fina- le o nei locali nei quali il consumatore si trova, anche temporaneamente, per motivi personali, di lavoro, di studio di intrattenimento o di svago;…»
(58) Cfr. l’art. 5: «1. Sono vietate la promozione nella realizzazione di at- tività è di strutture di vendita nelle quali l’incentivo economico primario dei componenti la struttura si fonda sul mero reclutamento di nuovi sog- getti piuttosto che sulla loro capacità di vendere o promuovere la vendi- ta di beni o servizi determinati direttamente o attraverso altri compo- nenti la struttura. 2. È vietata, altresì, la promozione e l’organizzazione di tutte quelle operazioni, quali giochi, piani di sviluppo, «catene di Sant’Xxxxxxx», che configurano la possibilità di guadagno attraverso il puro e semplice reclutamento di altre persone e in cui il diritto di reclu- tare si trasferisce all’infinito previo pagamento di un corrispettivo».
(59) Cfr. la citata Segnalazione dell’Autorità garante della concorrenza.
(60) Cfr. l’art. 46. Analogo l’art. 1, secondo comma, lett. a), b) e c), del- la Legge n. 173 del 2005, cit.
(61) Cfr. ad esempio i commi terzo, quarto e quinto dell’art. 33; primo, lettere c) e d) dell’art. 46; primo comma, lett. a), dell’art. 51.
(62) La Direttiva 2002/65/CE relativa alla commercializzazione a distan- za dei prodotti finanziari e il decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 190, in G.U., n. 204 del 2 settembre 2005, su cui X. Xxxxxxx, Una mera semplifica- zione lessicale dietro la scomparsa dell’intermediario, in Guida al dir., 2005, 36 ss; Id., Un indefinito tempo utile a decidere, ivi, 39 ss.
(63) Cfr. X. Xx Xxxxxxxxxx, op. cit., 1138.
(64) Su cui X. Xx Xxxxxxxxxx, X. Xxxxxxx, Le misure di protezione degli ac- quirenti di edifici da costruire introdotte dal decreto legislativo 20 giugno 2005,
n. 122. Prime considerazioni, in Studium juris, 2005, 1006 ss.
(65) Cfr. ad es. l’art. 57, che non tiene conto del sopravvenuto art. 15 del- la citata Direttiva 2005/29, o l’Allegato I che non tiene conto della Di- rettiva 2002/65.
(66) Ancora nella Legge n. 281 del 1998 e nel D.Lgs. n. 84 del 2000 la definizione di «consumatore» non si estende alle persone giuridiche (sul carattere stipulativo di queste definizioni X. Xxxxxx, Il consumatore nelle definizioni legislative, in La disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, a cura di X. Xxxxx, Napoli, 2000, 3 ss.). Invece, nel D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74, (poi modificato dal D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 67 e ora abro- gato e confluito negli artt. 19 ss.). L’integrazione, coerente con il riordino di tali testi normativi preesistenti, era stata espressamente sollecitata dal- la Segnalazione dell’Autorità garante della concorrenza.
(67) È razionale che agli effetti delle comunicazioni commerciali sia pro- tetta dalla legislazione sui consumatori anche la persona giuridica? E se si, che non lo sia invece (il testo non lascia dubbi: viene infatti fatta salva la definizione di consumatore come «persona fisica» dell’art. 3, primo com- ma, lett. a) a tutti gli altri effetti? Xxx scrive se ne chiede le ragioni.
(68) In giurisprudenza tra le più significative: Xxxx. 25 luglio 2001, n. 10127, in questa Rivista, 2002, 341, con nota di I. Caserta, La nozione di
«consumatore» secondo la Cassazione; e in Giust. civ., 2002, I, 688, con nota di F. Xx Xxxxxx, Ancora sulla nozione di «consumatore» nei contratti; e in Giur. it., 2002, II, 543, con nota di X. Xxxxxx, Professionista e consumatore, un di- scrimine formalista?; Corte cost. 30 giugno 1999, n. 282, in Foro it., 1999, I, 3118, con nota di X. Xxxxxxxx, L’ibrida definizione di consumatore e i benefi- ciari (talvolta pretermessi) degli strumenti di riequilibrio contrattuale; Corte Giu- st. CE 22 novembre 2001, n. C-541-99, in Resp. civ. e prev., 2002, 56, con nota di X. Xxxxx, La controversa nozione di consumatore ex art. 1469 bis c.c. tra esegesi e ermeneutica; tra le pronunce di merito in particolare; Trib. Ro- ma 20 ottobre 1999, in Giust. civ., 2000, I, 2119, con nota di X. Xxxxx, An- cora in tema di «consumatore» e contratti a scopi professionali: un intervento chiarificatore; Trib. Roma 5 ottobre 2000, in Resp. civ. e prev., 2001, 436, con nota di A. De Xxxxxxxxx, Il contratto di assicurazione del consumatore ed il con- tratto di assicurazione del professionista; Pret. Foggia 17 dicembre 1998, in Giur. it., 2000, I, 1, 312, con nota di X. Xxxxxxx, Consumatore, professionista.
le strumentale eventualmente svolta e) dell’attività ti- pica, quantunque non imprenditoriale, o anche in tale ambito.
La prima soluzione minimizza il rilievo dell’estensione della tutela: la persona giuridica non avendo una «vita privata» agisce (quasi) sempre in vista dello scopo istitu- zionale, dedotta questa attività (e dedotta comunque l’e- ventuale attività imprenditoriale strumentale), avrà ben poche occasioni di valersi della tutela del consumatore. La seconda però contraddice la ratio dottamente sban- dierata dalla Relazione al Codice del consumo: la giusti- ficazione fondamentale del diritto dei consumatori sono come ricordato le asimmetrie informative; ma allora ri- levante è il carattere professionale (nel senso di abituale e organizzato, e come tale proprio dell’operato istituzio- nale) non il carattere imprenditoriale (invece normal- mente assente) dell’attività, sicché le persone giuridiche non possono essere ritenute vittime predestinate di un’a- simmetria informativa.
Questo invece il secondo aspetto, come si vedrà intro- dotto e condizionato dal primo. Chi ritiene non solo le- gittima ma necessaria l’estensione alle persone giuridi- che della nozione di consumatore nel campo della tute- la contro la pubblicità ingannevole, la giustifica affer- mando che «la disciplina (….) è intesa a garantire non direttamente gli interessi economici dei consumatori quali parti deboli del rapporto contrattuale, bensì l’inte- resse pubblico all’eliminazione delle comunicazioni pubblicitarie ingannevoli» (69). Ma l’argomento prova troppo. Se la ratio è l’interesse pubblico all’eliminazione delle comunicazioni pubblicitarie ingannevoli, esso prescinde dalla qualità soggettiva del soggetto inganna- to: perché non sarebbe violato anche quando è ingan- nato un imprenditore (70)? Non a caso, la legislazione preesistente consentiva, e il Codice conserva (71), l’ini- ziativa delle imprese concorrenti per l’inibitoria. Né l’e- stensione è ricondotta a razionalità dall’attribuzione ai consumatori di qualche ulteriore e diverso diritto sog- gettivo o rimedio specifico, che semplicemente non esi- ste (72).
Una seconda rilevante innovazione, che apprendiamo aver dato luogo a dissensi (73), è stata compiuta inse- rendo le clausole vessatorie della Direttiva 1993/13 nel Codice del consumo. In tal modo, viene a prima vista sovvertita la scelta assai contrastata fatta all’atto del re- cepimento, allorché si era scartata l’ipotesi di una legge speciale, e preferito l’inserimento nel codice civile (74). Oggi la disciplina delle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori è infatti riportata in una legge formal- mente speciale. Ma da un altro punto di vista la scelta di- sattesa nella forma è confermata nella sostanza, perché il Codice del consumo aspira appunto a porsi, come già l’intitolazione dichiara, come legge generale del diritto dei consumatori, di cui le clausole vessatorie sono il mo- mento emblematico (75). Il Codice abroga perciò gli ar- ticoli 0000 xxx, xxx, xxxxxx, quinquies, sexies, del Codice ci- vile. Queste stesse disposizioni, ma con l’innovazione
della nullità in luogo dell’inefficacia (di cui tra poco si dirà) vengono riprodotte nel Codice del consumo. La
Note:
(69) Così, ora, testualmente, l’Autorità garante della concorrenza, nella sua Segnalazione. In dottrina, in relazione alla tutela del consumatore (persona fisica/giuridica) con specifico riguardo alla pubblicità inganne- vole, la letteratura è amplissima; tra gli scritti più recenti v.: X. Xxxxxxxxx, Il diritto industriale dieci anni dopo - Il punto su ... la pubblicità, in Dir. ind., 2002, 398 ss.; X. Xxxx, I contratti nuovi. Pubblicità commerciale. Tecnica, modelli, tipi contrattuali, in Trattato di dir. priv., diretto da X. Xxxxxxx, To- rino, 2001; X. Xxxxx, La pubblicità dannosa. Concorrenza sleale, diritto a non essere ingannati, diritti della personalità, Milano, 2000; X. Xxxxx, Pubblicità scorretta e diritti dei terzi, Milano, 2000; X. Xxxxxxx, La pubblicità. Tra mer- cato e diritti dei cittadini utenti, Milano, 1997; X. Xxxxxxx, Pubblicità commer- ciale, in Digesto comm., XI, Torino, 1995, 433 ss.; X. Xxxxxxxx, Pubblicità in- gannevole, in Contr. impresa, 1995, 136 ss.; X. Xxxx, Xx xxxxxxxxxxx xxxxx xxxxxxxxxx xxxxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000; X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxx, X. Xx Via, At- tuazione della direttiva n. 450/84/CEE in materia di pubblicità ingannevole, in Nuove leggi civ. comm., 1993, 671 ss.; X. Xxxx, P. Testa, X. Xxxxxxxxx, La pubblicità ingannevole. Commento al D. lgs. 25 gennaio 1992, n. 74, Mila- no, 1993; AA.VV., La pubblicità. Figure contrattuali, tutela del consumato- re, salvaguardia della concorrenza, a cura di X. Xxxxx, Xxxxxx, 0000; G. Al- pa, X. Xxxxxxxx, Commento al D.Lgs. 74/92, in Corr. giur., 1991, 371 ss. (e in Dir. inf., 1992, 259 ss.); X. Xxxxxxxx, Pubblicità (disciplina della), in Enc. giur., XXV, Roma, 1991. Sulla pubblicità comparativa X. Xxxxxxxx, Og- getto e limiti del confronto nella pubblicità comparativa, in Europa e dir. priv., 2004, 644 ss.; X. Xxxxxxxxx, Pubblicità ingannevole e comparativa (commento al D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 67), in Nuove leggi civ. comm., 2000, 883 ss.;
X. Xxxxxxx, La pubblicità ingannevole e la nuova disciplina della pubblicità comparativa, in Nuova giur. civ. comm., 2002, II, 682 ss.; I. Xxxxxxx, La pub- blicità comparativa, Milano, 1999; X. Xxxx, La pubblicità comparativa fra vecchia e nuova disciplina, in Giur. comm., 1999, I, 267 ss.; A. Musio, La pubblicità comparativa alla luce della direttiva 97/55/Ce, in Dir. inf., 1999, 167 ss.; X. Xxxx, Prospettive di disciplina della pubblicità comparativa alla luce della direttive 97/55, in Europa e dir. priv., 1998, 907 ss.; X. Xxxxxxxx, Il con- trollo della pubblicità comparativa in Italia, in Dir. ind., 1998, 165 ss. D’altro canto, non è davvero possibile minimizzare il rilievo di interesse genera- le dell’eliminazione delle comunicazioni commerciali ingannevoli: esso è ormai chiarissimo nella citata Direttiva 2005/29/CE, che tra le pratiche sleali contempla appunto le ingannevoli, (cfr. art. 6 ss.) e rende inequi- voca la legittimazione di consumatori, concorrenti e pubblici poteri ad attivarsi per la repressione (cfr. art. 11 ss.).
(70) L’interpretazione estensiva, inclusiva degli imprenditori, è però im- possibile, in quanto notoriamente l’insieme delle persone fisiche e giuri- diche non è esaustivo della categoria dei soggetti di attività giuridica; e inutile, in quanto, come si spiega subito appresso nel testo non ci sono si- tuazioni soggettive da estendere. Ma non è anche assurda, se il presuppo- sto è la tutela del mercato e non del solo consumatore.
(71) Cfr. ora l’art. 26, comma secondo.
(72) Come si sa, le conseguenze del carattere ingannevole della pubbli- cità sono la possibilità dell’inibitoria, che come appena ricordato è estesa agli imprenditori concorrenti, e la possibilità di sanzioni amministrative, che come è ovvio è riservata all’Autorità garante della concorrenza.
(73) Contraria era infatti la Commissione presieduta da X. Xxxx (G. Al- pa, Commento, cit., 1058), che nella permanenza nel codice civile delle relative disposizioni vedeva l’argomento per una applicazione estensiva ad altre categorie di soggetti: persone giuridiche, professionisti che acqui- stano con scopi misti, enti not for profit, piccoli imprenditori.
(74) Al quale si era dichiarata favorevole nella propria Segnalazione del 4 maggio 2005 sul «Riassetto delle disposizioni in materia di tutela dei consuma- tori - Codice del consumo», l’Autorità garante della concorrenza e del mer- cato, anche per non separare la sedes materiae delle clausole abusive da quella delle tradizionali clausole vessatorie e delle condizioni generali di contratto.
(75) Questa soluzione originariamente non propria dello schema, era sta- ta caldeggiata, proprio per queste ragioni, dal Consiglio di Stato nel cita- to parere (sub 7).
soluzione escogitata risulta perciò simile al caso francese e contraria a quanto fatto dal legislatore tedesco, che ha colto l’occasione della riforma del diritto delle obbliga- zioni per sistemare nel B.G.B. anche la normativa sui contratti dei consumatori.
G
La trasformazione dell’inefficacia in nullità di protezione
li interessi di chi scrive ne condizionano le va- lutazioni, e lo spingono a vedere l’innovazione più incisiva del Codice nella consacrazione del-
la nullità di protezione, individuata nella sua espressione
me espressione della restrizione al consumatore della le- gittimazione; anche se, quando (come nel T.U.B. e nel T.U.F., o in questo stesso Xxxxxx (81)) il legislatore ha voluto dirlo, l’ha detto con ben altra formula e ben altra chiarezza.
Ma se la legittimazione ristretta non è inequivocamente nel testo, se (interpretando - come per lo più si è inter- pretato - in modo diverso l’inciso riportato in corsivo) dell’inefficacia necessariamente parziale si tace, per deci- dere in merito si richiede una ratio. E la ratio era dubbia: la primaria protezione del mercato richiamata nei consi-
paradigmatica: la repressione delle clausole vessatorie.
L’interprete noterà anzitutto che la denominazione della categoria concettuale trova finalmente e per la prima volta ricezione normativa, anche se in una rubrica (76). È lecito dedurne che, così, la nullità a protezione di una sola parte, con la proposta della disciplina congruente in termini di legittimazione, rilevazione d’ufficio, incidenza parziale sull’atto, sanatorie, prescrizione, che finora veni- va «letta» nelle disposizioni che ne implicano la ratio
(77) o in quelle che ne contengono un frammento (78), da concetto divenga istituto. E viene addirittura da do- mandarsi se, ora che è «normale» nel sistema del Codi- ce, questa nullità già presente come alternativa nel siste- ma del codice civile (79), sia ancora «speciale». Ma do- potutto è questione di parole.
Altre domande sono però sostanziali. La promozione purtroppo enfatizza le debolezze. Ad un concetto si pote- va perdonare di non corrispondere con certezza ad una disciplina precisa e stabile. Legittimazione relativa? E, se si, in fondo perché, visto che si protegge, nel consuma- tore, il mercato? Rilevabilità d’ufficio? E, se si, anche quando per il consumatore così indotto a tornare sul mercato con le stesse debolezze, tanto varrebbe non far cadere l’affare? Incidenza necessariamente parziale? E se si, allora su quale base questa si speciale, visto che secon- do le regole ordinarie il contratto dovrebbe cadere, per- ché la controparte normalmente non l’avrebbe concluso senza quella clausola? Ad un istituto francamente è me- no facile perdonarlo.
Ma il Codice a tutto questo risponde solo nella misura in cui conservando gli spezzoni di disciplina che erano già nelle disposizioni traslocate, rende inequivoca la possibilità della rilevazione d’ufficio. Non anche, come il lettore starà già pensando supponendo una singolare dimenticanza, la legittimazione relativa. Che nel testo non c’era e non c’è, perché vi si parla di nullità che opera soltanto a vantaggio del consumatore. Il che a livello lette- rale significa solo che la sentenza che accerta la nullità di una clausola non farà cadere quanto in essa al consu- matore non nuoce ed ha ancora funzionalità: è dunque asseverazione della operatività necessariamente parzia- le, non della legittimazione necessariamente relativa (80).
Solo a livello di approdo ermeneutico, ragionevole ma non scontato, si può intendere quella formula anche co-
Note:
(76) Dell’art. 36.
(77) Come queste disposizioni sull’«inefficacia» delle clausole abusive. In dottrina la bibliografia è molto ampia cfr. in particolare in tema di inefficacia delle clausole suddette. Tra i contributi di maggior respiro: AA.VV., I contratti dei consumatori, a cura di X. Xxxxxxxxx ed X. Xxxxxxx- ni, Torino, 2005, 5-423 (in particolare le riflessioni di X. Xxxxxxxxx, A.M. Xxxxxx, X. Xxxxxx, X. Xxxxx, X. Xxxxxxxx, F. Di Xxxxxxxx e X. Xxxxxxxx);
X. Xxxxxxxx, I contratti per adesione e le clausole vessatorie, in AA.VV., Trattato di diritto privato europeo, a cura di X. Xxxxxx, II ed., III, Padova, 2003, 313 ss.; AA.VV., Clausole vessatorie nei contratti dei consumatori, a cura di X. Xxxx e S. Patti, Milano, 2003; X. Xxxxxxxx, La tutela del consu- matore contro le clausole abusive, Milano, 2002; X. Xxxxxxxx, I contratti con i consumatori, Milano, 2000; AA.VV., Commentario al capo XIV bis del codice civile: dei contratti del consumatore (art. 1469 bis-1469 sexies), a cura di C.M. Bianca ed altri, Padova, 1999; AA.VV., La disciplina delle clausole vessatorie, in Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, a cura di X. Xxxxxxx, Padova, 1999, 3 ss.; X. Xxxxxxxxx, Tutela del consuma- tore e clausole vessatorie, Napoli, 1999; X. Xxxxxx (a cura di), Clausole ves- satorie e contratto del consumatore, 2, Padova, 1997; C.M. Xxxxxx, X.X. Busnelli ed altri (a cura di), La nuova disciplina sulle clausole vessatorie (Capo XIV bis del codice civile: dei contratti del consumatore), in Nuove leg- gi civ. comm., 1997, 751 ss. (poi ripubblicato, nel volume sopra cit.); X. Xxxxxx, Il contratto per adesione, Milano, 1997; AA.VV., La nuova discipli- na delle clausole vessatorie nel codice civile, a cura di X. Xxxxxxxx, Napoli, 1996; X. Xx Xxxx (a cura di), Le clausole vessatorie, Milano, 1996; X. Xxxxxx, La tutela del contraente «debole» in Europa, Xxxx, 0000; V. Rop- po, X. Xxxxxxxxxx, Clausole abusive, in Enc. giur., V, Roma, 1996. Per indicazioni giurisprudenziali v., per tutti, AA.VV., Repertorio di giurispru- denza sulle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori, a cura di G. Al- pa, X. Xxxxx ed al., Milano, 2004.
(78) Come le disposizioni del T.U.B e del T.U.F citt.
(79) È un dato solitamente dimenticato dalla letteratura in materia. Per lo più si trascura infatti che il codice civile non solo (art. 1421) contem- pla la possibilità di regimi alternativi quanto alla legittimazione ed alla ri- levazione d’ufficio da parte del giudice, ma anche individua fattispecie (artt. 1261, 1471, nn. 1 e 2, 2744, ecc.) nelle quali si manifesta l’elemen- to sostanziale cui si connette la nullità «speciale» (la protezione di una sola parte), e si rende ragionevole l’applicazione della disciplina alterna- tiva. In dottrina, AA. VV., Le nullità negoziali di diritto comune speciali e vir- tuali, a cura di X. Xxxxxxx, Milano, 1998; X. Xxxxxxxx, Pegno irregolare e di- vieto di patto commissorio, in Giur. it., 2005, I, 1, 1418 ss.; X. Xxxxxxx, Le in- validità, in I contratti in generale, a cura di X. Xxxxxxxxx, Torino, 1999, II, 1255.
(80) Poiché l’integrale ricostruzione del ragionamento sarebbe lunga, il lettore scuserà che lo rinvii a X. Xxxxxxx, L’inefficacia delle clausole abusive, in Riv. dir. civ., 1997, I, 408. Mi limito a ricordare qui che questa lettura, unica soddisferebbe la richiesta della Direttiva che il contratto, pur es- sendo non vincolante quanto alle clausole abusive non negoziate, riman- ga efficace per il resto (sempreché funzionalmente possibile).
(81) Cfr. L’articolo 134, primo comma, periodo finale: «La nullità può es- sere fatta valere solo dal consumatore e può essere rilevata d’ufficio del giudice».
derando della Direttiva 1993/13, di cui la tutela dei con- sumatori era riflesso, la rilevazione d’ufficio, che taluno afferma compatibile con la protezione unilaterale (82), ma che di certo era storicamente tipica della protezione dell’interesse generale, l’inesistenza di qualsiasi accenno nella Direttiva che semplicemente dichiara le clausole abusive non vincolanti alle condizioni stabilite dagli or- dinamenti nazionali, sembravano parlare in contrario. L’inefficacia non ha una disciplina tipica. La nullità ne ha (normalmente) una diversa da quella presupposta dai teorici della nullità «di protezione».
Ma basta ora la rubrica, con la denominazione di questa nullità che opera solo a vantaggio come «di protezione», per spazzare molti dubbi: res est consequentia nominis. Se nullità di protezione, è razionale intendere e integrare secondo le logiche della nullità (83), ma nel modo che effettivamente protegge. Quello appunto della teoria che ha elaborato la figura (84). Ma - se si vuole una pro- tezione effettiva - puntando essenzialmente non sulla le- gittimazione relativa, ma sulla nullità parziale (85), e neppure sempre estesa all’intera clausola, laddove essa al consumatore attribuisca anche facoltà. Il senso di una nullità di protezione rilevabile anche d’ufficio nell’inte- resse generale all’efficienza del mercato, non può essere tanto quello di riservare alla parte protetta l’iniziativa, quanto quello di operare sul contratto solo in modo se- lettivo, con esclusivi effetti vantaggiosi.
Non tutti i dubbi, però. Si capisce la protezione, ma per- ché nullità? In prospettiva sistematica ora che l’invali- dità è testualmente fuori questione resta ancor più oscu- ro perché clausole il cui contenuto se negoziato è lecito siano invece invalide se non negoziate: non ci vuol mol- to a capire che contrario a norma imperativa è il com- portamento, non il contenuto. Ma finora sembrava escluso che una violazione di norme di comportamento determinasse invalidità (86), e sicuro che il comporta- mento abusivo nella negoziazione desse luogo (fermi i requisiti) a rescissione, o al più (nei casi di legge: appro- fittamento dell’incapace, approfittamento dell’errore, minaccia, inganno) ad annullabilità.
Sebbene queste pagine siano il luogo della presentazio- ne, non della ricostruzione del nuovo assetto normativo, almeno su questo, e senza alcuna pretesa della comple- tezza e profondità che la complessità dell’argomento ri- chiederebbe, non è inutile fare il punto. Nella visione di chi scrive alla base delle difficoltà sta la duplice circo- stanza che nel sistema italiano: a) l’invalidità a protezio- ne di una parte ha sin dal codice del 1865 fattispecie e strumenti diversi, che rendono ambigua l’idea, ora dive- nuta istituto, di una nullità, con la relativa disciplina; b) le anomalie che si manifestano, come qui, nel compor- tamento negoziale non rilevano in termini di invalidità. Ecco il primo aspetto. In estrema sintesi: quando l’inva- lidità dipende dall’anomalia della situazione soggettiva di un contraente, o - come più tradizionalmente si dice - dal «vizio», la protezione della sola parte incisa dal vizio è assicurata dall’annullabilità (87). Alla quale non ap-
partiene la rilevazione d’ufficio; né (secondo i più (88)) l’invalidazione parziale del negozio; ma alla quale appar- tiene senz’altro la legittimazione relativa che aveva ca- ratterizzato le prime manifestazioni della nullità di prote- zione dei consumatori e utenti. Per converso, la nullità è sempre stata considerata duplicemente connessa all’og- gettivo parametro normativo dell’interesse generale. Il contratto infatti è nullo (non solo quando manca degli elementi essenziali, cosa qui però priva di risalto; ma an- che, soprattutto nella prospettiva dei limiti all’autono- mia privata) quando è contrario a norme imperative. Questo però riguarda il suo contenuto e non la sua for- mazione, e lede l’interesse generale, e non quello di una parte.
Note:
(82) In tema X. Xxxxxxxxxx, Nullità speciali, Milano, 1995; P. M. Putti, Nuovi profili della disciplina sulla nullità, in I contratti in generale, aggiorna- mento 1991-1998, a cura di X. Xxxx x X. Xxxxxxx, Xxxxxx, 0000.
(83) B. De Xxxxxxxx, La nullità nella logica del diritto, Napoli, 1964; X. Xx Xxxx, Nullità relativa, nullità parziale e clausole vessatorie non specificata- mente approvate per iscritto, in Riv. dir. civ., II, 1976, 480; X. Xxxxxx, Della nullità del contratto, in Commentario al codice civile diretto da M. D’Xxxxxx e E. Finzi, Libro delle obbligazioni, I, Firenze, 1948; X. Xxxxx, Studi sulle nul- lità del negozio giuridico, I, L’art. 1311 del codice civile, Bologna, 1920; X. Xxxxxx, Xxxxxxx xxx xxxxxx xxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000; X. Xxxx, voce «Nullità (in genere)», in Nuovo Dig. it., VIII, Torino, 1939; X. Xxxxxxx, Studi sulla nul- lità relativa, Milano, 1967.
(84) X. Xxxxxxxxxx, Nullità speciali, cit.; X. Xxxxxxxx, Disciplina delle nullità ed interessi protetti, cit.; P. M. Putti, La nullità parziale. Diritto interno e co- munitario, Napoli, 2002; P. M. Putti, voce «Nullità (nella legislazione di de- rivazione comunitaria)», in Dig. Disc. Priv., sez. civ., aggiornamento, Tori- no, 2000, 685; vedi anche per ulteriori riflessioni X. Xxxxx, Nullità di pro- tezione tra esigenze del mercato e nuova cultura del contratto conformato, in Corr. giur., 1999, 608; X. Xxxxxxxxx, L’inefficacia delle clausole abusive, in Eur. e dir. priv., 1998, 45; X. Xxxxxxx, xxxx «Xxxxxxxxxxx», xx Xxx. xxx., XXX, Xxxxxx, 0000, 500.
(85) X. Xxxxxxxxx, La nullità parziale del negozio giuridico, Milano, 1959; G. De Nova, Nullità relativa, nullità parziale e clausole vessatorie non specifica- tamente approvate per iscritto, cit.
(86) In dottrina cfr.: X. Xxxxxx, voce «Invalidità (storia)», in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 552; A. Di Majo, La nullità, ne Il contratto in genera- le, VII, in Trattato di diritto privato, diretto da X. Xxxxxxx, XIII, Torino, 2002, 140 ss.; G. B. Xxxxx, Introduzione alla nullità, in Trattato di diritto pri- vato, diretto da X. Xxxxxxx, XXXX, XXX, Xxxxxx, 0000; X. Xxxxxxx, voce Nul- lità. I) Diritto civile, in Enc. Giur. it., 1990; X. Xxxxx, voce Nullità e annul- labilità in diritto comparato, in Dig. disc. priv., sez. civ., XII, Torino, 1994- 1995, 310; X. Xxxxxxxxx, Le cause di nullità, in AA. VV., I contratti in ge- nerale, a cura di X. Xxxx e X. Xxxxxxx, Torino, 1991, IV, I, 270. Per l’opi- nione di chi scrive X. Xxxxxxx, Le invalidità, in I contratti in generale, cit., 1255.
(87) O dalla rescissione nei casi particolari; non a caso detta da alcuni quarto vizio della volontà, e spesso classificata come terza forma codifica- ta di invalidità: cfr. nella letteratura recente: X. Xxxxxxxx, Il contratto an- nullabile, in Trattato di diritto privato, diretto X. Xxxxxxx, XXXX, XXX, Xxxxxx, 0000; X. Xxxxxxx, Simulazione. Nullità del contratto. Annullabilità del con- tratto, in Commentario al codice civile, Bologna-Roma, 1998; X. Xxxxx, vo- ce Nullità e annullabilità, in Dig. disc. priv., sez. civ., XII, Torino, 1994- 1995, 293. Per una più ampia esposizione dell’opinione di chi scrive: X. Xxxxxxx, Nullità, annullabilità inefficacia (nella prospettiva del diritto europeo), in questa Rivista, 2003, 200.
(88) Per la ricostruzione del dibattito (e un’opinione di segno contrario) mi sia permesso rinviare il lettore a X. Xxxxxxx, La risoluzione parziale, Na- poli, 1991.
La clausola vessatoria però, non corrisponde bene alla dicotomia. Effettivamente le clausole della lista nera sembrano rifiutate per il contenuto (89), anche se deri- vano da circostanze della negoziazione (le asimmetrie) quando pure ci sia stata. Ma nel caso, operativamente più rilevante, della lista grigia, dipende da circostanze della negoziazione, non da dati del contenuto, che la clausola cada: è l’abuso che genera squilibrio, non questo in sé, il «vizio» cui si reagisce (90); non a caso, se lo squi- librio resta ma l’abuso non c’è (perché le parti hanno ne- goziato), la clausola vale. Si reprime un comportamento dunque più che un contenuto. La natura dell’istituto sembra così porlo a cavallo tra zone logiche diverse.
Ecco ora il secondo aspetto. L’abuso che in mancanza della possibilità di un reale negoziato genera eccessivo squilibrio, sembra come detto ricadere nell’area della violazione di regole di comportamento. Xxx, secondo le regole più tradizionali dell’ordinamento, non consegue però inefficacia o invalidità. Eppure questo è quello che ora la legge speciale prevede espressamente. Ed è quello che potrebbe accadere in ipotesi non prive di collega- mento concettuale, perché anch’esse come le clausole vessatorie espressione di rimedio giuridico ai fallimenti del mercato dovuti ad asimmetrie informative.
Si noti che la questione si è andata espandendo oltre il caso delle clausole vessatorie, e il problema aggravando, con il diffondersi degli obblighi di informazione; di cui però la legislazione spesso non ci dice la conseguenza ci- vilistica. Anche questa disciplina ripropone perciò, e questa volta in modo integrale (91), il problema: quid ju- ris delle violazioni? Anche qui, alla tesi secondo la quale al recesso si accompagnerebbe o, laddove il primo non sia previsto, si sostituirebbe la nullità, a protezione dei consumatori, si è obiettato - non senza fondamento - che nel nostro sistema è un cardine organizzativo distinguere rigorosamente regole di correttezza e regole di validità, e collegare alla violazione delle prime nel rapporto prene- goziale, mere conseguenze risarcitorie (92). Con la con- seguenza però che, mancando perlopiù un danno in sen- so tecnico, nessuno strumento concreto di tutela civili- stica assisterebbe il consumatore.
Il primo ordine di considerazioni, relativo al tipo di in- validità congruente alla protezione di una parte contrat- tuale nel contesto del mercato, ed il secondo ordine di considerazioni, relativo alla distinzione fra regole di comportamento e regole di validità, devono perciò tro- vare un’armonica ricomposizione se al nuovo istituto della nullità di protezione vogliamo finalmente dare uno statuto logico razionale. E questo sembra possibile. Ma non tanto sulla base del Codice del consumo, che per la verità non fornisce in questo campo, oltre i nomina, nes- suno speciale ausilio: a rigor di termini infatti non chia- risce neppure se le altre dieci comminatorie esplicite o presuntive di nullità che esso contiene siano anch’esse
«di protezione» (93), come è ragionevole pensare; e sal- vo in un caso (94) non viene detto quale ne sia la disci- plina. Quanto sulla base della concezione sottesa all’ulti-
ma normativa comunitaria, in materia di pratiche com- merciali sleali tra imprese dei consumatori, e delle po- tenzialità non sviluppate dell’originaria dottrina delle invalidità contrattuali e dei suoi presupposti economici. Conviene allora, seguendo la storia, cominciare da que- sti (95). Del resto, per bocca della Relazione, il Codice ne ha tenuto stretto conto. La teoria del contratto dal codice napoleonico al codice germanico si costruisce di pari passo con la teoria economica, nel passaggio dalla dottrina classica alla dottrina neoclassica: parti libere ed eguali valutano la propria utilità marginale nello scam- bio secondo razionalità. Poiché la razionalità è il fonda- mento dell’autonomia negoziale, è razionale anche che il vincolo cada quando quella razionalità è mancata. Ma ciò poteva avvenire in due modi diversi, che davano preoccupazioni diverse alla legislazione: nella forma del- l’annullabilità, con la disciplina unilaterale che ne con- segue, quando l’irrazionalità si manifesta nella prospetti-
Note:
(89) È infatti irrilevante che siano state appositamente negoziate.
(90) E infatti lo squilibrio è irrilevante se appositamente negoziato.
(91) Non essendo comminata in origine neppure una generica ineffica- cia, e - ora che anche queste fattispecie sono nel Codice - una espressa nullità di protezione, tutta la disciplina giuridica dei rimedi civilistici a tu- tela della parte protetta è da ricostruire (se si ritiene che debbano esistere rimedi ad uso del consumatore), salvo laddove sia prevista la facoltà di re- cesso. Inoltre, collegare la nullità alla violazione di obblighi di informa- zione ingarbuglia la previsione (dove opera) del recesso: recesso da un contratto nullo?
(92) X. X’xxxxx, Regole di validità e regole di comportamento nella formazio- ne del contratto, in Riv. dir. civ., 2002, 37; Id., Mancata cooperazione del cre- ditore e violazione contrattuale, ivi, 2004, 77.
(93) Si tratta nella specie delle seguenti: quella dell’art. 11, ai sensi del quale è vietato il commercio di prodotti che non rechino le dovute indi- cazioni; quella del quinto comma dell’art. 36, che dichiara nulle le clau- sole di rinvio alle leggi extracomunitarie che privino il consumatore del- la protezione avverso le clausole vessatorie; quella del quinto comma del- l’art. 67, che fulmina di nullità qualsiasi clausola che preveda limitazioni al rimborso nei confronti del consumatore delle somme versate in conse- guenza dell’esercizio del recesso; quella dell’art. 71, primo comma che ri- chiede a pena di nullità la forma scritta del contratto di godimento ripar- tito di immobili; quella dell’art. 78, che rende nulle le clausole contrat- tuali o i patti aggiunti di rinuncia dell’acquirente ai diritti attribuitigli dal- la legge nella multiproprietà, ovvero le clausole che limitino le responsa- bilità prevista a carico del venditore; quella dell’art. 124, che rende nullo qualsiasi patto che escluda limiti preventivamente nei confronti del dan- neggiato la responsabilità per danno da prodotti difettosi; quella del pri- mo comma dell’art. 134, che rende nulli i patti anteriori alla comunica- zione al venditore del difetto di conformità, volti ad escludere o limitare i diritti del consumatore; quella del terzo comma dell’art. 134, analoga a quella del quinto comma dell’art. 36; quella del quinto comma dell’art. 141 in cui si dispone che il consumatore non possa in nessun caso essere privato del diritto di adire il giudice, qualunque sia l’esito della procedu- ra di composizione extragiudiziale; ed infine quella dell’art. 143, per il quale è nulla ogni pattuizione in contrasto con le disposizioni del Codice. Anche qui non si possono non notare ridondanze e ripetizioni.
(94) L’art. 134, primo comma, secondo periodo, che conforta la tesi se- condo la quale la nullità di protezione può essere fatta valere solo dal consumatore ma ciononostante può essere anche rilevata d’ufficio del giudice.
(95) Per la violazione di regole di comportamento e la rilevanza invali- xxxxx che ciò può avere v. nel prossimo paragrafo.
va soggettiva della formazione della scelta; nella forma della nullità, con la disciplina oggettiva che ne conse- gue, quando l’irrazionalità si manifesta nel confronto del contratto con la razionalità della legge (96).
Ma la dottrina giuridica, che pure aveva tipizzato i vizi della volontà e sviluppato i limiti all’autonomia privata, non aveva esaurito con ciò il problema. Anzitutto non poteva disconoscere che vi fossero potenzialmente altri
«vizi», oltre l’errore, la violenza e il dolo, anche se pote- va disconoscere che rilevassero. Né poteva disconoscere, visto che fondava la capacità di negoziare (oltreché sul- la legge) sulla capacità di intendere e volere, che vizi vi fossero non solo per quanto riguarda il volere ma anche per quanto concerne l’intendere, e principalmente i vizi della mancante o erronea informazione sull’affare e sul mercato. A rigore, gli uni e gli altri qualitativamente appartengo- no egualmente, anche se forse non con la stessa incisi- vità, al discorso sulla razionalità dell’esercizio della auto- nomia negoziale.
Non sarebbe stato dunque irrazionale per la teoria, an- che se non è stato al tempo politicamente opportuno per l’ideologia, che non solo le situazioni di irrazionalità va- lutativa specificamente proprie dell’individuo che eser- cita la signoria del suo volere, ma anche quelle proprie di classi spogliate di tale signoria dalle loro condizioni so- cioeconomiche rilevassero in termini di invalidità. Fino a che è prevalsa una visione formale dell’eguaglianza, e soprattutto fino a che la politica di potenza dei redattori del nostro codice civile prima, e la politica di sviluppo industriale dei suoi primi interpreti poi, hanno giustifi- cato un diritto privato dei contratti favorevole all’im- prenditore, ammettere la rilevanza invalidante di altri vizi del volere o di vizi dell’intendere aventi origine nel- lo stesso mercato, non è stato opportuno. Ciò avrebbe reso materia di ordine pubblico, come la direzione del mercato laddove necessario - questa esercitata in grande stile (97) con finalità espansive dell’impresa spesso tra- dottesi in finalità assistenziali - anche la protezione di classi di contraenti diverse dagli imprenditori e dalla lo- ro controparte lavoratrice: un ordine pubblico economi- co di protezione come diritto di categorie, ma non «di classe» nel senso della politica corrente.
Ammetterlo significava inoltre passare dall’eguaglianza liberale all’eguaglianza democratica. Questo passaggio trovava base nella Costituzione, ma per i soggetti deboli nel pieno senso sociopolitico, è stato però compiuto, ma su altre basi, dalla legislazione comunitaria. Che la prote- zione di classi - ma come detto non in quel senso - sia ma- teria di ordine pubblico è apparso ovvio su una nuova ba- se teorica di dottrina economica, conseguenza della ri- cerca di efficienza del mercato. Ciò non esclude valori e obiettivi di vera politica sociale, ma nemmeno li necessi- ta: basta volere l’efficienza per accettare la protezione del consumatore e quindi il rimedio alle limitazioni della sua capacità di intendere e ai vizi atipici della sua capacità di volere. Ciò giova anche all’impresa: non a quella ineffi- ciente che ha bisogno di speculare sugli abusi, ma certa-
mente a quella più efficiente che offre prezzi e condizioni migliori. La razionalità anche sotto questi profili delle operazioni individuali è la condizione di un mercato effi- ciente, e perciò rei publicae interest, come la conformità a norme imperative. Perciò se manca, è giusto e utile per- mettere di contestare il vincolo. Si coniugano così inte- resse generale, categoriale e individuale.
Certo, secondo la logica corrente quell’invalidità del vincolo contrattuale irrazionalmente contratto avrebbe dovuto essere, con i nostri occhi di italiani contempo- ranei, una annullabilità. Ma solo perché abbiamo finito per dimenticare, soprattutto per l’influsso della pandet- tistica e dell’approccio tedesco al problema, che nella tradizione francese la convenzione affetta da anomalie nella formazione «n’est point nulle de plein droit» ma da luogo ad «une action en nullité (98)«. E a rigor di termi- ni anche della prospettiva germanica abbiamo saputo cogliere solo un aspetto (99), perché abbiamo scarsa- mente considerato come in quel contesto normativo l’abuso e l’approfittamento dell’altrui inesperienza o de- bolezza si traducano in nullità per violazione dei buoni costumi (100).
Note:
(96) Indicazioni bibliografiche, allora necessariamente amplissime, sulla formazione della teoria dell’invalidità sono qui fuor d’opera, volendosi so- lo esprimere un embrionale spunto per una diversa riorganizzazione con- cettuale. Mi limito perciò a ricordare X. Xx Xxxx, Nullità, in Il contratto in generale, nel Tratt. di dir. priv., a cura di X. Xxxxxxx, XIII, VII, 31 ss., per la ricapitolazione critica dello stato delle questioni, rinviando invece ad
X. Xxxxxxx, Le invalidità, cit., 1260 ss., per le ragioni storiche e culturali che hanno conformato così come la conosciamo l’invalidità negoziale. Per quanto concerne la dottrina economica sottesa alla concezione giuri- dica, sotto il profilo storico rinvio a A.D. Xxxxxxxxxx, Le passioni e gli in- teressi. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, Mila- no, 1979; X. Xxxxxxxx, Efficienza economica e libertà, Firenze, 1967; R.H. Xxxxxx, Eguaglianza, in Opere, Torino, 1975, 706 ss.; X. Xxxx, La demo- crazia economica, Bologna, 1989; per quanto concerne il marginalismo a
J.S. Xxxx, Principi di economia politica (1848), Torino, 1983, 634 ss.; H.H. Gossen, Entwicklung der Gesetze der menschliche Verkehrs und der daraus fliessenden Regeln fur menschliche Handeln (1854), (la denominazione ri- masta in uso si deve però ad un allievo di Xxxxxx, X. xxx Xxxxxx); e ov- viamente a X. Xxxxxx, Elements d’economie politique pure ou theorie de la ri- chesse sociale (1874-77); per quanto riguarda la critica della razionalità dell’homo oeconomicus a H.A. Xxxxx, La ragione nelle vicende umane, Bo- logna, 1984; X. Xxxxxx, Xxxxxx e le sirene, Bologna, 1983; per quanto riguar- da le teorie del mercato a M.R. Ferrarese, Diritto e mercato. Il caso degli Sta- ti Uniti, Torino, 1992, 20ss.; e in particolare sulla teoria della mano invi- sibile e sulle teorie dell’equilibrio economico, in prospettiva sociopoliti- ca, a X. Xxxxxx, X. Xxxxxx, La mano invisibile. L’equilibrio economico nella sto- xxx xxxxx xxxxxxx, Xxxx, 0000; nonché per la decostruzione del mito della mano invisibile e della razionalità del mercato sottesa alla razionalità del- lo scambio, e quindi dell’autonomia privata, ad X. Xxxxxxxxx, Il mito del- la mano invisibile, Bari, 2005.
(97) Per tutti X. Xxxxxxx, La nuova costituzione economica, Roma-Bari, 2001.
(98) Xxx. x’xxx. 0000 xxx Xxxx Xxxxxxxx, e il commento di X. Xxxxxxxx,
Corso di diritto francese secondo il codice civile, X, Napoli, 1835, 89 s.
(99) La pretesa diversità «ontologica» della anfechtbarkeit dalla nichtigkeit.
(100) Mi riferisco ovviamente al § 138, secondo comma, che commina una nullità per lo stato di costrizione, inesperienza, mancanza di discerni- mento, rilevante debolezza della volontà, che determinino evidente spro- porzione.
Tirando le somme, basterebbe recuperare l’idea che an- che la lesione della capacità di intendere, ovvero della capacità di volere ma al di fuori dei vizi tradizionali, giu- stifichino comminatorie di invalidità, e più esattamente di nullità relativa, che è in fondo solo un altro nome - forse più preciso - per la nullità speciale, e ne dimostra l’equivalenza all’annullabilità, per chiudere il cerchio.
La protezione del consumatore contro
P
la violazione di norme di comportamento: le pratiche commerciali sleali
roprio questo passo sembra ora attendersi d’altron- de il legislatore comunitario, laddove nella diretti- va sulle pratiche commerciali sleali tra imprese e
consumatori recupera la tesi ricordata.
Sono pratiche commerciali ingannevoli quelle che in- ducendo in errore il consumatore gli impediscono, at- traverso azioni o omissioni ingannevoli, soprattutto laddove il diritto comunitario stabilisca obblighi di informazione, di scegliere in modo consapevole e di conseguenza efficiente. Sono pratiche commerciali ag- gressive quelle che, sfruttando una posizione di potere ed esercitando una pressione sul consumatore, attra- verso un indebito condizionamento limitano conside- revolmente la sua libertà di scelta, particolarmente lad- dove speciali caratteristiche come l’età, l’infermità fisi- ca o mentale, l’ingenuità, lo rendano particolarmente vulnerabile. Viene così rielaborata la dottrina della ca- pacità di intendere e lo speciale rilievo dell’informazio- ne preventiva rispetto ad essa; ed ampliata la prospetti- va dei tradizionali vizi del volere a quelle anomalie che nascono da indebiti condizionamenti e specifiche de- bolezze (101).
Il legislatore comunitario per le verità non sceglie le sanzioni da erogare per le violazioni che incidano sulla libertà di scelta. Vincolato dal principio di sussidia- rietà, e rispettoso della discrezionalità dei legislatori na- zionali, rimette a loro la conformazione più idonea. Fornisce però un parametro che difficilmente acquista significato concreto fuori della tradizionale impostazio- ne in termini di invalidità: sia l’azione ingannevole in- fatti, che la pratica aggressiva, sono giudicate tali quan- do inducano il consumatore, o siano comunque idonee ad indurlo, ad assumere una decisione di natura com- merciale che non avrebbe altrimenti preso. Al civilista non serve di più per sentire riecheggiare il concetto di volontà ipotetica sul quale si verifica tradizionalmente l’invalidità del contratto concretamente concluso, mi- surandolo su quello che una piena razionalità avrebbe portato a concludere. Mentre l’ordinaria tutela risarci- toria non si contenta dell’illiceità dell’altrui condotta, e presuppone specifico nesso, concreto danno e idonea prova (102).
La costruzione concettuale sottesa alla Direttiva sembra appunto chiudere il cerchio. Gli altri vizi del volere, i vi- zi dell’intendere legittimano un giudizio di irrazionalità (e quindi invalidità) del contratto che ne è affetto. Una
irrazionalità (e quindi invalidità) nascente dall’abuso e intesa a rimediarvi, perciò operante in modo unilaterale. Detto tutto questo, diviene più evidente che l’invalidità
«di protezione» è pur sempre nullità perché è comunque connessa ad un interesse generale, e quindi è rilevabile d’ufficio e imprescrittibile. Ma essendo di protezione opera solo a vantaggio della parte protetta, come precisa il legislatore; e quindi il suo tratto centrale è che è ne- cessariamente parziale, a prescindere dalla volontà an- che ipotetica della controparte, e sempreché ciò non renda privo di funzionalità il residuo.
Non sarebbe invece altrettanto evidente, fino a questo punto, la ragione della restrizione al solo consumatore della legittimazione; soprattutto in presenza della rileva- zione d’ufficio, che smentisce l’idea che si voglia fare del consumatore il giudice esclusivo dell’opportunità di prendere l’iniziativa, e dell’impossibilità di declaratorie che non operino a vantaggio del consumatore, che esclude che l’iniziativa altrui riesca improvvida. Nulla si oppone neppure, intendiamoci, e tantomeno l’autore di queste righe, all’idea della legittimazione limitata; anche se, essendo generale l’interesse alla correttezza del mer- cato, perché spogliarne gli altri interessati (come per esempio i concorrenti), se giuridicamente tali? Certo, es- sa appare per un verso ragionevole. Ma nella parte in cui è ragionevole (perché di norma non si vede per quale scopo la domanda sarebbe proposta dal professionista) forse dimostra solo un po’ di confusione tra legittimazio- ne all’azione ed interesse ad agire. E comunque questo è solo un aspetto particolare.
Sul piano generale si tratta dunque di domandarsi anzi- tutto se, con la menzione nel Codice, non sia giunto il momento di dare piena cittadinanza all’idea della nul- lità di protezione, risistemando di conseguenza concet- tualmente la categoria della nullità (e la pagina che pre- cede vorrebbe essere un contributo), e fissandone defi- nitivamente tanto le diverse fattispecie quanto e so- prattutto la relativa disciplina. E di domandarsi in ag- giunta se ciò non debba valere oltre i confini del testo commentato. La proposta che qui si è formulata impli- ca infatti che su questo possa costruirsi una nozione estensibile, oltre il caso che la annovera, alle altre fatti- specie regolate nel Codice; ed estensibile oltre la legge che la prevede, alle altre normative protettive dei con- sumatori e utenti.
Note:
(101) L’elaborazione dell’invalidità come mezzo di protezione di chi non sa fare i propri interessi, e la sua estensione da regola speciale relativa a ca- tegorie protette a regola generale di giustizia sociale, intrinseca alla logi- ca del diritto europeo dei contratti perché presente, sia pure con diverse sfumature (come, soprattutto la necessità o no della lesione patrimoniale per la concessione del rimedio) è sostenuta da M.W. Hesselink, Capacity and Capability in European Contract Law, in Europ. Rev. of Priv. Law, 2005, 491 ss.
(102) Su ciò da ultimo, ma con orientamento diverso, X. Xxxxxxxx, Illeciti antitrust e rimedi civili del consumatore, in questa Rivista, 2006, 141, (e ivi ampia bibliografia).
Grazie alla geometria data alla materia, che pone le clau- sole vessatorie al centro logico del problema, e grazie al- la potenza dei nomi, che definiscono il nuovo istituto in rapporto a quelle e nel testo di ciò che ora è un Codice del consumo, l’interprete può completare ciò che il legi- slatore ha iniziato.
Q
I rapporti con il codice civile e gli altri codici di settore
uella che qualcuno chiama l’età della ricodifica- zione (103) propone un problema in parte nuo- vo: la fioritura di diritti (o subsistemi) speciali,
ma espressivi di principi generali della materia che dero- gano a quelli dell’ordinamento generale (104). Un tema troppo vasto per far altro qui che lambirlo. Mi limito per- ciò ad alcuni aspetti del rapporto del Codice del consu- mo con il codice civile e con altri codici di settore di re- cente emanazione.
I rapporti del Codice del consumo con il codice civile sono regolati nelle sue disposizioni finali. Come detto il Xxxxxx, riproducendo gli articoli del codice civile che xxxxxx, li sostituisce con una disposizione che dichiara applicabili ai contratti del consumatore le regole sui contratti in generale, ove non derogate dal Codice del consumo o da altre disposizioni più favorevoli.
Quella parte della disposizione che dichiara applicabili le disposizioni generali del codice civile sui contratti an- che ai contratti del consumatore sembra piuttosto inuti- le, perché i contratti dei consumatori sono anzitutto contratti, e dunque non si pone il dubbio che ad essi non si applichino le norme generali. Si è perciò costretti a pensare che il reale precetto stia non nell’affermarne l’applicabilità, ma nell’escluderla dove siano derogate dal Codice del consumo o da altre disposizioni (più fa- vorevoli). Ma anche questa sulla deroga sarebbe una norma inutile, perché è canone consolidato di soluzione delle antinomie che la lex specialis derogat generali (spe- cialmente se posterior).
Resta dunque solo l’ipotesi che si sia voluto stabilire che, generale o speciale, anteriore o posteriore, prevale nel- l’antinomia la norma più favorevole (105). A livello se- mantico questa interpretazione può anche reggere (se e quando si possa ritenere che più norme di fonti diverse, diversa portata e diverso momento di entrata in vigore, concorrono). Avrebbe il senso di assicurare al consuma- tore nel concorso di norme di contenuto non uniforme né sovrapponibile, la prevalenza del trattamento più fa- vorevole, quale che ne sia la fonte: non è infatti troppo difficile collegare il «più favorevoli» non solo a «altre di- sposizioni» ma anche a «codice del consumo», e così comprendere nella portata del precetto tutta la normati- va generale e speciale, passata presente e futura, sui con- sumatori. Resta però da vedere se l’ipotesi così ammessa esista davvero nel concreto della legislazione (106). Senza di che, l’autore non riesce a dare senso concreto al precetto.
Il Codice del consumo ingloba inoltre la maggior parte
della disciplina dei contratti a distanza e richiama quella sul commercio elettronico. Laddove regola (107) l’infor- mazione per il consumatore infatti, aggiunge alla dispo- sizione già vigente un comma che, tenendo conto della normativa sopravvenuta sul commercio elettronico, di- spone che nell’ambito di questo gli «obblighi informati- vi dovuti dal professionista» (sic) vanno integrati con le informazioni cui il professionista è tenuto in base alla normativa sul commercio elettronico (108). Di per sé però non tocca la materia ora regolata nel Codice del- l’amministrazione digitale (109): diritto del consumo e diritto dell’internet si occupano infatti di aspetti diversi, anche nel caso di negoziazioni telematiche attraverso strumenti elettronici fra professionisti e consumatori. Il diritto dei consumatori riguarda la sostanza dell’opera- zione, mentre il diritto dell’informatica ne definisce ad substantiam e ad probationem la forma informatica. Ferma la differenza però, è realistico riconoscere che essa divide più i punti di vista, e meno le materie regolate. Regole sulla forma e regole sui contenuti si ricompenetrano. Così ci si può ben chiedere, per esempio, quale forma
«scritta», con quale firma elettronica, soddisferà le infor- mazioni scritte dovute in via preventiva al consumatore nella negoziazione on line; e quale sia on line la forma scritta richiesta a pena di nullità per la stipula di con- tratti a distanza, di viaggio, di godimento ripartito di im- mobili (110).
Diversi sono invece interamente i punti di vista. Mentre può essere considerato, nell’uno o nell’altro senso, con- traente debole il consumatore che negozi con un im- prenditore, il diritto dei rapporti telematici a mezzo di strumenti informatici espresso dal Codice dell’ammini-
Note:
(103) Cfr. ancora X. Xxxxxxxx, Xxxx’«età della decodificazione» all’«età della ricodificazione»: a proposito della legge n. 229 del 2003, cit.
(104) Un problema comune al diritto francese, cui il nostro si avvicina: per quell’ordinamento v. X. Xxxx, Le Code civil, code residuel?, in Rev. trim. dr. civ., 2005, 253 ss. In tema, X. Xxxx, Codici di settore: compimento della de- codificazione, in Dir. e soc., 2005, 131 ss.
(105) Questa tesi è ampiamente argomentata, a livello esegetico e a li- vello di teoria generale, da X. Xxxxxxx, Xxxxxxxx penale eccessiva: «ineffi- cacia» o riducibilità?, in questa Rivista, 2005, 1113 ss.
(106) Un esempio convincente è in X. Xxxxxxx, Clausola penale eccessi- va: «inefficacia» o riducibilità?, cit.
(107) Nell’art. 52, che per il resto riproduce l’art. 3 del D.Lgs. n. 185.
(108) Art. 12 del D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 70, in G.U. 14 aprile 2003, n. 87 - S.O. n. 61. L’armonizzazione delle due fonti interne manca. E man- ca per ora una piena armonizzazione delle fonti a livello comunitario, par- ticolarmente necessaria nella negoziazione on line, per la facilità con cui opera in via transfrontaliera. Sul punto K, Xxxxxxx, Electronic Contracts and the Harmonization of Contract Law in Europe - An Action Required, a Mission Impossible?, in Europ. Rev. of Contr. Law, 2005, 149 ss.
(109) D.Lgs. 7 novembre 2005, n. 82, in G.U. 16 maggio 2005, n. 112 -
S.O. n. 93.
(110) A fronte della modifica della normativa preesistente recata dal comma secondo dell’art. 20 del Codice dell’amministrazione digitale, ri- terrei che ora si richieda una dichiarazione sottoscritta con firma digitale, quantunque ciò appesantisca la speditezza dei rapporti on line.
strazione digitale (111) non obbedisce alla stessa pro- spettiva. Esso è invece, come più volte è stato detto nei documenti comunitari che ne hanno favorito la forma- zione, uno strumento di incentivazione degli scambi, an- che transfrontalieri, e di unificazione e potenziamento del mercato europeo. È insomma, non un diritto ispirato alla protezione di un contraente, ma un diritto ispirato allo sviluppo dello scambio. E se così è, i due subsistemi rispondono a principi ispiratori del tutto diversi.
Altrettanto non vale per il Codice delle assicurazioni private (112), i cui Xxxxxx XXX, dedicato ai contratti di as- sicurazione, e XIII, dedicato alla trasparenza delle ope- razioni e alla protezione dell’assicurato, riecheggiano l’approccio del Codice del consumo (113), e così con- tengono nullità che si possono probabilmente definire di protezione, disposizioni sulla pubblicità, obblighi l’informazione e regole di comportamento che avrebbe- ro potuto trovare collocazione anche nel Codice del consumo.
Estraneo alle preoccupazioni di queste pagine appare in- vece il Codice della proprietà industriale (114), il cui unico rilievo qui è la dimostrazione di quanto si stia evol- vendo la concezione e la disciplina delle nullità (115).
Il Codice del consumo e il sistema in fieri
D
del diritto contrattuale europeo
i fronte ad un’opera di riordinamento non priva di novità era naturale occuparsi anzitutto di que- sto. Esiste però, e non deve qui essere trascurato,
un diverso profilo sotto il quale si può considerare il Co- dice del consumo. Questo profilo inerisce specificamen- te al nascente diritto contrattuale europeo, ed alle ragio- ni di politica economica e politica legislativa che lo ispi- rano.
Il diritto che le istituzioni comunitarie cominciarono ad elaborare dapprima a proposito della responsabilità per danno da prodotto, e poi a proposito della contrattazio- ne dei consumatori, via via sviluppandolo fino ad elabo- rare principi generali della protezione dei consumatori (116), è divenuto il nucleo di un nuovo diritto contrat- tuale europeo, condizione indispensabile per l’esistenza di un reale mercato interno unico. Sicché è oggi comu- ne identificare diritto dei consumatori e diritto contrat- tuale europeo.
Ma un vero diritto contrattuale europeo non può con- tentarsi di normative frammentarie e non può restrin- gersi al diritto dei consumatori. Su entrambe le cose og- gi l’iniziativa legislativa comunitaria riflette consape- volmente, domandandosi dell’opportunità di un inter- vento che anzitutto trasformi l’acquis communautaire in un sistema organico, e poi magari anche comprensivo di tutte le altre tipologie contrattuali, e non solo di quelle concernenti i consumatori (117). Ma allora, aperto ad una visione più larga di quella che ha inquadrato il ca- so, importante ma particolare, dei rapporti con i consu- matori.
Il passaggio da una normazione frammentaria ad una re-
golamentazione organica presuppone precise linee gui- da. E nel diritto dei consumatori esse certamente si rico- noscono, perché sono state rese esplicite in numerosi do- cumenti, ed elaborate dalla dottrina (118). Le ricorda, d’altronde, anche la Relazione al Codice del consumo. Riordinando e talora modificando le disposizioni del di- ritto dei consumatori il Codice del consumo fa, per boc- ca del suo relatore, dichiarata applicazione di questi principi. Che così sono anch’essi in certo modo «codifi- cati», come ratio legis, o forse meglio come principi gene- rali della materia. Ma si può subito escludere che tutto il diritto dei contratti sia espressione dello stesso problema. E con questo, è ovvio, si esce dall’orizzonte di queste pa- gine.
Note:
(111) Primo in Europa a disciplinare in modo organico il documento informatico munito di firma digitale, il legislatore italiano, con la norma- tiva delegata sulla base dei principi contenuti nell’art. 15, secondo com- ma, Legge n. 59/1997, ed in particolare con il D.P.R. n. 513/1997, poi tra- sfuso nel D.P.R. 445/2000, ha equiparato il documento informatico mu- nito di firma digitale al documento cartaceo. Poi ha riordinato l’intera materia con il testo unico adottato con il D.P.R. n. 445/2000. Quindi, ag- giuntasi la Direttiva 1999/93/CEE, sulle firme elettroniche, ha modifica- to il quadro normativo con il D.Lgs. 23 gennaio 2002, n. 10, ulterior- mente modificato dalle disposizioni del D.P.R. 7 aprile 2003, n. 137. Nel corso dell’anno infine è stato emanato il D.Lgs. n. 82, citato supra, che prende il nome di Codice dell’amministrazione digitale, ed entrerà in vi- gore il 1 gennaio 2006. Anch’esso per lo più riordina, ma in parte innova la materia. Su tale Codice v. per un primo esame F. Delfini, L’evoluzione normativa della disciplina del documento informatico: dal D.P.R. 513/1997 al Codice dell’amministrazione digitale, in Riv. dir. priv., 2005, 531 ss.
(112) D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209; in G.U. 13 ottobre 2005, n. 239 -
S.O. n. 163.
(113) Con qualche infortunio. Come nell’art. 167 (Nullità dei contratti conclusi con imprese non autorizzate), laddove, stabilita nel primo comma la nullità del contratto di assicurazione stipulato con un’impresa non au- torizzata o con un’impresa alla quale sia fatto divieto di assumere nuovi affari, si aggiunge nel secondo: «La nullità può essere fatta valere solo dal contraente (sic!) o dall’assicurato. …». Forse mi sfugge, ma non trovo (e d’altronde non mi entusiasmerebbe) una definizione legale che neghi il nome di contraente alla compagnia assicurativa contraente.
(114) D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, in G.U. del 4 marzo 2005, n. 52-
S.O. n. 28.
(115) Cfr. Le disposizioni speciali dell’art. 122, commi secondo e terzo, sulla legittimazione all’azione di nullità di un marchio per la sussistenza di diritti anteriori, nonché dell’art. 233 sulla nullità dei marchi d’impresa.
(116) Che per X. Xxxxxxxx, European Private Law and Existing European Contract Law, in Europ. Rev. of Priv. Law, 2005, 3 ss., sono principi gene- rali del diritto privato europeo.
(117) Sulle consultazioni, le iniziative, le proposte in ambito comunita- rio intese alla sistemazione ed allo sviluppo del diritto contrattuale euro- peo v. Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento euro- peo, dell’11 luglio 2001, COM (2001) 398 def., Libro verde sulla tutela dei consumatori nell’Unione europea, del 2 ottobre 2001, COM(2001) 531 def., Comunicazione della Commissione, Seguito dato al Libro verde sulla tu- tela dei consumatore nell’U.E., dell’11 giugno 2002, COM(2002) 289 def., Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio, Maggiore coerenza nel diritto contrattuale europeo, del 12 febbraio 2003, COM(2003) 68 def., Comunicazione della Commissione al Parlamento eu- ropeo e al Consiglio, Diritto contrattuale europeo e revisione dell’acquis: pro- spettive per il futuro, dell’11 ottobre 2004 COM(2004) 651 def.
(118) X. Xxxxxxxxx, La struttura del diritto europeo dei contratti, in Riv. dir. civ., 2002, I, 365 ss, spec. 393 ss.
Non si può escludere invece che il problema tipico del diritto dei consumatori non sia anche, nel caso in cui trattino con l’impresa, un problema di altri soggetti: per- sone giuridiche, enti senza scopo di profitto, esercenti professioni liberali, subfornitori, piccoli imprenditori (119). La nullità di protezione, come si è cercato di mo- strare, può essere un modo per portare razionalmente al di là della ristretta nozione di consumatore e della circo- scritta prospettiva dell’efficienza, la rilevanza dell’irrazio- nalità nella negoziazione. Come pure non si può esclu- dere che, invece, altre ragioni altrettanto razionali osti- no, prevalendo l’opportunità di conservazione di una più ampia libertà sulla richiesta di protezione di una più am- pia eguaglianza.
Qui, per le scelte di politica legislativa conterà anche il si- stema che il Codice promette e non mantiene. Se il con- sumatore è l’acquirente un po’ occasionale definito dal Xxxxxx, che agendo al di fuori della propria attività pro- fessionale negozia disinformato, ogni estensione basata sulla tesi del contraente debole e della debolezza anche
degli altri, non sarà esercizio di giurisprudenza ma di buo- nismo giuridico. Ma se si concepisce una revisione delle categorie civilistiche tradizionali, come la nullità, sulla base di una revisione generale della teoria del contratto, nel quadro di concezioni economiche e sociologiche sul- la necessaria razionalità limitata del contraente, allora l’orizzonte di una revisione si allarga notevolmente.
Si aprono perciò due prospettive: quella di chi prenderà qualche norma qua e qualche fattispecie altrove e vorrà dedurne principi e protezioni convinto con buona pace di Xxxxxxx, che e pluribus quibuslibet quoquo modo simul sumptis, aliquid novi determinatur; e quella di chi ragio- nando su parallelismi e simmetrie si convincerà che per un retto esprit de géométrie si richiede sempre anche un po’ d’esprit de finesse.
Nota:
(119) Sulle ragioni di protezione del professionista si sofferma X. Xxxxxxx Xxxxxxx, Towards a European Law of Contracts, in Europ. Journal, 2004, 463 ss, 469.
Divagazioni sull’attività negoziale della P.A. nella nuova disciplina del procedimento amministrativo
di XXXXX XXXX
L’Autore propone alcune riflessioni sulle recenti modifiche apportate all’attività amministrativa: in parti- colare si sottolinea come la nuova disciplina investa direttamente il diritto privato, primariamente istitu- ti quali le obbligazioni, gli accordi, i contratti e in senso lato ogni tecnica giuridica avente contenuto «ne- goziale».
T
Premessa
ra le grandi innovazioni introdotte dal legislatore nel corso dell’anno 2005 si debbono annoverare le integrazioni e le modificazioni della Legge 7
agosto 1990, n. 241 apportate con la Legge 11 febbraio 2005, n. 15 e dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito
con modificazioni nella Legge 14 maggio 2005, n. 80. Si tratta, al di là delle disposizioni di dettaglio, di un quadro di principi, definiti dallo stesso legislatore come generali, a cui si deve informare l’attività amministrati- va. Pur essendo destinata a regolare le modalità con cui si esercita l’«azione amministrativa», e quindi l’attività della pubblica amministrazione, questa disciplina inve- ste direttamente il diritto privato, primariamente istitu- ti quali le obbligazioni, gli accordi, i contratti e in sen- so lato ogni tecnica giuridica avente contenuto «nego- ziale». L’art. 1 bis della legge cit. infatti recita: «la pub- blica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto pri- vato salvo che la legge disponga diversamente. Che si tratti di un’autentica rivoluzione - come ha sottolinea- to in una recente relazione il Presidente del Consiglio di Stato - o che si tratti del completamento, tenden- zialmente sistematico, di una disciplina frammentata o del consolidamento di una prassi già invalsa nell’uso, poco importa.
Sta di fatto che la P.A., quando non deve agire ex auc- toritate, deve seguire i canoni del «diritto privato». Sembrano così aprirsi scenari con orizzonti infiniti, dal momento che non siamo in presenza di un’area resi- duale in quanto questi moduli di natura privatistica so- no l’unico modo di agire della P.A. al di fuori dei com- portamenti tipizzati previsti per legge che essa assume in via autoritativa.
A
Norme di diritto privato
ll’apparenza, il principio enunciato dall’art. 1 bis della legge citata sembra chiaro, nella sua icasti- ca formulazione. In realtà, pone problemi di
non agevole soluzione, come si è potuto constatare nelle relazioni presentate in occasione del convegno organiz- zato a Sperlonga dalla Associazione degli Avvocati am- ministrativisti nei giorni 21 e 22 ottobre 2005.
Spigolando sulle scelte terminologiche, sempre più ca- suali, cui indulge il nostro legislatore, anzi tutto ci si può chiedere perché sia stata impiegata l’espressione «nor- ma» anziché quella di disposizione o regola, essendo la norma il frutto, il precipitato, il risultato della applica- zione della disposizione. Norma = disposizione+inter- pretazione, ci avvertono i teorici del diritto. E poi, per- ché «diritto privato» e non diritto comune, come ci han- no insegnato i maestri del diritto amministrativo e del diritto privato quando si riferivano alle disposizioni di- rette a regolare parimenti sia l’azione pubblica sia l’agire dei privati?
«Diritto privato» è formula ormai così lata e di confini così labili ed incerti (se si fa eccezione per la sua conno- tazione didattica) da lasciare adito a molti dubbi inter- pretativi. A differenza dell’esperienza francese, nella quale la bipartizione diritto privato /diritto pubblico è netta e persistente, presso di noi essa abbraccia al con- tempo la terminologia, le definizioni e gli istituti del di- ritto civile e commerciale, le regole contenute nel codi- ce civile e quelle previste dalle leggi speciali che gover- nano l’agire dei privati, nonché tutte le disposizioni co- stituzionali che si applicano ai rapporti tra privati, ed, ancora, le regole delle leggi regionali che possono inve- stire le tematiche privatistiche non riservate allo Stato (peraltro racchiuse in una formula ambigua qual è l’ordi- namento civile), ed in più tutte le regole sub-primarie o secondarie emanate dalle Autorità amministrative indi- pendenti che incidono i rapporti privati. Insomma, una formula che deve fare i conti con la pluralità delle fonti, dei metodi interpretativi, delle tecniche operazionali che si sono moltiplicate e complicate nell’ultimo torno d’anni.
Non basta. Se lo scopo perseguito era quello di obbliga- re la P.A. ad avvalersi dei moduli negoziali, si poteva
ARGOMENTI•PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
semplicemente fare riferimento ad accordi di diritto co- mune. E se il legislatore non voleva impiegare l’espres- sione «ordinamento civile» ex art. 117, primo comma, Cost., poteva ripiegare sulle «disposizioni del codice ci- vile».
Invece, questa espressione è stata scelta, ma con termini ancora diversi - cioè «principi del codice civile in mate- ria di obbligazioni e contratti in quanto compatibili» - per indicare le regole a cui si debbono conformare gli
«accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento», ex
art. 11, secondo comma.
A
Principi del Codice civile
nche questa formula tuttavia appare curiosa. Perché «principi» e non «disposizioni»? Si vuol alludere effettivamente ai principi generali rica-
vabili dalle disposizioni del codice mediante il procedi- mento logico-induttivo, che crea norme di secondo gra- do, o alludere a regole di tenore generale, dettate dal le- gislatore o desunte dalla interpretazione giurisprudenzia- le (avente pur sempre valore normativo) o agli istituti del diritto civile? Ma perché separare il diritto civile dal diritto commerciale, quando i modelli con cui si esprime l’azione amministrativa sono anche quelli che inerisco- no alle partecipazioni in società miste o sono rivolti alla costituzione di società strumentali, o addirittura alla isti- tuzione di fondazioni?
Se si muove dal presupposto secondo il quale le parole usate dal legislatore non sono affatto casusali ma orien- tate a delineare con precisione aree di intervento, mo- dalità espressive, tecniche operative, allora dovremmo inferirne che le tre espressioni menzionate, due nel testo in esame (norme di diritto privato, principi del codice civile) e la terza addirittura nel testo costituzionale (or- dinamento civile) si riferiscono a tre accezioni diverse ed hanno tre diversi scopi normativi.
Peccato che la prima sia indefinibile, la seconda incom- prensibile, la terza a dir poco ambigua.
P
Ambiti normativi e modelli negoziali
roseguendo con questa impietosa disamina del te- sto, possiamo pervenire ad un risultato interessan- te: se dottrina e giurisprudenza non si accordano su
una definizione per l’appunto stipulativa della formula impiegata nell’art. 1 bis e di quella impiegata nell’art. 11, secondo comma della legge citata, dovremmo conclude- re che la prima è più ampia della seconda (la quale dun- que si ingloba nella prima) e che la seconda circoscrive le regole degli accordi interpretativi o sostitutivi del pro- cedimento a quelle previste dal codice civile in materia di obbligazioni e contratti «in quanto compatibili».
Se si tiene conto della letteratura assai vasta che si è stra- tificata in materia di attività negoziale della P.A. - dai contratti agli appalti, dagli accordi amichevoli per l’e- spropriazione agli atti di sottomissione, dai capitolati al- le clausole predeterminate - si deve procedere ad una tassonomia fluttuante e con confini provvisori. Si posso-
no infatti distinguere: i) gli atti che riguardano l’attività di diritto privato ordinaria, ii) gli atti disciplinati da leg- gi speciali, iii) gli atti in senso lato regolati dal diritto pri- vato e finalmente iv) gli atti integrativi e sostitutivi. A questa ripartizione occorre poi aggiungere altre modalità di azione negoziale della P.A.: si pensi ai contatti con gli interessati ad acquisire un provvedimento amministrati- vo e alla indicazione di linee guida, suggerimenti o addi- rittura condizioni dettate al privato perché possa conse- guire il provvedimento richiesto (la c.d. moral suasion); si pensi alla negoziazione di clausole per renderle aderenti non al testo legislativo ma alle esigenze espresse dalle ca- tegorie di portatori di interessi deboli (l’attività conse- guente ad accordi paritetici, a protocolli d’intesa, etc.); si pensi alla definizione di codici deontologici, che sono veri e propri statuti professionali, approvati dalla P.A. o da essa imposti in via sostitutiva quando le categorie in- teressate non vi abbiano provveduto.
Con riguardo al disposto dell’art. 11 della legge citata sembra di capire che la P.A. nel caso espressamente pre- visto può compiere accordi, atti negoziali, convenzioni ed espressioni di volontà a contenuto libero, ma tipizza- to, ma al di fuori della portata di applicazione dell’art. 11, può anche seguire regole, prassi, iniziative non tipizzate. Altrimenti, se fosse tutto tipizzato, cioè legislativamente previsto, non vi sarebbe più spazio per l’applicazione del- l’art. 1 bis, che fa salvi i casi in cui «la legge disponga di- versamente». In fin dei conti l’art. 1 bis è una disposizio- ne a tenore generale che rimette l’attività negoziale alle
«norme del diritto privato» ad eccezione delle ipotesi tassativamente previste dalla legge in cui si seguono re- gole di natura diversa, cioè autoritativa. In questo senso, il modello «privatistico» sembrerebbe, nell’idea che si è fatto il legislatore del diritto privato, alludere a tutto ciò che non è imposto, ma è negoziato, non prevede dispa- xxxx di posizioni ma pariteticità di piani d’azione, né l’e- sercizio di un potere di soggezione, ma piuttosto l’attua- zione della funzione amministrativa mediante il consen- so dell’interessato.
Dire che la P.A. si può esprimere solo con atti o compor- tamenti tipizzati significa svuotare di significato l’art. 1 bis. Ma dargli un significato più preciso è operazione al- trettanto ardua. Sfuggono poi a questa disciplina i «com- portamenti» (quali i contatti di natura contrattuale, di cui alla recente giurisprudenza, in materia di responsabi- lità medica e di lesione di interessi legittimi) perché essi pur assunti da un modello tedesco (tacciato peraltro di superfetazione) collocato nell’ambito contrattuale, rile- vano anche nell’ambito extracontrattuale.
Sfuggono alla tipizzazione ma non all’art. 1 bis, perché ad essi, quanto meno ai primi, la giurisprudenza applica la disciplina degli obblighi di protezione.
Per le operazioni effettuate a seguito di moral suasion si può pensare alla lesione dell’affidamento quando si sug- gerisca al privato di compiere certe operazioni (impli- canti costi, oneri, ritardi) e poi non si dia corso alle aspettative che si sono suscitate.
C
Recesso
ontinuando la disamina impietosa del testo si consideri l’art. 21 sexies, il quale recita «il reces- so unilaterale dai contratti della pubblica ammi-
nistrazione è ammesso nei casi previsti dalla legge o dal contratto». Se la formula ricalca l’art. 1373 Codice civi- le è del tutto superflua, insomma pleonastica, perché se è previsto dalla legge, il recesso unilaterale è … natural- mente legittimo. Se previsto dal contratto è altrettanto legittimo, dal momento che il testo fa riferimento ai principi del codice civile, che legittimano il recesso con- sensualmente stabilito fra le parti, anche se esso può es- sere esercitato solo da una di esse.
N
Altre regole negoziali
on voglio addentrarmi nella disciplina degli ac- cordi integrativi o sostitutivi, ai quali già si è de- dicata la dottrina pubblicistica sotto il vecchio
regime e che saranno oggetto di accurate discussioni da parte degli studiosi e degli avvocati amministrativisti.
Mi chiedo però - se si dovesse applicare alla lettera il di- sposto dell’art. 1 bis o il disposto dell’art. 11 - che sorte avrebbero tutte quelle regole di natura speciale che la giurisprudenza ha elaborato considerando il particolare status della P.A. . Mi chiedo, ad es., se si possano consi- derare ancora vigenti le regole giurisprudenziali che vie- tano il comportamento negoziale concludente, visto che il requisito della forma è prescritto dalle leggi o dall’art. 11 (ma solo per gli accordi integrativi o sostitutivi):ma queste aree, come si è detto, non esauriscono l’attività del- la P.A. retta dalle «norme del diritto privato». Oppure, se si mantengano in vita le regole giurisprudenziali che sottraggono i contratti della P.A. agli artt. 1341, 1342 e 1370 Codice civile.
E poi, che dire della applicazione della presupposizione? Ed ancora, quali regole applicare ai contratti resi nulli dalla revoca del provvedimento dal quale sono derivati? E come si deve intendere l’espressione «indennizzo», di- versa dal (più ampio) risarcimento, che si deve ricono- scere al privato danneggiato dalla revoca ex art. 21 quin- quies? Dobbiamo pensare che l’inciso «in quanto compa- tibili» - il quale allude alla funzione pubblica, al fine pub- blico, allo status della P.A. - voglia salvare comunque un regime speciale all’attività negoziale della p.A.?
E chi decide della compatibilità? L’Amministrazione e poi il giudice? Avranno gli amministratori questo corag- gio, tenendo conto della mannaia della Corte dei Conti? E non insisto sugli altri moduli comportamentali, propri delle Autorità amministrative indipendenti, che in altra occasione ho definito di moral suasion, perché essi sfuggi- rebbero sia alla categoria degli atti autoritativi sia a quel- la degli atti negoziali in senso proprio. Si pensi alla sele- zione delle clausole vessatorie concordate dalle Camere di commercio con le associazioni di imprenditori e con- sumatori; alle iniziative suggerite dall’Autorità antitrust per rendere compatibile una operazione di concentrazio- ne con la disciplina della concorrenza; alla redazione di
codici di condotta sollecitata dall’Autorità garante dei dati personali, e così via.
Molto lavoro dunque per gli amministrativisti, per i civi- listi, per i giudici e, certamente, per gli avvocati.
Xxxx per semplificare l’azione amministrativa, per coor- dinare in modo sistematico gli atti della P.A., per «libe- ralizzare» le modalità di esercizio della funzione pubblica consentendo alla P.A di agire «come agiscono i privati» queste disposizioni prestano il fianco ad una pluralità di interpretazioni che creano incertezza proprio in quei rap- porti che vorrebbero liberare dal giogo dei procedimenti burocratizzati.
Contratto di distribuzione e indennità di fine rapporto nel diritto tedesco
di XXXXXXX XXXXXXXXXXX
La direttiva comunitaria sugli agenti commerciali stabilisce che l’agente, al verificarsi di certe condizioni, ha diritto a un’indennità di fine rapporto. Il testo normativo europeo è stato attuato in tutti gli Stati mem- bri, compresa la Germania. La persona che può pretendere questa indennità, secondo il diritto comunita- rio e quello tedesco, è l’agente. In Germania questo compenso viene tuttavia riconosciuto dalla giurispru- denza, al sussistere di specifiche condizioni, anche al distributore. Dopo aver delineato brevemente le dif- ferenze tra agente e distributore, in questo articolo si esamineranno i presupposti che - secondo i giudici tedeschi - fanno sorgere in capo a quest’ultimo il diritto a ottenere l’indennità di fine rapporto.
L
Introduzione
a disciplina del contratto di agenzia è fortemente influenzata dal diritto comunitario in quanto, con la direttiva 86/653/CEE, ci si è dotati a livello euro-
peo di una regolamentazione dettagliata della materia (1). La direttiva comunitaria è stata attuata in tutti gli Stati membri, compresa la Germania (2). La regolamentazio- ne tedesca sugli agenti commerciali è contenuta nel co- dice di commercio (Handelsgesetzbuch, HGB (3)), e se-
zionale e giudice comunitario in tema di contratti stipulati da un agente non iscritto all’albo, in Eur. dir. priv., 2002, 1037 ss.; X. Xxxxxxxxx, In tema di prevalenza delle norme comunitarie su quelle nazionali, in Riv. crit. dir. lav., 2001, 77 s.; X. Xxxxxxxxx, Non è necessaria l’iscrizione dell’agente nell’albo per la validità dei contratti di agenzia, in Foro it., 1998, IV, 193 s.; X. Xxxxx Mon- teiro, Il contratto di agenzia rivisitato. La direttiva CEE 86/653, in Rass. dir. civ., 1996, 877 ss.; F. Pirelli, Nullità del contratto di (sub)agenzia per manca- ta iscrizione al ruolo del (sub)agente ed efficacia delle direttive comunitarie, in Riv. crit. dir. lav., 2000, 766 ss.; X. Xxxxxxxxx, Un caso di applicazione diretta delle direttive comunitarie e la fine del c.d. «agente abusivo», in Riv. crit. dir. lav., 1999, 620 ss.; X. Xxxxxx, Principio di territorialità, diritto degli Stati terzi e disciplina comunitaria sugli agenti commerciali, in questa Rivista, 2001, 5,
519 ss.; X. Xxxxxx, Mancata iscrizione dell’agente nel ruolo e primato del di-
Note:
(1) Direttiva del Consiglio del 18 dicembre 1986 relativa al coordina- mento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti (86/653/CEE). Il testo della direttiva è riprodotto, per esempio, in X. Xxxxx, Il contratto di agenzia, VII ed., Milano, 2001, 497 ss.;
X. Xxxxxxxxxx, Manuale di diritto commerciale internazionale, III, Padova, 2002, 652 ss. In tema di normativa comunitaria sugli agenti commercia- li cfr., in lingua italiana, X. Xxxxxxx, I. Xxxxxxxxxx, Necessaria applicabilità della normativa comunitaria in tema di contratto di agenzia indipendentemente dalla legge che regola il contratto, in Dir. comm. int., 2001, 725 ss.; X. Xxxxx, Le novità del contratto di agenzia per l’adeguamento alla direttiva CEE, in questa Rivista, 1999, 5, 505 ss.; X. Xxxxx, La sentenza della Corte UE e il ruo- lo degli agenti di commercio, in questa Rivista, 1999, 1, 90 ss.; X. Xxxxxxxxx, L’agente «abusivo» e il diritto comunitario, in Resp. civ. prev., 1998, 1340 ss.;
X. Xxxxxxxxxx, L’indennità di scioglimento del contratto di agenzia nella direttiva europea e nelle leggi nazionali, in Contratto e impresa/Europa, 2001, 819 ss.;
X. Xxxxxxx, I limiti dell’armonizzazione delle legislazioni nazionali sugli agen- ti di commercio, in Dir. pubbl. comp. eur., 2003, 1431 ss.; X. Xxxxxx, L’in- dennità per la cessazione del rapporto di agenzia fra diritto interno e diritto co- munitario, in Dir. econ., 1999, 585 ss.; X. Xxxxxxx, Sulla nozione di agente commerciale, in Rass. avv. Stato, 2004, 489 s.; X. Xxxxxx, Iscrizione all’albo degli agenti di commercio e diritto comunitario, in Dir. lav., 2003, II, 50 ss.; X. Xxxxxx, Agenti: l’a.e.c. si allinea all’Europa (e va oltre). Una ricognizione del rapporto di agenzia, alla luce della nuova contrattazione collettiva, in Lavoro e previdenza oggi, 2002, 625 ss.; X. Xxxxxxxx, X. Xxxxx, Gli accordi di agenzia nel diritto comunitario antitrust, alla luce della nuova disciplina delle restrizioni verticali, in Dir. econ. assic., 2001, 711 ss.; X. Xxxxxx, Un ulteriore caso d’e- stensione dell’efficacia diretta verticale delle direttive comunitarie: la liberalizza- zione della figura dell’agente di commercio, in Dir. lav., 2000, II, 487 ss.; X. Xxxxxxxx, L’iscrizione dell’agente di commercio nello specifico ruolo previsto dalla l. n. 204 del 1985, alla luce della direttiva n. 86/653/CEE, in Giur. comm., 2003, II, 470 ss.; X. Xxxxxxxxx, Il problematico dialogo tra giudice na-
ritto comunitario, in questa Rivista, 2001, 1, 93 ss.; X. Xxxxx, X. Xxxxxxx, I rapporti di sub-agenzia e la disciplina comunitaria, in Corr. trib., 2000, 2022 ss.; E. M. Tripoli, Xxxxx note su una nuova pronuncia della Corte di giustizia in tema di agenti di commercio, in Corr. giur., 2003, 6, 722 ss.; X. Xxxxx, Le norme sul trattamento di fine rapporto dell’agente commerciale hanno caratte- re imperativo, in Dir. maritt., 2002, 1232 ss.; X. Xxxxxxx, Agente abusivo e Corte di giustizia CE: un esempio di integrazione positiva tra diritto comunita- rio e diritto nazionale, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2000, II, 95 ss.; A. Vene- zia, Gli strumenti contrattuali per le reti di vendita, Milano, 2004, 48 ss.; A. Venezia, In tema di efficacia della direttiva sugli agenti commerciali: come vo- levasi dimostrare, in Dir. comunit. scambi comm., 2000, 585 ss.; A. Venezia, Il ruolo degli agenti e l’efficacia delle direttive comunitarie, in questa Rivista, 1999, 11, 1056 ss.
(2) Sulla disciplina tedesca dell’agenzia cfr., in lingua italiana, X. Xxxxxxx, La direttiva comunitaria sugli agenti commerciali: un primo bilancio nel con- fronto tra Italia e Germania, in Xxx. xxx. xxx., 0000, XX, 000 xx. (xxxxxxxxxx di
X. Xxxxxxx); X. Xxxxxxx. L’indennità di fine rapporto spettante all’agente di commercio nel diritto tedesco. Origine dell’istituto, principi generali e casistica giurisprudenziale, in Giur. comm., 1995, I, 806 ss.; X. Xxxxxxxxxxx, Il con- cetto di «agente commerciale» nel diritto tedesco, in Riv. dir. priv., 2005, 327 ss.; X. Xxxxxxxxxxx, Il patto di non concorrenza postcontrattuale tra prepo- nente e agente nel diritto tedesco, in Contratto e impresa/Europa, 2004, 121 ss. (articoli ai quali sia consentito il rinvio). Una traduzione di X. Xxxxxxx delle rilevanti disposizioni del codice di commercio tedesco può essere letta in Giur. comm., 1995, I, 879 ss.
(3) In questo articolo si fa uso delle seguenti abbreviazioni della termino- logia giuridica tedesca: BB: Betriebs-Berater [rivista]; BGH: Bundesgericht- shof (Corte di cassazione federale); DB: Der Betrieb [rivista]; HGB: Han- delsgesetzbuch (codice di commercio); LG: Landgericht (tribunale); MDR: Monatsschrift für Deutsches Recht [rivista]; NJW-RR: NJW-Rechtspre-
(segue)
gnatamente nei §§ 84-92c HGB (4). L’attuazione in Germania si è rivelata relativamente semplice conside- rando che in questo Paese vi era da lungo tempo un’ap- posita normativa in materia di agenzia. Xxxx: il legislato- re comunitario si è ampiamente ispirato proprio al mo- dello tedesco nel predisporre la direttiva.
In questo articolo si affronta un argomento di grande ri- levanza pratica. Il § 89b HGB stabilisce che l’agente, al- la cessazione del rapporto, può pretendere dal preponen- te una congrua indennità. Molte delle controversie che sorgono in materia di agenzia riguardano proprio l’appli- cazione di questa disposizione. Al termine del rapporto contrattuale può infatti capitare che il preponente riten- ga non sia dovuta alcuna indennità oppure può succede- re che il produttore sia dell’opinione che essa sia dovuta in misura inferiore a quanto richiesto dalla controparte contrattuale. La complessità dei presupposti legislativi che fondano il diritto a ottenere questo compenso porta a frequenti liti. Il § 89b HGB viene ritenuto da dottrina e giurisprudenza applicabile in via analogica al distribu- tore. È su questa specifica materia che ci si sofferma nel presente lavoro.
L’argomento è di interesse anche per il giurista e l’opera- tore italiani. Le disposizioni tedesche sul contratto di agenzia (e sul contratto di distribuzione) possono trova- re applicazione anche dinanzi ai giudici del nostro Paese. Le imprese germaniche che importano in Italia si avval- gono generalmente di agenti/distributori italiani. La pre- senza in loco è infatti di grande importanza al fine di svi- luppare il mercato. Inoltre la padronanza della lingua co- stituisce uno strumento indispensabile per vendere bene in un Paese straniero. Le imprese tedesche che operano in Italia tramite agenti/distributori italiani preferiscono generalmente sottoporre il contratto al diritto germani- co. Questa scelta rende più sicuri i preponenti/produtto- ri, perché li mette al riparo da eventuali sorprese che il contenuto della legge straniera potrebbe riservare. Si tenga presente che le imprese, al fine di massimizzare il proprio ritorno economico, tendono a distribuire le mer- ci ovunque ciò sia lucrativo. Capita quindi spesso che una società distribuisca i propri prodotti in numerosi Paesi stranieri. Ciò comporta gravi problemi di certezza del diritto, nel senso che l’impresa tedesca - che tratta con agenti/distributori che operano in Stati diversi - si trova ad affrontare contesti normativi del tutto differen- ti. Per risolvere alla fonte questo problema, le società predispongono spesso un unico contratto di agenzia/di- stribuzione assoggettato al diritto tedesco e da utilizzarsi nel rapporto con le controparti contrattuali in tutto il mondo. Normalmente le imprese hanno un potere mag- giore rispetto a chi cura la distribuzione dei loro prodot- ti (5). Esse hanno quindi gioco facile nel decidere se un contratto scritto debba essere stipulato e, in caso affer- mativo, di darvi i contenuti che preferiscono. La scelta di fondo attuata da molte imprese tedesche è quella d’in- sistere per l’applicazione del diritto germanico.
Di conseguenza può capitare che il giudice italiano,
chiamato a risolvere una controversia tra un preponente tedesco e un agente italiano (oppure tra un produttore tedesco e un distributore italiano) in materia d’inden- nità di fine rapporto, si trovi ad applicare il diritto ger- manico. Data l’importanza degli scambi commerciali tra l’Italia e la Germania non si tratta poi di un’evenienza così rara. Questo scritto mira a informare sui contenuti della normativa tedesca. Il giudice italiano è tenuto d’uf- ficio a ricercare il contenuto della legge straniera appli- cabile (art. 14, primo comma, Legge n. 218/1995). Ma ciò non è affatto facile. Vi possono ostare difficoltà lin- guistiche e problemi di reperimento in Italia di testi nor- mativi, di giurisprudenza e di dottrina. Senza contare il fatto che leggi, giurisprudenza e dottrina sono in conti- nua evoluzione. In realtà quindi il giudice è posto dinan- zi a un compito improbo. Egli deve decidere la contro- versia che gli viene sottoposta e, nel fare questo, deve da- re applicazione alla legge straniera. Ma come si può pre- tendere che il giudice conosca tutti i diritti applicabili e tutte le lingue del mondo? Questo articolo si augura di dare un piccolo contributo informativo su una tematica di grande rilevanza pratica.
N
La definizione legislativa di agente
el diritto tedesco è previsto espressamente che l’indennità di fine rapporto spetta all’agente commerciale (Handelsvertreter). La normativa germanica definisce questa figura. Il § 84 primo comma HGB stabilisce che è agente commerciale chi, in qualità di intermediario indipendente, è incaricato in maniera permanente d’intermediare negozi per un preponente oppure di concluderli in suo nome. È indipendente colui che può organizzare la propria attività e determinare i propri orari di lavoro in maniera sostanzialmente libera. Il § 84 comma 2 HGB specifica che chi, senza essere in- dipendente ai sensi del comma 1, è incaricato in manie-
Note:
(segue nota 3)
chungs-Report [rivista]; OLG: Oberlandesgericht (corte d’appello); RIW: Recht der Internationalen Wirtschaft [rivista]; VersR: Xxxxxxxxxxxxxxxxxx [rivi- sta]; WM: Wertpapier-Mitteilungen [rivista] WRP: Wettbewerb in Recht und Praxis [rivista]; ZPO: Zivilprozessordnung (codice di procedura civile).
(4) Per un’introduzione in lingua italiana al codice di commercio tedesco cfr. X. Xxxxxxx, Il codice commerciale tedesco: dal declino alla ricodificazione (riflessioni sulla riforma del HGB), in Riv. dir. civ., 1999, I, 711 ss.
(5) Come osservano correttamente X. Xxxxxxxxx, D. Xxxxxxx-Xxxxxx, X. Xxxxxxx, Ausgleichsanspruch des Kfz-Vertragshändlers für drittbestimmte In- vestitionen und den Kundenstamm bei ordentlicher Kündigung oder Herabstu- fung, in DB, 2003, 257, il maggiore potere contrattuale dei preponenti/produttori è ascrivibile anche al fatto che il ruolo di agen- te/distributore è maggiormente intercambiabile. Il numero di produttori è generalmente piuttosto limitato, mentre quello dei potenziali distribu- tori è molto più ampio. L’impresa ha quindi la possibilità di scegliere tra più collaboratori per gestire la propria distribuzione. Allo stesso modo il preponente/produttore, alla cessazione del rapporto, ha una certa facilità a sostituire l’agente/distributore con un altro. Ciò non vale nel caso con- trario. All’interruzione della relazione contrattuale l’agente/distributore potrebbe avere una certa difficoltà a riposizionarsi sul mercato trovando una nuova impresa che gli metta a disposizione i beni da distribuire.
ra permanente d’intermediare negozi per un imprendito- re oppure di concluderli in suo nome va considerato di- pendente.
Un’importante osservazione preliminare è che per stabi- lire se un certo soggetto debba essere qualificato come agente commerciale non ha rilievo la terminologia utiliz- zata dalla parti. I contraenti non hanno il potere di quali- ficare arbitrariamente il rapporto che intercorre tra di es- se. La qualificazione della relazione va invece effettuata secondo criteri oggettivi. Occorre quindi fare riferimento alla struttura contrattuale posta in essere e, soprattutto, a come il rapporto tra i contraenti si realizza concretamen- te. Le parti non hanno il potere di escludere l’applicazio- ne dei §§ 84-92c HGB quando la relazione è da qualifi- carsi come agenzia. Un interesse alla mistificazione può sussistere in capo al preponente. Questi, dotato normal- mente di maggiore potere contrattuale ed economico, preferisce una qualificazione della relazione che diminui- sca le tutele stabilite dalla legge a vantaggio della contro- parte. Se i contraenti disponessero del potere di determi- nare in modo insindacabile (e quindi valido anche per il giudice) l’esatta natura del rapporto, sarebbe agevole per la parte più forte escludere l’applicazione delle norme in materia di agenzia a sfavore dell’altro. Si potrebbe in par- ticolare tentare di evitare il pagamento dell’indennità, camuffando il contratto di agenzia con qualche altro tipo contrattuale che non ne prevede il pagamento.
Va fatta un’ulteriore notazione di carattere preliminare che tornerà utile al cortese lettore nel prosieguo di que- sto scritto: il contratto di agenzia (ma lo stesso vale per quello di distribuzione) non richiede, nel diritto tedesco, l’osservanza di forme particolari. Si tratta di un tipo con- trattuale che può venire ad esistenza per effetto del solo
«agenzia» consente tuttavia l’applicazione analogica di alcune delle norme previste dal legislatore tedesco per gli agenti. È quindi utile soffermarsi brevemente sulle ca- ratteristiche che accomunano agente e distributore e su quelle che li differenziano. Se è vero che non esiste una nozione legislativa di distributore, è altrettanto vero che
- nel corso degli anni - una copiosa giurisprudenza ha contribuito a definire gli elementi che lo contraddistin- guono dall’agente.
Dal punto di vista economico l’attività del distributore consiste nell’acquistare i beni dal produttore per poi ven- derli a compratori finali (6). L’acquisto dall’impresa e la vendita al cliente sono effettuate dal rivenditore in nome e per conto proprio (7). Ecco qui una prima differenza con il contratto di agenzia. L’agente si limita a interme- diare il contratto tra il preponente e il cliente così che la compravendita viene posta in essere tra questi due sog- getti. L’agente non è parte del contratto. Il distributore è invece parte del contratto con il compratore finale.
Nel contratto di agenzia viene posto in essere un solo rapporto di compravendita, tra preponente e cliente fi- nale. Nel contratto di distribuzione, invece, vi sono due serie di compravendite: una prima relazione caratterizza- ta da una serie di compravendite tra produttore e distri- butore e una seconda relazione caratterizzata da più compravendite tra distributore e clienti finali. Il primo rapporto, per le sue caratteristiche di continuità (serie di compravendite sempre tra gli stessi soggetti: produttore e distributore), va qualificato come distribuzione.
Caratteristica in comune tra agenzia e distribuzione è la continuità del rapporto. Non è sufficiente che un sog- getto acquisti un bene per rivenderlo affinché sorga un
comportamento posto in essere dai contraenti. Quando
le modalità con cui si realizza il rapporto soddisfano tut- ti i presupposti richiesti dalla legge, può affermarsi l’esi- stenza di un relazione preponente/agente anche quando non vi è stata espressa pattuizione sul punto. Se una del- le parti avanza pretese nei confronti dell’altra asserendo sussistere un contratto di agenzia, il giudice ricostruisce le modalità con le quali si è sviluppato il rapporto. La constatazione della presenza di tutti gli elementi che concorrono a formare la definizione di agente consente alla corte di applicare i §§ 84-92c HGB, compresa la di- sposizione che attribuisce l’indennità.
N
L’assenza di una definizione legislativa di distributore
el diritto tedesco manca non solo una definizio- ne legislativa di «contratto di distribuzione», bensì anche una definizione di «distributore»
(Vertragshändler). Più in generale giova osservare come la Germania non regoli espressamente il contratto di di- stribuzione. Ci si trova così di fronte a un contratto ati- pico (o «contratto innominato», «Innominatvertrag»), cui trovano applicazione le disposizioni generali in ma- teria di contratto. La vicinanza con il tipo contrattuale
Note:
(6) Tra i principali contributi in lingua italiana sul diritto tedesco della compravendita cfr. X. Xxxxxxxxxx, Sostituzione di bene viziato e contratta- zione di cosa specifica: i termini della questione nel diritto tedesco e nel pensiero giuridico italiano, in Riv. dir. civ., 2004, II, 635 ss.; M. Bianca, La nuova di- sciplina della compravendita: osservazioni generali, in La riforma dello Xxxxx- drecht tedesco: un modello per il futuro diritto europeo delle obbligazioni e dei contratti?, a cura di X. Xxxx, Padova, 2004, 179 ss.; X. Xxxxxxxxx, La nuova disciplina della compravendita: la violazione dell’impegno contrattuale, in La riforma dello Schuldrecht tedesco: un modello per il futuro diritto euro- peo delle obbligazioni e dei contratti?, a cura di X. Xxxx, Padova, 2004, 187 ss.; X. Xxxxxxxxx, La disciplina della vendita dopo la riforma dello «Xxxxx- drecht» in Germania - Da un ius commune romano a un ius commune ame- ricano-europeo?, in Annuario di diritto tedesco 2002, Milano, 2003, 77 ss. (trad. di X. Xxxxxxxxxx); X. Xxxxxxx, I termini della direttiva 1999/44/CE e il loro recepimento nel diritto tedesco con particolare riguardo alla Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale, in Contratto e impresa/Europa, 2004, 877 ss.; H.-X. Xxxxxxxx, Riforma della vendita e tutela del consumatore, in Contratto e impresa/Europa, 2004, 860 ss.; I. Xxxxxxx, I fondamenti della nuova vendita tedesca, in Contratto e impresa/Europa, 2004, 834 ss.; V. San- xxxxxxxx, Contratto di compravendita e riserva di proprietà nel diritto tedesco, in questa Rivista, 2005, 5, 511 ss. (cui sia consentito rinviare); K. Sch- midt, Il diritto di regresso del venditore finale nella compravendita di beni di consumo: teoria e prassi, in La riforma dello Schuldrecht tedesco: un model- lo per il futuro diritto europeo delle obbligazioni e dei contratti?, a cura di X. Xxxx, Padova, 2004.
(7) Cfr. X. Xxxxxx, Analoge Anwendung des Handelsvertreterrechts auf Ver- tragshändler in Europa, in RIW, 2003, 512.
contratto di distribuzione. Occorre invece che la relazio- ne si caratterizzi per una certa continuità nel tempo. Questo elemento della stabilità è comune con la figura dell’agente (8). La continuità della relazione implica un certo livello d’inserimento nella rete di vendita del pre- ponente/produttore.
Il distributore, diversamente dall’agente, si accolla il ri- schio di non riuscire a vendere i beni acquistati. Nell’i- potesi - infatti - in cui non riesca a trovare un acquiren- te, egli perde la somma investita nell’acquisto della mer- ce. Nel caso dell’agenzia, invece, questo rischio non sus- siste perché - nell’evenienza di una mancata conclusio- ne del contratto tra preponente e cliente - l’agente per- de solo il diritto alla provvigione. Il bene rimane di pro- prietà dell’impresa. Un discorso analogo va fatto per quanto riguarda il rischio che il cliente finale non paghi. Nel contratto di distribuzione il cliente è del distributo- re e se l’acquirente non paga il rivenditore non consegue il prezzo. Nel contratto di agenzia, invece, il cliente è del preponente e se il compratore non paga è l’impresa a non ottenere il prezzo (mentre l’agente si limita a non percepire la provvigione).
Il beneficio economico del distributore è di natura di- versa dalla provvigione che viene percepita dall’agente in base al contratto di agenzia (9). Egli guadagna perché rivende i prodotti a un prezzo maggiore rispetto a quello di acquisto. Nel caso di un automobile, per esempio, con un prezzo di listino di 20.000 euro, il distributore può ot- tenerla dal produttore - si supponga - a 18.000 euro. I
2.000 euro di differenza costituiscono il guadagno del ri- venditore. È diverso anche il soggetto che corrisponde il compenso. All’agente il compenso viene pagato dal pre- ponente, mentre nell’ipotesi di contratto di distribuzio- ne il guadagno viene corrisposto dal cliente finale.
Il contratto di agenzia è quindi diverso da quello di di- stribuzione sotto diversi profili. Quest’ultimo può tutta- xxx xxxxxxxxxx xxxxxxxxx xx xxxxx xxxxxxxxxxx con l’agen- zia. La giurisprudenza ritiene che, al sussistere di certe condizioni, la posizione del distributore possa essere assi- milata a quella dell’agente. Quando un esame comples- sivo della struttura contrattuale e della concreta attua- zione della relazione fa ritenere che il distributore abbia assunto una posizione simile a quella dell’agente, risulta- no applicabili analogicamente le disposizioni in materia di agenzia (10). La più importante tra le norme che pos- sono applicarsi in via analogica è quella relativa all’ob-
questi mancati profitti. Il preponente/produttore al con- trario, se rimane a operare sul mercato avvalendosi di al- tre reti distributive, continua a trarre vantaggio dal por- tafoglio clienti dell’ex agente/distributore.
N
Segue: a) la rilevanza del soggetto da cui proviene la disdetta
ella prassi le situazioni di fatto che determinano la cessazione del contratto di distribuzione pos- sono essere del tutto diverse le une dalla altre.
Rilievo ha in particolare il soggetto da cui proviene la di- sdetta.
Quando il contratto di distribuzione viene disdettato dal produttore, sussiste il diritto del distributore di ottenere l’indennità di fine rapporto. Il § 89, terzo comma, n. 2 HGB specifica tuttavia che la pretesa non è dovuta quando il preponente disdetta il rapporto contrattuale per un importante motivo ascrivibile al comportamento colpevole dell’agente.
Anche quando il contratto viene risolto consensualmen- te sussiste il diritto del distributore di ottenere l’inden- nità di fine rapporto. La giurisprudenza ritiene che l’ac- cordo dei contraenti con il quale si pone fine al rapporto non osta al riconoscimento di questo emolumento. Se si raggiunge il consenso, non ha rilievo il soggetto da cui parte l’iniziativa di risolvere il contratto. Potrebbe quin- di trattarsi anche del distributore (11).
Quando il contratto di distribuzione viene disdettato dal distributore, questi non può invece pretendere l’indennità di fine rapporto. Il § 89b terzo comma n. 1 HGB stabili- sce infatti che questo tipo di pretesa non sussiste quando l’agente ha disdettato il rapporto contrattuale, a meno che il comportamento posto in essere dal preponente ab- bia dato causa in modo fondato a tale disdetta. Con que- sta disposizione si vuole evitare che l’agente abbia il po- tere di obbligare il preponente a far proprio il portafoglio clienti e a pagare la relativa indennità. Anche questa norma è applicabile in via analogica al distributore.
L
Segue: b) il caso particolare del regolamento comunitario n. 1400/2002
a questione del soggetto da cui proviene la disdet- ta del contratto è stata oggetto di recenti decisioni giurisprudenziali. Si tratta di pronunce che trova-
no la propria origine nell’emanazione del regolamento
bligo di corrispondere l’indennità di fine rapporto. È su
questo aspetto che ci si sofferma nel prosieguo.
P
La fine del rapporto quale presupposto del diritto all’indennità
er ottenere l’indennità di fine rapporto è necessa- rio innanzitutto che il contratto di agenzia (o di di- stribuzione) sia cessato. Con la terminazione della relazione l’agente (o il distributore) cessa di ottenere quei guadagni che prima poteva invece conseguire. L’in- dennità costituisce una forma di compenso sostitutivo di
Note:
(8) Nel diritto italiano sull’elemento della stabilità merita di essere letta Cass., sentenza dell’8 febbraio 1999, n. 1078, in questa Rivista, 1999, 1016 ss., con ampia nota di X. Xxxxxxx.
(9) Cfr. OLG Saarbrücken, sentenza del 5 febbraio 2003, in VersR, 2004, 195 ss. Questa sentenza è riprodotta anche in NJW-RR, 2003, 900 ss.
(10) In questo senso espressamente, per esempio, OLG Köln, sentenza del 15 novembre 2002, in VersR, 2003, 105 s.
(11) X. Xxxxxx, Der Ausgleichsanspruch des Vertragshändlers, in Handbuch des Vertriebsrechts, a cura di X. Xxxxxxxx, F.-X. Xxxxxx, X. Xxxxxxxxxx, II ed., Xxxxxxx, 0000, 438 s.
comunitario n. 1400/2002 (12). Questo testo normativo ha modificato profondamente la disciplina europea degli accordi che incidono sulla concorrenza nel settore auto- mobilistico. Di fatto esso ha imposto ai produttori di au- toveicoli di adattare i propri contratti di distribuzione al- la nuova regolamentazione entro il 30 settembre 2003. Se le case produttrici non adeguano i testi contrattuali al mutato regime legislativo, è elevata la probabilità di clausole in contrasto con il diritto comunitario. Certe li- mitazioni alla concorrenza, tollerate nel sistema norma- tivo previgente, non lo sono più con la nuova disciplina. I vecchi contratti, adottati sulla base della regolamenta- zione precedentemente in vigore, rischiano pertanto di contenere clausole anticoncorrenziali non più conformi al nuovo assetto legislativo. Dal punto di vista civilisti- co, quindi, singole clausole contrattuali (o addirittura l’intero contratto) potrebbero risultare nulle per contra- sto con il diritto comunitario. La Commissione inoltre - accertata la violazione - può applicare multe ai con- traenti, d’importo anche consistente (13). Produttori e distributori di automobili si sono quindi recentemente trovati dinanzi a una situazione del tutto particolare. Se non avessero concordato opportune modifiche contrat- tuali, i contratti sarebbero diventati nulli (in parte e for- se in toto). Inoltre entrambi i partner sarebbero stati esposti all’applicazione di multe da parte delle autorità comunitarie. Onde far fronte a questa situazione ecce- zionale alcuni produttori di automobili hanno disdettato i precedenti contratti e hanno sottoposto ai distributori nuovi testi contrattuali adattati al regime normativo so- pravvenuto.
In un caso deciso dal Tribunale di Francoforte sul Meno il produttore di automobili sottopose al distributore un testo contrattuale che avrebbe dovuto sostituire il pre- cedente (14). Il nuovo contratto era stato predisposto al fine di adeguare quello precedentemente vigente alle novità introdotte dal regolamento n. 1400/2002. Il di-
vendita. In sostanza la scelta di disdettare proviene dal rivenditore (che può continuare il rapporto, ma non lo fa) e non dal produttore (che è invece costretto a cam- biare il contratto per dare corretta attuazione alla nuo- va normativa europea).
La dottrina ritiene che, di norma, il distributore non debba accettare un nuovo testo contrattuale proposto dal produttore. Il primo contratto sottoscritto dai con- traenti è infatti vincolante per le parti. Una modificazio- ne di parte del o di tutto il testo contrattuale richiede il consenso di entrambi. Se il distributore non è d’accordo con le proposte di variazione può legittimamente rifiuta- re la sottoscrizione del nuovo contratto. Se - a questo punto - il produttore ritiene di disdettare il rapporto, il rivenditore può pretendere l’indennità di fine rapporto. Nel caso affrontato dal Tribunale di Francoforte sul Me- no, tuttavia, la modificazione del contratto era dovuta a una causa di natura superiore, segnatamente le novità le- gislative introdotte dal regolamento n. 1400/2002. In so- stanza il giudice mette l’accento sul fatto che le variazio- ni contrattuali erano necessarie ai fini di un adattamen- to alla nuova legge. Il regolamento n. 1400/2002 ha ap- portato modifiche legislative di tale portata che i con- tratti adottati in base alla normativa previgente risulta- vano inadeguati. Senza un opportuno adattamento, al- cune clausole sarebbero diventate nulle. I contratti con- tenevano infatti usualmente delle limitazioni alla con- correnza non più conformi a legge alla luce del regola- mento n. 1400/2002. Vi sarebbe stato inoltre il rischio di una nullità totale. Attraverso la sostituzione del vecchio contratto si allineano invece le pattuizioni contrattuali al nuovo assetto legislativo. Chi non avesse adattato sa- rebbe inoltre potuto incorrere in multe per violazione della normativa posta a tutela della concorrenza.
In definitiva occorre confrontare il nuovo testo contrat- tuale con quello precedentemente in forza. Se le modifi- cazioni sono semplici adattamenti resisi necessari dalla
xxxxxxxxxx si rifiutò di sottoscrivere questo secondo testo
contrattuale. Il Tribunale di Francoforte decide che il ri- fiuto di sottoscrivere il nuovo contratto comporta la perdita del diritto all’indennità di fine rapporto. Il giu- dice ritiene che il rifiuto di firmare vada equiparato a una disdetta da parte del distributore che non attribui- sce il compenso finale (15). L’impresa è infatti «costret- ta» a rinnovare il contratto per evitare la nullità dello stesso e l’applicazione di multe. Il Tribunale è dell’opi- nione che le modifiche contrattuali che il produttore aveva proposto non erano motivate da un tentativo di peggiorare unilateralmente la posizione del distributore, bensì dalla sola esigenza di adeguare il contratto alla nuova situazione normativa. L’obiettivo del produttore non era quello di cessare la cooperazione con il rivendi- tore, al quale invece era stato offerto un nuovo contrat- to. Il distributore avrebbe quindi potuto continuare normalmente la propria attività, persistendo nel trarre vantaggio dal proprio portafoglio clienti e senza perdere gli investimenti effettuati per creare e gestire la rete di
Note:
(12) Sul regolamento n. 1400/2002 v., per limitarsi a contributi in lingua italiana, X. Xxxxxxxxxx, Distribuzione selettiva ed esclusiva nel regolamento 1400/2002: verso una nuova configurazione del concessionario di autoveicoli, in Contratto e impresa/Europa, 2003, 71 ss.; A. Xxxxxxx, La nuova discipli- na comunitaria sulla distribuzione di autoveicoli: background e nuove prospet- tive aperte dal regolamento CE 1400/02, in Contratto e impresa/Europa, 2002, 1231 ss.; X. Xxxxxxxx, Il regolamento 1400/2002 e le vie seguite dalla Commissione per la tutela della concorrenza nel settore automobili, in Con- tratto e impresa/Europa, 2003, 1 ss.; X. Xxxxxxxx/G. L. Zampa, Il regolamen- to 1400/2002: esenzione antitrust o regolazione di settore, in Contratto e im- presa/Europa, 2003, 100 ss.; X. Xxxxxxxxxxx, Il sistema delle garanzie nelle im- portazioni parallele di autoveicoli, in Rass. dir. civ., 2003, 532 ss.
(13) Secondo quanto riportato da X. Xxxxxxxxx, Die Anpassung des Kfz- Vertriebs an die Xxxxxxxxxxxxxxxx xxx xxxxx Xxx-XXX 0000/0000, in WRP, 2004, 695, nell’ottobre del 2001 la Commissione ha applicato una multa di 72 milioni di euro nei confronti di DaimlerChrisler e nel gennaio 1998 una sanzione di 102 milioni di euro a Volkswagen.
(14) LG Frankfurt am Main, sentenza del 20 ottobre 2004, in WRP, 2004, 1506 ss., con nota di X. Xxxxxx.
(15) In questo senso anche X. Xxxxxx, X. Xxxxxx, Der Ausgleichsanspruch eines Kfz-Vertragshändlers, in MDR, 2004, 1210 s.
variazione dell’assetto legislativo, è accettabile preten- dere dal distributore che sottoscriva il nuovo contratto (16). Altrimenti il rivenditore costringe il produttore a pagare un’indennità di fine rapporto quale conseguenza di un fatto (le modifiche legislative) del tutto indipen- dente dalla volontà dell’impresa. Se, invece, il nuovo te- sto contrattuale peggiora la posizione del distributore an- che dove ciò non è imposto dalla nuova normativa, al- lora questi può rifiutarsi di sottoscrivere (17).
L
Segue: c) gli effetti della nullità del contratto di distribuzione
a contrarietà di parti di un contratto di distribuzio- ne al diritto comunitario comporta nullità delle relative pattuizioni. L’invalidità concerne le singo-
le clausole che violano le disposizioni europee. Il manca- to adattamento al regolamento n. 1400/2002 potrebbe tuttavia comportare la nullità non solo di specifiche pat- tuizioni, ma dell’intero contratto. Le modalità di esten- sione della invalidità di singole clausole al complessivo assetto contrattuale sono regolate dal diritto nazionale applicabile al contratto (18). Nell’ordinamento tedesco la nullità di singole pattuizioni rende nullo l’intero con- tratto, salvo che si debba assumere che il negozio giuridi- co sarebbe stato posto in essere anche senza la parte nul- la (§139 BGB).
Quando la nullità di una o di alcune clausole inficia l’in- tero contratto, si pone l’ulteriore problema se questa for- ma d’invalidità abbia conseguenze sull’indennità di fine rapporto (19). Secondo un’opinione, se l’intero contrat- to risulta nullo il distributore non può far valere alcuna pretesa. La nullità non sarebbe infatti equiparabile a uno dei casi di cessazione del rapporto ai quali la legge lega l’indennità. Questo principio dovrebbe, in ogni caso, va- lere quando viene proposta la sostituzione del vecchio contratto con uno nuovo. La relazione contrattuale può infatti continuare, se solo il distributore vuole, e non si può parlare di «fine» del rapporto. Il rivenditore può con- tinuare a gestire il portafoglio clienti e a trarne vantaggio, senza perdere gli investimenti effettuati. Secondo una di- versa opinione, invece, la nullità del contratto non si ri- flette in alcun modo sulle questioni relative all’indennità, che rimane così dovuta. La giurisprudenza ha affermato che la nullità per violazione di norme poste a presidio del- la libera concorrenza non esclude la possibilità per il di- stributore di far valere il diritto alla retribuzione finale. A tal fine è naturalmente necessario che ricorrano gli altri presupposti cui è legato il riconoscimento dell’indennità. Occorre in particolare che il produttore possa trarre in fu- turo vantaggio dalla clientela del distributore.
P
L’inserimento nella rete di vendita
er l’applicazione analogica della disposizione che attribuisce all’agente l’indennità di fine rapporto non basta che la relazione tra produttore e distri-
butore consista in un semplice acquisto della merce al fi- ne di rivenderla sul mercato. Non è nemmeno sufficien-
te che sia intercorsa una serie di compravendite. Occor- re invece che il distributore sia profondamente inserito nella rete di vendita dal produttore (20). È necessario che sussistano degli accordi per effetto dei quali si verifi- ca un inserimento nel sistema distributivo dell’impresa che presenta caratteri di tale integrazione per cui, da un punto di vista economico, il rivenditore svolge compiti simili a quelli dell’agente. Per stabilire se il distributore è integrato nella rete di vendita del produttore bisogna avere riguardo al contratto di cui si avvalgono le parti e a come il rapporto contrattuale viene di fatto eseguito. È necessario insomma effettuare una valutazione comples- siva di tutte le circostanze del caso.
Esaminando l’ampia giurisprudenza che si è formata in materia si ricavano le circostanze che sono indicative del fatto che il distributore è integrato nella rete di vendita del produttore. L’attribuzione di una zona in cui operare costituisce una limitazione della libertà e concorre a di- mostrare che il rivenditore è inserito stabilmente nella struttura distributiva dell’impresa (21). La previsione di un’esclusiva che obbliga a comprare solo dal produttore lega in modo particolare i due partner contrattuali (22). L’espresso divieto di svolgere attività concorrenziale im- posto al distributore è indice della profondità della rela- zione intercorrente tra i contraenti. Il fatto che il riven- ditore debba seguire le direttive del produttore relativa- mente alle strategie di vendita (per esempio stabilendo i prezzi) indica che il rapporto contrattuale è assimilabile a quello intercorrente con un agente. L’utilizzo del mar- chio dell’impresa è un altro indice della forza del legame tra i due partner contrattuali. L’obbligo del distributore di acquistare certi quantitativi di merce dal produttore è indicativo di una forte relazione tra i due soggetti. Più in genere il diritto della casa produttrice di controllare l’at- tività del rivenditore è indicativa di mancanza di libertà. Si pensi alla possibilità di accedere agli uffici e ai magaz- zini del distributore oppure d’ispezionarne la documen- tazione oppure all’obbligo di relazionare sull’attività svolta. Questo elementi, elencati in via esemplificativa,
Note:
(16) Cfr. X. Xxxxxxxxx, op. cit., 698 s.
(17) Xxx. X. xxx Xxxxxxx, XXX 0000/00 und Ausgleichsanspruch des Kfz- Vertragshändlers, in WRP, 2005, 32 s.
(18) In questo senso X. Xxxxxxxxx, op. cit., 696. In giurisprudenza v.
OLG München, sentenza del 26 febbraio 2004, in BB, 2004, 798 s.
(19) Xxx. X. Xxxxxxxxx, xx. xxx., 000; X. xxx Xxxxxxx, op. cit., 33, anche per gli opportuni riferimenti alla giurisprudenza.
(20) X. Xxxxxx, op. cit., 514 s; X. Xxxxxxxxx, op. cit., 698. XXX Xxx- xxxx, sentenza del 20 dicembre 2002, in NJW-RR, 2003, 537 s.
(21) In questo senso OLG Köln, sentenza del 15 novembre 2002, in Ver- sR, 2003, 106.
(22) L’OLG München, sentenza del 20 dicembre 2002, in NJW-RR, 2003, 537 s., ha affermato che il distributore non era inserito nella rete di vendita del produttore in un caso in cui il primo non aveva l’obbligo di acquistare dal secondo. La libertà di scegliere i fornitori esclude l’assimi- lazione al contratto all’agenzia e la conseguente possibilità di pretendere l’indennità di fine rapporto.
testimoniano che il produttore limita la libertà del pro- prio partner contrattuale.
Il contratto di distribuzione lascia (o dovrebbe lasciare) maggiori spazi di libertà di quanto avviene nel rapporto di agenzia. Dall’altro lato il distributore deve convivere con costi e rischi maggiori. Il distributore dispone di un pro- prio capitale più frequentemente di quanto non avvenga nel caso dell’agente. I costi di gestione di un rapporto di distribuzione tendono inoltre a essere più alti di quelli ne- cessari per porre in essere una relazione di agenzia. Il di- stributore, diversamente dall’agente, deve comprare pri- ma di poter vendere. L’agente - invece - non ha necessità di comprare, perché poi non vende: egli si limita infatti a intermediare il contratto. Il profilo di rischio del distribu- tore è certamente più elevato. Il pericolo maggiore è quello di non riuscire a vendere i prodotti acquistati. Il costo affrontato per gli acquisti diventa così una perdita. Il distributore, inoltre, corre altri rischi. Si pensi alla ne- cessità di ottenere finanziamenti. Mentre l’agente si limi- ta a intermediare contratti, guadagnando così la provvi- gione, il distributore può avere bisogno di procurarsi i mezzi per comprare i beni che poi rivende. Queste dispo- nibilità finanziarie possono essere ricavate ricorrendo al credito, meccanismo che comporta però il rischio di non essere in grado di restituire quanto preso a mutuo. Questo sforzo finanziario non è necessario nel contratto di agen- zia, perché l’agente non compra la merce, ma si limita a intermediarne l’acquisto. Il costo di produzione della merce è in capo al preponente. È quindi più facile che ca- piti al distributore di dover ricorrere a fonti di finanzia- mento, con i rischi che ne derivano.
Nessuna delle circostanze appena elencate, a favore op- pure a sfavore di un’assimilazione del rapporto di distri- buzione a un contratto di agenzia, è in sé decisiva. Si tratta di semplici indizi della reale caratterizzazione della relazione. Il giudice deve tenere conto di tutti gli ele- menti di cui dispone al fine di giungere a una corretta ed equilibrata qualificazione.
L’obbligo di trasferire al produttore
V
i dati relativi ai clienti del distributore
i è un secondo requisito da cui la giurisprudenza fa dipendere la possibilità per il distributore di ottenere l’indennità di fine rapporto. Si tratta
del fatto che, nella relazione contrattuale con il produt- tore, sia previsto in capo al rivenditore l’obbligo di co- municare all’impresa i dati relativi ai clienti finali (23). Questa trasmissione d’informazioni consente alla casa produttrice, una volta cessato il rapporto di distribuzio- ne, di beneficiare subito dei clienti del distributore, con- cludendo con essi nuovi contratti.
N
Segue: a) differenze tra agenzia e distribuzione el contratto di agenzia l’agente opera come in- termediario tra il preponente e il cliente. Il con- tratto viene concluso tra questi due soggetti.
L’agente può avere il potere di concludere il negozio in
nome proprio, ma lo fa sempre per conto del preponen- te. Inoltre l’esecuzione del contratto (si tratta essenzial- mente della fornitura della merce) comporta che l’im- prenditore venga a conoscenza dell’identità del compra- tore. Nel contratto di agenzia il preponente conosce quindi il nominativo dell’acquirente finale. Il giorno in cui il rapporto di agenzia si dovesse interrompere, l’im- prenditore avrebbe gioco facile nel sostituire il vecchio agente con uno nuovo indicando a quest’ultimo a quali clienti rivolgersi per continuare a vendere gli stessi pro- dotti. Oppure il preponente potrebbe scegliere altri ca- nali distributivi. In ogni caso il vecchio collaboratore può essere agevolmente estromesso in toto dal mercato prima coperto. Il legislatore si preoccupa del verificarsi di questa situazione e riconosce un’indennità di fine rap- porto proprio per compensare il fatto che il preponente continua a guadagnare con la clientela sviluppata dall’a- gente, mentre questi cessa del tutto di beneficiarne. A questa alterazione del rapporto sinallagmatico pone ri- medio l’istituto dell’indennità.
Nel contratto di distribuzione vi è, in genere, una mag- giore «distanza» tra produttore e compratore finale. Vi è infatti un acquirente intermedio, che è il distributore. In linea di principio, quindi, l’impresa non conosce l’iden- tità dei soggetti cui i suoi prodotti - tramite l’attività del rivenditore - giungono. Per l’esecuzione del contratto non è insomma necessario che il produttore conosca l’i- dentità dei compratori finali. Per certi versi alla casa pro- duttrice ciò nemmeno interessa perché il suo obiettivo economico, vale a dire il conseguimento del prezzo, è già soddisfatto tramite la prima vendita, quella al distributo- re. Cosa poi faccia il rivenditore con la merce acquistata, è - paradossalmente - irrilevante per il produttore.
L’
Segue: b) significato dell’interpretazione giurisprudenziale
obbligo di trasferire i dati relativi ai clienti al pro- duttore è indicativo del fatto che il distributore gode di un’autonomia limitata. La consegna di
tali informazioni rappresenta un beneficio considerevole per il produttore. Questi infatti può, in questo modo, procedere subito a contattare gli acquirenti finali dei suoi prodotti e trarne tutto il possibile vantaggio econo- mico. Considerato dal punto di vista del distributore, la consegna delle informazioni relative ai propri clienti rappresenta invece un danno consistente.
La corresponsione dell’indennità presuppone che la re- lazione contrattuale sia cessata. Non a caso si parla d’in- dennità di «fine» rapporto. La relazione tra produttore e distributore è quindi cessata. A questo punto è ragione- vole aspettarsi che l’impresa, avendo a disposizione tutte le necessarie informazioni, proceda essa stessa a rifornire direttamente i clienti finali. In alternativa il produttore
Nota:
(23) OLG München, sentenza del 20 dicembre 2002, in NJW-RR, 2003, 537 s.
provvederà a creare nuovi canali distributivi, per esem- xxx xxxxxxxxxxxx un agente oppure un altro distributore. In ogni caso il vecchio rivenditore cessa di trarre benefi- cio economico dal lavoro svolto in precedenza.
Non è necessario che il produttore continui a operare sul mercato interessato. Può cioè capitare che, terminata la relazione contrattuale con il distributore, l’impresa deci- da di non distribuire più nella stessa zona. Questa circo- stanza non è idonea a escludere il diritto all’indennità. In altre parole è sufficiente che il produttore abbia la possi- bilità di utilizzare il portafoglio clienti precedentemente gestito dal distributore. Non è invece necessario che lo faccia. Le ragioni più diverse possono indurlo ad abban- donare un certo mercato. Quello che è certo è che il di- stributore subisce un danno perché non distribuendo più i prodotti cessa di ottenere quei guadagni che prima po- teva conseguire. Il produttore deve sapere che, tutte le volte che ottiene informazioni relative alla clientela del distributore, corre il rischio di essere costretto a pagare l’indennità di fine rapporto.
I
Segue: c) tempistica e modalità del trasferimento dei dati
l trasferimento dei dati relativi ai clienti può avveni- re alla cessazione del rapporto. Esso può tuttavia rea- lizzarsi anche durante lo svolgimento della relazione contrattuale tra produttore e distributore. Questo caso si realizza in particolare quando sussiste l’obbligo di relazio- nare l’impresa sull’identità dei clienti del rivenditore man mano che i relativi contratti vengono conclusi. In un’ipotesi del genere non è necessaria una comunicazio- ne finale perché il produttore acquisisce conoscenza un
po’ alla volta.
Il caso più semplice si realizza quando il contratto di di- stribuzione prevede espressamente in capo al distributo- re l’obbligo di fornire al produttore i dati identificativi dei clienti. In questa ipotesi è chiaro che sussiste l’obbli- go di corrispondere l’indennità di fine rapporto. Nella prassi è tuttavia rara una pattuizione del genere perché il produttore non ha interesse a inserire clausole che van- no a proprio svantaggio (24). È quindi difficile che il contratto statuisca a chiare lettere che il distributore ha l’obbligo di fornire all’impresa i dati identificativi dei clienti. In questo modo infatti il produttore creerebbe volontariamente i presupposti per dover corrispondere l’indennità.
L’obbligo di fornire dati sui clienti può essere per così di- re «camuffato» nel testo contrattuale. Si immagini, per esempio, una clausola secondo la quale il distributore è tenuto a relazionare con regolarità sull’attività di vendi- ta. Se nelle relazioni si precisano non solo il tipo e la
rivenditore. Una pattuizione del genere può fondare l’obbligo di corrispondere l’indennità di fine rapporto. Il produttore che voglia escludere la corresponsione di somme a questo titolo deve verificare accuratamente che il testo contrattuale non contenga alcun riferimento né diretto né indiretto a un trasferimento d’informazioni relative alla clientela.
Talvolta l’obbligo di fornire dati sui clienti risulta da un documento materialmente separato dal contratto scritto di distribuzione. Si immagini il caso di circolari che ven- gono inviate dal produttore al distributore. In queste co- municazioni può essere sottolineata l’importanza di una buona gestione del portafoglio clienti e, a tal fine, può essere chiesto di fornire all’impresa produttrice informa- zioni sulla clientela. Queste iniziative unilaterali, se ac- cettate dal distributore che vi dà seguito, possono confi- gurare un’integrazione del contratto che fa nascere lo specifico obbligo di fornire dati sui clienti.
Nella prassi capita frequentemente che non sia stato espressamente pattuito l’obbligo del distributore di forni- re al produttore i dati sui propri clienti. La casa produt- trice attenta nella predisposizione del contratto preferi- sce non inserire una clausola del genere, perché altri- menti fonda in modo troppo diretto il proprio obbligo di corrispondere l’indennità di fine rapporto. La sussistenza del dovere di trasferire le informazioni può tuttavia esse- re affermata anche in assenza di un’espressa pattuizione contrattuale, semplicemente osservando come si svolge il rapporto. Se il produttore chiede con regolarità i dati relativi ai clienti e questi vengono forniti, si può arrivare ad affermare che è sorto un obbligo di comunicazione (25). Ne consegue l’obbligo di corrispondere l’indennità di fine rapporto.
In altri casi, poi, non è tanto il produttore che chiede al distributore i dati sui clienti. Si verifica invece la situa- zione inversa. Il distributore comunica volontariamente al produttore informazioni sui propri clienti. Se l’impre- sa rifiuta questi dati, l’obbligo di corrispondere l’inden- nità di fine rapporto non sorge. Se tuttavia il produttore accetta queste informazioni, può sorgere un dovere di trasmettere le informazioni. Si pensi, per esempio, all’i- potesi in cui il distributore trasmette con regolarità al produttore copia degli ordini che ha ricevuto e da questi si desume l’identità dei clienti. L’impresa che non vuole corrispondere l’indennità di fine rapporto deve prestare attenzione a non ricevere alcuna informazione sui part- ner contrattuali del rivenditore (26). Lo stesso ragiona- mento vale alla fine del rapporto di distribuzione. Il pro- duttore che vuole evitare di pagare l’indennità deve im- mediatamente restituire al distributore eventuali docu-
quantità di merce venduta, ma anche i compratori, è
evidente che in questo modo il produttore ottiene infor- mazioni su quelli che sono i clienti finali. Il giorno in cui il rapporto contrattuale si dovesse interrompere, l’impre- sa produttrice - estromesso il distributore - avrebbe la possibilità di contattare direttamente gli acquirenti del
Note:
(24) X. Xxxxxx, op. cit., 442.
(25) Così OLG Köln, sentenza del 15 novembre 2002, in VersR, 2003, 106.
(26) X. Xxxxxx, op. cit., 444 s.
menti che questi gli abbia consegnato al termine della relazione, laddove essi contengano elenchi di clienti. Altrimenti nell’accettazione di questa documentazione può essere ravvisata un’integrazione del contratto nel senso dell’affermazione dell’obbligo di fornire i dati rela- tivi alla clientela. Il produttore potrebbe quindi essere chiamato a corrispondere l’indennità di fine rapporto. Il trasferimento dei dati relativi ai clienti deve avere ca- rattere di sistematicità. Occorre che il rapporto tra pro- duttore e distributore sia strutturato in modo tale per cui, di fatto, le informazioni sensibili giungono regolarmente all’impresa produttrice (27). In un regime di sostanziale non comunicazione del portafoglio clientela, se - di tan- to in tanto - qualche nominativo di cliente giunge all’a- zienda, questa circostanza non è sufficiente a fondare l’obbligo di pagare l’indennità di fine rapporto. Vicever- sa in un sistema di regolare comunicazione di dati all’im- presa, il fatto che - occasionalmente - qualche nomina- tivo non sia stato messo a disposizione del produttore non basta a escludere il dovere di corrispondere l’emolu- mento. Il criterio di fondo sui cui basarsi per effettuare la valutazione è che, di fatto, i dati relativi almeno alla maggior parte dei clienti giungano con regolarità alla ca- sa produttrice per un periodo di tempo sufficientemente lungo. Quando il trasferimento della maggioranza delle informazioni è avvenuto per tutta la durata del rapporto è difficile mettere in dubbio il carattere di sistematicità della trasmissione.
Qualche volta il testo contrattuale può escludere espres- samente l’obbligo del distributore di fornire al produtto- re informazioni sui clienti. In questo caso l’indennità di fine rapporto non è dovuta (28). Un’impresa particolar- mente astuta potrebbe inserire in contratto l’esclusione dell’obbligo di fornire dati al solo fine di predisporre un appiglio formale per escludere il futuro pagamento del compenso finale. Il giudice non può tuttavia fermarsi al dato letterale, ma deve indagare sulla reale attuazione della relazione contrattuale. Può così capitare che, di fat- to, il distributore fornisca regolarmente al produttore i dati relativi ai clienti. In genere il rivenditore non è in grado di opporsi a una richiesta in questo senso da parte dell’impresa perché dispone di meno potere contrattua- le. Al fine di mantenere in forza il contratto e di conti- nuare a guadagnare, accetta - di fatto - di fornire al pro- duttore questi dati così sensibili. Il solo fatto della comu- nicazione delle informazioni può far sorgere il diritto al- l’indennità. La giurisprudenza ha infatti interpretato la trasmissione dei dati come una deroga alla previsione in senso contrario contenuta nel contratto.
Se il contratto contiene espressamente l’obbligo per il
ne uno nuovo escludendo per il futuro l’obbligo di forni- re i dati. In questo caso infatti l’impresa si troverebbe sì costretta a pagare l’indennità di fine rapporto ma solo per il periodo di valenza del primo testo contrattuale. Il produttore riesce invece a liberarsi dall’obbligo di corri- spondere il compenso finale per il futuro. Per raggiunge- re questo risultato occorre tuttavia che il distributore sia disponibile a stipulare un nuovo contratto a condizioni diverse dal primo. Se ciò non avviene, il produttore che voglia evitare il pagamento di future indennità deve cer- care nuovi canali distributivi.
Il nesso di causalità tra l’obbligo
V
di consegnare i dati relativi ai clienti e i benefici del produttore
i sono delle situazioni particolari in cui l’obbligo del distributore di trasferire i dati relativi ai clienti non è necessariamente vantaggioso per il
produttore. Il primo caso è quello relativo ai prodotti di marca particolarmente famosa. La seconda ipotesi è quella dei beni durevoli.
N
Segue: a) beni di marca particolarmente famosa el caso di beni di marca particolarmente famo- sa la decisione di acquisto da parte del cliente, di solito, dipende prevalentemente dalle carat-
teristiche del prodotto (30). Il ruolo del rivenditore nel convincimento del potenziale compratore è general- mente piuttosto marginale. Nel caso di prodotti di mar- ca particolarmente famosa il distributore si limita a orga- nizzare e a facilitare il passaggio del bene dal produttore all’acquirente. Spesso l’attività pubblicitaria è organizza- ta e gestita direttamente dall’impresa. L’attività del di- stributore consiste nell’assistenza, nella consulenza e nel servizio del cliente. Essa, di solito, è di secondaria impor- tanza rispetto alla decisione di acquisto. Per tutte queste ragioni una volta terminato il rapporto di distribuzione è probabile che il cliente finale continui a comprare i be- ni del produttore, anche se vi è un nuovo distributore. L’esempio forse più calzante di questo effetto marca è quello dell’industria automobilistica. Il compratore di un’automobile generalmente non si decide ad acquistare un’auto per l’azione di convincimento posta in essere dal distributore. Egli decide dapprima di comprare l’automo- bile di un certo tipo di una certa marca e poi si rivolge al- la concessionaria più vicina. La scelta dell’autovettura non è influenzata dal rivenditore, bensì dalle caratteri- stiche del prodotto. Semmai è il produttore che influen- za il comportamento degli acquirenti, per esempio lan-
distributore di comunicare al produttore i dati relativi al
cliente ma l’impresa non ha interesse ad avere questi informazioni può cercare di modificare il testo contrat- tuale (29). Una variazione richiede il consenso di en- trambi i contraenti, e quindi anche del rivenditore. Se il consenso non viene prestato, il produttore può pensare - in alternativa - a disdettare il contratto per poi stipular-
Note:
(27) X. xxx Xxxxxxxxx-Xxxxx, in Münchener Kommentar zum Handel- sgesetzbuch, a cura di X. Xxxxxxx, XX xx., X, Xxxxxxx, 0000, § 00x Xx. 22.
(28) X. Xxxxxx, op. cit., 443.
(29) X. Xxxxxx, op. cit., 444.
(30) Cfr. X. Xxxxxxxxx, D. Gesmann-Xxxxxx, X. Xxxxxxx, op. cit., 257.
ciando una campagna pubblicitaria particolarmente in- tensa. Se - a seguito di questa iniziativa - il numero di compratori aumenta, è lecito pensare che la pubblicità abbia influenzato positivamente il comportamento dei potenziali acquirenti. In un caso del genere il distributo- re pare non aver giocato alcun ruolo nelle decisioni di acquisto. In contesti del genere la clientela appare essere più fedele alla marca che non al rivenditore. I clienti
«sono» insomma prevalentemente del produttore e non del distributore. Non vi è - in altre parole - un portafo- glio clientela che, al termine della relazione contrattua- le, possa essere trasferito dal rivenditore all’impresa.
Nel caso di marche particolarmente famose si discute quindi se il distributore possa reclamare l’indennità di fi- ne rapporto (31). A questa domanda non può essere da- ta una risposta in termini assoluti. Alcune volte l’inden- nità viene negata, altre volte viene concessa in toto (32), altre volte ancora viene sì concessa ma ridotta di un cer- to valore percentuale in considerazione del fatto che la fama della marca ha inciso sulla decisione di acquisto del cliente (33).
L’orientamento generale della giurisprudenza è comun- que nel senso di concedere l’indennità di fine rapporto al distributore, anche se il suo ammontare viene ridotto in relazione agli effetti di convincimento che il marchio fa- moso produce sui compratori. Si tratta, in altre parole, di verificare nel caso concreto se e fino a che punto vi sia correlazione tra attività del rivenditore e acquisto. È ne- cessario stabilire se il distributore abbia perlomeno con- corso a determinare la decisione del compratore. Se l’o- perato del rivenditore è stato - almeno in parte - causale, a questi deve essere riconosciuta l’indennità (34). Que- sta forma di retribuzione del distributore va esclusa solo quando il cliente è già autonomamente deciso in modo risoluto all’acquisto e il rivenditore non ha avuto al ri- guardo alcun ruolo. Se, al contrario, il distributore ha po- sto in essere comportamenti che hanno influenzato - an- che solo in parte - la decisione del compratore, allora l’indennità va riconosciuta. Può bastare un’attività pub- blicitaria oppure di assistenza, consulenza o servizio al cliente. Nella prassi si tiene quindi conto dell’effetto marca non tanto per escludere l’indennità, bensì al fine
un lungo periodo. Il problema che si pone in questi casi è che il produttore può trarre un vantaggio dall’obbligo di trasferimento di clientela dal distributore solo a di- stanza di molto tempo. Anche se l’impresa viene in pos- sesso dei dati relativi ai clienti, essa non può general- mente avvantaggiarsene nel breve o nel medio periodo, perché è improbabile che l’industria manifatturiera op- pure il proprietario dell’autoveicolo abbia necessità di cambiare presto il bene acquistato.
Anche nel caso dei beni durevoli occorre un’attenta va- lutazione di tutte le circostanze del caso concreto per sta- bilire se l’indennità di fine rapporto è dovuta e in che misura. È necessario chiedersi se ci si può aspettare che un certo compratore proceda a una nuova ordinazione presso lo stesso produttore, diventando così un c.d.
«cliente stabile» («Stammkunde») (36). Questi va tenu- to distinto dal c.d. «cliente occasionale» («Laufkunde»).
«Clienti stabili» sono le persone che hanno stipulato più di un contratto con il distributore o che si può presume- re che concluderanno più di un contratto entro un certo periodo di riferimento. Il cliente occasionale, invece, si rivolge una sola volta al rivenditore e si può ritenere che non lo farà di nuovo in futuro. Nel settore delle automo- bili è stato affermato in giurisprudenza che i distributori, tramite l’attività di assistenza, di consulenza e di servizio da essi prestata, riescono a legare a sé almeno una parte degli acquirenti di autovetture, con l’effetto che questi si rivolgono di nuovo allo stesso rivenditore per l’acquisto successivo (37).
Le persone relativamente alle quali ci si può aspettare in tempi ragionevoli una nuova ordinazione vanno consi- derati come clienti stabili del rivenditore. È ovviamente difficile concretizzare il concetto di «tempo ragionevole» entro il quale va effettuato l’acquisto successivo. Molto dipende dal tipo di prodotto. La questione è stata recen- temente decisa con riferimento alla vendita di carburan- te. La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che un cliente vada considerato come stabile quando si reca al- meno 12 volte all’anno presso lo stesso distributore (38). Nel caso di beni di valore maggiore, l’intervallo di tempo è più lungo. L’acquisto di una nuova automobile, per
di ridurne l’ammontare di un certo valore percentuale.
La giurisprudenza ritiene che la fama del marchio possa determinare una riduzione della retribuzione finale del distributore tra il 10% e il 25% della somma che sarebbe altrimenti dovuta.
I
Segue: b) beni durevoli
l problema della rilevanza causale del comportamen- to del distributore si pone anche nel caso in cui i be- ni oggetto del contratto di distribuzione sono prodot-
ti durevoli (35). Si immagini il caso di un rivenditore che ha il compito di piazzare presso certe industrie mac- chinari che, una volta venduti, servono a produrre per anni, se non per decenni. Anche le stesse automobili rappresentano un bene destinato a essere utilizzato per
Note:
(31) X. Xxxxxx, op. cit., 446 s.; X. xxx Xxxxxxxxx-Xxxxx, xx. xxx., § 00x
Xx. 23.
(32) Così l’OLG Köln, sentenza del 15 novembre 2002, in VersR, 2003, 106.
(33) Così l’OLG Saarbrücken, sentenza del 5 febbraio 2003, in VersR, 2004, 195 ss.
(34) In questo senso OLG Saarbrücken, sentenza del 5 febbraio 2003, in
VersR, 2004, 195 ss.
(35) X. Xxxxxx, op. cit., 447 s.
(36) BGH, sentenza del 10 luglio 2002, in WM, 499 ss.
(37) OLG Saarbrücken, sentenza del 5 febbraio 2003, in VersR, 2004, 195 ss.
(38) BGH, sentenza del 10 luglio 2002, in WM, 499 ss.
esempio, avviene generalmente a distanza di diversi anni dal precedente.
In ogni caso il principio ricavabile dalla giurisprudenza è che gli acquisti effettuati da clienti stabili devono essere tenuti in considerazione ai fini del calcolo dell’indennità di fine rapporto. Si può infatti presumere che tali com- pratori rimarranno fedeli al produttore anche dopo il cambio del distributore. L’impresa continuerà così a trar- ne vantaggio anche in futuro. In giurisprudenza è stato, per esempio, ritenuto probabile - con riferimento a un
quanti tra i clienti di un distributore di carburante siano da considerarsi fissi (40). Al riguardo il giudice è legitti- mato a effettuare valutazioni equitative ai sensi del § 287 comma 2 ZPO. A tal fine l’autorità giudiziaria può anche avvalersi di dati statistici, i quali devono peraltro essere letti, ed eventualmente corretti, alla luce di tutte le cir- costanze del caso concreto.
concessionario di automobili - che circa i due terzi dei
clienti che avevano comprato presso tale distributore avrebbero continuato ad acquistare presso lo stesso (39). Si tratta ovviamente di prognosi, talvolta estremamente difficili da fare. Si pensi solo alla difficoltà di stabilire
Note:
(39) OLG Saarbrücken, sentenza del 5 febbraio 2003, in VersR, 2004, 195 ss.
(40) BGH, sentenza del 10 luglio 2002, in WM, 499 ss.
Buona fede e contratti standard: riflessioni sull’impiego
della clausola generale
nel diritto privato comunitario
di XXXXXXX XXXXXXX
L’articolo esamina l’applicazione giurisprudenziale della buona fede nella disciplina delle clausole vessa- torie e giunge alla conclusione che, nonostante una certa enfasi dottrinale, la giurisprudenza italiana continua ad attribuire scarso peso a tale clausola generale. Questa conclusione porta l’Autore ad interro- garsi sull’opportunità, sul piano più generale della disciplina comunitaria, dell’impiego di clausole gene- rali, la cui determinazione resta comunque prevalentemente affidata alle giurisprudenze nazionali (*).
L’
L’assenza di riferimenti alla buona fede nell’originaria disciplina codicistica italiana sulle clausole vessatorie
ordinamento italiano, come noto, è stato il primo a contemplare, nel codice civile, una disciplina delle clausole vessatorie nei contratti «predispo-
sti per disciplinare in maniera uniforme determinati rap- porti contrattuali» (art. 1342 Codice civile). Èaltrettan- to noto che questa disciplina, risalente alla prima metà del novecento e tuttora vigente, contempla un control- lo solo formale. Èconsentito inserire nel contratto clau- sole vessatorie - espressamente indicate nell’art. 1341, secondo comma, Codice civile - purché sia apposta una seconda sottoscrizione, tesa ad approvarle specificata- mente; solo in caso di sua mancanza, la clausola vessato- ria sarà inefficace indipendentemente da alcun control- lo nel merito (1).
Questa disciplina tradizionale italiana - che si applica a tutti i rapporti, anche tra imprenditori o verso la p.a. - non prevede alcun controllo nel contenuto del contrat- to, né fa alcun riferimento alla buona fede (2).
Il codice civile italiano però contiene riferimenti alla buona fede nella disciplina generale del contratto: a pro- posito delle trattative contrattuali (art. 1337), dell’ese- cuzione del contratto (art. 1375) della sua interpretazio- ne (art. 1366). Sul piano legislativo esistono le condizio- ni per fare della buona fede un principio cardine in ma- teria contrattuale. Anche la dottrina, il formante che più di altri ha risentito del modello tedesco, esalta il ruo- lo della buona fede. Numerosi manuali di diritto civile trattano la buona fede come un importante principio ispiratore dell’intera disciplina dei rapporti patrimoniali. A questa apologia del principio di buona fede, contenu- ta nella law in books, non corrisponde però pari impor- tanza sul piano delle applicazioni giurisprudenziali. La giurisprudenza non ha voluto approfittare di tanta gene- xxxxxx legislativa per instaurare un controllo nel merito
sull’uso delle clausole vessatorie. I giudici italiani non sembrano a loro agio nella delicata fase di definizione dell’obbligo di buona fede, indispensabile per non far scadere tale principio in una formula vaga, priva di con- tenuti, e sono stati molto meno inclini dei loro colleghi tedeschi alla costruzione di Fallgruppen, tesi a definire il nostro concetto nelle più varie fattispecie contrattuali. Per questa ragione, essi hanno preferito risolvere in altro modo, che non attraverso il richiamo alla clausola gene- rale della buona fede, i problemi sul piano interpretati- vo. Dal punto di vista giurisprudenziale, quindi, l’espe- rienza italiana appare più vicina a quella francese, dove, nonostante l’importante riferimento all’obbligo di ese- cuzione in buona fede (art. 1134 Code civ.), non si ri- scontra certo un atteggiamento dottrinale e giurispru-
Note:
(*) Rielaborazione dell’intervento tenuto alla Conference su «Standard Contract Terms in Europe: a Basis for and a Challenge to European Con- tract Law», Xxxxx 00-00 giugno 2005, organizzata dalla «Society of Euro- pean Contract Law» (Secola).
(1) L’elenco delle clausole vessatorie contenuto nell’art. 1341, secondo xxxxx, c.c. è ritenuto tassativo per cui non rientrano casi non espressa- mente previsti, quali, ad esempio, una clausola penale: Cass. 26 ottobre 2004, n. 20744, in Rep. Foro it., 2004, voce Contratto in genere, n. 174; Cass. (ord.) 7 febbraio 2003, n. 1833, id., ivi, 2003, voce cit., 329. La re- gola della duplice sottoscrizione delle clausole vessatorie si ritiene non applicabile nel caso in cui il contratto è stipulato per atto pubblico o in forma pubblica amministrativa: Cass. 21 settembre 2004, n. 18917, ivi, 2004, voce cit., n. 154; 28 agosto 2004, n. 17289, voce cit., n. 178 (per la ragione che in tal caso la clausola non può dirsi predisposta da una parte). Vale però nel caso di contratto concluso via internet: Giudice di pace di Partanna 1° febbraio 2002, in questa Rivista, 2002, 869, nota Xxxxxxx, Xxxxxx.
(2) Anche se non mancano sentenze che, con riferimento a detto regime tradizionale, hanno utilizzato la regola dell’interpretazione del contratto in buona fede a vantaggio della parte aderente al contratto standard: Xxxx. 21 giugno 2004, n. 11487 (contratto di assicurazione per malattie professionali), in Rep. Foro it., 2004, voce Assicurazione (contratto di), n. 49.
denziale teso a valorizzare l’impiego della clausola gene- rale nel diritto dei contratti (3).
Il riferimento alla buona fede
nella disciplina comunitaria degli anni novanta (direttiva 93/13/CEE) e relativi problemi
L’
sorti nell’esperienza italiana: buona fede in senso soggettivo o in senso oggettivo e … gli errori di traduzione
importante novità, importata nell’ordinamento italiano per via comunitaria, consistente nell’im- piego della clausola generale della buona fede
nella disciplina delle clausole vessatorie non ha manca- to di dare ingresso a problematiche di tipo diverso.
Sotto un primo aspetto, una vicenda tutta italiana, lega- ta ad un problema di traduzione del testo della direttiva comunitaria, ha creato complicazioni, che non si riscon- trano in altri ordinamenti. È accaduto che, per una di- sattenzione di non poco conto, il testo italiano della di- rettiva afferma testualmente: «una clausola contrattuale
… si considera abusiva se, malgrado il requisito della buo- na fede, determina, a danno del consumatore un signifi- cativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti de- rivanti dal contratto» (corsivo nostro). Il significato te- stuale di questa traduzione induce a ritenere che possa sussistere un significativo squilibrio (e quindi la vessato- rietà della clausola) anche in presenza (malgrado) del re- quisito della buona fede.
Se si segue tale interpretazione, suggerita dal senso lette- rale del testo, il requisito della buona fede è da intender- si non in senso oggettivo (standard oggettivo di valuta- zione), ma in senso soggettivo, come richiamo alla cir- costanza che una parte (il predisponente) abbia avuto, o no, consapevolezza del carattere vessatorio della clauso- la: se una clausola determina un significativo squilibrio, essa è vessatoria anche se il predisponente ignorava ed ignora tale circostanza.
In realtà, se si considera il testo della direttiva in altre lingue - francese «en dépit de l’exigence de bonne foi», in- glese «contrary to the requirement of good faith», tedesco
«entgegen dem Gebot von Xxxx und Glauben» - emerge con chiarezza che il termine «malgrado» non esprime una corretta traduzione, posto che il legislatore comuni- tario ha inteso affermare che il test della vessatorietà porta ad un risultato positivo se sussiste un significativo squilibrio (dei diritti e degli obblighi) «contrariamente» alla buona fede. Così inteso, il requisito della buona fede è certamente richiamato in senso oggettivo.
La dottrina ha, a larghissima maggioranza, rilevato l’er- rore di traduzione fin dalla pubblicazione della direttiva nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee e se- gnalato il rischio di far valere nel territorio italiano un testo differente da quello vigente nel resto del mercato interno. Nonostante ciò, il legislatore italiano, quando ha varato, dopo circa tre anni, la legge nazionale di rece- pimento, ha ignorato questi rilievi e, in modo censurabi- le, ha ripetuto letteralmente il testo (la cattiva traduzio-
ne) della direttiva: «… si considerano vessatorie le clau- sole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio …» (art. 1469 bis, Codice civile, successivamente riportato nel- l’art. 33, primo comma, Cod. consumo) (4).
Questa reiterazione della cattiva traduzione ha indotto una parte minoritaria della dottrina italiana ad interpre- tare il requisito della buona fede in senso soggettivo, con l’esito di azzerarne l’incidenza sul test di vessatorietà: una clausola è vessatoria in presenza del «significativo squili- brio», a prescindere dalla buona fede del predisponente.
(5) Una simile interpretazione affiora anche nella giuri- sprudenza, ma anche qui risulta decisamente minoritaria (6).
Xxxxx dottrina attribuisce rilevanza al dato comparativo e cerca di interpretare anche alla sua luce il significato del riferimento alla buona fede contenuto nella diretti- va. Significativa sotto tale aspetto è la riflessione di chi, rinvenendo nel § 9 AGBG la principale fonte ispiratri- ce del test di vessatorietà comunitario, rileva come una interpretazione corretta - recte: correttiva - della diretti- va (nella versione in italiano) e dell’art. 33, primo com- ma, Cod. consumo, debba indurre ad intendere la buona fede come clausola generale, quindi in senso oggettivo (7). Questa conclusione è propria della dottrina maggio- ritaria e della prevalente giurisprudenza.
Note:
(3) È significativo che la legge francese di recepimento della direttiva co- munitaria 93/13/CEE abbia omesso ogni riferimento alla buona fede ri- ducendo il test di vessatorietà alla presenza di clausole «qui ont pour object ou pour effet de créer, au détriment du non-professionel ou du consommateur, un déséquilibre significatif entre les droits et obligations des parties au contrat»: art. L. 132-1, Code cons. Ottimistica appare l’opinione di X. Xxxxx, Einige neuere Entwicklungen des französischen allgemeinen Vertragsrecht im Xxxxxx xxx Xxxxxxxxxxx xxx Xxxxx-Xxxxxxxxxx, XXxX 0000, 514, 517 ss., anche al- la luce della circostanza che ancora oggi, i più celebrati manuali e tratta- ti francesi in materia contrattuale continuano a riservare uno spazio mol- to stringato alla clausola generale di bonne foi.
(4) La legge di recepimento italiana è la Legge 6 febbraio 1996, n. 52, art. 25, che ha introdotto la disciplina di derivazione comunitaria all’interno del codice civile, inserendo i nuovi articoli 1469 bis - 1469 sexies. Tale di- sciplina è stata successivamente riversata negli artt. 33 e ss. del Codice del consumo, varato con X.Xxx. 6 settembre 2005, n. 206, in G.U. 8 ot- tobre 2005, n. 235.
(5) X. Xxxxx, Commento all’art. 1469 bis, comma 1, in Cesaro, Clausole vessatorie e contratto del consumatore, Padova, 2001, 35 e ss., che però in- dividua nel criterio del significativo squilibrio un’applicazione della buo- na fede oggettiva.
(6) App. Roma 24 settembre 2002, in Foro it., 2003, I, 332, con nota Pal- mieri: l’«elemento oggettivo del significativo squilibrio contrattuale … resta … l’elemento decisivo della fattispecie».
(7) X. Xxxxxxxxx, Clausole abusive (nei contratti dei consumatori): una diret- tiva abusata ?, in Foro it., 1994, V, 137; X. Xxxxx, Die Umsetzung der EG-Ri- chtlinie über missbräuchliche Klauseln in Verbraucherverträgen in Deutschland und in Italien, in Jahrbuch für das italienische Recht 2005, 3 ss.; G. Alpa, Uno sguardo alla disciplina delle clausole vessatorie in Italia e nel Regno Unito, in Nuova giur. civ. comm., 2004, 5, 8 e seg.; G. De Nova, Le clausole vessato- rie. Art. 25, legge 6 febbraio 1996, n. 52, Milano, 1996, 16 e ss.; X. Xxxx, Il nuovo capo XIV bis (Titolo II, Libro IV) del codice civile sulla disciplina dei contratti con i consumatori, in Studium iuris 1996, 415. Trib. Palermo 7 apri- le 1998, in Foro it., 1998, I, 1624, con nota X. Xxxxx.
La buona fede in senso oggettivo
L
e le sue possibili interpretazioni: buona fede, significativo squilibrio ed obbligo di trasparenza
a generale convinzione che si tratti di clausola ge- nerale, da intendersi in senso oggettivo non evita che si producano ulteriori problemi.
Ci si è chiesti, infatti, quale sia il significato da attribui- re ad un controllo di vessatorietà basato, sia sul richia- mo al principio di buona fede, sia sul significativo squi- librio.
Un primo problema si pone a proposito del criterio del significativo squilibrio. Alcuni suggeriscono una valuta- zione incentrata sull’assetto di interessi, sì come divisato nella disciplina dispositiva, derogata dalla clausola vessa- toria (8).
Altre volte, la giurisprudenza sembra piuttosto adot- tare un giudizio di significativo squilibrio in relazione al ruolo giocato da ciascuna parte contrattuale nel corso del rapporto ed alla possibilità concreta di gesti- re il rischio nell’ambito della propria sfera organizzati- va (9).
Un secondo problema è legato al rapporto tra significa- tivo squilibrio e clausola generale di buona fede.
In base ad una prima interpretazione, il criterio del si- gnificativo squilibrio mira a determinare il controllo di buona fede con riferimento alle clausole vessatorie; in al- tri termini, buona fede in tale ambito significa assenza di un significativo squilibrio (normativo). Si tratta perciò di una interpretazione, che induce a far coincidere i due requisiti, riconducendoli ad un solo significato: più pre- cisamente, il significativo squilibrio toglie spazio di ope- ratività alla clausola generale (10).
Questa interpretazione non è pacifica. Èstata prospetta- ta una differente lettura, che tende ad attribuire signifi- cati differenti ai due requisiti (cfr. pure il sedicesimo con- siderando della direttiva). Il controllo di vessatorietà di una clausola non sarebbe circoscritto al solo accerta- mento della presenza di un significativo squilibrio nor- mativo, perché occorrerebbe pure accertare che tale squilibrio sia contrario a buona fede (11). Ciò pone il problema di cosa debba intendersi per contrarietà a buo- na fede, una volta espunto dal suo contenuto il significa- tivo squilibrio. Il tentativo di concretizzare la clausola generale affermando che la presenza di una clausola che produce significativo squilibrio, di per sé non comporta violazione della buona fede se tale squilibrio è compen- sato in altra parte del contratto ha una salda tenuta logi- ca, ma si espone inevitabilmente al rilievo che tale aspetto - cfr. art. 4.1, parte finale, della direttiva 93/13/CEE ed art. 34, primo comma, Cod. consumo, in fine - è già oggetto di enunciato normativo, al di fuori della previsione di buona fede (12).
In astratto, sarebbe possibile un’ulteriore interpretazio- ne, sempre tesa a mantenere distinti i nostri due requisi- ti: la vessatorietà di una clausola non può ricavarsi dalla mera contrarietà a buona fede se la stessa non comporta un significativo squilibrio normativo.
Anche questa possibile interpretazione lascia aperto il problema di cosa significhi contrarietà a buona fede e conferma, una volta di più, le difficoltà della dottrina ita- liana a definire meglio la clausola generale, conforme- mente ad una tradizione di … scarsa confidenza.
La direttiva 93/13/CEE impone anche espressamente un obbligo di trasparenza assai ampio (art. 5: «le clau- sole … proposte al consumatore per iscritto … devono essere sempre redatte in modo chiaro e comprensibi- le»), che riguarda anche clausole vertenti sulla defini- zione dell’oggetto principale del contratto e «sulla pe- requazione tra il prezzo e la remunerazione, da un lato e i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio, dall’altro», pur sottratte alla valutazione del carattere abusivo (art. 4). Questo espresso riferimento sottrae innegabilmente ulteriore terreno alla clausola genera- le di buona fede che, nell’esperienza simbolo - quella tedesca - si definisce anche come regola di trasparenza (13). La regola di trasparenza, oggi codificata dall’art. 35, cod. consumo (e già nell’art. 1469 quater Codice civile), è severamente applicata dalle corti italiane (14).
Note:
(8) X. Xxxxx, La definizione di clausola «vessatoria» nei contratti dei consu- matori, questa Rivista, 2000, 84. In giurisprudenza, in tal senso, Trib. Mi- lano-Legnano 29 marzo 2002, in Foro it., 2002, I, 2826, e, almeno impli- citamente, Trib. Firenze 19 febbraio 2003, Disciplina comm., 2003, 571 (che giudica vessatoria ex art. 1469 bis, primo comma, Codice civile, quella clausola che, in deroga alla disciplina del recesso dal contratto di multiproprietà - secondo cui l’esercizio di tale diritto può essere subordi- nato solo al rimborso delle spese effettive e documentate - prevede il pa- gamento di somme solo artatamente qualificabili come spese, in realtà configuranti una caparra penitenziale).
(9) App. Roma 24 settembre 2002, cit.; Trib. Roma 4 febbraio 2002, in Foro it., 2002, I, 2829; Trib. Roma 31 agosto 1998, in Foro it. 1998, I, 3331.
(10) Patti, Die Umsetzung …, cit., 13; X. Xxxxx, La nuova disciplina delle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori, in Foro it. 1996, V, 145, 160; Xxxxxxxxx, Clausole abusive …, cit., 137.
(11) V. in proposito le osservazioni di Roppo, La definizione …, cit., 85, che, da un lato rileva come una considerazione autonoma del criterio del- la buona fede possa portare ad un abbassamento della tutela dei consu- matori, nella misura in cui non basterebbe la semplice presenza di un si- gnificativo squilibrio per il giudizio di vessatorietà; dall’altro, ritiene che il testo dell’art. 3 (1) «chiaramente indica i due criteri dello squilibrio e della contrarietà a buona fede come requisiti cumulativi». X. Xx Xxxx, Criteri generali di determinazione dell’abusività di clausole ed elenco di clausole abusive, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1994, 693.
(12) In tema, Roppo, La definizione …, cit., 86.
(13) X. Xxxxxxxxxxx, The Implementation of the Standard Contract Terms Directive in Germany, di prossima pubblicazione nel volume collettaneo degli atti del Convegno di Praga del 17-18 giugno 2005, organizzato dal- la Society of European Contract Law (Secola).
(14) X. Xxx. Xxxx 00 settembre 2002, cit., («… la trasparenza … rap- presenta la soglia minimale al di sotto della quale la clausola dev’essere senz’altro espunta» dal contratto); Trib. Bari 25 marzo 2002, in Foro it., 2002, I, 2827 (che, dopo aver giudicato non vessatoria nel merito una clausola contrattuale l’ha censurata sotto il profilo della mancanza di una sufficiente informazione al consumatore, ritenuta fonte di significativo squilibrio).
L’
L’analisi della giurisprudenza e la path dependence
analisi della giurisprudenza conferma che, finora, il successo operativo della buona fede nell’espe- rienza italiana è stato abbastanza scarso.
Anzitutto un rilievo: la disciplina comunitaria delle clausole abusive, che pure introduce un controllo ben più efficace rispetto alla normativa previgente, non sem- bra aver oscurato la tradizionale disciplina contenuta ne- gli artt. 1341 e 1342 Codice civile. Queste norme tutto- ra sono spesso invocate davanti alle corti italiane, tanto che, in un articolo recente, teso a rinvenire quali fossero i dieci articoli del codice civile più diffusamente applica- ti in giurisprudenza, le nostre norme hanno ottenuto un ‘piazzamento’ davvero lusinghiero: terzo posto (15).
Non mancano certo, e sono in numero crescente, deci- sioni sugli articoli 1469 bis e seguenti Codice civile, (ora artt. 33 e ss., cod. consumo), che hanno recepito la di- rettiva comunitaria. Alcune di queste decisioni affronta- no segnatamente il nostro problema: il significato ed il ruolo della clausola generale di buona fede nella discipli- na, di derivazione comunitaria, sulle clausole vessatorie. La lettura di questa giurisprudenza rivela un atteggia- mento variegato, ma che, in generale, non tende certo a valorizzare il ruolo della clausola generale.
Una catalogazione delle sentenze finora pubblicate - con l’eccezione di quelle, sparute, che intendono la buona fe- de in senso soggettivo (cfr. par. 2) - fa emergere le se- guenti tendenze.
Un primo gruppo di sentenze decide sulla vessatorietà di una clausola senza nemmeno menzionare nel loro testo il principio di buona fede. Queste sentenze decidono la fattispecie controversa applicando il test del significati- vo squilibrio (16).
Un secondo gruppo di sentenze richiama inizialmente in motivazione il principio della buona fede ed il crite- rio del significativo squilibrio, ma, quando poi si passa a ragionare sulla fattispecie, l’iter logico seguito dal giudi- ce si sviluppa tutto sul criterio del significativo squili- brio e l’iniziale richiamo alla buona fede si perde per strada (17).
Infine, un terzo gruppo di sentenze fa riferimento all’e- lenco delle clausole grigie per giudicare vessatorie quelle ivi contemplate e considera (talvolta) il solo criterio del significativo squilibrio, ma non la buona fede (18).
Occorre fare un’importante precisazione sulla predetta classificazione.
Essa non riguarda le decisioni che si occupano delle azio- ni collettive promosse dalle associazioni di consumatori. Quando, infatti, una decisione giudiziale prende spunto da un’iniziativa basata su tali azioni, cui si attribuisce un ruolo general-preventivo di ‘pulizia’ del mercato dalle clausole vessatorie già prima o immediatamente dopo che siano state immesse, la giurisprudenza italiana pone in dubbio che possa invocarsi la buona fede.
La risposta negativa si fonda sul rilievo che la buona fe- de oggettiva fa riferimento ad un rapporto obbligatorio
esistente e, sul piano applicativo, consente di misurare l’osservanza della clausola generale nel singolo rapporto, in concreto. In assenza di un rapporto obbligatorio, in- vece - ciò accade quando si tratti di azione collettiva - detto principio non può trovare applicazione per man- canza dell’oggetto del giudizio (19).
I
L’impiego dell’elenco delle clausole vessatorie nella giurisprudenza
l legislatore comunitario, come è noto, ha predispo- sto un elenco di clausole vessatorie, contenuto nel- l’allegato, il cui ruolo è quello di un «elenco indicati-
vo e non esauriente», come espressamente detto nell’art.
3.3 della direttiva 93/13/CEE. Il suo valore non è quindi vincolante, nel senso che uno Stato membro ben può prevedere ulteriori fattispecie di clausole vessatorie ed attribuire alle stesse valore presuntivo assoluto (20).
Note:
(15) X. Xx Xxxx, Le top ten del titolo sui contratti in generale, in questa Ri- vista, 2004, 977.
(16) Cass. 1° giugno 2001, n. 7436, in Foro it., 2002, I, 146 (in tema di concorsi a premi); App. Roma 7 maggio 2002, cit., (nono motivo); Giu- dice di pace Parma 9 ottobre 1999, in Dir. comunitario scambi internaz., 1999, 785, nota Valcada (in tema di disdetta di un contratto di abbona- mento via internet); Trib. Treviso 14 gennaio 2002, in Giur. merito, 2002, 1194, 1195, nota X. Xxxxxxxxxx, In tema di vendita di «pacchetto turi- stico» e di danno da «vacanza rovinata».
(17) Trib. Bologna 14 giugno 2000, in Corr. giur., 2001, 527; Pret. Bolo- gna 6 agosto 1998, in Foro it., 1999, I, 384 (in tema di facoltà di recedere per un consumatore iscritto ad un corso di preparazione agli esami di geo- metra).
(18) Cfr. Trib. Foggia 2 agosto 2001, in Corr. giur., 2003, 483, con nota di
X. Xxxxx, Il potere di recesso del consumatore fra normativa comunitaria spe- ciale e disciplina codicistica (inerente ad un corso teorico-pratico di prepa- razione alle selezioni per assistenti di volo, che prevedeva, alla scadenza del diritto di recesso ex art. 4, Legge n. 50/92, l’irrevocabilità del vincolo per l’aderente e la facoltà di recesso per il solo professionista: tale clauso- la è stata giudicata vessatoria perché contraria alle previsioni dell’art. 1469 bis, terzo comma, nn. 7 e 8, Codice civile e, sempre con riferimen- to alla stessa clausola, perché determinante un significativo squilibrio ai sensi dell’art. 1469 bis, primo comma, Codice civile); Trib. Torino 27 no- vembre 2001, in Giur. merito, 2002, 649; Trib. Milano-Legnano 29 mar- zo 2002, cit.; Trib. Bologna 3 ottobre 2000, in Corr. giur., 2001, 525; Trib. Venezia-Dolo 11 luglio 2002, in Danno e resp., 2003, 886, 888, con com- mento di X. Xxxxxxxxx.
(19) Cfr. Trib. Roma 4 febbraio 2002, cit., che testualmente esclude che nell’azione a carattere general-preventivo di cui all’art. 1469 sexies Codi- ce civile (ora art. 37, Cod. consumo) - azione che «precede il concreto as- setto della regolamentazione degli interessi delle parti contraenti e si svolge con riferimento ad un modello astratto di contratto» - possa te- nersi conto «dei criteri della buona fede oggettiva (art. 1469 bis, primo comma, Codice civile) siccome connesso ad un obbligo - di corretta e dettagliata informazione della controparte sulle clausole contrattuali uni- lateralmente predisposte - il cui adempimento si avrà nella fase delle trat- tative»; Trib. Roma 5 ottobre 2000, in Giur. it., 2001, 743; Trib. Torino 22 settembre 2000, in Giur. it., 2000, 981; Trib. Torino 11 novembre 1999, in Danno e resp., 2000, 277; Trib. Torino 7 giugno 1999, in Foro it., 2000, I, 297.
(20) Roppo, La definizione …, cit., 83, il quale correttamente osserva che la direttiva, essendo basata sul principio della tutela minimale - cfr. di- ciassettesimo considerando - non impedisce agli Stati membri di intro- durre una disciplina più rigida e convertire la lista ‘grigia’ in lista ‘nera’, in tutto o in parte, per conferire una maggior tutela ai consumatori.
Nel recepire la direttiva il legislatore italiano ha adotta- to una diversa tecnica, creando due liste. La prima con- tiene le cc.dd. clausole nere, clausole di per sé vessatorie, anche se oggetto di trattativa: tale (breve) lista, già con- tenuta nell’art. 1469 quinquies Codice civile è oggi ripor- tata fedelmente nell’art. 36, secondo comma, Cod. con- sumo, che ha trasformato la sanzione di «inefficacia» in quella di «nullità di protezione».
La seconda lista è invece molto lunga e contiene ben venti enumerazioni di clausole che «si presumono ves- satorie fino a prova contraria» (art. 33, secondo comma, Cod. consumo). Si tratta di clausole sospettate di vessa- torietà, e ritenute tali in virtù di una presunzione sem- plice spesso applicata dalla giurisprudenza: spetterà quindi al predisponente, che intenda farle valere, dimo- strare in giudizio le ragioni per cui, nel rapporto concre- to, tale vessatorietà presunta non sussiste. Nel valutare tali prove contrarie, che servono a ribaltare la presun- zione di legge, la giurisprudenza applica un principio di ragionevolezza, in relazione alla natura del singolo con- tratto (21).
La presenza di una lista sì lunga e comprensiva agevola senza dubbio il compito del giudice italiano che, a fron- te di clausole incluse nella lista, si limita a verificare la corrispondenza e quindi passa direttamente alla dichia- razione di inefficacia, senza spendere parola, né sulla pre- senza di un significativo squilibrio, né, soprattutto, sulla contrarietà a buona fede, salvo che il predisponente non cerchi di ribaltare la presunzione legale (22).
Osservazioni generali sulla legislazione per clausole generali e sul ruolo
L
della giurisprudenza comunitaria
e considerazioni che precedono, nel tracciare un quadro sull’applicazione in Italia del principio di buona fede nella repressione delle clausole vessato-
rie, ci consentono anche di avanzare alcune considera-
Ècerto che una maggiore interazione a livello giurispru- denziale (delle giurisprudenze nazionali, tra loro; e di queste con la giurisprudenza comunitaria) e dottrinale possa rappresentare un formidabile volano verso un’ef- fettiva integrazione. E, tuttavia, allo stato attuale, l’as- senza di una Corte Suprema comunitaria, come giudice di ultima istanza delle controversie relative al diritto co- munitario, fa sì che lo sviluppo di una clausola generale, come la buona fede, resti prevalentemente affidato alle giurisprudenze nazionali senza un significativo coordina- mento foriero di diritto armonizzato.
L’esperienza della direttiva 93/13/CEE sulle clausole ves- satorie ci rivela altri aspetti interessanti. Le considerazio- ni svolte a margine della clausola generale della buona fede non possono ripetersi per i criteri del significativo squilibrio e della trasparenza. A prescindere dalla dispu- ta - non solo italiana - se si tratti di requisiti distinti, o no, rispetto alla buona fede, deve rimarcarsi come il criterio del significativo squilibrio, recepito da tutti gli Stati membri, sembra più idoneo a produrre applicazioni che maggiormente favoriscono una disciplina a livello co- munitario. Xxxx, gli scarsi riferimenti alla buona fede nell’esperienza giurisprudenziale italiana sono, per così dire, agevolati dalla esplicita, e neppure casuale, previ- sione - già al livello comunitario - di aspetti normativi che in altre esperienze sono germinati dalla nostra clau- sola generale.
Credo quindi che questa esperienza - ma il discorso po- trebbe ripetersi per molte direttive, da quella sulla re- sponsabilità del produttore a quella sulle garanzie nelle vendite di beni di consumo - fornisca utili indicazioni anche a proposito della progettualità futura, che si pro- pone, tra l’altro, di elaborare un quadro comune di riferi- mento nel diritto contrattuale europeo, mirando a forni- re più dettagliate definizioni dei «termini giuridici astrat- ti», rispetto a quanto finora contenuto nelle direttive di
zione di ordine più generale sul quadro complessivo in cui
detta esperienza si iscrive, l’ordinamento comunitario. Si ha la conferma delle difficoltà che si frappongono al- l’opera di armonizzazione giuridica, effettuata per via le- gislativa, quando l’intervento comunitario cade in ambi- ti già regolamentati a livello nazionale. L’esito di tale in- tervento si risolve molto spesso in una complicazione giuridica perché, lungi dallo scalzare la legislazione na- zionale preesistente, si affianca ad essa venendo a creare una sovrapposizione di livelli normativi, che non giova all’obbiettivo che si vuole raggiungere.
Inoltre, l’analisi condotta sulla buona fede rivela che il ricorso ad un intervento legislativo basato su clausole ge- nerali, se, da un lato, ha il vantaggio di regolamentare con sufficiente duttilità, dall’altro, anche per marcati fe- nomeni di path dependence, rischia di non incidere sulle realtà che si vorrebbero armonizzare per la dimostrata capacità delle esperienze nazionali di far rivivere il loro diritto attraverso le categorie generali utilizzate dal dirit- to comunitario.
Note:
(21) Trib. Bari 25 marzo 2002, cit., 2827 (a proposito della clausola pre- sente nei contratti di trasporto aereo, che impone al passeggero che abbia prenotato un volo andata/ritorno senza usufruire di quello di andata, di informare il vettore sulla propria intenzione di confermare la prenotazio- ne per il ritorno).
(22) Cfr. Xxxx. (ord.) 20 agosto 2004, n. 16336, in Rep. Foro it., 2004, voce Competenza civile, n. 106 (l’art. 0000 xxx, xxxxx comma, n. 19, nel presumere la vessatorietà della clausola che stabilisce come foro compe- tente una località diversa da quella di residenza o domicilio del consu- matore, si riferisce anche alle clausole che stabiliscono come foro com- petente un foro legale ex art. 18 e 20 Codice di procedura civile, perché l’art. 1469 ter, terzo comma, Codice civile, secondo cui non sono vessa- torie clausole che riproducono disposizioni di legge non impedisce la non applicabilità degli artt. 18 e 20 Codice di procedura civile per il principio della successione delle leggi nel tempo). Questa decisione ri- badisce un orientamento fatto proprio da Xxxx. (ord.) sez. un. 1° ottobre 2003, in Foro it., 2003, I, 3289, con nota Xxxxxxxx, che ha composto un precedente contrasto giurisprudenziale tra le diverse sezioni della S.C. V. pure Trib. Firenze 19 febbraio 2003, cit. (vessatorietà di una clausola in tema di multiproprietà); App. Roma 7 maggio 2002, in Foro it., 2002, I, 2823; Trib. Foggia 18 ottobre 2001, ivi, 2002, I, 614 (decadenza sancita a carico del consumatore).
tutela dei consumatori, fondate sull’obbiettivo dell’ar- monizzazione minima (23).
Resta da considerare un ulteriore aspetto, che spesso si è rivelato decisivo per la crescita del diritto comunitario: il versante giurisprudenziale.
Ècerto che il giudizio concreto sulla vessatorietà di una clausola non possa che esser rimesso al giudice naziona- le; ma è pur vero - come la stessa Corte di Giustizia ha re- centemente precisato - che il giudice comunitario - con i segnalati limiti operativi - in sede di rinvio pregiudizia- le, ben potrebbe risolvere alcune questioni importanti, quali il significato dei criteri generali in base ai quali va condotto il giudizio di vessatorietà di una clausola, ed il rapporto tra buona fede e criterio del significativo squili- brio (24). Anche se i tempi della giurisprudenza sono più lenti, esistono segnali espliciti della volontà della Corte di Lussemburgo di apportare il suo contributo alla co- struzione di questo ’pezzo’del diritto contrattuale euro- peo (25).
Le proposte alternative: sottrarre ai giudici
U
il ruolo di controllo e repressione delle clausole vessatorie. Osservazioni conclusive
n recente studio dottrinale esprime insoddisfa- zione verso la politica comunitaria di repressio- ne delle clausole vessatorie, rilevando che, a
dieci anni dall’approvazione della direttiva, non si ri- scontrano significative riduzioni del tasso di clausole vessatorie presenti sul mercato (26). Considerazione in- negabile, tanto che la stessa Commissione ha espresso un giudizio negativo sugli effetti della direttiva 93/13/CEE ed invitato a promuovere forme di controllo anche non giudiziale, a fronte di una prassi, che sembra preferire comunque il ricorso a clausole vessatorie ed il connesso rischio di controversie giudiziali all’alternativa di una self regulation conforme alla legge (27).
Xxxxxxx esprime insoddisfazione verso il controllo giudi- ziale, che ha tratto spunto dal modello tedesco del rich- terliche Kontrol. Tale modello - pur con il riconosciuto vantaggio della «potenziale precisione, con cui è in gra- do di regolare casi concreti di ingiustizia contrattuale»
(28) - è ritenuto non adeguato perché genera incertezza presso le imprese che utilizzano contratti standard (solo al termine di una decisione giurisprudenziale si potrà sa- pere se una particolare clausola può utilizzarsi, o no), con ripercussioni nella valutazione costi/benefici. Inoltre, si evidenzia come il giudizio di vessatorietà possa dar adito ad applicazioni diverse su scala nazionale (29). E si ritie- ne che tale esito non sia scongiurato dall’intervento del- la Corte di Giustizia perché le corti nazionali potrebbero non essere inclini ad optare per il rinvio pregiudiziale. Questa bocciatura del controllo giudiziale non porta però ad una proposta simile al sistema inglese di control- lo pubblico (esercitato dal Fair Trading) e che, a parere di alcuni, potrebbe rappresentare una soluzione ulteriore - probabilmente complementare - rispetto al controllo giudiziale (30).
La proposta è invece nel senso di affidare il compito di depurare il mercato dalle clausole vessatorie agli stessi protagonisti principali: imprenditori e consumatori, rap- presentati da rispettivi enti esponenziali. E tanto nella convinzione che sia bene affidare «la responsabilità di scegliere gli standard con conseguenze distributive ad un organismo pubblico dotato di legittimazione democrati- ca» (31). Si tratterebbe quindi di rendere legislativa- mente inderogabile il testo concordato tra i due enti esponenziali sottraendolo - questo è un punto qualifi- cante - al sindacato giudiziale (controllo del contenuto del contratto). A favore di tale tesi si evidenzia come le parti (esponenziali dei) contraenti siano le più indicate a comporre interessi contrastanti, e come la perdita di li- bertà contrattuale del singolo sia più apparente che rea- le quando si tratta di contratti cc.dd. «prendere o lascia- re». Si assicurerebbe così quella certezza ex ante a van- taggio degli operatori, che difetta nel caso di controllo giudiziale. La sottrazione al sindacato dei giudici evite- rebbe interpretazioni contrastanti di un regime sostan- zialmente rigido che «avrebbe vigore in tutta Europa».
Note:
(23) Cfr. Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio - Maggiore coerenza nel diritto contrattuale europeo - Un pia- no d’azione (2003/C63/01) in GUCE 15 marzo 2003, C 63/1 e, da ulti- ma, la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio - Diritto contrattuale europeo e revisione dell’acquis; prospetti- ve per il futuro, COM (2004) 651 def. dell’11 ottobre 2004.
(24) Corte di Giustizia, sentenza 1° aprile 2004, causa C-237/02, in Rac- colta, 2004, I, 3403.
(25) Corte di Giustizia, sentenza 21 novembre 2002, causa C-473/00, in Raccolta, 2002, I, 10875 (la rilevabilità d’ufficio del carattere vessatorio di una clausola non può essere assoggettata ad un termine di prescrizione in- feriore a quello che consente al professionista di invocare a suo favore la clausola in oggetto); 24 gennaio 2002, causa C-372/99, in Raccolta, 2002, I, 819 (l’azione inibitoria collettiva ex art. 7 della direttiva ha carattere preventivo e dissuasivo e non presuppone l’utilizzazione effettiva di clau- sole vessatorie); 27 giugno 2000, cause riunite C-240/98 - C 244/98, in Raccolta, 2000, 4941, che ha sancito la rilevabilità d’ufficio del carattere vessatorio di una clausola inserita in contratti standard.
(26) X. Xxxxxxx, La giustizia contrattuale in Europa, in Riv. critica dir. priv., 2003, 659.
(27) V. la Relazione della Commissione del 27 aprile 2000 in merito al- l’applicazione della direttiva 93/13/CEE del Consiglio del 5 aprile 1993 concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori (COM/2000/0248/def.), nonché il parere, ugualmente critico, del Comi- tato economico e sociale in merito alla «relazione della Commissione sull’applicazione della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consu- matori» del 20 aprile 2001, in GUCE C 116/125. In tema v. pure X. Xxxxx, L’attuazione in Germania della direttiva sulle clausole abusive, relazio- ne tenuta al Convegno di Dresda (ottobre 2004) dell’Associazione per gli scanbi culturali tra giuristi italiani e tedeschi.
(28) Xxxxxxx, cit., 679.
(29) Xxxxxxx, cit., 679: «sembra sussistere il serio pericolo che le giurisdi- zioni nazionali sviluppino differenti concezioni della buona fede e dell’e- quilibrio contrattuale».
(30) Su cui v. Xxxx, Uno sguardo …, cit, 14, che guarda con interesse al- l’esperienza inglese del controllo attuato dall’Office of Fair Trading.
(31) Xxxxxxx, cit., 680.
Si tratta di una proposta ben diversa da quella suggerita nel Piano di azione 2003 sul diritto contrattuale euro- peo. In tale piano, tra le varie opzioni, vi è anche quella dell’adozione, da parte delle imprese di modelli contrat- tuali validi su tutto il territorio comunitario, ma tale adozione è asseritamente volontaria (vincola solo chi vi aderisce e non si sottrae al sindacato giudiziale) e, di più, una simile strategia è limitata ai rapporti tra professioni- sti e non riguarda il mercato di consumo.
Un altro aspetto che ci preme rimarcare è che la propo- sta avanzata confida troppo sulla capacità delle associa- zioni dei consumatori di prevedere i possibili problemi, che spesso vengono al pettine solo ex post e fanno sorge- re istanze di giustizia che, nel modello suggerito, non do- vrebbero trovare ascolto (32). Sullo sfondo c’è forse il mito del contratto completo. Senza tacere che il fluire sul mercato di modelli contrattuali standard innovativi potrebbe trovare un freno se si interpone un precedente filtro attraverso forme di contrattazione ‘collettiva’. Il prezzo dell’omogeneità e della certezza si rivela decisa- mente alto. Forme giudiziali di controllo ex post, con tut-
te le difficoltà che comportano, sono difficilmente eludi- bili, se si vuole evitare il rischio di negare la giustizia nel caso concreto. Permane, certo, il rischio di interpretazio- ni contrastanti, per lo più legato all’assenza di un comu- ne sentire tra giurisdizioni nazionali. A parte l’importan- te strumento del rinvio pregiudiziale, non esistono forme istituzionali che garantiscano il dialogo costante tra le giurisprudenze (nazionali), salvo forme di sensibilità per- sonali che vanno accresciute e generalizzate attraverso una opportuna formazione del giudice (e, in generale, dell’operatore giuridico), ma che comunque non esauri- scono l’ambito del necessario.
Nota:
(32) V. pure X. Xxxxx, Autorità indipendenti, contrattazione collettiva, singoli contratti, in Jus, 2003, 19, 32, a cui parere le prassi di negoziazione tra im- prenditori ed associazioni maggiormente rappresentative dei consumato- ri, invalse nell’ambito dei servizi di pubblica utilità «non valgono ad escludere la tutela riconosciuta dal codice civile al singolo consumatore ex artt. 1469 ter e 1469 quinquies, producono però in capo alle associazio- ni rappresentative dei consumatori l’elisione di ogni interesse a far valere l’azione inibitoria ex art. 1469 sexies dall’uso del modello concordato».
Osservatorio comunitario
a cura di XXXXX XXXX Studio Legale De Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx Forlani - Bruxelles
Tutela dei consumatori
La Commissione europea rielabora la proposta di direttiva sul credito al consumo, volta a garantire un elevato livello di tutela per i consumatori attraverso l’armonizzazione degli elementi fondamentali della disciplina comunitaria in materia
Proposta modificata di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai contratti di credito ai consuma- tori (1), che modifica la direttiva 93/13/CE del Consiglio (2)
In data 7 ottobre 2005 la Commissione europea ha presentato una seconda proposta modificata di direttiva sui contratti di credito ai consumatori, conformemente all’art. 250, par. 0, Xx. XX (3). Il testo presentato dal- l’esecutivo comunitario costituisce una versione consolidata della prima proposta modificata (4) risalente al- l’ottobre 2004, già rettificata a seguito del voto espresso dal Parlamento europeo sull’originario draft elabora- to dalla Commissione nel settembre 2002. Nel testo dell’ottobre 2004, la Commissione aveva già fatto pro- pri più di cento degli oltre 150 emendamenti adottati dal Parlamento; nel novembre 2004, il nuovo com- missario Xxxxxx Xxxxxxxxx, responsabile della salute e della protezione dei consumatori, annunciava di voler procedere ad ulteriori consultazioni con gli Stati membri ed i soggetti interessati sul progetto di direttiva e presentare una proposta consolidata per favorire un accordo tra il Parlamento ed il Consiglio. All’esito di ta- li consultazioni, è emersa la necessità di apportare alcune modifiche sostanziali al testo della direttiva, per al- leggerire gli oneri connessi all’attività del credito al consumo, senza tuttavia perdere di vista l’esigenza di un elevato livello di tutela degli interessi dei consumatori. Il fine ultimo cui mira la proposta è, in conformità al- la strategia di Lisbona (5), quello di creare un vero mercato interno del credito ai consumatori, rendendo più chiara la normativa comunitaria in materia attraverso la rifusione delle tre direttive ad oggi in vigore (6). Va precisato, infatti, come peraltro già emerso in sede di elaborazione iniziale della proposta, che la direttiva 87/102/CEE e le successive modifiche non rispecchiano più la situazione attuale del mercato del credito al consumo, che ha subito un’evoluzione senza precedenti negli ultimi due decenni. Le disposizioni della diret- tiva del 1987 si basano, in effetti, sulla c.d. «cash society» degli anni settanta, società in cui il credito giocava un ruolo limitato ed essenzialmente circoscritto ai prodotti delle «vendite a rate» e del «noleggio-vendita», mentre oggi il credito viene offerto ai consumatori attraverso molteplici strumenti finanziari e, pur rappre- sentando un volano per la crescita economica ed il benessere dei consumatori, presenta in contropartita un rischio per i finanziatori ed un pericolo di insolvenza e di costi aggiuntivi per un numero sempre crescente di utenti. Tale disciplina, che si basa su un’armonizzazione minima, ha indotto gli Stati membri ad adottare di- sposizioni che, in misura diversa, vanno al di là di quelle della direttiva. Le differenti legislazioni nazionali, in- troducendo disposizioni cogenti non armonizzate, hanno dunque creato ostacoli al funzionamento del mer- cato interno e dissuaso le imprese dall’offrire prodotti in grado di circolare in tutto il territorio europeo. Tale evoluzione ha portato ad una segmentazione del mercato interno in mercati nazionali separati, con conse- guenti distorsioni di concorrenza tra i finanziatori; inoltre, le divergenze tra legislazioni e pratiche bancarie e
Note:
(1) COM(2005) 483 def., del 7 ottobre 2005.
(2)Direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, in GUCE L 95 del 21 aprile 1993, 29.
(3) Tale articolo autorizza la Commissione a modificare ogni sua proposta nel corso delle procedure che portano all’adozione di un atto comunitario fin- tantoché il Consiglio non ha deliberato sul punto.
(4) Sulla quale si veda Osservatorio comunitario in questa Rivista, 2005, 1,93.
(5) Elaborata durante il Consiglio Europeo di Lisbona nel marzo 2000.
(6) Direttiva 87/102/CEE del Consiglio, del 22 dicembre 1986, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrati- ve degli Stati Membri in materia di credito al consumo, in GUCE L 42 del 12 febbraio 1987, 48, modificata dalla Direttiva 90/88/CEE del Consiglio, del 22 febbraio 1990, in GUCE L 61 del 10 marzo 1990, 14-18, modificata a sua volta dalla direttiva 98/7/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 1998, GUCE L 101 del 1° aprile 1998, 17-23.
finanziarie in materia di credito al consumo hanno dato origine a diversi livelli di tutela dei consumatori a se- conda dei vari Stati membri (7), rendendo particolarmente difficile la conclusione di contratti transfronta- lieri. Di conseguenza, l’armonizzazione delle disposizioni relative alla tutela dei consumatori nel settore dei servizi finanziari al dettaglio, combinata con un’applicazione appropriata del principio del riconoscimento re- ciproco, rappresenta il cardine della nuova strategia della Commissione volta a promuovere il mercato di ta- li servizi.
Venendo all’esame delle principali novità introdotte nel nuovo testo va in primis sottolineato come l’og- getto dell’adottanda direttiva, in linea con le preoccupazioni espresse dagli interessati nelle varie consulta- zioni organizzate, sia stato circoscritto ad alcuni aspetti soltanto delle disposizioni in materia di contratti di credito ai consumatori (8). All’uopo, laddove nella prima proposta modificata venivano inclusi nel campo d’applicazione anche i c.d. «equity release» (contratti di credito al consumo garantiti mediante un’ipoteca o uno strumento analogo), escludendo soltanto i mutui per le case di abitazione, nel nuovo testo sono ora espressamente esclusi i contratti di credito ipotecario (9). Analogamente, data la loro stretta connessione con i contratti di credito ipotecario, sono stati espunti dal campo di applicazione della direttiva i contratti di fideiussione, così come i contratti in relazione ai quali viene costituita una garanzia reale (10). La nuo- va disciplina non si applicherà inoltre ai contratti per un valore superiore a 50.000 euro: essi non riguarda- no di regola i crediti al consumo, bensì crediti immobiliari per i quali è necessaria una diversa regolamen- tazione (11).
Per quanto concerne le definizioni contenute nella direttiva, è stata chiarita la nozione di «scoperto», in conformità alla pratica comune negli Stati membri: la «concessione di scoperto» viene ora definita come quel «contratto di credito in forza del quale il creditore autorizza il consumatore a prelevare dal suo conto cor- rente fondi che eccedono il saldo di tale conto e che dovranno essere rimborsati entro tre mesi o a richiesta» (12). In base alla nuova proposta, gli scoperti sono assoggettati soltanto a prescrizioni minime. Tuttavia, es- sendo necessario garantire un livello sufficiente di informazione, anche per gli scoperti è stato previsto un nu- mero limitato di prescrizioni in materia di informazione contrattuale. Disposizioni analoghe sono introdotte per i contratti di credito per un importo totale inferiore a 300 euro e per i contratti conclusi da associazioni di consumatori senza scopo di lucro che, gestendo i risparmi dei propri membri, forniscono loro fonti di cre- dito (13). Viene poi modificata la definizione del «costo totale del credito», che funge da base per il calcolo del tasso annuale effettivo globale (TAEG), che comprende ora soltanto i costi relativi ai servizi conclusi con o mediante il creditore (14). Il «tasso creditore nominale» (TCN) è stato invece eliminato dall’ambito del- le definizioni previste dalla proposta, in quanto esso avrebbe potuto essere fonte di confusione per i consu- matori. Alcune novità si rivengono inoltre sia per quanto concerne gli obblighi informativi nella fase pre- contrattuale (15), sia per quanto riguarda i contenuti informativi dei contratti di credito ai consumatori (16). In particolare, relativamente alla fase precontrattuale, la Commissione ha ritenuto di dover limitare gli ob- blighi informativi ai soli annunci pubblicitari contenenti dati finanziari in materia di credito, per evitare di sottoporre le imprese ad oneri eccessivi e non creare sovrapposizioni con quanto già previsto in tema di pub-
Note:
(7) Le legislazioni nazionali prevedono infatti diverse procedure e termini di «ripensamento», «annullamento» o di «riflessione» del contratto di cre- dito, che rappresentano altrettanti ostacoli per il finanziatore che intenda presentare offerte di credito transfrontaliere. Taluni Stati prevedono, ad esem- pio, un divieto assoluto di effettuare contratti di credito presso l’abitazione del consumatore: ciò che è perfettamente legale in un paese, può pertanto essere soggetto a condanna penale in un altro.
(8) Art. 1, ove si legge come «La presente direttiva ha per obiettivo l’armonizzazione di certi aspetti delle disposizioni legislative, regolamentari e am- ministrative degli Stati membri in materia di contratti di credito accordati ai consumatori».
(9) Art. 2, par. 2, lett. a). La Commissione ha stabilito inoltre come il credito ipotecario verrà analizzato distintamente, all’esito di una consultazione pubblica avviata mediante il Libro verde sul credito ipotecario, pubblicato il 19 luglio di quest’anno dal commissario al mercato interno XxXxxxxx, COM(2005)327 def.
(10) Cfr. considerando 13 e art. 2, par. 2, lett. a).
(11) L’art. 24, par. 3, contiene tuttavia una clausola di revisione, in modo che le soglie stabilite dalla direttiva possano essere adeguate per tenere conto delle tendenze economiche nella Comunità e della situazione nel mercato interessato.
(12) Art. 3, lett. d).
(13) Art. 2, par. 4.
(14) Art. 3, lett. f). Visto che l’obiettivo globale perseguito dalla Commissione è migliorare la normativa e al fine di non sovraccaricare la procedura le- gislativa, gli esempi illustrativi di calcolo del TAEG contenuti nell’allegato II della precedente proposta sono stati soppressi. Se si dovesse ritenere che questi esempi siano utili per calcolare il TAEG, essi potranno essere pubblicati separatamente dopo l’adozione della direttiva.
(15) Artt. 4-7.
(16) Artt. 10 e 11.
blicità generica dalla direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali (17). Tra le informazioni di base da fornire necessariamente figurano quelle relative all’importo totale del credito, al TAEG, alla durata del contratto di credito, all’importo, al numero e alla periodicità dei pagamenti da effettuare ed alle spese di ogni genere connesse al contratto di credito conformemente alle sue condizioni e note al creditore (18). Tali infor- mazioni vanno fornite anche quando un intermediario del credito partecipi alla commercializzazione dello stesso, salvo che si tratti di fornitori di merci e servizi che svolgono accessoriamente un’attività di interme- diazione creditizia (19). Il creditore ed eventualmente l’intermediario sono comunque tenuti a rispettare il
«principio del credito responsabile»: essi devono verificare la solvibilità del consumatore in base alle infor- mazioni fornite da quest’ultimo e, se del caso, mediante la consultazione di banche dati (20). Nonostante il creditore sia tenuto a fornire ampie informazioni che consentano al consumatore di assumere ragionevol- mente il proprio impegno, nella nuova proposta viene precisato come la responsabilità finale della scelta di concludere il contratto di credito ricada sul consumatore, che deve agire con prudenza e rispettare le obbli- gazioni contrattuali (21). Gli obblighi di informazione ed eventuale assistenza in capo al creditore/interme- diario si limitano quindi al dovere di fornire al consumatore tutti gli elementi necessari per valutare i vantaggi e gli svantaggi del prestito (22).
Per quanto riguarda l’informazione contrattuale, la proposta delinea in maniera specifica gli elementi che il creditore deve portare a conoscenza del consumatore nel contratto di credito, elementi già previsti dalla pri- ma proposta modificata ed in larga parte equivalenti a quelli comunicati in fase precontrattuale. Il contratto deve quindi contenere tutte le informazioni necessarie per una scelta oculata da parte del consumatore, enun- ciate in modo chiaro e conciso, tra cui si aggiungono, rispetto alla fase precontrattuale, le dovute spiegazioni su come esercitare i diritti di recesso e di rimborso anticipato. In caso di credito a tasso variabile, poiché sa- rebbe impossibile tenere aggiornato il consumatore su ogni cambiamento del tasso (che spesso varia di poco ogni giorno), la proposta prevede che i consumatori siano informati periodicamente sull’ammontare del tas- so, mentre l’informativa immediata è prevista solo in caso di cambiamenti significativi (23). Quanto al do- vere del creditore di valutare la solvibilità del consumatore in base alle informazioni fornite da quest’ultimo e, se del caso, consultando banche dati, va precisato che, mentre il testo originario della proposta introduce- va l’obbligo di creare nuove banche dati centralizzate a livello nazionale (24), la proposta modificata soppri- me tale obbligo in quanto ritenuto eccessivo rispetto agli scopi della direttiva. La Commissione propone in- vece di garantire l’accesso reciproco e a condizioni non discriminatorie alle banche dati pubbliche e private esistenti (25), disposizione che dovrebbe contribuire a ridurre gli ostacoli che limitano l’offerta di credito transfrontaliero ai consumatori.
È stato inoltre confermato il termine di 14 giorni per recedere dal contratto di credito (26), al fine di con- sentire ai consumatori di continuare liberamente, seppur per un periodo limitato, a cercare offerte migliori ri- spetto a quella sottoscritta ed eventualmente ritirare il proprio consenso senza alcuna penalità, incoraggian- do così lo sviluppo della concorrenza nel settore del credito al consumo. La nuova proposta riconosce l’esi- stenza di una relazione d’interdipendenza, in caso di contratti collegati, tra l’acquisto di merci o servizi ed il contratto di credito concluso a tal fine. Pertanto essa prevede possibilità per il consumatore, che ha il diritto di recedere da un contratto d’acquisto, di recedere dal contratto di credito collegato, per evitare l’adempi- mento di un contratto di credito quando privo di oggetto (27). Parimenti confermata è la possibilità per il
Note:
(17) Direttiva 2005/29/CE del parlamento europeo e del consiglio dell’11 maggio 2005 relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consuma- tori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio («direttiva sulle pratiche commerciali sleali»), in GUCE L 149, dell’11 giugno 2005, 22.
(18) Art. 4.
(19) Cfr. Considerando 18.
(20) Art. 5.
(21) Cfr. Considerando 19.
(22) Cfr. Considerando 17.
(23) Art. 10.
(24) Art. 8 della proposta iniziale.
(25) Art. 8 della nuova proposta.
(26) Art. 13.
(27) Art. 14.
consumatore di rimborsare anticipatamente il credito (28): in tal caso continua ad essere previsto il diritto del creditore ad esigere un indennizzo equo ed obiettivo, al fine di compensare le sue perdite.
Va rilevato infine come la nuova proposta, pur introducendo norme comuni riguardo certi aspetti del credi- to al consumo al fine di garantire un livello elevato ed equivalente di tutela degli interessi dei consumatori nell’Unione, lasci al contempo agli Stati membri un certo margine di manovra. La Commissione precisa in- fatti che soltanto gli argomenti cui è fatto esplicito riferimento nel testo sono integralmente armonizzati, mentre le questioni quali, inter alia, la responsabilità solidale del venditore, del fornitore di servizi o del credi- tore o la sussistenza o meno dell’obbligo di informare il consumatore in caso di cessione del credito, possono essere disciplinate diversamente dalle normative nazionali (29). Per una serie di materie esplicitamente elen- cate (30) (tra le quali il rimborso anticipato ed il superamento dell’importo totale del credito) viene inoltre richiamato il principio del riconoscimento reciproco, al fine di salvaguardare il funzionamento del mercato interno: in base a tale principio il creditore attivo in uno Stato membro diverso da quello in cui è stabilito de- ve rispettare soltanto le prescrizioni del suo Stato membro d’origine (o le prescrizioni equivalenti) e non an- che quelle dello Stato membro ospitante (31). Nei casi in cui si applica, il principio del riconoscimento reci- proco richiede che la normativa dello Stato membro nel quale il consumatore ha la residenza abituale sia «ac- cantonata» qualora la sua applicazione nel caso di specie ostacoli la libera circolazione dei servizi (32).
La nuova proposta di direttiva, che rientra nella politica della Commissione elaborata nell’ambito della Stra- tegia in materia di consumatori per gli anni 2002-2006 (33), una volta adottata, dovrebbe migliorare, attra- verso l’armonizzazione di alcuni elementi fondamentali del contratto di credito ai consumatori, la fiducia di questi ultimi, incoraggiandoli a contrarre prestiti in un altro Stato membro dell’Unione. Tale cambiamento renderà possibile la libera circolazione delle offerte di credito nelle migliori condizioni sia per gli operatori del- l’offerta sia per i soggetti che rappresentano la domanda, aumentando la concorrenza e tenendo al contempo conto delle situazioni particolari esistenti nei singoli Stati membri. Infine, la normativa proposta, ed in par- ticolare le disposizioni in essa contenute circa le misure per la prevenzione dell’eccessivo indebitamento, nonché le norme in materia di consultazione delle banche dati, miglioreranno la qualità del prestito, dimi- nuendo il rischio che i consumatori siano vittime di impegni squilibrati ai quali non sono più in grado di fa- re fronte, con conseguente emarginazione economica per i consumatori stessi e costosi interventi sociali per gli Stati membri. Questi ultimi dovranno peraltro predisporre sanzioni adeguate in caso di violazione delle di- sposizioni dell’adottanda direttiva, ed assicurarne comunque una corretta applicazione. La proposta consoli- data di direttiva passa ora al vaglio del Consiglio dei ministri per l’approvazione, secondo quanto stabilito dal- la procedura di codecisione di cui all’art. 000 Xx. XX; l’adozione di una posizione comune da parte del Consi- glio è attesa nel corso del 2006.
Note:
(28) Art. 15.
(29) Cfr. Considerando 9 e 27. (30) Artt. 5, 13, 14, 15, 17, 19 e 20.
(31) Art. 21, par. 2.
(32) Considerando 10 e 11. In certi casi nei quali si applica il principio del riconoscimento reciproco, la proposta prevede un periodo transitorio. Un tale periodo dovrebbe consentire agli Stati membri di acquisire una sufficiente esperienza su come funziona la normativa di attuazione e dovrebbe an- che permettere agli operatori economici di adattarsi al nuovo quadro giuridico risultante dall’applicazione della nuova disciplina prima che si applichi il riconoscimento reciproco.
(33) Cfr. la Comunicazione in materia di strategia per i consumatori, COM(2002)208 def., del 7 maggio 2002, in GUCE C 137 dell’8 giugno 2002, 2.
Ricorso ad arbitrato
in assenza di clausola arbitrale
di XXXXXX X. XXXXXXX
L’Autore analizza i profili di ammissibilità del ricorso ad arbitrato nell’ipotesi di assenza di «convenzione arbitrale» con particolare riguardo al settore degli investimenti internazionali.
I
l primo principio sottolineato dall’intera letteratura e manualistica in materia di diritto dell’arbitrato è che non può esservi arbitrato senza compromesso o clau- sola compromissoria (1). In questo senso, l’arbitrato al- tro non è che una ’creatura’contrattuale, cioè esso non esiste se le parti, preventivamente in sede di conclusione di un contratto (clausola compromissoria) ovvero a con- troversia già sorta (compromesso), non hanno dato il
proprio consenso a ricorrervi (2).
Dall’assenza di clausola compromissoria o di compromes- so dovrebbe dunque derivare, a rigore, la preclusione del- l’accesso all’arbitrato. In quest’ambito, possono immagi- narsi due situazioni. In un primo scenario, le parti, al mo- mento della conclusione del contratto, non hanno voluto o potuto inserirvi un’apposita clausola arbitrale. Oppure, in una seconda situazione e sempre che non esista alcuna clausola compromissoria, al sorgere della controversia una delle parti potrebbe non aver alcuna intenzione di con- cludere un compromesso e, dunque, potrebbe impedire il ricorso all’arbitrato da parte dell’altra. In entrambi i casi, le parti dovranno accontentarsi a che la controversia sia ri- solta dall’autorità giudiziaria. Insomma, viene meno l’ef- fetto negativo della clausola arbitrale e del compromesso (3), per cui resta sempre aperta, per la parte che ne ha più interesse, la possibilità di adire l’autorità giudiziaria.
Perlomeno, questo è quanto accade nell’ordinamento in- terno. La stessa situazione si prospettava, almeno fino a qualche tempo fa, nel campo del commercio internazio- nale. In tale settore, l’effetto negativo della «convenzione arbitrale» - termine che riassume i due concetti di clauso- la compromissoria e compromesso (4) - assume un parti- colare rilievo in quanto consente da un lato di evitare che la controversia sia risolta dai giudici di uno Stato non par- ticolarmente gradito alle parti, ovvero, dall’altro, di elude- re «incertezze e complicazioni derivanti dall’esistenza di una pluralità di sistemi giurisdizionali degli Stati» (5) . Anche nel commercio internazionale, vale pertanto la re- gola generale per cui non può ricorrersi ad arbitrato se non è intervenuta una convenzione arbitrale in tal senso.
Vi è tuttavia un ambito nel quale la suddetta regola sof- fre di una vistosa eccezione. Si tratta del settore degli in- vestimenti internazionali, in particolare dei contratti tra uno Stato e gli investitori cittadini di - o società aventi sede in - un altro Stato. Al riguardo, il principale stru-
mento internazionale è rappresentato dalla Convenzio- ne di Washington del 18 marzo 1965, che prevede un ef- ficace sistema istituzionale di risoluzione delle contro- versie (l’ICSID), sottoponendone l’operatività al con- senso delle parti in causa (art. 25) (6) . Per quanto con- cerne le controversie per le quali le parti non hanno pre- visto alcuna convenzione arbitrale, secondo l’idea origi-
Note:
(1) Così, a mero titolo di esempio, Frignani, L’arbitrato commerciale inter- nazionale, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, di- retto da Xxxxxxx, XXXIII, Padova, 2004, 49, che parla del compromesso e della clausola compromissoria come «presupposto indefettibile per l’ar- bitrato». V. pure Mortari, Arbitrato, in Enc. dir., II, Milano, 1958, 893 e 898; La China, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, Milano, 2004, 3, il qua- le ben evidenzia che «non si può avviare un arbitrato, e men che meno es- servi coinvolti, se prima non si è manifestato da ambedue le parti l’esplicito consenso a seguire tale xxx x xxxxxxxxxx xxxxx xxxxxxxxxxx» (xxxxx agg.).
(2) Sul punto, vedi cenni in Xxxxx-Xxxxx, Alternative Dispute Resolution, St. Xxxx (Minn. ), 1992, 143; Xxxxxxxxxx, L’arbitrato commerciale interna- zionale, Milano, 2000, 91; David, L’arbitrage dans le commerce international, Xxxxx, 0000, 86; Pommier, Principe d’autonomie et loi du contrat en droit in- ternational privé conventionnel, Xxxxx, 0000. Sulla giurisprudenza statuni- tense secondo la quale «arbitration is a creature of contract» v. Corte Su- prema del Connecticut, 2 gennaio 0000, Xxxx xx Xxxxxxxxx x. Xxxxxxxxx Police Union, 176 Conn. 401 (Conn. 1979); 31 maggio 1994, White v. Kampner, 229 Conn. 465 (Conn. 1979); Corte Suprema dell’Illinois, 18 giugno 1998, Board of Managers of the Courtyards at the Woodlands Condo- minium Association v. IKO Chicago, Inc. et al., 183 Ill. 2d 66. Abbondan- te è anche la giurisprudenza che definisce l’arbitrato «a matter of con- tract»: Xxxx Xxxxx & Sons, Inc. x. Xxxxxxxxxx, President of District 65, Retail, Wholesale and Department Store Union, 84 S. Ct. 909; I Xxxxxx Metal Di- vision of Copper Range Co. v. Lectromelt Fornace Division McGraw Edison Co., 471 F.2d 556 (3d Cir. 1972); v. anche i casi citati da X. Xxxxx, On Commercial Arbitration, St. Xxxx (Minn. ), 2003, I, 1.
(3) V. per tutti Frignani, L’arbitrato, cit., 84.
(4) Il termine è utilizzato dall’art. II della Convenzione di New York del 10 giugno 1958 sul riconoscimento e l’esecuzione dei lodi arbitrali.
(5) Luzzatto, Arbitrato commerciale internazionale, in Dig. disc. priv., Tori- no, 1987, 192, 193.
(6) Infatti la Convenzione di Washington richiede, all’art. 25, per la sot- toposizione delle relative controversie alla giurisdizione dell’ICSID, il consenso che «le parti abbiano consentito per iscritto di sottoporre al[l’IC- SID]» e che, di conseguenza, «[q]uando le parti hanno dato il loro con- senso, nessuna di esse può ritirarlo unilateralmente». Cfr. Xxxxx, Le con- sentement à l’arbitrage CIRDI en matière d’investissement international: que di- sent les travaux preparatoires?, in A.A.V.V., Souveraineté étatique et marchés internationaux à la fin du 20ème siècle. A propos de 30 ans de recherche du CREDIMI, Dijon, 2000, 223, 232; Xxxx, Xxxxx Smutny, The Implemen- tation of ICSID Arbitration Agreements, in 11 ICSID Rev., 1996, 64, 68.
xxxxx l’investitore straniero che intendesse promuovere un’azione nei confronti dello Stato ospitante non avreb- be altra via che adire i tribunali interni dello stesso, con tutte le conseguenze negative sopra menzionate.
La prassi ha però ideato una soluzione alternativa. In ta- lune controversie, si poneva il problema di garantire al- l’investitore straniero la facoltà di poter ricorrere ad ar- bitrato, anche in assenza di una convenzione arbitrale con lo Stato destinatario dell’investimento. Detta fa- coltà ha un immenso valore protettivo per gli interessi degli investitori poiché in sua assenza la soluzione della controversia andrebbe a tutto vantaggio dello Stato, i cui tribunali - non sempre imparziali - sarebbero gli uni- ci competenti a risolverla. Dinanzi a tale situazione, la prassi si è domandata se, nonostante l’assenza di una convenzione arbitrale tra le parti in causa, lo Stato abbia in qualche modo previamente acconsentito a concedere all’investitore il ricorso all’arbitrato, attraverso una qual- che manifestazione di volontà. Tale volontà può essere espressa sul piano interno mediante una specifica dispo- sizione di legge che attribuisca agli investitori stranieri un diritto a ricorrere all’arbitrato, ovvero su quello inter- nazionale, tramite un accordo bilaterale o multilaterale nel quale lo Stato si sia impegnato a concedere agli in- vestitori nazionali delle controparti la possibilità di un ri- corso all’arbitrato. In tali ipotesi, potrebbe presumersi, con le opportune precauzioni, che lo Stato abbia inteso ’offrire’ unilateralmente all’investitore la possibilità di accedere ad arbitrato anche in assenza di un accordo spe- cifico in tal senso.
La soluzione in parola è stata accolta in alcune decisioni arbitrali rese in sede ICSID, nelle quali l’eccezione di as- senza di giurisdizione, sollevata dallo Stato convenuto in virtù dell’inesistenza di una specifica clausola arbitrale, è stata agevolmente superata attraverso l’individuazione, all’interno delle leggi nazionali protettive degli investi- menti esteri o di trattati internazionali in vigore tra lo Stato nazionale dell’investitore e lo Stato ospite, di espressioni di volontà di accettazione della giurisdizione ICSID.
Una prima espressione di volontà dello Stato può ricon- dursi al rinvio contenuto in leggi nazionali. Si tratta di un gruppo di casi eterogenei: alcuni di essi richiamano solennemente il sistema di soluzione delle controversie previsto in sede ICSID, altri attribuiscono all’investitore straniero un diritto generico a richiedere che la contro- versia sia definitivamente risolta attraverso diverse isti- tuzioni internazionali arbitrali (ad es. l’UNCITRAL), altre ancora richiedono comunque la presenza di una clausola arbitrale espressa (7). Nel famoso caso delle Pira- midi, un tribunale arbitrale costituito in sede ICSID ha ritenuto la propria giurisdizione in merito alla contro- versia sorta tra una società di Hong Kong (la SPP) e il Governo egiziano, atteso che l’art. 8 di una legge egizia- na del 1974 prevedeva che, in generale, tutte le contro- versie sorte in materia di investimenti sarebbero state ri- solte in virtù degli accordi internazionali in vigore per
l’Egitto o della Convenzione di Washington del 1965 (8). La SPP aveva rilevato che l’art. 8 in questione «sta- bilisce una gerarchia obbligatoria di definizione delle controversie», nel senso che, anche in assenza di clauso- la arbitrale, si sarebbe dovuto applicare il trattato bilate- rale in vigore tra lo Stato nazionale dell’investitore e lo Stato ospite, dopodiché, in assenza di tale trattato, ad operare sarebbe stata la Convenzione di Washington del 1965 (9); la stessa norma utilizza, peraltro, termini impe- rativi e, dunque, rispecchierebbe la volontà dell’Egitto di regolare in quel determinato modo le controversie con gli investitori stranieri (10). In risposta, il collegio arbi- trale investito della controversia ha considerato che «in effetti risulta incontestato che lo Stato possa offrire il proprio consenso alla competenza [di un arbitrato inter- nazionale] sia in un contratto specifico, sia, in maniera generale, in una legislazione relativa agli investimenti stranieri» (11).
Nel caso di specie, il tribunale arbitrale ha tuttavia ri- levato che la fonte di detto consenso non risiederebbe nella norma di diritto interno, bensì nella disposizione pattizia di cui all’art. 25 della Convenzione di Wa- shington, che sancisce l’assoggettabilità ad arbitrato internazionale delle controversie in materia di investi- menti.
Nella causa Tradex Hellas v. Albania, il problema si pre- sentava nei medesimi termini: tra la società attrice, di nazionalità greca, e il Governo albanese era sorta una di- sputa in merito all’espropriazione di una joint venture; al momento del ricorso da parte della prima dinanzi a un tribunale arbitrale ICSID, l’Albania aveva formulato una serie di eccezioni, al fine di contestarne la giurisdi- zione (12). A queste eccezioni, il tribunale ha replicato
Note:
(7) Per una rassegna v. Delaume, How To Draft an ICSID Arbitration Clause, in 7 ICSID Rev., 1992, 168, 172. Per una bibliografia completa v. 7 ICSID Rev., 1992, 512; Schreuer, The ICSID Convention. A Commen- tary, Cambridge, 2001, 200.
(8) Il testo del lodo finale del c.d. caso delle Piramidi Southern Pacific Pro- perties (Middle East) Ltd v. République Arabe d’Egypte), reso in data 20 maggio 1992, è leggibile in 32 Int. Leg. Mat., 1993, 993 e con estratti in 121 Journal du droit international, 1994, 218, nota Xxxxxxxx e in Riv. arb., 1994, 145, nota Xxxxxxxx; le due decisioni del 27 novembre 1985 e 14 aprile 1988 in punto di giurisdizione si trovano in 16 Yearbook of Com- mercial Arbitration, 1991, 16, 28 e 32. La controversia si è chiusa in data 11 dicembre 1992 attraverso un accordo tra le perti (v. 8 Int. Arb. Rep., 1993, 1, 3). Sul caso v. Xxxxxxx, The Pyramid Stand. The Pharaohs Can Rest in Peace, in 8 ICSID Rev., 1993, 231 W.L. Xxxxx, The Final Charter in the Pyramid Case: Discounting an ICSID Award for Annulment Risk, ivi, 264-293; Xxxxxxxxxxx, Etat, politique et arbitrage. L’Affaire du Plateau des Pyramides, in Revue de l’arbitrage, 1986, 3; Xxxxxxx, L’affaire «des Pyra- mides», in 31 Ann. fr. dr. int., 1985, 508.
(9) Lodo arbitrale 20 maggio 1992, par. 72.
(10) Ibidem, par. 74 ss.
(11) Decisione del 14 aprile 1988, cit., par. 70; Xxxxxxxx, Nota, cit., 227 (cors. agg.).
(12) Tradex Hellas S.A. v. Republic of Albania, Decisione sulla giurisdizio- ne 24 dicembre 1996 e Lodo arbitrale 29 aprile 1999, in 14 ICSID Rev., 1999, risp. 161 e 197.
che «sebbene il consenso per iscritto sia il metodo usua- le di sottomissione alla giurisdizione dell’ICSID, oggi bi- sogna considerare come fondato e non richiedente ulte- riori ragionamenti il fatto che tale consenso può essere anche rilasciato unilateralmente da uno Stato parte nel- le proprie leggi nazionali; il consenso diviene effettivo al più tardi se e quando l’investitore straniero presenta il proprio ricorso dinanzi all’ICSID» (13).
Sebbene la soluzione prospettata non fosse propriamen- te in linea con le intenzioni dei compilatori della Con- venzione di Washington, i quali al momento delle nego- ziazioni avevano in mente la tipica clausola compromis- xxxxx inserita in un contratto tra l’investitore e lo Stato ospite, si è ritenuto che l’espressione del consenso dello Stato attraverso una disposizione di diritto interno fosse comunque compatibile con la lettera dell’art. 25 (14). In conclusione, il riconoscimento, a livello nazionale, della giurisdizione ICSID in materia di soluzione delle contro- versie può essere interpretato come un’offerta unilatera- le di stipulazione di una clausola arbitrale, rivolta dallo Stato ospite all’investitore straniero, il quale potrà senz’altro accettarla unilateralmente mediante l’attiva- zione della relativa procedura.
Il consenso dello Stato ad assoggettarsi ad arbitrato può essere anche contenuto in accordi internazionali bilate- rali (15) o multilaterali (16). Al riguardo, deve ricordar- si che, mentre i primi trattati di settore si limitavano a incoraggiare il ricorso all’arbitrato, ammettendolo solo in presenza di un accordo specifico in essere tra l’investito- re straniero e lo Stato ospite, la prassi negoziale successi- va è nel senso di rendere obbligatorio, per lo Stato, il ri- medio arbitrale, fornendo all’investitore uno strumento unilaterale per l’attivazione della relativa procedura. Di- versi trattati bilaterali e multilaterali successivi alla Con- venzione di Washington contengono norme che deferi- scono ad arbitrato secondo le regole ICSID ogni contro- versia sorta tra Stati e investitori stranieri (17) e, anche in questi casi, l’esistenza di un accordo internazionale contenente un rinvio alla giurisdizione ICSID costitui- sce un’espressione della volontà dello Stato ospite ai sensi dell’art. 25 della Convenzione di Xxxxxxxxxx (00). Va in ogni caso ricordato che l’offerta unilaterale conte- nuta in un trattato non integra, di per sé sola, gli estremi di una clausola arbitrale: a questo fine, occorre sempre l’accettazione dell’investitore. Ne consegue anzitutto che lo Stato, che pur abbia prestato il proprio consenso, non sarà legittimato ad attivare la procedura arbitrale senza il consenso dell’investitore; inoltre, poiché la legge interna - a differenza del trattato internazionale - può sempre essere abrogata unilateralmente dallo Stato emittente, è naturale che il consenso reso attraverso la disposizione di un trattato offra all’investitore una tutela indubbiamente maggiore (19).
Infine, come si accennava, a fronte dell’esistenza del consenso dello Stato e allo scopo di attivare la procedu- ra arbitrale ICSID, l’investitore straniero non dovrà fare altro che ’accettare’l’offerta attraverso un atto formale.
L’art. 25 della Convenzione di Washington stabilisce in- fatti che, una volta prestato, il consenso deve conside- rarsi irrevocabile: l’offerta avanzata dallo Stato acquisirà così la sua piena efficacia con l’accettazione (irrevocabi- le) dell’investitore (20). È ovvio, però, che l’accettazio- ne dovrà rispettare esattamente le condizioni, i termini temporali e le formalità richieste nell’offerta (21). Se la
Note:
(13) Decisione sulla giurisdizione, cit., 187, ove citazioni del Pyramid Case.
(14) X. Xxxxx, Le consentement, cit., passim, nonché il Report dei Direttori Esecutivi della Banca Mondiale sulle dispute tra Stati e investitori stra- nieri in materia di investimenti, pubblicato in data 18 marzo 1965 (IC- SID doc. 2 . X. Xxxxxxx, The Convention on the Settlement of Investment Di- sputes between States and Nationals of Other States, in 136 Recueil des Cours, 1972, 331, 353; P.F. Xxxxxxxxxx, The World Bank Convention on the Settle- ment of Investment Disputes, in 28 I.C.L.Q., 1979, 367, 381; Delaume, Pratique du CIRDI, in 109 Journal du droit international, 1982, 775, 782; Migliorino, Gli accordi internazionali sugli investimenti, Padova, 1989, 205; Sacerdoti, Bilateral Treaties and Multilateral Instruments on Investment Pro- tection, in 269 Recueil des Cours, 1997, 251, 443.
(15) Per un esame delle relative disposizioni x. Xxxxxx, Xxxxxxx, Bilateral Investment Treaties, The Hague/London/Boston, 1995, 147; Schreuer, The Interpretation of ICSID Arbitration Agreements, in Wellens (ed.), In- ternational Law: Theory and Practice. Essays in honour of Xxxx Xxx, The Ha- gue/Boston, 1998, 719; Xxxxxx, Dispute Settlement Arrangements in Invest- ment Treaties, in 22 Netherlands Yearb. Int. Law, 1991, 91.
(16) Non sono molti i trattati multilaterali che prevedono la sottoposi- zione all’arbitrato ICSID delle controversie sorte tra Stati e investitori stranieri. A parte l’art. 26 dell’Energy Charter Treaty, si possono citare l’art. 1122 del Nafta (in 31 Int. Leg. Mat., 1993, 605), l’art. 9.4(a) del Protocollo di Colonia del Mercosur del 17 gennaio 1994 e gli art. 17-18 dell’Accordo di libero scambio in vigore tra Messico, Colombia e Vene- zuela, firmato il 13 giugno 1994.
(17) Cfr. al riguardo Xxxxxxx, Nouvelles perspectives pour l’arbitrage dans le contentieux économiques intéressant les Etats, in Revue de l’arbitrage, 1995, 1,
12. Nel caso Asian Agricultural Products (AAPL) v. Republic of Sri Lanka (Lodo arbitrale 27 giugno 1990, in 29 Int. Leg. Mat., 1990, 580), il tribu- nale arbitrale ha ritenuto sussistente la giurisdizione dell’ICSID anche in assenza di una specifica clausola arbitrale in essere tra le parti; in partico- lare, il collegio ha rilevato che tra la Gran Bretagna (Stato nazionale del- l’investitore) e lo Sri Lanka era in vigore un trattato bilaterale contenen- te una norma (l’art. 8.1) di rinvio alla giurisdizione dell’ICSID per ogni controversia in materia di investimenti. Applicando tale disposizione, il collegio ha ritenuto ammissibile il ricorso all’arbitrato. Sul caso x. Xxxx- xxxx, Xxxxxxx, Des obligations de l’Etat vis-à-vis de l’investisseur étranger (sentence AAPL c/ Sri Lanka), in Ann. fr. dr. int., 1992, 501.
(18) Questo è stato, ad es., il ragionamento del tribunale arbitrale nel ca- so Tradex Hellas v. Albania (Decisione sulla giurisdizione), cit., 188. Per la casistica, v. le cause AMT v. Zaire, Lodo arbitrale 21 febbraio 1997, in 36 Int. Leg. Mat., 1997, 1531, spec. 1545, con riferimento all’art. 7.2 del Trattato bilaterale tra gli Stati Uniti e lo Zaire del 3 agosto 1984; Fedax v. Venezuela, Decisione sulla giurisdizione, 11 giugno 1997, in 37 Int. Leg. Mat., 1998, 1378, 1384, in relazione agli art. 9.1 e 9.4 del Trattato bilate- rale tra Olanda e Venezuela del 22 ottobre 1991.
(19) Su questo problema v. Broches, Bilateral Investment Protection Trea- ties and Arbitration of Investment Disputes, in Xxxxxxx, xxx xxx Xxxx (eds.), The Art of Arbitration. Liber Amicorum Xxxxxx Xxxxxxx, Deventer/Boston, 1982, 63, 68.
(20) Non va dimenticato che l’art. 25 della Convenzione di Washington richiede l’espressione di un «consenso per iscritto»: Schreuer, The ICSID Convention, cit., 207; Broches, Convention on the Settlement of Investment Disputes: Some Observations on Jurisdiction, in 5 Columbia Journ. Transn. Law, 1966, 263, 269; Id., The Convention, cit., 352.
(21) SPP v. Egypt, Decisione sulla giurisdizione 27 novembre 1985, cit.
legge interna o il trattato nulla prevedono, l’investitore potrà accettare semplicemente per iscritto (22).
Per descrivere il fenomeno in parola si utilizza l’efficace formula «arbitration without privity» (23). In buona so- stanza, questo concetto esprime la possibilità, per l’inve- stitore straniero, di attivare unilateralmente la procedu- ra arbitrale in assenza di una clausola contrattuale. Il fe- nomeno sembra inoltre rispecchiare una tendenza re- cente del diritto internazionale, in quanto, attribuendo agli investitori un diritto perfetto al ricorso all’arbitrato, investe gli stessi di una funzione di garanzia del rispetto, da parte degli Stati, degli obblighi assunti nei confronti di altri Stati sul piano internazionale (24). I vantaggi di tale soluzione sono evidenti: sotto il profilo politico-giu- ridico, lo Stato sarà indotto a rispettare gli obblighi as- sunti; sotto il profilo economico, l’investitore straniero sarà di fatto esentato dall’onere di negoziare un contrat- to specifico o una clausola arbitrale con lo Stato ospite, con un notevole risparmio in termini di tempo e di costi. E anche dopo il sorgere della controversia, l’investitore non sarà costretto a subire i capricci dello Stato contro- parte.
Una corretta ricostruzione del concetto di arbitration without privity richiede tuttavia alcune precisazioni. Sot- to un primo profilo generale, analizzando la giurispru- denza attraverso la quale detto concetto è stato costrui- to, ci pare che non si possa prescindere dal contenuto dell’art. 25 della Convenzione di Washington: è infatti da tale norma che deriva il consenso originario dello Stato a essere vincolato alla procedura arbitrale, perché è in detta disposizione che risiede la fonte del consenso prestato dallo Stato sul piano del diritto internazionale pattizio. Questo limite - peraltro abbastanza evidente al- la luce delle pronunce esaminate - risulta chiaramente da una decisione resa da un collegio arbitrale ICSID nel caso Amco v. Indonesia (25). Nella fattispecie, per soste- nere la sussistenza della giurisdizione in capo al collegio, Xxxx faceva valere, oltre alla clausola arbitrale conte- nuta nel contratto in essere tra le parti, anche l’art. 23.5 della Legge indonesiana del 1967 sugli investimenti stra- nieri, ai sensi del quale «se le parti non riescono a rag- giungere un accordo relativamente al pagamento del- l’indennizzo [conseguente all’espropriazione per pubbli- ca utilità], si procederà ad arbitrato vincolante per en- trambe le parti».
Al riguardo, il collegio arbitrale investito della causa non ha mancato di osservare che «in tale disposizione non è fatta alcuna menzione dell’arbitrato ICSID e, an- zi, non avrebbe potuto neanche essere fatta, poiché al momento dell’approvazione di detta legge la Conven- zione [di Washington] non era entrata in vigore per l’In- donesia … il che implica necessariamente che l’art. 23 della Legge n. 1 del 1967 non è e non può rappresentare un impegno diretto e sufficiente ad assoggettare le dispute in materia di investimenti ad arbitrato ICSID» (26).
Secondariamente, una volta accertata l’applicabilità della Convenzione di Washington, occorrerà stabilire la
modalità specifica con cui lo Stato ospite ha prestato il proprio consenso, ossia la concreta esistenza di una nor- ma di diritto interno o di un trattato internazionale (27). A questo proposito, come si anticipava sopra, la scelta tra una delle due modalità di prestazione del consenso non è senza conseguenze sul piano internazionale: solo nel caso delle norme interne, infatti, l’interprete dovrà appurare se lo Stato abbia revocato in qualche modo il proprio consenso; nell’ipotesi, invece, di trattati interna- zionali, sarà sufficiente rilevarne la vigenza, poiché l’e- ventuale revoca unilaterale dovrebbe considerarsi vieta- ta dalla regola pacta sunt servanda.
In conclusione, colui che effettui un investimento in- ternazionale e subisca un pregiudizio a seguito della condotta dello Stato ospite potrà rivolgersi al tribuna- le arbitrale ICSID anche se non ha stipulato alcuna specifica clausola in tal senso. Naturalmente, la prima condizione da verificare è che la Convenzione di Wa- shington sia in vigore per lo Stato ospite - o comunque ad esso applicabile -, compito non facile, tenuto conto che la Convenzione stessa, per effetto delle riserve pronunciate da alcuni Stati firmatari, non ha una sfe- ra di applicazione uniforme (28). La seconda condizio-
Note:
(22) In questo senso Schreuer, The ICSID Convention, cit., 210.
(23) L’espressione è di Xxxxxxxx, Arbitration Without Privity, in 10 ICSID Rev., 1995, 232, con precisazioni, 240 s.; Id., Arbitration Without Privity, in Wälde (ed.), The Energy Charter Treaty. An East-West Gateway for Inve- stment and Trade, London/The Hague/Boston, 1996, 422; cenni in El-Ko- xxxxx, ICSID Arbitration and Developing Countries, in 8 ICSID Review, 1993, 104, 106 s.
(24) Come rileva Wälde, Investment Arbitration Under the Energy Charter Treaty. From Dispute Settlement to Treaty Implementation, in 12 Arbitration International, 1996, 429, 445, proprio con riferimento alle suddette clau- sole arbitrali, «[i]n instituting such compulsory jurisdiction … the negotia- tors/drafters must have - or should have had - in mind the idea of using indivi- duals’complaints as a measure of enforcing the Treaty’s law, a though that is fa- miliar to domestic legal systems. […] here, the individual plaintiff, […] is seen as an instrument to achieve compliance, albeit motivated mainly by self-intere- st - the ’invisible hand’uses the self-interested plaintiff to achieve the higher pur- poses of the law». Nello stesso senso, a favore di un ’effetto diretto’di tali norme nei confronti dei singoli, x. Xxxxxxxx, Les conventions bilatérales d’in- vestissement conclues par la France, in 106 Journ. dr. int., 1979, 274, 289; v. inoltre, per le medesime conclusioni, Xxxxx, Le consentement, cit., 240; Xxxxxxx, Nouvelles perspectives, cit., 17-21.
(25) Amco Asia Corp. et al. v. Republic of Indonesia, Decisione sulla giurisdi- zione 25 settembre 1983, in 23 Int. Leg. Mat., 1984, 351. Per un commento
x. Xxxxxxxx, The ICSID Convention, cit., 206; Xxxxxx, Xxxx v. Indonesia, in 86 Am. Journ. Int. Law, 1988, 106; cenni in Xxxxxxx, Indonesian Arbitration in Theory and Practice, in 30 Am. Journ. Comp. Law, 1991, 559, 579 s.
(26) Amco v. Indonesia, cit., 367.
(27) Naturalmente, il trattato deve essere in vigore: su questo problema
v. ancora il caso Tradex Hellax v. Albania, Decisione sulla giurisdizione 24 dicembre 1996, cit., 178; v. anche CSOB v. Slovakia, Decisione sulla giu- risdizione 24 maggio 1999, in 14 ICSID Rev., 1999, 251, 264.
(28) Le riserve alla giurisdizione dell’ICSID sono possibili ai sensi dell’art. 25
u.c. della Convenzione. Così, per citare qualche esempio al riguardo, l’Ara- bia Saudita, che ha sottoscritto la Convenzione in data 8 maggio 1990, ha escluso la giurisdizione dell’ICSID per le controversie in materia petrolifera e per quelle concernenti un atto di sovranità; la Cina ha aderito alla Con-
(segue)
ne è che tale Stato abbia prestato il proprio consenso ad assoggettarsi a un arbitrato ICSID, sia attraverso un atto legislativo interno, sia attraverso un trattato in- ternazionale in vigore con lo Stato nazionale dell’in- vestitore.
Il sistema offre tutto sommato una tutela minima all’im- presa che voglia investire all’estero. Da esso però resta escluso un immenso bacino di ricchezze naturali oggetto, com’è noto, degli appetiti di molte imprese multinazio- nali occidentali: la Russia. Infatti, nonostante la mem- bership pressoché universale della Convenzione di Wa- shington, ad oggi quella nazione vi resta clamorosamen- te esclusa, non avendo provveduto alla ratifica della stes- sa (29). Anzi, attualmente dei 32 trattati bilaterali sotto- scritti in materia di investimenti, solo 11 risultano en- trati in vigore e quello con gli Stati Uniti non è tra que- sti. Anche l’Energy Charter Treaty, il trattato multilatera- le in materia di energia concluso nel 1994 (30), subisce in Russia soltanto un’applicazione provvisoria. Alle im- prese che vogliano investire in quel Paese non v’è altra strada che negoziare un’apposita clausola compromisso- ria col Governo di Xxxxx, compito tutt’altro che facile, considerato che, in caso contrario, l’investitore si ritro-
verebbe in balìa delle corti russe, discrezionalità e ca- pricci delle quali sono ben noti (31).
Note:
(segue nota 28)
venzione di Washington in data 7 gennaio 1993, ma soltanto per le contro- versie nascenti da espropriazione o nazionalizzazione, con esclusione di tut- te le altre (ad es. inadempimento contrattuale); la Giamaica, che ha aderito in data 30 agosto 1974, ha precisato che la giurisdizione dell’ICSID non si ri- ferisce alle controversie nel campo minerario o delle risorse naturali; la Nuo- va Zelanda (2 aprile 1980) ha escluso l’applicazione della Convenzione ad alcune delle sue isole, analogamente al Regno Unito (19 dicembre 1966) per l’Isola di Man, l’Antartide britannico e le basi di Cipro.
(29) La Russia ha aderito alla Convenzione di Washington in data 16 giugno 1992.
(30) L’elenco di tali trattati bilaterali è reperibile sul sito Internet del- l’ICSID.
(31) V. supra nota 16. L’Energy Charter Treaty si legge in 34 Int. Leg. Mat., 1995, 382.
(32) Per un’efficace descrizione della situazione degli investimenti stra- nieri in Russia v., tra gli altri, Shulga, Foreign Investment in Russia’s Oil and Gas: Legal Framework and Lessons for the Future, in 22 Univ. Pennsylvania Journ. Int. Econ. Law, 2001, 1067, 1069; Black, So You Want to Invest in Russia? A Legislative Analysis of the Foreign Investment Climate in Russia, in 5 Minn. Journ. Global Trade, 1996, 123.
Una prima lettura
del codice del consumo
(D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206)
ISTITUTO PER LO STUDIO E LA DIFFUSIONE DELL’ARBITRATO E DEL DIRITTO COMMERCIALE INTERNAZIONALE
Dopo lungo iter, il 14 luglio 2005 è stato approvato e pubblicato come decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 il Codice del consumo, meglio definito «Riassetto delle disposizioni vigenti in materia di tutela dei consu- matori - codice del consumo, a norma dell’art. 7 della Legge 29 luglio 2003, n. 229.
Il Codice è stato emanato dal Governo su delega, allo scopo di riordinare in modo organico le disposizioni vi- genti in materia di tutela dei consumatori adeguandole alle normative comunitarie in materia e alle convenzio- ni internazionali, omogeneizzare le procedure relative al diritto di recesso dei consumatori nelle diverse tipologie di contratti, apprestare specifica tutela al consumatore in materia di televendite, coordinare le procedure di risolu- zione stragiudiziale delle controversie e l’intervento del- le associazioni dei consumatori, nel rispetto delle racco- mandazioni europee in materia.
È un provvedimento che ha il difficile compito di accor- pare in un unico testo la normativa in materia consume- ristica, per lo più di derivazione comunitaria, approvata in momenti diversi dal legislatore- e quindi alluvionale e disorganica- per trasporla, non senza difficoltà, in un te- sto organico e ragionato.
Lo schema seguito per la compilazione vede come filo conduttore le diverse fasi temporali e logiche in cui è coinvolto il soggetto del rapporto di consumo: dall’edu- cazione ad un consumo consapevole, all’informazione - e in particolare alla pubblicità - alla fase della conclusione del contratto, a particolari modalità di conclusione del contratto con il consumatore, con disciplina di singoli contratti, alla fase dell’esecuzione del contratto, con la normativa sulla sicurezza dei prodotti, nonché degli eventuali danni provocati da beni non sicuri e quindi di- fettosi, e con la normativa sulle garanzie legali di confor- mità dei beni; da ultimo, le disposizioni in materia di as- sociazioni dei consumatori e di accesso alla giustizia.
È stato scelto cioè uno schema basato sulla distinzione del- le fasi del processo di acquisto, con un ordine che riper- corre, secondo una sequenza logico-temporale, le fasi del rapporto di consumo istituito tra consumatore e utente da una parte e professionista dall’altra. È stata invece scartata l’opzione alternativa, che ipotizzava la raccolta e il coordi- namento della stratificata legislazione consumeristica esi-
stente secondo un criterio di accorpamento corrisponden- te all’elencazione dei diritti fondamentali riconosciuti ai consumatori dall’art. 1 della Legge 30 giugno 1998, n.
281. La Commissione infatti (si legge nella Relazione al decreto), pur ritenendo tale opzione suggestiva, l’ha tutta- via scartata perché di difficile realizzazione pratica, in quanto i diritti attributi al consumatore dalla suddetta leg- ge non erano tutti riconducibili in via esclusiva allo status di consumatore. Infatti, già alle prese con il primo diritto previsto al suddetto art. 1, ovvero il diritto alla salute, non si è individuata una specifica tutela del consumatore con riferimento a tale diritto, garantito in via generale ad ogni persona dall’art. 32 della Costituzione. Si è rilevata, per- tanto, la difficoltà di trovare un filo conduttore che evi- denziasse la specificità della tutela del consumatore rispet- to agli altri titolari dei diritti di cui trattasi.
Si è provveduto quindi, sulla base del suddetto schema, ad una riorganizzazione logico-sistematica della materia vigente, con le sole modifiche rese necessarie dalla dele- ga o dall’esigenza di coordinare normative diverse e stra- tificate nel tempo oppure da esigenze di aggiornamento rispetto a normative successive o a problematiche so- pravvenute.
La definizione di consumatore, contenuta nell’art. 3 del Codice del consumo, rimane circoscritta alla persona fisi- ca che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoria- le o professionale eventualmente svolta. Va peraltro pre- cisato che tale definizione non si applica ai fini del Titolo III in materia di pubblicità e comunicazioni commercia- li. In relazione alla disciplina della pubblicità la nozione di consumatore è più ampia; infatti il secondo comma dell’art. 18 del Testo prevede che, a tal fine, si intende consumatore o utente anche la persona fisica o giuridica cui sono dirette le comunicazioni commerciali o che ne subisce le conseguenze. Tale modifica era stata auspicata dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato nel parere 4 maggio 2005 che aveva sottolineato come, ai sensi del D.Lgs. n. 74/92, la nozione di consumatore ri- comprendesse da un lato anche le persone giuridiche e, dall’altro, anche i soggetti che agivano per scopi inerenti la propria attività imprenditoriale o professionale.
Nulla è specificato, nella generale definizione di consu- matore di cui all’art. 3, quanto al soggetto che operi pre-
valentemente per scopi estranei all’attività imprendito- riale o professionale, nulla cioè è detto con riferimento all’acquisto per uso promiscuo. (1) Prima della parola
«scopi» non è inserita né la parola «esclusivamente», che avrebbe fatto propendere necessariamente per un’interpretazione rigorosamente restrittiva, né la paro- la «prevalentemente» (2), che avrebbe riconosciuto espressa tutela anche a chi concluda contratti per usi promiscui. Su tale punto una presa di posizione avrebbe fatto chiarezza, al fine di evitare poi contrastanti pro- nunce giurisprudenziali con nocumento per la certezza del diritto.
Nel Titolo I della terza parte del decreto in commento sono ora inserite le norme concernenti le clausole vessa- torie nei contratti tra professionista e consumatore, nor- me prima inserite nel capo XIV bis agli artt.1469-bis e ss. del Codice civile.
Il primo schema di provvedimento approvato, in via pre- liminare, dal Consiglio dei Ministri nell’ottobre 2004, non conteneva la disciplina delle clausole vessatorie e neppure quella della vendita dei beni di consumo; ciò era stato frutto di una precisa scelta sistematica della Com- missione, che aveva ritenuto di privilegiare la sede codici-
tare in un unico testo normativo tutte le disposizioni fi- nalizzate alla loro protezione quali parti deboli del rap- porto, in posizione di «asimmetria contrattuale» rispetto al professionista.
La scelta operata non dovrebbe suscitare problemi, do- xxxxxxx ritenere una decisione a favore di una maggiore organicità del nuovo Codice del consumo, senza il signi- ficato ulteriore che tali disposizioni, ora espunte dal co- dice civile e contenute in un corpus normativo separato, abbiano perso il loro carattere di generalità e debbano subire l’interpretazione propria delle leggi speciali (5). Sempre con riferimento alla normativa sulle clausole vessatorie occorre soffermarsi sul testo dell’art. 33 del Codice, che riproduce fedelmente l’art. 1469 bis Codice civile.
Già l’art. 1469 bis, primo comma, Xxxxxx civile aveva posto problemi interpretativi laddove prevedeva che nel contratto concluso tra consumatore e professionista do- vessero considerarsi vessatorie quelle clausole che, mal- grado la buona fede, determinavano a carico del consu- matore un significativo squilibrio dei diritti e degli obbli- ghi derivanti dal contratto (6).
stica. Tali disposizioni erano state mantenute all’interno
del codice civile, rispettivamente agli artt.1469 bis e ss. e agli artt. 1519 bis e ss., al fine di rimarcare il carattere ge- nerale di tale normativa e per evitare la scomposizione del sistema organico e generale in materia di contratti.
La bozza - non solo su tale punto - è stata poi corretta e modificata in modo sostanziale e, nel testo definitivo, è ora inserita la disciplina delle clausole vessatorie nei contratti con i consumatori, con la previsione all’art. 38 che, per quanto non previsto dal Codice del consumo, ai contratti tra consumatore e professionista si applicano le disposizioni del codice civile, ed è altresì inserita la disci- plina sulla vendita di beni di consumo.
Su tale scelta ha inciso il parere espresso dal Consiglio di Stato (3), che aveva criticato il mancato inserimento di tali norme nel Codice del consumo (4), sottolineando come non potesse più valere la motivazione addotta al momento del recepimento delle direttive 93/13/CE e 99/44/CE a favore dell’inserimento all’interno del codi- ce civile, allora motivata dall’assenza di una sedes mate- riae capace di raccogliere organicamente le norme sul consumatore. Il sopravvenire del Codice in commento come normativa organica e sistematica del rapporto di consumo, faceva venire meno le suddette motivazioni, in quanto - secondo il Consiglio di Stato - il nuovo Co- dice costituisce ora la sede sistematicamente più idonea ove inserire tali disposizioni. Il non inserire, invece, nel nuovo Testo le norme sulle clausole vessatorie e sulla vendita dei beni di consumo, avrebbe privato il corpo normativo di alcune disposizioni fondamentali per la tu- tela del consumatore, incidendo sull’organicità della di- sciplina e impedendo un’opera di raccordo tra tali norme e quelle collocate fuori dal codice civile. A ciò si aggiun- ge il vantaggio pratico per i consumatori di poter consul-
Note:
(1) Sull’uso promiscuo: Corte di Giustizia UE del 20 gennaio 2005, di- sponibile sul sito Altalex, che ha affermato che, ai fini dell’applicazione della Convenzione di Bruxelles 27 settembre 1968 sulla competenza giu- risdizionale e sull’esecuzione delle decisioni in materia civile e commer- ciale, il soggetto che stipula un contratto relativamente ad un bene desti- nato parte ad uso professionale e parte ad uso personale non ha diritto ad avvalersi delle norme previste agli artt.13-15 per i consumatori, a meno che l’uso professionale abbia un ruolo assolutamente trascurabile nel con- testo globale dell’operazione.
(2) L’avverbio prevalentemente risultava invece inserito in una prima bozza del codice del consumo risalente al novembre 2003.
(3) Il parere del Consiglio di Stato del 20 dicembre 2004 è in Foro it., 2004, III, 348 ss., con nota di X. Xxxxxxxx.
(4) Invece l’Autorità garante della concorrenza e del mercato nel parere del 4 maggio 2005 aveva condiviso il mancato inserimento, in quanto l’e- sigenza di parità sostanziale tra le parti cui si ispira la disciplina dei con- tratti dei consumatori ha carattere generale e in quanto riteneva oppor- tuna una convivenza tra tali norme di tutela sostanziale e quelle di tutela formale di cui agli artt.1341-1342 Codice civile. La presenza di tali nor- me nel codice avrebbe avuto lo scopo di evitare la scomposizione di un si- stema organico e generale in materia di contratti.
(5) Tale domanda, che rimane aperta, è posta da X. Xxxx, nella presen- tazione al nuovo codice del consumo reperibile sul sito del Consiglio Na- zionale Forense. Si veda anche X. Xxxx, Commento al codice del consumo, in questa Rivista, 2005, 1047 ss., che fa presente che una delle obiezioni allo spostamento degli artt.1469 bis ss. e degli artt. 1519 bis ss. Codice ci- vile nel codice del consumo sottolineava come l’interprete, rinvenendo tali norme nel codice civile, avrebbe potuto (come avvenuto in altre esperienze) darvi un’interpretazione estensiva, ricomprendendovi anche rapporti contrattuali con soggetti come piccoli imprenditori o soggetti che acquistano ad uso promiscuo o enti non profit. Se invece tali regole vengono inserite in un codice di settore dovrebbero prevalere le regole dell’interpretazione della legge che impediscono di generalizzare disposi- zioni aventi natura speciale.
(6) Si tratta del c.d. squilibrio normativo, inteso come assetto negoziale di diritti e obblighi delle parti sbilanciato in senso favorevole al profes- sionista e sfavorevole per il consumatore e non di squilibrio economico inteso come sproporzione tra i valori di mercato tra le prestazioni.
La dottrina maggioritaria ha ritenuto che il riferimento fosse alla buona fede in senso oggettivo - tipica dei rap- porti contrattuali - ovvero alla regola di comportamento secondo buona fede, principio generale nel nostro ordi- namento che si specifica nel divieto per il contraente forte di abusare del proprio potere contrattuale al fine di inserire clausole che determinino un significativo squili- brio normativo a carico del consumatore (7); con la pre- cisazione che la buona fede sarebbe criterio per accerta- re il significativo squilibrio.
Si è affermato che tale inciso dovesse essere letto nel senso che la vessatorietà della clausola che creava squili- brio tra diritti e obblighi ricorresse qualora vi fosse con- trasto con la buona fede e che non vi fosse identificazio- ne tra squilibrio e buona fede, ma che fossero l’uno stru- mento e l’altro risultato di una valutazione di congruità o non congruità degli interessi in conflitto e nel senso che, la buona fede in senso oggettivo, andasse intesa co- me criterio per valutare in sede giudiziale la significati- vità dello squilibrio (8).
Si era sottolineato, poi, che in sede codicistica era stato riprodotto il medesimo errore che aveva caratterizzato la traduzione dell’art. 3, n. 1 della direttiva comunitaria 93/13/CE da cui la norma trae origine.
Secondo la dottrina maggioritaria, l’inciso introdotto nell’art. 1469 bis Codice civile, era frutto di un errore di traduzione del testo della direttiva. L’equivoco linguisti- co sarebbe derivato dal fatto che in lingua francese l’e- spressione en dépis de significasse «malgrado», «nono- stante», ma anche «contrariamente», «in dispetto».
La traduzione corretta della locuzione sarebbe dovuta es- sere «contrariamente alla buona fede», cioè con compor- tamento contrario ai dettami della correttezza, contra jus e non meritevole di tutela giuridica, con conseguente abusività della clausola. Tale interpretazione, nel senso del mero errore materiale di traduzione, avrebbe trovato in effetti conferma anche nella locuzione usata nel testo inglese «contrary the requirement of good faith». (9) Secondo altra parte della dottrina, l’inciso si sarebbe do- vuto invece interpretare in senso letterale, non poten- dosi interpretare diversamente semplicemente asseren- do un errore del legislatore, con la conseguenza che lad- dove la clausola avesse comportato uno squilibrio signi- ficativo tra diritti e obblighi a scapito del consumatore, sarebbe stata da ritenere vessatoria malgrado l’eventuale buona fede (soggettiva) del professionista che l’aveva predisposta, nonostante egli non fosse cosciente di lede- re l’altrui diritto. (10)
Tale interpretazione dell’art. 1469 bis Codice civile era ritenuta più favorevole al consumatore, che poteva ve- dere caducata la clausola ove la stessa avesse creato un si- gnificativo squilibrio e a prescindere dell’eventuale buo- na fede soggettiva del predisponente (11). Aderendo a tale seconda interpretazione si riteneva di allargare la tu- tela del consumatore, estendendola anche alle ipotesi in cui il professionista avesse inserito la clausola che crea squilibrio normativo in buona fede, senza la consapevo-
lezza di ledere il diritto altrui e chiarendo che il consu- matore non avrebbe così dovuto dare la prova, certa- mente ardua, della presenza in capo al professionista di tale stato soggettivo. (12)
Anche in giurisprudenza non c’è stata uniformità di in- terpretazione dell’inciso «malgrado la buona fede». Si è affermato (13) che, sulla base di un’interpretazione si- stematica del contenuto della legge italiana, della Di- rettiva CE e delle leggi di recepimento degli altri Stati membri, la buona fede dovesse essere intesa e valutata in senso oggettivo, quale lealtà e correttezza nelle trat-
Note:
(7) Così M.C. Xxxxxx, Le clausole abusive nei contratti stipulati con i xxxxx- xxxxxx, a cura di Xxxxxx e Alpa, Padova, 1996.
(8) Cfr. X. Xxxxxxxxx Xxxx, Le Nuove leggi civili commentate, sub art. 1469 bis, primo comma, Codice civile; F.D. Xxxxxxxx, in AA.VV., Commentario al capo XIV bis del codice civile: dei contratti del consumatore.
(9) Per tutti: X. Xxxxxxxxxx, Profili del problema dell’equilibrio contrattuale, Milano, 2004 160; X. Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 799; X. Xxxxxxx, Squilibrio contrattuale e malafede del contraente forte, in Contratto e Impresa, 1997, 417 ss., esplicito nell’affermare che l’inciso «malgrado la buona fede» debba essere letto «in contrasto con la buona fede». X. Xxxxxxxxx,, in Riv. crit. dir. priv., 1995, 528; X. Xx Xxxx, Le clausole vessatorie, Milano, 1996, 16. F.D. Xxxxxxxx, op. cit., 765. Tale interpretazione è altresì corro- borata dalla lettura dell’art. 9 dell’AGB Gesetz, modello normativo cui si è ispirato il legislatore, che parla di «sproporzionato vantaggio a cari- co dell’aderente, in contrasto con i dettami della buona fede.» Per la di- sciplina dei contratti con i consumatori negli altri paesi comunitari si ri- manda a X. Xxxxx, Le «clausole abusive» nell’esperienza tedesca, francese, italiana e nella prospettiva comunitaria, Napoli 1994, 583 ss.; si veda altre- sì X. Xxxxx, Per un diritto europeo dei contratti con i consumatori-pro- blemi e tecniche di attuazione della legislazione comunitaria nell’ordi- namento Italiano e nel Regno Unito, Milano, 2003,72 ss. e in part. 120 e ss.
(10) Cfr. X. Xxxxxxx, Le clausole vessatorie nei contratti coi consumatori, I, commentario agli artt.1469 bis 1469 sexies del Codice civile, a cura di X. Xxxx e X. Xxxxx, Milano, 1997, 18 afferma: «a fronte di un testo tradotto in legge a seguito di un articolato dibattito parlamentare - e che quindi costituisce ormai norma cogente per l’interprete, non può più parlarsi di un «errore» o di una «svista» del legislatore come invece si poteva soste- nere con riguardo alla direttiva, dovendosi pertanto prendere atto che nel testo della normativa di recepimento è in definitiva assente ogni rife- rimento testuale alla buona fede oggettiva»; cfr. anche X. Xxxxxxxx, sub art. 1469 bis, in La nuova disciplina delle clausole vessatorie nel codice civile, a cura di X. Xxxxxxxx, Napoli, 1996, 38 che sottolinea l’eliminazione nel testo di legge italiano a qualsiasi riferimento alla buona fede in senso og- gettivo.
(11) In tal senso: X. Xxxxxxx, op. cit.; X. Xxxxxxx, Clausole vessatorie, clau- sole abusive: le linee di fondo di una nuova disciplina, in Notariato, 1996, 000.
X. Xxxxx, sub art. 1469 bis, primo comma, in Clausole vessatorie e contratti del consumatore, a cura di X. Xxxxxx, I Padova, 1996, 43 che afferma che in tal modo si sarebbe esplicitamente allargata la tutela del consumatore anche alle ipotesi in cui il professionista inserisce in buona fede clausole squilibrate, in quanto il consumatore non deve dare la prova dello stato soggettivo di buona fede del professionista.
(12) Sottolinea correttamente X. Xxxxxxxxxx, op. cit., 159-160, che «da un punto di vista pratico, non è facile tenere distinti i due concetti di signi- ficativo squilibrio e di buona fede, i quali teleologicamente sembrano so- vrapporsi in quanto la buona fede è lo strumento per valutare lo squili- brio, ma quando vi è squilibrio spesso (per non dire sempre) è violata la regola di buona fede: ontologicamente non è perciò semplice separare le due fattispecie.
(13) Trib. Torino 16 aprile 1999, in Giur. it. 2000, 999 con nota di M. To- gliatto, in particolare 1004.
tative. Una più recente sentenza (14) ha invece affer- mato che «malgrado la buona fede» dovesse significare
«nonostante la buona fede», «pur sussistendo la buona fede», e cioè che la buona fede soggettiva non esimesse dalla sanzione legata all’elemento oggettivo del signifi- cativo squilibrio contrattuale, che restava dunque l’ele- mento decisivo della fattispecie. Tale pronuncia ha af- fermato di non poter condividere i tentativi di forzatura del dato letterale, mediante il recupero della buona fede oggettiva, la cui violazione sarebbe stata elevata ad ul- teriore elemento essenziale della fattispecie concorren- te con il significativo squilibrio; tale requisito - si legge - era probabilmente presente nella direttiva comunitaria (come sembra desumersi dalla versione inglese, france- se e tedesca), ma restava il fatto che, nel contesto del- l’art. 1469-bis Codice civile, la locuzione in esame do- vesse significare che la declaratoria di abusività poteva effettuarsi anche in presenza di buona fede e che la buo- na fede non era neppure un criterio per accertare il si- gnificativo squilibrio.
Il Consiglio di Stato, nel citato parere sul Codice del consumo, aveva preso posizione a favore della teoria maggioritaria della buona fede oggettiva e, ritenendo in sostanza l’esistenza di un errore di traduzione, aveva au- spicato la sostituzione della locuzione «malgrado la buo- na fede» con la più corretta espressione «in contrasto con la buona fede», se non addirittura, come ha fatto il legislatore francese, l’eliminazione da tale articolo di ogni riferimento alla buona fede.
Ora, nel testo definitivo del D.Lgs. n. 206/05 all’art. 33, viene invece nuovamente riprodotta la locuzione «mal- grado la buona fede», che non è stata corretta in «con- trariamente alla buona fede».
Leggendo la Relazione al decreto legislativo si può rile- vare che non si tratta di un nuovo errore o di una di- menticanza: si specifica che non si è ritenuto di aderire al parere espresso dal Consiglio di Stato sul testo prov- visorio del decreto, nella parte in cui suggeriva la sosti- tuzione nel testo dell’art. 33 dell’espressione «malgrado la buona fede» con l’espressione «in contrasto con la buona fede», come altresì suggerito dalla più autorevo- le dottrina intervenuta sul punto. Si afferma espressa- mente che tale locuzione viene mantenuta proprio per- ché il testo attuale offre maggior tutela del consumato- re, permettendo di qualificare abusive anche clausole contrattuali che determinano un significativo squili- brio tra diritti e obblighi in danno del consumatore e ciò, nonostante la buona fede soggettiva del contraen- te forte che ha predisposto la clausola, senza richiedere quindi l’accertamento ulteriore, e la relativa prova a carico del consumatore, della violazione delle regole di correttezza.
In realtà, va detto che la soluzione contraria non avrebbe comportato una diminuzione di tutela in capo al consumatore, dal momento che la buona fede ogget- tiva dovrebbe ritenersi un parametro giudiziale per la valutazione della vessatorietà della clausola e non, in-
vece, oggetto di prova specifica da parte del consuma- tore (15).
Sempre in materia di clausole vessatorie, il Codice in commento, modificando l’art. 1469 quinquies Codice ci- vile, prevede all’art. 36 che le clausole di cui sia accerta- ta la vessatorietà sono nulle (16), con la precisazione che si tratta di una nullità di protezione, e che viene dichia- rata unicamente la nullità della clausola, mentre resta valido il resto del contratto.
Nel codice civile all’art. 1469 quinquies era invece previ- sta la sanzione dell’inefficacia, sempre con salvezza del contratto per il resto e con rilevabilità anche d’ufficio dal giudice ma solo a vantaggio del consumatore (17).
Era prevista la sanzione della inefficacia, e non quella della nullità, anche per evitare il rischio dell’applicazio- ne dei principi della nullità parziale di cui all’art. 1419 Codice civile, il rischio cioè che il professionista potesse dedurre che non avrebbe concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto, e che ciò potesse così portare alla nullità dell’intero contratto, in danno del consumatore.
La nullità prevista adesso è caratterizzata invece dalla re- latività (nel senso che non si estende all’intero contrat- to), dalla limitazione della legittimazione ad agire in ca- po al solo consumatore, nonché dalla rilevabilità d’uffi- cio solo nell’interesse del consumatore stesso.
Quanto all’azione esperibile dalle associazioni dei consu- matori, dei professionisti e dalle Camere di Commercio per ottenere l’inibitoria dell’utilizzo o della raccomanda- zione di clausole di cui sia accertata l’abusività, l’art. 37 del Codice del consumo- che sostituisce l’art. 1469 sexies Codice civile, è ora coordinato con la normativa di cui alla Legge n. 281/98 e con gli artt. 137 e ss del decreto in commento.
Nel vigore della pregressa normativa si era posto il pro- blema del rapporto tra art. 1469 sexies e il sopravvenuto art. 5 della Legge n. 281/98: se, cioè, l’art. 1469 sexies Co- dice civile fosse norma speciale non derogata dalla suc- cessiva legge generale, cosicché le associazioni dei con- sumatori senza i requisiti di cui all’art. 5 della Legge n. 281/98 (ma rappresentative in concreto, sulla base dello scopo statutario, dell’attività pregressa e della diffusione) potessero comunque esperire l’azione inibitoria codici- stica o se, invece, l’art. 5 della Legge n. 281/98 fosse nor-
Note:
(14) App. Roma, sez. II, 24 settembre 2002, in questa Rivista, 2003, 113 ss. e in particolare a 119.
(15) Cfr. in tal senso il citato parere del Consiglio di Stato 20 dicembre 2004, n. 11602.
(16) Opinone contraria alla nullità, aveva manifestato X. Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit. L’autrice ha affermato che «converrebbe cambiar registro: uscire cioè dai consueti schemi formali inefficacia-nullità-annullabilità» segna- lando l’opportunità di utilizzare la nozione di irrilevanza giuridica.
(17)Cfr. X. Xxxxx, op. cit., 170 che inquadra la sanzione in un genus di- verso sia dalla nullità che dall’annullabilità, caratterizzato dalla funzione protettiva e da disciplina non assimilabile a nessuna delle due figure tra- dizionali di invalidità.
ma diretta a prevedere parametri selettivi di rappresen- tatività da applicare a tutte le azioni inibitorie esperite dalle associazioni e, quindi, anche all’azione di cui all’art. 1469 sexies Codice civile, e conseguentemente norma volta a colmare la lacuna dell’art. 1469 sexies sull’accer- tamento della rappresentatività (18).
È ora previsto espressamente, all’art. 140, decimo com- ma, del Codice, che solo le associazioni dei consumatori maggiormente rappresentative a livello nazionale di cui all’art. 137 (oltre alle associazioni dei professionisti e al- le Camere di Commercio) possano chiedere che venga inibito l’uso delle condizioni di cui sia accertata l’abusi- vità.
L’art. 37 regola la procedura rinviando, per quanto non previsto, all’art. 140, che prevede altresì la possibilità per le associazioni dei consumatori di attivare la procedura di conciliazione avanti alle Camere di Commercio o agli altri organismi di composizione extragiudiziale delle controversie che soddisfino i principi delle Raccoman- dazioni 98/257/CE e 2001/310/CE.
Va detto che all’art. 141 non solo è prevista, come già nella Legge n. 281/98, la procedura di conciliazione stra- giudiziale delle controversie in materia di consumo, in- tesa come opportunità offerta al consumatore e alle asso- ciazioni di risolvere eventuali liti in modo bonario con l’intervento di un terzo neutrale, ma è adesso specificato al comma quarto che le clausole inserite nei contratti dei
consumatori aventi ad oggetto il ricorso a tali procedure non sono da considerare vessatorie (19).
Xxxxxx Xxxxxx
Note:
(18) La dottrina non è conforme: Nel senso che la Legge n. 281/98 fosse applicabile anche all’inibitoria ex art. 1469 sexies Codice civile: E. Mi- nervini, I contratti dei consumatori e la legge 30 luglio 1998, n. 281, in questa Rivista, 1999, 938; G. De Nova, I contratti dei consumatori e la legge sulle associazioni, in questa Rivista, 1998, 545. Contrario a tale scelta, in quanto avrebbe svuotato di poteri le associazioni attive a livello locale: X. Xxxxx, in Consumatori, Contratti conflittualità, a cura di X. Xxxxx, 66 ss. In giurisprudenza nel senso dell’applicabilità della Legge n. 281/98: App. Roma 24 settembre 2002, cit. con nota, adesiva sul punto, di A.A. De Xxxxx; contra Trib. Palermo 10 gennaio 2000 (inedita). Conferma del primo orientamento si è avuta con l’introduzione del primo comma bis, in attuazione della direttiva 98/27/CE con il D.Lgs. 23 aprile 2001, n. 224, che ha indicato quale ambito di applicazione della Legge n. 281/98 le violazioni di interessi collettivi dei consumatori previste nelle direttive elencate nell’allegato, in cui è compresa la direttiva 93/13/CE.
(19) La questione della vessatorietà o meno della clausola di concilia- zione nei contratti con i consumatori era stata avanzata già nel Libro Verde dell’Unione Europea del 19 aprile 1992. L’Unione delle Came- re di Commercio italiane aveva risposto nel senso che tale clausola non dovesse essere ritenuta vessatoria a norma degli artt.1469 bis ss Codice civile. Nello stesso senso: X. Xxxxx, op.cit., 276. La previsione ora all’interno del codice del consumo che tale clausola non è da con- siderare vessatoria e quindi non crea squilibrio normativo tra consu- matore e professionista ha notevole rilevanza, anche ai fini dell’auspi- cata diffusione dell’istituto della conciliazione extragiudiziale delle controversie.
INDICI
Xxxxx Xxxx | |
Divagazioni sull’attività negoziale della P.A. nella nuova disciplina del procedimento amministrativo ... | 175 |
Xxxxxx Xxxxxxxx | |
Illeciti antitrust e rimedi civili del consumatore ......... | 141 |
Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxxx | |
La prelazione nell’acquisto di «sale cinematografi- che» al vaglio della Corte di Cassazione ..................... | 131 |
Xxxxx Xxxxxxxxx Xxxxx | |
L’applicazione del principio del know your customer rule ai contratti di deposito ed amministrazione titoli | 113 |
Xxxxxxx Xxxxxxx | |
Codice del consumo ed esprit de geometrie .............. | 159 |
Xxxxxx Xxxxxxxxxx | |
Ritenzione della caparra confirmatoria e domanda di risarcimento danni secondo le regole generali ............ | 122 |
ISDACI | |
Una prima lettura del codice del consumo (D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206) ................................................ | 208 |
Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx | |
Contratto di distribuzione e indennità di fine rappor- to nel diritto tedesco ..................................................... | 179 |
Xxxxxxx Xxxxxxx | |
Buona fede e contratti standard: riflessioni sull’impie- tario .......................................................... | 191 |
Xxxxxx X. Xxxxxxx | |
Ricorso ad arbitrato in assenza di clausola arbitrale ... | 203 |
INDICE CRONOLOGICO DEI PROVVEDIMENTI | |
Cassazione civile | |
Cass. 18 settembre 2005, n. 15813 .............................. | 131 |
Cass. 4 marzo 2005, n. 4777 ......................................... | 122 |
Corte d’Appello | |
App. Milano 2 febbraio 2005 ....................................... | 141 |
Tribunale | |
Trib. Napoli 22 marzo 2005, n. 3257 ........................... | 113 |
INDICE ANALITICO | |
Arbitrato | |
Ricorso ad arbitrato in assenza di clausola arbitrale, di Xxxxxx X. Xxxxxxx ........................................................ | 203 |
Assicurazione | |
Illeciti antitrust e rimedi civili del consumatore (App. Milano 2 febbraio 2005), commento di Xxxxxx Xxxxxxxx | 141 |
Buona fede | |
Buona fede e contratti standard: riflessioni sull’impie- |
INDICE DEGLI AUTORI
go della clausola generale nel diritto privato comuni-
go della clausola generale nel diritto privato comuni- tario, di Xxxxxxx Xxxxxxx ................................... | 191 |
Consumatori | |
Codice del consumo ed esprit de géométrie, di Xxxxxxx Xxxxxxx ........................................................ | 159 |
Una prima lettura del codice del consumo (D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206), a cura di ISDACI ................ | 208 |
Contratto di deposito | |
L’applicazione del principio del know your customer rule ai contratti di deposito ed amministrazione titoli (Trib. Napoli 22 marzo 2005, n. 3257), commento di Xxxxx Xxxxxxxxx Xxxxx ................................................. | 113 |
Distibuzione | |
Contratto di distribuzione e indennità di fine rappor- to nel diritto tedesco, di Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx ............... | 179 |
Inadempimento | |
Ritenzione della caparra confirmatoria e domanda di risarcimento danni secondo le regole generali (Xxxx. 4 marzo 2005, n. 4777), commento di Xxxxxx Xxxxxx- xxxx .................................................................................. | 122 |
Pubblica amministrazione | |
Divagazioni sull’attività negoziale della P.A. nella nuova disciplina del procedimento amministrativo, di Xxxxx Xxxx ................................................................. | 175 |
Vendita | |
La prelazione nell’acquisto di «sale cinematografi- che» al vaglio della Corte di Cassazione (Cass. 18 set- tembre 2005, n. 15813), commento di Xxxxxxx Xxxxx- ra Castagnaro .................................................................. | 131 |
INDICE DELLA RASSEGNA DI LEGITTIMITÀ
Contratti in generale
Formazione
6 settembre 2005, n. 17797 129
29 settembre 2005, n. 19024 129
30 settembre 2005, n. 19212 129
Regolamento
13 settembre 2005, n. 18128 130
Invalidità e scioglimento
29 settembre 2005, n. 19024 130
I singoli contratti
Appalto
21 luglio 2005, n. 15283 155
Assicurazione
5 agosto 2005, n. 16582 155
Contratti bancari
28 settembre 2005, n., 18947 155
Locazione
13 luglio 2005, n. 14737 156