INDICE SOMMARIO
Cattedra
RELATORE CORRELATORE
CANDIDATO
Anno Accademico
INDICE SOMMARIO
CAPITOLO I: IL CONTRATTO A TERMINE E LA SOMMINISTRAZIONE A TEMPO DETERMINATO: PRINCIPALI RIFERIMENTI NORMATIVI 1
1.1. La legge n. 230/1962: le rigide eccezioni alla regola della subordinazione a tempo indeterminato. 1
1.2. Il d.lgs. n. 368 del 2001: il recepimento della Direttiva Europea n. 1999/70 7
1.3. Dalla riforma Fornero al Jobs Act: la acausalità diventa regola 19
2. LA SOMMINISTRAZIONE A TEMPO DETERMINATO 30
2.1. La legge n. 196/1997: la prima esperienza di scissione di titolarità del rapporto di lavoro 30
2.2. Il d.lgs. n. 276/2003 : l’applicabilità del d.lgs. n. 368/2001 alla
somministrazione a tempo determinato 35
2.3. L’evoluzione normativa sino al d.lgs. n. 81 del 2015 : la scomparsa dei limiti
temporali di utilizzazione della somministrazione a tempo determinato 39
3. LA LEGGE N. 96 DEL 2018 DI CONVERSIONE DEL D.L. DEL 14 LUGLIO 0000 X. 00: LA CONTRORIFORMA DEL CONTRATTO A TERMINE E DELLA SOMMINISTRAZIONE A TEMPO DETERMINATO IN NOME DELLA DIGNITÀ DEI LAVORATORI 42
CAPITOLO II: IL RUOLO DELLA GIURISPRUDENZA 53
1. EFFETTI DELLA ILLEGITTIMA APPOSIZIONE DEL TERMINE: IL MECCANISMO DI CONVERSIONE DEL CONTRATTO PER NULLITÀ PARZIALE 53
2. Le novità del c. d. Collegato al Lavoro: decadenza e risarcimento
2.1. La nuova disciplina delle decadenze e delle impugnative 66
2.2. Il risarcimento forfettario ed omnicomprensivo in caso di conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato 74
3. REITERAZIONE DEI CONTRATTI DI LAVORO INTERINALE E DI SOMMINISTRAZIONE A Ì’TEMPO DETERMINATO E CONTRATTO IN FRODE ALLA LEGGE 87
CAPITOLO III: LA FLESSIBILITÀ NEGOZIATA 95
1. RAPPORTI TRA FONTI LEGALI E CONTRATTUALI: PRINCIPI GENERALI 95
2. IL RUOLO DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NEI PRINCIPALI INTERVENTI NORMATIVI IN MATERIA DI CONTRATTO A TERMINE E SOMMINISTRAZIONE A TEMPO DETERMINATO 101
2.1. Contratto a termine e autonomia collettiva 102
2.2. Lavoro interinale, somministrazione a tempo determinato e autonomia collettiva 113
3. L’ARTICOLO 8 DELLA LEGGE N. 148 DEL 2011: GLI ACCORDI DI PROSSIMITÀ 119
CONCLUSIONI 139
BIBLIOGRAFIA 146
INTRODUZIONE
La flessibilità del lavoro costituisce un cambiamento importante sul piano strutturale, giuridico e socio-economico del nostro ordinamento, la cui rilevanza è innegabile.
Alla base di questo studio vi è l’analisi delle forme contrattuali flessibili e, in particolare del contratto a termine e della somministrazione a tempo determinato. Tale analisi tratta di entrambi gli istituti da tre prospettive diverse, a ciascuna delle quali corrisponde un capitolo.
Il primo capitolo, suddiviso in tre parti, è una ricostruzione
dell’evoluzione normativa delle forme contrattuali in questione.
In particolare, la prima parte, dedicata al contratto a termine, dopo un breve excursus storico circa le ragioni che hanno comportato la necessità di prevedere una fattispecie contrattuale che derogasse alla regola generale del contratto a tempo indeterminato quale forma “comune” di contratto lavorativo, si sofferma sui principali interventi normativi che hanno interessato il contratto a termine e sulle loro conseguenze. L’attenzione viene posta sul graduale processo di liberalizzazione che ha interessato l’istituto a partire dal 2001 e che sembrava essersi concluso a seguito dell’emanazione del c.d. “Jobs Act” (d.lgs. n. 81/2015) e quindi della possibilità di stipulare contratti a termine c.d. “acausali”.
La seconda parte del primo capitolo si concentra invece sull’evoluzione normativa della somministrazione a tempo determinato : a partire dalla sua innovativa introduzione ad opera della legge TREU del 1997, che per la prima volta introduce una possibilità di scissione della titolarità del rapporto di lavoro, fino ad arrivare, al pari del contratto a termine, al d.lgs. n. 81/2015, il quale ha determinato la scomparsa dei limiti temporali di utilizzazione della somministrazione a tempo determinato, sempre nell’ottica del processo di liberalizzazione sopra menzionato.
Infine, la terza ed ultima parte del primo capitolo ha ad oggetto l’analisi della disciplina introdotta recentemente dal c.d. “Decreto Dignità” (l. n.
96/2018), che ha comportato una radicale inversione di marcia rispetto alla liberalizzazione degli istituti in questione, disciplinandoli con una rigidità che sembra comportare il ritorno alla disciplina di quarant’anni fa.
Il secondo capitolo analizza il contratto a termine e la somministrazione a tempo determinato dal punto di vista del ruolo della giurisprudenza, focalizzando l’attenzione su quegli aspetti delle discipline, quali l’illegittima apposizione del termine ai contratti di lavoro e il conseguente meccanismo di conversione per nullità parziale del contratto, la disciplina delle decadenze e della reiterazione dei contratti a termine e di somministrazione, che hanno comportato anche il susseguirsi di una serie di interventi giurisprudenziali spesso fra di loro contrastanti e di non facile interpretazione. Vengono inoltre parallelamente esaminati alcuni arresti della Corte Costituzionale sia con riferimento al sistema sanzionatorio e di conversione, sia con riferimento alle modificazioni introdotte in materia di impugnazione dei contratti a termine e di risarcimento omnicomprensivo in caso di illegittima apposizione del termine dalla legge n. 183 del 2010.
Il terzo ed ultimo capitolo, analizza il fenomeno della flessibilità del lavoro dal punto di vista dell’autonomia collettiva, quale attore fondamentale dell’ordinamento giuslavoristico italiano. In particolare, dopo una breve introduzione circa i principi generali che regolano i rapporti tra fonti legali e contrattuali del rapporto lavorativo, vengono analizzati i poteri attribuiti, di volta in volta, alla contrattazione collettiva nella disciplina dei contratti a termine e della somministrazione a tempo determinato.
L’ultima parte del terzo capitolo è dedicata invece all’analisi dei c.d. accordi di prossimità, introdotti dall’art. 8 della l. n. 148/2011, i quali, se fino all’introduzione del “Decreto Dignità” occupavano un ruolo residuale fra i diversi poteri riconosciuti alla contrattazione collettiva nella regolazione dei rapporti flessibili, dopo l’entrata in vigore del suddetto decreto, potrebbero rappresentare uno strumento di contrasto all’eccessiva rigidità del nuovo
impianto normativo, che non sembra in grado di rispondere alle esigenze di flessibilità del lavoro.
CAPITOLO I
IL CONTRATTO A TERMINE E LA SOMMINISTRAZIONE A TEMPO DETERMINATO: PRINCIPALI RIFERIMENTI NORMATIVI
1. Il contratto a termine
1.1. La legge n. 230/1962: le rigide eccezioni alla regola della subordinazione a tempo indeterminato.
All’esame della legge 18 aprile 1962 n. 230 va necessariamente anteposto un breve excursus dell’evoluzione storica che la predeterminazione di una durata prestabilita delle obbligazioni scaturenti dal contratto di lavoro ha avuto nel nostro ordinamento giuridico nonché del contesto socio-economico del mondo del lavoro nel cui ambito la legge del 1962 è stata partorita.
Una delle pochissime norme che il codice civile del 1865 dedicava alla materia dei rapporti di lavoro (all’epoca “locazione delle opere”) stabiliva che “nessuno può obbligare la propria opera all'altrui servizio che a tempo o per un determinata impresa”1.
In quel momento storico il divieto di perpetuare a vita un rapporto obbligatorio rappresentava la garanzia più importante nei confronti del pericolo di un asservimento totale della forza lavorativa di un individuo: non doversi impegnare per tutta la vita permetteva a chi lavorava di offrire le proprie energie a chi meglio retribuisse il lavoro evitando di incorrere in un rapporto di tipo
1 Art.1628, pedissequamente inspirato al codice napoleonico del 1804.
feudale che ancora caratterizzava lo schema giuridico della locatio operarum.2
La graduale transizione da una economia di stampo prettamente agricolo- artigianale ad una di stampo capitalistico-industriale, nel cui ambito il datore di lavoro avvertiva l’esigenza di quella che oggi si chiamerebbe fidelizzazione del prestatore al fine di potere compiutamente e pienamente utilizzare il patrimonio delle sue conoscenze specialistiche arricchitesi durante il rapporto, portò ad una sempre più crescente prassi derogatoria attuata mediante contratti sostanzialmente elusivi del divieto.
Tale prassi, però, contrastava a sua volta con il divieto di stipulare i cd. xxxxx xxxxxxxx di cui all’art. 1628 dell’abrogato codice: fu pertanto necessaria una operazione di ortopedia giuridica che, estendendo la previsione dell’art. 1609 in materia di locazioni – in forza della quale ai contraenti di un contratto senza termine finale era permesso di “dare licenza” (rescindere) purché fosse dato un preavviso3 – al contratto di lavoro. In tal modo si eludeva il divieto di cui all’art. 1628 consentendo, nel contempo, al prestatore d’opera di affrancarsi da una situazione di soggezione senza limiti temporali.
L’obbligo di temporaneità dei rapporti si affievolisce definitivamente verso la fine del XIX secolo quando sulla spinta dei mutamenti economici, sociali e scientifici l’ordinamento abbandona la concezione esclusivamente economicistica della locatio operis inquadrando il lavoro come fattore di manifestazione della personalità umana.4
Si assiste così ad una proliferazione di nuove regole contrattuali che limitano l’autonomia delle parti nella determinazione delle condizioni di lavoro al fine di correggere l’asimmetria di potere contrattuale nel momento genetico
2 BARASSI L., Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, ristampa a cura di Napoli M., Xxxxxxx, Milano, 2003.
3 Art. 1609: “se la locazione è fatta senza determinazione di tempo non può alcuna delle parti contraenti dare licenza all’altra senza osservare i termini stabiliti dalla consuetudine dei luoghi”.
4 Scoppia la c.d. questione sociale quale reazione al degrado ed alla povertà sotto la spinta del cristianesimo e del proletariato che portano a nuove regole protettive sugli orari di impiego, il lavoro minorile e delle donne, l’igiene degli ambienti. Sul punto XXXXXXXXX VIGORITA L. Subordinazione e diritto del lavoro. Problemi storico-critici, Napoli, 1967, pag. 105 e ss.
del rapporto.
Si radica nel contempo la consapevolezza che ben diversa è la situazione di due soggetti che regolamentano contrattualmente i propri interessi partendo da condizioni di libertà ed uguaglianza formale da quella di chi mette a disposizione di altri la propria energia lavorativa : nasce così il lavoratore a tempo indeterminato che in quanto assoggettato al potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro necessita di maggiori tutele.5
Questa graduale normalizzazione dei rapporti a tempo indeterminato si tramuta, all’inizio del XX secolo in una preferenza del Legislatore verso tale tipologia contrattuale. In occasione del riconoscimento legislativo del diritto di licenziamento degli impiegati del settore privato assunti sine die e della speculare facoltà di disdetta a favore di questi ultimi, il Decreto Luogotenenziale del 2 settembre 1917, n. 1448, sancisce l'applicabilità delle disposizioni in esso contenute anche ai contratti di impiego a tempo determinato, “qualora l'aggiunzione del termine non risulti giustificata dalla specialità del contratto stesso ed apparisca invece fatta per eludere le disposizioni relative al rapporto d'impiego”.6
Si tratta di un passaggio fondamentale nella ricostruzione della relazione tra durata determinata ed indeterminata del contratto di lavoro poiché l'apposizione del termine costituisce ora una deroga rispetto alla forma comune di assunzione senza fissazione di durata, e deve essere giustificata in base alla peculiare natura della prestazione lavorativa.
La norma è inizialmente inserita nell'art. 1, comma secondo, del D.lgs. 9 febbraio 1919, n. 112, per essere poi trasfusa nel capoverso dell'art. 1 della legge sull'impiego privato (R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825), subito dopo la regola secondo cui il contratto impiegatizio “è, normalmente, a tempo indeterminato”.
La nozione di specialità del contratto era certamente vaga ponendo
5 XXXXXXXXX X., La tutela del contraente più debole nel diritto del lavoro, Cedam, Padova, 1965, pag. 41 e ss.
6 Art 15 secondo comma Decreto Luogotenenziale 2 settembre 1917 n. 1448, Gazzetta Ufficiale
Regno d’Italia su Gazzetta Xxxxxxxxx.xx
all’epoca una serie antinomie interpretative tra chi sosteneva che tale specialità si riferisse unicamente al carattere oggettivamente precario dell’attività svolta dal datore e chi, invece sosteneva che la specialità non dovesse riferirsi al dato della durata dell’impresa ma tenere invece conto delle peculiarità intrinseche del rapporto spostando così il concetto di specialità sulla relazione tra prestazione lavorativa ed esigenze tecnico-organizzative dell’impresa.
Il requisito della specialità con tutta la sua genericità viene riprodotto dal codice del 1942 che all’art. 2097 stabiliva una presunzione legale assoluta di indeterminatezza salvo che l’apposizione di un termine fosse giustificata dalla specialità del rapporto o da atto scritto.7
La formula disgiuntiva pose innanzitutto forti interrogativi sull’alternatività o meno dei due requisiti: c’era chi sosteneva che il dato letterale era inequivocabile escludendo la necessità di cumulo tra il requisito sostanziale e quello formale e chi invece affermava che in presenza di un atto scritto privo di motivazione sulla specialità sarebbe stata necessaria la prova dell’intento fraudolento della stipulazione: in entrambi i casi la norma codicistica – priva di esplicite sanzioni in caso di violazione - si mostrava ancora fortemente inadeguata ad assicurare al prestatore una effettiva tutela da un utilizzo improprio dell’apposizione del termine.
Tali limiti emersero evidenti nel dopoguerra quando, con la ripresa del lavoro industriale, si diffusero contratti a tempo determinato unicamente finalizzati ad eludere gli oneri economici derivanti dall’anzianità di servizio ed i vincoli che nel frattempo era stati introdotti per il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Agli inizi degli anni 60’ in effetti erano ancora amplissime le forme più spinte ed egoistiche di utilizzo della forza lavoro attuate attraverso l’uso
7 Art. 2097 cod. civ. “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato se il termine non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto. In quest’ultimo caso l’apposizione del termine è priva di effetto se è fatta per eludere le disposizioni che riguardano il contratto a tempo indeterminato. Se la prestazione continua dopo la scadenza del termine e non risulta una contraria volontà delle parti il contratto si considera a tempo indeterminato”.
disinvolto di strumenti contrattuali utilizzati senza riguardo alcuno per le più elementari garanzie o aspettative dei lavoratori.8
Nasce così la legge 23 ottobre 1960 x.xx 1369 che vietava l’appalto di mere prestazioni lavorative e viene introdotto nel 1963 il divieto di licenziamento per causa di matrimonio (legge x.xx 7 del 09.01.1963) che rappresentava una vera e propria fuga in avanti nell’ambito di una legislazione che ancora consentiva il
c.d. recesso libero.
Ed è in questo contesto che viene emanata la legge n. 230 del 19629 che proponeva radicali novità relativamente alla durata del sinallagma contrattuale in materia di rapporto di lavoro subordinato.
La disciplina introdotta nel 1962, abrogando l’art. 2097 del codice civile, affermava senza nessun tentennamento (art. 1) che “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato” ponendo quali eccezioni a tale regola generale unicamente e tassativamente quelle “appresso indicate”.
Si trattava di ipotesi legate alla natura stagionale dell’attività (lettera a), alla sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto con l’obbligo di indicazione nominativa del lavoratore sostituito e della causa della sostituzione (punto b), ad assunzioni effettuate per l’esecuzione di un’opera o di una servizio definiti, di durata predeterminata e caratterizzati da straordinarietà ed occasionalità rispetto all’ordinaria attività dell’impresa (punto c), ad assunzioni necessarie per lavorazioni richiedenti maestranze con specializzazioni diverse da quelle ‘normalmente’ impiegate e da adibire, senza continuità, a fasi sostanzialmente estranee alla ciclo produttivo (lettera d), ai lavoratori dello spettacolo per specifici programmi (lettera e), alla assunzione effettuate da aziende del trasporto aereo per determinate esigenze (lettera f).
La possibilità di apporre un termine ricorrendo una delle tassative ed eccezionali ipotesi summenzionate era accompagnate da ulteriori rigidità relative
8 MONTUSCHI L., Il contratto di lavoro a termine: un modello da superare, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1978, III.
9 In G.U. n.125 del 17 maggio 1962
alla forma ( art. 1 comma 3) ad una limitata possibilità – sotto il profilo della durata e della ragioni – di proroga (art. 2 comma 1 ) alla espressa previsione di trasformazione a tempo indeterminato del contratto in caso di superamento del termine inizialmente apposto o di quello prorogato (art. 2 comma 2) con onere probatorio (art. 3) posto a carico del datore di lavoro sia con riguardo alla esistenza delle ragioni (ipotesi di cui all’art. 1) legittimanti la stipula del contratto sia di quelle legittimanti la proroga.
Sotto il profilo applicativo sino al 1970 l’impianto normativo della legge 230 resta piuttosto defilato: in effetti la Giurisprudenza dell’epoca se ne occupò per aspetti marginali quali la compatibilità del patto di prova con il termine10, la necessità o meno della forma scritta ad substantiam11 , la applicabilità della legge al rapporto di apprendistato: 12 restava invece in secondo piano il problema interpretativo dell’art. 1 ed in particolare della portata delle ipotesi di cui alle lettere b) e c) che sarà invece al centro di un aspro e violento dibattito nel ventennio successivo alla entrata in vigore della legge 300/70.
Con l’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori, infatti, si irrobustisce in maniera significativa la posizione del lavoratore in azienda e si realizza una parallela forte delimitazione dei poteri di controllo del datore di lavoro: ciò avviene principalmente attraverso la procedimentalizzazione del potere disciplinare (art. 7), la compressione del potere organizzativo (art. 13) e soprattutto, attraverso la introduzione della cd. tutela reale (art. 18) in caso di licenziamento. In tale contesto la possibilità di fare ricorso al contratto a tempo determinato è considerata con assoluto disfavore applicando la formula del “garantismo mediante la rigidità”13: in altri termini era necessario non consentire al datore di lavoro di usare la legge 230 per recuperare all’esterno quella
10 Cass. 12 Marzo 1964 n.532 in Monit. Giur Lav. 1964, 41.
11 Pretura Taranto 3 aprile 1968 citata in Xxxxxxxx X., in Il contratto di lavoro a tempo determinato, p.121.
12 Pret. Siracusa 12 Febbraio 1968 in Orient. Giur. Lav., 1964, p. 1641.
13 Relazione sulla politica del lavoro in Industria metalmeccanica innovazione e crescita
Convegno Firenze 1977.
flessibilità ormai imbrigliata dal legalismo dello Statuto e comunque messa in
discussione ogni giorno dal sindacato all’interno della fabbrica.
Sino agli inizi degli anni 80’ tale approccio ha prodotto interventi Giurisprudenziali – che in alcuni arresti hanno addirittura equiparato il contratto a termine ad un licenziamento programmato ante-tempus 14 -di tendenza assolutamente restrittiva in ordine alla liceità di apposizione del termine al contratto di lavoro ingenerando in tal maniera nel mondo imprenditoriale una sempre crescente insofferenza nei confronti di un impianto normativo che, giorno dopo giorno, appariva sempre meno adeguato ai vorticosi mutamenti in atto nel mondo del lavoro: per tali ragioni la legge 230 “intrisa di rigidità in chiave anti fraudolenta viene trascinata senza complimenti sul banco degli imputati” in quanto “la sua storica funzione (legata ad una età felice) è superata e, dunque è tempo di allargare le maglie per consentire il recupero di sostanziose aree di occupazione marginale”15.
Nonostante ciò le norme del 1962, salvo poche modifiche che non ne hanno intaccato il nucleo essenziale, hanno avuto una vigenza quasi quarantennale sino a che il D.L.G. 368 del 2001 ne ha sancito l’abrogazione.
1.2. Il d.lgs. n. 368 del 2001: il recepimento della Direttiva Europea n. 1999/70
La crisi economica -iniziata già negli anni 70’- determinava una sensibile trasformazione degli assetti delle imprese accompagnata da una graduale ma profonda contrazione dell’offerta di lavoro ripercuotendosi nel contempo anche sul complessivo sistema di relazioni industriali non più imperniato sulla stabilità
14 Cass.4 settembre 1981 n. 5046, in Foro It., 1981, c. 2670.
15MONTUSCHI L., Questioni vecchie e nuove in tema di contratto a termine, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1983, n. 1, pag. 59 e ss.
e continuità dell’occupazione: viene così ad affacciarsi una nuova concezione dei rapporti ‘temporanei’ intesi quale strumento utile di incentivo all’occupazione.16
Sotto il profilo della produzione normativa tali istanze venivano, però, recepite attraverso provvedimenti piuttosto frammentati: una delle prime norme è quella contenuta nella legge 285 del 1977 che promuoveva l’assunzione di giovani di età compresa tra i 15 e 22 anni (elevati a 24 per le donne e i diplomati ed a 29 per i laureati) prevedendo all’art. 7 un contratto di formazione stipulabile per 12 mesi; a questa fece seguito il decreto legge 351/78 che elevava il limite temporale a 24 mesi ed ampliava la platea degli interessati istituendo nel contempo un nuovo e diverso tipo di contratto a termine di durata semestrale rivolto ai giovani iscritti nelle liste speciali di collocamento ed impegnati in attività formative.
Parallelamente il Legislatore cercava di sottrarre il contratto a termine dalle rigidità della legge n. 230/62 conferendo ai contratti collettivi stipulati dai sindacati nazionali o locali aderenti alle organizzazioni maggiormente rappresentative il potere di integrare le tassative ipotesi di cui all’art. 1 della norma del 1962 individuando diverse causali anche non omogenee a quelle previste dalla legge: in tale direzione l’art. 23 della Legge 28 febbraio 1987 x.xx 56 prevedeva che “l’apposizione di un termine al contratto di lavoro oltre che nelle ipotesi di cui all’art. 1 della legge 18 Aprile 1962 x.xx 230 e successive modifiche ed integrazioni nonché all’art. 8 bis del D.L. 29 Gennaio 1983 convertito con modificazioni dalla legge 23 marzo 1983 x.xx 79 (riguardante i lavoratori stagionali n.d.r.) è consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale”.
Tale possibilità fu, all’epoca, considerata in dottrina una apertura di
credito di grande xxxxxxx00 ed a livello interpretativo indusse i Giudici a ritenere
16 XXXXXXX A., Il contratto a termine per la formazione dei giovani, in Riv. It.Dir. Lav., 1994,
n. 3, pag.485 e ss.
17 MONTUSCHI L. La riforma del contrato a termine (un caso di bricolage normativo), in Arg.
Dir. Lav., 1997, n. 1, pag. 29.
che conferendo all’autonomia sindacale “poteri di indubbia e penetrante incisività” la norma potesse considerarsi una vera e propria delega in bianco.18
Ma l’occasione per l’auspicato riordino complessivo della disciplina del contratto a termine si ebbe in occasione del recepimento nel nostro ordinamento della Direttiva del Consiglio x.xx 99/70CE del 28 Giugno 1999 relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso, il 18 marzo 1999, dall'Unice (Unione delle confederazioni delle industrie della Comunità europea), dal Ceep (Centro europeo dell'impresa a partecipazione pubblica) e dalla Ces (Confederazione europea dei sindacati) nell'ambito della procedura indicata dal nuovo art. 139 TCE. 19
Nell’accordo all'inizio del preambolo “le parti firmatarie riconoscono che i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori” e che essi - prosegue il 6° considerando – “contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento”.
D'altra parte si ribadiva che la volontà delle parti sociali è quella di “stabilire un quadro generale che garantisca la parità di trattamento ai lavoratori a tempo determinato, proteggendoli dalle discriminazioni, e un uso dei contratti di lavoro a tempo determinato accettabile sia per i datori di lavoro che per i lavoratori”.
Principi, questi, ulteriormente esplicitati nella clausola 1 dell'accordo medesimo che, definendo gli obiettivi perseguiti dall'intesa de qua, fa riferimento alla necessità di “migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione” e di “creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”.
18 In tali termini Cass. Sez. Un. 2 marzo 2006 n.4588 n Lav. Giur 2006 n. 8 pag. 781 e ss.
19 Le 8 clausole dell’accordo erano precedute da un “Preambolo” e da 12 “Considerazioni Generali”
Si riconosceva ancora che il contratto a termine costituiva un utile incentivo alla flessibilità in entrata, fermo restando che “l'utilizzazione di contratti a tempo determinato basata su ragioni oggettive è un modo di prevenire gli abusi” (7° considerando).
Le Parti Sociali nella fase di produzione normativa anziché avventurarsi sull'impervio terreno dell'analitica indicazione dei casi in cui era consentita la stipulazione di un contratto a termine produssero un vero e proprio accordo- cornice, volto a stabilire, come si legge ancora nel preambolo, “i principi generali e i requisiti minimi relativi al lavoro a tempo determinato riconoscendo che la loro applicazione dettagliata deve tener conto delle realtà specifiche delle situazioni nazionali, settoriali e stagionali”.
La trasposizione della direttiva nel nostro ordinamento non fu di semplice attuazione.
Il termine ultimo per il suo recepimento da parte degli Stati membri era stato fissato al 10 luglio 2001, fatta salva la possibilità di fruire di un periodo supplementare non superiore ad un anno, qualora ciò si fosse reso necessario in considerazione di difficoltà particolari o dell'attuazione mediante contratto collettivo, ed in ogni caso previa consultazione delle parti sociali.
Il 24 luglio 2000 nell'ambito del Comitato consultivo permanente sulla legislazione del lavoro fu avviato il negoziato fra le contrapposte organizzazioni sindacali per il recepimento della direttiva in questione che sfociò in un'intesa separata, sottoscritta da alcune importanti organizzazioni imprenditoriali (tra cui Confindustria) e, sul versante dei lavoratori, da Cisl, Uil, Cisal, Ugl: non fu firmato, invece, dalla Cgil, che motivò la sua opposizione in relazione al ridimensionamento di ruolo subito dalla contrattazione collettiva nelle previsioni dell'intesa20 .
Il testo dell'accordo, definitivamente perfezionato il 4 maggio 2001, è quello poi recepito dal Governo con il D.lgs. n. 368/2001 21, emanato sulla base dell'art. 1 L. 29 dicembre 2000, n. 422 (Legge Comunitaria 2000), con cui il Parlamento aveva delegato il potere esecutivo ad emanare, entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge suddetta, i decreti legislativi occorrenti per dare attuazione alle direttive indicate negli elenchi di cui agli Allegati A e B, tra cui figurava, appunto, anche la 1999/70/CE.
Il decreto legislativo in questione titolato “Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES” era, nella sua formulazione originaria, composto da 12 articoli.
L’art. 11 abrogava “la legge 18 aprile 1962, n. 230, e successive
modificazioni, l'articolo 8-bis della legge 25 marzo 1983, n. 79, l'articolo 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, nonché tutte le disposizioni di legge che sono comunque incompatibili e non sono espressamente richiamate nel presente decreto legislativo”.
L’art. 1 individuava la causale del nuovo contratto a termine consentendo “l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, prevedendo (comma 2) la sanzione speciale della riqualificazione in contratto a tempo indeterminato sin dal primo rapporto a termine ma solo per carenza di requisiti formali, cioè per mancanza di forma scritta o per mancata specificazione delle “ragioni” tecniche, organizzative, produttive o sostitutive di cui al comma 1.
L’art. 3 enumerava precisi casi di divieto di ricorso al contratto a tempo determinato la cui stipula che non era ammessa “a) per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero; b) salva diversa disposizione degli accordi sindacali, presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi degli articoli 4 e 24
21 In G.U. n. 235 del 9 ottobre 2001
della legge 23 luglio 1991, n. 223, che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato, salvo che tale contratto sia concluso per provvedere a sostituzione di lavoratori assenti, ovvero sia concluso ai sensi dell'articolo 8, comma 2, della legge 23 luglio 1991, n. 223, ovvero abbia una durata iniziale non superiore a tre mesi; c) presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell'orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a termine;
d) da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell'articolo 4 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni.”
L’art. 4 apportava modifiche al regime della proroga del contratto iniziale rispetto a quanto previsto dall’ abrogato art. 2, comma 1, della l. n. 230/1962, regolamentandola come unica ipotesi (e per un solo rinnovo) di contratti successivi e continuativi legittimi, senza legarne la durata a quella del primo contratto, senza, peraltro, indicare la sanzione in caso di violazione della disposizione e ponendo l’onere della prova della sussistenza delle ragioni oggettive per la proroga a carico del datore di lavoro.
L’art. 5 si occupava delle ipotesi sanzionatorie in caso di successione di contratti e di prosecuzione della prestazione oltre la scadenza del termine e l’art.
6 fissava il principio di non discriminazione dei lavoratori con contratto a termine rispetto a quelli occupati a tempo indeterminato con riguardo ad una serie di istituti quali ferie, gratifica natalizia, tredicesima mensilità trattamento di fine rapporto “e ogni altro trattamento in atto nell’impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili”.
Molto contrastanti furono le reazioni all’entrata in vigore del menzionato
decreto.
Da una parte si esprimeva soddisfazione per una norma che veniva considerata un consistente passo in avanti verso la auspicata liberalizzazione dei
contratti a termine22, dall’altra si esprimevano forti dubbi sia con riguardo alla coerenza della norma interna con la Direttiva Europea recepita23 sia con riguardo alla tecnica legislativa utilizzata che, capovolgendo l’impianto della l. 230 del 1962, all’art. 1 aveva utilizzato quella della cd. norma generale: in effetti si trattava di una vera e propria riregolazione della materia fondata appunto su di un mutamento di tecnica legislativa24, che sostituiva al precedente modello basato su tipizzazioni di fonte legale e collettiva quello incentrato su di una norma permissiva generale.25
L'introduzione di questa tecnica normativa anche in materia di lavoro a termine ripropose gli interrogativi di carattere generale sulla opportunità e sulla congruità dell'utilizzazione della norma generale rispetto alle esigenze di flessibilizzazione della disciplina del rapporto di lavoro, nel suo duplice fronte del mercato del lavoro esterno (c.d. flessibilità del lavoro in entrata e in uscita) e di quello interno (flessibilità dell'uso della forza lavoro occupata )26.
La rilevanza del problema era data dal fatto che diversi importanti aspetti del rapporto di lavoro, la cui disciplina influisce in modo considerevole sul quantum di flessibilità del rapporto stesso, sono regolati da norme solitamente qualificabili appunto come clausole generali, o norme generali o elastiche: basti pensare alla giusta causa o al giustificato motivo di licenziamento, alle ragioni tecniche, organizzative e produttive per il trasferimento, all'equivalenza per la mobilità orizzontale.
Per le norme generali si rende necessaria un'opera molto accentuata di concretizzazione della norma stessa da parte del Giudice, rivolta il più delle volte
22 Bianchi D’Urso F.-Vidiri G., Il nuovo contratto a termine nella stagione della flessibilità,
in MGL, 2002, p. 120.
23 CENTOFANTI S., Peculiarità genetiche e profili modificativi del nuovo decreto legislativo sul lavoro a tempo determinato, in LG, 2001, pag. 914 e ss.
24 XXXXXXX G., Fonti autonome e fonti eteronome nella legislazione della flessibilità, in Dir.
Rel. In., 2001, pag.667.
25 GHERA E., Diritto del lavoro, Xxxxxxx, Bari, 2002, pag. 617.
26 GHERA E., La flessibilità variazioni sul tema,in RGL, 1996, I, pag. 317.
a "modelli di comportamento e a stregue di valutazione sociali"27 che lasciano egualmente ampio margine di soggettivismo nella decisione del caso concreto. Tutto ciò comporta, tra l'altro, l'implicito potenziamento del ruolo giudiziario28, a cui può accompagnarsi un uso ideologico della norma generale da parte della Magistratura29, favorito dalla convinzione che tale tipo di norma, al pari della clausola generale propriamente detta, contenga un'implicita delega al giudice affinché "attinga valori fuori del territorio del diritto positivo"30, tanto da indurre alcuni a ritenere un simile uso incontrollato delle clausole generali addirittura un male peggiore rispetto all'applicazione rigorosa e non flessibile della norma legale tassativa e specifica31.
Pertanto – secondo tale pensiero - la norma generale, in ragione di questa indeterminatezza che ne costituisce connotato intrinseco, è indubbiamente fonte di un elevato tasso di incertezza in ordine a quel determinato aspetto del rapporto da essa regolato, sia esso il licenziamento, la modificazione delle mansioni, il trasferimento e in conseguenza della previsione di cui all’art. 1 del DLG. 368/2001, del contratto a termine.
Il D.L.G. 368 del 2001 fu oggetto di diverse modificazioni tra cui quelle più rilevanti furono introdotte dal decreto legge 25 Giugno 2008 n. 112 convertito con modificazioni nella legge 6 Agosto 2008 n. 133 il cui art. 21 (Modifiche alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato) che modificava l'articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, aggiungendo dopo le parole "tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo" la locuzione " anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro".
27 MENGONI X., Spunti per una teoria sulle clausole generali,in Riv. Crit. Dir. Pr., 1986, pag. 9 e ss.
28 GIUGNI G., Giuridificazione e deregolazione nel diritto del lavoro italiano, in Giorn .Dir.
Lav. Rel. Ind., 1986, pag. 366 e ss..
29 Ferrajoli L., Magistratura democratica e l’esercizio alternativo della funzione giudiziaria
in Barcellona P. L’uso alternativo del diritto I, Roma-Bari, 1973, I.
30 XXXXXXXX P., Le clausole generali: dalle codificazioni moderne alle prassi giurisprudenziali in Clausole e principi generali nell’argomentazione giurisprudenziale degli anni novanta (a cura di) Cabella Pisu L. e Nanni L., Xxxxx, Padova, 1998, pag. 30.
31 PERSIANI M., Diritto del Lavoro e razionalità, in A.D.L, 1995, n.1, pag. 34 e ss.
In tal modo il Legislatore espungeva definitivamente ed espressamente dalle causali legittimanti l’apposizione del termine al contratto di lavoro il requisito della straordinarietà riferendo le esigenze legittimanti tale apposizione alla ordinaria attività dell’impresa.
Il comma 1 bis dell’art. 21 della stessa legge n. 133 inseriva dopo l’art. 4 del Decreto legislativo n. 368 l’art. 4 bis (definito disposizione transitoria concernente l'indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine) che con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, del decreto legislativo
368 imponeva al datore di lavoro unicamente di risarcire il prestatore di lavoro con un' indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 escludendo ogni ipotesi di conversione in un rapporto a tempo indeterminato.
Le ragioni che indussero il Legislatore ad emanare tale norma transitoria, finalizzata ad introdurre in caso di illegittima apposizione del termine o di una sua illegittima proroga una tutela meramente indennitaria, sono da ricercare, come si evince abbastanza chiaramente anche dai lavori parlamentari, in esigenze di natura particolaristica legate alla necessità di salvaguardare Poste Italiane
s.p.a. da un vastissimo contenzioso in corso relativamente alle richieste di conversione a tempo indeterminato delle migliaia di contratti a termine in corso.
Immediatamente furono sollevati seri dubbi di costituzionalità della norma che appariva lesiva dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza assoggettando ad un diverso trattamento normativo identici rapporti di lavoro esclusivamente in relazione alla pendenza o meno di una controversia ed affidando dunque tale divaricazione ad un elemento del tutto casuale quale il momento di instaurazione della lite.32
32 VALLEBONA A., Xxxxxx a termine: incostituzionalità della riduzione di tutele per i soli giudizi in corso, in MGL, 2008, pag. 259.
Ed in effetti tali dubbi si rivelarono fondati in quanto la Corte Costituzionale, investita da numerosissime ordinanze di rimessione, con sentenza n.214 del 14 Luglio 200933 espunse dal nostro ordinamento l'art. 4-bis, dichiarandone l'illegittimità costituzionale per contrasto con l'art. 3 Cost., attesa l'ingiustificata disparità di trattamento che esso realizza tra situazioni eguali.
In questo scenario da un lato si continuava sempre più a ricercare un modello contrattuale che seppure non assimilabile tout court a quello a tempo indeterminato, rispondesse in maniera maggiormente concreta alle esigenze di promozione dell’occupazione nell’ambito dei continui mutamenti dello scenario economico e della crescente crisi dell’occupazione soprattutto giovanile, dall’altro si continuava a manifestare invece l’esigenza di porre precisi limiti ad una utilizzazione indiscriminata del contratto a termine idonei a prevenire degli abusi attuati ( o meglio attuabili) attraverso la eccessiva reiterazione degli stessi con il medesimo lavoratore.
Relativamente a tale secondo profilo assume particolare rilievo il Protocollo del 23 Luglio 2007 sottoscritto dal Governo con le Parti Sociali.34
Nel 2007 si aprirono una serie di tavoli negoziali aventi ad oggetto l’introduzione di una serie di misure relative al welfare, alle pensioni e ad una riforma del mercato del lavoro tra cui quella del contratto a termine nel dichiarato intento di diffondere il lavoro stabile e ad arginare il fenomeno della eccessiva reiterazione dei contratti a termine relativamente al quale al paragrafo 4 (Mercato del Lavoro) il Governo premettendo che “ la direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro CES UNICE e CEP sul lavoro a tempo determinato da una parte indica il contratto di lavoro a tempo determinato come la forma comune dei rapporti di lavoro e, dall’altra, chiede che vengano prevenuti gli abusi derivanti dalla successione di contratti o rapporti a tempo determinato” esprimeva la propria volontà di “ intervenire con alcuni correttivi su questo specifico aspetto della disciplina vigente” prevedendo che “qualora a seguito di
33 In Giur. Cost. 2009, 4, 2466.
successione di contratti per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia superato 36 mesi comprensivi di proroghe e rinnovi ogni eventuale successivo contratto a termine tra gli stessi soggetti dovrà essere stipulato presso la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio con l’assistenza di un rappresentante dell’organizzazione cui il lavoratore conferisca sia iscritto o conferisca mandato. In caso di mancato rispetto della procedura indicata il nuovo contratto si considera a tempo indeterminato”.
Con l’art. 1 comma 40 della legge del 24 dicembre 2007, n. 24735 – titolata Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l'equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale- il Governo formalizzava in un atto normativo le intese raggiunte con il Protocollo sul contratto a termine inserendo all’art. 5 del decreto legislativo 368 del 2001 il comma 4- bis il quale prevedeva che “qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato ai sensi del comma 2. In deroga a quanto disposto dal primo periodo del presente comma, un ulteriore successivo contratto a termine fra gli stessi soggetti può essere stipulato per una sola volta, a condizione che la stipula avvenga presso la direzione provinciale del lavoro competente per territorio e con l'assistenza di un rappresentante di una delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale cui il lavoratore sia iscritto o conferisca mandato”.
Il limite di 36 mesi era comprensivo di rinnovi e proroghe indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l’altro: la formulazione letterale della norma peraltro non risultava sufficientemente chiara
35 G.U. 29 dicembre 2007 n.301
riguardo le eventuali interruzioni ingenerando il dubbio che le stesse dovessero essere computate nel limite temporale. In realtà il riferimento dell’art. 4-bis ai rapporti intercorsi tra lo stesso datore e lo stesso lavoratore ed il riferimento alle mansioni svolte inducono a ritenere che il computo dei 36 mesi andasse effettuato con esclusione dei periodi di assenza di prestazione.
Altro problema interpretativo era sorto relativamente alla applicabilità del limite temporale al primo ed unico contratto a termine poi non oggetto di alcuna proroga o rinnovo.
Si sosteneva, infatti, che ammettere la possibilità di stipulare un primo contratto di durata superiore ai 36 mesi sarebbe stato in contrasto con l’intenzione del Legislatore di stabilire comunque un limite massimo di durata concedendo ad esiti paradossali tra cui la possibilità di stipulare un contratto iniziale superiore ai 36 mesi e poi di prorogarlo in deroga dinanzi la Direzione provinciale del lavoro eludendo in maniera surrettizia il vincolo temporale posto dalla legge.36
A tale tesi si contrapponeva quella secondo cui una interpretazione letterale della norma confermava che l’introduzione da parte dell’art. 1 comma 40 del comma 4-bis nel corpo dell’art. 5 del decreto legislativo aveva ad oggetto unicamente la successione dei contratti a termine coerentemente con la previsione del Protocollo del 2007 cui la norma ha voluto dare attuazione.37
Come vedremo tale contrasto interpretativo è stato successivamente risolto attraverso una specifica indicazione normativa contenuta nel decreto-legge x.xx 34 del 2014 convertito nella legge 16 maggio 2014 x.xx 78 (cd. ‘riforma Poletti’). In ogni caso l’esistenza di un limite temporale di durata del/i contratti a termine introdotto dalla legge 247 del 2007 resterà un punto fermo della disciplina di tale tipologia contrattuale sopravvivendo anche alla abrogazione
della legge 247/2007.
36 SPEZIALE V., La riforma del contratto a termine dopo la legge 247/2007, in Riv. It. Dir. Lav.,
2008, 2 pag. 181.
37 XXXXX G., Le modifiche alla disciplina del contratto a tempo determinato, in La nuova disciplina del welfare (a cura di) Persiani M.- Xxxxx G., Cedam, Padova, 2008, pag. 93
1.3. Dalla riforma Fornero al Jobs Act: la acausalità diventa regola
La riforma del mercato del lavoro del 2012, pur riaffermando la centralità del contratto a tempo indeterminato quale “forma comune di rapporto di lavoro”38, semplificava notevolmente l'instaurazione dei rapporti a termine.
La legge 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. “Monti-Fornero”)39, introduceva un nuovo comma 1bis di seguito all'art. 1 del Decreto n. 368, prevedendo una fattispecie di lavoro a tempo determinato c.d. acausale svincolata dall'esistenza di motivazioni obiettive relativamente al primo rapporto di lavoro tra datore e lavoratore 40 .
Un'ulteriore apertura nei confronti del lavoro a termine era data dall'ampliamento dei periodi c.d. cuscinetto entro cui la protrazione temporale della prestazione oltre la scadenza del termine non produceva la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro41.
Il favor così esplicito nei confronti del lavoro a termine veniva parzialmente compensato dall'aumento (pari a l'1,4%) del suo costo per le aziende e dalla riforma della disciplina dei rinnovi, caratterizzata dall'innalzamento degli intervalli temporali tra contratti successivi al fine di scoraggiare l'uso ripetuto dei rapporti temporanei42.
Il riferimento al primo rapporto a tempo determinato è stato oggetto di diverse interpretazioni: secondo alcuni l'assunzione con il contratto acausale sarebbe impedita da una qualsiasi precedente esperienza lavorativa presso lo stesso datore di lavoro, tenuto conto che tale contratto è diretto “ad una migliore
38 art. 1 comma 01 del DLG 368/2001 aggiunto dalla legge 92/2012
39 G.U. 3 Luglio 2012 n. 92
40 Il comma 1-bis introdotto dall’art. 1 comma 9 lettera a) della legge 28 giugno 2012 n. 92 esonerava dall’obbligo di indicazione e specificazione dei motivi di ricorso al contratto a termine nell’ipotesi di primo rapporto di durata non superiore a 12 mesi concluso con un datore di lavoro per lo svolgimento di qualsiasi mansione.
41 Art. 1 comma 9 legge cit.
42 elevato a 60 giorni (anziché 10) per contratti inferiori a 6 mesi ed a 90 giorni (anziché 20) per contratti superiori a sei mesi
verifica delle attitudini e capacità professionali del lavoratore in relazione all'inserimento in uno specifico contesto lavorativo” 43 secondo altri, invece, seguendo un'interpretazione strettamente letterale il ricorso ai 12 mesi acausali sarebbe stata impedita solo di un antecedente rapporto di lavoro a termine44.
L'obiettivo perseguito dal legislatore del 2012 sembra chiaramente essere quello di favorire il più possibile la crescita dell'occupazione, semplificando al massimo la fase dell'instaurazione del rapporto di lavoro e prolungando quella della prova attraverso una tipologia negoziale contenutisticamente libera, prodromica al consolidamento definitivo della relazione lavorativa: lo strumento utilizzato per raggiungere l’obiettivo è quello della sterilizzazione dei motivi giustificativi dell'apposizione del termine, tecnica normativa che prima del 2012 era stata impiegata solamente per fattispecie particolari, finalizzate ad incentivare il reinserimento nel mercato del lavoro di soggetti deboli.
Certo è che una tale impostazione poteva aumentare il rischio di una sovrapposizione rispetto alla forma comune di rapporto di lavoro (il tempo indeterminato) qualora la clausola di durata fosse utilizzata in circostanza in cui vi fosse la necessità di assumere una risorsa a tempo indeterminato nonché provocare un indebolimento della posizione del lavoratore, posto che non era possibile più sindacare le ragioni sottese alla stipulazione del contratto a termine e non esisteva alcuna protezione dell'aspettativa al consolidamento del rapporto precario 45 : ma si tratta di posizioni che scontano un ricorrente errore di prospettiva tra bontà della norma e possibile abuso della stessa.
Ancor meno condivisibile è l'opinione secondo cui l'acausalità del primo contratto di lavoro a termine avrebbe favorito l'abuso dell'istituto, in contrasto con gli obiettivi comunitari in quanto, sin dalle primissime pronunce in materia, la Corte di Giustizia ha circoscritto l'obbligo di giustificazione del termine finale, laddove stabilito da uno Stato membro, solamente alla successione di rapporti di
43 Circolare Min. del Lavoro 18 Luglio 2012 n. 18 su xxx.xxxxxxxxxx.xxx.xx
44 VALLEBONA A., La riforma del lavoro 2012 , Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2012, pag. 19 e ss.
45 SPEZIALE V. op. cit.
lavoro a tempo determinato, e non al primo o unico contratto a termine.46 Coerentemente con i propri obiettivi la riforma del 2012 –secondo
capoverso del comma 1bis- autorizzava nuove forme di assunzione a tempo determinato, affidate all'autonomia sindacale nell'ambito di un processo organizzativo “per l'avvio di una nuova attività, il lancio di un prodotto o di un servizio innovativo, l'implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico, la fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo, il rinnovo o la proroga di una commessa consistente”, limitatamente ad una quota di assunzioni non superiore al 6% dei lavoratori occupati nell'unità produttiva47.
Ad appena un anno di distanza dalla entrata in vigore della legge Fornero il decreto legge n. 76/2013, convertito in legge 9 agosto 2013, n. 99, (ri)modificava il comma 1 bis dell’art. 1 del DLG 368/2001 abilitando la contrattazione collettiva, anche a livello aziendale, ad individuare nuove ipotesi di lavoro a termine, anche acausali, senza rispettare alcun vincolo inerente al processo organizzativo ed alla percentuale di contingentamento91.
Nel marzo dell'anno successivo il decreto-legge x.xx 34 del 2014 (Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese) convertito nella legge 16 maggio 2014 n.78 (cd. ‘riforma Poletti’) apportava modifiche sostanziali alla previgente disciplina del 2012 e del 2013.
L’art. 1 del detto decreto abrogava il comma 1-bis del Decreto Legislativo 368/2001 e riscriveva quasi integralmente il primo comma, consentendo “l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe, concluso tra un datore di lavoro o utilizzatore e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato”.
46 Sentenza Manigold 22 novembre 2005, C 144/04, punti da 41 a 43.
47 ipotesi introdotta dall’art. 1 comma 9 lettere b) ed h) della legge 92 del 2012
Scompare, dunque, la necessità di una ragione giustificatrice del termine che non costituisce più un presupposto di validità del contratto anche per quelli di durata superiore ai 12 mesi.
Il decreto legislativo non specificava se la acausalità andasse limitata, come nell’abrogato comma 1-bis, solo al primo rapporto di lavoro intercorso tra le stesse parti: la mancata riproduzione dell’inciso deve dar propendere verso l’irrilevanza delle precedenti esperienze lavorative tra le stesse parti.
Quale contemperamento alla acausalità la norma di cui all’art. 1 lasciava inalterati altri vincoli all’utilizzo del contratto a termine tra cui in particolare il limite temporale (36 mesi) nonché la soglia percentuale (20% del numero dei lavoratori indeterminati in forza al momento dell’assunzione) di ricorso a tale tipologia negoziale ed il limite temporale di 36 mesi risultava ora per espressa previsione di legge applicabile anche nell’ipotesi di stipula di un solo contratto oltre che in ipotesi di proroghe dello stesso o di successione di più contratti.
La ratio ispiratrice della novella del 2014, nella scia del percorso iniziato con la Legge 92 del 2012 e proseguito con la legge 99 del 2013, era ancora quella di facilitare ulteriormente il ricorso al contratto a termine quale strumento idoneo a costituire un utile canale di ingresso nel mondo del lavoro al pari del rapporto di lavoro a tempo indeterminato pur se tale ultimo restava la forma comune di tipologia contrattuale utilizzabile.
La ulteriore liberalizzazione del contratto a termine operata dalla “Riforma Poletti” risvegliò all’epoca l’ennesimo contrasto in dottrina tra chi riteneva che la mancanza di predeterminazione di motivi giustificativi dell’apposizione del termine potesse comportare un grave arretramento delle garanzie predisposto a favore dei prestatori di lavoro e chi, invece, sosteneva che la norma assicurava un concreto sostegno alla promozione dell’occupazione eliminando le incertezze (e le conseguenze) derivanti da un eventuale accertamento postumo di insufficiente specificazione (profilo formale) o da una carenza (profilo sostanziale) delle
esigenze tecniche, organizzative e produttive sottostanti l’apposizione del
termine.48
Il 25 giugno 2015 entrava, infine, in vigore (supp. ord. alla Gazzetta Ufficiale x.xx 144 del 24.06.2015) il Decreto Legislativo x.xx 81 del 15.06.2015 titolato disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema a norma dell’art. 1 comma 7 della legge 10 dicembre 2014 x.xx 183.
Il detto decreto legislativo fu predisposto in attuazione della menzionata normativa di delega da cui hanno avuto origine i provvedimenti oggi usualmente denominati Jobs Act.
La disciplina della legge-delega x.xx 183 all’art. 7 lettera a) prevedeva in proposito l'adozione di un testo organico semplificato sulle tipologie contrattuali ed i rapporti di lavoro, in coerenza con la regolazione dell'Unione europea e le convenzioni internazionali, inspirato alla “individuazione e l'analisi di tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l'effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo, nazionale ed internazionale, in funzione di interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali” ancorché la successiva lettera b) prevedesse la “promozione…del contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro...”:in conformità con il principio di delega di cui alla lettera
b) dell’art. 7 e confermando la previsione dell’art. 1 comma 01 del D.L.G. 368 del 2001 così come modificato da ultimo dall’art. 1 della menzionata “Riforma Poletti”, l’art. 1 del decreto legislativo 81 ribadiva, pertanto, che “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”.
Il decreto legislativo 81 si occupa specificamente del contratto a termine agli artt. da 17 a 27 mantenendo immutata, nella sua versione originaria la scelta legislativa già operata di acausalità di tale tipologia contrattuale e completando il
48 per una disamina delle contrapposte posizioni GRAGNOLI E., L’ultima regolazione del contratto a tempo determinato La libera apposizione del termine, in Lav. Giur, 2014, n. 5, pag. 434.
percorso normativo intrapreso dalla cd. legge Fornero e proseguito dalla cd. riforma Poletti del 2014.
Dall’impianto normativo del decreto legislativo 81 sul contratto a termine emerge l’intento di trovare un punto di equilibrio tra esigenza di flessibilità ed aspirazione alla stabilità dell’impiego in adempimento del prioritario obiettivo di incentivare il rapporto a tempo indeterminato come previsto dall’art. 1 comma 7 lettera b) della delega al Governo di cui alla legge 183/2014.
In tale direzione il D.L.G. 81 del 2015 modificava significativamente la disciplina relativa alla quota percentuale dei lavoratori che possono essere assunti a termine rispetto all’organico a tempo indeterminato (20%) ponendola all’art. 23 quale limite legale e non più quale limite eventuale la cui definizione era demandata alla contrattazione collettiva come previsto dall’art. 10 del D.L.G. 368 del 2001.
L’apposizione di tale limite legale è da considerarsi come uno strumento di prevenzione degli abusi che si sostituisce alla regola della causalità introducendo un criterio di verifica della genuinità che dall’esame del singolo rapporto si sposta su quello dell’intero organico modificando anche la tipologia del controllo a posteriori esercitato dal Giudice sulla liceità del ricorso alla fattispecie del contratto a termine finalizzato ad una verifica della precisa proporzione tra occupazione stabile e temporanea divenuta vincolante nell’organizzazione del lavoro.49
Ancora in direzione di un contemperamento tra liberalizzazione e necessità di prevenzione degli abusi si pone, sempre con riguardo al detto limite temporale, il comma 2 dell’art. 19 che nell’ipotesi di successione di contratti fa riferimento a quelli conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale nel mentre l’art. 5 comma 4 bis del decreto legislativo 368 del 2001 imponeva il rispetto del detto limite temporale unicamente in caso di contratto stipulati per lo svolgimento di mansioni equivalenti: sicché la semplice
49 XXXXXXXXXXX S., Il sistema sanzionatorio del contratto a termine e di somministrazione di lavoro dopo il Jobs Act, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 2015, 148, 4, p. 609 e ss.
assunzione con un contratto a termine avente ad oggetto mansioni pur lievemente diverse consentiva agevolmente il superamento del limite temporale dei trentasei mesi.
Arrivati a questo punto è necessario porsi un interrogativo di fondo riguardante la coerenza di una serie di interventi normativi che, iniziati con la legge 92 del 2012 e conclusisi con il decreto legislativo 81 del 2015, hanno oggettivamente reso più agevole il ricorso al contratto a termine – in particolare attraverso l’affermazione del principio di acausalità- con l’obiettivo dichiarato dallo stesso Legislatore di volere promuovere il ricorso a tempo indeterminato.
I richiamati interventi legislativi hanno certamente significativamente modificato il rapporto tra le due tipologie negoziali la cui disciplina in passato favoriva la scelta del contratto a tempo indeterminato in conseguenza dei rigidi limiti posti per l’utilizzo di quello a termine.
La logica del Legislatore del 2012 e poi del 2015 risulta ispirata al diverso principio per cui, ferma restando la necessità di rendere maggiormente fruibile il contratto a termine in quanto strumento negoziale ritenuto efficace per instaurare un rapporto di lavoro capace di soddisfare maggiormente le esigenze produttive dell’impresa ed agevolare una organizzazione del lavoro flessibile, il rapporto a tempo indeterminato viene ad essere incentivato attraverso l’attribuzione di consistenti benefici normativi ma soprattutto economici per cui come è stato osservato la scelta tra le diverse tipologie si vuole giocare sul piano dei costi.50
A questi principi è, del resto, inspirata, sotto il profilo normativo, la introduzione del contratto cd. a tutele crescenti disciplinato dal Decreto Legislativo x.xx 23 del 2015 che, introducendo un regime di tutele -nell’ipotesi di licenziamento illegittimo- fondamentalmente basato su di un sistema indennitario predeterminato in luogo di quello reintegratorio, aveva il dichiarato obiettivo di rendere meno oneroso e basato su regole certe il recesso dal contratto a tempo indeterminato favorendone in tal maniera l’utilizzazione.
50 AIMO M., Il lavoro a termine tra modello europeo e regole nazionali, Giappichelli, Torino, 2017 pag. 128 e ss.
Sotto il profilo economico il Legislatore prevedeva incentivi di tipo fiscale e contributivo finalizzati a ridurre drasticamente il costo del contratto a tempo indeterminato così rendendolo maggiormente conveniente rispetto a quello a termine.
L’art. 1 della legge 190 del 2014 (legge di stabilità 2015) dopo aver disposto al comma 20 la integrale deducibilità dalla base imponibile dell'Irap del costo complessivo del personale a tempo indeterminato, ha riconosciuto al successivo comma 118 anche l'integrale esonero per la durata di 36 mesi dal pagamento dei contributi dovuti dal datore di lavoro in favore delle assunzioni a tempo indeterminato effettuate nel 2015 e nei limiti di un importo annuale pari per ogni lavoratore a 8.060 euro.51.
La norma vietava la cumulabilità dell'esonero con altri benefici previsti dalla precedente normativa , escludendo l'applicazione del primo in caso di assunzione di lavoratori già occupati a tempo indeterminato nei sei mesi precedenti , di fruizione del medesimo beneficio per effetto di una precedente assunzione presso lo stesso datore di lavoro ovvero nei casi in cui il lavoratore fosse stato assunto nei tre mesi precedenti a tempo indeterminato da società controllate o collegate ai sensi dell'articolo 2359 cod.civ. o a facenti capo, anche per interposta persona, allo stesso soggetto .
Con lo stesso obiettivo di promuovere forme di occupazione stabile, il successivo articolo 1, comma 178, della legge n. 208/2015 (legge di stabilità 2016) confermava l'esonero contributivo anche per le assunzioni a tempo indeterminato effettuate nel 2016, con la differenza che lo sgravio era limitato al 40% degli oneri contributivi dovuti dal datore di lavoro per un importo massimo annuo di 3.250 euro; con riguardo alla durata, il beneficio in questione aveva invece una validità di soli 24 mesi, venendo così a scadere – il 1° gennaio 2018 – assieme a quello triennale introdotto nel 2015.
Le scelte del Legislatore sono state, all’epoca, oggetto di diffuse critiche che, partendo sempre dalla considerazione che il percorso normativo iniziatosi
51 cfr. Circolare INPS 29 gennaio 2015 n. 17 su xxx.xxxx.xx
con la legge 92 del 2012 e proseguito sino al Decreto legislativo x.xx 81 del 2015 ha penalizzato fortemente il lavoratori subordinati sotto il profilo delle minori tutele loro accordate, hanno rilevato come gli inventivi economici connessi al contratto a tempo indeterminato non abbiano prodotto un significativo favor verso la scelta di tale tipologia contrattuale: tali opinioni sono state fondate sull’analisi dei dati dell’occupazione relativi al periodo di applicazione degli incentivi spesso oggetto di letture contrastanti tra quanti hanno lamentato la scarsa crescita dell'occupazione stabile sottolineando come gli incentivi siano serviti soprattutto alla stabilizzazione dei rapporti già in essere52 e quanti, invece, hanno sottolineato come l'aumento degli occupati a tempo indeterminato comprovi il successo dell'operazione compiuta dal legislatore.53
Tale disparità di vedute è stata spesso determinata dalla diversa utilizzazione dei dati a disposizione per compiere tale analisi.
Per quel che riguarda il mercato del lavoro e l’occupazione tradizionalmente bisogna distinguere quelli che sono i dati di stock (forniti tradizionalmente dall’Istat) e quelli che sono i dati di flusso tradizionalmente forniti da Inps e Inail.
I dati si definiscono di stock quando tengono conto di una variabile misurata in un istante di tempo (ad esempio il numero degli occupati e delle persone in cerca di occupazione in un determinato mese dell’anno) nel mentre si definiscono di flusso i dati che tengano conto di una variabile che può essere misurata solo in un intervallo temporale qual è ad esempio il numero di entrate e di uscite relative all’occupazione ed alla disoccupazione in un certo arco temporale.
Dai dati di flusso relativi al 2015 risulta che lo sgravio contributivo introdotto a partire da tale anno ha impresso una forte accelerazione alle assunzioni a tempo indeterminato che registrarono una crescita complessiva su
52 TIRABOSCHI M., Lo spot costoso che non crea lavoro, in Panorama, 30 marzo 2016, pag. 69. 53 XXXXXX X., La riforma del lavoro tra diritto ed economia, su xxx.xxxxxxxxxxxx.xx, 26 ottobre 2016.
base annua pari al 46,9%54, con un notevole incremento nei mesi finali dell'anno in vista dell'approssimarsi della scadenza del beneficio.55
Complessivamente il numero di nuovi rapporti a tempo indeterminato, al netto delle cessazioni, è stato pari nel 2015 ad oltre 930 mila unità, anche se di queste oltre la metà era costituita da trasformazioni di contratti a termine e, in misura inferiore, di apprendistato56.
In termini di stock invece, il numero di occupati nello stesso anno cresceva di 186 mila unità, facendo aumentare il tasso di occupazione dal 55,7% al 56,3%, mentre il tasso di disoccupazione è sceso dal 12,7% all'11,9%, con una lieve riduzione anche del numero di persone in cerca di occupazione.57
Lo sgravio contributivo parziale introdotto a partire dal 2016 ha fatto registrare minori risultati in termini di nuove assunzioni, inducendo peraltro molti datori di lavoro ad anticipare alla fine del 2015 le assunzioni programmate per l'anno successivo.58
Da qui il brusco aumento delle assunzioni a tempo indeterminato registrato nell'ultimo mese del 2015 e la conseguente contrazione avutasi nel primo trimestre nel 2016 che è proseguita nel corso dei mesi successivi, facendo comunque registrare un saldo positivo su base annua di circa 82 mila nuovi rapporti a tempo indeterminato a fronte di oltre 370 mila trasformazioni di contratti a tempo determinato.59
Relativamente ai dati di stock, il numero di occupati nel corso del 2016 è aumentato di 293 mila unità, cosicché il tasso di occupazione è ulteriormente cresciuto attestandosi al 57,2%, mentre quello di disoccupazione ha registrato una ulteriore lieve contrazione portandosi all'11,7%.60
Nel biennio di applicazione dei benefici contributivi, dunque, sono stati
54 Inps. Osservatorio sul precariato. Dati sui nuovi rapporti di lavoro. Report mensile Gennaio Dicembre 2015, 6, Tab 1.
55 Ministero del Lavoro. Quaderno di monitoraggio 2016, 1, 14.
56 Inps. Osservatorio cit. Gennaio-Dicembre 2016, 13, Tab 3.
57 Istat. Rapporto annuale 2016. La situazione del paese, 2016, pag. 108-114.
58 XXXXXX X. op cit, 26 ottobre 2016.
59 Inp. Osservatorio cit. Gennaio-Dicembre 2016.
60 Istat. Rapporto annuale 0000.Xx situazione del Paese 2017, pag. 147-153.
attivati oltre un milione di nuovi rapporti a tempo indeterminato con una crescita dell'occupazione stabile di oltre 380 mila unità e una riduzione del tasso di disoccupazione dal 12,7% del 2014 all'11,7% del 2016.61
Si tratta di dati che, in via oggettiva, confermano come la scelta legislativa introdotta dalla legge ‘Fornero’, poi proseguita con la ‘riforma Poletti’ ed infine confermata dal decreto legislativo x.xx 81 ha avuto nel biennio 2015-2016 risultati positivi raggiungendo l'obiettivo di dare una scossa al mercato del lavoro consentendo, da un lato l’incremento dell’occupazione a tempo indeterminato e, dall’altro, un più facile accesso all’utilizzazione del contratto a termine.
Occorre, però, verificare se tale tendenza abbia poi avuto conferma in un momento successivo al biennio 2015- 2016 secondo un andamento costante, se non addirittura crescente, delle assunzioni a tempo indeterminato e confermando uno stabile ritrovato interesse per tale tipologia contrattuale.
I dati successivi non hanno, invece, confermato tale tendenza che si è molto affievolita in coincidenza con la scadenza dei benefici legati agli sgravi contributivi allorché le assunzioni a tempo indeterminato sono diminuite nel mentre sono ricominciate ad aumentare considerevolmente quelle a tempo determinato.
Nel periodo gennaio-ottobre 2017 le assunzioni a tempo indeterminato sono calate del 3,7% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, mentre quelle a tempo determinato sono aumentate del 28%62 arrivando a rappresentare una quota pari a circa il 70% dei contratti attivati nei primi tre trimestri dell'anno.63
In termini di stock, a novembre 2017 gli occupati a tempo determinato sono cresciuti su base annua del 18,3%, mentre quelli a tempo indeterminato soltanto dello 0,3%.64
61 Istat. Rilevazione sulla forza lavoro, dati trasversali trimestrali, IV trim 2014-IV trim. 2016.
62 Inps. Osservatorio cit. Gennaio-Ottobre 2017
63 Ministero del Lavoro e della Politiche sociali – I rapporti di lavoro nel III trim. 2017 –
Sistema comunicazioni obbligatorie – 2017 n.23
64 Istat – Novembre 2017 , Occupati e disoccupati, Dati provvisori – 9 gennaio 2018 n. 3
Più in particolare, nel secondo e terzo trimestre del 2017 il tasso di disoccupazione è sceso all'11,2% per effetto di un ulteriore aumento del numero dei lavoratori dipendenti che però in oltre otto casi su dieci sono stati a tempo determinato.65
L’analisi di questi pochi dati permette di affermare, pur con tutte le cautele del caso, che sotto un profilo normativo il progressivo sdoganamento (il corsivo è mio) del contratto a termine iniziato con la legge del 2012 aveva certamente prodotto effetti positivi portando tale tipologia contrattuale ad essere stabile oggetto della domanda di lavoro.
Tali effetti positivi avevano determinato un parallelo costante incremento della occupazione di lunga durata in quanto accompagnati da misure economiche di sostegno al contratto a tempo indeterminato: risulta, pertanto, evidente la correlazione tra incremento/decremento di tale tipologia contrattuale con la introduzione/ riduzione/ cessazione degli incentivi ad essa dedicata ragion per cui una stabile promozione dell’occupazione necessita di interventi di sostegno costanti e duraturi in grado di sostenere la competitività delle imprese salvaguardando ed incrementando l’occupazione dei lavoratori.
2. La somministrazione a tempo determinato
2.1. La legge n. 196/1997: la prima esperienza di scissione di titolarità del rapporto di lavoro
Nell’ambito delle altre tipologie contrattuali flessibili prima il lavoro temporaneo – denominato anche lavoro interinale – introdotto dalla legge 24 giugno 1997 x.xx 196 (cd. legge Treu), poi la somministrazione di lavoro a tempo determinato introdotta dal decreto legislativo x.xx 276 del 2003 poi modificata dal D.L.G. 81 del 2015, pur introducendo schemi contrattuali totalmente differenti e nuovi da quello tradizionale del lavoro subordinato su cui è
65 Istat III trim – Il mercato del Lavoro, 7 dicembre 2017, 5
comunque fondato il contratto a termine, hanno vissuto e vivono vicende normative spesso indissolubilmente legate alla disciplina di tale contratto.
Con la legge 24 Giugno 1997 x.xx 19666 fu introdotto nel nostro Paese il lavoro temporaneo definito anche interinale: le definizioni e la struttura normativa della disciplina sono contenuti negli artt. 1 e 3 della legge.
L’art. 1 definiva il contratto di fornitura di lavoro temporaneo come un contratto mediante il quale un'impresa di fornitura di lavoro temporaneo denominata impresa fornitrice, iscritta all'albo previsto dall'articolo 2, comma 1, “pone uno o più lavoratori, di seguito denominati prestatori di lavoro temporaneo, da essa assunti con il contratto previsto dall'articolo 3, a disposizione di un'impresa che ne utilizzi la prestazione lavorativa, di seguito denominata impresa utilizzatrice, per il soddisfacimento di esigenze di carattere temporaneo individuate ai sensi del comma 2.”
L’art. 3 a sua volta definiva il contratto di lavoro per prestazioni di lavoro temporaneo come un contratto “”con il quale l'impresa fornitrice assume il lavoratore: a) a tempo determinato corrispondente alla durata della prestazione lavorativa presso l'impresa utilizzatrice; b) a tempo indeterminato.”
Lo schema prescelto era una assoluta novità per l’ordinamento giuslavoristico italiano che vedeva protagonisti tre soggetti formalmente e sostanzialmente distinti.
Il primo è l’impresa fornitrice -Agenzia di lavoro temporaneo- che espressamente autorizzata a ciò e previo controlli di natura pubblicistica assume il lavoratore ed instaura con lo stesso un rapporto di lavoro subordinato provvedendo al pagamento della retribuzione, al versamento della contribuzione e rimanendo titolare del potere gerarchico e disciplinare sullo stesso.
Il secondo è il prestatore di lavoro temporaneo -il lavoratore- che è dipendente dell’impresa fornitrice che lo ha assunto e da cui viene retribuito ma la cui prestazione è utilizzata da altra impresa che ha unicamente facoltà di organizzare le modalità di detta prestazione.
66 G.U. n. 154 del 4 luglio 1997 – Supp. Ordinario n.136.
Il terzo è l’impresa utilizzatrice che stipula un contratto di “fornitura” con l’Agenzia ed utilizza la prestazione del lavoratore dipendente di quest’ultima.
I rapporti giuridici tra questi soggetti risultano regolati da due distinti negozi giuridici di cui uno è un contratto di natura commerciale sottoscritto tra Agenzia ed Impresa utilizzatrice con il quale la prima si obbliga a ‘fornire’ alla seconda della manodopera per il soddisfacimento di esigenze di essa impresa utilizzatrice ed a cui il lavoratore è estraneo, l’altro è, invece un contratto di lavoro subordinato (a tempo determinato o a tempo indeterminato) che l’Agenzia stipula con il lavoratore.
Il comma 2 dell’art. 1 prevedeva che il contratto di fornitura poteva essere concluso “(a) nei casi previsti dai contratti collettivi nazionali della categoria di appartenenza dell'impresa utilizzatrice stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi; (b) nei casi di temporanea utilizzazione in qualifiche non previste dai normali assetti produttivi aziendali; (c) nei casi di sostituzione dei lavoratori assenti”.
Il successivo comma 3 per converso vietava espressamente la fornitura di lavoro temporaneo (a) per le qualifiche di esiguo contenuto professionale, individuate come tali dai contratti collettivi nazionali della categoria di appartenenza dell'impresa utilizzatrice, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi; (b) per la sostituzione di lavoratori che esercitavano il diritto di sciopero; (c) presso unità produttive nelle quali si era proceduto, entro i dodici mesi precedenti, a licenziamenti collettivi che avessero riguardato lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferiva la fornitura (salvo che la fornitura avveniva per provvedere a sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto); (d) presso unità produttive nelle quali era operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell'orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessasse lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferiva la fornitura; (e) da parte di imprese che non avessero dimostrato di aver effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell'articolo 4 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626; (f) per lo svolgimento di lavorazioni richiedenti sorveglianza
medica speciale o per svolgere lavori particolarmente pericolosi individuati con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza.
L’art. 1 comma 5 della legge n. 196/1997 disciplinava poi il contenuto del contratto di fornitura di lavoro temporaneo che doveva essere necessariamente stipulato in forma scritta e doveva poi contenere una serie ben identificata di elementi, volti a ricostruire l'intera fattispecie negoziale del contratto fra le due imprese.
Per quel che riguarda il contratto di lavoro per prestazioni di lavoro temporaneo l’art. 3 dopo avere previsto (comma 2) che il lavoratore temporaneo “per la durata della prestazione lavorativa presso l’impresa utilizzatrice svolge la propria attività nell’interesse nonché sotto la direzione ed il controllo dell’impresa medesima” al successivo comma 3 prescriveva anche per detto contratto la forma scritta elencando i requisiti di contenuto dello stesso.
Infine l’art. 10 della cd. legge Treu si occupava del sistema sanzionatorio
in ipotesi di violazione dei precetti in essa contenuta.
La scelta fu quella di un sistema cd. “chiuso”: l’art. 10 individuava per ciascuna specifica violazione un’altrettanta specifica sanzione con la conseguenza che eventuali diverse irregolarità che avessero dovuto riguardare aspetti e requisiti non specificamente individuati - e sanzionati- nella detta norma dovevano ritenersi privi di qualsiasi effetto invalidante della fattispecie.
La legge 197 del 1996 superava la necessaria coincidenza tra la titolarità del rapporto e l’utilizzazione della prestazione toccando in tal maniera un elemento essenziale della subordinazione, ammettendo per la prima volta nel nostro ordinamento la scissione tra titolarità del rapporto e prestazione e distribuendo i poteri e le responsabilità tipiche del datore di lavoro tra due distinti imprenditori.
In tal senso effettivamente l’introduzione del lavoro temporaneo realizzava una vera e propria “rivoluzione copernicana” rispetto ai principi fondamentali di identificazione del rapporto di lavoro subordinato consentendo
l’utilizzazione del lavoro altrui in virtù della stipulazione di un contratto commerciale67.
Sotto tale profilo la legge 196 del 1997 si caratterizza per avere introdotto una importante deroga al principio di divieto di interposizione fittizia di manodopera fissato dalla legge 1369 del 1960 senza che però tale principio fosse ribaltato diventando esso stesso eccezione.
Se ne ha conferma dall’esame dell’apparato sanzionatorio del menzionato del art. 10 il cui comma 1 prevedeva che “nei confronti dell'impresa utilizzatrice che ricorra alla fornitura di prestatori di lavoro dipendente da parte di soggetti diversi da quelli di cui all'articolo 2, ovvero che violi le disposizioni di cui all'articolo 1, commi 2, 3, 4 e 5, nonché nei confronti dei soggetti che forniscono prestatori di lavoro dipendente senza essere iscritti all'albo di cui all'articolo 2, comma 1, continua a trovare applicazione la legge 23 ottobre 1960, n. 1369 ”.
Si continuava, pertanto, a considerare interposizione fittizia (e dunque illecita) di manodopera sia l’ipotesi in cui l’impresa fornitrice non avesse gli specifici requisiti e le apposite autorizzazione previste dall’art. 2 sia l’ipotesi in cui il contratto di fornitura di lavoratore temporaneo tra impresa fornitrice e impresa utilizzatrice fosse stipulato al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 1 comma 2 (da considerarsi dunque tassative) o in violazione dei divieti di cui all’art. 1 comma 4 o ancora allorché il detto contratto non contenesse gli elementi elencati al comma 5. del contratto.
Parimenti il successivo comma 2 dell’art. 10 pur non menzionando espressamente la legge 1369 sull’interposizione fittizia, prevedeva che il lavoratore che prestava la sua attività a favore di una impresa utilizzatrice in mancanza di forma scritta del relativo contratto di fornitura “si considera assunto da quest’ultima con contratto di lavoro a tempo indeterminato”.
Il lavoro temporaneo introdotto dalla legge 196 del 1997 in conclusione pur rappresentando una assoluta novità nel panorama giuslavoristico italiano per
67 Tiraboschi M., La legalizzazione del lavoro intermittente tramite Agenzia nell’ordinamento
giuridico italiano – Prime riflessioni sulla legge 196/1997, in Dir. Rel. Ind., 1997, pag. 41.
la introduzione di una fattispecie negoziale complessa che per la prima volta prevedeva, come detto, la scissione tra titolarità del rapporto e prestazione di lavoro doveva, però, sempre considerarsi una deroga eccezionale e condizionata alla legge 1369 del 1960 in quanto la fornitura di mere prestazioni di manodopera potevano considerarsi legittima, oltre che se effettuata da soggetti appositamente autorizzati in quanto in possesso di specifici requisiti, allorché fossero sussistenti le tassative e determinate condizioni previste dalla legge medesima.68
2.2. Il d.lgs. n. 276/2003 : l’applicabilità del d.lgs. n. 368/2001 alla
somministrazione a tempo determinato
La disciplina del lavoro temporaneo muta radicalmente con l’entrata in vigore del d.lgs. 10 Settembre 2003 x.xx 27669 che all’art. 85 punto c) abrogava espressamente la legge 23 Ottobre 1960 n. 1369 sulla interposizione fittizia di manodopera.
Il decreto legislativo 276 che attuava le deleghe conferite al Governo dalla legge 14 febbraio 2003 x.xx 30 nel dichiarato obiettivo facilitare l’incontro tra coloro che cercano lavoro e coloro che cercano lavoratori proponeva un massiccio intervento su innumerevoli istituti.
Per quel che qui interessa gli artt. da 20 a 28 si occupavano della somministrazione di lavoro ed in particolare di quella a tempo determinato.
Il decreto legislativo (conosciuto come legge Biagi) pur abrogando gli articoli da 1 a 11 della legge 196 del 1997 – in sostanza l’intera disciplina del lavoro interinale – ne manteneva inalterato lo schema negoziale per cui anche la somministrazione di lavoro si svolgeva attraverso due distinte figure contrattuali.
Da un lato il contratto di somministrazione che è un contratto tipico di natura commerciale e si stipula fra l'Agenzia di somministrazione e l'Impresa utilizzatrice e dall'altro il contratto di lavoro subordinato fra Agenzia
68 XXXXX XXXXXX G., Commento art. 1-11 legge 196/97 in Commentario breve alle leggi sul lavoro (a cura di) Grandi M. – Pera G., pag. 2141 e ss.
69 G.U. 9 ottobre 2003 n. 235
somministratrice e Lavoratori da somministrare: formalmente come il lavoratore rimane estraneo sostanzialmente al contratto di somministrazione, allo stesso identico modo l'utilizzatore rimane estraneo al contratto di lavoro fra l'Agenzia e il lavoratore.
Viene quindi confermata la scissione strutturale fra la gestione normativa e la gestione tecnico-produttiva del lavoratore somministrato alla luce di una fattispecie negoziale complessa, la quale trovava la propria disciplina regolativa nell'art. 20 del D.lgs. n. 276/2003, che, inaugurando il Titolo III, si apriva con la definizione del contratto di somministrazione che " può essere concluso da ogni soggetto. di seguito denominato utilizzatore, che si rivolga ad altro soggetto, di seguito denominato somministratore, a ciò autorizzato" (art. 20. comma 1) aggiungendo subito dopo che "per tutta la durata della somministrazione i lavoratori svolgono la propria attività nell'interesse nonché sotto la direzione e il controllo dell'utilizzatore" (art. 20, comma 2).
La struttura del rapporto di somministrazione così come era quello del lavoro interinale si configura, dunque, quale rapporto giuridico tripartito, fondato su una interrelazione di distinte sfere giuridiche, che produce una fattispecie negoziale complessa che coinvolge due distinti contratti che sono quello di somministrazione (a termine o a tempo indeterminato) stipulato fra utilizzatore e somministratore e quello di lavoro subordinato (ed. "contratto di lavoro somministrato") stipulato tra somministratore e lavoratore (analogamente, a termine o a tempo determinato).
La somministrazione a tempo determinato veniva disciplinata in particolare dal comma 4 dell’art. 20 che la ammetteva a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all'ordinaria attività dell'utilizzatore, dal comma 5 del medesimo articolo che affidava alla contrattazione collettiva la determinazione dei limiti percentuali di utilizzazione rispetto ai contratti a tempo indeterminato (cd. contingentamento) e dal comma 2 dell’art. 22 che oltre a disciplinare il regime delle proroghe prevedeva che "il rapporto di lavoro tra somministratore e prestatore di lavoro è
soggetto alla disciplina di cui al D.lgs. 6 settembre 2001, n. 368. per quanto compatibile”.
Per quel che riguarda la forma, l’art. 21 disponeva che il contratto commerciale di somministrazione in entrambe le sue manifestazioni considerate, a termine e a tempo indeterminato, doveva essere stipulato in forma scritta (art. 21, comma 1 del D.lgs., n. 276/2003) ad substantiam, individuando inoltre [comma 1 punti da a) a k)] un contenuto minimo obbligatorio del contratto che doveva contenere gli estremi dell'autorizzazione rilasciata al somministratore, del numero dei lavoratori interessati dalla somministrazione, dei casi tipici delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che hanno reso attuabile, rispettivamente, la somministrazione a termine o quella a tempo indeterminato, della indicazione della presenza di eventuali rischi per l'integrità e per la salute dei lavoratori, della data di inizio e della durata prevista del contratto di somministrazione stesso.
Il medesimo art. 21, poi, al comma 4 nella sua formulazione originaria sanzionava con la nullità la mancanza di forma scritta nonché quella degli elementi di cui alle lettere a) b) c) d) ed e) del precedente comma 1: nullità da cui si faceva specificamente derivare l’effetto dell’esistenza di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore.
La norma fu modificata dall’art. 5 del D.L.G. 6/10/2004 x.xx 201 che limitò la comminatoria di nullità del contratto di somministrazione unicamente per l’ipotesi di mancanza della forma scritta e non più per l’eventuale mancanza delle indicazioni di cui alle lettere da a) ad e) del comma 1.
Sotto il profilo sanzionatorio, infine, oltre che l’ipotesi di nullità per carenza di forma scritta il DLG 276 del 2003 all’art. 27 (somministrazione irregolare) prevedeva che la somministrazione posta in essere al di fuori dei limiti posti dagli artt. 20 e 21 consentiva al lavoratore di adire il Giudice del Lavoro convenendo in giudizio la sola impresa utilizzatrice al fine ottenere la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato alle dipendenze della stessa.
L’entrata in vigore della somministrazione disciplinata dal D.L.G. 276 del 2003 fu valutata come una occasione di flessibilità del tutto nuova rispetto al lavoro interinale di cui alla legge 196 del 1997 utilizzabile al di fuori di qualsiasi esigenza di tipo eccezionale o temporaneo.70
La somministrazione a tempo determinato si presentava, dunque, come una tipologia contrattuale ammessa in via generale, senza limitazioni, né intrinseche né estrinseche facendo riferimento nella sua dizione testuale a ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo legate alla ordinaria attività dell’impresa la cui sussistenza andava esaminata in ragione delle esigenze che non sono più quelle proprie del datore di lavoro, ma piuttosto quelle dell'imprenditore che vestiti i panni dell'utilizzatore si avvale dei lavoratori somministrati, dipendenti regolari dell'Agenzia di somministrazione, con la conseguenza che le menzionate esigenze non erano quelle che rendevano lecito e legittimo il contratto di lavoro a termine, ma bensì quelle ordinarie che diversamente legittimavano il contratto commerciale di fornitura di manodopera a tempo predeterminato.
Il fatto che le ragioni le ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo potessero riferirsi alla attività ordinaria oltre che escludere la eccezionalità del ricorso alla somministrazione a tempo determinato sembrava anche consentire la possibilità di farvi ricorso stabile e non temporaneo.
Tali aspettative, come vedremo, sono state fortemente ridimensionate dai Giudici di Merito e di Legittimità che esercitando la loro funzione di applicazione e di interpretazione della norma hanno ricondotto complessivamente la somministrazione a tempo determinato disciplinata dalla cd. Xxxxx Xxxxx nell’alveo del contratto a tempo determinato utilizzando in particolare la previsione di cui al comma 2 dell’art. 22 che, come si è rilevato
70 BIAGI M. (continuato da) TIRABOSCHI M., Istituzioni di diritto del lavoro, Xxxxxxx, Milano, 2003; XXXXXXXXXXX X., Somministrazione di manodopera, in Somministrazione, comando, appalto, trasferimento d’azienda (a cura di) Carinci-Cester, Xxxxxxx, Milano, 2004.
assoggettava il contratto di lavoro sottoscritto dal somministratore con il lavoratore alla disciplina del decreto legislativo n. 368 del 2001 pur se con una riserva di compatibilità.
2.3. L’evoluzione normativa sino al d.lgs. n. 81 del 2015 : la scomparsa dei limiti temporali di utilizzazione della somministrazione a tempo determinato
La disciplina della somministrazione di lavoro a tempo determinato, dettata inizialmente dagli artt. 20 e xx. xxx x.xxx. x. 000 del 10 settembre 2003 parallelamente a quanto accaduto per il contratto a termine è stata oggetto di frequenti modifiche, imposte con una successione incrementale di provvedimenti legislativi che, negli oltre 10 anni di vigenza dell'istituto, ha gradatamente prodotto una regolamentazione caratterizzata dalla significativa ampiezza dell'ambito di applicazione.
In particolare la revisione realizzata prima dall'art. 1 della legge n. 92 del 28 giugno 2012, decorrente dal 18 luglio 2012, poi dall'art. 1 comma 2 del d.l. n.
34 del 20 marzo 2014, decorrente dal 21 marzo 2014 e convertito con modifiche dalla legge n. 78 del 16 maggio 2014, è stata poi sostanzialmente confermata dagli artt. 31 e xx. xxx x.xxx. x. 00 del 15 giugno 2015.
Il processo normativo ha ridefinito il comma 4 dell'art. 20 del d.lgs. n. 276 del 10 settembre 2003, introducendo nella versione finale della norma — ripresa dal succitato art. 31 del d.lgs. n. 81 del 15 giugno 2015 — il criterio generale dell’acausalità delle missioni.
La regolamentazione risultante appare quindi similare a quella derivata, per i contratti di lavoro subordinato a termine, dalla revisione dell'art. 1 del d.lgs.
n. 368 del 6 settembre 2001 operata sempre dal d.l. n. 34 del 20 marzo 2012 e poi confermata dall'art. 19 del d.lgs. n. 81 del 15 giugno 2015, rappresentando l'esito di un processo di ampliamento dei limiti oggettivi di ricorso al cd. lavoro interinale compiutosi, con una forte accelerazione, nel triennio 2012-2014.
Già l'art. 2 comma 142 della legge n. 191 del 23 dicembre 2012 aveva infatti previsto, con decorrenza 1 gennaio 2010, in caso di utilizzo di lavoratori assunti dal somministratore ai sensi dell'art. 8 comma 2 della legge 23 luglio 1991 n. 223 ovvero recuperati dalle cd. liste di mobilità, la non necessità del previo riscontro di ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive legittimanti il contratto.
Ulteriori circostanze di esenzione dal regime delle causali giustificative erano poi state introdotte dall'art. 4 del d.lgs. n. 24 del 2 marzo 2012 con decorrenza dal 23 marzo 2012, in riferimento alle ipotesi di lavoratori percettori da almeno sei mesi dell'indennità ordinaria di disoccupazione, di lavoratori percettori di ammortizzatori sociali anche in deroga da almeno 6 mesi, di lavoratori “svantaggiati” ai sensi del regolamento CE n. 800/2008 come meglio specificato da successiva decretazione ministeriale, nonché nelle ulteriori ipotesi individuate dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali stipulati dalle XX.XX. sindacali comparativamente più rappresentative.
L'intervento legislativo del 2015 (d.lgs. 81) accelerando il processo riformatore già avviato dai succitati provvedimenti, ha quindi completato un'operazione di graduale sottrazione della somministrazione di lavoro a tempo determinato dall'obbligo generale di correlazione a causali oggettive che, seppure riferibili ex lege all'ordinaria attività dell'utilizzatore, determinava un elevato rischio sanzionatorio.
L’art. 30 del D.L.G. n.81 del 2015 nel testo pubblicato in Gazzetta Ufficiale definiva all’art. 30 il contratto di somministrazione come il contratto a tempo indeterminato o determinato con il quale un’agenzia di somministrazione autorizzata ai sensi del decreto legislativo n.276 del 2003 mette a disposizione di un utilizzatore più lavoratori suoi dipendenti i quali per tutta la durata della missione svolgono l’attività nell’interesse e sotto la direzione ed il controllo dell’utilizzatore.
Il contratto di lavoro (Agenzia/Lavoratore) era disciplinato invece dal
comma 2 dell’art. 31 il quale il quale pur prevedendo che fosse ancora
assoggettato alla disciplina del contratto a termine individuava una serie di fondamentali esclusioni.
La più rilevante era l’inapplicabilità della previsione di cui al comma 1 dell’art. 19 (che per il contratto a termine prevedeva un limite massimo di durata di trentasei mesi comprensivi di proroghe) che sostanzialmente rendeva la somministrazione a tempo determinato tra un singolo lavoratore ed una specifica azienda priva di qualsiasi limite di reiterabilità.
Vero è che il limite legale di durata di 36 mesi, anche non continuativi, del rapporto di lavoro subordinato a termine, previsto dall'art. 5 comma 4-bis del d.lgs. n. 368 del 6 settembre 2001, il cui superamento “per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti” comportava che “il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato”, era stato integrato dall'art. 1 comma 9 della legge 28 giugno 2012 n. 92 che aveva reso il conteggio inclusivo di eventuali periodi di missione in esecuzione di contratti di somministrazione a tempo determinato.
Ma altrettanto è vero che tale limite operava tuttavia solo nelle ipotesi di successivo ricorso a nuovi contratti di lavoro subordinato a termine con il medesimo lavoratore nel mentre la regolamentazione vigente nel 2015 non precludeva la possibilità, esaurito il limite legale valevole per i contratti di lavoro a termine, di attivare con il medesimo lavoratore specifiche missioni in somministrazione, limitandosi a impedire ulteriori reinserimenti del medesimo lavoratore con rapporto di lavoro subordinato a termine.
Il combinato disposto delle norme succitate comportava, quindi, secondo l’originaria versione del decreto legislativo 81 del 2015 la possibilità di utilizzare la somministrazione a tempo determinato con modalità acausale senza limiti temporali, alternando proroghe (senza interruzione) e rinnovi (con interruzione) dei contratti.
3. La legge n. 96 del 2018 di conversione del d.l. del 14 luglio 2018 n. 87: la controriforma del contratto a termine e della somministrazione a tempo determinato in nome della dignità dei lavoratori.
A distanza di tre anni dall’entrata in vigore del decreto legislativo n. 81 del 2015 il nuovo governo costituito a seguito delle elezioni politiche del precedente mese di marzo ha emanato il 14 luglio 2018 il decreto legge 87 (noto ormai come decreto Dignità) poi convertito in legge con modificazioni (legge n. 96/2018) con effetto dal 12/08/2018.
Si tratta di “disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese” e può essere considerato il primo vero atto importante del nuovo governo Cinque Stelle-Lega, che aveva esordito poco più di un mese prima con il giuramento del nuovo Presidente del Consiglio Xxxxxxxx Xxxxx (1º giugno 2018).
Il provvedimento mira a dare immediata concretezza a quella parte del programma di Governo che promette il “contrasto della precarietà, causata anche dal “Jobs Act”, per costruire rapporti di lavoro più stabili e consentire alle famiglie una programmazione più serena del loro futuro”.71
In tale ottica, come si rileva dai lavori parlamentari72 i contratti a tempo determinato e somministrazione sono ritenuti simbolo di precarietà di cui si è fatto abuso con conseguente necessità di una svolta restrittiva che renda l’accesso agli stessi più difficile ed oneroso determinando così un incremento delle assunzioni a tempo indeterminato.
La spinta verso una svolta rigorista era stata già invero auspicata da una parte della dottrina che considerava la disciplina prima vigente eccessivamente permissiva in particolare per ciò che concerneva la disciplina della somministrazione a tempo determinato sostanzialmente priva di limiti temporali
71 Movimento 5 Stelle – Lega, Contratto per il Governo del cambiamento 2018 - 29
72 Cfr. intervento del relatore di maggioranza Xx. Xxxxxx Xxxxxxxx nonché, a nome del Governo, intervento del Ministro dello Sviluppo Economico, del Lavoro e delle Politiche Sociali On.le Xxxxx Xx Xxxx, XVIII Legislatura, seduta 34 del 30 Luglio 2018, Resoconto su Xxxxxxxxxx.xx Lavori parlamentari.
massimi per ciò che concerne le missioni di uno stesso lavoratore presso uno stesso utilizzatore73 e, inoltre, veniva giustificata da una lettura delle statistiche occupazionali che faceva registrare da parecchi mesi una crescita continua del lavoro a termine sia in forma diretta sia in forma somministrata.
Per quel che riguarda il contratto a termine il decreto dignità riscrive il comma 1 dell'art. 19, d.lgs. n. 81/2015, affermando che al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi e che una durata maggiore, comunque non superiore ai 24 mesi, è possibile soltanto in presenza delle causali prescritte (art. 1, co. 1, lett. a, n. 1, d.l. n. 87/2018).
Queste ultime, seppur contemplate alle due nuove lett. a) e b) dell'art. 19, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, sono in realtà tre: (1) “esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività” e (2) “esigenze di sostituzione di altri lavoratori” (lett.a); (3) “esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell'attività ordinaria” (lett. b).
Le causali devono sussistere sia nel singolo contratto a termine che da solo superi i 12 mesi, sia nelle proroghe che facciano oltrepassare detto limite; devono, inoltre, essere presenti in ogni rinnovo, a prescindere dalla durata del precedente rapporto a tempo determinato e dalla circostanza che siano sforati o meno i 12 mesi complessivi (art. 21, co. 01, d.lgs. n. 81/2015, introdotto dall'art. 1, co. 1, lett. b, n. 1, d.l. n. 87/2018); nell’ambito dei primi 12 mesi la proroga è consentita liberamente ma il decreto “Dignità” abbassa il numero massimo complessivo di proroghe da 5 a 4 (art. 21, co. 1, d.lgs. n. 81/2015, come modificato dall'art. 1, co. 1, lett. b, n. 2, d.l. n. 87/2018);
Il nuovo co. 4 dell'art. 19, d.lgs. n. 81/2015 poi, nel precisare che l'apposizione del termine deve risultare da atto scritto prescrive che le esigenze di cui al comma 1 del medesimo articolo devono essere oggetto di specificazione.
73 CORTI M., Flesibilità e sicurezza dopo il Jobs Act. La flexsecurity italiana nell’ordinamento
multilivello, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2018, pag. 189.
E’ stato immediatamente osservato che il nuovo comma 1 dell’art. 19 riporta i contratti a termine ad una disciplina passata74 con una durata ordinaria di dodici mesi e con un limite massimo che viene ridotto da trentasei a ventiquattro mesi.
I presupposti per la prosecuzione del rapporto oltre i dodici mesi sono però ben più stringenti anche rispetto al cd. causalone (le esigenze di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo) del d.lgs. n. 368/2001: con il decreto Dignità la possibilità di prolungare rapporti a termine oltre i 12 mesi acquisisce nuovamente un carattere di eccezionalità a cui si aggiunge il ridimensionamento della durata massima, comprensiva di proroghe e rinnovi.
Appare indubitale anche ad una prima lettura che le condizioni poste per superare la durata ordinaria di dodici mesi sono mutuate da quelle che erano le ipotesi eccezionali di cui alla legge 230/62 condite con qualche richiamo alla temporaneità di cui alla legge Treu del 1997.
La prima ipotesi (esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività) richiede l'esplicitazione delle attività specifiche, che per rispettare il requisito della estraneità non potranno ricondursi alle attività tipiche dell'azienda, né potranno risolversi in un mero incremento della normale attività produttiva. Dovrà poi essere esplicitata l'oggettività della esigenza e la temporaneità della stessa. Pur non volendo ritenere che si dovrebbe trattare di prestazioni lavorative addirittura non riconducibili all'oggetto sociale dell'impresa o all'alveo delle normali attività produttive dovrà trattarsi di attività totalmente estranee all'attività tipica aziendale.
La seconda ipotesi (esigenze di sostituzione di altri lavoratori) presuppone l'assenza di un lavoratore già in forza e la relativa sostituzione con assegnazione del sostituto a medesime mansioni. Già nel periodo di vigenza della precedente disciplina era usuale indicare la ragione sostitutiva, pur non essendovi un obbligo normativo in tal senso, al fine di godere di taluni benefici previsti
74 TURSI A., I difetti del decreto dignità…e alcuni rimedi, in Quotidiano, IPSOA, 3 novembre 2018.
dalla legge (ad esempio l'esclusione dall'obbligo di versamento del contributo addizionale dell'1,4% in caso di sostituzione di lavoratrice in maternità, il mancato conteggio nel limite di contingentamento del 20%, l'esonero contributivo), ancora in vigore dopo l’entrata in vigore del decreto Dignità. La formulazione attuale consente di ammettere la liceità di una simile causale in presenza di una qualsiasi ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro di un dipendente, da cui deriva l'esigenza sostitutiva e non solo nelle ipotesi in cui la legge o la contrattazione impongano la conservazione del posto come nell’ipotesi di cui all’art. 2110 cod. civ in caso di malattia.
Restano invece fermi i divieti di sostituzione previsti all'art. 20, d.lgs. n. 81/2015 rimasto immodificato, ovvero: sostituzione di lavoratori in sciopero; assunzioni a questo titolo in unità produttive interessate, entro sei mesi, da procedure di licenziamento collettivo su figure adibite alle medesime mansioni dedotte nel contratto a termine per sostituzione; unità produttive con sospensioni dal lavoro dovute a cassa integrazione guadagni e riferibili alle medesime man- sioni; presso datori di lavoro che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi.
Infine, resta ferma la possibilità di utilizzare in cd. meccanismi a scorrimento e la possibilità di fissare il termine finale per relationem senza cioè indicazione di una data certa ma legandola, ad esempio, al rientro dalla maternità della lavoratrice sostituita così come non risulta necessario indicare il nominativo del lavoratore sostituito.
La terza causale (esigenze connesse ad incrementi temporanei , significativi e non programmabili dell’attività ordinaria) risulta di difficile applicazione in ipotesi di necessità di apposizione di un termine finale più lungo in particolare in quei settori in cui gli incrementi di attività risultano ciclici e dunque prevedibili nell'ambito della gestione del normale rischio d'impresa quali quello del turismo, della ristorazione e più in generale dei servizi ricettivi In tali casi infatti sembra difficile sostenere che l'attività ordinaria stia subendo un incremento e soprattutto che questo sia temporaneo.
Con riguardo alla introduzione delle suddette causali è stato rilevato che, ad eccezione di quella sostitutiva presente nel nostro ordinamento fin dalla storica l. n. 230/1962, le nuove condizioni oltre che restrittive risultano in parte anche contraddittorie75 : il carattere temporaneo dell'esigenza e, in misura ancora maggiore, la estraneità all'ordinaria attività, come anche la non programmabilità ex ante, mal si conciliano con requisiti volti a consentire la stipulazione di contratti ultra-annuali, la proroga oltre i 12 mesi o il rinnovo e tra l'altro le stesse non sono compatibili con le cd. punte stagionali, con la conseguenza che per tali esigenze il limite massimo dei 12 mesi diventa praticamente invalicabile76.
Al pari dell’obbligo di specificazione delle causali per i contratti eccedenti la durata di 12 mesi, si muovono nella direzione del rigore anche gli altri interventi operati dal decreto Dignità sulla disciplina del contratto a tempo determinato tra cui in particolare il nuovo co. 1-bis dell'art. 19, e il co. 1 dell'art. 21 che, con precisazioni inserite nella legge di conversione, si premurano di chiarire che la violazione dei nuovi limiti e condizioni comporta indefettibilmente la trasformazione in contratto a tempo indeterminato.
Va ancora sottolineata la introduzione, in sede di conversione in legge, di alcune specificazioni relative alle sanzioni applicabili nel caso di violazione delle nuove, restrittive, disposizioni.
Nella formulazione iniziale del decreto-legge, infatti, non appariva chiara quale fosse la conseguenza per il caso di illegittimità o di assenza di apposizione della causale, piuttosto che del mancato rispetto del nuovo regime di proroghe e rinnovi entro ed oltre i 12 mesi.
Con la legge di conversione sono state delineate invece due distinte ipotesi di comportamento illegittimo entrambe sanzionabili con la trasformazione del rapporto in lavoro subordinato a tempo indeterminato ma con modalità diverse.
L'art. 19, comma 1-bis, d.lgs. n. 81/2015nella versione risultante dalla
75 XXXXXXX A., I limiti della legge all’autonomia collettiva nel decreto Dignità, in Lavoro Diritto Europa, 2018, 3, pag. 2.
76 XXXXXXX A. op. cit. pag. 4.
legge di conversione, dispone che “ in caso di stipulazione di un contratto di durata superiore a dodici mesi in assenza delle condizioni di cui al comma 1, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento del termine di dodici mesi” nel mentre l’'art. 21, comma 01 (sempre all’esito della legge di conversione) prevede semplicemente che “in caso di violazione di quanto disposto dal primo e dal secondo periodo [regime delle proroghe e dei rinnovi, ndr], il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato”.
La prima ipotesi si riferisce alla stipulazione del primo contratto a termine tra le medesime parti, che superi la durata di dodici mesi (e nel limite dei ventiquattro); la seconda al caso di violazione della regola della causale nelle ipotesi di rinnovo del contratto a termine o di sua proroga oltre i dodici mesi : nel primo caso viene indicato espressamente il momento a decorrere dal quale si produrranno gli effetti della trasformazione (evidentemente definita per via giudiziale) che coincide con il superamento del termine ordinario di 12 mesi, nel secondo, invece, non vi è alcuna indicazione riguardo la decorrenza della trasformazione che, pertanto, deve ritenersi operante ab initio.
Ciò a parere di alcuni costituirebbe una diversità di trattamento del tutto ingiustificata rispetto al lavoratore assunto per meno di 12 mesi e poi prorogato senza causale oltre tale termine, il quale fin dal momento della proroga ha diritto alla conversione [rectius, trasformazione] del posto.77
Parallelamente all’introduzione di norme che restringono le possibilità di accesso al contratto a termine, il decreto Dignità ha reso anche più oneroso economicamente l’utilizzazione di tale strumento in quanto il contributo addizionale dell'1,4% per la stipulazione di contratti a termine introdotto dalla legge Fornero (art. 2, co. 28) viene aumentato di 0,5 punti percentuali in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato ( anche in regime di somministrazione) con l'eccezione del lavoro domestico (art. 3, co. 2, d.l. n. 87/2018).
77 XXXXXX X., Xxxxxx una dignità contraddittoria, su www. la xxxx.xxxx, 6 luglio 2018.
In tal modo, la pressione contributiva sul contratto a termine è destinata a crescere progressivamente di rinnovo in rinnovo 78 : la misura è volta a scoraggiare la reiterazione prolungata di contratti di breve durata, già peraltro messa a dura prova dalla reintroduzione delle causali.
In conclusione, senza con ciò volere esprimere alcun giudizio di valore, risulta evidente come il Legislatore del decreto Dignità coerentemente con le intenzioni apertamente espresse ritiene che i rapporti a termine non debbano fisiologicamente superare l'anno, e che ogni sforamento vada fermamente scoraggiato.
Per quel che riguarda la somministrazione a tempo determinato il decreto Dignità pone fine a un percorso legislativo quasi ininterrotto, dall'introduzione del lavoro interinale con il Pacchetto Treu del 1997 (artt. 1-11, l. n. 196/1997), che aveva visto una progressiva e costante liberalizzazione dell’istituto culminata nel d.lgs. n. 81/2015.
L'art. 2, del decreto Dignità , rubricato “modifiche alla disciplina della somministrazione di lavoro”, è più breve rispetto a quello che modifica la disciplina del contratto a termine in quanto il Legislatore ha scelto la via dell'assimilazione dei due istituti, estendendo i nuovi vincoli introdotti per il contratto a termine anche al lavoro in somministrazione a tempo determinato e facendo contestualmente venir meno qualsiasi filtro di compatibilità prima previsto dalla formulazione originaria del comma 2 dell’art. 34 del decreto legislativo 81.79: sotto tale profilo ha traghettato la somministrazione di lavoro a tempo determinato verso il modello francese, nel quale l'assimilazione tra il contratto a termine e il lavoro interinale è massima.
Il comma 1 dell’art. 2 del decreto Dignità modificando proprio l'art. 34, co. 2, d.lgs. n. 81/2015, riduce drasticamente il numero delle disposizioni sul contratto a termine che non trovano applicazione alla somministrazione a tempo
78 MIMMO G., in Il decreto Dignità: contratto a termine, somministrazione di lavoro, lavoro occasionale ed indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo (a cura di) Xxxxx X. – Xxxxx A., Pacini Giuridica, Pisa, 2018 pag. 34.
79 MIMMO G., sub art. 2 op cit., pag. 66.
determinato: dalla disciplina della somministrazione a tempo determinato restano unicamente escluse le regole del contratto a termine in materia di periodi- cuscinetto tra i rinnovi (art. 21, co. 2, d.lgs. n. 81/2015), di clausola legale di contingentamento del 20% (art. 23, d.lgs. n. 81/2015) e diritti di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato (art. 24, d.lgs. n. 81/2015).
La nuova somministrazione a tempo determinato consente pertanto una utilizzazione di dodici mesi acausale oltre i quali scatta l'onere di indicazione della condizione di legittimità se superati presso il medesimo utilizzatore cui le causali si riferiscono. Alla stessa è applicabile ora il limite massimo di 24 mesi, comprensivo di proroghe (non più di 4) e rinnovi nonché dei periodi trascorsi con rapporto a termine direttamente alle dipendenze dell'utilizzatore.
Viene fissata ancora una diversa clausola legale di contingentamento dal nuovo art. 31, co. 2, d.lgs. n. 81/2015 in misura del “30% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l'utilizzatore al 1º gennaio dell'anno di stipulazione dei predetti contratti” (art. 2, co. 02, d.l. n. 87/2018): benché la formulazione lasci adito a qualche dubbio i primi commenti hanno ritenuto che le due clausole non siano indipendenti, ma concorrano tra loro, cosicché, esemplificativamente, i lavoratori interinali non potrebbero superare il 10%, qualora il datore abbia già sfruttato integralmente la quota del 20% di contratti a termine a sua disposizione.80
In questa ipotesi, come già nel caso della durata massima e delle proroghe, i contratti collettivi applicati dall'utilizzatore possono derogare i limiti di legge tanto in melius, quanto in pejus.
Sotto il profilo sanzionatorio la riforma ha lasciato immutato l’art. 38 del decreto legislativo 81 che disciplina la somministrazione irregolare prevedendo (comma 1) la nullità del contratto commerciale di somministrazione privo di forma scritta con conseguente automatica instaurazione di un rapporto di lavoro con l’utilizzatore e confermando (comma 2) la possibilità per il lavoratore di
80 XXXXXXXXX F., Convertito in legge il decreto Dignità: al via il dibattito sui problemi applicativi ed interpretativi, su xxxxxxxxxxxxxxx.xxx, 3 Settembre 2018.
chiedere al Giudice la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze dell’utilizzatore allorché la somministrazione avvenga al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli art. 1 commi 1 e 2 (percentuali di contingentamento), 32 (divieti) e 33 comma 1 lettere a), b), c) e d) che prevedono l’indicazione nel contratto di somministrazione degli estremi dell’autorizzazione rilasciata al somministratore, il numero dei lavori da somministrare, l’indicazione di eventuali rischi per la salute e la sicurezza del lavoratore con le misure di prevenzione adottate nonché la data di inizio e la durata prevista per la somministrazione di lavoro.
In considerazione della (quasi) totale estensione della disciplina del contratto a termine alla somministrazione si poneva, però, il problema delle conseguenze sanzionatorie di eventuali vizi del contratto di lavoro (quello stipulato tra Agenzia di somministrazione e Lavoratore) che a lasciare così le cose sarebbero ricadute sul somministratore: in altri termini se, ad esempio, nel contratto di lavoro eccedente i dodici mesi fosse stata omessa la indicazione delle causali di cui al comma 1 dell’art. 19 il lavoratore sarebbe stato considerato alle dipendenze del somministratore.
Il Legislatore del decreto Dignità evidentemente accortosi di tale incongruenza ha predisposto uno specifico aggiustamento, introdotto in sede di conversione, con l’art. 2 comma 1 ter prevedendo che” le condizioni di cui all’art. 19 comma 1 del decreto legislativo 15 giugno 1981 come sostituito dall’art. 1 comma 1 lettera a) del presente decreto nel caso di ricorso al contratto di somministrazione di lavoro si applicano esclusivamente all’utilizzatore”.
La norma seppure suscita perplessità sia sotto il profilo della tecnica legislativa (non essendo integrata nel testo del decreto legislativo n.81) sia sotto il profilo della formulazione (poiché il legislatore utilizza piuttosto impropriamente sia il riferimento al contratto di somministrazione, sia il verbo
applicare81) risulta coerente con la filosofia di fondo dello schema contrattuale della somministrazione.
I due contratti su cui si fonda la somministrazione (quello commerciale sottoscritto tra Agenzia ed Impresa utilizzatrice e quello di lavoro sottoscritto tra Agenzia e Lavoratore) pur essendo distinti sono funzionalmente collegati costituendo un rapporto trilaterale.
Attraverso tale collegamento la scelta di fondo del Legislatore sin dalla introduzione della somministrazione è stata quella di trasferire sull’utilizzatore le conseguenze di eventuali vizi formali e sostanziali del contratto di lavoro sottoscritto tra Agenzia e Lavoratore ritenendo che tale sia lo strumento per un incisivo contrasto agli abusi.
In tale ottica la previsione dall’art. 2 comma 1 ter della legge 9 agosto 2018 n.96 di conversione del decreto Dignità nel caso che il contratto di lavoro stipulato tra Agenzia e Lavoratore abbia una durata superiore ai dodici mesi, prevede che la causale giustificativa (art. 19 comma 1 lettere a e b) deve sussistere presso l’Impresa utilizzatrice: ed è tale sussistenza che legittima l’apposizione del termine a tale contratto.
Va rilevato, infine che il decreto Dignità ha riesumato il reato di somministrazione fraudolenta, abrogato a suo tempo dal d.lgs. n. 81/2015: il nuovo art. 38-bis, d.lgs. n. 81/2015 (introdotto dall'art. 2, co. 1-bis, d.l. n. 87/2018) riproponendo pedissequamente l'abrogato art. 28, d.lgs. n. 276/2003 prevede che allorché la somministrazione è posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore il somministratore e l’utilizzatore sono puniti con l’ammenda di 20 euro per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione.
La somministrazione fraudolenta nella vigenza del decreto legislativo 276 del 2003 ebbe scarsissima applicazione in ragione della difficoltà di individuazione proprio di quella ‘specifica finalità’ che ne rappresenta il presupposto.
81 XXXXXXXXX F. op cit. pag. 16
In conclusione la novella del decreto Dignità intervenendo pesantemente sul decreto legislativo n. 81 del 2015 ha certamente posto in essere una vera e propria controriforma del contratto a termine e della somministrazione a tempo determinato ponendosi in netta controtendenza rispetto al graduale percorso di liberalizzazione intrapreso dai precedenti Governi nel periodo 2012-2015.
La somministrazione a tempo determinato, in particolare viene quasi totalmente assimilata al lavoro a termine, circondata dei medesimi sospetti e cautele.
Per tali ragioni immediatamente dopo la sua entrata in vigore la riforma del 2018 ha suscitato forti dissensi da parte di chi non ritiene che la stretta imposta al contratto a termine ed alla somministrazione a tempo determinato possa agevolare gli ambiziosi obiettivi di contrasto alla precarietà che lo animano.
Si è sottolineato come il legislatore sembra incorrere in un doppio equivoco confondendo la flessibilità con la precarietà e specularmente ritenendo che la dignità del lavoro coincida con l’impiego a tempo indeterminato.82
Si è ancora rilevato che si è voluto rendere difficoltoso l'accesso ai contratti a termine e di lavoro in somministrazione anche a prescindere dall'utilizzo abusivo che ne potrebbe essere fatto, trascurando la circostanza che la presenza di una certa quota di lavoro temporaneo è ormai indispensabile per il funzionamento delle moderne economie83 ed ancora che l'esito di queste riforme provocherà una stagnazione dell'occupazione, un accentuato turnover di lavoratori a termine, specie con le professionalità meno elevate, un riflusso nel sommerso e nella falsa autonomia.84
È troppo breve il tempo trascorso dall’entrata in vigore del decreto legge 87/2018 convertito nella legge 9 agosto 2018 n.96 per potere verificare serenamente se le nuove norme in materia di contratto a termine e di
82 XXXXXXXXX F. op cit. pag. 9
83 XXXXXXXXX X., Rapporti di lavoro a tempo determinato: rilevanza, funzioni e regolazione, in
DPL, 2018, pag. 2360.
84 XXXXXXXXX F. op cit. pag. 7-8.
somministrazione a tempo determinato contribuiranno effettivamente ad incrementare una occupazione stabile o se, invece, rappresentano un inutile ostacolo all’utilizzazione di tipologie contrattuali utili all’inserimento nel mercato del lavoro.
Oggi può solo oggi osservarsi che già a pochi mesi dall’entrata in vigore la legge in esame è già stata oggetto di proposte di modifica da parte di diverse forze politiche in particolare per ciò che riguarda la eccessiva rigidità delle causali imposte per la stipula, il rinnovo o la proroga di contratti eccedenti i 12 mesi.
La prima proposta di modifica è contenuta nel Disegno di Legge n. 1244 presentato al Senato dalla senatrice Parente (PD) e la seconda nel Disegno di Legge x.xx 1818 presentato alla Camera il 2 maggio 2019 ad iniziativa della Lega (deputato Xxxxxxx ed altri) che pur era al Governo al momento della approvazione del Decreto Dignità.
Entrambi i disegni di legge propongono di modificare il “nuovo” art 19 comma 1 del decreto legislativo 81 del 2015 affidando alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare ulteriori causali aggiuntive a quelle previste dalla legge nella condivisa valutazione di un necessario ampliamento delle stesse al fine di renderle concretamente utilizzabili dalle Imprese.
CAPITOLO II
IL RUOLO DELLA GIURISPRUDENZA
1. Effetti della illegittima apposizione del termine: il meccanismo di conversione del contratto per nullità parziale
Uno dei più dibattuti problemi che nel corso degli anni ha impegnato la giurisprudenza è stato quello relativo alle conseguenze da trarsi sotto un profilo
processuale all’accertamento dell’illegittimità della clausola appositiva del termine in uno o più contratti.
La legge n. 230 del 1962, dopo avere affermato (art. 1 comma 1 primo capoverso) che “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato salvo le eccezioni appresso indicate” ed avere individuato le eccezionali ipotesi [lettere da a) ad f)] che consentivano l’apposizione del termine, non specificava quale fosse la conseguenza della apposizione del termine in violazione di dette ipotesi.
Il secondo comma del menzionato art. 1 si occupava unicamente della forma prevedendo genericamente che “l’apposizione del termine è priva di effetto” se non risultante da atto scritto e poi l’art. 2, dopo avere individuato al comma 1 le condizioni che legittimavano la proroga del contratto al comma secondo si limitava a disporre che in ipotesi di continuazione della prestazione oltre il termine stabilito ( per un certo periodo diversificato secondo la durata del contratto) o in caso di successione di contratti “ il contratto si considera a tempo indeterminato”.
La genericità delle espressioni usate dal Legislatore per quel che riguardava gli effetti della illegittima apposizione del termine sia sotto il profilo sostanziale che formale provocarono un intervento integrativo della giurisprudenza finalizzato ad individuare lo strumento processuale idoneo ad assicurare la tutela del lavoratore nelle complessive ipotesi (formali e sostanziali) di illegittima apposizione del termine.85
Un primo orientamento della Suprema Corte fondava la soluzione del problema sull’immediata equiparazione dell’apposizione del termine o dei termini illegittimi ad un licenziamento cui andava applicata la relativa disciplina.86
85 MONTUSCHI L. Il contratto a termine e la liberazione negata Dir. Rel. Ind. 1, 109, 2006;
VALLEBONA A. – PISANI C. Il nuovo lavoro a termine Cedam Padova 2001
Napoli M. (a cura di) Il lavoro a termine in Italia ed in Europa, Giappichelli, Torino, 2003
86 In dottrina: XXXXXXXX L. il lavoro a termine. Linee interpretative e prospettive di riforma,
Xxxxxxx, Milano, 1980.
Questa equiparazione era motivata dall’assunto per cui il termine finale, inerendo alla stessa struttura del rapporto come un dato obiettivo predeterminato che esplicava i suoi effetti vincolanti nei confronti di entrambe le parti, assolveva preventivamente, nel contratto divenuto a tempo indeterminato, alla medesima funzione svolta dalla comunicazione del licenziamento, e cioè la manifestazione della volontà del datore di lavoro di risolvere il rapporto87.
Nei menzionati arresti giurisprudenziali l’equiparazione correva tra il licenziamento e la definitiva cessazione del rapporto dovuta all’allontanamento del lavoratore ed al rifiuto di accettare ulteriori prestazioni88, essendo, dunque, questo fatto ad equivalere al licenziamento implicito, da regolarsi in base alla relativa disciplina relativamente ai requisiti di legittimità, alle conseguenze da trarsi dalla mancanza degli stessi, all’onere della prova ed al termine di impugnazione.
Nell’ambito di questo orientamento risultava pacifico89 che il giudice di merito dovesse innanzitutto verificare l’avvenuta impugnazione del licenziamento nei termini di decadenza di cui all’art. 6 della legge n. 604 e si chiariva che il relativo dies a quo cominciava a decorrere da nessun altro momento che non fosse la scadenza del contratto originariamente a tempo determinato, per cui nell’ipotesi di pluralità di assunzioni era sufficiente impugnare tempestivamente l’ultimo termine, e non anche quelli intermedi 90.
Tale ricostruzione inerente la valutazione della sussistenza dei requisiti formali e sostanziali di legittimità dell’apposizione del termine comportò diversificate soluzioni adottate in merito ai successivi passaggi del giudizio relativamente alle conseguenze economiche dell’accertamento.
87 2 luglio 1980, n. 4154, in Riv. giur. lav., 1981, II, 426, 9 dicembre 1980, n. 6372, n. 634, in
Rep. Foro it., 1980, 180, 25 febbraio 1981, n. 1167, in Notiz. di giur. del lav., 1981, 583 e 5
giugno 1981, n. 3642, in Foro it., 1981, I, 2667. 24 febbraio 1982, n. 1176, in Mass. Giur. it.,
1982, 316.. 9 Maggio 1983 in Giust .Civ. Mass. 1983 fasc. 5. 8 Novembre 1983 in Giust. Civ.
Mass. 1983 fasc. 10
88 X. Xxxx. 3642 del 1981 in nota 87
89 V. in tutte le sentenze cit.
90 Cass. 21 giugno 1980 x.xx 3916 in Riv.Giur.Lav. 1980 II
In alcune pronunce dall’illegittimità dell’apposizione del termine si faceva discendere necessariamente ed immediatamente l’illegittimità dell’interruzione del rapporto e la configurazione di quest’ultima, in quanto riconducibile alla sola volontà del datore di lavoro, quale illegittimo recesso del medesimo, con conseguente applicazione delle sanzioni di cui all’art. 18 dello statuto dei lavoratori 91.
In altre invece si affermava espressamente che il giudice di merito, una volta accertata la tempestività dell’impugnazione, doveva poi valutare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento 92.
Un’altra problematica all’epoca affrontata dalla giurisprudenza –sempre nel presupposto dell’equiparazione della illegittima apposizione del termine ad un licenziamento – riguardava la spettanza o meno della retribuzione per i periodi non lavorati di intervallo tra un contratto a termine e l’altro nell’ipotesi di pluralità degli stessi.
Sul punto la giurisprudenza della Corte di Cassazione si divise prospettando diverse ipotesi di soluzione al problema che determinarono in sostanza tre orientamenti diversi.
Per un primo indirizzo 93 la retribuzione negli intervalli era dovuta a prescindere da un’apposita messa in mora del datore di lavoro e da particolari atteggiamenti del lavoratore: tale soluzione poggiava sulla negazione della sussistenza nei periodi di intervallo di una sospensione concordata del rapporto94, sull’esame dell’art. 2 della legge n. 230, che implicitamente avrebbe affermato l’esistenza di tutti i diritti che la configurazione data al rapporto comporta per il lavoratore, e sulla considerazione del fatto che il datore di lavoro, avvalendosi della clausola nulla che si traduceva nel rifiuto della prestazione del lavoratore ed essendo quindi inadempiente agli obblighi relativi
91 Cass. 2 luglio 1980 n. 4154 cit.
92 Cass. 5 giugno 1981 n. 3642 cit.
93 Cass. 25 febbraio 1981 n. 1167 in Not.giur.lav. 1981, 583. Cass. 10 aprile 1981 n. 2093 in
Xxxx.Xxxx.xx 1981, 570
94 propugnata da Xxxx. 10 settembre 1981 n. 5074 in Mass Giur. it. 1981 1290
all’esecuzione del contratto a suo carico, rendeva impossibile l’adempimento dell’altra parte, facendogli assumere tutta la responsabilità dell’inesecuzione del contratto e gravandolo di tutte le relative obbligazioni senza necessità di alcuna messa in mora 95.
Un secondo indirizzo condizionava il diritto alla retribuzione negli intervalli a quello che sembrava essere soprattutto un atteggiamento del lavoratore, e cioè alla sua disponibilità ad adempiere la sua prestazione, e ciò in quanto sarebbe spettato al datore di lavoro l’esclusivo potere di utilizzare l’opera del lavoratore nel momento in cui lo ritenesse opportuno, dovendo quest’ultimo soltanto rimanere a disposizione96 .
Per un terzo orientamento la condizione per il diritto alla retribuzione era riferita ad un modo di essere del vincolo contrattuale, il quale doveva prevedere l’obbligo del prestatore di lavoro di rimanere a disposizione 97.
Questa soluzione veniva spiegata, da un lato, con il rilievo per cui se tale obbligo non persiste i periodi di intervallo vanno qualificati come sospensioni concordate del rapporto 98 , dall’altro, con l’osservazione per la quale la conversione dei contratti a termine in un unico contratto a tempo indeterminato “……non esclude di per sé l’efficacia delle pattuizioni intervenute in ordine alla modalità di svolgimento del servizio, che può ben conservare il carattere di servizio ciclico o periodico”99 ovvero “a tempo parziale”100.
A metà degli anni ottanta sul rilievo che il licenziamento presuppone in ogni sua forma uno specifico atto recettizio che manifesti la volontà di risoluzione del rapporto e che tale non poteva essere qualificata la mera ‘disdetta’ di un contratto la cui durata era predeterminata101, la Giurisprudenza propose una nuova chiave interpretativa delle conseguenze derivanti dalla
95 Cass. N. 1167 del 1981 cit.
96 X. Xxxx. 0 giugno 1981 n. 3642 cit.
97 Cass. 2 settembre 1981 n. 5020 in Or.giur.lav. 1982 78.Cass.12 giugno 1981 n. 3836 cit
98 V. sentenze 5922 del 1981 e 1592 del 1982 cit.
99 x. Xxxx. 12 giugno 1981 cit. nonché Cass. 30 marzo 1982 n.1997 in Mass.Foro it. 1982 I, 96
100 Cass.19 giugno 1981 n. 4043 in Giust. Civ. 1982 I, 196
101 Cass. 5 marzo 1983 n. 1646 in Giust.civ.mass. 1983 fasc.3
illegittimità dell’apposizione del termine inquadrandole nell’alveo delle nullità del contratto disciplinate dagli artt. 1418 e ss. del Capo XI, Libro Quarto del codice civile.
L’art. 1418 (cause di nullità del contratto) al primo comma dispone che “il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative salvo che la legge disponga altrimenti”.
Il successivo art. 1419 (nullità parziale) al secondo comma prevede a sua volta che “La nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative”.
Riguardo la nozione di norma imperativa di cui all’art. 1418 c.c. è stato rilevato che la natura imperativa delle norme deve essere individuata in relazione all’interesse pubblico tutelato102 e che non è necessaria una espressa sanzione di nullità in quanto la ratio della disposizione citata risiede proprio nella necessità di disciplinare quelle ipotesi in cui alla violazione della norma non si accompagni una espressa comminatoria di nullità103.
In tal senso è stato precisato che la nullità disciplinata dal primo comma dell’art. 1418 c.c. non determina l’illiceità del contratto ma unicamente la sua illegalità con la conseguenza che la nullità ben potrebbe riferirsi unicamente ad una parte del contratto che sarebbe suscettibile di sanatoria.104
In questa chiave di lettura la previsione dell’art. 1419 c.c. secondo comma costituisce applicazione del generale e fondamentale principio di conservazione del negozio 105 e secondo una costante giurisprudenza 106 tale principio rappresenta la regola rispetto alla quale l’estensione della nullità all’intero contratto (art. 1419 comma 1) si configura come ipotesi eccezionale la cui ricorrenza va comprovata da chi ha interesse alla caducazione dell’intero
102 Cass. 18 luglio 2003 n.11256 in De jure – banche dati edit.GFL
103 Cass. 7 marzo 2001 n. 3272 in De Jure –banche dati edit. GFL
104 D’AMICO X. in Illiceità, immeritevolezza, nullità Xx Xxxxxx X. ( a cura di ) pag. 9 e ss
105 MANTOVANI M., La nullità ed il contratto nullo, in Tratt. Roppo, IV, t. 1, Xxxxxxx, 2006; VILLA G., Contratto e violazione di norme imperative, Xxxxxxx, 1993.
106 Cass.21 maggio 2007 n.11673 in Giust.civ.mass. 2007, 5. Conformi 20 maggio 2005 n.
10690, 27 gennaio 2003 n.1189
contratto.
La sostituzione di clausole negoziali invalide con norme imperative aveva
già trovato diffusa applicazione in quegli anni nell’ambito del diritto del lavoro.
Le clausole del contratto individuale che determinavano una retribuzione inferiore a quella riferibile all’art. 36 della Costituzione sono state dichiarate nulle e sostituite dal precetto di tale norma imperative di fonte costituzionale107; parimenti sono state dichiarate nulle le clausole dei contratti collettivi che in materia di trattamento normativo ed economico discriminavano il personale di sesso femminile e sostituite dal principio di parità di trattamento imposto dall’art. 37 della Costituzione108; ancora sempre in materia di retribuzione le clausole dei contratti collettivi che prevedevano un diverso e deteriore trattamento retributivo per i dipendenti di sesso femminile rispetto a quelli di sesso maschile sono state sostituite dalle norme imperative (artt. 36 e 37 Cost.) sopra richiamate.109
Per quel che riguarda il contratto a termine la Suprema Corte utilizzando il meccanismo di sostituzione e conversione previsto dal secondo comma dell’art. 1419 c.c. ha gradualmente mutato l’indirizzo precedente affermando che l'azione diretta all'accertamento dell'illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro in violazione dell'art. 1 della legge n. 230 del 1962 andava qualificata non come impugnativa di licenziamento ma come azione di nullità parziale del contratto ex artt. 1418 e 1419, comma 2, c.c.110
Quale corollario della ritenuta applicabilità del meccanismo di conversione dell’art. 1419 c.c. secondo comma, il nuovo indirizzo della Suprema Corte affermava che la relativa azione in quanto esulante dall’impugnativa di licenziamento non era soggetta al termine di decadenza previsto dall'art. 6 della legge n. 604 del 1966, che si trattava di azione imprescrittibile come disposto dall’art. 1422 c.c. , che la stessa non comportava la reintegrazione del lavoratore
107 Cass. 8 agosto 1987 n.6823 in Giust.civ.mass.1987 fasc. 8-9
108 Cass.5 gennaio 1984 n.42 in Giust.civ.mass.1987 fasc. 1
109 Cass. 1 Febbraio 1990 n.685 in Giust.civ.mass. 1990 fasc. 2
110 Cass. 29 marzo 1988 n.2623 in Giust.civ.mass.1988 fasc.3
a norma dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970, bensì accertava la persistenza tra le parti del vincolo contrattuale (a seguito della avvenuta conversione del rapporto a termine nel rapporto a tempo indeterminato) con conseguente diritto del lavoratore a riprendere il suo posto di lavoro ottenendo a titolo risarcitorio ciò che gli era dovuto secondo le generali regole della mora accipiendi.111
A seguito di tali difformi indirizzi delle sezioni semplici della Suprema Corte, secondo di quanto previsto dall’art. 374 c.p.c112 , la questione fu rimessa alle Sezioni Unite al fine di dirimere il contrasto.
Le Sezioni Unite 113 dopo avere esaminato l’indirizzo, in passato maggioritario ( ed in particolare le sent. 2 luglio 1980, n. 4149; 27 gennaio 1981,
n. 634; 24 febbraio 1982, n. 1176; 9 maggio 1983, n. 3167; 8 novembre 1983, n. 6606), che affermava la equiparazione, sotto il profilo della disciplina sanzionatoria applicabile tra un rapporto a termine, illegittimamente stipulato ed un recesso illegittimo ritenendo applicabile la disciplina sui licenziamenti individuali e quindi, ricorrendone le condizioni, anche l'art. 18 della legge n. 300 del 1970 e dopo avere esaminato, altresì, le diverse ragioni che la nuova giurisprudenza (sent. 29 marzo 1988, n. 2623; 2 febbraio 1988, n. 1004; 5
novembre 1987, n. 8117; 8 maggio 1987, n. 4259; 27 gennaio 1987, n. 763; 15
ottobre 1985, n. 5058; 5 marzo 1983, n. 1646) aveva opposto a tale ricostruzione sostenendo che nella controversia promossa per ottenere la conversione di un rapporto di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo determinato, l'azione si qualifica non come impugnazione di licenziamento, ma come azione di nullità parziale non essendo perciò applicabili le disposizioni sui licenziamenti individuali, con conseguente esclusione della possibilità di ordinare, a norma dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970, ritenevano di aderire a tale secondo
111 Cass.21 Febbraio 1982 n.7092 in Giust.civ.mass.1982 fasc. 12, Cass. 5 marzo 1983 n.1646 in
Xxxx.xx 1983 I, 1,1849, Cass. 7 aprile 1987 n.3385 in Giust.civ.mass.1987 fasc 4, Cass. 2 febbraio 1988 n.1004 in Giust.civ.mass.
112 ai sensi dell’art. 374 c.p.c. comma 2 “il Primo Presidente può disporre che la Corte pronunci a sezioni unite sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici..”
113 Cass. Civ. sez.un. 6 luglio 1991 n.7471 in Mass.giur lav. 1991,523
indirizzo “per la decisiva ragione che la norma dell'art. 18 presuppone la sussistenza di un licenziamento (inefficace, annullabile, nullo) che, in ipotesi di scadenza del termine e di conseguente mera disdetta, assolutamente difetta; e naturalmente, come già sopra precisato, questa soluzione si deve intendere superata allorché il datore di lavoro, nel presupposto dell'intervenuta conversione legale del rapporto (la quale, è appena il caso di notarlo, opera di diritto e può dar luogo a sentenze solo dichiarative), intimi un vero e proprio licenziamento dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato, risultante dalla conversione; chiaro essendo che in questo caso la disciplina limitativa dei licenziamenti individuali, ricorrendone le condizioni, è integralmente applicabile”.
Si tratta di un arresto di rilievo nella ricostruzione della disciplina sanzionatoria applicabile all’ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro in quanto il metodo della ‘conversione’ ex art. 1419 c.c. comma secondo resterà anche in futuro la regola comunemente utilizzata.
Il principio di diritto espresso dalle sezioni unite della Suprema Corte trovò un decisivo avallo nella giurisprudenza della Corte Costituzionale che confermò la coerenza di tale ricostruzione con i principi immanenti derivanti dalla Carta Costituzionale.
Il Giudice delle Leggi fu investito del giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 5, secondo comma, del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726 promosso con ordinanza del 10 giugno 1991 dal Pretore di Firenze per contrasto con gli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione “ a) in quanto non specifica la necessità che la distribuzione dell'orario sia precisata, oltre che rispetto al giorno, alla settimana, al mese e all'anno, altresì nella sua collocazione temporale nell'ambito della giornata; b) in quanto non disciplina gli effetti della mancanza di forma scritta o della mancanza o insufficiente formulazione della clausola di distribuzione dell'orario, da ritenere equivalente a mancanza di forma scritta, nel senso che in tal caso il rapporto si deve intendere a tempo pieno e a tempo indeterminato”.
La Corte dopo avere rilevato che la disposizione di cui all’art. 1419 primo comma114 non risultava applicabile al contratto di lavoro allorché la clausola nulla fosse contraria a norme imperative poste a tutela del lavoratore in quanto “se la norma imperativa è posta a protezione di uno dei contraenti, nella presunzione che il testo contrattuale gli sia imposto dall'altro contraente, la nullità integrale del contratto nuocerebbe, anziché giovare, al contraente che il legislatore intende proteggere” richiamava le ipotesi in cui già non si dubitava del fatto che non si estendesse all'intero contratto la nullità, per motivi di forma o di contenuto, del patto di prova (art. 2096 cod. civ.) o del patto di non concorrenza (art.2125), oppure del patto con cui venga attribuito al datore di lavoro un potere illimitato e incondizionato di variare unilateralmente le mansioni o il luogo di lavoro (art. 2103, secondo comma) ovvero della clausola che preveda la risoluzione del rapporto di lavoro in caso di matrimonio (art. 1 legge 9 gennaio 1963, n.7) e affermava che tali vizi determinavano la c.d. conversione in un "normale" contratto di lavoro (o meglio, la qualificazione del rapporto come normale rapporto di lavoro, in ragione dell’inefficacia della pattuizione relativa alla scelta del tipo contrattuale speciale) senza che vi fosse spazio per un 'indagine - oggettiva o soggettiva - circa la comune volontà dei contraenti in ordine a tale esito.
Secondo la sentenza in esame tale scelta “rappresenta una naturale e generale conseguenza del fatto che, nel campo del diritto del lavoro - in ragione della diseguaglianza di fatto delle parti del contratto, dell'immanenza della persona del lavoratore nel contenuto del rapporto e, infine, dell'incidenza che la disciplina di quest'ultimo ha rispetto ad interessi sociali e collettivi - le norme imperative non assolvono solo al ruolo di condizioni di efficacia giuridica della volontà negoziale, ma, insieme alle norme collettive, regolano direttamente il rapporto, in misura certamente prevalente rispetto all'autonomia individuale,
114 Art. 1419 comma 1 cod. civ “la nullità parziale di un contratto o la nullità delle singole clausole importa la nullità dell’intero contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità”
cosicché il rapporto di lavoro, che pur trae vita dal contratto, è invece regolato soprattutto da fonti eteronome, indipendentemente dalla comune volontà dei contraenti ed anche contro di essa” per cui “ non hanno quindi modo di trovare applicazione, in questo campo, quei limiti alla operatività del principio di conservazione del rapporto che sono strettamente collegati all'identificazione nel contratto della fonte primaria del regolamento negoziale, come si verifica nell'ambito della disciplina comune dei contratti”.115
La nuova disciplina del contratto a termine introdotta dal DLG n. 368 del 2001 riproponeva sotto il profilo sanzionatorio lo stesso generico impianto della abrogata legge n. 230 del 1962.
L’art. 1 comma 1 consentiva l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, senza specificare alcunché in ordine agli effetti di un’apposizione illegittima.
Il successivo comma 2 affermava – così come il secondo comma dell’art. 1 dell’abrogata legge n. 230 del 1962 – che l'apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma l.
La disciplina delle proroghe di cui all’art. 4 non individuava alcuna specifica sanzione in caso di sua violazione e solo l’art 5 (titolato “scadenza del termine e sanzioni successione dei contratti”) prevedeva che “se il rapporto di lavoro continua oltre il ventesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, ovvero oltre il trentesimo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini” o che “in caso di riassunzione dello stesso lavoratore – che se entro un periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore ai sei mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato”.
115 Corte Costituzionale, sentenza 11 maggio 1992 n. 210 in Giur it.1993 I, 1, 277; e
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La giurisprudenza anche sotto la vigenza del summenzionato decreto ha confermato che il meccanismo sanzionatorio doveva essere incentrato sulla sostituzione della clausola nulla – quella di apposizione del termine – con una con una conforme alle norme imperative – la durata a tempo indeterminato del rapporto ricavabile dai generali principi dell’ordinamento giuslavoristico – con conseguente conversione in un contratto senza limiti di durata.
In tal senso va richiamata la sentenza della sezione lavoro n. 12985 del 2008116 che tra le prime affrontava la questione delle conseguenze sanzionatorie in caso di apposizione illegittima del termine al contratto di lavoro nel regime successivo all'entrata in vigore del d.lgs. n. 368/2001.
La sentenza in esame confermava alcuni principi già enunciati dalle pronunce che si erano occupate della pregressa disciplina del 1962 fornendo un'interpretazione ‘conservativa’117 anche alla luce di alcuni di alcuni principi comunitari.
Partendo dal presupposto che, nonostante l’art. 1 del d.lgs. 368 del 2001 non riproponesse la locuzione contenuta all’art. 1 della legge 230 del 1962 (“il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato”) il lavoro subordinato a tempo indeterminato restava anche con la nuova disciplina la forma comune di contratto in virtù del generale principio espresso dalla direttiva CE 1999/70 recepita dal decreto legislativo del 2001, la sentenza n. 12985 del 2008 allineandosi al consolidato orientamento formatosi a seguito della sentenza delle Sezioni Unite del 1991 ribadisce che la nullità del termine non comporta la caducazione dell'intero regolamento contrattuale ma la trasformazione in un contratto a tempo indeterminato.
Sul punto la sentenza specificava che non si richiede che le disposizioni inderogabili, oltre a prevedere la nullità delle clausole difformi, impongano, espressamente la sostituzione in quanto la sostituzione avviene automaticamente
116 Cass. 21 Maggio 2008 n. 12985 in De Jure banche dati editoriali gfl
117 XXXXXXXX X. La Cassazione ed il rasoio di Xxxxx applicato al contratto a termine: la spiegazione più semplice tende ad essere quella esatta in Riv.it.dir lav.2008 fasc. 4, pag. 891
trattandosi di elementi necessari del contratto o di aspetti tipici del rapporto, cui la legge ha apprestato una propria inderogabile disciplina.
Sempre secondo la sentenza del 2008 la c.d. conversione del contratto a tempo determinato anche nel regime introdotto dal d.lgs. 368 del 2001 è idonea a raggiungere l'obiettivo perseguito dalla direttiva e dall'accordo quadro consistente nel prevenire il ricorso abusivo a contratti a tempo determinato: diversamente, la nullità dell'intero regolamento contrattuale in luogo della imposizione ex lege di un contratto di lavoro a tempo indeterminato (la sentenza in commento richiama C. cost., 11 maggio 1992, n. 210), renderebbe inoperante l’obiettivo di tutela del lavoratore provocando un peggioramento della posizione del lavoratore subordinato e violando la clausola di non regresso sancita dalla Direttiva CEE 1999/70.
2. Le novità del c. d. Collegato al Lavoro: decadenza e risarcimento forfettario
L’applicazione della conversione ex art. 1419 comma 2 c.p.c. alle ipotesi di nullità del termine apposto al contratto di lavoro comportava la imprescrittibilità della relativa azione secondo la previsione dell’art. 1422 c.c118.
Per l’effetto sotto il profilo delle conseguenze economiche continuavano a registrarsi situazioni difformi che registravano nella pratica applicazione della norma situazioni di eccessivi oneri posti a carico del datore di lavoro nell’ipotesi di soccombenza.
In effetti un lavoratore, scaduto il termine di un contratto , ben poteva con un semplice atto stragiudiziale porre a disposizione del datore le proprie energie lavorative costituendolo in mora e poi a distanza di anni proporre l’azione di nullità: il che tenuto poi conto dell’usuale lunghezza dei giudizi in caso di accoglimento della domanda onerava il datore, oltre che del ripristino del
118 Cass. 29 marzo 1988 n. 2623, Cass. 7 aprile 1987 n. 3385 cit. relativamente alla
imprescrittibilità dell’azione di nullità sancita dall’art. 1422 cod. civ.
rapporto, di corrispondere un risarcimenti pari a tutte le retribuzioni maturate dalla messa in mora alla sentenza.
Su tale situazione è venuta ad incidere significativamente119 la disciplina introdotta dalla legge 4 novembre 2010 n.183120 titolata “Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l'impiego, di incentivi all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro” e meglio conosciuta come Collegato al Lavoro il cui art. 32 introduceva una nuova disciplina in materie di impugnative (e decadenze) in materia di licenziamento estendendolo contestualmente ad altre fattispecie tra cui il contratto a termine e la somministrazione.
Introduceva, inoltre, un nuovo regime sanzionatorio per l’ipotesi di
conversione di un contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato.
2.1. La nuova disciplina delle decadenze e delle impugnative
L’art. 32 titolato “Decadenze e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo determinato” ha sostituito il primo ed il secondo comma dell’art.
6 della legge 604 del 1966 prevedendo che «Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch'essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso
119 per i primi commenti: XXXX X. Il contratto a tempo determinato nel collegato al lavoro in Rivi it. dir. Lav.2010, I 473 e ss.; XXXXXXXXXXXX G. Le regole per le impugnazioni nel cd. collegato al lavoro in Xxx.xx xxx.xxx 2010 I p.888 e ss. VALLEBONA A. Una buona svolta nel diritto del lavoro: il collegato 2010 in MGL 2010 p. 210 e ss. ; XXXXXXX A. L’impugnazione del contratto a termine in collegato al lavoro in Commento alla legge 4 novembre 2010 n. 183 a cura di Xxxxxxxxxx M. , Il sole 24 ore 2010 83 e ss.; XXXXXXXX A. Impugnazione dei licenziamenti e sanzioni per il lavoro a termine in Collegato Lavoro –Glav. Supp. 2010, 39
120 Legge 4 novembre 2010 pubb. in Suppl. ordinarion. 243, Gazzetta Uff. 9 Novembre 2010 n.
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l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso ed ancora che “l'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo”.
Occorre sottolineare per completezza che l’art. 2 comma 54 del decreto legge 29 dicembre 2010 x.xx 255 (c.d. milleproroghe) convertito in legge 26 febbraio 2011 x.xx 10 aggiunse all’art. 32 il comma 1-bis che in sede di prima applicazione differì la decorrenza dei su riportati termini al 31 dicembre 2011.
Il comma 3 lettera d) dell’art. 32 estendeva il nuovo doppio regime di decadenza alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni con termine decorrente dalla scadenza del medesimo.
Il successivo comma 4 prevedeva l’applicazione del novellato art. 6 della legge 604 del 1966 anche “a) ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. 6 settembre 2001 n.368 in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente legge con decorrenza dalla scadenza del termine’ nonché “ b ) ai contratti di lavoro a termine stipulati ai contratti di lavoro a termine stipulati in applicazione di disposizioni di legge previgenti al decreto legislativo 6 settembre 2001 e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge con decorrenza dalla scadenza del termine” ed infine “ d) in ogni altro caso in cui compresa l’ipotesi di cui all’art. 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003 n. 276 in cui si chieda la costituzione l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto”.
Tale intervento – pur confermando la ormai consolidata acquisizione giurisprudenziale che riconduce l'impugnazione del termine apposto al contratto di lavoro in violazione della legge alla fattispecie delle azioni di nullità parziale ex articoli 1418 e 1419, comma 2, c.c. – ha modificato radicalmente il preesistente assetto normativo poiché ha introdotto, a carico del lavoratore che intenda agire in giudizio per ottenere la “conversione” del rapporto (ed il risarcimento del danno), oneri prima inesistenti.
La disposizione che ha immediatamente suscitato dubbi di costituzionalità è stata quella di cui alla lettera b) del comma 4 dell’art. 32 che estendeva l’onere di doppia impugnativa anche ai contratti a termine già conclusi e disciplinati da norme anteriori al d.lgs. 368 del 2001: per tale ipotesi pertanto, la decadenza veniva fatta decorrere dalla predetta data del 24 novembre 2011 poi differita per effetto della proroga introdotta dall’art. 1-bis al 31 dicembre 2011.
Con due distinte ordinanze di rimessione entrambe depositate il 24 ottobre 2012 121 il Tribunale di Roma dubitava della legittimità di quest'ultima disposizione, poiché riferita in via esclusiva all'impugnativa del contratto a termine e non anche a quelle relative al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche al trasferimento ai sensi dell'articolo 2103 c.c., anche alla cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell'articolo 2112 c.c., e ad ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista nell'articolo 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, per le quali si fosse chiesta la costituzione o l'accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare di un contratto .
Ad avviso del Tribunale allorché il Legislatore disciplina in maniera identica fattispecie diverse in relazione ad un determinato aspetto (nel caso, il termine di impugnazione dell'evento considerato illegittimo), per non incorrere nella violazione del principio di ragionevolezza, deve necessariamente farlo in
121 Ordinanze del Tribunale di Roma n.ri 301 e 302 del 24 Ottobre 2012 iscritte nel registro delle ordinanze 2012 e pubblicate in G.U. n.3 – prima serie speciale – anno 2013
maniera intrinsecamente coerente e, quindi, in maniera eguale per tutte le fattispecie disciplinate.
Inoltre, sempre per il Giudice remittente la previsione dell'applicabilità del termine di decadenza ai rapporti “già conclusi” solo per i contratti di lavoro a tempo determinato produceva un’evidente disparità di trattamento tra lavoratori intenzionati a contestare in giudizio l'apposizione del termine a tali contratti (costretti ad impugnarli nel termine di 60 giorni a far data dal 24 novembre 2010 o dal termine prorogato) e quelli intenzionati a promuovere analoga iniziativa giudiziaria in relazione alle diverse ipotesi contemplate dallo stesso art. 32, commi 3 e 4, “già concluse” o comunque verificatesi alla medesima data i quali avrebbero potuto continuare ad agire in giudizio senza dover rispettare alcun termine decadenziale.
Ancora secondo il Tribunale la previsione in questione determinava una ulteriore disparità di trattamento anche dal punto di vista datoriale, non essendovi alcuna ragione per tutelare in maniera differente, all'interno di una medesima norma, l'interesse dei datori di lavoro, che abbiano stipulato contratti a tempo determinato, di conoscere in tempi rapidi e certi se e quanti dei propri ex dipendenti avranno intenzione di contestarne in giudizio la legittimità, rispetto all'analogo interesse di quegli imprenditori, che abbiano invece stipulato contratti di collaborazione coordinata e continuativa, di collaborazione a progetto, ecc., di conoscere con altrettanta rapidità e certezza l'esistenza di analoghe intenzioni impugnatorie da parte dei propri ex collaboratori.
Per tutte tali ragioni il Tribunale rimettente riteneva la norma in contrasto con i principi di parità di trattamento e di ragionevolezza sanciti dall’art. 3 della Costituzione.
La Corte Costituzionale con sentenza del 4 giugno 2014 n. 155 dichiarava non fondata la questione122.
La declaratoria di infondatezza fa perno, sotto il profilo
dell’irragionevolezza, sulla natura peculiare della fattispecie regolata dalla norma
122 Corte Costituzionale sentenza del 4 giugno 2014 n. 155 in xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx
oggetto di censura, diversa dalle altre ipotesi menzionate nell'ordinanza di rimessione ed assistita dal carattere dell'imprescrittibilità dell'azione, che consente di procrastinare sine die la definizione del rapporto.
Secondo la Corte la ratio della norma “si rinviene in una pluralità di esigenze: quella di garantire la speditezza dei processi mediante l'introduzione di termini di decadenza in precedenza non previsti; quella di contrastare la prassi di azioni giudiziarie proposte anche a distanza di tempo assai rilevante dalla scadenza del termine apposto al contratto (va notato, al riguardo, che la controversia circa il carattere - legittimo o illegittimo - dell'apposizione del termine si risolve in una azione di accertamento della nullità parziale di una clausola del contratto, come tale imprescrittibile: art. 1422 cod. civ.); quella di pervenire ad una riduzione del contenzioso giudiziario nella materia in questione. Sussistono, dunque, profili concreti che impongono di ritenere non irragionevoli le scelte compiute dal legislatore. L'applicazione retroattiva del più rigoroso e gravoso regime della decadenza alla sola categoria dei contratti a termine già conclusi prima della entrata in vigore della legge n. 183 del 2010, lasciando immutato per il passato il più favorevole regime previsto per le altre ipotesi disciplinate dalla norma, non si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza. Essa, del resto, trova conforto anche nella natura peculiare della fattispecie regolata dalla norma oggetto di censura, certamente diversa, per ammissione dello stesso rimettente, dalle altre ipotesi menzionate nell'ordinanza di rimessione ed assistita dal carattere imprescrittibile che consente di procrastinare sine die la definizione del rapporto”.
La sentenza in esame ad ulteriore sostegno della propria decisione richiama dei propri precedenti “secondo cui la violazione del principio di uguaglianza sussiste qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili (ex plurimis: sentenza n. 108 del 2006,
n. 340 e n. 136 del 2004). Le fattispecie poste a confronto, come affermato dallo stesso giudice rimettente, sono diverse, ne possono essere rese omogenee dalla
previsione di un identico termine di decadenza, il quale ha come precipua finalità l'accelerazione dei tempi del processo”.
La previsione di cui all’art. 32 comma 4 lettera d) è dunque passata indenne al vaglio di costituzionalità trovando applicazione nell’ambito dei procedimenti aventi ad oggetto l’accertamento della nullità dell’apposizione del termine ai contratti già conclusi al momento dell’entrata in vigore del c.d. Collegato a Lavoro.
La questione è però ritornata alla attenzione dei Giudici per un altro profilo applicativo: quello riguardante la possibilità di estensione di tale termine decadenziale anche ai contratti a tempo determinato stipulati nell’ambito della somministrazione di lavoro ed anch’essi già conclusi al momento dell’entrata in vigore della legge n. 183 del 2010.
La questione attiene alla corretta interpretazione del comma 4 dell'art. 32 citato e pone il problema di verificare l'esatto campo di applicazione dello ius superveniens rispetto a fattispecie negoziali già esaurite alla data di entrata in vigore della novella legislativa.
La giurisprudenza di merito aveva in un primo tempo escluso che la previsione di cui all’art. 32 comma 4 lettera b) potesse applicarsi anche alla somministrazione a tempo determinato relativamente ai contratti conclusi anteriormente alla entrava in vigore del Collegato al Lavoro123.
Tali pronunce rilevavano che in primo luogo, l'art. 32 introduceva, nel regime della decadenza, un'inequivocabile distinzione tra l'impugnazione dei contratti a termine e quella delle altre tipologie di contratti flessibili o di cui è contestata la qualificazione.
Solo per i primi veniva dettata una disposizione transitoria che imponeva espressamente l'applicazione della disposizione in questione ai rapporti già esauriti, con termine da computarsi a decorrere dall'entrata in vigore della stessa
123 Tribunale di Pisa sent. del 4 dicembre 2012 in DL Riv.critica dir lav 2013, 1-2, 55; Tribunale di Milano sent. del 5 giugno 2013 ivi , Tribunale di Bologna sent. del 17 dicembre 2014 n. 978 in Il giuslavorista it 2015, 30 Ottobre; Corte di Appello di Napoli sent. n. 1333. del 15 febbraio 2017 in De Jure – banche dati editoriali gfl
legge.
Ne consegue, secondo le menzionate sentenze, che i rapporti contrattuali
di somministrazione (già esauriti al 24.11.2010) erano da considerarsi sottoposti unicamente agli ordinari termini di prescrizione dei diritti e ciò in quanto, diversamente opinando, si dovrebbe considerare del tutto priva di senso la disposizione transitoria dettata in tema di contratti a termine, mentre la stessa è indispensabile - nei limiti di materia in cui opera - ad introdurre una decadenza nuova e con un regime del tutto speciale che ne ancora la decorrenza all'entrata in vigore della norma e non alla scadenza contrattuale.
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla questione, ha in un primo tempo aderito alla ricostruzione ‘restrittiva’ di tale orientamento sostenendo che alle somministrazioni a tempo determinato già concluse al momento della entrata in vigore della legge n. 183 in assenza di una previsione analoga a quella dettata per i contratti a termine in senso stretto 124 non si applicasse alcun termine decadenziale.
Queste sentenze della Suprema Corte, rilevando che per la somministrazione a tempo determinato non vi era alcuna specifica norma, contrariamente a quanto invece previsto per i contratti a termine, che consentisse l’applicazione retroattiva della nuova ‘decadenza’ introdotta dal Collegato, hanno anche richiamato la sentenza della Corte costituzionale n. 155/2014 (cfr. nota 122) che dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 32, comma 4, lett. b), della legge n. 183/2010, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, in un passaggio argomentativo aveva testualmente affermato “l'applicazione retroattiva del più rigoroso e gravoso regime della decadenza alla sola categoria dei contratti a termine già conclusi prima dell'entrata in vigore della legge n. 183 del 2010, lasciando immutato per il passato il più favorevole regime previsto per le altre ipotesi disciplinate dalla norma, non si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza”.
124 Cass. sentenza del 27 ottobre 2015 n. 21916 in Giust.civ.mass. 2015; Cass. sentenza del 8
febbraio 2016 in Foro it. 2016, 5 I, 1785
La Suprema Corte ha successivamente mutato radicalmente il proprio orientamento affermando che i termini di impugnativa (sia quello stragiudiziale sia quello successivo per il deposito del ricorso introduttivo della controversia giudiziale) si applicano anche ai contratti di somministrazione a tempo determinato scaduti alla data di entrata in vigore della legge stessa.125
Secondo questo nuovo orientamento della Corte di Cassazione la applicabilità dei termini decadenziali anche ai contratti di somministrazione scaduti alla data di entrata in vigore della legge n. 183 del 2010 non necessitava di una specifica previsione di deroga all'art. 11 disp. prel. c.c. “atteso che la nuova norma non ha modificato la disciplina del fatto generatore del diritto ma solo il suo contenuto di poteri e facoltà, suscettibili di nuova regolamentazione perché ontologicamente e funzionalmente distinti da esso e non ancora consumati, dovendosi pertanto escludere ogni profilo di retroattività: in altri termini non si è in presenza di una retroattività propriamente detta, ma solo dell'assoggettamento di un diritto già acquisito a un termine di decadenza per il suo esercizio”.
Si realizza in tal maniera, secondo le dette sentenze quel ‘ragionevole bilanciamento’ effettuato dal legislatore tra esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche e difesa del lavoratore: bilanciamento che appare, invece, violato allorché, a distanza di anni ed anni in situazioni organizzative, produttive e tecniche del tutto mutate, una sentenza oneri un datore di lavoro della costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Anche se tale ultimo orientamento può oggi considerarsi prevalente, anche in considerazione della successiva collocazione temporale, non può escludersi la remissione della questione alle Sezioni Unite al fine di dirimere il contrasto insorto.
125 Cass. sentenza del 29 marzo 2017 n. 8133. Cass. sentenza del 31 marzo 2017 n. 8461.Cass.sentenza del 19 agosto 2019 n. 21472 tutte in De Jure –banche date editoriali gfl
2.2. Il risarcimento forfettario ed omnicomprensivo in caso di conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato
Un’altra disposizione della legge 183 del 2010 che ha fortemente impegnato la Giurisprudenza, registrando notevoli oscillazioni interpretative, è quella di cui all’art. 32 comma 5.
Il quinto comma dell'art. 32 dispone testualmente, che “nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno, stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604”.
La lettura della norma evidenzia chiaramente l’intento del Legislatore: in tutti i casi in cui si faccia luogo a “conversione” del contratto a termine in rapporto a tempo indeterminato, per il periodo intercorrente tra l'interruzione di fatto del rapporto e la sentenza dichiarativa della nullità del termine illegittimamente apposto, è dovuta al lavoratore una indennità onnicomprensiva compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità.
La conversione del rapporto conseguente la declaratoria di nullità della clausola appositiva del termine tornerebbe dunque a produrre gli effetti di diritto comune solo successivamente alla sentenza in forza della quale il lavoratore avrebbe diritto, da un lato, alla riammissione in servizio ed alla ricostituzione della effettiva funzionalità del rapporto e, dall'altro, ove ciò non dovesse avvenire, alle retribuzioni maturande, anche a prescindere da un ulteriore specifico atto di messa in mora con l'offerta della prestazione lavorativa al datore inadempiente al comando giudiziale.
Per il periodo precedente all'accertamento giudiziale il lavoratore avrebbe invece solo diritto di vedersi riconosciuta l’indennità introdotta dal comma 5 dell’art. 32, dovendosi infatti escludere — in ragione del carattere
“onnicomprensivo” della indennità risarcitoria — qualunque obbligo di versamento contributivo sulla somma a tale titolo liquidata dal Giudice.
La norma poco dopo la sua entrata in vigore veniva già sottoposta ad un vaglio di costituzionalità a seguito dei giudizi promossi dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di Trani 126 che ritenevano non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della stessa in relazione agli artt. 3, 24, 111 e 117 della Costituzione.
I Giudici remittenti ritenevano infatti non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dei commi 5 e 6 dell’art. 32, in relazione al principio di ragionevolezza ed a quello di effettività del rimedio giurisdizionale, alla luce degli artt. 3, comma 2, 24 e 111 Cost.; oltre che, secondo la Cassazione rimettente, la supposta lesione del diritto al lavoro sancito dall'art. 4 Cost. in quanto il pregiudizio patito dal lavoratore in conseguenza dell'illegittima apposizione del termine al contratto si dovrebbe attestare quanto meno sull'importo delle retribuzioni che egli avrebbe dovuto percepire nel periodo, di durata imprevedibile, compreso tra l'offerta delle proprie prestazioni lavorative ed il ripristino del rapporto.
Pertanto l’indennità introdotta dal legislatore del 2010 appare, secondo la Suprema Corte, sproporzionata per difetto rispetto all'effettivo pregiudizio, sì da derivarne l'irragionevolezza della norma di legge e la sua confliggenza con il diritto al lavoro e con il principio di effettività del rimedio giurisdizionale.
Il Tribunale di Trani, a sua volta, rilevava che l'utilizzazione di una tecnica normativa di carattere indennitario, ricalcata su quella già prevista dall'ordinamento per il licenziamento in area di stabilità obbligatoria avrebbe finito per introdurre un analogo trattamento normativo in relazione a due fattispecie diverse (l'illegittima apposizione del termine ed il licenziamento, appunto), con ulteriore profilo di violazione dell'art. 3 Cost.
126 Ordinanza n.62 del 28 gennaio 2011 della Corte di cassazione e Ordinanza n. 86 del Tribunale di Trani del 20 dicembre 2010 iscritte al registro delle ordinanze 2011 e pubblicate sulle G.U. n. 16 e 21, prima seri speciale dell’anno 2011
Entrambi i rimettenti sottolineavano poi che il Legislatore con la norma di cui al comma 5 dell’art. 32 avrebbe realizzato un'indebita interferenza nell'amministrazione della giustizia, incidendo sull'esito di singole decisioni o gruppi di esse, in violazione dell'art. 6, comma 1, della CEDU e, dunque, in violazione mediata dell'art. 117 Cost.
La Corte Costituzionale127 rigettò tutte le questioni sollevate premettendo che le norme contestate erano inserite in un quadro giurisprudenziale connotato da “obiettive incertezze”: in tali termini, pertanto, la Corte riteneva che il Legislatore aveva compiuto una valutazione squisitamente politica, non sindacabile sul piano della costituzionalità, mirando a bilanciare gli interessi delle parti contrattuali, non già azzerando il risarcimento (il che avrebbe scaricato sul solo lavoratore il “peso” della durata del processo), né mantenendo lo status quo (che avrebbe finito invece per far gravare il dilatarsi della durata della lite principalmente sul datore di lavoro poi risultato soccombente), bensì introducendo la previsione di un'indennità di misura predeterminata e comunque modulabile dal giudice.
Secondo la Corte, inoltre, il bilanciamento tra contrapposti interessi operato dal Legislatore era certamente connotato da ragionevolezza in considerazione del fatto che, comunque, il rapporto veniva “convertito” a tempo indeterminato, il quale rappresentava “la protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario” sottolineando che per il tempo successivo all'accertamento giudiziale il datore è “indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva” La sentenza in esame escludeva ancora che la norma del Collegato al Lavoro potesse violare l'art. 4 Cost., ricordando come il diritto al lavoro debba configurarsi quale obiettivo, sancito da una norma programmatica, che fa anzitutto carico allo Stato di adottare politiche tese a garantirne la più ampia realizzazione, senza però che ciò si traduca in diritti soggettivi perfetti dei
127 Corte Costituzionale sentenza del 1 novembre 2011 n. 303 su xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx
lavoratori, o aspiranti tali, come del resto confermato dalla ritenuta legittimità costituzionale del regime di stabilità obbligatoria di cui alla l. n. 604/1966 in alternativa alla tutela reale128.
La sentenza in commento riteneva infondato infine l’asserito contrasto con la direttiva 1999/70/CE, che impone agli Stati Membri di prevenire efficacemente l'utilizzazione abusiva di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, rilevando che questa lascia agli Stati Membri il compito di individuare misure idonee rispetto allo scopo, senza nemmeno imporre l'adozione del meccanismo della “conversione”, scelto invece dal Legislatore italiano e che conseguentemente ben difficilmente si potrebbe ritenere non adeguato costituzionalmente un apparato rimediale fondato sulla centralità di una conseguenza fondamentale (la “conversione” del rapporto) per la tutela del lavoratore.
Superato il vaglio di legittimità costituzionale la norma di cui all’art. 32 comma 5 della legge 183 del 2010 è stata oggetto di due principali problemi interpretativi ed applicativi.
Il primo manifestatosi quasi immediatamente dopo l’entrata in vigore della norma prese spunto da una pronuncia di merito129 che ebbe un sostegno non irrilevante da chi riteneva che si trattasse di un primo segnale simbolico di una nuova “vera e propria competizione dei giudici nazionali scesi in campo per smantellare una fragile struttura”.130
Alla citata sentenza ne seguirono alcune altre131 che, seppur con sfumature diverse, propugnavano la tesi per cui, la liquidazione dell’indennità risarcitoria compresa tra le 2,5 e le 12 mensilità (giusti i criteri valevoli ex lege n. 604 del 1966) sarebbe stata aggiuntiva, e non già sostitutiva, rispetto alle conseguenze
128 X. xxxxxxxx x. 00 del 2000 citata nella sentenza in commento
129 Tribunale di Busto Arsizio sentenza del 29 novembre 2010 n. 528 in Glav 2010, 49, p.18
130 XXXXXXX G. L’evoluzione del quadro legale in Il contratto a tempo determinato Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2008.
131 Tribunale di Milano sentenza 2 dicembre 2010 n. 5058 in DL Riv.critica dir.lav.2010, 4,
1040. Tribunale Reggio Xxxxxx sentenza del 28 aprile 2011 in Foro it 2011, 6 I, 1743
derivanti, alla stregua del diritto vivente 132 , dai comuni principi in tema di “conversione” del contratto e di mora credendi ex art. 1206 c.c., dovendosi ritenere sanzione tipica automatica “correlata esclusivamente al mero accertamento della nullità del termine”133.
In altri termini si sarebbe trattato di una “penale sanzionatoria connessa al mero accertamento dell'illegittimità del termine”134 che si andava ad aggiungere sia alla conversione del contratto in applicazione degli artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c. (direttamente richiamata dall’art. 32, comma 5, l. n. 183 del 2010), sia alla comune disciplina ex art. 1206 c.c. relativa alle conseguenze risarcitorie della mora accipiendi del datore di lavoro che avrebbe in ogni caso consentito al lavoratore di percepire un risarcimento parametrato alle retribuzioni astrattamente maturate dalla messa a disposizione delle proprie energie lavorative (anche il giorno successivo alla scadenza del termine dichiarato illegittimo) sino alla relativa sentenza di accertamento.
Tale primi dubbi interpretativi indussero il Legislatore ad intervenire nuovamente fornendo una norma di interpretazione autentica riguardo la funzione e la portata del ‘risarcimento’ introdotto con il comma 5 dell’art. 32.
L’art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012 (cd. legge Xxxxxxx-Xxxxx) interpretando autenticamente la norma del Collegato al Lavoro chiariva che “la disposizione di cui al comma 5 dell'articolo 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che l'indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”.
132 GIUBBONI S. Il contratto a tempo determinato nella legge 183 del 2010 in Riv.it.dir lav.2011 fasc. 2
133 COSSU B. – XXXXXX X. X. in Novità in tema di conseguenze della conversione in MGL 2010 pag. 895 e ss.
134 COSSU B. – XXXXXX X. X. xxx.
Anche nei confronti di tale disposizione interpretativa, emanata al dichiarato scopo di “scoraggiare ulteriore contenzioso”135 furono avanzati dubbi di legittimità costituzionale.
Il Tribunale di Velletri 136 infatti sollevò “questione di legittimità costituzionale dell'art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 come
interpretato autenticamente dall'art. 1, comma 13, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita)” per asserita violazione degli artt. 11 e 117 della Costituzione, in relazione alla clausola 8.3 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato).
Il Tribunale rimettente sosteneva in particolare che tali disposizioni, limitando, ora in maniera inequivoca a seguito dell’interpretazione autentica fornita dalla legge n. 92 del 2012 l'entità del risarcimento del danno spettante al lavoratore per il caso di illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro, ridurrebbero la tutela già riconosciuta nel regime previgente, in violazione del divieto di reformatio in peius sancito dalla normativa comunitaria.
La Corte Costituzionale 137 riteneva non fondata anche tale questione affermando che la clausola 8.3 dell'accordo quadro nell'interpretazione fornita dal giudice europeo, non precludeva in via generale modifiche che potessero essere anche ritenute peggiorative del trattamento dei lavoratori a tempo determinato allorché attraverso di esse il legislatore nazionale persegua obiettivi diversi dalla attuazione dell'accordo quadro e che, pertanto, la norma della legge n. 92 del 2012, collocandosi al di fuori dell'ambito di applicazione della clausola 8.3 del
135 Così la relazione al disegno di legge 3249 presentato al Senato il 5 aprile 2012 su Xxxxxx.xx –
leggi e documenti
136 Tribunale di Velletri, ordinanza del 21 dicembre 2012 iscritta al n. 130 del registro ordinanze della Corte Costituzionale 2013, pubblicata su G.U. n. 24, prima serie speciale, 2013
137 Corte Costituzionale sentenza del 25 luglio 2014 n. 226 in xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx
menzionato accordo, non la violava né conseguentemente violava la norma costituzionale (art. 117) evocata.
In tali presupposti la Consulta rilevava che la norma di interpretazione autentica contenuta nell'art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012, emanata successivamente alla sentenza n. 303 del 2011, era conforme all’ l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 già contenuta nella sentenza n. 303, secondo cui “il danno forfettizzato dall'indennità in esame «copre soltanto il periodo cosiddetto "intermedio", quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto. A partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva”.
Ad avviso della Corte Costituzionale tali elementi “consentono di ravvisare l'obiettivo perseguito dal legislatore, ancora una volta, nella esigenza di assicurare certezza nella quantificazione del risarcimento del danno spettante al lavoratore in caso di illegittima apposizione del termine al contratto, rendendo cogente la soluzione, già prevista, che bilanciava le opposte pretese del lavoratore e del datore di lavoro, nonché nello scoraggiare ulteriore contenzioso” rispondendo in tal maniera ad una esigenza di certezza comune ad entrambe le parti del rapporto di lavoro.
Il secondo problema interpretativo ed applicativo della disposizione di cui al comma 5 dell’art. 32 si poneva in relazione alla formulazione letterale della norma che introduceva la richiamata indennità omnicomprensiva da liquidarsi nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 “nei casi di conversione del contratto a tempo determinato”.
Il riferimento letterale alle sole ipotesi di conversione del contratto a termine pose all'attenzione degli interpreti l'interrogativo se tale indennità onnicomprensiva si applicasse anche ai casi di somministrazione di lavoro a tempo determinato o se, invece, dovessero continuare ad applicarsi a quest'ultima fattispecie i principî elaborati da una consolidata giurisprudenza di legittimità, che aveva sempre riconosciuto al lavoratore un risarcimento del danno quantificabile nelle retribuzioni medio tempore maturate dalla data di messa a disposizione delle proprie energie lavorative a quella di riammissione in servizio138.
In un primo orientamento la giurisprudenza di merito ne escluse l'applicabilità sulla base di tre ordini di considerazioni.
Il primo139richiamava il tenore letterale dell'articolo 32 comma 5 che si riferiva esclusivamente alla conversione del contratto a termine osservando che allorché il Legislatore si era occupato di somministrazione a tempo determinato lo aveva fatto emanando disposizioni ad hoc e pertanto riteneva la disposizione non estensibile alla somministrazione.
Alcune altre sentenze 140 affiancavano all’argomento letterale la considerazione per cui l'articolo 32 presentandosi come norma derogatoria rispetto ai principî generali civilistici, in quanto introduceva una forma forfetizzata di risarcimento in luogo dell’ordinaria previsione in caso di inadempimento ex art. 1223 e ss. (risarcimento pari alle retribuzioni perdute dalla costituzione in mora) non era suscettibile di interpretazione analogica tale da ricomprendere nel suo campo applicativo la fattispecie della somministrazione irregolare.
138 Cassazione 2 luglio 2009, n. 15515 in De Jure – banche dati editoriale gfl
139 Tribunale di Napoli sentenza 8 febbraio 2011 in Ngl 2011, 175 e ss., Corte di Appello di Torino sentenza 2 marzo 2011 in Bollett. ADAPT 2011 n.27, Tribunale di Bergamo sentenza del 10 marzo 2011 in D&L 2011 855 e ss., Corte di Appello di Venezia sentenza del 5 ottobre 2011
n.544 in Glav. 2011, 45,44 e sentenza 21 ottobre 2011n.580 in Boll. ADAPT 2012 n.9
140 Tribunale di Napoli sentenza 10 febbraio 2011 in Boll.ADAPT 2011 n. 22
Un’ulteriore argomentazione di carattere sistematico era addotta in altre sentenze 141 ed era fondata sulla convinzione che, vista la diversa struttura giuridica tra l'istituto del contratto a termine e quello della somministrazione a tempo determinato fondata su due rapporti, uno intercorrente tra l'utilizzatore e il somministratore l'altro tra il questi ed il lavoratore, i vizi che determinano la costituzione del rapporto a tempo indeterminato in capo all'utilizzatore (ex articolo 27, comma 1, decreto legislativo n. 276/2003) sono solo quelli relativi al contratto concluso tra il medesimo e l'agenzia di somministrazione che se sussistenti non danno luogo ad alcuna “conversione”, bensì alla costituzione di un rapporto lavorativo tra soggetti prima non legati tra loro da alcun contratto, ovvero l'utilizzatore e il prestatore di lavoro.
Il Tribunale di Milano, in particolare, affermava che l'articolo 32, comma
5 “non pare riferibile alla fattispecie di cui all'art. 27, comma 1, d.lgs. n. 276/2003, atteso che il contratto di somministrazione (il contratto cd. “commerciale” tra utilizzatore e somministratore) ed il contratto di lavoro (il contratto tra somministratore e lavoratore), per quanto collegati, sono tra loro separati, e che l'art. 27, comma 1 prevede la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro tra l'utilizzatore ed il lavoratore e non la sostituzione dell'utilizzatore al somministratore nel contratto di lavoro da questi stipulato con il lavoratore”.
A queste sentenze si opponeva un diverso orientamento142 che, invece, riteneva la previsione dell’art. 32 comma 5 della legge n. 183 del 2010 applicabile anche all’ipotesi di somministrazione a tempo determinato di cui fosse accertata l’irregolarità.
Tale diverso orientamento sosteneva che la novella legislativa del 2010 nel prevedere l'applicazione dell'articolo 32, comma 5 alle ipotesi di “conversione del contratto a tempo determinato”, utilizzasse una formulazione
141 Tribunale di Milano sentenza 2 dicembre 2010 n. 5058 in D&L 2010, 1052 e ss.; Tribunale
di Milano 28 novembre 2011 in D&L 2011, 861
142 Tribunale di Rovigo sentenza 1 febbraio 2011 in Glav 2011, 42, 42; Tribunale di Padova sentenza 29 novembre 2011 in Glav.2011,50,27; Corte di Appello di Bari sentenza 26 gennaio 2012 in De Jure –banche editoriali gfl; Corte di Appello di Roma sentenza 8 aprile 2013 n.571 su De Jure – banche dati editoriale gfl
atecnica e di carattere generale, di conseguenza non era possibile escluderne l'applicazione a tipologie contrattuali diverse dal contratto di lavoro a termine.
In proposito ed aderendo a tale orientamento, il Tribunale di Brescia143 rilevava che “dal complessivo 'impianto della legge n. 183/2010 emergeva la volontà del legislatore di attenuare gli effetti economici e di incertezza prodottisi negli ultimi anni intorno all'impugnazione del contratto a tempo determinato e quindi a limitare gli effetti che l'eventuale lungo corso del giudizio a volte può determinare” non ritenendo ragionevole una differenziazione di disciplina in quanto “non può ammettersi un regime differenziato solo per l'ipotesi di somministrazione a termine se la tutela del lavoratore rispetto alla nullità del termine apposto al proprio contratto di lavoro è universale ed è la medesima in tutti i casi [...] l'art. 27 del D.lgs. 276/03 usa il termine “costituzione” in luogo di “conversione”, ma è evidente che la ratio di protezione della norma è la stessa di quella che disciplina la conversione dei rapporti a termine irregolari in rapporti a tempo indeterminato”.
Le menzionate sentenze escludevano poi qualsivoglia incompatibilità tra il contratto a termine stipulato ai sensi dell'articolo 1, decreto legislativo n. 368/2001 e quello stipulato in esecuzione di un contratto di somministrazione: “poiché l'azione di nullità dei contratti di somministrazione e di costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato a carico dell'utilizzatore presuppone pur sempre la conversione di un contratto a tempo determinato (quello stipulato tra il ricorrente e l'Agenzia) nella fattispecie in esame ci si deve quindi attenere all'art. 32, comma 5, legge n. 183/2010 ai fini della liquidazione del danno”144.
Nell’ambito di tale contrasto intervenne già nel 2013 la Corte di Cassazione145 che si pronunciò, seppure in una fattispecie concreta disciplinata dalla legge n. 196 del 1997, ma riferibile anche alla somministrazione a tempo
143 Tribunale di Brescia sentenza 12 gennaio 2012 in Glav 2012, 7,30
144 Tribunale di Padova sentenza 4 febbraio 2011 in Glav 2011, 9, 12 e ss.
145 Cass. sentenza 29 maggio 2013 n.13404 in De Jure – banche dati gfl
determinato di cui al d.lgs. 276 2003 (attesa la identità di struttura delle due discipline) a favore di una lettura estensiva della locuzione contenuta nell'art. 32, comma 5, della l. n. 183/2010 ( “in caso di conversione del contratto a termine”) e dopo averne sottolineato il carattere unitario, indistinto e generale, giunse a ritenere l'applicabilità della disposizione in parola, oltre che nelle fattispecie conseguenti alla dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro, anche alle ipotesi di invalidità del contratto di fornitura di manodopera.
In particolare, secondo la Cassazione, posta la natura temporanea dell'originario rapporto di lavoro tra agenzia e lavoratore, il rimedio operante in caso di accertata illegittimità del medesimo contratto non potrebbe che qualificarsi in termini di conversione, atteso che, ai sensi del richiamato art. 10 della l. n. 196/1997, il rapporto imputato in capo all'utilizzatore si trasforma necessariamente in un contratto a tempo indeterminato.
La pronuncia della Corte di cassazione sembrò quindi porre fine alle confliggenti soluzioni ermeneutiche in ordine all'esatto perimetro di applicabilità dell'art. 32, comma 5, l. n. 183/2010.
Xxxxxxxxx, successivamente a tale menzionato arresto non sono mancate tra i Giudici di merito decisioni che hanno disatteso le conclusioni elaborate dal Giudice di legittimità.
In consapevole dissenso rispetto alla posizione espressa dalla Corte di Cassazione si erano espressi in particolare il Tribunale e la Xxxxx xx Xxxxxxx xx Xxxx 000 che ripresero le argomentazioni sostenute dall'orientamento giurisprudenziale più restrittivo di cui si è detto in precedenza , al fine di escludere l'applicabilità del regime sanzionatorio forfettizzato, ponendo ancora l'accento su rilievi di carattere letterale e sistematico fondati, sul mancato riferimento nel comma 5 dell'art. 32 al contratto di somministrazione di lavoro e
146 Corte di Appello di Roma 5 marzo 2013 e Tribunale di Roma 21 febbraio 2013 in RGL 2013 n. 2 II 197 e ss. con nota di Salvagni M; Xxxxx xx Xxxxxxx xx Xxxx 00 gennaio 2013, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx;
sulla considerazione che nelle fattispecie del lavoro temporaneo illegittimo e della somministrazione a termine irregolare non si poteva tecnicamente parlarsi di “conversione”.
Tali ulteriori arresti non hanno peraltro impedito alla Suprema Corte di ribadire in numerose circostanze l’orientamento già espresso in tema di lavoro temporaneo illegittimo con la sentenza 29 maggio 2013, n. 13404 e con una serie di decisioni, anche recenti, 147 che hanno confermato l’applicabilità del risarcimento forfettario omnicomprensivo anche alla somministrazione a tempo determinato.
Recentemente l’ applicabilità di tale risarcimento è stata estesa dalla Suprema Corte anche ad ipotesi ulteriori, tra cui la declaratoria di nullità di un contratto di collaborazione a progetto148 sul presupposto che la predetta indennità “consegue a qualsiasi ipotesi di riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in sostituzione di qualsiasi altra fattispecie contrattuale a tempo determinato”.
Può ritenersi, pertanto, oggi consolidato nella giurisprudenza di Legittimità il principio secondo cui l’art. 32, comma 5, nel significato chiarito dalla l. n. 92/2012, fa riferimento, in generale, a qualsiasi ipotesi di ricostituzione del rapporto di lavoro avente in origine termine illegittimo e, dunque, anche ai casi di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa della nullità di un contratto per prestazioni di lavoro temporaneo o dell'invalidità di un contratto di somministrazione a tempo determinato irregolare in quanto in tale ultima ipotesi l'invalidità del contratto fra somministratore e utilizzatore, travolgendo anche quello intercorrente fra lavoratore e somministratore, produce l'effetto finale di “una duplice conversione”.
147 Cassazione 1 Agosto 2014 n.17540 in Foro it. 2014, 11,I, 319; Cassazione 20 agosto 2014
n. 18046 in Dir.&Giust.2014, I; Cassazione 8 settembre 2014 n.18861 ivi ; Cassazione 3 agosto 2018 n.20500 in ilgiuslavorista 22 ottobre 2010; Cassazione 3 aprile 2018 n. 8148 in Dir&Giust. 2018, 4 aprile;
148Cassazione 4 novembre 2019 n. 28294 in Dir&Giust. 2019 5 novembre
Tale orientamento risulta essere d'altra parte conforme a quella elaborazione dottrinaria149 che, appena dopo l’entrata in vigore del Collegato al Lavoro osservava come il meccanismo “rimediale” predisposto per i casi di illegittimo utilizzo della fornitura di lavoro a termine si presenti, nella sostanza, assimilabile a quello predisposto per le fattispecie di termine nullo in quanto agendo e ex art. 27, d.lgs. n. 276/2003, il lavoratore non si limita infatti a domandare l'imputazione del rapporto di lavoro in capo all'utilizzatore della prestazione, ma, contestualmente, richiede pure la caducazione della clausola di durata apposta al contratto di lavoro concluso con il somministratore e, dunque, in definitiva chiede la “conversione” del contratto nel significato sopra descritto.
L’art. 32 comma 5 della legge 183 del 2010 è stato abrogato dall’art. 55 lettera f) del d.lgs. 81 del 2015 che all’art.28 commi 2 e 3 ha ridisciplinato l’indennità prevista per i casi di trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato.
L’art. 28 del d.lgs. 81 ripropone pedissequamente il comma 5 dell’art. 32 salvo per il fatto che l’indennità risarcitoria non è più commisurata alla “ultima retribuzione globale di fatto”, ma alla “ultima retribuzione di riferimento utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto”.
In assenza di una disposizione transitoria si è posto il problema della decorrenza della nuova disciplina e della applicabilità della stessa ai giudizi in corso alla data della sua entrata in vigore.
La Corte di Cassazione, 150 rilevato che si era in presenza di una successione di leggi senza una disposizione ad hoc che conferisse efficacia retroattiva alla nuova disposizione, ha escluso qualsiasi retroattività della stessa ritenendo che la disciplina di cui all’art. 28 del d.lgs. 81 vada applicata unicamente ai contratti stipulati successivamente alla sua entrata in vigore (25.06.2015) e che conseguentemente i giudizi pendenti a tale data restavano
149 PESSI R. Le indennità per la conversione del contratto a termine e del contratto di collaborazione coordinata e continuativa in GI 2011, 2446
150 Cassazione sentenza 20 ottobre 2015 n. 21266 in De Jure – banche dati editoriali gfl
disciplinati dalla pregressa disposizione contenuta nell’art. 32 comma 5 della legge n. 183 del 2010.
3. Reiterazione dei contratti di lavoro interinale e di somministrazione a tempo determinato e contratto in frode alla legge
Un’ulteriore problematica che ha occupato la Giurisprudenza prima in relazione al lavoro interinale disciplinato dalla legge 196 del 1997 e, poi, in relazione alla somministrazione a tempo determinato disciplinata dal d.lgs. 276 del 2003 è quello relativo alla cd. temporaneità delle esigenze che giustificano il ricorso a tali tipologia contrattuali.
La questione è stata oggetto di innumerevoli pronunce in particolare nelle ipotesi di reiterazione di più contratti con un medesimo lavoratore al fine di verificare se atti negoziali pur conformi alla disciplina legale fossero in realtà posti in essere con l’intento di eludere disposizioni inderogabili di legge configurandosi, pertanto quali negozi in frode alla legge ex art. 1344 cod. civile.
L’art. 1344 del codice civile (Libro quarto –Titolo secondo) titolato ‘contratto in frode alla legge’ prevede che si reputi illecita la causa “quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa”.
La frode alla legge si verifica allorché i limiti ed i divieti posti all’autonomia dei privati non sono violati direttamente ma risultato elusi o aggirati dalle parti attraverso patti di per sé legittimi ma conclusi al fine di aggirare il divieto151.
Ne consegue che, benché il mezzo impiegato debba ritenersi lecito, sarà illecito il risultato che attraverso l'abuso di quel mezzo o la distorsione della sua funzione ordinaria si vuole in concreto realizzare.
151 BIANCA C.M., Diritto civile, III, Il contratto, Xxxxxxx, Milano, 1997; XXXXXXXXXX A., I contratti. Parte generale, Giappichelli, Torino, 2014; XXXXXXX F., Diritto civile e commerciale, II, Cedam, Padova, 1993; XXXXXXXX P., Manuale del diritto privato italiano, Jovene, Napoli, 1990.
Per quel che riguarda l’applicazione dell’art. 1344 c.c. agli istituti in esame occorre premettere che la giurisprudenza ha sempre manifestato la tendenza ad utilizzare per l’esame del lavoro interinale e della somministrazione a tempo determinato i criteri ermeneutici già elaborati per il contratto a termine nel presupposto che il lavoro con una durata predeterminata, sia esso prestato alle dirette dipendenze del soggetto che fruisce della prestazione, sia esso svolto in esecuzione di un contratto di lavoro concluso con il somministratore, assolve comunque alla medesima funzione pratica, ossia quella di fruire di attività lavorative in regime di subordinazione per un periodo limitato.
Di conseguenza l'assetto normativo del lavoro interinale e della somministrazione a tempo determinato viene spesso ad essere interpretato in maniera tale che gli oneri gravanti sul soggetto che beneficia di tale prestazione siano identici con quelli del datore di lavoro che ha stipulato un contratto a termine direttamente con il lavoratore: da ciò la ritenuta necessità che la temporaneità dell’utilizzazione sia chiaramente desumibile dal contratto in quanto come affermato in più occasioni, ad esempio, dal Tribunale di Roma, “le ragioni che inducono l'imprenditore ad utilizzare prestazioni di lavoro a tempo determinato» devono essere cristallizzate nel contratto di lavoro [...] ovvero nel contratto di somministrazione”152.
Sotto tale profilo, pertanto, la necessità di precisa indicazione delle ragioni legittimanti il ricorso prima al lavoro interinale e poi alla somministrazione a tempo determinato (il cui grado di specificità è stato oggetto di un ulteriore massiccio contenzioso qui non esaminato) è ritenuta dalla giurisprudenza necessaria anche al fine di verificare che il ricorso a tali forme contrattuali abbia, così come si ritiene che debba avere ,carattere intrinsecamente e necessariamente temporaneo153.
152 Tribunale di Roma sentenza 17 giugno 2010; Tribunale di Roma sentenza 25 novembre 2010; Tribunale di Roma sentenza 30 novembre 2010, n. 18986, tutte in Dir.rel.ind. 2012, fasc. 3, pag. 755 con nota di Xxxxxxxxx, Pietra, Rosolen
153 Tribunale di Bergamo sentenza 10 marzo 2011 in Boll.ADAPT 2011 n. 23
L’orientamento che afferma la necessaria temporaneità delle esigenze legittimanti il lavoro interinale la somministrazione si fonda sull'implicita considerazione dell'esistenza di un rapporto regola-eccezione tra lavoro standard a tempo indeterminato e lavoro a termine154 : l’utilizzazione di forme contrattuali come il contratto a termine e d il lavoro interinale potevano essere utilizzati per esigenze che dovevano essere pur sempre di natura temporanea, tali cioè da non poter essere soddisfatte mediante l'assunzione di lavoratori a tempo indeterminato”.
Secondo altre sentenze inoltre, questa lettura scongiurerebbe il rischio che la cessazione del rapporto per il raggiungimento di una certa data o di un determinato evento sia rimessa alla discrezionalità dell'utilizzatore, situazione che striderebbe fortemente con quella visione tendente a limitare la piena libertà nell'apposizione del termine in quanto “ipotesi residuale rispetto al lavoro a tempo indeterminato”155.
Per quel che riguarda il lavoro interinale disciplinato dalla legge n. 196 del 1997 va detto che dalla lettura della relativa disciplina – a prescindere dai limiti fissati relativamente alle proroghe dal comma 4 dell’art. 3- non poteva evincersi alcun espresso divieto di reiterazione (stipula di più contratti) della stessa con un medesimo lavoratore e che la “temporaneità” connessa all’utilizzazione di tale forma contrattuale veniva ritenuto un concetto legato all’esigenza e non alla durata delle prestazioni interinali156.
Tale nozione di temporaneità era stata espressa dal Tribunale di Roma secondo il quale “il concetto di temporaneità esprime la transitorietà di una situazione di fatto, e ciò indipendentemente dalla determinazione o determinabilità "ex ante" della durata temporale di tale situazione ovvero della durata oggettiva della stessa; il passare del tempo, dunque, non è di per sé dato antitetico al concetto di temporaneità né tanto meno rende in xxx xxxxxxxxxx
000 Xxxxx xx Xxxxxxx xx Xxxxxxx sentenza del 17 maggio 2012 in Dir.Rel.Ind cit.
155 Tribunale di Padova sentenza 4 febbraio 2011 ivi
156 XXXXXXX A. Il contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo in Xxxxxxx X. Xxxxxxxxxx (a cura di ) Flessibilità e diritto del lavoro Xxxxxxxxxxxx, Torino, 1997
stabile una situazione che presenta connotati di ontologica incertezza quanto al suo strutturarsi, perché destinata ad evolversi, regredendo o progredendo, secondo xxxxxx non conosciuti a priori. Dal che ne deriva che, nell'ambito di un rapporto di lavoro temporaneo, l'esiguità del periodo di assegnazione iniziale del prestatore di lavoro interinale non è una condizione normativamente - e ancor prima logicamente - richiesta e del resto, anche in via d'interpretazione teleologica dell'art. 1, l. n. 196 del 1997, un rigoroso contenimento temporale del termine di scadenza del contratto colliderebbe in modo insanabile con la finalità dell'istituto, che è invece quella di predisporre uno strumento di collocamento della manodopera flessibile e al passo con le nuove multiformi esigenze del mercato e dell'odierna realtà industriale”157.
Questa prospettazione non ebbe seguito nella progressiva elaborazione dottrinaria sulla legge n. 196 del 1997 che continuava ad evidenziare come “la disciplina della durata del lavoro temporaneo delle proroghe e delle sanzioni per la prosecuzione del rapporto appare per molti versi lacunosa” ma “ è possibile ritenere che successivi contratti di fornitura stipulati sempre al fine di soddisfare la medesima stabile esigenza siano nulli158 e che “ in assenza della temporaneità il lavoro interinale non avrebbe avuto ragione di esistere non perseguendo la funzione sua propria”159.
Partendo proprio dal presupposto della intrinseca e strutturale temporaneità che doveva connotare il lavoro interinale la Corte di Cassazione intervenne integrando la ‘lacunosità’ della legge rilevata in dottrina ed affermando che “ In materia di rapporto di lavoro "interinale", disciplinato dalla
l. 24 giugno 1997 n. 196, la mancata previsione, nell'ambito della predetta legge, di un divieto di reiterazione dei contratti di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo conclusi con lo stesso lavoratore avviato presso la medesima
157 Tribunale di Roma sentenza del 15 ottobre 2003, in Il Lavoro nella Giurisprudenza, 2004, pag. 607.
158 XXXXXXX O. L’utilizzazione indiretta dei lavoratori Angeli, Roma, 2001, p. 279 e ss.
159 CARINCI M.T. La somministrazione di lavoro altrui in Somministrazione, comando, distacco, trasferimento d’azienda a cura di Carinci M.T. – Cester C. coordinato da Carinci F., Ipsoa, Milano, 2014, p. 10.
impresa utilizzatrice non esclude che, in tali casi, possano configurarsi ipotesi di contratti in frode alla legge (art. 1344 c.c.), allorché la reiterazione costituisca il mezzo, anche attraverso intese, esplicite o implicite, tra impresa fornitrice e impresa utilizzatrice concernenti la medesima persona del prestatore, per eludere la regola della temporaneità dell'occasione di lavoro che connota tale disciplina”160.
A tale prima pronuncia ne sono seguite diverse altre che hanno riproposto identicamente la medesima ricostruzione ed enunciando il medesimo principio di diritto 161.
Con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 276 del 2003 e la conseguente abrogazione degli artt. da 1 a 11 della legge n. 196 del 1997 veniva introdotto il modello della somministrazione a tempo determinato, in relazione alla quale la norma prevedeva (art. 20) che le ragioni legittimanti il ricorso alla somministrazione a tempo determinato erano riferibili alla ‘ordinaria attività dell’utilizzatore’.
Le disposizioni del DLG n. 276/2003 introducendo il lavoro “in somministrazione” modificavano dunque la previgente disciplina di cui (legge n. 196/1997) che all’art. 1 titolato “contratto di fornitura di lavoro temporaneo” consentiva il ricorso a tale tipologia contrattuale nei casi di utilizzazione in qualifiche non previste dai normali assetti produttivi.
Al contrario il dato letterale della nuova norma poteva fare ritenere che la temporaneità non rappresentasse più un presupposto necessario all’utilizzazione di un prestatore anche a tempo determinato in quanto prevedeva tale utilizzazione per esigenze connesse alla ordinaria attività produttiva con la conseguenza che l’unica “temporaneità” imposta nell’ipotesi di somministrazione a tempo determinato sembrava essere la certezza della durata del contratto e la
160 Cassazione 2 luglio 2009 n. 15515 in Red.giust.civ.mass 2009 7-8
161 Cassazione 23 novembre 2010 n. 23684 in Dir&Giust. 2010; Cassazione 12 gennaio 2012 n.
232 in Guida al diritto 2012, 9, 52;Cassazione 6 febbraio 2014 n.2763 in Dir&Giust. 2014 fasc
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