Recesso e contratto collettivo
VI Il recesso dal contratto collettivo
Indice VII
Indice
pag.
Prefazione XI
Premessa XIII
Capitolo I
Il recesso dal contratto collettivo nel diritto civile
1. Il recesso dal contratto: i termini della questione 1
2. Il principio della temporaneità dei vincoli contrattuali e la questione
del recesso dal contratto 9
3. Limiti all’esercizio della facoltà di recesso dal contratto 13
4. Primi rilievi di sintesi 18
Capitolo II
Recesso e contratto collettivo
1. Recesso e contratto collettivo: premessa metodologica. Le problema- tiche del recesso nel diritto sindacale sullo sfondo dei rapporti tra di-
ritto civile, del lavoro e sindacale 21
2. La prima condizione per l’applicazione al recesso dal contratto collet- tivo dei principi generali in tema di recesso: la questione dell’esistenza
di una disciplina dell’efficacia temporale del contratto collettivo 32
2.1. Segue: l’esistenza di una disciplina dell’efficacia temporale del
contratto collettivo nell’impiego privato 33
2.1.1. Segue: in particolare, la vigenza dell’art. 2074 c.c. 40
2.2. Segue: l’esistenza di una disciplina dell’efficacia temporale del
contratto collettivo nell’impiego pubblico 44
2.3. Segue: l’esistenza di una disciplina dell’efficacia temporale del
contratto collettivo nell’ordinamento intersindacale 46
VIII Il recesso dal contratto collettivo
pag.
2.4. Segue: la disciplina legale dell’efficacia temporale del contratto collettivo in caso di trasferimento dell’azienda: spunti per una rifles-
sione a livello di ordinamento statale 52
3. La seconda condizione per l’applicazione al recesso dal contratto collettivo dei principi generali in tema di recesso: la riferibilità dei
predetti principi ai contratti collettivi 55
4. La terza condizione per l’applicazione al recesso dal contratto collet- tivo dei principi generali in tema di recesso: la compatibilità tra i predetti principi e la peculiare natura del contratto collettivo. Ordi-
namento intersindacale e recesso dal contratto collettivo 62
4.1. Segue: a) l’obbligo implicito di pace sindacale 65
4.2. Segue: b) sciopero contrattuale e recesso 70
4.3. Segue: c) le clausole di tregua 73
4.4. Segue: d) il rinnovo del CCNL Metalmeccanici e gli «accordi se-
parati»: spunti per una riflessione 78
5. L’ulteriore piano di verifica dell’ammissibilità del recesso dal contratto collettivo: recesso e condotta antisindacale 83
5.1. Segue: alcuni richiami utili alle principali questioni in tema di condotta antisindacale ed in particolare all’oggetto della tutela ed alla rilevanza dell’elemento soggettivo nella costruzione della
fattispecie 85
5.2. Segue: recesso dal contratto e violazione diretta dei beni protetti
dall’art. 28 Stat. Lav. 88
5.3. Segue: recesso dal contratto e violazione indiretta dei beni pro-
tetti dall’art. 28 Stat. Lav. 88
6. Rilievi di sintesi 93
Capitolo III
La disciplina del recesso ed i suoi effetti
1. Oggetto del contratto e conseguenze del recesso: premessa 95
1.1. Segue: il recesso dal contratto collettivo avente ad oggetto tratta-
menti economico-normativi 102
1.2. Segue: il recesso da un contratto collettivo «delegato» (et alii) 104
1.3. Segue: il recesso da un accordo in tema di prestazioni indispen-
sabili nel caso di sciopero nei servizi pubblici essenziali 107
2. Le conseguenze del recesso sul piano dei rapporti individuali di la-
voro 116
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2.1. Segue: l’inapplicabilità al contratto collettivo di diritto comune della disciplina di cui all’art. 2074 c.c. | 116 |
3. Le possibili soluzioni al «vuoto normativo» creato dal recesso dal contratto: a) il ricorso all’art. 36 Cost. ed all’art. 429 c.p.c. | 119 |
3.1. Segue: b) la reviviscenza della disciplina precedente | 125 |
3.2. Segue: c) l’ultrattività di fatto del contratto collettivo | 126 |
4. Uso aziendale e recesso | 130 |
4.1. La fattispecie «uso aziendale» nell’elaborazione della giurispru- denza | 133 |
4.2. Uso aziendale e contratto collettivo: opportunità di una distin-
zione 140
4.3. Uso aziendale e recesso 146
5. Rilievi di sintesi 147
Capitolo IV
Il recesso da un contratto collettivo istitutivo di forme di previdenza complementare
1. Brevi cenni sui fondi di previdenza complementare 149
2. La natura pubblica o privata della previdenza complementare 155
3. Il recesso da un contratto collettivo istitutivo di forme di previdenza complementare: i termini della questione 159
3.1. Segue: a) la tesi contraria all’ammissibilità del recesso 160
3.2. Segue: b) la tesi favorevole all’ammissibilità del recesso 164
4. Le conseguenze del recesso 169
Bibliografia 181
X Il recesso dal contratto collettivo
Quello del recesso unilaterale dal contratto collettivo è, forse non a ca- so, tema poco frequentato dall’indagine dottrinale giuslavoristica, ma, co- me giustamente osserva l’autore, parlarne “significa inevitabilmente tocca- re nodi cruciali del sistema giussindacale, quali la natura del contratto, la sua funzione, il valore della cosiddetta parte obbligatoria”.
Con questa dichiarata consapevolezza Xxxxxxxx Xxxxxxxxx parte però da più lontano e si accosta al tema della propria ricerca con un primo capitolo che analizza, con sobria compiutezza, il cammino compiuto dalla dottrina civilistica nel ricomporre l’apparente contraddizione esistente fra la “forza di legge fra le parti” attribuita al contratto, superabile solo per mutuo consenso o nei casi specificamente previsti dalla legge (art. 1372 c.c.) ed il contestuale riconoscimento, nella maggior parte dei contratti nominati, della facoltà dei contraenti di sottrarsi unilateralmente al vincolo pattuito. Un percorso che si conclude con l’affermarsi di un sostanziale consenso circa la sussistenza, in base al principio di inammissibilità di vincoli contrattuali perpetui, di una regola generale di recedibilità dal contratto, pur con i vincoli e le condizioni imposte dal rispetto delle regole di correttezza e buona fede contrattuale.
Il secondo capitolo è aperto da una breve premessa di carattere metodo- logico ove si dà conto delle ragioni che hanno indotto l’autore al tentativo di coniugare i principi e le regole civilistiche, pur sempre ritenute applicabili al contratto collettivo cosiddetto di “diritto comune” in ragione della mancata attuazione dell’art. 39 della Costituzione, con la specificità di quelli propri dell’ordinamento intersindacale: di quel sistema di rapporti collettivi che, se- condo il celebre insegnamento di Xxxx Xxxxxx, funziona secondo “criteri au- tonomi di legittimazione rappresentativa, con proprie regole di competenza, con strumenti singolari di realizzazione di un (proprio) ordine” interno.
Pur ritenendomi, personalmente, un convinto giugnano, sono sempre sta- to convinto del valore prettamente conoscitivo, per l’interprete, della propo- sta teorica contenuta nella teoria dell’ordinamento intersindacale, quale pre- zioso strumento di indagine e di comprensione delle dinamiche endosindaca-
XII Il recesso dal contratto collettivo
li, destinate a filtrare nella particolare sfera della giuridicità esclusivamente attraverso il momento interpretativo. Nella riflessione giussindacale italiana degli scorsi decenni, invece, ha finito col farsi strada una dimensione quasi ontologica dell’ordinamento intersindacale, quale sistema regolativo autore- ferenziale, che finisce con il sancirne il definitivo distacco dal diritto civile.
Xxxxxxxx Xxxxxxxxx, a mio avviso correttamente, imposta la propria ricer- ca sul presupposto di una sostanziale capacità di autoregolarsi delle relazioni collettive tramite i propri strumenti interni di normazione – il contratto collet- tivo – e di sanzionamento sociale – lo sciopero –, rivendicando però la necessi- tà di riferirsi sempre al diritto dello stato quale “regolatore” finale delle con- troversie che non possano trovare un’autonoma composizione fra le parti. Tanto più in una fase, come quella che stiamo vivendo da oltre un decennio, in cui la precarietà degli equilibri interni al movimento sindacale mette a dura prova la capacità autoregolativa del nostro sistema di relazioni industriali.
In conclusione – e tornando allo specifico oggetto della ricerca in tema di recesso unilaterale dal contratto collettivo – la collocazione della questione nella duplice prospettiva dell’ordinamento statale e di quello intersindacale porta l’autore ad alcune interessanti considerazioni tra le quali mi ha perso- nalmente colpito, per la propria carica di suggestione sul piano sistematico complessivo, una comparazione funzionale fra recesso e sciopero contrattua- le, riconducibili entrambi, pur nella loro strutturale diversità, ad un mede- simo ruolo, quali strumenti di riapertura del conflitto nella legittima ricerca di nuovi equilibri compatibili con l’avvenuto mutare delle condizioni sulle quali si era raggiunto l’accordo che viene rimesso in discussione.
Il terzo capitolo cala in alcune specifiche situazioni concrete e con parti- colare riguardo agli effetti le conclusioni di ordine generale raggiunte fino a quel momento in tema di recedibilità dal contratto collettivo. Un’ampia trat- tazione finale è dedicata alle “scivolose” tematiche degli usi aziendali, con un tentativo di ricostruire quelle analogie fra uso aziendale e contratto col- lettivo che consentano di trasferire sul primo le soluzioni interpretative cui si è pervenuti relativamente al secondo: apprezzabile dal punto di vista della coerenza argomentativa interna, lo spunto offerto dall’autore mi è parso par- ticolarmente convincente anche per lo sforzo compiuto nello sfrondare delle molte incongruenze la consueta ricostruzione giurisprudenziale dell’istituto.
La ricerca si conclude con un capitolo particolare, dedicato al recesso dal contratto collettivo istitutivo di forme di previdenza complementare.
Xxxxxxx Xxxxxxx
Quando si parla di contratto collettivo, o, meglio, di problematiche che coinvolgono il contratto collettivo, si pensa normalmente alle questioni che attengono all’ambito ed al tipo di efficacia.
Sino agli anni ’90 poco si era parlato, invece, dell’efficacia temporale del contratto, vuoi perché si trattava di un aspetto che si presentava più rara- mente nelle aule di giustizia – e che aveva un’incidenza pratica minore di altri e, di conseguenza, un’inferiore spinta al dibattito teorico – vuoi per- ché, nei rari casi in cui l’efficacia temporale del contratto collettivo era stata messa in discussione (penso al caso della disdetta degli Accordi Intercon- federali sulla Scala Mobile), la soluzione al problema era arrivata dall’ester- no del sistema sindacale, attraverso un intervento legislativo che aveva spento il dibattito teorico accesosi sull’argomento.
La tendenza è cambiata a partire dagli anni ’90, quando il mutato con- testo delle relazioni sindacali e, più in generale, il regresso economico che ha colpito il Paese hanno messo in discussione la tenuta dell’intero sistema sindacale e riproposto alcune questioni tra le quali assume particolare ri- lievo quella dell’efficacia temporale dei contratti.
Al di là delle soluzioni che a tale problematica si possono dare, occorre subito rilevare che la questione dell’efficacia temporale del contratto col- lettivo, ed in particolare del recesso dal contratto, rappresenta un tema di estremo interesse nel panorama del diritto sindacale, perché si pone al cro- cevia delle principali problematiche relative al contratto.
Parlare di recesso dall’accordo concluso tra le parti sociali significa ine- vitabilmente toccare nodi cruciali del sistema giussindacale quali la natura del contratto, la sua funzione, il valore della cd. parte obbligatoria.
Prima ancora, però, parlare di recesso dal contratto collettivo significa porsi il problema del metodo da adottare nella ricerca.
È cosa nota che fin dalla sua origine il contratto collettivo ha sempre
«sofferto» in maniera più o meno evidente la tensione tra un’etichetta di contratto di diritto comune, in quanto tale disciplinato dalle norme del co-
XIV Il recesso dal contratto collettivo
dice civile, ed una sostanza che, al di là degli aspetti formali e classificatori, è sempre stata sentita come qualcosa di diverso dal mero accordo tra le due parti contraenti, profondamente condizionata dalle sollecitazioni che arrivano dalla realtà sociale nonché dal mondo politico ed economico.
Trasportata sul piano del metodo, la tensione tra qualificazione e natura si riflette nella problematica degli strumenti d’indagine della fattispecie contratto collettivo.
Il recesso dall’accordo collettivo è, invero, uno dei terreni sui quali me- glio traspare la dialettica che s’instaura tra il diritto civile e quello del lavo- ro e sindacale, e dove più chiaramente può cogliersi il (necessario) proces- so circolare di strumenti e modelli tra i due sistemi.
Mancando una disciplina speciale da applicare al caso di recesso unila- terale dal contratto, l’interprete si vede, infatti, costretto a cercare altrove le regole attraverso le quali conoscere della fattispecie.
La natura privatistica del contratto collettivo fa sì che la ricerca si rivol- ga innanzitutto al diritto civile, dal quale possono essere attinti le «infra- strutture e gli snodi» necessari perché una problematica che attiene stret- tamente al diritto sindacale acquisti rilevanza giuridica anche all’interno dell’ordinamento statale.
Tale passaggio obbligato rende, però, necessaria una premessa.
Xxxxxxx, infatti, dare conto del perché si ritiene interessante iniziare un’indagine nonostante la presenza di un dato normativo – che nasce dal combinato disposto di cui agli artt. 1372 e. 1373 c.c. – tanto sintetico quanto, a prima vista, «ingombrante».
L’art. 1373 c.c., infatti, prevedendo che «se ad una delle parti è attribui- ta la facoltà di recedere dal contratto, tale facoltà può essere esercitata fin- ché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione» letto unita- mente all’art. 1372 c.c., ove si prevede che «il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge», sembrerebbe aprire e chiudere il discorso: il recesso può essere esercitato in tanto in quanto previsto dalla legge o dalle parti.
Il necessario ricorso alle «infrastrutture e snodi» del diritto civile sem- bra, cioè, dare una risposta alla questione rendendo inutile ogni ulteriore approfondimento.
In realtà, non si ritiene che le richiamate disposizioni del codice civile impediscano all’interprete di verificare l’ammissibilità del recesso unilate- rale dal contratto collettivo.
Le ragioni di tale convinzione sono molteplici.
È considerazione quasi banale il fatto che l’art. 1373 c.c. è stato scritto
Premessa XV
in un momento in cui, vigente l’ordinamento corporativo, il contratto col- lettivo aveva natura affatto diversa.
Non solo, ma esso aveva una propria disciplina specifica fissata dagli artt. 2067-2081 dello stesso codice.
Dunque, si può affermare senza paura di essere smentiti che l’art. 1373
c.c. è stato scritto senza pensare alla sua possibile applicazione al contratto collettivo.
Non solo, lo si ripete, perché esso è stato dettato per regolare l’efficacia dei contratti tra privati, quale all’epoca non era il contratto collettivo, ma anche perché l’esistenza di una disciplina specifica dettata per il contratto collettivo corporativo escludeva il ricorso alle infrastrutture ed agli snodi del diritto civile (e quindi anche all’art. 1373) per decidere di problemati- che riferite al contratto collettivo.
È stato poi il corso degli eventi, la caduta dell’ordinamento corporativo, l’emanazione della Costituzione ed, infine, la mancata attuazione dell’art. 39 Cost., che ha modificato completamente la natura del contratto colletti- vo, divenuto contratto atipico di diritto comune, e lo ha trasportato nella sfera di operatività della norma citata.
Ma il legislatore del 1942 non poteva prevedere il corso degli eventi e quindi tantomeno immaginare che nel futuro l’art. 1373 c.c. avrebbe potu- to essere applicato anche al contratto collettivo, divenuto nel frattempo di diritto comune.
Tale circostanza spiega perché si ritiene che la norma citata non costi- tuisca in realtà un ostacolo insormontabile alla recedibilità dal contratto, o meglio, non vincoli l’interprete a non cercare soluzioni alternative.
Gli stimoli a superare questa barriera sono troppo forti e troppo intrin- sechi nella natura, nella «tipicità», del contratto collettivo per arrestarsi di- fronte ad un dato, l’art. 1373 c.c., che prova troppo, e, per questo, nulla.
In altre parole, si ritiene che il fatto che per una serie di ragioni contin- genti il contratto collettivo sia rimasto nel limbo dell’informalità e per que- sta via abbia visto applicarglisi le norme sui contratti di diritto comune, tra le quali rientra l’art. 1373 c.c., rappresenti un dato talmente casuale da non poter diventare il fondamento di una teoria dell’inammissibilità del recesso unilaterale dal contratto collettivo.
Troppi segnali, che provengono dallo stesso diritto civile, ma anche dal- l’ordinamento intersindacale, depongono a favore dell’inammissibilità di vin- coli contrattuali perpetui e quindi dell’accantonamento dell’art. 1373 c.c. quando si parla di contratto collettivo.
A fronte di tali segnali, il rischio di appiattire il diritto sindacale sul di-
XVI Il recesso dal contratto collettivo
ritto civile, rimanendo rigidamente fermi su una regola, quella dell’art. 1373 c.c., che certamente non è stata pensata per la fattispecie cui si vuole applicare è davvero troppo elevato, tanto da consigliare la verifica di altri percorsi.
Su questa premessa si fonda la decisione di valutare l’ammissibilità del recesso dal contratto collettivo, ammissibilità che certamente deve resistere al vaglio del diritto civile e del diritto sindacale, ma che, per le ragioni già evidenziate, può affrancarsi dalla regola dettata dall’art. 1373 c.c.
Xxxxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxxx
Il recesso dal contratto collettivo nel diritto civile
SOMMARIO: 1. Il recesso dal contratto: i termini della questione. – 2. Il principio della temporaneità dei vincoli contrattuali e la questione del recesso dal contratto. – 3. Limi- ti all’esercizio della facoltà di recesso dal contratto. – 4. Primi rilievi di sintesi.
1. Il recesso dal contratto: i termini della questione
Un’autorevole dottrina ha sintetizzato i risultati di una ricerca finanziata dal CNR, avente ad oggetto il recesso e la risoluzione nei contratti, sottoli- neando come il recesso mostri un quadro articolato sia dal punto di vista delle sue possibili modalità sia dal punto di vista delle sue diverse funzioni (determinative, impugnatorie, penitenziali) 1.
L’opinione è condivisa da larga parte della dottrina che, anche in tempi più risalenti, ha rilevato che «il termine recesso viene impiegato dal legisla- tore per denominare numerose fattispecie comprese nella disciplina dei rapporti tra privati e regolate non solo dal codice civile, ma anche da leggi speciali. Tanto che gli interpreti hanno da tempo sottolineato come all’uni- cità della locuzione corrisponda una sicura pluralità di funzioni» 2.
1 G. DE NOVA (a cura di), Recesso e risoluzione nei contratti, Xxxxxxx, Milano, 1994. In argomento G. ALPA-X. XXXXXXXXX (a cura di), Codice Civile Commentato, Libro IV, co- ordinato da X. XXXX-X. XXXXXXX-X. XXXXXXXXX, sub art. 1373, Ipsoa, Milano, 2005, p. 613 nonché X. XXXXXX, Il recesso, Xxxxxxx, Milano, 2004.
2 X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXXX, Recesso (voce), in ffnc. dir., vol. XXXIV, Xxxxxxx, Mila- no, 1988, p. 27; G.F. XXXXXXX, Il recesso unilaterale ed i rapporti di lavoro, Xxxxxxx, Mila- no, 1962, p. 2. Più di recente nello stesso senso si è espresso N.A. XXXXXXX, Il recesso uni- laterale dal contratto, Cedam, Padova, 2000, il quale ha rilevato «l’eterogeneità del lin-
Come mostrano le opinioni appena richiamate, e diversamente da quan- to potrebbe sembrare dalla semplice lettura del codice, ed in particolare dell’art. 1373 c.c., l’istituto del recesso rappresenta nel nostro ordinamento una figura che difficilmente si presta ad una trattazione sistematica, essen- do frutto più di un’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale stratificata nel tempo e frammentaria, che di precise scelte di politica legislativa.
Vero è che, stando alla lettera del codice, lo scioglimento ante tempus dal contratto non è ammesso se non per mutuo consenso 3 (art. 1372 c.c.) ovvero nei casi espressamente previsti dalla legge (ancora art. 1372 c.c.) o dalle parti (art. 1373 c.c.).
In altre parole, vero è che la regola generale in tema di efficacia tempo- rale dei contratti, quale emerge dalla richiamata normativa dettata per il contratto in generale, è quella della perpetuità dei vincoli che da esso sor- gono in capo agli stipulanti, salvo i casi di mutuo dissenso e quelli, ecce- zionali, in cui la facoltà di recedere unilateralmente è espressamente rico- nosciuta dalla legge o dalle stesse parti 4.
Senonché, se si supera il dato letterale e si passa ad esaminare quelle che dovrebbero essere le eccezioni, si scopre che in realtà il recesso è ammesso in quasi tutti i contratti tipici disciplinati dal nostro codice civile, cosicché, numeri alla mano, l’eccezione diventa la regola, e viceversa 5.
guaggio legislativo nel quale si riscontra una grande varietà e difformità di locuzioni e di espressioni diverse, da contratto a contratto, per designare atti tendenti allo scioglimento unilaterale del rapporto che, sebbene denominati in modo diverso, presentano una funzio- ne analoga a quella del recesso propriamente detto». Analogamente anche X. XXXXXXXX, Degli effetti del contratto, in Il codice civile commentato, diretto da X. Xxxxxxxxxxx, sub artt. 1372 e 1373, Xxxxxxx, Milano, 1998, osserva che «dopo questa, seppure sommaria indagine sui testi normativi, la conclusione cui si può giungere è che i diversi termini impiegati van- no considerati alla stregua di sinonimi; e che si deve accettare il rischio di confusione de- terminato dall’impiego del medesimo termine per indicare vicende diverse»; ancora X. XXXXXXXXX, Recesso e vendite aggressive, XXX, Xxxxxx, 0000 riconosce che «la tipologia del recesso è quanto mai ampia e variegata: il legislatore ha usato tale termine in numerose di- sposizioni, facendo riferimento ad atti con funzioni differenti».
Alla luce di quanto precede, si premette che nella presente trattazione verranno usati come sinonimi i termini «recesso» e «disdetta», consapevoli del fatto che altra dottrina ri- tiene, invece, doveroso distinguere le due ipotesi, configurando la disdetta come l’atto che impedisce il rinnovo automatico di un contratto.
3 Cfr. X. XXXXXXXX, Il mutuo dissenso, Xxxxxxx, Milano, 1980. In argomento vedi an- che C.M. XXXXXX, Diritto civile, Il contratto, Xxxxxxx, Milano, 2000, p. 733.
4 G. DE NOVA, Il recesso, in Trattato di diritto privato, a cura di X. Xxxxxxxx, vol. X.
Obbligazioni e contratti, Utet, Torino, 1995, p. 637.
5 Il recesso è previsto per la somministrazione a tempo indeterminato (art. 1569), per la
Il dato empirico appena richiamato è di così evidente ampiezza da far dire ad autorevole dottrina che sussiste «contraddizione o quanto meno tensione tra la proclamazione secondo cui il contratto ha forza di legge tra le parti ed il riconoscimento, pressoché in tutti i contratti nominati, del po- tere di una parte di sottrarsi, benché con varietà di presupposti e conse- guenze, a quella legge» 6 e da far concludere che «l’impressione che nasce scorrendo questi dati 7 è che la forza vincolante del contratto trovi smentite via via più numerose e rilevanti» 8.
Che tali smentite di fatto introducano la regola generale della recedibili- tà unilaterale dal contratto è però cosa diversa e certamente non dichiarata espressamente, sebbene sempre più spesso ammessa dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominante 9.
Quest’ultima ha inizialmente negato che la facoltà di recesso dal con- tratto fosse estensibile ad ipotesi non espressamente previste dalla legge o dalle parti contraenti, rimarcando il carattere eccezionale che l’art. 1373
c.c. assegna al potere di recesso unilaterale 10.
In un secondo tempo, però, è stata proprio la giurisprudenza a dare
locazione a tempo indeterminato (art. 1596), per la locazione di fondi urbani (artt. 1612- 1614), per l’affitto (artt. 1616, 1627, 1630), per l’appalto (artt. 1660, 1671 e 1674 c.c.),
dagli artt. 1722, 1723, 1724, 1725, 1727 c.c. per il mandato, dall’art. 1985 c.c. nel con- tratto di cessione dei beni ai creditori, nella commissione (art. 1724) nella spedizione (art. 1738), per l’agenzia a tempo indeterminato (art. 1750), per il deposito (art. 1771), per il comodato (artt. 1809-1810), per il conto corrente (art. 1833), per il deposito ban- cario (art. 1834), per l’apertura di credito (artt. 1842, 1845), per l’anticipazione bancaria (1850), per le operazioni bancarie di conto corrente (art. 1855), per l’assicurazione (art. 1893, 1898, 1899), per il mandato di credito (art. 1958), per la mezzadria (art. 2159), la soccida (art. 2180), il contratto d’opera (art. 2227), per il contratto d’opera intellettuale (art. 2237).
6 X. XXXXXXXXX, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, Xxxxxxx, Milano, 1985.
7 Quelli della ricerca CNR in tema di recesso e risoluzione.
8 G. DE NOVA (a cura di), Recesso e risoluzione nei xxxxxxxxx, xxx., x. 00; ID., Recesso (voce), in Digesto IV, Disc. priv., sez. civ., Utet, Torino, 1997 ove si legge che «dalla previsione costante del recesso unilaterale nei contratti tipici a tempo indeterminato è dato dedurre un principio generale: e così anche per i contratti atipici a tempo inde- terminato le parti sono libere di recedere unilateralmente, pur se nulla hanno previsto al riguardo».
9 Cfr. ancora X. XXXX-X. XXXXXXXXX (a cura di), Codice Civile Commentato, Libro IV, cit., nonché in giurisprudenza Cass., sez. lav., 20 dicembre 2006, n. 27198.
10 Cfr. Cass., 22 febbraio 1963, n. 424, in Giust. civ., 1963, I, p. 1059; Cass., 16 luglio
1976, n. 2817; Cass., 12 febbraio 1990, n. 937, in Mass. giur. lav., 1990, p. 387.
maggior impulso verso un’apertura alla facoltà di recesso anche in quei contratti ove manca una disciplina al proposito 11.
Si tratta di un’apertura che segue l’analogo cammino intrapreso dalla dottrina, la quale, come già accennato, registra, e sempre più spesso plau- de, il venir meno della ferrea vincolatività del contratto 12.
Prima di approfondire le problematiche che attengono la libera recedi- bilità dal contratto, è forse utile fare un passo indietro e tracciare, breve- mente, i tratti caratteristici di questa figura, che fino agli anni ’90 era stata poco considerata dalla dottrina e dalla giurisprudenza 13 e che, invece, è successivamente tornata alla ribalta accendendo un dibattito non ancora sopito 14.
La mancanza di un profilo unitario, in uno con il fatto che il legislatore usa il termine recesso per indicare alcune situazioni molto diverse tra loro, escludendone altre che invece vi rientrerebbero 15, rende peraltro già pro- blematica la stessa definizione, che il legislatore non dà, dell’istituto.
Conscia di quanto precede, la dottrina si limita a dare del recesso una definizione schematica e descrittiva, qualificandolo come una dichiarazio-
11 Cfr. Cass., 30 luglio 1984, n. 4530, in Giust. civ., 1985, I, p. 2014; Corte Appello Fi-
renze, 19 giugno 1980, in Giur. it., 1981, I, 2, p. 102.
12 X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXXX, Recesso (voce), cit., p. 30; X. XXXXXXX, ffffetti del con- tratto, Rappresentanza, Contratto per persona da nominare, in Commentario codice civile, a cura di Scialoja-Branca, sub art. 1372-1405, Zanichelli, Bologna, 1993, p. 58; X. XXXXXXXX, Obbligazioni (nozioni), in ffnc. dir., vol. XXXIX, Xxxxxxx, Milano, 1979, p. 133 e spec. p. 177, M.V. XXXXXXXXXXX, Xxxxxx causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento, in La disciplina dei licenziamenti, a cura di X. Xxxxxxx, Jovene, Napoli, 1991, p. 97 ed in part. p. 99.
13 Fino al 1990 gli scritti principali in materia sono stati quelli di G.F. XXXXXXX, Il re- cesso unilaterale, cit.; X. XXXXXXXXX, Vincolo contrattuale, cit.; X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXXX, Recesso (voce), cit.; G. DE NOVA (a cura di), Recesso e risoluzione nei contratti, cit., 1994; ID., Il recesso, cit.
14 A partire dagli anni ’90, sono stati pubblicati seguenti lavori che trattano del recesso:
X. XXXXXXXXX, Recesso e vendite aggressive, XXX, Xxxxxx, 0000; X. XXXXXXXX, Degli effetti del contratto, in Il codice civile commentato, diretto da X. Xxxxxxxxxxx, sub artt. 1372 e 1373, Xxxxxxx, Milano, 1998; G. DE NOVA, Recesso (voce), cit.; N.A. CIMMINO, Il recesso unilate- rale, cit. Recentemente in argomento vedi anche C.M. XXXXXX, Diritto civile, Il contratto, Xxxxxxx, Milano, 2000, p. 733; X. XXXXX, Il contratto, in Trattato di diritto privato, Xxxxxxx, Milano, 2001, p. 539 nonché X. XXXX-X. XXXXXXXXX (a cura di), Codice Civile Commen- tato, Libro IV, coordinato da X. XXXX-X. XXXXXXX-X. XXXXXXXXX, sub art. 1373, Ipsoa, Milano, 2005, p. 613.
15 G.F. XXXXXXX, Il recesso unilaterale, cit., pp. 2 e 200.
ne di volontà recettizia che esercita un influsso di carattere negativo su un preesistente rapporto contrattuale, ponendovi la parola fine 16, ovvero qua- le «atto volontario con cui una parte, soggetto di un rapporto giuridico e per questo tenuta a determinati obblighi, dichiara di volersi ritirare dal rapporto e liberarsi dai relativi obblighi con efficacia vincolante per l’altro soggetto» 17.
Tutto quanto segue la definizione – e cioè l’ambito entro il quale opera il recesso, i suoi effetti ed in genere la disciplina dell’istituto nonché la sua funzione – è ancora oggetto di un dibattito, nel quale la parola fine non è stata per il momento pronunciata.
Sarà sufficiente, allo scopo che ci proponiamo, dare atto dello stato del- la questione, registrando le opinioni espresse dagli autori che se ne sono espressamente occupati.
Innanzitutto due preliminari distinzioni, che s’incontrano sovente nel trattare l’argomento.
La prima è quella tra recesso legale, che «appartiene in linea di princi- pio alla disciplina dei singoli tipi legali» 18 e recesso convenzionale, che si ha quando è il contratto stesso ad attribuire ad una delle parti la facoltà di recedere 19.
La seconda è quella tra recesso ordinario, cioè il recesso esercitato ri- spetto ad un contratto privo del termine finale di durata, e recesso straor-
16 X. XXXXXXXXX, Vincolo contrattuale, cit., p. 2; G.F. XXXXXXX, Il recesso unilaterale, cit., pp. 2 e 3-4 ove si riportano le due tesi della dottrina in forza delle quali: 1) il recesso è ammissibile nei soli rapporti di durata in fase di esecuzione e 2) recesso vale per qualunque contratto finché le prestazioni sono integre; ma cfr. A. XXXXXXX, Contratto collettivo e li- bertà di recesso, in Arg. dir. lav., 1995, p. 35, e spec. p. 41 per il quale, invece, il recesso dal contratto collettivo di lavoro, ribaltando sulla parte receduta l’onere di riavviare le trattati- ve per giungere alla conclusione di un nuovo accordo, «costituisce non già una vicenda estintiva ma, sostanzialmente, una vicenda modificativa del contratto collettivo o, ancora meglio, l’input iniziale dal quale si sviluppa una fattispecie modificativa a formazione pro- gressiva». Per un riepilogo sulle varie definizioni ed in generale sulla natura, forma ed ef- fetti del recesso si veda ancora X. XXXX-X. XXXXXXXXX (a cura di), Codice Civile Com- mentato, Libro IV, coordinato da G. ALPA-X. XXXXXXX-X. XXXXXXXXX, sub art. 1373, cit., p. 613.
17 W. D’AVANZO, Recesso (dir. civ.), in Noviss. Dig., vol. IV, Utet, Torino, 1967, p. 1027.
00 X. XX XXXX, Xx recesso, cit., p. 644.
00 Xxx. X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXXX, Xxxxxxx (xxxx), cit., p. 28, i quali, rilevato che il re- cesso è collocato immediatamente dopo l’art. 1372 c.c. che prevede lo scioglimento del contratto solo per mutuo consenso, configurano il recesso quale facoltà di opzione apposta ad un accordo di mutuo dissenso.
dinario 20, che si ha, invece, quando una parte decide di sciogliersi dal con- tratto prima della scadenza fissata nello stesso.
Ai fini che qui interessano, peraltro, il discorso sarà riferito ad entrambe le ipotesi di recesso, ordinario e straordinario 21.
Come anticipato, il recesso è l’atto unilaterale con il quale una parte, e- sercitando un diritto potestativo, pone fine alla vincolatività del contratto, che decide di sciogliere 22.
Tale atto ha natura recettizia, e dunque produce i propri effetti nel momento in cui perviene a conoscenza della persona cui è destinato. Se- condo la tesi prevalente, l’atto con il quale si esercita il recesso deve consi- stere in una dichiarazione, non essendo a tal fine sufficiente un mero com- portamento concludente, dichiarazione che deve avere la stessa forma del contratto dal quale si recede 23.
20 Cfr. G.F. XXXXXXX, Prime osservazioni sul recesso straordinario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1969, p. 86.
21 Si accoglie qui l’opinione espressa in X. XXXXXXX-R. DE XXXX XXXXXX-X. XXXX-X. XXXX, Diritto del lavoro, vol. I, Il diritto sindacale, Utet, Torino, 2002, p. 197, ove si affer- ma che «i termini della questione (della libera recedibilità) non mutano neppure nell’ipo- tesi in cui al contratto collettivo sia apposto un termine». Infatti, una volta esistenti le con- dizioni alle quali si ritiene ammissibile il recesso unilaterale dal contratto in generale, e da quello collettivo in particolare, esse possono, per la loro ratio, riferirsi ad entrambe le figu- re di recesso (salvo, come è ovvio, quella fondata sull’art. 1346 c.c., su cui infra, del tutto inutile, nell’ipotesi di recesso da un contratto cui è apposto il termine). In altre parole, una volta messa in discussione la clausola rebus sic stantibus, poco importa che il contratto re- ceduto fosse a tempo determinato o indeterminato, in quanto questa condizione di recesso pone l’istituto al di là delle problematiche attinenti al termine: la partita si gioca, infatti, su un piano diverso, a monte del contenuto del singolo contratto. Ovviamente, come si dirà più avanti, la presenza di un termine al contratto implica che il giudizio sulla sussistenza delle condizioni che legittimano il recesso debba essere più rigoroso. Peraltro, e la que- stione verrà approfondita nei capitoli secondo e terzo, il nostro ordinamento prevede, con le precisazioni che saranno fatte, almeno due ipotesi espresse di recesso ante tempus dal contratto, rispettivamente agli artt. 2112 c.c. e 16 della legge n. 146/1990, il che corrobora l’opinione sopra espressa in merito all’irrilevanza del fatto che il contratto receduto con- tenga o meno un termine di scadenza.
22 X. XXXXXXX, ffffetti del contratto, Rappresentanza, cit., p. 58; X. XXXXX, Il contratto, cit., il quale scrive «il recesso è il negozio unilaterale con cui la parte di un contratto ne di- spone lo scioglimento».
23 Cass., 14 novembre 2000, n. 14730, in I contr., 2001, p. 221 con nota di P.F. Giug- gioli.
Qualunque contratto è in astratto suscettibile di recesso, anzi, la dottri- na ritiene che nei contratti atipici a tempo indeterminato il recesso «si con- figura come un rimedio di carattere sussidiario e generale nel contempo» 24. Ai fini della disciplina e degli effetti conseguenti all’esercizio della facol-
tà di recesso occorre, però, distinguere tra i vari tipi di contratto, a seconda che si tratti di contratto ad esecuzione istantanea, differita, continuativa o periodica.
In particolare, mentre nei contratti ad esecuzione istantanea o differita il recesso può essere esercitato solo prima che il contratto abbia avuto ese- cuzione, dai contratti ad esecuzione periodica o continuata è possibile re- cedere anche quando alcune prestazioni sono già state eseguite o sono in corso di esecuzione.
In quest’ultimo caso, peraltro, come stabilito espressamente dall’art. 1373, comma 2, il recesso non avrà effetti rispetto alle prestazioni già ese- guite 25.
La disciplina descritta è tuttavia sempre disponibile ad opera delle parti del rapporto.
Discusso è il tipo di efficacia, retroattiva o ex nunc, reale o obbligatoria, della dichiarazione di recesso.
Secondo una parte della dottrina 26, il legislatore, prevedendo che il re- cesso non abbia effetti per le prestazioni già eseguite o in corso di esecu-
xxxxx, ha implicitamente negato che esso possa avere efficacia retroattiva. In altre parole, sostiene tale dottrina che, salvo patto contrario, il reces-
so non incide sugli effetti che il negozio ha prodotto fino al momento della sua dichiarazione (rectius, della sua ricezione), ma opera soltanto per il fu- turo, ponendo nel nulla ex nunc il contratto e sciogliendo le parti dalle ob- bligazioni non ancora eseguite.
Altra dottrina 27 distingue, invece, a seconda delle funzioni del recesso, ritenendo che, mentre il recesso determinativo, quello cioè che serve a de- limitare l’oggetto del contratto ex art. 1346 c.c. 28, opera solo per il futuro e non può quindi avere effetti retroattivi, il recesso quale mezzo di impugna-
24 X. XXXXXXXX, Degli effetti del contratto, cit.
25 Cfr. X. XXXXXXX, ffffetti del contratto, Rappresentanza, cit., p. 60; X. XX XXXX, Il recesso, cit., p. 643.
26 G. DE NOVA, Il recesso, cit., p. 640; ID., Recesso, cit.; X. XXXXXXX, ffffetti del con- tratto, Rappresentanza, cit., p. 61.
27 X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXXX, Recesso (voce), cit.
28 Sulla definizione di recesso determinativo vedi amplius in seguito.
zione per vizi originari o sopravvenuti e quello con il quale la parte esercita lo ius poenitendi possono avere efficacia anche rispetto al passato, ponendo nel nulla il negozio e tutti i suoi effetti anche se già prodotti.
Infine, vi è chi ritiene che il recesso possa o meno avere efficacia retro- attiva a seconda che per le prestazioni già effettuate sia stato previsto un compenso 29.
Quel che è certo è che, anche chi riconosce efficacia retroattiva al reces- so, nega che tale efficacia abbia natura reale 30.
Come brevemente anticipato, il recesso assolve diverse funzioni. Quanto ai contratti di durata privi di termine finale, si dice comune-
mente 31 che esso costituisce lo strumento di integrazione necessaria del contenuto del contratto.
In altre parole, premesso che nei contratti di durata l’entità della pre- stazione oggetto del contratto si determina anche in ragione della durata stessa e che la determinatezza o determinabilità costituisce, ex art. 1346 c.c., uno dei requisiti indispensabili del contratto, sostiene tale dottrina che il recesso sia lo strumento necessario per porre un termine ai contratti di durata che ne siano privi e quindi rendere determinato l’oggetto degli stessi.
Un’altra funzione generalmente riconosciuta al recesso è quella di mez- zo di impugnazione del contratto per vizi originari o sopravvenuti 32.
In questi casi, il recesso si fonda su presupposti analoghi a quelli che consentirebbero la risoluzione o l’annullamento del contratto, con il van- taggio, però, di raggiungere un risultato identico facendo uso di un proce- dimento più spedito.
Quanto agli effetti, ritiene la dottrina prevalente che questa forma di re- cesso agisca retroattivamente, ponendo nel nulla il contratto, esattamente come le altre ipotesi di risoluzione del negozio.
Infine, il recesso può essere il mezzo con cui una parte si scioglie dal rapporto quando non è più interessata alla sua instaurazione o prosecu- zione 33.
29 G. F. XXXXXXX, Il recesso unilaterale, cit., pp. 58-59.
00 X. XX XXXX, Xx recesso, cit., p. 640.
31 X. XXXXXXXXX, Vincolo contrattuale, cit., p. 15.
32 Cfr. ancora X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXXX, Recesso (voce), cit., p. 32 nonché G. GA- BRIELLI, Vincolo contrattuale, cit., p. 37.
33 X. XXXXXXXX, Degli effetti del contratto, cit.
In questo modo l’istituto assolve la funzione di evitare vincoli perpetui inutili quando la prestazione oggetto del contratto non risulta più interes- sante.
La ratio di questa forma di jus poenitendi consiste nello sfavore dell’or- dinamento verso la conclusione di negozi giuridici che non sono più rite- xxxx utili da chi li ha posti in essere: «il che, in altre parole, comporta la prevalenza di un interesse diverso da quello, più generale ed astratto, e- spresso dalla regola di vincolatività del contratto» 34.
2. Il principio della temporaneità dei vincoli contrattuali e la questione del recesso dal contratto
Le brevi considerazioni in tema di recesso dai contratti in generale au- torizzano una prima considerazione: si può, cioè, prendere atto del fatto che la dottrina maggioritaria e la stessa giurisprudenza, sebbene più restia, sono arrivate ad affermare che la forza vincolante del contratto trova
«smentite via via più numerose e rilevanti» e che «per i contratti tipici la regola è dunque il recesso, e l’art. 1372, comma 1, c.c. è sostanzialmente svuotato» 35.
Non solo. Dalla previsione costante del recesso dai contratti tipici è sta- to dedotto un principio che può in generale essere riferito ad ogni tipo di contratto, anche atipico: quello della facoltà per le parti di recedere unila- teralmente dall’accordo, anche quando nulla hanno previsto al riguardo 36.
L’abbandono della regola risultante dal combinato disposto degli artt. 1372 e 1373 c.c. a favore dell’affermarsi della tesi della recedibilità dal con- tratto passa attraverso l’elaborazione di alcuni principi generali che ver- ranno di seguito brevemente richiamati.
34 Cfr. ancora X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXXX, Recesso (voce), cit., p. 37, nonché G. GA- BRIELLI, Vincolo contrattuale, cit., p. 66.
00 X. XX XXXX, Xx recesso, cit., p. 645; in giurisprudenza cfr. Cass., 25 febbraio 1997, n. 1694, in Dir. lav., 1997, II, p. 526 contra vedi Cass., 12 febbraio 1990, n. 987, in Mass. giur. lav., 1990, 387 con nota critica di X. XXXXXXXX, Disdettabilità di accordi collettivi e presta- zioni pensionistiche complementari, p. 388.
36 Cfr. ancora, G. DE NOVA, Il recesso, cit.
Tra questi, quello più frequentemente richiamato si fonda sulla tesi dell’inammissibilità di vincoli contrattuali perpetui 37 ovvero della naturale temporaneità delle obbligazioni 38.
Diversi sono i percorsi attraverso i quali si è arrivati a ricavare l’esisten- za di questo principio, così come diversi sono gli usi che ne sono stati fatti. Vi è innanzitutto chi ha «isolato» il principio procedendo da una rileva- zione empirica dei dati normativi e constatando che nel nostro ordinamen- to esistono alcuni indici che portano a ritenere che il diritto vigente sia i- spirato ad un principio di sfavore per quei vincoli negoziali che, tendendo a comprimere senza limiti di tempo la libertà contrattuale delle parti 39, contrastano con l’interesse generale alla circolazione dei beni e delle risor-
se umane e materiali.
In particolare spicca tra questi indici l’esistenza di numerose norme che prevedono il recesso legale dal contratto, le quali non sono ispirate ad un’esigenza particolare, ma «si riconducono ad un’idea fondamentale co- mune: l’idea che contrasti con la concezione del nostro sistema positivo un vincolo obbligatorio destinato a durare all’infinito» 40.
Così individuato il principio generale, esso è stato utilizzato per inter- pretare la disposizione di cui all’art. 1372 c.c., concludendo che «vero è che l’art. 1372 c.c. nel disciplinare gli effetti del contratto dispone che que- sto ha forza di legge tra le parti, ma tale espressione non ha un significato giuridico preciso, alludendo ad un’efficacia obbligatoria, ossia al carattere vincolante per i soggetti che lo hanno posto in essere; non significa, cioè, irrevocabilità assoluta del contratto ... per quanto attiene in particolare ai contratti privi di termine finale, ossia a tempo indeterminato, dev’essere
37 Cass., sez. lav., 18 settembre 2008, n. 19351, in Mass. giur. lav., 2008, p. 118; Cass.,
30 luglio 1984, n. 4530, in Giust. civ., 1985, I, p. 4014; Cass., 28 novembre 1981, n. 6354,
in Giust. civ. Mass., 1981, f. 11; Cass., 19 giugno 1980, in Giur. it., 1982, I, 2, c. 102; X. XXXXXXX, Diritto civile e commerciale. Le obbligazioni ed i contratti, tomo I, Cedam, Pa- dova, 1993, p. 423 ss.; X. XXXXXXX, Manuale di diritto privato, XXX, Xxxxxx, 0000, p. 966;
X. XXXXXXXX, Contratto collettivo senza predeterminazione di durata e libertà di recesso, in Mass. giur. lav., 1993, p. 576; X. XXXXX, In tema di recesso dal contratto collettivo (con cenni sulla disdetta dell’uso aziendale), in Riv. it. dir. lav., 1991, II, p. 290 ed in part. p. 304; Trib. Milano, 3 luglio 1991, in Orient. giur. lav., 1991, p. 514; A. DE CUPIS, Recesso dal contratto ed obbligo del recedente alla riparazione del danno, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, p. 303.
38 Cass., sez. lav., 20 dicembre 2006, n. 27198.
39 X. XXXXXXXXX, Dei contratti in generale, Utet, Torino, 1980, p. 297.
40 Cass., 30 luglio 1984, n. 4530, cit. nonché più di recente Cass., sez. lav., 7 marzo 2002, n. 3296 in Notiz. giur. lav., 2002, p. 437.
riconosciuta la possibilità di farne cessare l’efficacia, previa disdetta, anche in mancanza di un’espressa previsione legale» 41.
Usando lo stesso principio-strumento, ma attraverso un percorso in par- te diverso, una dottrina 42 giunge alle medesime conclusioni della tesi che precede, affermando che «il principio della temporaneità del vincolo giu- ridico ... va annoverato tra quelle cause (di recesso) ammesse dalla legge» cui rinvia l’art. 1372 c.c.
In altre parole, la dottrina richiamata, più attenta al dato letterale della norma codicistica, preso atto dell’esistenza del principio dell’inammissibi- lità di vincoli contrattuali perpetui, ne riconduce l’operatività all’interno della stessa disciplina positiva dettata dal legislatore del 1942.
Nella costruzione prospettata, dunque, il recesso non rappresenta una deroga alla regola sancita dall’art. 1372 c.c., bensì l’esercizio di una facoltà interna alla stessa norma, la quale tra le «cause ammesse dalla legge» com- prende proprio l’ipotesi dell’inammissibilità di vincoli contrattuali perpe- tui.
La facoltà di recesso dal contratto a tempo indeterminato viene fatta al- tresì discendere dalla necessità di salvaguardare la libertà delle parti con- traenti, intesa sia sotto il profilo contrattuale che sotto quello dell’iniziativa economica 43.
Sostiene la dottrina richiamata che ammettere l’esistenza di vincoli per- petui equivale a rinunciare alla libertà contrattuale, in quanto «il singolo disporrebbe con un unico (ed estremo) atto di libertà, di tutta la sua libertà futura» 44.
Tale rinuncia è, però, inaccettabile alla luce del vigente ordinamento giuridico fondato su «un’economia di mercato che intende affidarsi (inve- ce) alla libera concorrenza» 45.
Come appare chiaro, al di là della diversa terminologia utilizzata, que- st’ultima elaborazione ricorre allo stesso concetto espresso con la formula dell’inammissibilità di vincoli contrattuali perpetui.
41 Cass., 16 aprile 1993, n. 4507, in Mass. giur. lav., 1993, p. 322.
42 X. XXXX, I contratti di durata, in Riv. dir. comm., 1943, p. 239.
43 X. XXXXXXXXX, Dei contratti in generale, cit.; X. XXXXXXXX, Vincoli di destinazione e durata dei diritti reali, in Giust. civ., 1985, I, p. 2016; Pret. Novara, 5 giugno 1990, in Riv. it. dir. lav., 1991, II, p. 296.
44 X. XXXXXXX, ffffetti del contratto, Rappresentanza, cit., p. 58 ed in part. p. 62.
45 X. XXXXXXXX, Contratto collettivo senza predeterminazione, cit., p. 581; Trib. Milano, 3 luglio 1991, cit.
Un altro momento dell’iter che ha portato alla teorizzazione della facol- tà di recesso dal contratto privo di termine finale passa attraverso il recu- pero dell’art. 1346 c.c., il quale, come noto, stabilisce, a pena di nullità, che l’oggetto del contratto debba essere determinato o determinabile.
Secondo la tesi richiamata, nel contratto a tempo indeterminato l’eser- cizio della facoltà di recesso, ponendo termine alla vigenza potenzialmente illimitata dell’accordo, agisce quale elemento di determinazione della dura- ta, e quindi dell’oggetto, del contratto stesso.
Con il logico corollario che non soltanto il recesso dal contratto è am- missibile anche in mancanza di un’esplicita previsione, ma esso diviene ad- dirittura necessario, quantomeno per il caso di contratto a tempo indeter- minato, dal momento che l’impossibilità di apporre un termine al contrat- to, e quindi di fissarne la durata, equivale ad un’indeterminabilità del suo oggetto, con conseguente nullità ai sensi dell’art. 1346 c.c. 46.
Da ultimo, la facoltà di recesso da un contratto privo di termine finale viene ricondotta al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto 47, di cui costituisce un’estrinsecazione.
In altre parole, è stato detto che la facoltà di recesso dal contratto, posta in essere nel caso in cui siano intervenute modificazioni sostanziali della situazione di fatto che aveva accompagnato l’assunzione del vincolo obbli-
46 X. XXXXXXXXX, Vincolo contrattuale, cit.; X. XXXXXXXXX, Rapporti di durata e recesso ad nutum, Xxxxxxx, Milano, 1965. Contra vedi, però, X. XXXXXXXXX, Recesso e vendite ag- gressive, cit., la quale a proposito dei rapporti di durata ritiene che «la determinabilità del- la prestazione non è in funzione della possibilità di indicare un termine finale, ma della persistenza dell’interesse di almeno una parte a ricevere la prestazione continuativa. Tale criterio di determinabilità è sufficiente, perché la prestazione è soltanto quantitativamente non determinata, ma sono presenti tutti gli altri elementi per individuare il comportamen- to dovuto. L’indicazione della quantità della prestazione, già determinata in ogni altro a- spetto, può essere così semplicemente e genericamente correlata alla soddisfazione del bi- sogno di una delle parti … la peculiarità dei rapporti di durata è che il protrarsi nel tempo della prestazione è elemento causale, che non impedisce la mera determinabilità della pre- stazione e quindi l’iniziale perfezionamento del contratto, proprio perché il protrarsi dell’adempimento rappresenta la situazione finale cui le parti hanno interesse», conclu- dendo che in questi casi il recesso non assolve una funzione determinativa, ritenuta appun- to inutile, bensì quella di liberare da un vincolo contrattuale non più conforme all’interesse di una delle parti.
47 X. XXXXXXXXX, Rapporti di durata, cit.; da ultimo Cass., sez. lav., 18 settembre 2007,
n. 19351 e Cass., sez. lav., 20 dicembre 2006, n. 27198 ma si vedano già Cass., 16 aprile 1993, n. 4507, in Mass. giur. lav., 1993, p. 322 nonché Cass., sez. lav., 7 marzo 2002, n. 3296, in Notiz. giur. lav., 2002, p. 437.
xxxxxxx, realizza la previsione di cui all’art. 1375 c.c., divenendo pertanto non solo legittima ma, ancora una volta, doverosa 48.
Cercando di tirare le fila del discorso, la breve rassegna di dottrina e giurisprudenza che precede consente di affermare, o meglio confermare, che, al di là della varietà delle tecniche e dei rimedi utilizzati per fondare il principio, è ormai tempo di prendere atto della possibilità, per il nostro di- ritto vigente, di recedere unilateralmente dal contratto «sempre che nella distribuzione dei diritti ed obblighi nascenti dal contratto si mantenga tra le parti una situazione di finale e sostanziale eguaglianza» 49.
Occorre, dunque, vedere quando e come, esercitato il recesso dal con- tratto, può ugualmente dirsi che tra le parti si sia mantenuta una situazione di sostanziale uguaglianza.
In altre parole, occorre ora verificare a quali limiti e condizioni è su- bordinato l’esercizio della facoltà di recesso.
3. Limiti all’esercizio della facoltà di recesso dal contratto
Sebbene il nostro ordinamento riconosca generalmente la facoltà di re- cesso dal contratto, occorre subito precisare che essa non può ritenersi del tutto libera, bensì condizionata dalla sussistenza di taluni presupposti.
Diversamente, il recesso da un contratto privo di termine finale, o il re- cesso anticipato rispetto alla scadenza del termine apposto ad un accordo, concreterebbero altrettante ipotesi di inadempimento degli obblighi deri- vanti dalla stipulazione del contratto 50 ovvero di abuso del diritto 51.
48 Sul valore dei principi di buona fede e correttezza come norme integrative del con- tratto, ed in particolare del contratto di lavoro, cfr. Cass., 8 settembre 1995, n. 9501, in Mass. giur. lav., 1996, p. 14, con nota di X. XXXXXXXXX, Nozione di antisindacalità e abuso del diritto.
49 X. XXXXXXXX, Contratto collettivo senza predeterminazione, cit., p. 580; X. XXXXX, Au- tonomia contrattuale e contratto collettivo di lavoro, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 1996, p. 235. Ma vedi ancora contra Xxxx., 12 febbraio 1990, n. 987, in Mass. giur. lav., 1990, p. 387 con no- ta di X. XXXXXXXX, Disdettabilità degli accordi collettivi e prestazioni pensionistiche comple- mentari.
50 Cfr. Pret. Milano, 3 agosto 1989, in Riv. it. dir. lav., 1990, II, p. 74 e spec. p. 76.
51 Su cui da ultimo Cass., sez. un., 18 settembre 2009, n. 20106.
Dunque, si deve affermare che il recesso soggiace a limiti interni che, distinguendolo dal mero inadempimento contrattuale, lo rendono legit- timo.
Tali limiti devono essere individuati, innanzitutto, in quelle stesse ra- gioni che hanno spinto dottrina e giurisprudenza a reinterpretare gli artt. 1372 e 1373 c.c. ammettendo il recesso anche ove non previsto dalla legge o dalle parti.
Alla luce di quanto precede, e tenendo presente i doveri generali che gravano sui contraenti, è possibile affermare che il primo vincolo all’eser- cizio della facoltà di recesso è quello che tale esercizio avvenga secondo buona fede e correttezza, in modo da evitare che l’atto diretto a sciogliere il contratto realizzi un abuso di diritto ai danni della parte receduta 52.
Poiché la buona fede costituisce un vincolo generale valido per ogni contratto, occorre poi verificare se esistono altri vincoli specifici per l’ipo- tesi di recesso.
A tal fine, nella ricerca dei c.d. «limiti interni» alla facoltà di recesso oc- corre rifarsi ai diversi iter che hanno portato a sviluppare il principio della recedibilità dal contratto sino a farlo assurgere a principio generale del no- stro ordinamento.
Da un’analisi delle fattispecie all’interno delle quali è stato legittima- mente esercitato il recesso dal contratto, emerge una prima considerazione di carattere certamente empirico, ma che si rivela preziosa ai nostri fini.
I casi nei quali è stata riconosciuta la facoltà di recesso hanno sempre riguardato ipotesi in cui la situazione di fatto che aveva fatto da sfondo alla conclusione del negozio era mutata in modo da non rispecchiare più il ter- reno sul quale si era giocato, e trovato, l’equilibrio di interessi espresso dal- le parti nel contratto.
Logico corollario di questa constatazione è che altro limite alla facoltà di recesso non convenzionale né legale consiste nella necessità che il suo esercizio segua ad un’intervenuta modifica della situazione di fatto sul pre- supposto della quale era stato concluso l’accordo (c.d. clausola rebus sic stantibus) 53.
52 X. XXXXXXXX, Degli effetti del contratto, cit.; N.A. XXXXXXX, Il recesso unilaterale, cit., nonché Cass., sez. un., 18 settembre 2009, n. 20106.
53 X. XXXXXXXXX, Recesso e vendite aggressive, cit., p. 124 «il caratteristico rapporto di durata, se è a tempo indeterminato, è tale proprio perché le parti hanno interesse esclusi- vamente al protrarsi o al ripetersi dell’attività solutoria. Il rapporto è voluto proprio per- ché non è possibile prevedere quanto durerà il bisogno da soddisfare o per quanto tempo
Tale modifica non dovrà avere necessariamente i caratteri dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, ché altrimenti il recesso si concreterebbe in un’i- potesi di risoluzione ex art. 1467 c.c., essendo, invece, necessario e suffi- ciente che sia tale da giustificare in termini oggettivi la decisione del rece- dente di sciogliersi dal vincolo assunto.
Accettare questo limite, significa altresì affermare che l’ambito entro il quale può essere validamente esercitata tale forma di risoluzione del con- tratto è meno ampio, ma, soprattutto, meno discrezionale di quanto la me- ra affermazione del principio poteva far credere.
Ed infatti, la parte non potrà sciogliersi dal vincolo cui era obbligata se non dimostrando che questo stesso vincolo non ha più ragion d’essere, es- sendo venuti a mancare i suoi presupposti, o meglio, essendosi modificati i termini di paragone rispetto ai quali il negozio concluso realizzava la posi- zione di equilibrio cercata dalle parti.
In sintesi, giustifica il recesso dal contratto una sensibile ed incolpevole modifica dell’assetto degli interessi tenuto presente dalle parti stipulanti.
Perché il recesso sia validamente esercitato, occorre dunque la contem- poranea presenza di tutti i presupposti richiamati.
Non basta, invece, a tal fine il mero mutamento dell’assetto di interessi che ha originato il contratto, se il recedente non dimostra che tale assetto era conosciuto e condiviso da entrambi i contraenti, pur non essendo as- surto a vera e propria condizione esplicitata nell’accordo.
In questo senso, può dirsi che il recesso si avvicina quanto a ratio al- l’istituto della presupposizione, che, come noto, consiste in una situazione di carattere obbiettivo, indipendente dall’attività e dalla volontà dei con-
la prestazione, dedotta in obbligazione, avrà la capacità di realizzare l’interesse creditorio; di tal che il termine finale non è previsto, perché non è prevedibile e, non svolgendo alcun ruolo, non è elemento contrattuale necessario per il perfezionamento, la validità o l’effi- cacia. La situazione dovrà e potrà protrarsi sino a quando manterrà il carattere di stabilità: il recesso assume la funzione di strumento di emersione di quei mutamenti delle situazioni e degli interessi che l’ordinamento considera meritevoli di tutela e che perciò possono con- sentire al soggetto di porre termine al rapporto … anche nei rapporti di durata il recesso è applicazione del potere di liberarsi dal vincolo contrattuale in relazione al sopravvenire di eventi che modifichino la situazione iniziale in maniera tale da incidere significativamente sull’interesse alla realizzazione dell’assetto programmato». Peraltro la giurisprudenza più recente pare ritenere irrilevanti le ragioni che portano alla decisione di recedere, così al- meno Xxxx., sez. lav., 20 dicembre 2006, n. 27198 ove si legge che «… da ciò consegue l’irrilevanza dell’indagine relativa alla sussistenza o meno di una valida giustificazione del provvedimento».
traenti, tenuta presente da entrambe le parti al momento della conclusione del contratto, ma rimasta inespressa 54.
Qui come nel caso di recesso, infatti, qualora la situazione, considerata ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del con- tratto, venga successivamente a mutare in modo che l’assetto che i contra- enti avevano dato ai propri interessi si trova a poggiare su una base diversa da quella in virtù della quale era stato concluso il contratto, questo può es- sere caducato su iniziativa di quello dei contraenti che vi abbia interesse.
Quanto ai caratteri della modifica, essa deve avere una certa consisten- za, mentre non legittima il recesso un cambiamento di lieve portata, che non incida in maniera rilevante sull’equilibrio raggiunto dalle parti con il contratto originario.
Come anticipato, sotto questo profilo, il recesso si avvicina alla risolu- zione per eccessiva onerosità sopravvenuta disciplinata all’art. 1467 c.c., di cui condivide, almeno in parte, la ratio, pur senza richiedere che lo squili- brio tra le prestazioni assuma il carattere «eccessivamente oneroso» xxxxxx- sto dal codice civile per questa forma di risoluzione del contratto.
Infine, è chiaro che, in applicazione del dovere di buona fede nell’ese- cuzione del contratto, l’intervenuta modifica non deve essere imputabile alla parte che recede, nel senso che il recedente non deve aver dolosamente causato la modifica medesima 55.
Una volta individuato il limite interno alla facoltà di recesso, occorre ancora vedere se, sopravvenuta la modifica della situazione di fatto, la par- te possa recedere sic et simpliciter ovvero il recesso non incontri ulteriori limiti, finalizzati ad evitare che l’esercizio legittimo della facoltà di recesso colga impreparata la parte receduta, cagionandole un danno ingiusto.
Tra gli strumenti utilizzati al fine di garantire la parte receduta in caso di recesso della controparte, vi è sicuramente il preavviso 56.
54 Cass., 5 gennaio 1995, n. 191, in Giust. civ. Mass., 1995, p. 34; Cass., 28 gennaio
1995, n. 1040, in Giust. civ. Mass., 1995, p. 215; Cass., 13 maggio 1993, n. 5460, in Giust. civ., 1994, I, p. 1981; Trib. Milano, 27 febbraio 1992, in Banca, borsa, tit. cred., 1993, II, p. 191; in dottrina cfr. X. XXXXXXX-X. X’XXXXXX, Presupposizione (voce), in ffnc. dir., vol. XXXV, Xxxxxxx, Milano, 1986, p. 326.
55 Cass., 5 gennaio 1995, n. 191, cit., Cass., 28 gennaio 1995, n. 1040, cit.; Cass., 13
maggio 1993, n. 5460, cit.; Pret. Torino, 23 giugno 1995, in Jus, 1995, p. 3742; Trib. Mila-
no, 27 febbraio 1992, cit.
56 G.F. XXXXXXX, Il recesso unilaterale, cit., p. 257; M. XXXXXX, Diritto civile. Il contrat- to, Xxxxxxx, Milano, 2000, p. 733; vedi anche Pret. Novara, 5 giugno 1990, cit., p. 297; Pret. Milano, 3 agosto 1989, in Riv. it. dir. lav., 1990, II, p. 74 con nota di X. XXXXX, Suc-
Xxxxxx, dunque, coerente con quanto sinora sostenuto affermare che è onere della parte che intende sciogliersi dalle obbligazioni assunte, darne comunicazione all’altra parte con un congruo anticipo, in modo, quanto- meno, da consentire a quest’ultima di riorganizzare l’assetto dei propri in- teressi.
Occorre, poi, ancora valutare se, dato il preavviso, sia onere della parte recedente quello di rinegoziare con la parte receduta le eventuali nuove condizioni del contratto.
La risposta non può certamente essere univoca, dipendendo, invece, dalla fattispecie concreta nei confronti della quale viene esercitato il reces- so e quindi, innanzitutto, dalla possibilità e/o dall’interesse a tentare un nuovo accordo sostitutivo di quello receduto.
Qualora ciò sia possibile e/o interessante, e fermo restando il fatto che in ogni caso si tratta di un mero onere a trattare, senza obbligo di conclu- dere, il periodo di preavviso rivestirà altresì la funzione di indicare alla par- te receduta il tempo durante il quale avanzare nuove proposte contrattuali. Proposte che, lo si ripete, non hanno in ogni caso efficacia vincolante nei confronti del recedente, il quale resta del tutto libero di decidere se con- trattare.
Non è, invece, necessario il consenso della parte receduta: il recesso o- pera, infatti, a prescindere dalla volontà dell’altro contraente il quale non può, quindi, con il suo veto cristallizzare la situazione in essere 57.
Infine, ritiene ancora alcuna giurisprudenza che il recesso sia soggetto ad un vincolo formale.
Al fine di evitare situazioni di incertezza, è, cioè, necessario che esso si esprima in una manifestazione di volontà espressamente ed univocamente diretta alla risoluzione del rapporto 58.
cessione di accordi aziendali, recesso tacito, efficacia nei confronti dell’associazione sindacale non firmataria e degli iscritti, p. 79.
57 Così Cass., sez. lav., 18 settembre 2007, n. 19351.
58 Pret. Milano, 3 agosto 1989, cit., che ha negato che lo svolgimento di trattative con le varie organizzazioni sindacali e la conclusione di un accordo modificativo con terzi costi- tuissero un «sintomo univoco di volontà di recedere unilateralmente dagli accordi sindaca- li preesistenti».
2.
4. Primi rilievi di sintesi
Concludendo, può affermarsi che è ormai generalmente ammessa nel nostro ordinamento la facoltà di recesso dal contratto, anche quando non espressamente previsto dalla legge o dalle parti, e dunque, segnatamente, anche rispetto ai contratti atipici.
Tale facoltà risponde a diverse istanze che si sono fatte strada nel nostro ordinamento, assumendo il ruolo di principi generali idonei ad integrare ed adeguare il precetto legislativo.
Peraltro, in ossequio ad altri principi di pari grado, il recesso resta sot- toposto ad alcuni limiti interni ed esterni, frutto anch’essi dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale che ha plasmato la materia.
I primi, quelli interni, servono a distinguere il recesso dal mero ina- dempimento contrattuale, nonché ad evitare che questo strumento apra la via a fattispecie qualificabili come mero abuso del diritto 59.
In questo senso, il recesso si configura non come mero arbitrio o addi- rittura strumento di «ricatto» tra le parti, ma come adeguata risposta al ve- nir meno di quell’equilibrio che le stesse avevano inteso raggiungere con il contratto.
Si può, in altre parole, affermare che ciò che distingue il recesso dal me- ro inadempimento è la circostanza che, esercitando la facoltà di risolvere il contratto, la parte non mira a sottrarsi arbitrariamente all’adempimento delle obbligazioni assunte con il contratto stesso 60 ma, invece, a ristabilire quell’equilibrio, meritevole di tutela ex art. 1322 c.c., già raggiunto con il contratto e poi venuto meno per il mutamento degli assetti di fondo.
Il secondo tipo di limiti, quelli esterni, serve a tutelare la parte receduta consentendole di riorganizzare il proprio assetto di interessi toccato dal- l’intervenuto recesso ed, eventualmente, di avanzare una nuova proposta contrattuale che tenga conto delle modifiche verificatesi nella situazione concreta che ha fatto da sfondo alla conclusione del contratto.
Come anticipato, le considerazioni che precedono valgono sia che si tratti di contratto senza termine di durata, e cioè di recesso ordinario, sia che si tratti di contratto a termine, e quindi di recesso straordinario.
59 X. XXXXXXX, L’abuso del diritto di recesso ad nutum, in Contr. impr., 1986, p. 766; X. XXXXXXXX, Obbligazioni (voce), cit., p. 178; X. XXXXXXX, ffffetti del contratto, cit., 1993, p. 62.
60 Cfr. Cass., 8 settembre 1995, n. 9501, cit., con nota di X. XXXXXXXXX, Nozione di an- tisindacalità e abuso del diritto.
È implicita, infatti, in entrambi i tipi di contratto la clausola rebus sic stantibus sulla quale si costruisce la teoria della recedibilità.
Ciò non significa che il termine finale si riduca ad una clausola priva di valore. Esso, infatti, influenzerà la valutazione circa il rispetto dei limiti in- terni al recesso, nel senso che il giudizio circa la legittimità dello stesso, cioè circa la oggettiva necessità di ristabilire l’equilibrio meritevole di tute- la ex art. 1322 c.c. non può prescindere dalla considerazione del tempo mancante alla scadenza dell’accordo.
In altre parole, il giudizio circa la legittimità del recesso sarà più severo nei casi in cui è presente un termine, tanto più se a breve scadenza. In que- ste ipotesi, infatti, il recedente dovrà dimostrare, oltre all’avvenuta sensibi- le ed incolpevole modifica della situazione di fatto che ha fatto da sfondo al raggiunto equilibrio, anche il motivo oggettivo per cui non può attende- re la risoluzione naturale del contratto.
Esercitata legittimamente la facoltà di recesso, essa opera direttamente sul contratto risolto, facendolo venir meno.
È, infine, interessante notare, per le ragioni che esporremo nel capitolo che segue, che il principio della recedibilità, pur attenendo ad una que- stione prettamente civilistica, ha trovato maggiore attenzione da parte della dottrina e, soprattutto, della giurisprudenza giuslavoristica.
Il confronto tra la letteratura in argomento dimostra, infatti, come il di- ritto civile, specie negli ultimi anni, si è sostanzialmente disinteressato della questione del recesso, passando il testimone al diritto del lavoro e limitan- dosi, più che altro, a fornire le categorie per risolvere la questione nel ri- spetto dei principi generali elaborati da «altri diritti» 61.
61 X. XXXXX, Autonomia contrattuale, cit.
20 Il recesso dal contratto collettivo
Recesso e contratto collettivo
SOMMARIO: 1. Recesso e contratto collettivo: premessa metodologica. Le problema- tiche del recesso nel diritto sindacale sullo sfondo dei rapporti tra diritto civile, del la- voro e sindacale. – 2. La prima condizione per l’applicazione al recesso dal contratto collettivo dei principi generali in tema di recesso: la questione dell’esistenza di una di- sciplina dell’efficacia temporale del contratto collettivo. – 2.1. Segue: l’esistenza di una disciplina dell’efficacia temporale del contratto collettivo nell’impiego privato. – 2.1.1. Segue: in particolare, la vigenza dell’art. 2074 c.c. – 2.2. Segue: l’esistenza di una disci- plina dell’efficacia temporale del contratto collettivo nell’impiego pubblico. – 2.3. Se- gue: l’esistenza di una disciplina dell’efficacia temporale del contratto collettivo nell’or- dinamento intersindacale. – 2.4. Segue: la disciplina legale dell’efficacia temporale del contratto collettivo in caso di trasferimento dell’azienda: spunti per una riflessione a li- vello di ordinamento statale. – 3. La seconda condizione per l’applicazione al recesso dal contratto collettivo dei principi generali in tema di recesso: la riferibilità dei predet- ti principi ai contratti collettivi. – 4. La terza condizione per l’applicazione al recesso dal contratto collettivo dei principi generali in tema di recesso: la compatibilità tra i predetti principi e la peculiare natura del contratto collettivo. Ordinamento intersinda- cale e recesso dal contratto collettivo. – 4.1. Segue: a) l’obbligo implicito di pace sinda- cale. – 4.2. Segue: b) sciopero contrattuale e recesso. – 4.3. Segue: c) le clausole di tre- gua. – 4.4. Segue: d) il rinnovo del CCNL Metalmeccanici e gli «accordi separati»: spunti per una riflessione. – 5. L’ulteriore piano di verifica dell’ammissibilità del recesso dal contratto collettivo: recesso e condotta antisindacale. – 5.1. Segue: alcuni richiami utili alle principali questioni in tema di condotta antisindacale ed in particolare all’og- getto della tutela ed alla rilevanza dell’elemento soggettivo nella costruzione della fatti- specie. – 5.2. Segue: recesso dal contratto e violazione diretta dei beni protetti dall’art. 28 Stat. Lav. – 5.3. Segue: recesso dal contratto e violazione indiretta dei beni protetti dall’art. 28 Stat. Lav. – 6. Rilievi di sintesi.
1. Recesso e contratto collettivo: premessa metodologica. Le proble- matiche del recesso nel diritto sindacale sullo sfondo dei rapporti tra diritto civile, del lavoro e sindacale
Esaminate nel capitolo che precede le questioni relative al recesso nel
diritto comune dei contratti, occorre ora riferire i risultati dell’indagine alla materia che ci interessa e quindi al contratto collettivo.
In altre parole, occorre ora verificare se le ragioni per le quali la dottri- na e la giurisprudenza hanno ammesso il recesso dal contratto autorizzano a giungere alle stesse conclusioni anche rispetto al contratto collettivo.
Prima, però, pare opportuna una premessa di carattere metodologico.
La decisione di partire dall’analisi dello stato della questione del recesso nel diritto comune dei contratti è un’opzione metodologica che si ritiene se non obbligata, certamente necessitata dalla mancata attuazione dell’art. 39 Cost. e dalle conseguenze che tale mancata attuazione ha avuto in termini di natura e disciplina del contratto collettivo.
È infatti comunemente noto che l’avversione delle organizzazioni sinda- cali alla registrazione e, per tale via, alla realizzazione del percorso indivi- duato nell’art. 39, 2a parte, ha avuto quale effetto la conclusione di contrat- ti collettivi atipici, che la dottrina pressoché maggioritaria riconduce all’in- terno del diritto comune dei contratti 1.
1 Cfr. X. XXXXXXX, Contrattazione collettiva e governo del conflitto, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1990, p. 687 ed in particolare p. 691 ove si legge che «il contratto collettivo cd. di diritto comune trova fondamento, rispetto al contratto disciplinato nella seconda parte dell’art. 39 Cost., nel principio di libertà sindacale (che riconosce all’autonomia privata collettiva) e (se) il mezzo tecnico attraverso il quale «entra» nell’ordinamento statale è rap- presentato – in assenza di tipizzazione legislativa – dall’art. 1322 c.c.»; efficace anche X. XXXXXXX, Contratto Collettivo (voce), in Digesto IV, sez. comm., vol. IV, Utet, Torino, 1989,
p. 61 la quale, pur rimarcando che «le funzioni che questo contratto-regolamento (quello, cioè, definito quale estensione del comando legislativo) viene chiamato a svolgere, tendono ad attenuare una sua connotazione squisitamente privatistica», rileva che «su tutte e due le epoche storiche (gli anni sessanta e gli anni ottanta) grava il peso di una legge annunciata e mai scritta, in applicazione dell’art. 39 Cost. Su questa atipica astensione della legge, pur in presenza di un ampio e solido principio di libertà sindacale, sancito dal 1° comma della norma, si basa il contratto collettivo di diritto comune», nonché 71-72, a proposito della novella operata dal legislatore del 1973 sull’art. 2113 c.c., che «ciò non comporta un’equi- parazione tra le fonti, che restano distinte ... A ben vedere, la rivisitazione operata dalla legge in materia di rinunzie e transazioni non ha inteso privare il contratto collettivo della sua originaria natura di atto di autonomia privata ... La matrice privatistica del contratto collettivo può essere confermata come valida, nell’attuale regime delle rinunzie e transa- zioni»; sul valore del ricorso al diritto privato, vedi X. XXXXXXX, Ordinamento intersinda- cale e teoria dei sistemi, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1984, p. 1, il quale xxxxxx, a p. 7, che «il ricorso al diritto privato ... va considerato come quello, fra i possibili strumenti di attua- zione di quest’ultimo (cioè del dato costituzionale) che meglio e più degli altri aderiva al quadro di riferimento legislativo e sindacale esistente in Italia nel dopoguerra», ma poi, a pag. 18, critica la pretesa di poter utilizzare il diritto privato come «vaso di Pandora, come crogiuolo delle concezioni e delle esigenze più contrastanti»; sul punto si veda anche M.
Quanto precede non può, però, far dimenticare la natura particolare dell’accordo di cui si discute, il quale opera all’interno di un sistema, quel- lo sindacale, che, in quanto dotato di propri attori e regole, è condivisibil- mente ritenuto alla stregua di un vero e proprio ordinamento, detto inter- sindacale, parallelo a quello statale 2.
Quest’ultimo, si è sì sviluppato spontaneamente, «con criteri autonomi di legittimazione rappresentativa, con proprie regole di competenza, con
NAPOLI, Conflitto e consenso, Edizioni Lavoro, Roma, 1983, p. 12; X. XXXXXX, Contratti collettivi di lavoro (voce), in ffnc. giur., vol. VIII, Roma, 1988, p. 7; X. XXXXXXXX, Il con- tratto collettivo, in Trattato di diritto privato, diretto da X. Xxxxxxxx, xxx. XX, Xxxx, Xxxxxx, 0000, nonché ID. Contratto collettivo ed autonomia sindacale, Utet, Torino, 2003; G. VIL- LANI, Relazioni industriali e procedure concorsuali, Giappichelli, Torino, 1996, p. 44 non- ché X. XXXXXXXX, Il contratto collettivo e le altre fonti, Intervento alle giornate di studio AIDLASS, Baia delle Zagare, 25-26 maggio 2001, la quale afferma che «le coordinate pri- vatistiche, nonostante le molte tensioni cui sono sottoposte su diversi piani, possono rite- nersi tuttora valide» e X. XXXXX, Il contratto collettivo fonte e le funzioni della contrattazio- ne collettiva, Intervento alle giornate di studio AIDLASS, Baia delle Zagare, 25-26 maggio 2001, il quale ribadisce che «la prospettiva dalla quale muovere rimane pertanto quella privatistica poiché l’affermazione costituzionale della libertà del sindacato impone di ri- condurre, in linea di principio, l’azione di quest’ultimo al diritto dei privati, salvo coordi- nare la prospettiva con la necessaria considerazione degli effetti determinati, nella nostra costituzione materiale, dal processo di integrazione-interrelazione tra la legge ed il contrat- to collettivo». Critico, invece, X. XXXXXXX, Ordinamento, ruolo del sindacato, dinamica contrattuale di tutela, Cedam, Padova, 1981, in particolare pp. 256-257 ove si afferma che il processo di assimilazione tra la legge e la contrattazione collettiva è tale da contraddire la prevalente ricostruzione strettamente privatistica degli attuali contratti collettivi e che allo stato della legislazione vigente è difficilmente sostenibile la qualifica rigorosamente con- trattuale degli accordi collettivi. In giurisprudenza cfr. Cass., 16 aprile 1993, n. 4507, in Xxx. xxxx. xxx., 0000, x. 00. Xxxxx xxxxxxx xxxxx xxxxxxx attuazione dell’art. 39 Cost., vedi X. XXXXXXX, L’orgoglio dell’inattuazione costituzionale, in Pol. dir., 1985, p. 421; sulle conse- guenze cfr. X. XXXXXXXXX, I paradossi della libertà sindacale, in Pol. dir., 1985, p. 465. Per una panoramica generale vedi ancora X. XXXXXXXX, Il diritto del lavoro e le sue fonti, in Riv. it. dir. lav., 2001, I, p. 219 nonché X. XXXX-X. XXXXXXXX, Introduzione al diritto del lavoro. L’ordinamento italiano, Laterza, Bari, 2004 e X. XXXXX, L’efficacia del diritto del la- voro e l’autonomia privata collettiva, in Xxx. xx. xxx. xxx., 0000, x. 00; per una difesa della natura di contratto di diritto privato del contratto collettivo di diritto comune, cfr. X. XXXXXXXX, Il contratto collettivo di diritto comune nel sistema delle fonti del diritto del lavo- ro, in Arg. dir. lav., 2004, p. 1.
2 Il riferimento non può che essere a X. XXXXXX, Introduzione allo studio dell’autono- mia collettiva, Cacucci, Bari, 1960. Si rinvia altresì alle considerazioni di X. XXXXXXXXXXXX, Considerazioni introduttive al convegno sul nuovo volto del diritto del lavoro, in Arg. dir. lav., 2005, p. 457 nonché X. XXXXXXXX, Contratto collettivo e autonomia sindacale, Utet, Torino, 2003.
strumenti singolari di realizzazione di un ordine» 3, usando prevalentemen- te gli strumenti suoi propri, e cioè lo sciopero ed il contratto 4, ma non ha raggiunto, almeno non sempre, un grado di autonomia tale da poter fare a meno del diritto civile, all’interno del quale è comunemente ricondotto.
Xxxx è, infatti, che, come sostenuto da autorevole dottrina 5, alcune nor- me elaborate dall’ordinamento intersindacale hanno un contenuto che dif- ficilmente si presta ad essere azionato davanti alla giurisdizione statuale, es- sendo invece più efficaci gli strumenti predisposti dallo stesso ordinamento intersindacale.
Ma del pari è vero che, quando tali strumenti si rilevano insufficienti a risolvere un conflitto divenuto patologico, diventa giocoforza necessario ri- correre alla giurisdizione statuale per garantire effettività alle norme del- l’ordinamento intersindacale che si assumono violate 6.
In altre parole, la teoria dell’ordinamento intersindacale quale ordina- mento originario ed autonomo rispetto al diritto dello stato regge fino a quando tale sistema è in grado di risolvere al suo interno, con i suoi stru- menti tipici, i conflitti che sorgono nello svilupparsi delle relazioni indu- striali. Finché, cioè, il sistema sindacale non ha bisogno di ricorrere al dirit- to statale per garantire effettività alle proprie norme.
Ma quando il conflitto non trova una soluzione all’interno dell’ordina- mento intersindacale, esso è costretto a rivolgersi all’esterno, alla giurisdi- zione dello Stato 7.
In questi casi, salvo in primis le ipotesi espressamente regolate da norme
3 X. XXXXXX, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, cit., p. 13.
4 Cfr. ancora X. XXXXXX, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, cit., pp. 127-128, il quale rileva che «segnatamente negli accordi interconfederali, emergono soven- te prescrizioni che ... sono del tutto prive di un contenuto azionabile presso la giurisdizio- ne statuale ... Tali norme appaiono, invece, collegate ad un meccanismo sanzionatorio e- spresso o inespresso che è lo sciopero, fondamentale strumento di garanzia sociale per l’or- dinamento intersindacale»; cfr. anche X. XXXXXXX, Contratto Collettivo (voce), cit., p. 62. In giurisprudenza sugli strumenti tipici dell’azione sindacale si veda Cass., 19 luglio 1995, n. 7833, in Mass. giur. lav., 1995, p. 683 con nota di X. XXXXXXX, Riflessioni in tema di viola- zione del contratto collettivo e condotta antisindacale.
5 X. XXXXXX, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, cit.
6 Le recenti vicende relative alla sottoscrizione di accordi separati ed ai riflessi sul rin- novo del contratto collettivo dei Metalmeccanici ne sono la prova.
7 Contrario all’intervento «di un attore terzo» nel conflitto tra datore di lavoro e orga- nizzazioni sindacale X. XXXXXXXXX, Stabilità del sistema di contrattazione collettiva e con- dotta antisindacale, in Dir. rel. ind., 1994, p. 182.
dettate ad hoc per il diritto del lavoro, penso ad esempio all’art. 28 Stat. Lav., il diritto del lavoro è ancora costretto a ricorrere agli strumenti, e pri- ma alle categorie, del diritto civile 8.
Come sottolinea autorevole dottrina «il diritto del lavoro si è staccato dal diritto civile, ha uno spirito proprio che gli conferisce un’autonoma ra- gione d’essere, ma non è autosufficiente: infrastrutture e snodi gli sono pur sempre forniti dal diritto civile» 9.
8 Un richiamo alle considerazioni che precedono pare si possa trovare nello stesso GIUGNI, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, cit., p. 11, il quale, nella «pro- spettiva de lege ferenda» ritiene prevedibile che il contratto collettivo assumerà, accanto alla funzione «legislativa» altre funzioni organizzative o strumentali, tra le quali «il pensie- ro corre ... alle varie forme di sanzione sindacale, un’elementare strumentazione per la concreta realizzazione dell’ordinamento, pressoché sconosciuta alla nostra esperienza, ma non del tutto a quella di altri paesi». Sul punto, cfr. anche X. XXXX, Disponibilità individua- le e collettiva dei diritti soggettivi nascenti da norme inderogabili, in Arg. dir. lav., 1999, p. 615, ove, a proposito della disponibilità dei diritti individuali ad opera dell’autonomia col- lettiva, si afferma in maniera molto efficace che «è un tema che vede l’ordinamento inter- sindacale costretto a venire alla resa dei conti con le limitazioni e le contraddizioni del con- testo legale esistente». Vedi anche X. XXXXXXX, La via italiana all’istituzionalizzazione del conflitto, in Pol. dir., 1983, p. 417. Si veda X. XXXXXXX, Il contratto collettivo, Intervento alle giornate di studio AIDLASS, Baia delle Zagare, 25-26 maggio 2001, il quale sottolinea la natura di «forbice» del contratto collettivo che «pur essendo centrale nel sistema delle fonti di produzione delle regole sui rapporti di lavoro, non rinviene nell’ordinamento stru- menti adeguati per svolgere a pieno la sua funzione normativa» nonché ID., Il contratto collettivo come fonte: teorie ed applicazioni, in X. XXXXXXXX-X. XXXXXXX (a cura di), Con- tratto collettivo e disciplina dei rapporti di lavoro, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2004, p. 3 nonché
X. Xxxxxxxxxxxx, Considerazioni introduttive al convegno sul nuovo volto del diritto del
lavoro, in Arg. dir. lav., 2005, p. 457.
9 X. XXXXXXX-A. PROTO PISANI-A. ORSI XXXXXXXXXX, L’influenza del diritto del lavoro su diritto civile, diritto processuale civile, diritto amministrativo, X. XXXXXXX, Il diritto civi- le, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1990, p. 5 ed in particolare p. 10. Sul punto vedi anche X. XXXXXXXX, Diritto del lavoro e diritto civile – I temi di un dialogo, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 1994, ove si legge che «è innegabile che il discorso giuridico, come ogni articolazione logi- ca, non possa prescindere da una trama di concetti, che ne costituiscono l’innervatura por- tante, come le parole per il linguaggio, e che per l’uso di questo vocabolario il diritto del lavoro debba attingere al diritto privato e quest’ultimo, in buona sostanza, alla teoria gene- rale. Il diritto privato fornisce insomma al discorso lavoristico le «infrastrutture e gli sno- di» indispensabili per consentirgli di dialogare» nonché X. XXXXXXXXX, Prefazione a X. XXXXXXXX, Diritto del lavoro e diritto civile, cit., il quale ritiene che «alimentato spesso da luoghi comuni il dialogo (tra diritto del lavoro e diritto civile) è un’eredità tardo ottocente- sca che avrebbe meritato l’accettazione con beneficio di inventario ed è invece diventata parte integrante del patrimonio del nostro diritto del lavoro o, meglio, della nostra memo- ria storica. Non che si dovesse o potesse rifiutarla; anzi bisogna riconoscere che ogni tenta- tivo del genere prima o poi ha dissuaso dal perseguirlo, visti gli scadenti risultati ottenibili.
Sebbene vi sia chi propende per l’autonomia dei due diritti, ritenendo che il diritto del lavoro sia arrivato ad un punto oltre il quale deve abban- donare il diritto civile per proseguire autonomamente, pena il rischio di non arrivare a comprendere le proprie potenzialità e, prima ancora, i pro- pri obiettivi 10, allo stato si deve prendere atto che il diritto del lavoro in generale, intendendo ricomprendere in tale accezione anche il diritto sin- dacale, essendo frutto dell’autonomia negoziale, «deve essere costruito se- condo i principi del diritto privato, nella misura in cui non esistano norme speciali di legge che a tali principi facciano eccezione» 11.
Si può dire, allora, che il diritto dei rapporti collettivi, che nell’ordina- mento intersindacale può vivere di vita propria usando delle sue categorie, delle sue leggi e delle sue sanzioni 12, deve ancora, e molto spesso, utilizzare il diritto civile per misurarsi con il diritto statuale, in particolare quando, non riuscendo a risolvere al suo interno, con gli strumenti propri dell’ordi- namento intersindacale, il conflitto, è costretto a ricorrere al diritto dello stato per garantire effettività alle sue regole 13.
Ciò non toglie che la persistenza del dialogo, praticamente ininterrotto nonostante il muta- re delle stagioni attraversate dal diritto del lavoro, sia dovuta essenzialmente ad un’ano- malia della storia. E l’anomalia della storia del diritto del lavoro consiste in ciò: questo di- ritto si è allontanato abbastanza in fretta dal diritto privato, ma non si è mai svezzato del tutto dalla sua patria potestà». Sull’autonomia del diritto del lavoro si veda ancora X. XX XXXX XXXXXX, Profili di rilevanza del potere direttivo del datore di lavoro, in Arg. dir. lav., 2005, p. 467.
10 X. XXXXXXXXXX, Democrazia industriale e subordinazione. Poteri e fattispecie nel si- stema giuridico del lavoro, Xxxxxxx, Milano, 1985, il quale afferma letteralmente che «a me pare che alle categorie civilistiche ... il diritto del lavoro debba anche dire: siamo stati ab- bastanza bene assieme: ma adesso è meglio che ci lasciamo e facciamo una vita indipen- dente; ... se non mi emancipo, temo di non scoprire chi sono, quali sono le mie possibilità ed i miei obiettivi».
11 X. XXXXXXX, Il contratto collettivo nell’ordinamento giuridico italiano, in Jus, 1975,
p. 176 ed ora in Diritto e valori, Il Mulino, Bologna, 1985, p. 247 ss., in particolare p. 277;
X. XXXXXX, Rapporti tra contratti collettivi di diverso livello, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1981, p. 357 ss., e spec. p. 368; X. XXXXX, Autonomia contrattuale e contratto collettivo di lavoro, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 1996, p. 223; sul diritto del lavoro come diritto speciale si ve- da anche X. XXXX-X. XXXXXXXX, Introduzione al diritto del lavoro. L’ordinamento italiano, cit., p. 14 nonché X. XXXXXXX, Il diritto del lavoro e le sue categorie – Valori e tecniche nel diritto del lavoro, Cedam, Xxxxxx, 0000.
12 Cfr. sul punto X. XXXXXXX, Contratto collettivo (voce), in Digesto IV, sez. comm., vol.
IV, Utet, Torino, p. 61.
13 Cfr. sul punto M. XXXXXXXX, Il contratto collettivo, in Trattato di diritto privato, cit.,
p. 54 ove, a proposito del rapporto tra ordinamento statuale ed ordinamento intersindaca-
Come dire che, in mancanza di norme speciali pensate per il diritto sin- dacale, il diritto civile costituisce il veicolo attraverso il quale le norme che regolano l’ordinamento intersindacale vengono conosciute e trovano effet- tività anche nel diritto dello stato 14.
le, si legge che «l’autosufficienza dell’ordinamento intersindacale non provoca l’irrilevanza della realtà sindacale nell’ordinamento statuale; semplicemente induce lo stato ad astenersi dal legiferare su di essa perché a governare le relazioni industriali appaiono più appropria- te le tecniche negoziali inventate dagli stessi soggetti collettivi ... Il legislatore tra metodo contrattuale e metodo legale per la soluzione del conflitto, preferisce il primo, reputandolo molto aderente alla logica di questo, oltre che realmente compatibile con la struttura plu- ralistica dello Stato democratico-costituzionale. Ma ciò non implica alcuna preventiva ri- nuncia del legislatore all’intervento, se e quando le tecniche negoziali dovessero rivelarsi insufficienti a causa di un radicale mutamento delle condizioni strutturali favorevoli al re- gime di astensione. Non solo ma implica anzi che l’ordinamento statuale abbia comunque propri meccanismi interpretativi, adeguati a conoscere i reali equilibri dell’ordinamento autonomo, e proprie tecniche di intervento, capaci, all’occorrenza, di coordinarsi armoni- camente con la logica interna al sistema contrattuale» nonché quanto precisato sub nota 15 dallo stesso autore il quale chiarisce che «non si condivide l’individuazione di un unico canale di comunicazione fra gli ordinamenti che sarebbe costituito dall’interpretazione ... il raccordo è, invece, un’indicazione di politica del diritto statuale: infatti, proprio perché lo Stato riconosce la forza e l’efficienza dell’ordinamento intersindacale, non può non orien- tarsi verso una produzione normativa che coniughi il più possibile il rispetto dell’autono- mo assetto di interessi realizzato dai soggetti dell’ordinamento intersindacale con la tutela di quei valori alla difesa dei quali lo Stato non può assolutamente abdicare». Cfr. anche X. XXXXXXXX, Contrattazione collettiva (voce), in Digesto IV, sez. comm., vol. IV, Utet, Torino,
p. 31 e spec. p. 54 ove si legge che «questa proposta va nel senso di mantenere una netta
separazione tra ordinamento sindacale e sistema giuridico-statuale, cioè tra regole interne ed eteronome. L’integrazione imperfetta tra i due poli ... verrebbe così garantita ... L’in- tervento legislativo non assumerebbe una funzione direttamente regolativa: esso si limite- rebbe piuttosto a offrire ai soggetti collettivi un pacchetto di risorse istituzionali. Salvo re- stando che, ove in sede autonoma si configurino circuiti efficienti di autoregolazione, la cornice legislativa risulterebbe disapplicata» nonché X. XXXXXXX, Contratto collettivo (vo- ce), in Digesto IV, sez. comm., vol. IV, Utet, Torino, p. 77 ove si legge che è «divenuta conoscibile dalla giustizia statale anche la parte obbligatoria del contratto collettivo»; e
X. XXXX, L’accordo del 23 luglio 1993: assetto contrattuale e struttura della retribuzione, in Riv. giur. lav., 1993, p. 215, e spec. p. 238, il quale, a proposito dell’accordo del luglio 1993, rileva che «una debolezza istituzionale deriva dalla caratteristica tutta volontaria dell’intesa: ed è tanto più grave in un ordinamento sindacale sprovvisto di sostegni legali all’efficacia delle regole volontarie quale risulta dalla tradizionale impostazione civilistica».
14 Vedi ancora X. XXXXXXX, Ordinamento intersindacale e teoria dei sistemi, cit., p. 7, il quale rileva come il ricorso al diritto privato sia stato in grado di risolvere il problema della rilevanza positivo-endostatale degli atti posti in essere nell’esercizio della libertà di contrat- tazione collettiva.
Per tale ragione anche l’indagine circa l’ammissibilità del recesso dal contratto collettivo può prendere le mosse dal diritto comune dei contratti, dal momento che, come verrà argomentato nei paragrafi che seguono, non esiste alcuna norma di legge che regoli in modo specifico l’efficacia tempo- rale del contratto collettivo cosiddetto di diritto comune 15.
Ciò non significa, peraltro, che i risultati ottenuti in tale campo possano e debbano essere meccanicamente trasportati su quello gius-sindacale, di- menticando la specialità che contraddistingue questo diritto e che lo rende autonomo rispetto al primo 16.
Non significa, in altre parole, che questo sistema di norme si debba ap- piattire su quello civile a scapito delle sue peculiarità 17.
15 Per il momento ci si accontenta dell’affermazione richiamata, riservandosi di tornare nel prosieguo sulle ragioni dell’inapplicabilità al contratto collettivo di diritto comune del- le norme speciali previste dagli artt. 2071 e 2074 c.c. ovviamente, facendo riferimento a norme di legge, non si considera nemmeno, per il momento, quanto stabilito dal Protocol- lo di luglio 1993 nonché di gennaio 2009 su cui si dirà oltre.
16 Cfr. X. XXXX, Disponibilità individuale e collettiva dei diritti soggettivi nascenti da nor- me inderogabili, cit., il quale efficacemente rileva che «la dottrina, invece che semplificare, pare voler notevolmente complicare le cose quando affronta la questione utilizzando come unica lente il diritto privato e le categorie giuridiche tradizionali. È chiaro che una lettura di situazioni così complesse come le transazioni collettive sulla base dei principi della rap- presentanza e del mandato non può che condurre alla negazione della loro ammissibilità
… il fraintendimento originario … è derivato dal fatto che non si è mai voluto ritenere possibile che la specialità del diritto del lavoro nei confronti del diritto comune dei con- tratti possa condurre alla predisposizione di uno strumento che non sia come gli altri as- servito all’ottica del favor prestatoris». Analogamente vedi anche X. XXXXXXX, Per una di- sciplina del contratto collettivo, in Mass. giur. lav., 1987, p. 296, il quale sottolinea che «il contratto collettivo, per sua natura, non può mai essere o non tende ad essere riducibile nei modelli del diritto privato comune; nello spazio angusto dello jus commune non ci sta, non ci può stare per la sua tendenza ad essere contratto normativo» nonché X. XXXXXXXX- GLIO, Considerazioni introduttive al convegno sul nuovo volto del diritto del lavoro, cit., il quale rivendica con forza l’attualità della specialità del diritto del lavoro rispetto al diritto civile, sottolineando come sia «da escludere che l’ubi consistam del diritto del lavoro possa essere ricondotto allo schema concettuale e normativo del contratto».
17 Ciò in quanto, come sostiene X. XXXXXX, L’ordinamento giuridico, Sansoni, Firenze, 1947, p. 127, «il diritto civile non contempla che una parte dei rapporti che realmente si svolgono e li contempla, per giunta, in modo inadeguato ed imperfetto»; cfr. anche X. XXXXXX, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, cit., p. 16, il quale a proposito degli istituti sindacali afferma che «se vogliamo conoscere questi istituti nella pienezza del- la funzione economico-organizzativa da essi svolta, è essenziale anzitutto organizzarli nella nozione di un ordinamento che nei suoi elementi fondamentali appare fondato su fattori di equilibrio sui generis e soprattutto su alcuni elementi organizzativi formali che sono diffi- cilmente riconducibili ai tipi legali predisposti dallo Stato; o quando lo siano vi si presen-
Significa, invece, che nell’intraprendere la ricerca si deve pervenire ad un’equilibrata interazione tra i due sistemi, nella consapevolezza che la ma- trice civilistica ed il riferimento al diritto civile rappresentano il fondamen- to privilegiato di ogni indagine che abbia ad oggetto il diritto sindacale 18.
Una volta individuati gli strumenti, essi dovranno superare il vaglio di compatibilità rispetto alla particolare natura della fattispecie oggetto del nostro studio, al fine di evitare «l’applicazione di una determinata discipli- na giuridica a ipotesi e fatti che, in base a considerazioni storiche, politiche o finalistiche, sfuggono al significato ed alla funzione della norma» 19.
tano un’immagine rifratta e deformata; oppure, infine, postulano una così profonda revi- sione di tradizionali nozioni dommatiche» ed ancora, pp. 105-106, «la realtà è che, al di là di uno schermo di strutture positive che, per essere messo in grado di rispondere in modo puntuale alle esigenze poste dall’autonomia collettiva richiedono una paziente opera di adattamento, si pone un sistema organizzato di relazioni industriali; e questo, quando pur si avvale degli strumenti contrattuali e delle forme precarie di tutela che da essi discendo- no, appare radicato su ragioni di equilibrio che di gran lunga trascendono la forza del rap- porto obbligatorio e della responsabilità patrimoniale sanzionata dall’autorità statuale»; sul punto, ma critico, vedi anche X. XXXXXXX, Ordinamento intersindacale e teoria dei sistemi, cit., p. 28; cfr., ancora, X. XXXXXXX, Relazioni industriali e procedure concorsuali, Xxxxxx- xxxxxx, Torino, 1996, p. 40.
18 Sulla matrice civilistica del diritto del lavoro cfr. anche X. XXXXXXX, Osservazioni sulla riforma del Titolo V della Costituzione, in Il diritto del lavoro dal libro bianco al disegno di legge delega 2002, a cura di X. Xxxxxxx e X. Xxxxxxxx, Ipsoa, Milano, 2002, il quale ritiene che una delle chiavi per interpretare il riparto di competenze tra Stato e Regioni, frutto del nuovo art. 117 Cost., ed in particolare il significato della contrapposizione tra «ordinamen- to civile», di competenza esclusiva dello Stato, e «tutela e sicurezza del lavoro», di compe- tenza concorrente Stato-Regioni, derivi dalla natura del diritto del lavoro il quale «nasce non solo come diritto nazionale ma anche come diritto privato fondato sull’autonomia col- lettiva ed individuale, quindi su una strumentazione civilistica classica, di ricomposizione degli interessi contrapposti» con la conseguenza che «la parte sindacale del diritto del la- voro» ha subito una «significativa trasformazione nella costituzione materiale con una du- plice e asimmetrica curvatura, perché, da un lato si è consolidata una ricostruzione squisi- tamente privatistica del sindacato come associazione non riconosciuta, del contratto collet- tivo come contratto di diritto comune e, almeno all’inizio, dello sciopero come diritto po- testativo; dall’altro con lo Statuto dei lavoratori e con il riconoscimento dello sciopero di imposizione politico-economica, si è attribuito ai sindacati lo status di legittimi interlocu- tori rispetto al Governo ed al Parlamento nella macro-politica economico-finanziaria» nonché X. XXXXXXX, Diritto del lavoro e diritto privato: uno sguardo dal ponte, in WPCSDLff
«Xxxxxxx X’Xxxxxx», 2007, n. 54.
19 X. XXXXXXXXX, Il contratto collettivo d’impresa, Xxxxxxx, Milano, 1963, p. 2; M. TI- RABOSCHI, L’efficacia temporale del contratto collettivo di lavoro: atipicità dello schema ne- goziale, giuridicità del vincolo e cause di scioglimento, in Dir. rel. ind., 1994, pp. 90-91; sul ruolo che le variabili economiche, politiche, tecnologiche e sociologiche hanno sulla for-
Peraltro, questa operazione di adattamento delle «infrastrutture» civili- stiche al contratto collettivo risulta meno complessa di quanto sembri dalla mera enunciazione del principio, soprattutto nel caso che ci occupa.
Vero è, infatti, che, a causa di una lacuna interna, il diritto del lavoro è costretto a ricorrere a strumenti e categorie, «infrastrutture e snodi» che appartengono al diritto civile, ma ciò non significa che tra i due sistemi esi- sta uno scambio unidirezionale, dal diritto civile a quello del lavoro, che rende le categorie del primo totalmente estranee alla realtà del secondo.
In altre parole, l’interprete non si trova ad utilizzare uno strumento del tutto avulso dal sistema giuslavoristico, né impone a quest’ultimo un para- digma che, per la sua struttura monolitica, interviene modificandolo nei suoi tratti peculiari.
In realtà, vi è tra i due ordinamenti una continua dialettica, uno scam- bio di modelli e di soluzioni che creano un circuito di influenze recipro- che, di interazioni ed integrazioni profonde 20, senza che però ciò interferi- sca su «l’indipendenza di ciascuno di essi rispetto all’altro, né tanto meno importi l’assorbimento dell’uno all’interno dell’altro» 21.
mazione della fattispecie contratto collettivo vedi ancora X. XXXXXXX, Relazioni industriali e procedure concorsuali, cit., p. 39.
20 Esemplare a questo proposito può considerarsi quanto avvenuto con l’emanazione della legge n. 675/1996 in tema di privacy. Il diritto del lavoro, infatti, conosceva già da tempo norme dirette alla tutela della riservatezza intra ed extra aziendale del lavoratore. Si pensi agli artt. 2, 3, 4, 5, 6, e 8 dello Statuto dei Lavoratori. Rispetto a tali norme, che l’art. 43, legge n. 675/1996 faceva espressamente salve, e che gli artt. 113 e 144 del d.lgs. 30 giu- gno 2003, n. 196 richiama espressamente, non solo la legge sulla privacy non detta nulla di specifico, ma è ben possibile ipotizzare che il diritto civile guarderà alle soluzioni già ela- borate sul terreno del diritto del lavoro per affrontare almeno alcune delle tematiche che nasceranno dall’applicazione della legge. Dunque, ecco un primo scambio di modelli tra l’uno e l’altro ordinamento. Per altro verso, però, la legge n. 675/1996 ed ora il d.lgs. n. 196/2003, offrono al diritto del lavoro lo strumento per affrancare definitivamente il dirit- to alla riservatezza del lavoratore, sancito dall’art. 8 Stat. Lav. L’aver elevato a diritto auto- nomo quello alla privacy comporta, nel diritto del lavoro, che la norma di cui all’art. 8 Stat. Lav. può valere di per sé e non, come è sempre stata considerata, connessa al divieto di discriminazione di cui agli artt. 15 e 16 Stat. Lav. Ecco, dunque, che si completa per que- sto verso il rapporto circolare tra i due ordinamenti. Per un approccio metodologico ana- logo si veda X. XXXXXXX, Consuetudini ed usi nel rapporto di lavoro subordinato, Xxxxxxx, Milano, 2006 ed in part. p. 6 ss. nonché ancora X. XXXXXXX, Diritto del lavoro e diritto pri- vato: uno sguardo dal ponte, cit. Di recente, sul tema, X. XXXXXXXX, Diritto civile e diritto del lavoro. Le prospettive di un’antica vicenda scientifica, in Arg. dir. lav., 2008, p. 720 non- ché X. XXXXXXXX, Diritto privato e diritto del lavoro, in Arg. dir. lav., 2009, p. 947.
21 X. XXXXXXX, Ordinamento intersindacale e teoria dei sistemi, cit., p. 51. Si veda an- che X. XXXXXXXXX, Il contratto collettivo di lavoro nel Novecento italiano, relazione al
Regna, invece, tra i due ordinamenti un equilibrio instabile, mutevole,
«che può variare con il variare di una serie di valutazioni di opportunità. Può allora succedere che l’accresciuto intervento dello Stato nella discipli- na giuridica dei rapporti di lavoro contribuisca a comprimere, fino talvolta ad annullare, l’ambito di esclusività dell’ordinamento intersindacale» 22. Ma, soprattutto in momenti quale quello attuale in cui il legislatore tende a de- legare molte funzioni politiche alle parti sociali, può anche succedere il contrario: che, cioè, «l’ordinamento generale finisca per perdere la propria monolitica identità e si configuri come un processo sempre in evoluzione di composizione ed integrazione dinamica dei diversi ordinamenti giuridici» 23.
Insomma, nonostante gli influssi che riceve ed a sua volta da’ al diritto civile, il diritto del lavoro, nella più ampia accezione del termine, è e resta un diritto «primo» 24.
La questione del recesso dal contratto collettivo è emblematica, in quanto meglio che altrove vi si riconosce il flusso bidirezionale di modelli tra i due sistemi.
Come è già stato osservato, infatti, il principio di libera recedibilità dal contratto, pur attenendo a questioni prettamente civilistiche, nasce e si dif- fonde con maggiore ampiezza nella giurisprudenza della Corte di Cassa- zione, sezione Lavoro 25.
Pertanto, nella fattispecie in oggetto, se è vero che il diritto del lavoro ha attinto dal diritto civile le categorie e gli strumenti per conoscere della fattispecie recesso, del pari è vero che il secondo ha ricevuto dal diritto sin- dacale alcuni dei principi generali attraverso i quali, in una visuale nuova rispetto al passato, che supera la stretta aderenza al dettato normativo del- l’art. 1373 c.c., ha affrontato la questione arrivando ad una soluzione cer- tamente innovativa e forgiando nuove regole, valide per ogni ipotesi di re- cesso, ivi compreso il caso di recesso da un contratto spiccatamente priva- tistico quale è la compravendita 26.
XIII Convegno AIDLASS, Ferrara 2000 nonché X. XXXXX, Riflessioni sul confronto tra diritto civile e diritto del lavoro a proposito delle tutele per i soggetti più deboli, in Lav. giur., 2005, p. 205.
22 X. XXXXXXX, Ordinamento, ruolo del sindacato, cit., p. 143.
23 X. XXXXXXX, Ordinamento, ruolo del sindacato, cit., p. 143.
24 Si interroga sull’autonomia del diritto del lavoro X. XXXXXXX, Il diritto del lavoro e le sue categorie – Valori e tecniche nel diritto del lavoro, Cedam, Xxxxxx, 0000.
25 X. XXXXX, Autonomia contrattuale e contratto collettivo di lavoro, cit.
26 Su cui Cass., 30 luglio 1984, n. 4530, in Giust. civ., 1985, p. 2014.
Se, dunque, allo stato può concludersi per l’esistenza della facoltà di re- cesso da qualunque contratto, bisogna riconoscere che ciò lo si deve in massima parte agli stimoli che provengono dal diritto del lavoro ed alle so- luzioni adottate in tale sede.
2. La prima condizione per l’applicazione al recesso dal contratto col- lettivo dei principi generali in tema di recesso: la questione dell’esi- stenza di una disciplina dell’efficacia temporale del contratto collet- tivo
Fatte queste doverose premesse, e passando alla verifica circa l’appli- cabilità al contratto collettivo dei principi generali in tema di recesso, come si è detto nel capitolo che precede, dottrina e giurisprudenza ormai domi- nanti ammettono il recesso dal contratto, ritenendo tale facoltà attuativa di principi giuridici generali, se non, addirittura, di ordine pubblico 27.
Essi sono, lo ricordiamo:
– l’inammissibilità di vincoli contrattuali perpetui;
– la necessaria determinatezza o determinabilità dell’oggetto del con- tratto, ove il termine apposto o apponibile al contratto concorre alla pre- detta determinazione;
– la buona fede nell’esecuzione del contratto;
– l’esistenza, sebbene implicita, di una clausola rebus sic stantibus, in ba- se alla quale il modificarsi della situazione oggettiva che ha fatto da sfondo al negozio, incidendo sull’equilibrio contrattuale, può, sussistendo talune condizioni, autorizzare il recesso dal contratto.
Esistono, dunque, in diritto civile gli strumenti perché, a talune condi- zioni ed entro certi limiti, una parte possa recedere dal contratto senza per ciò solo essere considerata inadempiente.
Si tratta di strumenti che, nascendo dall’elaborazione di principi gene- rali, possono astrattamente riferirsi ad una molteplicità di contratti, tipici e non.
27 Cfr. X. XXXXXXX, ffffetti del contratto, rappresentanza, contratto per persona da no- minare, in Commentario codice civile, a cura di Scialoja-Branca, Zanichelli, Bologna, 1993, p. 58.
Per quanto riguarda nello specifico il tema della nostra indagine, si ri- tiene che la possibilità di applicare quei principi al contratto collettivo di- penda dalla realizzazione di tre condizioni: la prima, che manchi una di- sciplina speciale dell’efficacia temporale del contratto collettivo ed, in par- ticolare, una disciplina del recesso; la seconda, che i principi sopra ricorda- ti siano in astratto riferibili anche al contratto collettivo; la terza, che vi sia in concreto compatibilità tra i principi astratti in tema di recesso ed il par- ticolare contratto di cui si discute 28.
Esamineremo nel presente paragrafo la prima delle tre questioni, riser- vando ai paragrafi 3 e 4 le questioni legate alla riferibilità astratta ed alla compatibilità concreta dei principi civilistici con la natura dell’accordo di cui si discute.
La ragione per cui è opportuno iniziare la verifica partendo dall’inda- gine circa l’esistenza di una disciplina dell’efficacia temporale del contratto collettivo, ed in particolare del recesso, è evidente: i principi elaborati nel diritto civile possono essere utilizzati soltanto se necessari per colmare un vuoto normativo o, comunque, nei limiti in cui si rivelino compatibili con l’eventuale disciplina esistente.
2.1. Segue: l’esistenza di una disciplina dell’efficacia temporale del contratto collettivo nell’impiego privato
Proprio l’esistenza nell’ordinamento interno ovvero in quello intersin- dacale di una disciplina dell’efficacia temporale dell’accordo ed in partico- lare del recesso dallo stesso è stata oggetto di dibattito in dottrina e giuri- sprudenza 29.
28 X. XXXXXXX, Il contratto collettivo nell’ordinamento giuridico italiano, in Jus, 1975,
p. 167, ed ora in Diritto e valori, cit., p. 277; X. XXXXXXX, Per una disciplina del contratto collettivo, in Mass. giur. lav., 1987, p. 296, il quale nel chiarire il significato dell’espressione
«contratto collettivo di diritto comune» precisa che essa era usata per «sottolineare che era un contratto assoggettato, nei limiti del possibile, alle regole sui contratti in generale e non ad un diritto speciale». Addirittura alcuna dottrina ha ritenuto che, per i contratti atipici, quale il contratto collettivo, il recesso costituisca uno strumento generale e sussidiario al fine di garantire la libertà dai vincoli contrattuali X. XXXXXXXX, Degli effetti del contratto, in Il codice civile commentato, diretto da X. Xxxxxxxxxxx, sub artt. 1372 e 1373, Xxxxxxx, Mi- lano, 1998.
29 X. XXXXXXXXXXXX, A proposito di una recente iniziativa per una disciplina legislativa del contratto collettivo, in Mass. giur. lav., 1986, p. 683 ss., e spec. p. 686; ID., Xxxxx contro- versa ultrattività dei contratti collettivi, in Mass. giur. lav., 1995, p. 552.
Tale dibattito trae origine dal fatto che il legislatore post-corporativo non ha dettato una disciplina tipica del contratto collettivo di diritto co- mune.
L’assenza del legislatore ha costretto l’interprete ad un’opera di rico- struzione realizzata in parte attraverso il rinvio alla disciplina generale dei contratti ed in parte attraverso il recupero di norme codicistiche dettate per il contratto collettivo corporativo 30.
Soprattutto quest’ultima operazione di recupero ha dato luogo a nu- merosi dibattiti in dottrina e giurisprudenza, divise tra chi ritiene applica- bili al contratto collettivo di diritto comune le norme dettate dal codice civile per il contratto corporativo e chi, invece, sottolineando il legame tra tali norme ed il tipo di contratto collettivo di riferimento, afferma l’abroga- zione implicita degli artt. 2067-2077 c.c. ovvero la loro sopravvivenza al so- lo limitato fine di applicarli ai contratti collettivi corporativi ancora in vi- gore.
Senza pretesa di completezza, pare allora opportuno richiamare breve- mente le diverse posizioni in materia.
Come noto, gli artt. 2067-2077 c.c. dettavano una disciplina speciale per il contratto collettivo corporativo, prevedendo, tra l’altro, l’obbligo di fissare un termine al contratto (art. 2071), la facoltà di denunzia del con- tratto almeno tre mesi prima della sua scadenza ed infine sancendone l’ul- trattività sino alla stipulazione del nuovo accordo (art. 2074).
Caduto l’ordinamento corporativo e stabilizzatosi un sistema di contrat- tazione informale – che si colloca, cioè, fuori degli schemi previsti dalla se- conda parte dell’art. 39 Cost. – si è posto il problema della riferibilità delle norme del codice civile all’unico tipo di contratto effettivamente ancora
«vitale», quello, cioè, cd. di diritto comune.
La prima dottrina che ha affrontato il problema dell’abrogazione impli-
30 X. XXXXXXX-R. DE XXXX XXXXXX- X. XXXX-X. XXXX, Diritto del lavoro, vol. 1, Il diritto sindacale, Utet, Torino, 2006; X. XXXXXX, Funzione ed efficacia del contratto collettivo nel- l’attuale sistema delle relazioni sindacali e nell’ordinamento statale, in Riv. giur. lav., 1975,
p. 457, il quale rileva che il contratto collettivo si colloca nella zona grigia dei contratti alla cui disciplina contribuiscono allo stesso tempo il testo legislativo ed il dato sociale; certa- mente nominato dalla legge, che ne definisce a grandi linee la funzione economico-sociale, esso però non trova oggi nella legge una compiuta disciplina che va pertanto desunta at- traverso un esame congiunto dei principi generali dell’ordinamento che abbracciano la ma- teria, dalle scarne indicazioni specifiche che scaturiscono dalla legislazione ordinaria, dalla configurazione sociale oggettiva del fenomeno, e dalla coscienza giuridica dei soggetti che in esso si esprime. In giurisprudenza, tra le tante, si veda Xxxx., sez. lav., 18 ottobre 2002, n. 14827.
cita delle norme dettate dal codice civile per il contratto corporativo, ha concluso prevalentemente in senso negativo, e quindi per la sopravvivenza della disciplina dettata per il contratto corporativo all’abrogazione dell’or- dinamento che l’aveva voluta 31.
Peraltro, occorre tenere conto dell’influenza che il modello costituzio- nale ha avuto sugli autori che hanno teorizzato la sopravvivenza delle nor- me codicistiche all’abrogazione dell’ordinamento corporativo, ancora tem- poralmente vicini al legislatore costituente e quindi fiduciosi nell’attuazio- ne dell’art. 39 Cost. 32.
Attuazione che, secondo la tesi citata, avrebbe portato a stipulare con- tratti collettivi per molti versi simili a quelli conclusi vigente l’abrogato or- dinamento corporativo.
Esemplare è in proposito quanto si legge nella premessa al commentario al codice civile curato da Scialoja-Branca ove, a proposito della sopravvi- venza al nuovo sistema degli articoli da 2060 in avanti, si fa un distinguo tra quelle norme che riflettono il sistema fascista, in quanto tali ormai su- perate, e quelle che disciplinano il rapporto di lavoro, le quale si intendono provvisoriamente sospese in attesa del ritorno di un contratto collettivo con le caratteristiche della norma giuridica che aveva nell’ordinamento corporativo 33.
31 X. XXXXXXX, Rilevanza e tipicità del contratto collettivo nella vigente legislazione ita- liana, Xxxxxxx, Milano, 1967, p. 105; X. XXXX-XXXXXXXXXXX, Sull’efficacia nel tempo della disciplina collettiva e della disciplina individuale del rapporto di lavoro, in Dir. lav., 1961, p. 55; ma vedi X. XXXX-XXXXXXXXXXX, sub art. 2074 c.c., in Commentario codice civile, a cura di Scialoja-Branca, Zanichelli, Bologna, 1986, ove si precisa che l’attuale struttura dei con- tratti collettivi non consente l’applicabilità agli stessi dell’art. 2074 c.c., anche se poi l’ul- trattività opera di fatto sul piano dei rapporti sindacali.
32 Cfr. X. XXXXXX, La funzione giuridica del contratto collettivo di lavoro, ora in Lavoro, legge, contratti, Il Mulino, Bologna, 1989, p. 151, il quale ricorda «la pausa che la ricerca dottrinale ha avuto nei primi lustri successivi all’emanazione della carta costituzionale; e ciò per l’effetto dell’attesa, rimasta inappagata, di una legge sindacale che si riteneva sa- rebbe stata idonea a sciogliere i nodi più intricati del problema».
33 X. XXXX-XXXXXXXXXXX, Della impresa, in Commentario codice civile, a cura di Scia- loja-Branca, Sub artt. 20ł0-2134, Zanichelli, Bologna, 1956, p. 3, la quale scrive che «la disciplina del codice si basò sull’ordinamento dell’attività professionale quale risultava direttamente ed indirettamente dalla legislazione fascista: più precisamente una prima parte (art. 2060 e ss.) corrispondeva al diritto corporativo ed una seconda (art. 2094 e seg.) al diritto del lavoro ... la prima parte corrisponde alla soluzione che la legislazione fascista aveva dato a problemi ed istituti che, nel nostro attuale come in altri ordinamenti conser- vano un innegabile rilievo politico-sociale ... nella parte del presente titolo si hanno dispo- sizioni esclusivamente collegate alle caratteristiche specifiche al sistema fascista ... dispo-
Constatata la mancata attuazione dell’art. 39 Cost., la dottrina ha, infi- ne, generalmente optato per la tesi dell’inapplicabilità al contratto colletti- vo di diritto comune delle norme dettate in tema di efficacia temporale del contratto collettivo corporativo 34.
La tesi dell’abrogazione implicita delle disposizioni citate si fonda es- senzialmente sull’idea che il nuovo tipo di contratto collettivo sia incompa- tibile con le norme dettate dal legislatore corporativo nel codice civile.
Al di là di qualche iniziale perplessità, dovuta, come si è detto, più che altro all’attesa attuazione dell’art. 39, 2a parte, Costituzione, si è subito av- vertito che tra contratto collettivo corporativo e contratto collettivo di di- ritto comune vi è una sostanziale differenza, rientrando il primo tra le fonti del diritto, e restando invece i contratti collettivi attualmente stipulati al- l’interno dell’autonomia negoziale delle parti contraenti e quindi dell’auto- nomia privata.
Dalla presa d’atto che si tratta di due fenomeni che presentano notevoli differenze strutturali 35 deriva l’ammissione pressoché unanime 36 dell’inap- plicabilità delle norme dettate dal codice civile per il contratto corporativo,
sizioni queste da considerarsi superate ... in secondo luogo si hanno disposizioni relative alla disciplina di categoria dei rapporti di lavoro subordinato ... che mentre non risultano di regola applicabili agli attuali contratti collettivi di diritto comune, ritorneranno automa- ticamente in vigore non appena il contratto-collettivo-norma giuridica sarà di nuovo previsto dal nostro diritto positivo» (con l’attuazione dell’art. 39 Cost.).
34 La dottrina si è occupata ampiamente della questione dell’efficacia temporale quan- do, nel 1982, la Confindustria ha dato disdetta agli Accordi Interconfederali del 1975 in tema di scala mobile. Posta di fronte ad una problematica nuova sul fronte delle relazioni industriali, la dottrina si è interrogata sugli effetti dell’avvenuta disdetta degli Accordi ed ha cercato una risposta guardando all’unica norma esistente in materia, l’art. 2074. Peral- tro, come noto, nel caso di specie la soluzione è arrivata «dall’esterno» con l’aiuto dell’in- tervento del Governo (protocollo Xxxxxx). Sul dibattito in questione cfr. gli atti della Tavola Rotonda tenutasi a Milano, su iniziativa della Rivista giuridica del lavoro nel dicembre 1982 sul tema La disdetta della scala mobile: quali problemi giuridici, con interventi di C. Smura- glia, X. Xxxxxx, X. Xxxx, X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxxxxxxx, X. Xxxx e X. Xxxxxxx, tutti pubbli- cati in Riv. giur. lav., 1982, p. 527 ss.; cfr., inoltre, X. XXXX, La disdetta dell’accordo inter- confederale sulla scala mobile, in Foro it., 1983, V, c. 18; X. XXXXX, Riflessioni intorno alle disdette della scala mobile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, p. 913; X. XXXXXX, Il contratto di lavoro, Xxxxxxx, Milano, 2000, p. 242; X. XXXXXXXXX, Istituzioni di diritto del lavoro. Il diritto sindacale, Giappichelli, Torino, 2000.
35 X. XXXXXX, Intervento alla Tavola Rotonda sul tema La disdetta della scala mobile: quali problemi giuridici, cit., p. 542.
36 Per una disamina della questione cfr. X. XXXXXXXX, L’efficacia nel tempo del contratto collettivo, in X. XXXXXXXX-X. XXXXXXX (a cura di), Contratto collettivo e disciplina dei rap- porti di lavoro, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2004, p. 117.
cioè di quelle norme «sulla produzione giuridica» 37, ad una fattispecie di stampo, invece, prettamente negoziale, quale è il contratto collettivo di di- ritto comune 38.
La marcata differenza che separa le due fattispecie, facendo corretta- mente dubitare della riferibilità delle norme codicistiche al contratto col- lettivo post-corporativo, è resa ancor più palese dall’esistenza nell’ordina- mento corporativo di un altro dato significativo: l’art. 2073 c.c., infatti, prevedeva l’intervento della Magistratura del Lavoro nel caso in cui, a se- guito dell’avvenuta denunzia del contratto, le parti entro un mese dalla scadenza non fossero addivenute alla stipulazione di un nuovo accordo.
La disposizione appena richiamata dimostra chiaramente come la nor- mativa codicistica in tema di accordi collettivi, tesa ad evitare qualunque lacuna o soluzione di continuità nella disciplina dei rapporti individuali di lavoro anche a costo dell’intervento di un soggetto che dovrebbe essere terzo rispetto alle parti (Magistratura del lavoro), fosse influenzata dalla natura particolare della fonte regolativa dei singoli contratto di lavoro.
Applicare oggi una disciplina come quella contenuta nel codice civile, di cui l’art. 2073 rappresenta forse l’esempio più emblematico, «significhe- rebbe estendere ai contratti collettivi di diritto comune un principio del- l’ordinamento sindacale fascista ch’è incompatibile con la struttura di tali contratti e, quindi, attentare alla normalità dei rapporti fra produttori e, di più, alla stessa libertà sindacale che non tollera sovrapposizioni autoritative e camicie di Nesso» 39.
Queste ultime, riferendosi ad un contratto assunto tra le fonti dell’ordi- namento, sono considerate «norme sulla produzione giuridica» ed in quan- to tali non possono essere utilizzate rispetto ad un istituto che, pressoché unanimemente 40, è fatto rientrare nell’autonomia negoziale privata.
37 X. XXXXXXXX, Il contratto collettivo, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Xxxxx- xxx, xxx. XX, Xxxx, Xxxxxx, 0000.
38 Così anche la giurisprudenza costante, vedi Cass., 17 gennaio 2004, n. 668; Cass., 16
aprile 1993, n. 4507, in Riv. it. dir. lav., 1993, II, p. 684; Cass., 9 giugno 1993, n. 6408, in
Mass. giur. lav., 1993, p. 414; Cass., 13 febbraio 1990, n. 1050, in Notiz. giur. lav., 1990, p.
478; Pret. Novara, 5 giugno 1990, in Riv. it. dir. lav., 1991, II, p. 290; contra Cass., 14 apri- le 2003, n. 5908; in dottrina cfr. X. XXXXXXXXXXXX-X. XXXX, Intervento alla Tavola Ro- tonda sul tema La disdetta della scala mobile: quali problemi giuridici, cit., pp. 540 e 548.
39 X. XXXXXXX, Del lavoro, in Commentario codice civile, a cura di Scialoja-Branca, Sub artt. 20ł0-1098, cit., p. 209.
40 Ma si vedano le osservazioni a proposito della natura del contratto collettivo di X. XXXXXXX, Ordinamento, ruolo del sindacato, dinamica contrattuale di tutela, cit.
In altre parole, la stretta connessione tra le disposizioni codicistiche e la natura del contratto corporativo rendono agli occhi della citata dottrina una forzatura non ritenerne implicitamente abrogata la relativa disciplina, che sopravvive al limitato fine di regolamentare i contratti corporativi che in forza dell’art. 43, d.lgs.lgt. n. 369/1944 fossero ancora in vigore 41.
Occorre, per completezza, dare atto di una tesi intermedia 42 che, pur te-
nendo conto delle caratteristiche tipiche del contratto collettivo corporati- vo, ed in particolare dello stretto legame che lo legava all’assetto politico- economico dell’Italia fascista, e quindi del fatto che esso rappresentava uno strumento per realizzare gli obiettivi di un ordinamento ormai abroga- to, rivaluta la possibilità di utilizzare le norme dettate dal codice civile per il contratto corporativo, ed in particolare quelle dettate in tema di efficacia temporale, anche rispetto al contratto collettivo di diritto comune.
Quanto sopra sul presupposto che «nella progressiva costruzione del tipo l’influenza esercitata dagli elementi di natura autoritaria non ha avuto sempre un rilievo determinante, e la sua collocazione tra le fonti legali del- l’ordinamento appare un’operazione consequenziale al generale andamen- to della politica sociale e normativa del regime, non necessariamente con- seguente alla natura intrinseca del contratto collettivo corporativo» 43.
Rivisitando il sistema corporativo questa dottrina, che si pone in aperta antitesi con l’orientamento dominante, rileva «notevoli e numerose ambi- guità intorno all’inquadramento giuridico del contratto collettivo» all’epo- ca vigente, tanto che, diversamente da quanto comunemente sostenuto, quest’ultimo avrebbe sofferto di una crisi d’identità tale da potersi consi- derare perennemente in bilico tra essere lo strumento di politica del regi- me e la sua tendenza a porsi quale negozio giuridico bilaterale.
41 Cfr. X. XXXXXXXX, Il contratto collettivo, cit., p. 31 ss.; cfr. anche X. XXXXXX (voce), Contratto collettivo, cit., pp. 7 e 20; X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, Durata transitoria delle nor- me corporative, in Saggi di diritto civile, tomo I, Jovene, Napoli, 1961, p. 223; ID., Norme corporative, autonomia collettiva, autonomia individuale, in Saggi, cit., p. 245; X. XXXXX, Autonomia contrattuale e contratto collettivo di lavoro, Giappichelli, Torino, 1996, p. 199;
X. XXXXXXX, Per una disciplina del contratto collettivo, cit., 1987, p. 296.
42 X. XXXXXXXX, L’efficacia temporale del contratto collettivo nel sistema normativo cor- porativo, in Dir. rel. ind., 1994, p. 133; ID., Xxxxx e ricorsi storico-sindacali: alcune osserva- zioni sulla c.d. ultrattività del contratto collettivo, in Foro it., 1995, I, c. 2871 nonché ID., L’efficacia nel tempo del contratto collettivo, in X. XXXXXXXX-X. XXXXXXX (a cura di), Con- tratto collettivo e disciplina dei rapporti di lavoro, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2004, p. 3.
43 X. XXXXXXXX, L’efficacia temporale del contratto collettivo nel sistema normativo cor- porativo, cit., p. 136.
In altre parole, il contratto corporativo, al pari di quello di diritto co- mune, avrebbe avuto una sorta di doppia natura, allo stesso tempo pubbli- ca e privata, che si è riflessa sulle disposizioni codicistiche degli artt. 2074 e 2071 c.c., rendendole applicabili anche ai contratti collettivi attualmente stipulati.
Quanto alla giurisprudenza, essa, pur con qualche voce ancora discor- xxxxx 44, imboccando un bivio per lo meno anomalo, pare essersi assestata sull’opinione dell’inapplicabilità al contratto collettivo di diritto comune delle norme dettate in tema di efficacia temporale del contratto collettivo corporativo 45, fatta eccezione per l’art. 2077 c.c., il quale continua ad esse- re chiamato in causa quando si tratta di risolvere la questione del rapporto tra il contratto collettivo ed il contratto individuale 46.
Riprendendo l’argomento «forte» sostenuto dalla dottrina più recente, la giurisprudenza afferma quindi che «ai contratti collettivi postcorporativi
– che con la fine dell’ordinamento corporativo e la mancata attuazione del- l’art. 39 Cost., rientrano esclusivamente nell’area dell’autonomia privata, con soggezione alla regolamentazione dettata per i contratti in generale –
44 Cass., 14 aprile 2003 n. 5908, in Mass. giur. lav., 2003, p. 714 con nota di X. XXX XXXXX, Durata ed efficacia del contratto collettivo: la ricorrente tentazione dell’ultrattività.
45 A favore dell’inapplicabilità delle norme codicistiche al contratto collettivo di diritto comune, Cass., sez. un., 30 maggio 2005, 11325, in Mass. giur. lav., 2005, p. 590, nonché
tra le tante Xxxx., 17 gennaio 2004, n. 668; Cass., sez. lav., 18 ottobre 2002, n. 14827; Cass.,
20 novembre 1995, n. 651, in Foro it. Mass., 1995, p. 78; Cass., 20 gennaio 1995, n. 651, in
Dir. prat. lav., 1995, p. 1509; Cass., 9 giugno 1993, n. 6408, in Mass. giur. lav., 1993, p.
414; Cass., 16 aprile 1993, n. 4507, in Mass. giur. lav., 1993, p. 322; Pret. Roma, 21 aprile
1994, in Lav. giur., 1994, p. 837, Cass., 13 febbraio 1990, n. 1050, in Notiz. giur. lav., 1990,
p. 478.
46 È curioso notare il diverso percorso seguito in tema di applicabilità al contratto di di- ritto comune delle norme dettate per il contratto corporativo: mentre, infatti, si è unani- memente esclusa la vigenza degli artt. 2067-2076, con qualche maggiore perplessità di cui si dirà oltre in merito all’ultrattività del contratto collettivo, si è a lungo dibattuto, e ancora oggi si dibatte (nonostante l’intervento della legge n. 533/1973 che ha dato uno strumento alternativo all’art. 2077 sul fronte della problematica dell’inderogabilità) circa l’applica- bilità dell’art. 2077 c.c. Cfr. in dottrina M.V. BALLESTRERO, Riflessioni in tema di indero- gabilità dei contratti collettivi, in Riv. ital. dir. lav., 1989, I, p. 357 nonché M. RUSCIANO, Contratto collettivo e autonomia sindacale, Utet, Torino, 2003, p. 87 ss. Per un recupero della funzione dell’art. 2077 c.c. cfr. in giurisprudenza Xxxx., sez. un., 17 maggio 1996, n. 4570, in Corr. giur., 1996, p. 888 in tema di parità di trattamento commentata da X. XXXX che giustifica l’inesistenza del dovere di parità di trattamento proprio in base al 2077 c.x., xxxxxx Xxxx., 0 xxxxxx 0000, x. 00000, xx Xxx. giur. lav., 2001, II, p. 456 con nota di E.M. XXXXXXXX, Rapporti tra contratti collettivi e contratti individuali.
non è applicabile la disciplina prevista dal codice civile per i contratti cor- porativi» 47.
2.1.1. Segue: in particolare, la vigenza dell’art. 2074 c.c.
Un’attenzione particolare merita il dibattito che ha riguardato la vigen- za ed applicabilità ai contratti collettivi di diritto comune dell’art. 2074 c.c., il quale, come noto, prevedeva che «il contratto collettivo, anche quando è stato denunziato, continua a produrre i suoi effetti dopo la sca- denza, fino a che non sia intervenuto un nuovo regolamento collettivo».
La norma si poneva nel solco già tracciato dal r.d. del 1923, il quale a sua volta aveva previsto la rinnovazione tacita del contratto collettivo non disdettato nel tempo utile, nonché la sopravvivenza della disciplina dallo stesso prevista, nonostante l’avvenuta tempestiva disdetta e fino alla con- clusione di un nuovo contratto ovvero sino a quando non fosse intervenuta la Magistratura del Lavoro, competente a conoscere delle controversie col- lettive e ad emanare sentenze aventi lo stesso valore del contratto.
Come è stato unanimemente riconosciuto, la ratio della disposizione in oggetto, come di tutte quelle attinenti l’efficacia del contratto collettivo corporativo, è da cercarsi nella particolare funzione che questo ha ricoper- to all’interno dell’ordinamento corporativo, ove era assunto tra le fonti di diritto positivo e finalizzato al «raggiungimento di una controllata pacifica- zione sociale» 48, perseguita sia attraverso una disciplina specifica dell’isti- tuto, sia demandando alla Magistratura del Lavoro la decisione di eventua- li controversie collettive attraverso l’emanazione di sentenze aventi lo stes- so valore del contratto collettivo.
La collocazione del contratto corporativo tra le fonti del diritto e la sua strumentalità al raggiungimento di interessi generali, comportava l’inam- missibilità di un suo venir meno a seguito di disdetta e/o recesso, in quanto ciò avrebbe comportato un vuoto normativo incompatibile con l’ordina- mento dell’epoca.
47 Cass., 16 aprile 1993, n. 4507, in Mass. giur. lav., 1993, p. 322; ma vedi conformi
Cass., 9 giugno 1993, n. 6408, in Mass. giur. lav., 1993, p. 414; Cass., 13 febbraio 1990, n.
1050, cit.; Pret. Monza, 2 maggio 1995, in Orient. giur. lav., 1995, p. 294; Cass., 29 agosto
1987, n. 7140, in Giust. civ. Mass., 1987, f. 8-9. Vedi anche Xxxx., 29 luglio 2000, n. 10002, in Riv. it. dir. lav., 2001, II, p. 395 ove in forza di un ragionamento analogo si nega effica- cia all’art. 2070 c.c.
48 Così X. XXXXXXXX, L’efficacia temporale del contratto collettivo nel sistema normativo corporativo, in Dir. rel. ind., 1994, p. 133 ss. e spec. p. 138.
Da qui la necessità di regolamentare specificamente l’an ed il quomodo di un’eventuale disdetta nonché di dettare una disciplina intertemporale dell’accordo receduto che evitasse il vuoto normativo.
Le ragioni indicate hanno indotto il legislatore corporativo a disciplina- re l’efficacia temporale del contratto collettivo in maniera così specifica da potersi affermare che «qualsiasi rapporto non poteva più, una volta assog- gettato, svincolarsi dal regime contrattuale collettivo» 49.
Come già accennato nel paragrafo che precede, caduto l’ordinamento corporativo dottrina e giurisprudenza sono state a lungo divise circa l’ap- plicabilità al contratto collettivo di diritto comune della disciplina legale prevista per i contratti collettivi corporativi.
In particolare, all’interno della Suprema Corte per lungo tempo si sono registrati due indirizzi opposti in ordine alla vigenza ed applicabilità ai contratti post-corporativi della disciplina di cui all’art. 2074 c.c.
Una giurisprudenza, per la verità minoritaria 50, ha ritenuto che anche
per i contratti collettivi post-corporativi operasse il principio di ultrattività sancito dal codice civile, con la conseguenza che la scadenza contrattuale non determina l’automatica cessazione dell’efficacia delle clausole a conte- nuto retributivo».
Ha precisato al proposito la Suprema Corte che tale principio «deve ri- tenersi fondato sia sull’esistenza nell’ordinamento lavoristico del principio di relativa intangibilità del livello economico raggiunto in un rapporto di lavoro a tempo determinato – ricavabile dalle norme costituzionali (artt. 3, 36 e 41, Cost.) – sia sulla funzione tipica del contratto collettivo di diritto comune, di stabilire la regolamentazione di una serie di rapporti di lavoro, la quale fa escludere che la mera scadenza del termine di efficacia possa provocare un vuoto di disciplina pregiudizievole del livello di tutela del rapporto di lavoro già raggiunto e lesivo della centralità della dignità uma- na del lavoratore» e che esso «opera però esclusivamente nel caso in cui il contratto collettivo sia scaduto e non sia stato stipulato un nuovo contratto e, conseguentemente, non implica che, nel caso di successione nel tempo dei contratti collettivi postcorporativi, la disciplina più favorevole per il la- voratore prevista dal contratto scaduto possa essere conservata, in quanto le pattuizioni del contratto collettivo disciplinano il singolo rapporto con la
49 X. XXXXXXX, Del lavoro, in Commentario codice civile, a cura di Scialoja-Branca, sub artt. 20ł0-1098, Zanichelli, Bologna, 1987, p. 205.
50 Cass., 14 aprile 2003, n. 5908; conf. Cass., 22 aprile 1995, n. 4563 e Cass., 21 aprile
1987, n. 3899.
clausola implicita della loro rivedibilità ad opera dell’autonomia collettiva, restando tuttavia escluso che la mera scadenza del contratto e la mancata stipula di un successivo contratto collettivo sia assimilabile al caso della sti- pula di un nuovo contratto che, eventualmente, stabilisca una disciplina peggiorativa del trattamento retributivo» 51.
In altre, più numerose, decisioni, invece, la Suprema Corte ha affermato che «i contratti collettivi di diritto comune operano esclusivamente entro l’ambito temporale concordato dalle parti, costituendo manifestazione del- l’autonomia negoziale delle parti; non si applica pertanto ai suddetti con- tratti il disposto dell’art. 2074 c.c. (circa la perdurante efficacia del contrat- to dopo la scadenza), valevole esclusivamente per i contratti collettivi cor- porativi, con la conseguenza che le clausole di contenuto retributivo ven- gono meno per il periodo successivo alla scadenza contrattuale» 52.
Come noto, la tesi dell’inapplicabilità ai contratti post-corporativi della norma di cui all’art. 2074 c.c. è, infine, stata fatta propria dalle Sezioni U- nite della S.C. che hanno sancito «il riconoscimento della temporaneità dell’efficacia dei contratti collettivi, corrispondente alla espressione del- l’autonomia negoziale» 53.
L’orientamento prevalso, ribadito ancora di recente 54, appare del tutto
condivisibile.
Non solo perché, come la Suprema Corte ha ricordato 55, «difetta nel nostro ordinamento attuale un principio di necessaria regolazione colletti- va dei rapporti di lavoro», ma anche perché nell’ordinamento post-corpo- rativo non vi è, né può esservi, spazio per una norma che impone alle parti di continuare ad applicare un contratto collettivo scaduto.
Come è stato correttamente evidenziato 56, un’eventuale ultrattività legi- slativamente imposta dei contratti collettivi si porrebbe in netto contrasto
51 Cass., 14 aprile 2003, n. 5908.
52 Cass., 10 aprile 2000, n. 4534; conf. Cass., 17 gennaio 2004, n. 668.
53 Cass., sez. un., 30 maggio 2005, n. 11325, in Mass. giur. lav., 2005, p. 590.
54 Cfr. Cass., sez. lav., 9 maggio 2008, n. 11602 nonché Cass., sez. lav., 2 febbraio 2009,
n. 2590 nonché Trib. Torino, dott. Aprile, 6 novembre 2009.
55 Cass., sez. lav., 9 maggio 2008, n. 11602.
56 X. XXXXX, Autonomia contrattuale e contratto collettivo di lavoro, cit., pp. 207-208, nonché ID., Riflessioni intorno alle disdette della scala mobile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, p. 913 ss. e spec. p. 930; ma vedi già X. XXXX, Intervento alla Tavola Rotonda sul tema La disdetta della scala mobile: quali problemi giuridici, cit., p. 546, nonché ID., La di- sdetta dell’accordo interconfederale sulla scala mobile, cit.
con la libertà sindacale costituzionalmente tutelata dall’art. 39 Cost. sia sotto il profilo della libertà sindacale negativa sia sotto quello della libertà contrattuale ed organizzativa, in quanto verrebbe per questa via negato alle parti contraenti il potere di regolare la vigenza temporale del contratto che stipulano nell’ambito della loro autonomia negoziale.
Anche chi 57, almeno inizialmente, ha tentato un recupero dell’art. 2074 c.c., sottolineando l’identità di funzione sociale che il contratto collettivo realizza tanto nel nostro ordinamento quanto in quello corporativo, in quanto fonte necessaria ed insostituibile di disciplina (generale ed astratta) per una serie indeterminata di rapporti individuali di lavoro, senza la quale
«sarebbe praticamente impossibile individuare, in base alla sola legge, la concreta disciplina dei rapporti di lavoro», ha in seguito 58 riconosciuto che
«la regola legale dettata per i contratti collettivi corporativi, stante la so- stanziale diversità di natura, non può essere applicata agli attuali contratti collettivi, anche perché potrebbe essere intesa come limite alla volontà del- le parti sindacali non compatibile con il principio della libertà sindacale (art. 39 Cost.)».
Dall’altra parte, le ragioni portate dalla Suprema Corte a sostegno del- l’ultrattività – peraltro limitata sino al momento della stipula di un nuovo accordo in materia – delle disposizioni collettive appaiono difficilmente condivisibili.
Innanzitutto perché, come sottolineato dalle Sezioni Unite, quell’orien- tamento confonde il piano collettivo, all’interno del quale si colloca la que- stione della vigenza dell’art. 2074 c.c., con quello individuale, della «relati- va intangibilità del livello economico raggiunto in un rapporto di lavoro a tempo determinato – ricavabile dalle norme costituzionali (artt. 3, 36 e 41, Cost.)», che la S.C. richiama a sostegno della propria decisione.
In secondo luogo perché la garanzia della giusta retribuzione ex art. 36 Cost. opera a prescindere dalla vigenza del contratto collettivo, potendo in ogni caso la retribuzione tabellare prevista dal contratto fungere da valido parametro di determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost. a prescindere dalla vigenza del contratto medesimo.
Si può allora concludere, in sintonia con l’orientamento fatto proprio dalle Sezioni Unite, che non si può applicare al contratto collettivo di dirit- to comune la disciplina prevista dall’art. 2074 c.c.
57 X. XXXXXXXX, Intervento alla Tavola Rotonda sul tema La disdetta della scala mobile: quali problemi giuridici, cit., pp. 554-555.
58 X. XXXXXXXX, Il diritto sindacale, Cedam, Padova, 1986, p. 71.
Ai fini del discorso circa l’ammissibilità del recesso dal contratto collet- tivo, l’inesistenza di una disciplina legale dell’efficacia nel tempo, ed in particolare dell’ultrattività, del contratto non solo autorizza il ricorso ai già richiamati principi generali elaborati dal diritto civile in tema di recesso, ma, ammettendo che si verifichino ipotesi di «vacanza contrattuale» a se- guito di perdita di efficacia dell’accordo, offre implicitamente un argomen- to ulteriore a favore dell’inesistenza di un principio di necessaria perpetui- tà dei vincoli che derivano dal contratto collettivo e quindi, a contrario, dell’ammissibilità del recesso.
2.2. Segue: l’esistenza di una disciplina dell’efficacia temporale del contratto collettivo nell’impiego pubblico
La stessa verifica circa l’esistenza di una disciplina dell’efficacia tempo- rale del contratto va ora fatta con riguardo agli accordi che disciplinano il lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione.
Al proposito occorre subito rilevare come l’attrazione dei predetti ac- cordi all’interno della sfera privatistica 59 ha influito anche sulla questione della loro efficacia temporale.
La regola dettata dall’art. 13, legge n. 93/1983, il quale fissava la durata degli accordi e ne prevedeva l’ultrattività, è stata, infatti, sostituita dal di- sposto dell’art. 45 d.lgs. n. 29/1993 che nella sua versione originaria lascia- va questo aspetto di disciplina alla libera determinazione delle parti le qua- li potevano disciplinare «in modo uniforme per tutti i comparti e le aree di contrattazione collettiva, la durata dei contratti collettivi e specifiche mate- rie».
La disposizione di cui all’art. 45, d.lgs n. 29/1993 è stata successivamen- te oggetto di un intervento modificativo a seguito del quale si è passati da una formulazione meramente possibilistica circa la determinazione della
59 Non si prende qui posizione circa la natura del contratto collettivo nel lavoro pubbli- co, da taluni ricondotto alla matrice esclusivamente privatistica e da altri ritenuto, invece, ormai vera e propria fonte del diritto. A favore della prima tesi si rinvia a X. X’XXXXXX, Contratto collettivo, sindacati e processo del lavoro dopo la seconda privatizzazione, in Foro it., 1999, c. 621 nonché X. XXXXXXXX, La deroga della legge, del regolamento e dello statuto da parte del contratto collettivo, in X. XXXXXXX-M. D’XXXXXX, Il lavoro alle dipendenze del- le pubbliche amministrazioni. Commentario, Xxxxxxx, Milano, 2000, p. 257. A favore della natura di fonte del diritto del contratto collettivo pubblico si veda M. RUSCIANO, Contrat- to collettivo e autonomia sindacale, Utet, Torino, 2003, p. 230.
durata degli accordi («mediante contratti collettivi quadro possono essere disciplinate … la durata dei contratti collettivi …») all’uso di un’espres- sione, «la contrattazione collettiva disciplina, in coerenza con il settore pri- vato, la durata dei contratti collettivi nazionali e integrativi, la struttura contrattuale ed i rapporti tra i diversi livelli» che si presta a difformi letture interpretative.
Sia che si interpreti l’art. 40 nel senso di imporre un vincolo di contenu- to alle parti, che sono dunque obbligate a fissare la durata del contratto 60, sia che si ritenga che l’art. 40 lascia alle parti la facoltà di scegliere se disci- plinare la durata dell’accordo, con l’unico vincolo che l’eventuale esercizio della facoltà avvenga «in coerenza con il settore privato», ciò che appare fuori discussione e rilevante ai nostri fini è che anche sul versante del pub- blico impiego la legge non detta una disciplina dell’efficacia temporale del contratto collettivo.
Il dato è particolarmente significativo se si tiene conto del fatto che in questo settore, ove il legislatore con la cosiddetta privatizzazione ha opera- to una profonda opera di delegificazione, il solo contratto collettivo è sta- to, invece, sottoposto «ad un’inversa opera di legificazione che non ha si- gnificativi precedenti nel diritto sindacale» 61.
Pare, cioè, che, a fronte dell’imponente legificazione che ha riguardato il contratto collettivo pubblico, la mancata previsione di una disciplina le- gale dell’efficacia temporale sia chiaro indice del fatto che da questo punto di vista il legislatore, astenendosi, «in coerenza con il settore privato», dal fissare autoritativamente delle regole, ha voluto lasciare le parti libere di predisporre le soluzioni che ritengono più opportune.
Dunque, risulta realizzata anche per il contratto collettivo in materia di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni la condizio- ne dell’inesistenza di una disciplina legale dell’efficacia temporale del contratto.
60 Nel senso dell’obbligatoria predeterminazione della durata del contratto collettivo pubblico X. XXXXXXXXX, La contrattazione collettiva nell’impiego pubblico dopo il d.lgs. 39ł/97 ed il d.lgs. n. 80/1998: l’efficacia nel tempo, in Lav. pubbl. amm., 2000, p. 811 ss. il quale in particolare afferma che «nel settore pubblico non è ammessa la stipulazione di contratti collettivi privi di termine», salvo poi sottrarre alla regola appena enunciata «que- gli accordi cosiddetti atipici con funzione prevalentemente obbligatoria … o la contratta- zione gestionale … i contratti quadro».
61 X. XXXXXXX, Le trasformazioni dei rapporti di lavoro pubblico ed il sistema delle fonti, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1996, p. 183.
2.3. Segue: l’esistenza di una disciplina dell’efficacia temporale del contratto collettivo nell’ordinamento intersindacale
Venendo, infine, alla verifica dell’esistenza di una disciplina dell’effi- cacia temporale e del recesso nell’ordinamento intersindacale, si può subi- to rilevare che sino al 1993, quando con il Protocollo del 23 luglio le parti hanno fissato una durata limitata per i contratti collettivi, non vi era alcuna regola generale in tema di efficacia temporale del contratto collettivo.
Occorre, peraltro, rilevare che quasi tutti i contratti nazionali contene- vano (e contengono tuttora) clausole relative alla loro durata ed al momen- to successivo alla scadenza.
Si tratta(va), però, di regole speciali dettate dai contraenti per ciascun accordo, e non, invece, di una disciplina generale.
A quasi cinquant’anni dalla promulgazione della Costituzione, nel corso dei quali le Relazioni Industriali si sono sviluppate in maniera del tutto, e volutamente, informale 62, le parti sociali ed il Governo hanno firmato l’ac- cordo del 23 luglio 1993, definito da più parti come la «carta costituzio- nale delle relazioni industriali» 63.
L’intesa del 1993, infatti, ha «dettato per l’intero mondo del lavoro re- gole istituzionali precise non solo su singoli punti delle relazioni di lavoro (dalla scala mobile, al mercato del lavoro, alla formazione), ma sulle fonti e sugli attori del sistema». In questo senso assume rilievo «costituzionale»: di costituzione formale beninteso 64, divenendo un «punto di riferimento affi- dabile» per lo studio delle Relazioni Industriali 65.
Come noto, l’accordo seguiva di un anno esatto quello del luglio 1992, con il quale perseguiva il fine comune di cercare una soluzione allo stato di grave crisi economica che aveva investito il Paese, da una parte garantendo il controllo negoziale della politica dei redditi e, dall’altra, incentivando la creazione di nuova occupazione 66.
62 Cfr. ancora i richiami in X. XXXXXXX, Relazioni industriali e procedure concorsuali, cit., spec. p. 39 ss.
63 X. XXXXXX, ffcco su quali scogli ci siamo arenati ..., in La Repubblica, 2 luglio 1993; cfr. anche X. XXXX, L’accordo del 23 luglio 1993: assetto contrattuale e struttura della retri- buzione, in Riv. giur. lav., 1993, I, p. 215 il quale definisce l’accordo in questione un «ac- cordo di sistema: quello di cui i nostri rapporti collettivi sono finora stati carenti».
64 X. XXXX, L’accordo del 23 luglio 1993: assetto contrattuale e struttura della retribuzio- ne, cit., p. 216.
65 X. XXXXXXX, Relazioni industriali e procedure concorsuali, cit., p. 40.
66 Per un commento sull’accordo in questione, oltre agli autori già citati, cfr. M. D’AN-
Esso sanciva la fine dell’istituto della scala mobile – che aveva costituito per anni il «vero baricentro» 67 attorno al quale aveva ruotato non soltanto il sistema retributivo, ma tutto il sistema di relazioni industriali italiane – rimettendo la determinazione della retribuzione interamente nelle mani della contrattazione collettiva, eliminando pregressi rigidità e automatismi a favore di una inedita flessibilità di cui si faceva portatore il sindacato e stabilendo un nuovo sistema di contrattazione, articolato su due livelli (na- zionale o di categoria e territoriale o aziendale) e fondato su procedure e attori predeterminati, cui era affidato il compito, non certo facile, di gestire le dinamiche salariali e contemporaneamente evitare rivendicazioni che si pongano fuori dei binari tracciati dalle parti sociali 68.
Proprio in quanto la contrattazione rappresentava il motore ed il perno sul quale ruotava l’intesa del 1993 – sebbene, come detto, l’accordo con- centrasse la sua attenzione essenzialmente sulla politica dei redditi e del la- voro – esso rappresentava un intervento «a tutto campo» nel sistema sin- dacale, come mai in precedenza si era avuto, che segnava, o quantomeno avrebbe voluto segnare, il passaggio ad un nuovo sistema di relazioni indu- striali, nel quale il raggiungimento degli scopi fissati a livello di politica e- conomica era saldamente ancorato alla tenuta del sistema sindacale e, dun- que, all’esistenza di regole che assicurassero il rispetto delle intese.
Per questo motivo, nell’assetto delineato dall’accordo del 1993 assume- va rilevanza fondamentale il tema della garanzia dell’efficacia nel tempo del contratto collettivo.
A tal fine, l’accordo riproponeva alcuni istituti già noti: clausole di rin-
TONA, Il protocollo sul costo del lavoro e «l’autunno freddo» dell’occupazione, in Riv. it. dir. lav., 1993, I, p. 411; X. XXXXXX, L’accordo del 23 luglio 1993: un’analisi critica, in Riv. giur. lav., 1993, I, p. 243; X. XXXXXXXX, Azione sindacale e politica dei redditi: appunti sull’accordo triangolare del 23 luglio 1993, in Riv. giur. lav., 1993, I, p. 263; X. XXXXX, Il protocollo del 23 luglio 1993 sul costo del lavoro: verso l’istituzionalizzazione delle relazioni industriali?, in Riv. giur. lav., 1993, p. 279; X. XXXXX, Le nuove relazioni industriali, in Dir. prat. lav., 1993,
p. 2166; X. XXXXXXXXXXX, Gli accordi cd. triangolari tra programmazione economica, effi- cacia obbligatoria e livelli contrattuali, in Xxx. xxxx. xxx., 0000, XX, x. 00; I. INGLESE, L’evolu- zione del sistema di relazioni industriali dal Protocollo 23 luglio 1993 al Patto sociale 22 di- cembre 1998, in Mass. giur. lav., 1999, p. 712.
67 X. XXXX, L’accordo del 23 luglio 1993: assetto contrattuale e struttura della retribuzio- ne, cit., p. 220; X. XXXXXXX, Retribuzione, politiche dei redditi e tecniche regolative, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1996, p. 357.
68 In tema di automatismi retributivi, dei loro effetti sulla dinamica dei salari nonché del ruolo ricoperto dall’istituto della scala mobile cfr. X. XXXXXX, Automatismi salariali, in Digesto IV, sez. comm., vol. II, Utet, Torino, 1987, p. 1.
vio, clausole di tregua (relative), governo del conflitto attraverso clausole di raffreddamento, oltre ad un elemento del tutto nuovo 69 rappresentato dalle sanzioni per il caso di mancato rispetto degli impegni assunti.
A ciò si aggiungevano, poi, nuove regole sulla rappresentanza sindacale dettate dal convincimento che il governo del conflitto, fondamentale per la riuscita dell’accordo, passi necessariamente anche attraverso la garanzia di un’effettiva rappresentatività delle organizzazioni sindacali deputate a ge- stire i nuovi assetti retributivi 70.
Il nuovo sistema contrattuale si articolava, dicevamo, su due livelli di contrattazione, nazionale (o di categoria) e territoriale (o aziendale), ognu- no dotato di una propria competenza, specificamente individuata (quanto- meno per quanto riguarda le materie di carattere retributivo) direttamente dall’accordo.
Infatti, mentre la determinazione della retribuzione nonché il compito di mantenerla adeguata rispetto al costo della vita, rientravano nel dominio riservato alla contrattazione nazionale, che doveva esercitarlo con cadenza biennale e nel rispetto degli obiettivi di inflazione programmata, alla con- trattazione aziendale restavano, «secondo le modalità e negli ambiti di ap- plicazione che saranno definiti dal contratto nazionale di categoria», le ma- terie e gli istituti non trattati dal contratto di livello superiore; con il limite, fondamentale per la riuscita dell’intesa, che eventuali erogazioni retributi- ve aggiuntive, previste in sede aziendale, potessero avere ad oggetto soltan- to elementi legati ad incrementi di produttività, qualità o competitività dell’azienda.
Veniva altresì espressamente disciplinata, in misura differenziata a se- conda dell’oggetto e del livello di contrattazione, la durata dei contratti cui era demandata la gestione del nuovo sistema sindacale: quattro anni per la parte normativa dei contratti di categoria, due per la parte economica, e quattro per i contratti territoriali.
Infine, e qui stava il punto focale dell’accordo, venivano per la prima
69 X. XXXXX, Le nuove relazioni industriali, in Dir. prat. lav., 1993, p. 2166.
70 X. XXXXXX, L’accordo del 23 luglio 1993: un’analisi critica, in Riv. giur. lav. 1993, I, p. 243 ed in particolare pp. 250-251; M. D’ANTONA, L’accordo sul costo del lavoro, cit., p. 416
«l’accordo del 23 luglio 1993, insomma, è stato sottoscritto da parti che si accingono a gio- care una partita decisiva per la propria identità e ne sono consapevoli»; sullo stretto lega- me tra rappresentatività sindacale e «capacità del sindacato di impegnare negozialmente quegli interessi vincolando i singoli», vedi già X. XXXX, Contratto collettivo e rappresentanza sindacale, in Pol. dir., 1985, p. 363; X. XXXXX, Questioni sulla contrattazione collettiva. Le- gittimazione, efficacia, consenso, Xxxxxxx, Milano, 1994.
volta sancite regole formali volte a garantire l’efficacia nel tempo degli ac- cordi collettivi.
Non soltanto, dunque, alla contrattazione aziendale era precluso, attra- verso una netta separazione delle competenze contrattuali, di intervenire su materie già trattate a livello nazionale e quindi di rimettere in discussio- ne quanto deciso dal contratto di categoria, ma le parti avevano per la pri- ma volta previsto una vera e propria «procedimentalizzazione-programma- zione della contrattazione nazionale ed un controllo preciso sulla contrat- tazione decentrata» 71 che prevedeva i termini ed i modi per la riapertura delle trattative (le piattaforme contrattuali per il rinnovo dovevano essere presentate in tempo utile per consentire l’apertura delle trattative, apertura che doveva avvenire nei tre mesi anteriori alla scadenza del contratto), vie- tando alle parti di assumere iniziative unilaterali o azioni dirette durante il cd. periodo di raffreddamento, predisponendo un rimedio alternativo alle azioni dirette, volto ad evitare i danni di una mancata rinnovazione del contratto (l’indennità di vacanza contrattuale), ed infine prevedendo una sanzione (lo slittamento dell’indennità di vacanza contrattuale) per il caso di violazione degli obblighi previsti dall’accordo a carico delle parti con- traenti 72.
Tale istituto retributivo provvisorio, corrisposto ai lavoratori cui si ap-
plica il CCNL scaduto dopo «un periodo di vacanza contrattuale pari a 3 mesi dalla data di scadenza del CCNL», era commisurato inizialmente al 30%, e, dopo 6 mesi di vacanza contrattuale, al 50%, del tasso di inflazio- ne programmato, applicato ai minimi retributivi contrattuali vigenti, inclu- sa la ex indennità di contingenza.
Ci si può domandare se l’istituto in questione sottintendesse l’ultrat- tività del contratto scaduto, così di fatto introducendo, sebbene non espli- citamente, un’ulteriore regola in tema di efficacia temporale, oltre alla du- rata limitata dei contratti espressamente prevista.
Per quanto l’uso di alcune espressioni possa legittimare anche una ri- sposta positiva, pare potersi affermare che il Protocollo del luglio 1993 non aveva inteso introdurre altre regole sull’efficacia temporale del contratto
71 X. XXXX, L’accordo del 23 luglio 1993: assetto contrattuale e struttura della retribuzio- ne, cit., p. 233.
72 Sull’indennità di vacanza contrattuale M. DEL CONTE, L’indennità di vacanza con- trattuale nell’accordo interconfederale del luglio 1993, in Arg. dir. lav., 1995, p. 215; in giu- risprudenza Trib. Milano, 14 luglio 1999, in Mass. giur. lav., 1999, p. 1026 con nota di I. INGLESE, Contratto collettivo di novazione e indennità di vacanza contrattuale.
3.
collettivo, se non quella espressa in tema di durata del medesimo, ed in particolare non aveva inteso imporre l’ultrattività dell’accordo scaduto.
In primo luogo perché si ritiene che se le parti avessero voluto introdur- re una regola in tal senso lo avrebbero detto espressamente, così come e- spressamente avevano introdotto la disciplina in tema di durata predeter- minata dei contratti.
In secondo luogo perché il termine stesso con cui viene indicato l’isti- tuto, indennità di vacanza contrattuale, che soccorre in caso di mancato rinnovo, sembra dare per scontato che nel periodo successivo la scadenza dell’accordo si sia in assenza, appunto «vacanza», di contratto 73.
Infine, perché in tal senso depone anche il tenore letterale del Protocol- lo, il quale al punto 4 della parte rubricata Assetti Contrattuali recita: «il CCNL di categoria definisce le procedure per la presentazione delle piatta- forme contrattuali nazionali, aziendali o territoriali, nonché i tempi di a- pertura dei negoziati al fine di minimizzare i costi connessi ai rinnovi con- trattuali ed evitare periodi di vacanze contrattuali», con ciò suffragando l’ipo- tesi che le parti avevano ritenuto che alla scadenza del contratto questo ve- nisse meno, restando la retribuzione in esso prevista quale mero parametro per calcolare l’importo dell’indennità.
Questo brevemente l’apparato di regole, negoziali, che l’intesa del 1993 predisponeva al fine di garantire al contratto collettivo un’efficacia vinco- lante per tutto il tempo della sua vigenza e rinnovo.
Il recente Protocollo del gennaio 2009 74, cui ha fatto seguito l’Accordo Interconfederale del 15 aprile 2009, entrambi privi della firma della CGIL, riscrive le regole delle Relazioni Industriali.
In particolare, per quanto interessa il tema qui affrontato, il Protocollo fissa in tre anni, tanto per la parte economica che per quella normativa, la
73 Così anche M. DEL CONTE, L’indennità di vacanza contrattuale nell’accordo intercon- federale del luglio 1993, in Arg. dir. lav., 1995, p. 215.
74 Su cui X. XXXXXXX, Una dichiarazione di intenti: l’accordo quadro 22 gennaio 2009 sul- la riforma degli assetti contrattuali, in Riv. it. dir. lav., 2009, p. 177; X. XXXXXXX, I nodi attuali del sistema di relazioni industriali e l’accordo quadro del 22 gennaio 2009, in Arg. dir. lav., 2009, p. 1278; X. XXXXX, L’accordo quadro e l’accordo interconfederale Confindustria del 2009: contenuti e modelli di relazioni industriali, in Riv. it. dir. lav., 2009, p. 353; X. XXXXXXXX, L’accordo interconfederale dell’aprile 2009 di riforma del sistema della contratta- zione collettiva: brevi note, in Arg. dir. lav., 2009, p. 1021; nonché X. XXXX, Contratto e con- flitto tra individuale e collettivo, intervento al Convegno promosso dal Centro Studi Do- xxxxxx Xxxxxxxxxx sul tema Rappresentanza sindacale, contrattazione collettiva e conflitto dopo l’accordo quadro del 22 gennaio 2009, Torino 18 settembre 2009.
durata dei contratti collettivi sia nazionali che aziendali e rinvia alla con- trattazione per la disciplina dei tempi e delle procedure di rinnovo dei con- tratti, prevedendo che «al rispetto dei tempi e delle procedure definite è condizionata la previsione di un meccanismo che, dalla data di scadenza del contratto precedente, riconosca una copertura economica che sarà sta- bilita nei singoli contratti collettivi a favore dei lavoratori in servizio alla data di raggiungimento dell’accordo».
Dunque, il Protocollo del 2009 sostituisce l’indennità di vacanza con- trattuale introdotta dall’Intesa del luglio 1993 con un meccanismo destina- to alla copertura economica del periodo di «vacanza contrattuale», con la precisazione che la copertura sarà dovuta solo ai lavoratori in servizio al momento della sigla del nuovo accordo.
Così facendo le parti sociali confermano ed anzi rafforzano la tesi della perdita di effetti, e quindi della non ultrattività, del contratto collettivo scaduto, la copertura economica, infatti, essendo condizionata al successi- vo raggiungimento di altro accordo e limitata solo a coloro che a quella da- ta sono ancora in servizio.
L’assetto delle relazioni industriali fissato nei richiamati Protocolli, co- me è ovvio, ha delle ricadute sulla questione del recesso.
La prima, più immediata, è che per coloro fanno parte del sistema deli- neato dall’accordo di luglio 1993 ovvero di gennaio 2009 il problema dei vincoli contrattuali perpetui non dovrebbe più porsi, avendo il contratto collettivo necessariamente una durata prefissata (quattro o due anni a se- conda delle materie prima, tre anni ora).
In ogni caso, quanto precede non elimina in radice la possibilità di eser- citare il recesso da un contratto, atteso che, come chiarito in apertura, il discorso sinora svolto riguarda indifferentemente il recesso ordinario, cioè quello da un contratto privo del termine finale, e quello straordinario, cioè quello esercitato rispetto ad un contratto con un termine 75.
Resta, dunque, la possibilità di sciogliersi dal vincolo contrattuale, an- che se a tempo determinato, in forza della clausola rebus sic stantibus, ad- ducendo pertanto una modifica della situazione in atto tale da rendere l’as- setto degli interessi già fissato non più utile nel nuovo contesto.
75 Sulla distinzione tra le due ipotesi vedi G.F. XXXXXXX, Xxime osservazioni sul recesso straordinario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1969, p. 86. Sul fatto che la facoltà di sciogliersi dal vincolo sia astrattamente ipotizzabile in entrambe le ipotesi, cfr. X. XXXXXXX-R. DE LU- CA TAMAJO-X. XXXX-X. XXXX, Diritto del lavoro, vol. I, Il diritto sindacale, Utet, Torino, 2002, p. 197.
Come anticipato, rispetto a questa ipotesi, la presenza di un termine com- porta che la valutazione circa la legittimità del recesso, id est circa l’esistenza di un interesse al mantenimento del contratto, andrà effettuata tenendo con- to della durata limitata dell’accordo.
Potrà, cioè, essere considerato illegittimo, perché contrario a buona fe- de, uno scioglimento di un contratto ormai prossimo alla scadenza naturale.
La previsione, ad opera delle parti sociali, di un termine ai contratti, pe- rò, ha un’altra conseguenza non meno rilevante ai fini del nostro discorso: essa, infatti, rendendo espressa l’esigenza comunemente sentita di non vin- colare all’infinito le parti al rispetto di un contratto, non solo corrobora la tesi dell’inammissibilità di vincoli contrattuali perpetui e dell’esistenza im- plicita della clausola rebus sic stantibus, ma conferma la piena compatibilità di entrambi gli strumenti utilizzati nel diritto civile per giustificare il reces- so, con l’ordinamento intersindacale.
Ne esce allora rafforzata la linea sin qui seguita che ritiene il recesso da un contratto perfettamente compatibile con il sistema sindacale.
2.4. Segue: la disciplina legale dell’efficacia temporale del contratto collettivo in caso di trasferimento dell’azienda: spunti per una riflessione a livello di ordinamento statale
Come si è anticipato e cercato di dimostrare, non esiste nel nostro dirit- to positivo una disciplina generale che regoli l’efficacia temporale del con- tratto collettivo.
Un’indicazione circa la posizione del nostro ordinamento sulla questione può ricavarsi, però, seppure in via indiretta, dal novellato art. 2112 c.c. 76.
Il comma 3 della disposizione appena richiamata prevede, infatti, che
«Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. L’effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello».
76 Sul quale si rinvia a X. XXXX (a cura di), Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, in Nuove leggi civ. comm., 2002, p. 1231 ss. con contributi di X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxx, X. Xxxxxxxx, X. Pac- chiaxx Xxxxxxxxxxx, X. Xxxxxxx e X. Xxxxxxx.
Xa norma in esame appare interessante ai nostri fini sotto un duplice profilo.
Innanzitutto in quanto, seppure con le precisazioni che si diranno, essa comunque prevede la possibilità che per volontà di una sola delle parti contraenti il contratto collettivo cessi di avere efficacia.
In secondo luogo, circostanza non meno importante, perché essa espres- samente consente che ciò avvenga rispetto ad un accordo il quale contenga l’apposizione di un termine di durata (il riferimento fatto alla scadenza dei contratti applicati dall’acquirente – «fino alla loro scadenza» – non può che far pensare alla presenza di un termine).
Il comma 3 dell’art. 2112 c.c., ammettendo che, in caso di applicazione da parte dell’acquirente di un altro contratto collettivo di pari livello, quel- lo stipulato tra il cedente ed il cessionario perda efficacia, contiene, dun- que, un’espressa previsione normativa di risoluzione del contratto colletti- vo per fatto unilaterale di uno dei contraenti, anche quando il contratto è a tempo determinato.
È il datore di lavoro acquirente che, applicando un altro contratto collet- tivo, crea la condizione per il venir meno dell’efficacia dell’altro contratto al cui rispetto diversamente sarebbe tenuto sempre in forza dell’art. 2112 c.c.
Certamente, si è perfettamente consci del diverso contesto in cui tale ri- soluzione unilaterale si colloca rispetto al recesso di cui si è sinora trattato: nella fattispecie prevista dal comma 3 dell’art. 2112 c.c. la cessazione anti- cipata, per volontà unilaterale, dell’efficacia del contratto collettivo dipen- de dal fatto che a monte si è verificata una modifica soggettiva dal lato del datore di lavoro, cui subentra l’acquirente.
Del pari non sfugge il fatto che a detta cessazione anticipata non fa se- guito una carenza di disciplina collettiva, dal momento che lo stesso art. 2112 c.c. subordina la perdita di efficacia del contratto stipulato del ceden- te al fatto che l’alienante a sua volta applichi un altro contratto collettivo (che la novella dell’art. 2112 specifica dover essere di pari livello) che al primo, divenuto inefficace, si sostituisce.
Ciononostante si ritiene che tale disposizione possa essere letta come un segnale dell’inesistenza anche nel diritto del lavoro, di un principio «supe- riore» di perpetuità dei vincoli contrattuali 77.
77 Cfr. X. XXXXXXXX, Avvicendamento delle discipline collettive e continuità dei rapporti di lavoro nel trasferimento d’azienda, in Mass. giur. lav., 1999, p. 1142 che a proposito del terzo comma dell’art. 2112 ante novella del 2001 afferma «esso costituisce anche un chiaro esempio di apertura dell’ordinamento legale all’ordinamento intersindacale, nella misura
La storia del terzo comma dell’art. 2112 c.c. dal 1990 ad oggi corrobora l’opinione appena espressa.
Come noto, l’art. 47 legge n. 428/1990, intervenuto a modificare l’art. 2112 c.c. aveva introdotto l’obbligo per l’acquirente di mantenere i con- tratti collettivi vigenti presso il cedente sino alla loro scadenza, salva la so- stituzione ad opera di altri contratti applicabili presso l’acquirente.
La norma citata, per quanto chiara nel suo dato letterale, aveva dato o- rigine ad un contrasto di opinioni sia in dottrina che giurisprudenza.
Vi è stato, infatti, chi 78 ha ritenuto che la sostituzione del contratto ap-
plicato dall’alienante ad opera di quello applicato dall’acquirente non po- tesse ricondursi quale effetto automatico dell’esistenza presso il cessionario di un diverso contratto collettivo ma fosse comunque subordinata alla pre- ventiva conclusione tra le parti di un contratto di ingresso o armonizzazio- ne che avrebbe dovuto disciplinare le conseguenze del trasferimento e quindi anche la successione tra le discipline collettive.
Mentre l’opinione che precede stava prendendo piede nonostante alcu- ne posizioni della dottrina di segno contrario 79, è intervenuta la prima de- cisione della Suprema Corte sul punto 80, la quale ha confermato l’effetto di sostituzione automatica tra le discipline collettive quale conseguenza im- mediata del semplice fatto dell’esistenza presso l’impresa acquirente di un contratto collettivo diverso da quello applicato dall’alienante, senza neces- sità che la sostituzione avvenga per il tramite di un accordo tra le parti.
La decisione della Corte di Cassazione, oltre che importante per il prin- cipio di diritto che sancisce, cioè la possibilità che il contratto cessi di ave-
in cui evoca o, come meglio si spiegherà, si affida a quest’ultimo nella soluzione del pro- blema della successione delle discipline collettive». Sull’art. 2112, comma 3, dopo la novel- la del 2001 cfr. X. XXXXXXXX, Xx disciplina collettiva applicabile nel trasferimento del- l’azienda, in Nuove leggi civ. comm., 2002, p. 1263.
78 In dottrina cfr. X. XXXXXXX, Xxasferimento d’azienda, continuità del rapporto di lavoro e trattamento applicabile ai lavoratori, in Dir. rel. ind., 1992, p. 37; A. TXXXX, Xx nozione di trasferimento d’azienda ed il nuovo art. 2112 c.c., in AA.VV., Disposizioni in tema di trasfe- rimento di azienda, a cura di X. Xxxxxxx, xx Nuove leggi civ. comm., 1992, p. 663. In giuri- sprudenza, Trib. Parma, 8 maggio 1997, in Or. giur. lav., 1997, p. 762; Pret. Milano, 10
giugno 1996, in Lav. giur., 1996, p. 1041.
79 X. XXXX, La nuova disciplina del trasferimento d’azienda. Le opinioni, in Giorn. dir. rel. ind., 1991, p. 792; P. LAMBXXXXXXX, Xxofili ricostruttivi della nuova disciplina in materia di trasferimento d’azienda, in Riv. it. dir. lav., 1992, I, p. 191.
80 Cass., 8 settembre 1999, n. 9545, in Mass. giur. lav., 1999, p. 1147 con nota di F. LU- NARDON, Avvicendamento delle discipline collettive e continuità dei rapporti di lavoro nel trasferimento d’azienda, cit.
re efficacia per volontà di uno solo dei due contraenti, è altresì interessante ai nostri fini per un obiter dictum ivi contenuto.
La Corte, infatti, si dichiara contraria ad interpretazioni dell’art. 2112
c.c. che, se accolte, finirebbero per «introdurre una sorta di cristallizzazio- ne della regolamentazione collettiva».
In questo modo il giudice di legittimità dimostra come la propria deci- sione sul punto si collochi, consapevolmente, in linea con la propria ten- denza interpretativa contraria ai vincoli contrattuali perpetui e favorevole ad ammettere l’esistenza implicita in ogni contratto della clausola rebus sic stantibus, linea che emerge anche nella giurisprudenza della S.C. in tema di recesso dal contratto collettivo di cui si è già detto.
Nel solco tracciato si pone, infine, la novella di cui al d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 18, che è intervenuta anche sul terzo comma della norma riba- dendo l’effetto di sostituzione automatica del contratto collettivo in vigore presso l’impresa del cedente da parte di quello applicabile all’impresa del cessionario, con l’unica precisazione che si tratti di contratto di pari livello. In sostanza e per concludere sul punto, l’art. 2112, comma 3, e l’inter- pretazione che di tale norma ha dato la S.C., possono leggersi come un in- dizio della possibilità ammessa dal nostro ordinamento che il contratto
perda efficacia per volontà di uno solo dei contraenti.
In mancanza di una disciplina legale dell’efficacia temporale del contratto collettivo, esiste, invece, un indizio normativo che depone a favore del- l’opinione per cui nel nostro ordinamento, ed in particolare nel diritto del lavoro, non è rintracciabile un principio che imponga il rispetto all’infinito degli impegni assunti in sede di contratto collettivo.
3. La seconda condizione per l’applicazione al recesso dal contratto col- lettivo dei principi generali in tema di recesso: la riferibilità dei pre- detti principi ai contratti collettivi
Al di là di un’opinione di cui si è detto già nei paragrafi precedenti 81, occorre prendere atto del fatto che dottrina e giurisprudenza dominanti
81 Quella espressa da X. XXXXXXXX, X’efficacia temporale del contratto collettivo nel si- stema normativo corporativo, cit. nonché in ID., L’efficacia nel tempo del contratto collettivo, in X. XXXXXXXX-X. XXXXXXX (x cura di), Contratto collettivo e disciplina dei rapporti di lavo- ro, Giapxxxxxxxx, Xxrino, 2004, p. 3.
escludono la vigenza delle norme dettate dall’ordinamento corporativo, o meglio, la loro applicabilità al contratto collettivo di diritto comune, per cui si può concludere che non esiste né una disciplina legale di carattere generale del contratto collettivo né una disciplina legale specifica in tema di efficacia temporale dello stesso 82.
Per questo motivo, con le precisazioni metodologiche di cui si è già det- to 83, occorre verificare se siano compatibili con, e quindi applicabili al, contratto collettivo i principi elaborati dal diritto comune dei contratti in tema di recesso.
Si ritiene che la risposta possa essere affermativa.
Non soltanto perché il contratto collettivo, in quanto contratto, deve possedere i requisiti previsti a pena di nullità per la sua sussistenza, e quindi, in particolare, deve avere un oggetto determinato o determinabile.
In altre parole, perché può riferirsi anche al contratto collettivo, in quanto contratto, il principio ricavato in tema di libertà di recesso dal contratto in generale come corollario del disposto dell’art. 1346 c.c.
Ma soprattutto perché anche rispetto al contratto collettivo può dirsi valido il principio dell’inammissibilità di vincoli contrattuali perpetui 84 e vigente la clausola rebus sic stantibus 85.
82 Cfr. Cass., xxz. un., 30 maggio 2005, n. 11325 in Riv. it. dir. lav., 2006, II, p. 298,
nonché Cass., 17 gennaio 2004, n. 668; Cass., 18 ottobre 2002, n. 1427, a quanto consta inedite, Cass., 1° luglio 1998, n. 6427, in Riv. giur. lav., 1999, II, p. 90 con nota di L. VA- LENTE, Libertà di recesso dal contratto collettivo senza predeterminazione di durata e riflessi giuridici sui trattamenti pensionistici integrativi. Il problema dei diritti acquisiti, ove si legge che «con la fine dell’ordinamento corporativo e con la mancata attuazione dell’art. 39 Cost., il contratto collettivo ha spiegato la propria operatività esclusivamente nell’area del- l’autonomia privata, sicché la regolamentazione ad esso applicabile è quella dettata per i contratti in generale. Di conseguenza la disciplina prevista dal codice civile per i contratti collettivi corporativi non è applicabile a quelli di diritto comune. Per quanto attiene alla durata, la sua obbligatoria determinazione, prevista dall’art. 2071 c.c., non vincola più le parti contraenti e quindi, in linea di principio, deve ammettersi la possibilità che accordi vengano stipulati senza indicazione del termine finale, siano cioè a tempo indeterminato».
83 Vedi cap. II, par. 1.
84 Cfr. Cass., sez. lav., 18 settembre 2007, n. 19351, in Mass. giur. lav., 2008, p. 118;
Cass., 20 settembre 1996, n. 8360, in Lav. giur., 1997, p. 251; Trib. Milano, 19 dicembre
2007, est. Ravazzoni.
85 Questa sembra essere la ratio che sottende alla decisione della Cass., 14 settembre 2000, n. 12150, in Riv. giur. lav., 2001, II, p. 429 con nota di I. DI CROCE, La legittimità della modifica unilaterale delle prestazioni indispensabili individuate nell’accordo sindacale stipulato ai sensi dell’art. 2 della legge n. 14ł/90, che ha ritenuta legittima la comandata u- nilaterale disposta dal datore di lavoro in difformità di un accordo sulle prestazioni indi-
Secondo l’opinione dominante, il contratto collettivo rappresenta il pun- to di equilibrio contingente raggiunto dalle parti sociali nella conflittualità permanente che caratterizza le relazioni industriali 86.
spensabili non disdettato, motivando tale decisione sulla base del fatto che fosse mutata la realtà aziendale; la stessa opinione è espressa nella già citata decisione della S.C. dell’8 set- tembre 1999, n. 9545, in Mass. giur. lav. 1999, p. 1147, ove, a conferma dell’automaticità della sostituzione tra il contratto collettivo applicato all’alienante e quello applicabile al- l’acquirente, senza che sia necessario un accordo di armonizzazione, si afferma che «l’in- terpretazione proposta dai ricorrenti [quella cioè della necessità di un contratto di ingresso n.d.r.] – se accolta – finirebbe per introdurre una sorta di cristallizzazione della regolamen- tazione collettiva». Ribadisce l’esistenza implicita della clausola rebus sic stantibus Cass., sez. lav., 18 settembre 2007, n. 19351.
86 Cfr. X. XXXXXX, Xxntratti collettivi di lavoro (voce), in ffnc. giur., Roma, vol. VIII, Roma, ove si afferma che «nell’intento di fornire una ricostruzione dell’istituto secondo una visione unitaria che ne riassuma tutti i profili funzionali, può dirsi che la posizione più aderente al dato reale è quella che ravvisa nel contratto collettivo la funzione economico- sociale di composizione dei conflitti di interessi e di diritti tra gruppi professionali», ed ancora, 13, ove si legge che «l’assunzione di un obbligo di tregua non può pertanto che es- sere esplicita. In assenza di tale clausola la stipulazione del contratto collettivo ha natural- mente come controparte per gli imprenditori la cessazione dello stato di conflitto in atto». Se, poi, il contratto collettivo abbia anche un’ulteriore funzione che si proietta sui rapporti futuri che derivano o comunque sono collegati al contratto collettivo, è questione diversa che verrà affrontata nei prossimi paragrafi. Cfr. inoltre X. XXXXXXX, Xxntributo allo studio della contrattazione collettiva nell’ordinamento giuridico italiano, Xxxxxxx, Milano, 1986, p. 155; X. XXXX, Contrattazione collettiva e governo del conflitto, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1988, p. 449; E. GXXXX, X’efficacia e gli effetti del contratto collettivo, in AA.VV., La con- trattazione collettiva: crisi e prospettive, Angeli, Milano, 1976, p. 164; cfr. ancora in argo- mento cfr. M BIAGI, Cambiare le relazioni industriali: considerazioni sul rapporto del gruppo di alto livello sulle relazioni industriali ed il cambiamento nella u.e., in Riv. it. dir. lav., 2002, I, p. 147, il quale definisce la contrattazione collettiva come «la più importante isti- tuzione di regolamentazione dei rapporti di lavoro nelle economie di mercato dei Paesi de- mocratici», ricordando che per i lavoratori essa assolve ad una triplice funzione «di garan- tire loro protezione, offrendo loro rappresentanza e consentendo di godere dei frutti della formazione, della tecnologia e della produttività» mentre «dal punto di vista datoriale, la contrattazione collettiva rimane il principale strumento di composizione del conflitto»; cfr. in senso parzialmente contrario V. SXXX, Xx clausole di tregua come strumento di pace sinda- cale, ivi, p. 132, il quale sostiene che la funzione del contratto collettivo è quella di rag- giungere un equilibrio e di assicurare per un determinato periodo la stabilità del contratto, fatta salva la clausola rebus sic stantibus. In giurisprudenza il concetto è espresso chiara- mente da Cass., xxz. lav., 18 ottobre 2002, n. 14827, cit., ove si legge che «per quanto attie- ne ai contratti privi di termine finale, ossia a tempo indeterminato, deve essere riconosciu- ta la possibilità di farne cessare l’efficacia, previa disdetta, anche in mancanza di un’espres- sa previsione legale. Trattasi di un principio che appare in sintonia con quello di buona fede nell’esecuzione del contratto … esso, poi, deve tanto più ritenersi operante con riferi- mento al contratto collettivo, ove lo si consideri tipico mezzo di composizione dei conflitti
In altre parole, il contratto collettivo, ogni tipo di contratto collettivo 87, ha, per opinione largamente diffusa e condivisa, una primaria funzione pa- cificatrice, di «rimozione delle divergenze attuali tra imprenditori ed ope- rai» 88.
Tale funzione manifesta lo stretto vincolo genetico che lega il contratto collettivo alla realtà conflittuale sulla quale interviene, ponendosi come punto di equilibrio tra i contrapposti interessi delle parti stipulanti 89.
Proprio in quanto «punto di approdo e di riferimento nel continuo di- venire dell’azione sindacale» 90, il contratto collettivo nasce indissolubil- mente legato a quella realtà di fatto che ha reso possibile e necessaria la sua stipulazione 91.
Da questa affermazione deriva come logico corollario che l’idea di un vincolo contrattuale perpetuo è incompatibile con la stessa natura dell’ac- cordo collettivo 92.
sorti in uno specifico contesto economico produttivo … sicché si può dire ad esso conna- turale una durata limitata nel tempo, anche in forza della normalità dell’autocomposizione volontaria dei conflitti rispetto alla vigenza, temporale o no, del contratto». In giurispru- denza si veda Cass., 18 ottobre 2002, n. 14827.
87 X. XXXXXX, Xxntratti collettivi di lavoro (voce), cit., p. 7.
88 G. MESSINA, I contratti collettivi e il disegno di legge sul contratto di lavoro, Macerata, 1905 (ora in ID., Scritti giuridici, IV, Xxxxxxx, Milano, 1948, p. 61); cfr. altresì X. XXXXXXX-
R. DE XXXX XXXXXX-X. XXXX-X. XXXX, Diritto del lavoro, vol. 1, Il diritto sindacale, Utet, Torino, 2006 nonché gli autori ivi citati.
89 Proprio sul fatto che la contrattazione collettiva si fondi sulla contrapposizione di in- teressi e libertà di azione si basa secondo X. XXXXXXXX, Xxppresentanza collettiva dei lavora- tori e diritti di partecipazione alla gestione delle imprese, relazione alle Giornate di Studio AIDLASS di Lecce 27-28 maggio 2005, datt., 6, la distinzione tra contrattazione e parteci- pazione, la quale, invece, implica interessi comuni ad entrambe le parti «in un’ottica di condivisione in cui l’opposizione può farsi governo».
90 X. XXXXXXXXXXXX, Xx azioni sindacali in vigenza del contratto collettivo, in AA.VV.,
La contrattazione collettiva: crisi e prospettive, cit., p. 57, ed in part. p. 59.
91 Cfr. Cass., 13 aprile 1993, n. 4507, cit., dove si legge espressamente che «il contratto collettivo si pone come mezzo di composizione di conflitti sorti in uno specifico contesto produttivo, suscettibile sovente di improvvise e talora impreviste variazioni di mercato ed è quindi connaturata ad esso una durata limitata nel tempo». Vedi anche Cass., 14 settembre 2000, n. 12150, in Riv. giur. lav., 2001, p. 428 con nota di I. DI CROCE, La legittimità della modifica unilaterale delle prestazioni indispensabili nell’accordo sindacale stipulato ai sensi dell’art. 2 legge 14ł/90.
92 Cfr. X. XXXXXXXX, Xx realtà sociopolitica della contrattazione collettiva, in AA.VV., La contrattazione collettiva: crisi e prospettive, cit., p. 158, e spec. p. 160, il quale afferma che
«forse può addirittura configurarsi sul piano giuridico un’incompatibilità di un qualsiasi ter-
Diversamente opinando, il contratto collettivo diverrebbe una sorta di
«gabbia» nella quale le parti sono volontariamente entrate e dalla quale non possono altrettanto volontariamente uscire, se non per il tramite di un contratto successivo che si sostituisca al precedente, neppure quando, con l’evolversi della situazione di fatto, tale gabbia è divenuta troppo stretta e del tutto inadeguata rispetto al suo contenuto, che intanto si è evoluto e modificato 93.
Il che, in altre parole, equivarrebbe ad introdurre nel nostro sistema sindacale due istituti che gli sono invece estranei: da una parte un potere di veto del contraente receduto, il quale rifiutando di sedersi al tavolo delle trattative per stipulare un nuovo accordo da sostituire al precedente, ver- rebbe di fatto a cristallizzare a tempo indeterminato l’assetto realizzato dal contratto originario, nonostante esso non rispecchi più il punto di equili- brio tra i contrapposti interessi 94.
mine fisso, potendosi piuttosto ipotizzare un termine implicito, cosicché la durata di queste intese è rimessa alla loro modificazione o alla loro sostituzione mediante altre realizzabili con una contrattazione pronta sempre al continuo e flessibile adattamento alle esigenze organiz- zative». Vedi, in giurisprudenza, Cass., 25 febbraio 1997, n. 1694, in Dir. lav., 1997, II, p. 526 nonché, conforme, Trib. Torino, dott. Aprile, 6 novembre 2009, Trib. Xxxxxx, xxxx.xxx Xx- xxxxxxx, 00 dicembre 2007, Trib. Milano, 3 luglio 1991, in Orient. giur. lav., 1991, p. 514.
93 Cfr. X. XXXXXXXX, Obbligazioni (nozioni), in ffnc. dir., vol. XXXIX, Xxxxxxx, Milano, 1979, p. 133, il quale ritiene che la perpetuità del vincolo possa giustificarsi soltanto ove non vi sia un problema di soggetti vincolati, o di cose sottoposte a pesi, perché ivi il vinco- lo perpetuo significa una restrizione alla libertà delle persone e delle cose; X. XXXXXXXX, Xx realtà sociopolitica della contrattazione collettiva, in AA.VV., La contrattazione collettiva: crisi e prospettive, cit., p. 158 e spec. p. 160 ove si legge che «queste considerazioni indu- cono a ritenere da un lato che sussista un vincolo al rispetto delle intese raggiunte sull’or- ganizzazione, rispetto alle quali però non è solo illusorio sul piano dei fatti contare su una durata minima, ma forse può addirittura configurarsi sul piano giuridico un’incom- patibilità di un qualsiasi termine fisso»; cfr. anche X. XXXXXXXXXX, L’efficacia temporale del contratto collettivo di lavoro, cit., p. 113 «l’esigenza di fondo è dunque quella di evitare che una durata troppo lunga o l’impossibilità di procedere ad una modifica o revisione del contratto prima della scadenza del termine, se a tempo determinato, e dietro un adeguato preavviso, se a tempo indeterminato, vanixxxxxxx xx stessa ragion d’essere del contratto col- lettivo – id est – l’equilibrio di interessi raggiunto dalle parti contrapposte»; X. XXXXXXXX, Disdettabilità di accordi collettivi e prestazioni pensionistiche complementari, cit., il quale prospetta l’eventualità che «il tempo trascorso ... assuma valore di indice dell’esaurimento della funzione assolta dal contratto collettivo, con conseguente configurazione di una sua implicita cessazione di efficacia», p. 390; cfr. infine X. XXXXXXXX, Xx tema di condotta an- tisindacale, in Mass. giur. lav., 1990, p. 144 e spec. p. 146
94 Per l’inesistenza di un potere di veto del sindacato e contro la «cristallizzazione della posizione di una delle parti antagoniste» si veda Cass., sez. lav., 19 luglio 1995, n. 7833, cit.
Dall’altra, esso introdurrebbe un obbligo implicito a contrarre a carico di chi voglia recedere dall’accordo, non per un motivo qualunque, ma per un giustificato motivo legato al verificarsi di un mutamento sensibile nel- l’assetto degli interessi rispetto a quello che lo aveva indotto a contrarre al- le precedenti condizioni.
Negando la facoltà di recesso, infatti, soltanto un contratto sopravvenu- to potrebbe modificare le pattuizioni collettive vigenti, e dunque soltanto contrattando obbligatoriamente, la parte che, a seguito del mutato assetto di fatto, ha visto compromesso il proprio interesse al contratto potrebbe sperare di arginarne le conseguenze negative.
Ma un obbligo a contrarre non esiste nel nostro sistema sindacale 95 e non
pare logico introdurlo nella fattispecie in oggetto, ove, come premesso in apertura, l’esigenza di poter recedere dal contratto se esso non realizza più l’equilibrio di interessi che presupponeva, è implicita al contratto stesso.
Dalla presa d’atto che il contratto collettivo realizza il punto di equilibrio raggiunto dalle parti nel continuo conflitto, o nell’incessante dialettica, che caratterizza le relazioni industriali, deriva un ulteriore corollario: l’esistenza implicita nel contratto collettivo della clausola rebus sic stantibus 96.
Ma, come si è già detto trattando del recesso in generale, l’esistenza del- la clausola richiamata costituisce ad un tempo il fondamento ed il limite (interno) del potere di recesso dal contratto in generale.
Se, dunque, può affermarsi che è implicita al contratto collettivo la clau- sola rebus sic stantibus, deve necessariamente ammettersi altresì che, modi- ficatosi lo stato delle cose, sia lecito recedere da quel contratto che, a se-
Contraria al cristallizzarsi delle situazioni derivanti da norme collettive si è detta, sebbene in altro argomento, anche Cass., 0 settembre 1999, n. 9545, in Mass. giur. lav., 1999, p. 1147 nonché recentemente Cass., sez. lav., 18 settembre 2007, n. 19351.
95 X. XXXX, Xxi obblighi a trattare nel sistema dei rapporti collettivi, Cedam, Padova, 1992; vedi anche a proposito dei contratti di ingresso in caso di trasferimento dell’azienda
X. XXXXXXXX, Avvicendamento delle discipline collettive e continuità del rapporto nel tra- sferimento dell’azienda, cit., p. 1146.
96 Cfr. X. XXXXXXX, Xx contratto collettivo nell’ordinamento giuridico italiano, cit., p. 282, il quale pone due limiti all’obbligatorietà del contratto collettivo, il primo dei quali consiste nella «sopravvenienza di una modificazione della situazione di fatto iniziale, dalla quale l’equilibrio contrattuale risulti alterato in tale misura che, secondo buona fede, il sindacato non possa più ritenersi vincolato dal contratto»; cfr. ancora V. SXXX, Xx clausole di tregua come strumento di pace sindacale, in AA.VV., La contrattazione collettiva: crisi e prospettive, cit., p. 132. In giurisprudenza cfr. Trib. Bergamo, 29 marzo 1991, in Orient. giur. lav., 1991, p. 855, che ha ammesso il recesso unilaterale da un contratto collettivo a- ziendale intervenuto a causa del modificarsi delle condizioni di mercato e delle esigenze della produzione.
guito dell’avvenuta modifica, ha perso la sua funzione di punto di equili- brio tra poli contrapposti.
Peraltro, un importante segnale a favore delle tesi esposta deriva dalle già richiamate sentenze della S.C. che escludono l’ultrattività legale del contratto collettivo 97.
Le Sezioni Unite, infatti, fondano il principio della temporaneità del- l’efficacia dei contratti collettivi proprio sulla considerazione che al sinda- cato «è rimessa la valutazione collettiva della preesistente corrispondenza della norma contrattuale agli interessi dei lavoratori associati» con la con- seguenza che «mutata la situazione contingente, (il sindacato) ben può de- cidere di non conservarne ulteriormente l’efficacia» e dunque sull’esisten- za, implicita, della clausola rebus sic stantibus.
Si può allora affermare, confortati dalle richiamate decisioni della Su- prema Corte, che la ratio che nel diritto civile apre al recesso dal contratto, può altrettanto coerentemente essere utilizzata per i vincoli che nascono dal contratto collettivo, in quanto l’equilibrio contingente realizzato da quest’ultimo, contenendo in sé la clausola rebus sic stantibus, risulta in- compatibile con l’idea di un vincolo perpetuo 98.
97 Cass., sez. un., 30 maggio 2005, n. 11325 e Cass., sez. lav., 9 maggio 2008, n. 11602.
98 Pret. Monza, 2 maggio 1995, in Orient. giur. lav., 1995, p. 294 ove si legge che «l’ef- ficacia dei contratti collettivi di diritto comune non è disciplinata nel nostro ordinamento da «norme di diritto» ... con la conseguenza che, in linea con il disfavore del nostro ordi- namento per i vincoli contrattuali perpetui, la cessazione dell’efficacia dei contratti collet- tivi dipende dall’esercizio della facoltà di recesso ... riconducibile al principio generale in tal senso concernente qualsiasi contratto a tempo indeterminato» nonché Cass., 25 feb- braio 1997, n. 1694, in Dir. lav., 1997, II, p. 527 ove si legge che «qualora un contratto col- lettivo venga stipulato senza l’indicazione di una scadenza, la relativa mancanza non impli- ca che gli effetti perdurino nel tempo senza limiti, atteso che – in sintonia con il principio della buona fede nell’esecuzione del contratto ex art. 1375 c.c. ed in coerenza con la natu- rale temporaneità dell’obbligazione – deve essere riconosciuta alle parti la possibilità di farne cessare l’efficacia, previa disdetta, anche in difetto di previsione legale, non essendo a ciò di ostacolo il disposto dell’art. 1373 c.c., che, regolando il recesso unilaterale nei con- tratti di durata quando tale facoltà è stata prevista dalle parti, nulla dispone per il caso di mancata previsione pattizia al riguardo»; conf. Cass., 16 aprile 1993, n. 4507, in Mass. giur. lav., 1993, p. 322; ma vedi conformi Cass., 9 giugno 1993, n. 6408, in Mass. giur. lav., 1993,
p. 414; Cass., 13 febbraio 1990, n. 1050, cit.; Pret. Monza, 2 maggio 1995, cit.; Cass., 29 agosto 1987, n. 7140, in Giust. civ. Mass., 1987, f. 8-9.
4. La terza condizione per l’applicazione al recesso dal contratto collet- tivo dei principi generali in tema di recesso: la compatibilità tra i predetti principi e la peculiare natura del contratto collettivo. Ordi- namento intersindacale e recesso dal contratto collettivo
Una volta affermata l’applicabilità anche al contratto collettivo dei prin- cipi elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza civilistica in tema di re- cesso dal contratto, occorre ancora verificare la compatibilità di tale forma di risoluzione del vincolo obbligatorio con l’ordinamento intersindacale e quindi con il contesto all’interno del quale il contratto collettivo esplica la sua funzione.
In altre parole, occorre verificare se il recesso dal contratto collettivo, al quale, per le ragioni esposte al paragrafo che precede, possono astrattamente riferirsi i principi civilistici, ed in particolare quello dell’inammissibilità di vincoli contrattuali perpetui, sia altrettanto compatibile con il sistema delle relazioni industriali, ovvero, non venga ad alterarne l’equilibrio, a snaturarlo incidendo su regole o prassi che conformano la struttura stessa dell’ordina- mento intersindacale, svuotandolo dei suoi tratti caratteristici.
La necessità di giustificare i risultati strettamente civilistici anche sul piano tipico giuslavoristico, e quindi di verificare la compatibilità degli strumenti usati dal diritto civile nell’ordinamento intersindacale, deriva dal fatto che, come rilevato da una dottrina ormai risalente ma sempre attuale, il contratto collettivo è «un fenomeno giuridico a doppia faccia, che non si può completamente spiegare se non ammettendo che esso si svolge, nel medesimo tempo e con atteggiamenti diversi e magari contrari, nelle ri- spettive orbite di due distinti ordinamenti giuridici ... ciò che per lo stato è un contratto, per tale ordinamento vale come sistema a sé, più o meno au- tonomo, di diritto obiettivo, che si fa valere con i mezzi di cui l’organizza- zione dispone, nell’interno di essa» 99.
99 X. XXXXXX, L’ordinamento giuridico, Sansoni, Firenze, 1947, p. 128; efficace anche la definizione data da X. XXXXXXXXXXXX, A proposito di una recente iniziativa per una di- sciplina legislativa del contratto collettivo, in Mass. giur. lav., 1986, p. 683, ove a proposito del contratto collettivo si dice, p. 685, che si tratta di «un fenomeno che affonda le sue ra- dici nell’humus di una realtà autonomamente ordinata o, per dirla esplicitamente, di un ordinamento autonomo nei confronti di quello giuridico dello Stato quale è di certo l’ordi- namento sindacale»; cfr. infine anche X. XXXXXXX, Contratto collettivo e libertà di recesso, in Arg. dir. lav., 1995, p. 35, il quale, rilevato che il problema del recesso dal contratto col- lettivo non può essere risolto soltanto mutuando le soluzioni elaborate dalla dottrina civili-
In altre parole, occorre ricordare che «quello della contrattazione col- lettiva è sì un sistema di norme prodotte dai privati nell’esercizio della loro autonomia negoziale collettiva, ma è in primo luogo un metodo per l’istitu- zionalizzazione dei conflitti collettivi, cioè di quel conflitto industriale e di classe che è una caratteristica fondamentale delle società industriali» 100, un metodo che ha la tendenza a «straripare» dalle forme legali nelle quali è contenuto 101 per proporsi quale sistema autonomo ed originario, che, per essere compreso, dev’essere conosciuto e studiato in quanto tale, a pre- scindere da (o meglio, al di là di), un suo incasellamento nel diritto comu- ne dei contratti 102.
Occorre dunque, nell’accostarsi al diritto del lavoro in genere, ed al contratto collettivo in particolare, correggere la logica tradizionale del con- tratto, non rifiutarla 103.
stica in quanto in tal modo si «trascura del tutto la peculiare dimensione collettiva degli interessi regolati pattiziamente, mentre un’innegabile esigenza di coerenza sistematica sol- lecita l’interprete a mediare tra l’applicazione tout court della disciplina generale prevista per ogni contratto e la necessità di preservare la funzione di tutela degli interessi collettivi cui assolve, per impegno costituzionale, la contrattazione sindacale», ritiene però «meto- dologicamente corretto, anziché partire da una ricognizione delle tesi elaborate dalla dot- trina civilistica in punto di recesso dal contratto, procedere inizialmente ad una rilevazione delle concrete modalità che connotano il recesso dal contratto collettivo, enucleando in particolare gli interessi che vengono a fronteggiarsi»; vedi anche X. XXXXXXX, Ordinamen- to intersindacale e teoria dei sistemi, cit., il quale, a p. 8, dal disposto dell’art. 40 Cost. rica- va «l’irriducibilità della libertà di contrattazione collettiva a pura e semplice espressione di autonomia privata».
100 X. XXXXX, fffficacia ed effetti del contratto collettivo, in AA.VV., La contrattazione collettiva: crisi e prospettive, cit., p. 166.
101 Così X. XXXXXX, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, Xxxxxxx, Bari, 1960, p. 138; vedi anche X. XXXXX, Il contratto collettivo, Intervento alle Giornate di Stu- dio AIDLASS, Baia delle Zagare, 25-26 maggio 2001, il quale dopo aver aperto il discorso definendo «insidiosa» la prospettiva di analisi del contratto collettivo, afferma che «riap- pare però costantemente «il» problema: tutti sanno che il contratto collettivo è il perno del sistema delle fonti del diritto del lavoro, ma non si riesce a capire come combinare in mo- do convincente e solido questa collocazione con la storia e le caratteristiche dei tanti sog- getti che producono o subiscono il contratto collettivo».
102 Cfr. X. XXXXXX, Diritto del lavoro (voce per una enciclopedia), in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1979, p. 35; sull’originalità del sistema sindacale «negativo-prestatuale» vedi anche X. XXXXXXX, Ordinamento intersindacale e teoria dei sistemi, cit.
103 X. XXXXXXX, Il diritto civile, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1990, pp. 6, 9 e 15; cfr. an- che X. XXXXXXX, Relazioni industriali e procedure concorsuali, cit., p. 40, il quale avverte che «l’analisi delle relazioni sindacali non produce appaganti livelli di comprensione se si arresta alle regole giuridiche tralasciando di rapportarsi alle dinamiche economico-sociali»
Correggere tale logica significa, in generale, misurarsi con le particolari- tà che caratterizzano il diritto del lavoro, nella sua accezione più ampia, rendendolo speciale, per non correre il rischio di appiattirlo sul diritto civi- le 104.
Nella questione che ci occupa, significa verificare se l’ordinamento in- tersindacale conosca qualche forma di recesso dal contratto collettivo, e, più in generale, se all’interno di quel contesto il contratto collettivo impo- ne alle parti stipulanti un vincolo di natura temporale ovvero se la facoltà di sciogliersi unilateralmente dai vincoli contratti è, invece, compatibile anche con questo sistema particolare.
L’analisi sul piano giuslavoristico viene svolta tenendo presenti talune problematiche tipiche del sistema sindacale, che, seppure trasversalmente o indirettamente, coinvolgono l’efficacia temporale del contratto collettivo ed in particolare la forza vincolante che esso esercita sui soggetti ai quali si applica.
Mi riferisco alle cd. azioni sindacali in vigenza del contratto collettivo 105 ed in particolare, allo sciopero cd. contrattuale ed alla questione relativa alla parte obbligatoria del contratto, alle clausole di tregua e a quelle di pa- ce sindacale, infine, ai riflessi che il Protocollo del 23 luglio 1993 prima e del 22 gennaio 2009, poi, ha avuto ed avranno sul sistema delle Relazioni Industriali.
In buona sostanza, a tutte quelle fattispecie nelle quali l’efficacia vinco- lante del contratto collettivo, sia esso a tempo determinato, sia esso privo di termine, viene messa in discussione o, per così dire, direttamente «sul campo» attraverso il ricorso allo scontro diretto (è il caso dello sciopero cd. a fini contrattuali), o anche solo a livello teorico attraverso il dibattito sul cd. dovere di tregua o di pace sindacale, ovvero sul valore delle clausole
per cui «è necessario non indulgere ad enfatizzazioni ed assolutizzazioni di alcune espe- rienze rispetto ad altre».
104 Cfr. X. XXXXXX, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, cit., pp. 13, 14 e 16; X. XXXXXXXXXX, L’efficacia temporale del contratto collettivo di lavoro, cit., p. 88, ove si legge che «una volta ricondotto il contratto collettivo nel precario contesto della legge co- mune dei contratti, la tipicità sociale di quello che già la dottrina di inizio secolo aveva chiaramente visto essere un processo dinamico di autonormazione dell’autonomia colletti- va, verrà risolta, sul piano del diritto positivo, in un astratto ed aprioristico imprigiona- mento della nuova fattispecie contrattuale nelle strette maglie dello schema del contratto normativo. questo fenomeno di inerzia interpretativa stempera gli aspetti di novità della
fattispecie in una poco limpida logica di conservazione delle categorie concettuali».
105 X. XXXXXXXXXXXX, Le azioni sindacali in vigenza del contratto collettivo, cit., p. 56.
espresse, dirette a garantire la «tregua» nel periodo di vigenza del contrat- to collettivo stipulato.
4.1. Segue: a) l’obbligo implicito di pace sindacale
Tra i problemi maggiormente discussi in tema di contratto collettivo, al di là di quello legato al suo ambito e tipo di efficacia, vi è quello del valore che la fattispecie assume per le parti stipulanti nonché rispetto ai singoli che fanno parte del sistema contrattuale.
Ci si chiede se la stipula del contratto vincoli, almeno per un certo pe- riodo, le parti sottoscrittrici al rispetto di quello stesso contratto, ovvero se esse siano libere di avanzare nuove rivendicazioni sin dal giorno successivo alla sua stipula.
Ci si chiede altresì se le rivendicazioni successive alla stipula possono ri- guardare materie già oggetto del contratto ovvero solo materie che non hanno fatto parte del contenuto dell’accordo.
Sul punto la dottrina è divisa tra chi ritiene il dovere di pace implicito alla stipula del contratto e chi, negando l’esistenza di un tale dovere, ritiene del tutto legittime le rivendicazioni proposte anche il giorno successivo al, e sulle stesse materie del, contratto appena concluso.
Le diverse posizioni espresse dalla dottrina più autorevole possono es- sere così sinteticamente schematizzate.
La tesi di chi 106 sostiene l’esistenza di un obbligo di pace sindacale im-
plicito alla firma del contratto collettivo, si fonda essenzialmente su una nozione di contratto collettivo come contratto a prestazioni corrispettive.
All’obbligo del datore di lavoro di assicurare determinate condizioni economico-normative ai dipendenti fa da controaltare il dovere delle orga-
106 X. XXXXXXX, La clausole di tregua come strumento di pace sindacale, in AA.VV., La contrattazione collettiva: crisi e prospettive, cit., p. 132; X. XXXXXXX, Le clausole di tregua come strumento di pace sindacale, ivi, p. 137, il quale però, a pp. 141-142, pur concordando con Xxxxxxx, precisa che «non si può fare un discorso valido per tutti i tempi, per tutti i luoghi e per tutte le situazioni. Mi pare che quello che si pone sia un problema di interpre- tazione della volontà delle parti. Certo se c’è una clausola ... sarà chiaro l’impegno di tre- gua; e questo potrà anche ritenersi in linea di massima valido ogni qualvolta non risulti che diversamente è stato voluto, perché ciò corrisponde all’applicazione del criterio della buo- na fede. Ma potrebbe anche darsi che un certo contratto, per volontà delle parti, non in- tendesse comportare questo impegno. Parleremo allora di atto di liberalità ... o altrimenti la contropartita potrà essere individuata in relazione alla volontà delle parti in qualche al- tro elemento».
nizzazioni sindacali stipulanti di garantire la vigenza del contratto per il tempo convenuto o comunque per un periodo ragionevole.
In altre parole, la citata dottrina ritiene che il contratto collettivo sareb- be privo di causa, e quindi nullo, se a fronte degli impegni assunti dal da- tore di lavoro, sia nei confronti delle associazioni sindacali che dei singoli lavoratori, non corrispondesse un impegno corrispettivo del sindacato, il cui contenuto consisterebbe proprio nel dovere implicito di pace sindacale.
Solo un impegno da parte delle organizzazioni sindacali al rispetto della disciplina contrattata e all’astensione da nuove rivendicazioni potrebbe giustificare un interesse del datore di lavoro a concludere l’accordo collet- tivo.
La funzione del contratto collettivo sarebbe non solo e non tanto quella di realizzare un equilibrio tra interessi contrapposti, quanto quella di ga- rantire il rispetto dell’equilibrio raggiunto per un certo periodo di tempo, sufficiente a far sì che per il datore di lavoro diventi «interessante» la stipu- lazione del contratto, consentendogli di prevedere e programmare i tempi ed i costi di produzione, quantomeno per tutta le durata dell’accordo.
Come anticipato, secondo la tesi che si espone, l’interesse alla stabilità successiva alla firma del contratto collettivo rappresenta la causa dell’ac- cordo dalla quale è impossibile prescindere, negando l’esistenza di un ob- bligo implicito di pace sindacale, pena la nullità del contratto.
L’argomento generalmente richiamato dai sostenitori dell’inesistenza di un obbligo implicito di pace sindacale si fonda, invece, sul disposto del- l’art. 40 Cost. 107.
Ritenere che con la conclusione del contratto collettivo le parti si vinco- lino, oltre che al rispetto delle obbligazioni espresse, anche ed implicita- mente a rispettare le condizioni contenute nel contratto, per un certo pe- riodo di tempo e generalmente fino alla sua scadenza, significa, secondo la citata dottrina, teorizzare un’inammissibile facoltà delle parti collettive di disporre di un diritto, quello di sciopero, che la Costituzione pone, invece, direttamente in capo ai singoli lavoratori.
In altre parole, ritengono gli autori citati che il modello sindacale deli- neato dal costituente non lasci spazio per un obbligo implicito di pace sin- dacale né gravante in capo ai singoli, i quali, come si è detto, sono proprio i diretti destinatari della norma costituzionale, né in capo alle associazioni
107 Cfr. X. XXXXXX, La responsabilità contrattuale delle associazioni sindacali, Xxxxxxx, Milano, 1963; ID., Autonomia collettiva, diritto di sciopero e clausole di tregua, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1967, p. 149.
sindacali, che, secondo una certa lettura della norma costituzionale, l’art. 40 Cost. avrebbe privato della legittimazione a disporre del diritto di scio- pero dei singoli 108.
Nell’ampio disposto costituzionale rientra, invece, secondo la tesi che si espone, il diritto di astenersi dalla prestazione lavorativa per rimettere in discussione anche le condizioni economico-normative contenute nel con- tratto appena concluso, perché nessun limite (interno) può ricavarsi dal- l’ampia fattispecie delineata dal costituente 109.
Addirittura vi è chi 110 arriva a sostenere che l’art. 40 Cost. abbia dato
tutela giuridica al livello più alto alle violazioni di massa dei patti esistenti, convertendo l’inadempimento contrattuale nel suo contrario, assurgendo- lo, cioè, a diritto.
Alle stesse conclusioni – quelle, cioè, dell’inesistenza di un obbligo im- plicito di pace sindacale – arriva anche chi 111 ragiona sulla base della sola fattispecie del contratto collettivo, prescindendo dalla ricognizione del si- gnificato dell’art. 40 Cost.
Secondo questa posizione, derivare dalla stipulazione del contratto col- lettivo un obbligo implicito di pace sindacale significa partire da una co- struzione aprioristica del contratto collettivo, il quale, invece, contraria- mente a quanto vorrebbe la dottrina che teorizza l’obbligo implicito di pa- ce sindacale 112, si limita a stabilire le condizioni economico-normative che dovranno regolare i rapporti individuali di lavoro, senza nulla aggiungere, almeno implicitamente, quanto alla sua efficacia temporale.
In altre parole, «non ha valore affermare che i pacta sunt servanda: biso-
108 L’uso del condizionale deriva dalla consapevolezza – e condivisione – della lettura aperta dell’art. 40 Cost., nel senso, cioè, di norma che non limita necessariamente ai singoli la titolarità del diritto di sciopero.
109 Cass., 30 gennaio 1980, n. 711, in Xxxx xx., 0000, X, x. 00; Cass., 26 giugno 1980, n.
4030, in Foro it., 1980, I, c. 2756; Cass., 24 gennaio 1981 n. 568, in Foro it., 1981, I, c.
1998.
110 X. XXXX, Sulle clausole di pace sindacale, in Riv. giur. lav., 1964, pp. 288-289.
111 X. XXXXXX, La realtà socio-politica della contrattazione collettiva, in AA.VV., La contrattazione collettiva: crisi e prospettive, cit., p. 146; X. XXXXXXX, Contrattazione col- lettiva e governo del conflitto, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1990, p. 692; X. XXXXX, L’effi- cacia e gli effetti del contratto collettivo, in AA.VV., La contrattazione collettiva: crisi e pro- spettive, cit., p. 164; X. XXXXXXXXXXXX, Le azioni sindacali in vigenza del contratto col- lettivo, ivi, p. 56.
112 X. XXXXXXX, Il contratto collettivo nell’ordinamento giuridico italiano, in Jus, 1975, p. 176.
gna vedere se a presupposto del contratto collettivo esiste una volontà o- biettiva delle parti, e quindi immedesimata con la funzione giuridica del contratto collettivo stesso, di fare di esso uno strumento di pace sociale a termine. Se tale volontà manca, i pacta si osservano senza osservare la pace
... Il problema resta quello della volontà delle parti ... se il contratto collet- tivo non contiene una clausola di pace ad esso non può essere riconosciuta una funzione di pacificazione sociale che si identifichi con una promessa di pace a termine» 113.
Altra dottrina 114 nega l’esistenza di un dovere di tregua sindacale rile- vando che il contratto collettivo assume una funzione sempre più vicina a quella dell’atto normativo, e quindi con efficacia immediata sul rapporto individuale di lavoro, con la conseguenza che il trattamento economico- normativo che deriva dal contratto collettivo non può considerarsi un ob- bligo assunto dal datore di lavoro a fronte di un corrispettivo obbligo del sindacato di non rimettere in discussione le materie oggetto del contratto, bensì l’effetto reale tipico del contratto collettivo normativo.
Infine, un ulteriore argomento a sostegno dell’inesistenza di un dovere implicito di pace sindacale viene individuato nella circostanza che l’orga- nizzazione sindacale, pur essendo articolata su più livelli sia in senso oriz- zontale che verticale, è spesso priva di strumenti di coordinamento tra i li- velli medesimi, con la conseguenza che è pressoché impossibile impedire che un livello diverso da quello che ha appena concluso il contratto intra- prenda una nuova azione rivendicativa, anche sulle stesse materie già og- getto di accordo 115.
113 X. XXXXXX, La realtà socio-politica della contrattazione collettiva, cit., 148-149; non- ché ID., Xxxxxxxxx collettivi di lavoro (voce), cit., pp. 13-14, sul punto cfr. anche U. ROMA- GNOLI, Il contratto collettivo di lavoro nel Novecento italiano, Relazione al XIII Convegno AIDLASS, Ferrara, 11-13 maggio 2000, il quale afferma che «al di là delle intenzioni o dei desideri delle parti contraenti, residua normalmente una zona d’ombra nella quale esse re- stano in posizione di trattiva anche posteriormente alla sottoscrizione del contratto».
114 M. NAPOLI, Lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, in CELLA-TREU (a cura di), Rela- zioni industriali. Manuale per l’analisi dell’esperienza italiana, Il Mulino, Bologna 1989, p. 69.
115 X. XXXXXXX, Contrattazione collettiva e governo del conflitto, cit., p. 694; sul punto però vedi critico X. XXXXXXXXXX, La contrattazione collettiva in Italia, in AA.VV., La con- trattazione collettiva: crisi e prospettive, cit., p. 97 e spec. pp. 100-101, il quale rileva come
«la contrattazione aziendale viene inserita nella contrattazione collettiva di categoria non per surrogarla ma per operare al suo interno, in funzione di stimolo con finalità di ottenere e mantenere i vantaggi insiti nei due sistemi. Nasce un monstrum sindacale ... In pratica si vuole dare vita ad un nuovo sistema di contrattazione collettiva che, senza rinunciare ai li- velli già acquisiti e consolidati, confederale e di categoria, accolga anche il livello aziendale,
Dal canto suo, la giurisprudenza si è occupata raramente della questio- ne relativa al dovere implicito di pace sindacale 116, ma nelle rare pronunce in argomento ha sempre rilevato che, quand’anche si potesse ritenere che un simile impegno gravi sulle parti stipulanti, esso assumerebbe valore
«programmatico più che giuridico» 117.
La breve rassegna autorizza a concludere nel senso che «vi è insomma un’autentica messe di argomenti che inducono a negare attendibilità alla cd. teorizzazione del dovere implicito di pace sindacale» 118, per cui si può affermare che le associazioni sindacali da una parte, ed i singoli lavoratori dall’altra, possono in ogni momento sciogliersi dalle obbligazioni assunte con la conclusione del contratto.
Ma se è ammesso che le parti possano in ogni momento rimettere in di- scussione il contenuto dell’accordo raggiunto, eventualmente anche a co- sto di chiamarsi fuori dell’intero sistema di relazioni industriali 119, e se, dunque, il contratto collettivo non può assicurare un vincolo perpetuo per le parti, ciò equivale, quanto ad effetti, ad ammettere che le organizzazioni sindacali firmatarie nonché i singoli aderenti possono in ogni momento e- sercitare una forma anomala di recesso.
aprendo così nuove e diverse fasi del conflitto»; X. XXXXX, Questioni sulla contrattazione collettiva. Legittimazione, efficacia, consenso, Xxxxxxx, Milano, 1994, in part. pp. 31 e 157.
116 Si veda al proposito Pret. Napoli, 3 maggio 1982, che afferma espressamente che
«nessuna norma giuridica impedisce al sindacato, il giorno dopo la stipulazione di un ac- cordo sindacale, di denunciare l’accordo stesso e riaprire la vertenza appena conclusa» nonché, di segno opposto, Xxxx., sez. lav., 21 aprile 1987, n. 3899, in Riv. dir. lav., 1988, II,
p. 121 ove si afferma che tale obbligo è implicitamente contenuto nel termine finale appo- sto al contratto, termine che «attiene all’impegno … di astensione da ulteriori rivendicazio- ni fino alla data concordata».
117 Così Xxxx., sez. lav., 21 aprile 1987, n. 3899, cit.; questa peraltro è la stessa conclu- sione cui arriva X. XXXXXX, Contratti collettivi di lavoro (voce), cit., p. 13.
118 X. XXXXXXX, Contrattazione collettiva e governo del conflitto, cit., p. 695; X. XXX- RA, L’efficacia e gli effetti del contratto collettivo, cit., p. 169 il quale conclude affermando che «l’effetto distintivo, caratterizzante, dell’esistenza del contratto collettivo, è riferibile solo al presente. Questo significa che l’effetto di pacificazione del contratto collettivo si ri- solve nella rimozione del conflitto esistente, ma, diversamente da quello che avviene attra- verso il meccanismo delle clausole di pace, non necessariamente comprende la prevenzio- ne di conflitti futuri».
119 Così X. XXXX, Contrattazione collettiva e governo del conflitto, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1988, p. 449.
4.2. Segue: b) sciopero contrattuale e recesso
Il discorso che precede introduce un’altra problematica che merita di essere esaminata al fine di valutare la compatibilità tra recesso ed ordina- mento intersindacale. Appare, infatti, utile trattare dello sciopero, ed in particolare dello sciopero contrattuale, cioè quello sciopero che si propone come scopo l’imposizione al datore di lavoro di condizioni economico-nor- mative diverse da quelle stabilite nel contratto collettivo vigente 120.
Questa forma di sciopero è stata una delle prime riconosciute legittime della Corte Costituzionale, che, chiamata a decidere le questioni di legitti- mità costituzionale degli artt. 502 e segg. codice penale, ha via via ridise- gnato i contorni della fattispecie delineata dall’art. 40 Cost.
Una volta ammessa la sua legittimità quale esplicazione del diritto tute- lato all’art. 40 Cost., lo sciopero contrattuale è sostanzialmente uscito dal dibattito dottrinale e giurisprudenziale, divenendo uno dei (pochi) punti indiscussi della costruzione del diritto sindacale.
Nel trattare della compatibilità del recesso dal contratto collettivo con l’ordinamento intersindacale pare, però, utile riprendere il discorso sullo sciopero per fini contrattuali, soffermandosi in particolare sul suo configu- rarsi rispetto al contratto collettivo il cui contenuto è messo in discussione da questa forma di astensione collettiva dal lavoro 121.
Infatti, come insegna una dottrina che si è a lungo ed approfonditamen- te occupata del recesso 122, esistono numerose forme di recesso che, pur non essendo formalmente inquadrate come tali, nella sostanza producono gli stessi effetti dell’istituto disciplinato all’art. 1373 c.c.
Sulla base di tali premesse si può avanzare l’ipotesi che l’astensione col- lettiva posta in essere per rimettere in discussione il contenuto di un con- tratto collettivo abbia, all’interno dell’ordinamento intersindacale, un valo- re equiparabile allo, e quindi nella sostanza produca gli stessi effetti dello, atto di recesso del datore di lavoro avverso il medesimo contratto.
Se così fosse, se cioè si potesse stabilire un’analogia tra recesso del dato- re di lavoro e sciopero contrattuale, allora si avrebbe uno strumento in più per rafforzare la tesi che la facoltà di sciogliersi dal vincolo contrattuale,
120 Cfr. X. XXXX XXXXXXXXXXX, Diritto sindacale, Utet, Torino, 1982, p. 378.
121 X. XXXXXXXXXX, L’efficacia temporale del contratto collettivo di lavoro: atipicità dello schema negoziale, giuridicità del vincolo e cause di scioglimento, cit., p. 83 e spec. p. 117; X. XXXX, Contrattazione collettiva e governo del conflitto, cit., p. 480.
122 X. XXXXXXXXX, Vincolo contrattuale, cit.; G. DE NOVA, Recesso (voce), in Digesto IV, Disc. priv. sez. civ., Utet, Torino, 1997; X. XXXXXXXX, Degli effetti del contratto, cit.
già riconosciuta a livello di diritto civile, appare compatibile non solo con i principi generali del diritto del lavoro ma anche con quelli tipici dell’ordi- namento intersindacale.
Resta, comunque, fermo il fatto che, come illustrato nel capitolo dedica- to alla disciplina del recesso nel diritto civile, secondo l’orientamento do- minante 123 l’esercizio della facoltà di disdetta comporta sempre un atto, e quindi comporta che il recedente manifesti esplicitamente una volontà in tal senso, non essendo all’uopo sufficiente un mero comportamento con- cludente di una parte.
Per tale ragione non si intende qui equiparare recesso e sciopero: è scontato, infatti, che potrebbero essere mosse a questo tentativo obiezioni non facilmente superabili, pacifico essendo che recesso e sciopero sono due fattispecie distinte quanto a struttura (il recesso necessita di un atto dichiarativo, mentre lo sciopero consiste in un comportamento).
Ciononostante è ragionevole chiedersi se, ferme restando le differenze strutturali, si possa affermare che sul piano dell’ordinamento intersindaca- le le due fattispecie perseguono lo stesso scopo e quindi nella sostanza si equivalgono.
La risposta prende necessariamente le mosse da quanto affermato dalla Corte Costituzionale la quale, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 502 c.p. che vietava lo sciopero e la serrata per fini contattuali, ha fondato la propria decisione non solo, come ovvio, sull’art. 40 Cost., ma anche sull’art. 39 Cost. ed in particolare sulla «affermazione integrale della libertà di azione sindacale» 124 che dal combinato disposto delle due norme emerge indiscussa.
Il duplice fondamento costituzionale del diritto di sciopero per fini con- trattuali, in uno con la riconosciuta ampiezza della nozione di libertà ed attività sindacale tutelate dalla norma costituzionale 125, portano a conclu- dere che è possibile ricorrere allo sciopero non solo per avanzare nuove ri- vendicazioni ma anche per «costringere il datore di lavoro a modificare in meglio – o a non peggiorare – i trattamenti economici previsti dai contratti collettivi» 126.
123 Così Cass., 14 novembre 2000, n. 14730, in I contr., 2001, p. 221 con nota di P.F. GIUGGIOLI.
124 Così Corte cost., 4 maggio 1960, n. 29.
125 Su cui cfr. X. XXXXXXXXX, La libertà sindacale, in Diritto del lavoro, Commentario, diretto da X. XXXXXXX, Le fonti, Il diritto sindacale, a cura di X. XXXX, Utet, Torino, 2007, p. 63 ss.
126 M.T. CARINCI, Fondamento, caratteri e finalità del diritto di sciopero, in Diritto del
In altre parole, lo sciopero per fini contrattuali è uno strumento, o me- glio lo strumento, cui è possibile ricorrere anche al fine di rimettere in di- scussione quanto concordato nel contratto collettivo concluso.
Preso atto dell’inesistenza nel nostro ordinamento di un obbligo impli- cito di pace sindacale 127 e della legittimità dello sciopero per fini contrat- tuali, è possibile affermare che il sistema sindacale conosce già una forma (legittima) di atto unilaterale diretto a sciogliere il vincolo contrattuale, quale, appunto, è lo sciopero contrattuale.
Tale forma, espressamente ammessa ed anzi costituzionalizzata dal combinato disposto degli artt. 39 e 40 Cost., si avvicina, quanto a scopi ed effetti, alla condotta del datore di lavoro che receda dal contratto, soprat- tutto se si concorda con la tesi che assegna al recesso una funzione di jus poenitendi, cioè quella di provocare la sostituzione di un accordo non più utile.
Indipendentemente dalle conseguenze che derivano dall’esercizio di questa forma anomala di recesso 128, non si può allora negare che all’interno
lavoro – Commentario, diretto da X. XXXXXXX, Le fonti, Il diritto sindacale, a cura di X. Xxxx, cit., p. 575.
127 Si rinvia al paragrafo che precede in merito all’inesistenza di un obbligo implicito di pace sindacale.
128 Occorre al proposito ricordare che secondo la tesi largamente prevalente in dottrina, poiché «una volta verificatosi ... l’ingresso del rapporto individuale nell’area del sistema contrattuale, il singolo dissenziente non può sottrarsi all’efficacia di specifiche manifestazioni di autonomia collettiva a tale area riconducibili ... È quindi sufficiente che il rapporto indivi- duale si attui con normalità all’interno del regime di contrattazione collettiva perché siano precluse anche al prestatore di lavoro dissociazioni da singoli frammenti di quel regime» (cfr.
X. XXXX, Contrattazione collettiva e governo del conflitto, cit., p. 480; X. XXXXXX, Considera- zioni in tema di servizi pubblici essenziali, in Notiz. giur. Cgil, 1987, pp. 11-12; X. XXXX, Sulle clausole di pace sindacale, in Riv. dir. lav., 1964, p. 285 e spec. p. 289; M. DEL CONTE, Contratto collettivo e sciopero: variazioni metodologiche, in Dir. rel. ind., 1994, p. 67 ss. e spec.
p. 75; ma parzialmente difforme X. XXXXXXXXXX, L’efficacia temporale del contratto collettivo di lavoro, cit., il quale sostiene che «i lavoratori organizzati che contestano un certo contratto collettivo o che indicono uno sciopero rifiutando di continuare a lavorare a certe condizioni non intendono sicuramente mettere in discussione i benefici già acquisiti né, più in generale, la stabilità stessa del rapporto, che difatti è solo sospeso, ma sollecitano una composizione consensuale della controversia con i mezzi di sanzionamento sociale che l’ordinamento giu- ridico riconosce loro».In altre parole, lo sciopero contrattuale non sarebbe una forma di re- cesso dall’accordo collettivo, bensì uno strumento per addivenire ad un nuovo contratto, quasi una forma di proposta che, avendo come base l’accordo già concluso, pretende nuovi be- nefici a favore dei lavoratori.), il ricorso a questa forma di lotta comporta l’uscita dal sistema sindacale. In altre parole, secondo la tesi maggioritaria, il singolo lavoratore, che è entrato a far parte del sistema sindacale, non può rimettere in discussione il contratto, o una sua parte,
dell’ordinamento intersindacale è già pacificamente ammesso il ricorso ad uno strumento – l’astensione dal lavoro – finalizzato a rimettere in discus- sione il contenuto del contratto collettivo e quindi ad uno strumento che ha un valore equiparabile a quello del recesso 129.
4.3. Segue: c) le clausole di tregua
Occorre peraltro ancora verificare se un vincolo di carattere temporale possa ritenersi sussistente nel caso in cui il contratto collettivo contenga espresse pattuizioni che impongano il rispetto del suo contenuto per un determinato periodo di tempo, ovvero il divieto espresso di avanzare nuo- ve rivendicazioni o promuovere forma di lotta, anche a livelli inferiori, nel periodo di vigenza dell’accordo.
Le cd. clausole di tregua compaiono nel sistema di relazioni industriali sviluppatosi negli anni ’60 intorno al modello della «contrattazione artico- lata».
ricorrendo a strumenti rivendicativi quale l’astensione dal lavoro, se non contemporanea- mente «chiamandosi fuori» dall’intero accordo e, soprattutto, dal sistema. Sulla scorta di tale premesse e facendo applicazione del cd. schema condizionale (su cui X. XXXXXX, Considera- zioni in tema di servizi pubblici essenziali, cit., cioè quella teoria per la quale l’applicazione del contratto e quindi il godimento dei benifici è condizionata all’accettazione dell’intero accor- do), può affermarsi che, una volta messo in discussione il contratto, in tutti i suoi aspetti o in una sua parte, il singolo scioperante esce dal sistema sindacale, e quindi perde i benefici che derivano dall’accordo messo in discussione, non essendo possibile configurare una conte- stazione solo parziale che continui ad assicurare a chi si autoesclude dal sistema i vantaggi di cui gode in forza del sistema stesso. Contra cfr. X. XXXXXXX, Contrattazione collettiva e go- verno del conflitto, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1990, p. 687, e spec. pp. 711-712, la quale rile- va che il vero problema è poi cercare di capire quando può dirsi che il singolo sia entrato a far parte del sistema di contrattazione collettiva, non potendosi «forzare gli indici dell’adesio- ne individuale alla contrattazione collettiva, al fine di renderla impermeabile alle manifesta- zioni di dissenso» nonché pp. 723-725 ove si critica la teoria che precede affermando che «la clausola di tregua è tipicamente un mezzo di autogoverno del sistema di relazioni collettive; non può esere utilizzata per impedire l’uscita dal sistema»; cfr. altresì X. XXXXXXXX, Il pro- blema del contratto collettivo: il dissenso, in Giur. it., 1987, IV, p. 65.
129 Se si accoglie la tesi di chi sostiene che lo sciopero non rimette in discussione quanto già acquisito, ma è finalizzato esclusivamente ad ottenere un vantaggio ulteriore, cfr. X. XXXXXXXXXX, L’efficacia temporale del contratto collettivo di lavoro: atipicità dello schema negoziale, giuridicità del vincolo e cause di scioglimento, cit., allora bisogna ritenere che si tratti di una forma di recesso unilaterale condizionata alla conclusione di un nuovo con- tratto che abbia ad oggetto quei vantaggi avuti di mira da chi ha scioperato.
Il modello si fondava sulla rigida divisione di competenza tra contratto di categoria e contratto aziendale, riconosciuto ormai come contratto col- lettivo vero e proprio – e non più soltanto come contratto plurisoggettivo – avente una forza pari a quello nazionale.
Mentre alcune materie restavano di competenza esclusiva della contrat- tazione nazionale, altre venivano rinviate a quella aziendale, cui era affida- to il compito di regolare le materie «rinviate» ma contemporaneamente di non trattare le materie già oggetto di contrattazione di categoria 130.
Il compito di assicurare l’esclusiva della contrattazione nazionale su ma- terie predeterminate era demandato alle cd. clausole di tregua sindacale, at- traverso le quali le organizzazioni sindacali si impegnavano espressamente a rispettare i livelli di competenza stabiliti, e, di conseguenza, a non avanzare nuove rivendicazioni sulle materie fatte oggetto del contratto di categoria né a promuovere o sostenere azioni, anche individuali, dirette a quel fine.
Sul valore di tali clausole ed in particolare sulla capacità di queste previ- sioni contrattuali di impedire il ricorso ad azioni rivendicative avverso il contratto stipulato si è a lungo discusso.
Una parte della dottrina ha ritenuto simili pattuizioni contenute nei contratti collettivi vincolanti non soltanto nei confronti delle parti stipulan- ti, ma anche dei singoli lavoratori.
In particolare, si è detto che mentre il lavoratore non può, come singolo, rinunciare al diritto di sciopero costituzionalmente tutelato, questo può, in- vece, aderendo al sindacato, dare mandato all’associazione di appartenenza perché assuma le decisioni che ritiene opportune al fine di tutelare l’interes- se collettivo, impegnandosi ad adeguarsi alle decisioni assunte in quella sede. Con la conseguenza che il lavoratore non potrà rinunciare al diritto di sciopero, ma potrà impegnarsi ad esercitarlo con le modalità stabilite dal-
l’organizzazione sindacale a tutela di un interesse collettivo.
Per questo motivo ritiene la citata dottrina che quando le parti abbiano previsto nel contratto collettivo una clausola di tregua, essa impegna anche il singolo aderente all’associazione contraente in quanto «stipulando la clausola di pace, il sindacato esercita i poteri conferitigli e li esercita per le esigenze specifiche di una situazione data nel contesto della contrattazione collettiva, impegnandosi ed impegnando i soci verso i terzi» 131.
130 Cfr. in argomento AA.VV., La contrattazione collettiva articolata, Angeli, Milano, 1971; cfr. inoltre X. XXXXXXX, Ordinamento intersindacale e teoria dei sistemi, cit., p. 21 ss.
131 Cfr. X. XXXX, Le clausole di pace sindacale, in Riv. dir. lav., 1964, p. 285 ss. e spec. 302; X. XXXXXXXXX, Indisponibilità del diritto di sciopero, in Riv. dir. lav., 1965, I, p. 209; L.
Né può sostenersi che così facendo il sindacato violi l’art. 40 Cost., in quanto con la clausola di tregua il sindacato non rinunzia al diritto di scio- pero del singolo lavoratore, ma pone alcuni limiti al suo esercizio.
Anche la giurisprudenza ha inizialmente accolto la tesi proposta da que- sta prima dottrina rilevando che «gli accordi di tregua adempiono ad una funzione conciliativa e transattiva, compresa nel più largo ambito del pote- re di disposizione degli interessi collettivi, spettante al sindacato ed alle minori unità negoziali e di urto, potere demandato dagli stessi singoli par- tecipanti, attraverso l’adesione allo sciopero ed al conflitto ... tale potere di disposizione implica ... potere di rappresentanza e di vincolo nei confronti dei lavoratori, a quanto per essi il sindacato verrà a stipulare nel piano con- trattuale» 132.
In un secondo tempo, però, la giurisprudenza è tornata sui suoi passi, sostenendo che «il rapporto che lega il lavoratore ad un’associazione sin- dacale non impedisce al lavoratore stesso di dissociarsi ed assumere atteg- giamenti in contrasto con le sue indicazioni e con gli impegni da essa sotto- scritti» 133 e che «è legittimo lo sciopero proclamato a sostegno di piatta- forme rivendicative salariali nonostante la clausola del Protocollo del 31 luglio 1992 che prevede il divieto di svolgere negoziati a livelli di impresa, in quanto di natura programmatica e quindi inidonea a vincolare le orga- nizzazioni sindacali locali» 134.
In senso contrario alla vincolatività di clausole esplicite di tregua sinda- cale, peraltro, si era già espressa altra parte della dottrina 135 che ha sostenu-
XXXX XXXXXXXXXXX, Diritto sindacale, Utet, Torino, 1982 p. 473; X. XXXXXX, La realtà so- ciopolitica della contrattazione collettiva, in AA.VV., La contrattazione collettiva: crisi e pro- spettive, cit., p. 149.
132 Cass., 10 febbraio 1971, n. 357, in Foro it., 1971, I, c. 887; conf. nella giurisprudenza di merito cfr. Pret. Roma 26 maggio 1962, in Mass. giur. lav. 1965, p. 382; Trib. Massa, 13 maggio 1969, in Foro it., 1970, I, c. 337.
133 Pret. Napoli, 3 marzo 1982, in Xxx. xx. xxx. xxx., 0000, XX, x. 00; cfr. altresì Trib. Roma, 26 marzo 1987, in Giust. civ., 1988, I, p. 1053, a proposito della clausola contenuta nell’ac- cordo Xxxxxx in cui si esclude che lo sciopero posto in essere prima del termine indicato costituiscano inadempimento contrattuale.
134 Pret. Verona-Soave, 9 febbraio 1993 e Pret. Xxxx-Xxxxxxx, 5 novembre 1992 en- trambe in Riv. giur. lav., 1994, II, 86 con nota di X. XXXXXXXXXXX, Gli accordi cd. triango- lari tra programmazione politica, efficacia obbligatoria e livelli contrattuali, 99.
135 X. XXXXXXXXXXXX, Le azioni sindacali in vigenza del contratto collettivo, in AA.VV., La contrattazione collettiva: crisi e prospettive, cit., p. 56. Sui poteri dell’organizzazione sin- dacale cfr. X. XXXX, Poteri dei sindacati e diritti acquisiti degli associati nella contrattazione collettiva, in Riv. dir. civ., 1965, I, p. 330.
to la nullità per contrasto con l’art. 40 Cost. di eventuali clausole limitative del diritto di sciopero dei singoli lavoratori.
La possibilità che la contrattazione collettiva si ponga come strumento di controllo del conflitto, e segnatamente come mezzo di regolamentazione dello sciopero, è tornata in discussione a partire dagli anni ’90, dopo un’e- poca in cui la problematica relativa alla parte obbligatoria del contratto collettivo sembrava ormai abbandonata.
Il fine cui tende la dottrina che auspica un governo del conflitto per il tramite della contrattazione collettiva, è quello di evitare l’effetto poten- zialmente destrutturante 136 che la mancanza di coesione interna al sistema sindacale comporta sul sistema stesso 137.
Sul presupposto che un governo del conflitto per il tramite della con- trattazione fosse già presente nel modello costituzionale, ove gli artt. 39 e 40 Cost. erano pensati come logicamente congiunti 138 (sebbene di fatto, nella costituzione materiale, questi due istituti si sono sviluppati separatamente
– collocandosi lo sciopero esclusivamente nella sfera individuale), questa dottrina ha dunque ritenuto la legittimità, ma soprattutto la necessità per la coesione interna del sistema, di una disciplina contrattuale delle modali- tà di esercizio del diritto di sciopero.
Si è, cioè, riconosciuto che il contratto collettivo possa prevedere le condizioni e le forme alle quali può essere subordinato l’esercizio del con- flitto ed in particolare dello sciopero 139.
136 X. XXXX, Contrattazione collettiva e governo del conflitto, in Giorn. dir. lav. rel. ind., cit.
137 Cfr. X. XXXXXX, Occupazione, rappresentatività, conflitto, Giappichelli, Torino, 1992,
p. 185, rileva che «mentre nella sistemazione scientifica la materia dello sciopero è conside- rata a sé stante rispetto al tema dell’organizzazione sindacale e della contrattazione collet- tiva, nel dibattito de iure condendo sulla regolamentazione dello sciopero si sposta all’indie- tro ancora il discorso, coinvolgendo i temi dell’assetto della contrattazione collettiva e, an- cora di più, la tematica della rappresentanza e della rappresentatività del sindacato»; cfr. ancora X. XXXXXX, op. ult. cit., p. 81, il quale sottolinea l’ambiguità di una situazione in cui il soggetto che pone le regole è lo stesso destinatario delle regole poste.
138 Questa è altresì l’opinione della Corte cost., 4 maggio 1960, n. 29, in Giur. cost., III,
p. 97 ss. e spec. p. 99 ove si legge che «sebbene enunciati in due distinte norme, il princi- pio di libertà di sciopero ed il principio della libertà sindacale non possono non conside- rarsi logicamente congiunti ... l’art. 39 e l’art. 40 sono da considerare come espressione u- nitaria del nuovo sistema e pertanto il significato dell’art. 39 non può essere circoscritto entro i termini angusti di una dichiarazione di mera libertà organizzativa, mentre invece nello spirito delle sue disposizioni e nel collegamento con l’art. 40 esso si presenta come affermazione integrale della libertà di azione sindacale».
139 M. NAPOLI, Regolamento dello sciopero e governo del conflitto, in ID., Occupazione,
Infatti, se è vero che l’art. 40 Cost. non demanda all’autonomia colletti- va il controllo esclusivo del conflitto, non si può nemmeno sostenere che esso neghi tout court la possibilità che il sindacato, nella tutela degli inte- ressi collettivi, disponga del diritto tutelato dall’art. 40 Cost.
In altre parole, non può ritenersi che la norma costituzionale neghi tout court la legittimazione dell’organizzazione sindacale al governo del conflit- to; legittimazione che, certamente non esclusiva, può invece concorrere con quella individuale 140.
Peraltro, affermare che il sindacato ha una legittimazione concorrente al controllo del conflitto, non risolve i problemi legati all’efficacia temporale del contratto, per tre ordini di motivi.
In primo luogo perché la distinzione teorica tra limiti all’esercizio del diritto di sciopero (legittimi) e limiti allo sciopero (incostituzionali) non è nei fatti così agevole come potrebbe sembrare dalla mera enunciazione del principio.
In secondo, perché non sempre risulta chiaro il significato e la portata delle clausole c.d. di tregua.
Infine, perché, una volta preso atto dell’esistenza di un obbligo espresso di pace sindacale, è poi ancora necessario indagare l’ambito di efficacia di una simile pattuizione, per verificare se essa sia opponibile ad eventuali or- ganizzazioni sindacali di diverso livello, a quelle non firmatarie del contrat- to, nonché ai singoli lavoratori non iscritti alle organizzazioni sindacali fir- matarie 141.
Né si può dimenticare che, come ammesso dalla stessa dottrina, il go- verno del conflitto fondato su clausole contenute nei contratti collettivi soffre già in partenza di un limite gravissimo ed invalicabile, che consiste nella mancanza di effettività delle regole che pone 142.
cit., p. 179; X. XXXX, Contrattazione collettiva e governo del conflitto, cit.; X. XXXXXXX,
Contrattazione collettiva e governo del conflitto, cit.
140 Cfr. il d.d.l. del febbraio 2009 in tema di sciopero nel settore dei trasporti nonché al proposito X. XXXX, Contratto e conflitto tra individuale e collettivo, intervento al Convegno promosso dal Centro Studi Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx sul tema Rappresentanza sindacale, con- trattazione collettiva e conflitto dopo l’accordo quadro del 22 gennaio 2009, Torino 18 set- tembre 2009.
141 Cfr. X. XXXXXXX, Contrattazione collettiva e governo del conflitto, cit., 708 e segg.;
X. XXXXXXX, Ordinamento intersindacale e teoria dei sistemi, cit., 22-23; E. MANGANIEL- LO, Gli accordi cd. triangolari tra programmazione economica, efficacia obbligatoria e livelli contrattuali, in Riv. giur. lav., 1994, II, p. 99.
142 Si prescinde, per il momento, da quanto previsto dall’accordo del 23 luglio 1993, sul quale vedi infra.
In altre parole, manca e non può essere apposta, una sanzione con effi- cacia reale a tutela delle regole autoimposte dalla contrattazione colletti- va 143 con la conseguenza che anche da questo punto di vista l’ordinamento intersindacale dimostra di non avere una disciplina che imponga il rispetto del contratto collettivo.
4.4. Segue: d) il rinnovo del CCNL Metalmeccanici e gli «accordi separati»: spunti per una riflessione
Le recenti vicende che riguardano l’assetto delle Relazioni Industriali dopo il Protocollo del gennaio 2009 e, prima ancora, la mancata contestua- le sottoscrizione nel 2003 del rinnovo del CCNL Metalmeccanici 144 offrono utili spunti di riflessione al dibattito che ci occupa sul versante dell’ordina- mento intersindacale.
Come noto il CCNL Aziende Industriali sottoscritto nel 1999, avente durata quadriennale ex Protocollo del luglio 1993, prevedeva all’art. 36, Disciplina generale, sezione III, la sua rinnovazione tacita, salvo disdetta da esercitarsi tre mesi prima della scadenza.
Per l’ipotesi della disdetta, lo stesso art. 36 prevedeva l’ultrattività dell’ac- cordo sino a che non fosse «sostituito dal successivo contratto nazionale».
Esercitata tempestivamente la disdetta, nel maggio del 2003 veniva sotto- scritto un nuovo contratto collettivo nazionale dei Metalmeccanici il quale, però, non recava la firma della FIOM-CGIL, già firmataria del CCNL del 1999 disdettato.
Si poneva, dunque, il problema dell’efficacia del nuovo contratto – e, soprattutto, dell’ultrattività o meno ex art. 36 CCNL 1999 dell’accordo me- desimo.
Riassumendo brevemente i termini della questione, mentre i soggetti
143 X. XXXX, Contrattazione collettiva e governo del conflitto, cit., p. 460; cfr., anche, X. XXXX, L’accordo del 23 luglio 1993: assetto contrattuale e struttura della retribuzione, in Riv. giur. lav., 1993, p. 215, ove si legge che «anche ad essere fiduciosi nel metodo contrattuale, la sua esclusività nel contesto italiano, congiunta con la tradizione di dissenso sociale che ci contraddistingue, segnala un’inevitabile incompletezza ed una certa fragilità della regola- zione così introdotta», nonché p. 227; X. XXXXXX, Rapporti tra contratti collettivi di diver- so livello, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1981, p. 398.
144 X. XXXXXXXXX, Considerazioni a margine della firma separata del contratto collettivo nazionale per i lavoratori metalmeccanici, in Riv. giur. lav., 2003, p. 709; X. XXXXXXXX, Le cd. Intese precontrattuali nel settore metalmeccanico, in Riv. giur. lav., 2004, p. 115.
stipulanti 145 l’accordo del maggio 2003 ritenevano che con esso si fosse rea- lizzata la condizione di cui all’art. 36 CCNL 1999, e dunque la sostituzione del predetto accordo, disdettato, ad opera del nuovo contratto nazionale, la FIOM-CGIL, che non aveva sottoscritto l’accordo di maggio 2003, so- steneva che tale sostituzione non poteva dirsi operante, atteso che l’art. 36 CCNL 1999 doveva interpretarsi nel senso che il nuovo contratto collettivo nazionale, sostitutivo di quello del 1999, avrebbe dovuto essere sottoscritto dalle stesse parti che avevano firmato il primo.
La problematica, che rispetto al rinnovo 2003 del CCNL Metalmecca- nici aveva poi trovato una soluzione naturale con la successiva sottoscri- zione anche da parte della FIOM-CGIL, è tornata di attualità in questi me- si a seguito delle note vicende relative al Protocollo del gennaio 2009 ed al successivo Accordo Interconfederale del 15 aprile 2009, sottoscritti da tut- te le parti sociali ad eccezione della CGIL.
Riscritte, infatti, le principali regole in tema di contrattazione collettiva, la FIM e la UILM, sul presupposto che il CCNL Metalmeccanici del 2008 fosse stato concluso sulla base di un sistema di relazioni sindacali ormai supera- to 146, hanno dato disdetta al contratto nazionale ed hanno presentato a Fe- dermeccanica una piattaforma rivendicativa calibrata sulle nuove regole.
Da parte sua la CGIL ha, invece, rivendicato la perdurante vigenza del CCNL 2008 – la cui parte economica scadeva il 31 dicembre 2009 mentre quella normativa al 31 dicembre 2011 – ritenendo illegittima la disdetta comunicata da FIM e UILM.
Le questioni sollevate dalla firma degli accordi separati sono di non po- co rilievo, tenuto conto altresì del numero di soggetti coinvolti.
Ed infatti, se si accogliesse la tesi della sostituibilità del contratto collet- tivo solo ad opera di altro contratto sottoscritto dalle medesime parti, do- vrebbe concludersi che il predetto CCNL gode ancora di efficacia ultratti- va, nonostante l’intervenuta disdetta, per tutte le parti stipulanti ed a pre- scindere dall’intervenuta conclusione di altro accordo nel maggio 2003.
Accogliendo, invece, la tesi prospettata da FIM e UILM si dovrebbe con- cludere per l’avvenuta caducazione del CCNL a seguito di disdetta per gli aderenti alle organizzazioni che l’hanno esercitata, con l’ulteriore problema
145 Cioè FEDERMECCANICA, ASSISTAL, FIM-CISL, UILM-UIL, FISMIC-CONFSAL, UGL-Metalmeccanici, FAILMS-CISAL, SAVT, SAVTMET e Unione sindacati autonomi sud- tirolesi – USAS-ASGB/Metall.
146 E quindi per tale via dimostrando di ritenere implicita nel contratto collettivo la clausola rebus sic stantibus.
della disciplina applicabile a coloro che aderiscono all’organizzazione dis- senziente, e cioè nel caso di specie alla FIOM-CGIL: costoro dovrebbero ritenersi privi di copertura contrattuale collettiva, per essere venuto meno anche nei loro confronti l’accordo del 2008, ovvero si deve ritenere che a- gli stessi sia applicabile il vecchio CCNL con il correttivo dell’indennità di vacanza contrattuale o ancora che essi rientrino nell’ambito di applicazione del CCNL del 2008 sino alla sua scadenza (2011)?
La vicenda rappresenta, come si diceva, un efficace terreno su cui misu- rare la questione del valore nel tempo del contratto collettivo, assumendosi al contempo il pieno carico delle problematiche che la natura privatistica di tale fonte inevitabilmente pone.
Ed infatti, la soluzione della questione temporale sconta necessariamen- te anche le problematiche legate all’ambito di efficacia soggettiva del con- tratto di diritto comune, ed in particolare come si diceva, della sua vincola- tività nei confronti dei dissenzienti 147.
Senza poter affrontare in questa sede il tema, si ritiene che la soluzione possa e debba essere trovata sulla base dei principi generali in tema di con- tratti collettivi.
La libertà sindacale negativa di cui all’art. 39 Cost. garantisce al singolo non solo la possibilità di restare estraneo al sistema sindacale voluto da al- tri ma, si ritiene, anche di liberarsi da un accordo collettivo che non realiz- za più l’equilibrio di interessi per i quali era sorto.
Alla luce di quanto precede, può già apparire quantomeno problemati- ca una clausola che sancisce l’ultrattività, potenzialmente anche a tempo indeterminato – dal momento che l’unica possibilità di liberarsi dal vincolo è quella di stipulare un altro accordo sostitutivo di quello disdettato – di un contratto collettivo 148.
Ma in ogni caso, anche ammessa l’assunzione pattizia di tale vincolo, già di per sé fortemente in contrasto con il principio di libera recedibilità di cui si è sinora parlato, si ritiene che, data l’esistenza ed il significato del- l’art. 39, comma 1, nessuna norma di legge né tanto meno di contratto può essere interpretata nel senso di imporre al singolo di trovare un accordo con tutte le parti con cui aveva stipulato il precedente contratto, pena il ri- schio di restare all’infinito legato all’accordo collettivo al quale ha legitti- mamente dato disdetta.
147 Su cui si rinvia a X. XXXXX, Questioni sulla contrattazione collettiva. Legittimazione, efficacia, consenso, Xxxxxxx, Milano, 1994.
148 Si rinvia al proposito alle argomentazioni già svolte ai paragrafi che precedono.
Ed infatti, se così fosse, il dissenso di una parte alla sottoscrizione di un nuovo accordo realizzerebbe un impasse che di fatto impedirebbe all’altra di esercitare la propria libertà negativa e sciogliersi dal vincolo contrattuale assunto, rendendo il contratto collettivo disdettato ultrattivo a tempo inde- terminato.
Conclusione, questa, che appare contraria a quanto sin qui detto ed i- naccettabile.
Pare, invece, conforme ai già ricordati principi dell’ordinamento la so- luzione che consente la sostituzione del vecchio CCNL ad opera di un nuovo contratto nazionale, a prescindere dalla coincidenza tra le parti sot- toscrittrici dell’uno e dell’altro.
Tale soluzione risulta, peraltro, in linea con quanto previsto dal nostro ordinamento in tema sostituzione della disciplina collettiva in caso di trasfe- rimento di azienda: come si è già detto in precedenza 149, infatti, l’art. 2112, comma 3 contempla esattamente l’ipotesi in cui un contratto collettivo è so- stituito di diritto da altro dello stesso livello, stipulato da soggetti diversi.
Ciò detto in generale, nel caso del CCNL Metalmeccanici 2008, ferma restando la possibilità teorica di sostituzione del predetto CCNL con un nuovo contratto sottoscritto soltanto da alcune organizzazioni sindacali, resta al momento un punto interrogativo legato alla posizione ad oggi (non) as- sunta da Federmeccanica, la quale si è limitata a prendere atto dell’avve- nuta disdetta del vecchio CCNL da parte di FIM e UIL senza però a sua volta esercitare la predetta facoltà.
In questa situazione, e ricordato che seconda una giurisprudenza 150 la disdetta deve essere espressa, è astrattamente ipotizzabile la coesistenza fu- tura di due discipline parallele, quella contenuta nell’accordo del 2008 per gli aderenti a FIOM-CGIL e quella scaturente dall’eventuale nuovo accor- do con FIM e UILM per gli iscritti a queste sigle.
Poiché, però, è del tutto evidente che la volontà di Federmeccanica – dimostrata dalla sottoscrizione del Protocollo di gennaio 2009 e dell’Ac- cordo Interconfederale di aprile dello stesso anno – è nel senso di uscire dal sistema di relazioni industriali di cui al Protocollo del 1993, in cui il CCNL Metalmeccanico del 2008 si colloca, pare ben più plausibile con- cludere che l’associazione rappresentante dei datori di lavoro, previa for- malizzazione della disdetta, potrà ritenersi libera dagli obblighi derivanti dal CCNL del 2008.
149 Cfr. paragrafo 2.4.
150 Pret. Milano, 3 agosto 1989, in Riv. it. dir. lav., 1990, II, p. 74.
4.
Una volta sottoscritto un nuovo CCNL, sul presupposto che l’art. 2 CCNL Metalmeccanici 2008, così come l’analogo art. 36 CCNL Metalmec- canici del 1999 di cui si discusse a seguito della mancata contestuale sotto- scrizione del rinnovo del 2003 ad opera della FIOM-CIGL, debbano in- terpretarsi nel senso che la disdetta tempestivamente esercitata, seguita dalla sottoscrizione di un nuovo contratto nazionale 151, fa venir meno la vincolatività del precedente CCNL, senza che il dissenso di una parte possa costringere le altre a continuare a rispettare una disciplina contrattuale nel- la quale non si riconoscono più, le parti saranno libere da vincoli prece- dentemente assunti e disdettati.
Il ché significa che la parte dissenziente non potrà neppure pretendere l’applicazione nei suoi confronti del vecchio contratto disdettato, dal mo- mento che ciò di fatto significherebbe costringere l’altra parte a rimanervi vincolata 152.
Resta la questione, certamente «spinosa», dell’ambito di efficacia sogget- tiva del nuovo accordo concluso soltanto da alcuni soggetti sindacali con l’espresso dissenso di altri.
Senza entrare nel merito della delicata questione, ci si limita ad osserva- re che anche in questo caso va salvaguardata la libertà sindacale negativa, questa volta della parte dissenziente, alla quale non potrà essere imposto il contratto che non ha voluto sottoscrivere.
Tornando al dibattito teorico, si può allora concludere che le vicende del rinnovo del CCNL Metalmeccanici nonché della firma del Protocollo di gennaio 2009 offrono ulteriori argomenti a favore dell’ammissibilità del recesso dal contratto collettivo, dimostrando ancora una volta che il siste- ma delle relazioni industriali è inevitabilmente instabile anche quando, come nel caso di specie, le parti hanno previsto delle regole, quali gli artt. 36 e 2 dei citati CCNL, volte a governare l’efficacia nel tempo dell’accordo.
Se ne può ricavare un ulteriore segnale della compatibilità del recesso con un sistema di regole fisiologicamente soggette a continui mutamenti.
151 Il che – come correttamente rilevato da X. XXXXXXXX, L’accordo interconfederale del- l’aprile 2009 di riforma del sistema della contrattazione collettiva: brevi note, in Arg. dir. lav. 2009, p. 1021 –, equivale, quanto alla posizione di Federmeccanica che non ha esercitato alcuna disdetta espressa, quale disdetta implicita.
152 In merito alle conseguenze sul piano dei trattamenti economico-normativi si riman- da a quanto contenuto nel paragrafo 2 del capitolo 3.
5. L’ulteriore piano di verifica dell’ammissibilità del recesso dal con- tratto collettivo: recesso e condotta antisindacale
Com’è facilmente intuibile, il recesso dal contratto collettivo può con- temporaneamente coinvolgere due piani distinti, quello individuale, del singolo rapporto di lavoro regolato dalla fonte receduta, di cui si dirà nel capitolo seguente, e quello dei rapporti collettivi, cioè dei rapporti tra il datore di lavoro recedente e le organizzazioni sindacali firmatarie del con- tratto receduto.
La decisione unilaterale del datore di lavoro di sciogliersi dal contratto, incidendo sulla sfera di interessi fatti propri dall’organizzazione sindacale firmataria, comporta che l’interprete si faccia carico di un’ulteriore que- stione che attiene alla valutazione dell’eventuale antisindacalità della con- dotta del datore di lavoro.
Ed infatti, così come non tutte le ipotesi di recesso eventualmente ille- gittimo possono rilevare anche ai sensi della norma statutaria altrettanto un recesso che può risultare lecito secondo i principi civilistici, può al con- tempo apparire illegittimo sul piano dei rapporti sindacali 153-154.
153 Il contenzioso sorto intorno agli anni 1984-1985 a seguito della decisione della Nuo- va Innocenti S.p.A. di disdettare, o meglio recedere, da un contratto aziendale istitutivo del premio ferie, dimostra quanto da ultimo rilevato. Nella fattispecie, la società, dopo aver dato disdetta all’accordo aziendale che prevedeva l’erogazione aggiuntiva della 14° men- silità, in quanto ormai troppo onerosa, aveva continuato, in un primo tempo, ad erogare il premio ivi previsto in misura «congelata» alla data della disdetta. Successivamente, vista l’intransigenza del sindacato nel trovare un nuovo accordo modificativo del precedente, la società aveva dichiarato di ritenere scaduto il contratto aziendale, cessando completamente l’erogazione del suddetto premio (o meglio, precisando che esso veniva computato come acconto sulla retribuzione). I giudici di primo e secondo grado, chiamati a decidere delle controversie promosse dai singoli operai, avevano pressoché unanimemente ritenuta ille- gittima la disdetta dell’accordo aziendale sostenendo che non fosse possibile recedere uni- lateralmente da un contratto, ma solo avviare le «trattative sindacali per la modificazione o sostituzione» dello stesso, che infatti «continua ad impegnare le parti finché non sia stato sostituito o consensualmente disciolto» (Pret. Milano, 2 novembre 1983, in Orient. giur. lav., 1984, p. 761 per quanto riguarda la legittimità della disdetta e Trib. Milano, 23 aprile 1986, in Orient. giur. lav., 1986, p. 341, poi confermata da Xxxx., sez. lav., 17 gennaio 1990, n.
207. in Mass. giur. lav., 1990, p. 144, per quanto riguarda l’antisindacalità del comportamen-
to). Pressoché contemporaneamente il Tribunale di Milano, nel giudizio di appello propo- sto dalla società avverso la pronuncia con cui il Pretore di Milano aveva deciso il giudizio di opposizione contro il decreto ex art. 28 Stat. Lav., ritenuta l’inesistenza di un fine antisin- dacale nel comportamento dell’azienda, riformava la decisione di primo grado mandando assolta la società dalla dichiarazione di antisindacalità della condotta tenuta in quell’oc-
La specialità del diritto del lavoro, e la conseguente necessità di evitare un suo appiattimento sul diritto civile, comporta allora che, come già rile- vato in precedenza, il comportamento risolutivo posto in essere dal datore di lavoro debba essere sottoposto ad un duplice vaglio di legittimità: non basta, cioè, che esso venga considerato legittimo alla stregua dei già ri- chiamati criteri elaborati dal diritto civile, occorrendo altresì che esso risul- ti conforme anche alla norma statutaria.
Si tratta, dunque, di affrontare questa seconda verifica, per la quale ri- sultano necessarie alcune brevi considerazioni generali sulla fattispecie condotta antisindacale come attualmente configurata dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
casione. In particolare, sottolineava il Tribunale che la Nuova Innocenti aveva «il diritto di avere delle opinioni sulla vigenza dell’art. 2071 c.c. e di ritenere che gli accordi sindacali a tempo indeterminato siano suscettibili di denuncia con congruo preavviso» e che, «mo- strando di crederci e conformando il proprio comportamento a tale convincimento» la stessa non aveva «commesso abusi o colpi di forza» passibili «di sospetto di antisindacali- tà». Le decisioni richiamate dimostrano, dunque, come la valutazione del recesso dal- l’accordo in termini di antisindacalità ai sensi dell’art. 28 Stat. non si identifichi con quella di illegittimità dell’atto risolutivo rispetto ai singoli interessati. Sul tema del rapporto tra liceità ed antisindacalità della condotta cfr. Corte cost., 13 febbraio 1974, n. 28, in Xxx. xx. xxx. xxx., 0000, XX, x. 00; in dottrina, sul punto, cfr. X. XXXXXXXX-F. DI NUNZIO, La con- dotta antisindacale, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1989, p. 313 ss., e spec. p. 316 e la giurispru- denza ivi citata, nonché X. XXXXXXX, Osservazioni sul comportamento antisindacale ex art. 28 L. 20 maggio 1970 n. 300 dei datori di lavoro privati e pubblici con riferimento all’eserci- zio del diritto di sciopero, in Mass. giur. lav., 1994, p. 450; ma cfr. X. XXXXX, Autonomia con- trattuale e contratto collettivo di lavoro, cit., p. 230, il quale afferma che «la valutazione del recesso datoriale da un contratto collettivo in termini di antisindacalità, ai sensi dell’art. 28 legge 300/70, si identifica senza residui con quella di illegittimità alla luce del diritto comune dei contratti» nonché Cass., sez. lav., 7 gennaio 1990, n. 207, in Mass. giur. lav., 1990, p. 144 con nota di X. XXXXXXXX, In tema di condotta antisindacale, ove si afferma che non ogni inadempimento del datore di lavoro può «essere interpretato come diretto contro il sindacato» nonché Cass., sez. lav., 19 luglio 1995, in Mass. giur. lav., 1995, p. 683, con nota di X. XXXXXXX, Riflessioni in tema di violaizone del contratto collettivo e condotta antisin- dacale, che, condivisibilmente, ricorda che «ritenere che ricorre una condotta sanzionabile ex art. 28 Stat. Lav. ogni qual volta si sia in presenza di un inadempimento del datore di la- voro agli obblighi scaturenti da accordi e contratti collettivi … finirebbe per determinare conseguenze non agevolmente spiegabili. In sede di esecuzione contrattuale si accredite- rebbe, infatti, una posizione di supremazia del sindacato che … non troverebbe alcuna va- lida giustificazione».
154 Cfr. Trib. Torino, dott. Aprile, 7 novembre 2009.
5.1. Segue: alcuni richiami utili alle principali questioni in tema di condotta antisindacale ed in particolare all’oggetto della tutela ed alla rilevanza del- l’elemento soggettivo nella costruzione della fattispecie
Come è noto, nella fattispecie strutturalmente aperta e teleologicamente determinata di cui all’art. 28 Stat. Lav., il bene leso dal comportamento del datore di lavoro rappresenta l’elemento discriminante per decidere della configurabilità della condotta in termini di antisindacalità, la quale sussiste tutte le volte in cui il fatto o l’atto del datore di lavoro lede un interesse del sindacato, riconducibile all’esercizio dell’attività o libertà sindacale o del diritto di sciopero.
Ciò posto, è ormai comunemente ammessa la rilevanza ai sensi dell’art. 28 Stat. Lav. di condotte che siano direttamente lesive di diritti individuali dei lavoratori, se ed in quanto idonee altresì ad intaccare contemporanea- mente l’interesse dell’organizzazione sindacale (c.d. condotta plurioffensiva). In particolare, è stato riconosciuto che la condotta del datore di lavoro che incide su diritti individuali dei singoli lavoratori può rilevare ai sensi dell’art. 28 Stat. Lav. se ed in quanto «per le circostanze e le modalità con cui viene attuata» comporta «un attentato all’ordine contrattuale e quindi
alla stessa posizione del sindacato» 155.
In altre parole, la condotta tenuta dal datore di lavoro rispetto a posi- zioni che di per sé non riguardano direttamente l’attività o la libertà sinda- cale o l’esercizio del diritto di sciopero, può, ciononostante, rientrare tra quelle sanzionate ai sensi della norma statutaria se, indipendentemente dal- la sua liceità secondo le norme generali, per le modalità con le quali è stata posta in essere (sistematicità, contrarietà a buona fede o correttezza, ecc.) realizza un attentato al sindacato 156.
155 La citazione è presa da X. XXXX, Condotta antisindacale e atti discriminatori, Angeli, Milano, 1974, p. 83; cfr. anche X. XXXXXXXXX, Stabilità del sistema della contrattazione collettiva e condotta antisindacale, in Dir. rel. ind., 1994, p. 181; in giurisprudenza, cfr. Pret. Roma, 1 giugno 1989, in Dir. prat. lav., 1989, p. 2653.
156 Cfr. Cass., 17 gennaio 1990, n. 207, in Mass. giur. lav., 1990, p. 144, ove si sottolinea che «la valutazione del comportamento del datore va condotta con estremo rigore allor- quando emergano violazioni dei disposti dalla parte normativa del contratto contenente previsioni destinate ad operare direttamente sul piano dei rapporti tra datore di lavoro e lavoratori, chiaro essendo che con una diversa visione del problema ogni inadempimento del datore di lavoro potrebbe essere interpretato come diretto contro il sindacato», p. 148; cfr. altresì Cass., 19 luglio 1995, n. 7833, in Mass. giur. lav., 1995, p. 683, la quale rivaluta il ruolo dell’elemento intenzionale nei casi in cui il comportamento datoriale viola la parte normativa del contratto. Vedi però contra Trib. Torino, 8 gennaio 2001, in Mass. giur. lav.,
Sempre in tema di oggetto della tutela ex art. 28 Stat. Lav., occorre al- tresì ricordare che, in merito alla lesione diretta di diritti propri dell’orga- nizzazione sindacale, l’opinione dominante ha a lungo distinto a seconda che i diritti collettivi violati dalla condotta del datore di lavoro avessero o- rigine legislativa ovvero contrattuale.
In un primo tempo, l’ambito di applicazione dell’art. 28 Stat. Lav. è sta- to ristretto alla tutela dei primi, escludendo dallo spettro di azione della norma statutaria la violazione dei diritti di origine negoziale 157.
Solo successivamente, soprattutto su sollecitazione della giurisprudenza di merito, la procedura di repressione della condotta antisindacale è stata aperta anche ai casi di violazione di norme di origine contrattuale 158.
Un’altra questione a lungo discussa ha riguardato il ruolo dell’elemento soggettivo, e quindi dell’intento antisindacale, nella configurazione della fattispecie ex art. 28 Stat. Lav.
Ad una posizione iniziale di chiusura nei confronti della rilevanza del suddetto elemento 159, si era affiancato un secondo filone interpretativo teso a rivalutare la valenza dello stato soggettivo del datore di lavoro nel giudi- zio di antisindacalità, specialmente per quelle ipotesi in cui la considera- zione meramente oggettiva del comportamento non offre indici chiari ed univoci ai fini della verifica dell’antisindacalità del comportamento 160.
2001, p. 302, ove si afferma che «l’art. 28 non tende a risolvere ogni tipo di condotta con- flittuale tra le parti sociali … ma solo a sanzionare l’ipotesi in cui l’inadempimento sia di- retto a frustrare la libertà e l’attività sindacale. Pertanto esulano dalla tutela disposta dall’art. 28 Stat. le doglianze delle oo.ss.ll. relative alla richiesta di recupero di sabati non lavorati ed al mancato riconoscimento di un orario di 40 ore settimanali ad alcuni lavorato- ri a tempo parziale, doglianze queste riconducibili a presunti inadempimenti contrattuali del datore di lavoro e non configuranti suoi comportamenti in contrasto con le norme im- perative destinate a tutelare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale», accogliendo, pertanto, pienamente la tesi meramente oggettiva della condotta antisindacale.
157 Cfr. X. XXXXXX, Attività sindacale e repressione della condotta antisindacale, in Xxx. xxx. xxx., 0000, X, x. 00; X. XXXX, Diritto del lavoro, Cedam, Padova, 1988; in giurispruden- za cfr. Cass., 27 maggio 1982, n. 3263, in Xxx. xxxx. xxx., 0000, XX, x. 000; Cass., 3 novembre
1983, n. 6480, in Mass. giur. lav., 1984, p. 209.
158 Cass., 19 luglio 1995, n. 7833, cit., Cass., 22 luglio 1992, n. 8815, in Notiz. giur. lav.,
1992, p. 611; Cass., 11 ottobre 1989, n. 4063, in Riv. giur. lav., 1990, II, p. 277; Trib. Mila-
no, 24 febbraio 1996, in Lav. giur., 1996, p. 573; Pret. Milano, 29 giugno 1992, in Xxx. xxxx.
xxx., 0000, XX, 00; Pret. Roma, 16 giugno 1990, in Dir. lav., 1990, II, p. 367.
159 Cass., 16 luglio 1992, n. 8610, in Xxx. xxxx. xxx., 0000, XX, x. 000; Cass., 22 luglio
1992, n. 8815, in Notiz. giur. lav., 1992, p. 611.
160 Sul dibattito in tema di rilevanza dell’elemento soggettivo, cfr. X. XXXXXXXXX, No- zione di antisindacalità e abuso del diritto, nota a Cass., 8 settembre 1995, n. 9501, in Mass.
Il dibattito è stato risolto dalla Cassazione, con una decisione a Sezioni Unite 161 nella quale la Suprema Corte ha abbracciato la tesi oggettiva.
Il giudice di legittimità ha, cioè, ritenuto l’elemento soggettivo del tutto neutro rispetto alla fattispecie, affermando che esso, da una parte, non è necessario, ma dall’altra non è neppure da solo sufficiente, a integrare la condotta vietata dall’art. 28 Stat. Lav., per la configurabilità della quale è, invece, indispensabile ed imprescindibile un atto idoneo a ledere i beni protetti dalla norma richiamata.
Dunque, riassumendo brevemente, secondo la tesi prevalente in giuri- sprudenza, la fattispecie di cui all’art. 28 Stat. Lav. si configura tutte le vol- te in cui, indipendentemente dall’intento del datore di lavoro, i beni pro- tetti dalla norma statutaria, rinvenibili in disposizioni di legge e/o di con- tratto, sono lesi in via diretta ovvero anche in via indiretta attraverso una condotta che, pur colpendo direttamente altri beni, quali i diritti indivi- duali dei lavoratori, per le modalità con la quale è posta in essere, realizza al contempo un «attentato» al sindacato ed alla sua legittimazione e/o cre- dibilità.
giur. lav., 1996, p. 14, nonché X. XXXXXXX, Riflessioni in tema di violazione del contratto collettivo e condotta antisindacale, nota a Cass., 19 luglio 1995, n. 7833, in Mass. giur. lav., 1995, p. 683 e X. XXXX, L’elemento psicologico nella condotta antisindacale: permane lo sta- to di incertezza negli orientamenti della Corte di Cassazione, in Giust. civ., 1996, I, 134; cfr. anche X. XXXXXXXX-X. XX XXXXXX, La condotta antisindacale, in Quad. dir. lav. rel. ind. 1989, p. 313, nonché X. XXXXXXXX-X. XXXXXXX, La condotta antisindacale, in Il diritto del lavoro, Commentario, diretto da X. XXXXXXX, Utet, Torino, 2007.
161 Cass., sez. un., 12 giugno 1997, n. 5295, in Mass. giur. lav., 1997, p. 541 con nota di
X. XXXXXXXXX, Intenzionalità e condotta antisindacale, che ha affermato che «per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all’art. 28 Statuto dei lavoratori è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico in- tento lesivo da parte del datore di lavoro né nel caso di condotte tipizzate perché consi- stenti nell’illegittimo diniego di prerogative sindacali (quali il diritto di assemblea, il diritto delle rappresentanze sindacali aziendali a locali idonei allo svolgimento delle loro funzioni, il diritto a permessi sindacali) né nel caso di condotte non tipizzate ed in astratto lecite ma in concreto oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare la libertà sindacale, sicché ciò che il giudice deve accertare è l’obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l’effetto che la disposizione citata intende impedire, ossia la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero». Conf. Cass., 1 dicembre 1999, n. 13383, in Mass. giur. lav., 2000,
p. 340 con nota di X. XXXXXXXXX, Xxxxxx e condotta antisindacale.