Diritto civile
Diritto civile
Il contratto e i contratti
A cura di
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Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxx
Il contratto e i contratti.
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Indice
Il contratto e i contratti
1. Principi generali, struttura
1.1 Cassazione civile , sez. III, sentenza 08.05.2006 n° 10490
1.2 Cassazione civile , SS.UU., sentenza 11.11.2008 n° 26972
1.3 Cassazione civile , SS.UU., sentenza 13.09.2005 n° 18128
1.4 Cassazione civile , sez. III, sentenza 18.09.2009 n° 20106
1.5 Corte Costituzionale, ordinanza del 21.10. 2013, n. 248
1.6 Corte Costituzionale, ordinanza del 2.4. 2014, n. 77
2. L’invalidità
2.1 Cassazione civile , SS.UU., sentenza 12. 12. 2014 n° 26242
All. 1
3. Il procedimento di formazione
3.1 Cassazione civile , SS.UU., sentenza 27.03.2008 n° 7930
3.2 Cass. SS.UU. 24 agosto 2007 n. 17952
3.3 Cass., ordinanza 12 marzo 2014, n. 5779
4. Le sopravvenienze
4.1 Cassazione civile , SS.UU., sentenza 11.04.2014 n° 8510
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Selezione giurisprudenziale
1. Principi generali, struttura
1.1 Cassazione civile , sez. III, sentenza 08.05.2006 n° 10490
Motivi della decisione
Il ricorso, articolato in sei motivi di doglianza, è infondato e va, pertanto, rigettato.
Con il primo motivo, si lamenta violazione ed errata applicazione dell'art. 102 c.p.c. - mancata integrazione del contraddittorio nella pronuncia di simulazione soggettiva.
Il motivo è destituito di giuridico fondamento.
Difatti, secondo la prevalente (anche se non unanime) giurisprudenza di questa Corte di legittimità, la struttura litisconsortile del procedimento di accertamento della fattispecie della simulazione (assoluta o relativa) è a dirsi necessaria soltanto nelle ipotesi in cui detto accertamento abbia a realizzarsi in via principale, e non anche (come nella specie) incidenter tantum, nell'ambito di altro e diverso procedimento (nella specie, di accertamento della nullità di un contratto per impossibilità giuridica dell'oggetto ovvero, più correttamente, per difetto di giustificazione causale concreta dell'atto): in tali sensi, si sono, difatti, espresse le sentenze n. 3727 del 2003, 10841 del 2000, 6214 del 1998 di questa Corte, ed a questa giurisprudenza il collegio ritiene di aderire.
Con il secondo motivo è lamentata la violazione ed errata applicazione degli artt. 1417, 2122, 2729 c.c., sulla prova della simulazione.
Il motivo, prima ancora che privo di pregio giuridico nel merito (esistendo in atti, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la prova documentale della simulazione relativa soggettiva, costituita dalla dichiarazione unilaterale del N., di cui è cenno in narrativa, che, al di là della sua natura e funzione tipica di elemento della fattispecie contrattuale conclusasi con la Gerolimich, integra altresì gli estremi del negozio unilaterale di accertamento implicito della consumata interposizione fittizia) deve ritenersi inammissibile in rito.
La (astratta) possibilità di un suo accoglimento, difatti, si infrange in limine contro il consolidato principio, a più riprese affermato da questa Corte, della autosufficienza del ricorso, che deve, come noto, contenere tutti gli elementi utili a valutare il contenuto e la fondatezza dei rilievi mossi alla pronuncia di merito impugnata: ebbene, a fronte della specifica affermazione che si legge in sentenza (folio 6), secondo la quale "in causa non è stata poi contestata l'affermazione fatta dal tribunale che le prestazioni oggetto del contratto siano state svolte esclusivamente dall'appellante e non da altri soggetti della "Business Gain", sarebbe stato preciso onere del
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ricorrente riprodurre, in parte qua, gli atti difensivi dei precedenti gradi di giudizio funzionali alla dimostrazione che tale questione era, viceversa, stata puntualmente e tempestivamente sollevata in quella sede. La totale assenza, in seno all'odierno ricorso, del benchè minimo cenno a tali atti processuali ha, come inevitabile conseguenza, la declaratoria di inammissibilità del motivo.
Con il terzo motivo, il ricorrente si duole della violazione ed errata applicazione degli artt. 1312, 2331, 2359 c.c. - carenza di motivazione sull'identità fra la consulenza a Gerolimich e le cariche nelle società del gruppo.
Con il quarto motivo, si lamenta, ancora, il vizio di carente e contraddittoria motivazione circa la gratuità dell'incarico all'ing. N..
I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, attesane la intrinseca connessione, sono infondati.
Essi ripropongono, sotto le vesti del difetto di motivazione, questioni di fatto e di interpretazione contrattuale istituzionalmente devolute, in via esclusiva, al giudice del merito.
Ma il procedimento ermeneutico adottato dai giudici milanesi con riferimento al contenuto del complesso tessuto negoziale per il quale è processo, alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, si sottrae a qualsivoglia sindacato di legittimità che, come noto, non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all'ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma esclusivamente il rispetto dei canoni legali di ermeneutica e la coerenza e logicità della motivazione addotta (così, tra le tante, di recente, Cass. n. 2074/2002), canoni, nella specie, ampiamente rispettati: l'indagine sul contenuto, la portata, il significato delle convenzioni negoziale intercorse tra le parti, risulta, difatti, perfettamente conforme a diritto, e la critica della ricostruzione della volontà negoziale sì come operata, nella specie, dal giudice di merito si traduce, in realtà, nella mera prospettazione di una diversa (e più gradita) valuta-zione degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati.
Con il quinto motivo viene contestato il vizio di violazione ed errata applicazione dell'art. 1418 c.c.. per essere stata predicata la fattispecie della nullità "sopravvenuta" - in alternativa, la violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., ed omessa motivazione in relazione alla preesistenza delle cariche amministrative in capo al ricorrente.
Xxxxxxx, in particolare, il ricorrente che, a suo avviso, l'espressione adottata dal giudice milanese ("mancanza di giustificazione concreta del contratto") andava piuttosto intesa nel senso che, a mancare (ovvero a risultare impossibile), fosse in realtà l'oggetto del contratto.
Il motivo è destituito di giuridico fondamento.
Tanto il primo quanto il secondo giudice hanno, difatti, rettamente predicato la nullità della doppia vicenda negoziale collegata sotto il profilo dei difetto causale (così il tribunale milanese), ovvero della mancanza di giustificazione concreta del contratto consuqenziale alla luce della sostanziale identità delle prestazioni svolte dal
N. una volta nella qualità di amministratore della società, l'altra in quella di consulente esterno ad essa (così la Corte d'appello).
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L'affermazione, corretta in punto di diritto, necessiti, peraltro, di alcune puntualizzazioni, avendo la parte ricorrente invocato, nella specie, una diversa eziogenesi della nullità negoziale - conseguente, a suo dire, ad una pretesa "impossibilità dell'oggetto" -, atteso che, a suo dire, il tradizionale concetto di causa intesa come "schema economico-giuridico" posto in essere dalle parti non consentiva di affermare che il negozio stipulato tra le parti ne fosse privo, corrispondendo esso allo schema tipico delineato dall'art. 2222 c.c..
Va preliminarmente escluso che la nullità della convenzione negoziale in parola derivi dalla pretesa impossibilità dell'oggetto del contratto, così come opinato dal ricorrente.
E' noto come la dottrina manualistica sia solita distinguere, quanto all'oggetto della prestazione dedotta in obbligazione, tra impossibilità fisica e giuridica, definendo fisica la impossibilità derivante da prestazione impossibilis in rerum natura (quale la traditio di una cosa distrutta), giuridica quella che, pur non consistendo di per sè in un illecito (ciò che distingue la prestazione ad oggetto impossibile da quella ad oggetto illecito, come la vendita di banconote contraffatte), è purtuttavia inattuabile in conseguenza di un divieto normativo (quale quello di edificazione violando le distanze legali).
E' palese come, nel caso di specie, non ricorra nessuna delle così descritte fattispecie di impossibilità, trattandosi di prestazione (attività di consulenza) possibile tanto nella sua fisicità che sotto il profilo della conformità a norme di diritto, di talchè l'assunto difensivo risulta, in parte qua, infondato.
Merita ulteriore considerazione, invece, la questione, del pari sollevata dal ricorrente, della causa del negozio giuridico stipulato tra le parti.
E' innegabile che, intesa nel comune significato di "funzione economico sociale" del contratto - secondo un approccio ermeneutico, peraltro, di tipo "astratto" -, il negozio oggetto della presente controversia non possa legittimamente dirsi "privo di causa", corrispondendo esso, addirittura, ad uno schema legale tipico, quello disegnato dall'art. 2222 c.c..
Ma, a giudizio di questo collegio, la nozione di causa così delineata non corrisponde, nella specie (così come in via di principio generale) a quella che, dopo attenta riflessione della più recente dottrina, deve ritenersi concetto correttamente predicabile con riferimento al profilo oggettivo della struttura contrattuale.
E' opinione corrente quella secondo cui la prima elaborazione del concetto di causa (sostanzialmente estranea all'esperienza romana come elemento costitutivo del negozio, che doveva corrispondere essenzialmente a "modelli" formali) sia stata il frutto della riflessione dei giuristi d'oltralpe che, tra il 1625 ed il 1699, distinguendo per la prima volta sul piano dogmatico i contratti commutativi dalle donazioni, individueranno nell'obbligazione di una parte verso l'altra il fondamento della teoria causale (e di qui, l'origine storica della perdurante difficoltà a superare la dicotomia contratto di scambio-liberalità donativa). Gli stessirapporti tra la causa e gli altri elementi del contratto, apparentemente indiscussi nei relativi connotati di alterità, paiono, nel progressivo dipanarsi del concetto di causa negotii, talvolta sfumare in zone di confine più opache (si pensi alla relazione causa/volontà nei
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negozi di liberalità; a quella causa/forma ed all'avvicinamento delle due categorie concettuali verificabile nei negozi astratti; a quella causa/oggetto, con le possibili confusioni a seconda della nozione che, di entrambe le categorie giuridiche, ci si risolva di volta in volta ad adottare, oggetto del contratto essendo tanto la rappresentazione ideale di una res dedotta in obbligazione, quanto la res stessa, causa risultando la funzione dello scambio in relazione proprio a quell'oggetto).
Tutte le possibili definizioni di causa succedutesi nel tempo (che un celebre civilista degli anni '40 non esita a definire "oggetto molto vago e misterioso") hanno visto la dottrina italiana in permanente disaccordo (mentre negli altri paesi il dibattito è da tempo sopito), discorrendosi, di volta in volta, di scopo della parte o motivo ultimo (la c.d. teoria soggettiva, ormai adottata dalla moderna dottrina francese, che parla di causa come But); di teoria della controprestazione o teoria oggettiva classica (che sovrappone, del tutto incondivisibilmente, il concetto di causa del contratto con quello di causa/fonte dell'obbligazione); di funzione giuridica ovvero di funzione tipica (rispettivamente intese in guisa di sintesi degli effetti giuridici essenziali del contratto, ovvero di identificazione del tipo negoziale - che consente ad alcuni autori di predicare la sostanziale validità del negozio simulato sostenendone la presenza di una causa, intesa come "tipo" negoziale astratto, sia pur fittizio, quale una donazione, una compravendita, ecc. -); di funzione economico-sociale, infine, cara alla c.d. teoria oggettiva, formalmente accolta dal codice del 42, del tutto svincolata dagli scopi delle parti all'esito di un processo di astrazione da essi (per tacere delle teorie anticausalistiche, di derivazione tedesca, con identificazione della causa nell'oggetto o nel contenuto - Inhalt - del contratto, non indicando il codice tedesco la causa tra gli elementi costitutivi del contratto).
La definizione del codice è, in definitiva, quella di funzione economico-sociale del negozio riconosciuta rilevante dall'ordinamento ai fini di giustificare la tutela dell'autonomia privata (così, testualmente, la relazione del ministro guardasigilli); ma è noto che, da parte della più attenta dottrina, e di una assai sporadica e minoritaria giurisprudenza (Cass. Sez. 1^, 7 maggio 1998, n. 4612, in tema di Sale & lease back) Sez. 1^, 6 agosto 1997, n. 7266, in tema di patto di non concorrenza; Sez. 2^, 15 maggio 1996, n. 4503, in tema di rendita vitalizia), si discorre da tempo di una fattispecie causale "concreta", e si elabori una ermeneutica del concetto di causa che, sul presupposto della obsolescenza della matrice ideologica che configura la causa del contratto come strumento di controllo della sua utilità sociale, affonda le proprie radici in una serrata critica della teoria della predeterminazione causale del negozio (che, a tacer d'altro, non spiega come un contratto tipico possa avere causa illecita), ricostruendo tale elemento in termini di sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato). Sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale, si badi, e non anche della volontà delle parti. Causa, dunque, ancora iscritta nell'orbita della dimensione funzionale dell'atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l'uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale.
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Così rottamente intesa la nozione di causa del negozio, appare allora evidente come, nel caso che ci occupa, sia proprio il difetto di causa a viziare irrimediabilmente di nullità il contratto di consulenza, intesa per causa lo scambio di quella ben identificata attività consulenziale, già simmetricamente e specularmene svolta in adempimento dei propri doveri di amministratore, con il compenso preteso dal N..
Con il sesto nativo, infine, il ricorrente si duole infine di una pretesa carenza e contraddittorietà di motivazione in punto di negazione del corrispettivo consulenziale anche per 11 periodo non coincidente con la carica amministrativa.
Il motivo è del tutto inammissibile, ponendo, da un canto, questioni affatto nuove rispetto a quelle affrontate e decise dalla corte meneghina in sentenza, difettando, dall'altro, del già sopra ricordato requisito della autosufficienza, poichè manca del tutto la pur necessaria trascrizione, in parte qua, dei passi salienti e rilevanti dei relativi atti scritti.
Il ricorso è, pertanto, rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo che segue.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 7.100,00 di cui 100,00 per spese generali.
Così deciso in Roma, il 25 gennaio 2006. Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2006.
1.2 Cassazione civile , SS.UU., sentenza 11.11.2008 n° 26972
MOTIVI DELLA DECISONE
A) Esame della questione di particolare importanza
1. L'ordinanza di rimessione n. 4712/2008 - relativa al ricorso n. 10517/2004, alla quale integralmente rinvia l'ordinanza della terza sezione che eguale questione ha ritenuto sussistere nel ricorso in esame - rileva che negli ultimi anni si sono formati in tema di danno non patrimoniale due contrapposti orientamenti giurisprudenziali, l'uno favorevole alla configurabilità, come autonoma categoria, del danno esistenziale - inteso, secondo una tesi dottrinale che ha avuto seguito nella giurisprudenza, come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico, in assenza di lesione dell'integrità psico-fisica, e dal ed. danno morale soggettivo, in quanto non attiene alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare areddituale del soggetto - l'altro contrario.
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Osserva l'ordinanza che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno ridefinito rispetto alle opinioni tradizionali presupposti e contenuti del risarcimento del danno non patrimoniale. Quanto ai presupposti hanno affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile non solo nei casi espressamente previsti dalla legge, secondo la lettera dell'art. 2059 c.c., ma anche in tutti i casi in cui il fatto illecito abbia leso un interesse o un valore della persona di rilievo costituzionale non suscettibile di valutazione economica. Quanto ai contenuti, hanno ritenuto che il danno non patrimoniale, pur costituendo una categoria unitaria, può essere distinto in pregiudizi di tipo diverso: biologico, morale ed esistenziale.
A questo orientamento, prosegue l'ordinanza di rimessione, ha dato continuità la Corte costituzionale, la quale, con sentenza n. 233/2003, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c., ha tributato un espresso riconoscimento alla categoria del "danno esistenziale, da intendersi quale terza sottocategoria di danno non patrimoniale.
Ricorda ancora l'ordinanza di rimessione che altre decisioni di legittimità hanno ritenuto ammissibile la configurabilità di un tertium genus di danno non patrimoniale, definito "esistenziale": tale danno consisterebbe in qualsiasi compromissione delle attività realizzatrici della persona umana (quali la lesione della serenità familiare o del godimento di un ambiente salubre), e si distinguerebbe sia dal danno biologico, perché non presuppone l'esistenza di una lesione in corpore, sia da quello morale, perché non costituirebbe un mero patema d'animo interiore di tipo soggettivo. Tra le decisioni rilevanti in tal senso l'ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 7713/2000, n. 9009/2001, n. 6732/2005, n. 13546/2006, n. 2311/2007, e, soprattutto, la sentenza delle Sezioni unite n. 6572/2006, la quale ha dato una precisa definizione del danno esistenziale da lesione del fare areddittuale della persona, ed una altrettanto precisa distinzione di esso dal danno morale, in quanto, al contrario di quest'ultimo, il danno esistenziale non ha natura meramente emotiva ed interiore.
L'ordinanza di rimessione osserva poi che al richiamato orientamento, favorevole alla configurabilità del danno esistenziale come categoria autonoma di danno non patrimoniale, si è contrapposto un diverso orientamento, il quale nega dignità concettuale alla nuova figura di danno.
Secondo questo diverso orientamento il danno non patrimoniale, essendo risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, tra i quali rientrano, in virtù della interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. fornita dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, i casi di lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti, manca del carattere della atipicità, che invece caratterizza il danno patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 2043 c.c. Di conseguenza non sarebbe possibile concepire categorie generalizzanti, come quella del danno esistenziale, che finirebbero per privare il danno non patrimoniale del carattere della tipicità. Tra le decisioni espressione di questo orientamento l'ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 15760/2006, n. 23918/2006, n. 9510/2006, n. 9514/2007, n. 14846/2007.
Così riassunti i contrapposti orientamenti, l'ordinanza di rimessione conclude invitando le Sezioni unite a pronunciarsi sui seguenti otto "quesiti".
1. Se sia concepibile un pregiudizio non patrimoniale, diverso tanto dal danno morale quanto dal danno biologico, consistente nella lesione del fare areddituale della vittima e scaturente dalla lesione di valori costituzionalmente garantiti.
2. Se sia corretto ravvisare le caratteristiche di tale pregiudizio nella necessaria sussistenza di una offesa grave ad un valore della persona, e nel carattere di gravità e permanenza delle conseguenze da essa derivate.
3. Se sia corretta la teoria che, ritenendo il danno non patrimoniale "tipico", nega la concepibilità del danno esistenziale.
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4. Se sia corretta la teoria secondo cui il danno esistenziale sarebbe risarcibile nel solo ambito contrattuale e segnatamente nell'ambito del rapporto di lavoro, ovvero xxxxx affermarsi il più generale principio secondo cui il danno esistenziale trova cittadinanza e concreta applicazione tanto nel campo dell'illecito contrattuale quanto in quello del torto aquiliano.
5. Se sia risarcibile un danno non patrimoniale che incida sulla salute intesa non come integrità psicofisica, ma come sensazione di benessere.
6. Quali debbano essere i criteri di liquidazione del danno esistenziale.
7. Se costituisca peculiare categoria di danno non patrimoniale il ed. danno tanatologico o da morte immediata.
8. Quali siano gli oneri di allegazione e di prova gravanti sul chi domanda il ristoro del danno esistenziale.
2. Il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall'art. 2059 c.c. ("Danni non patrimoniali") secondo cui "Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge ".
All'epoca dell'emanazione del codice civile l'unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell'art. 185 del codice penale del 1930.
La giurisprudenza, nel dare applicazione all'art. 2059 c.c., si consolidò nel ritenere che il danno non patrimoniale era risarcibile solo in presenza di un reato e ne individuò il contenuto nel ed. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza contingente, turbamento dell'animo transeunte.
2.1. L'insostenibilità di siffatta lettura restrittiva è stata rilevata da questa Corte con le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, in cui si è affermato che nel vigente assetto dell'ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione - che, all'art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo - il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.
Sorreggono l'affermazione i seguenti argomenti:
a) il cospicuo incremento, nella legislazione ordinaria, dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell'ipotesi di reato, in relazione alla compromissione di valori personali (art. 2 1. n. 117/1998; art 29, comma 9, 1. n. 675/1996; art. 44, comma 7, d.lgs. n. 286/1998; art. 2 1. n. 89/2001, con conseguente ampliamento del rinvio effettuato dall'art. 2059 c.c. ai casi determinati dalla legge;
b) il riconoscimento nella giurisprudenza della Cassazione (a partire dalla sentenza n. 3675/1981) di quella peculiare figura di danno non patrimoniale, diverso dal danno morale soggettivo, che è il danno biologico, formula con la quale si designa la lesione dell'integrità psichica e fisica della persona;
c) l'estensione giurisprudenziale del risarcimento del danno non patrimoniale, evidentemente inteso come pregiudizio diverso dal danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche (sent. n. 2367/2000);
d) l'esigenza di assicurare il risarcimento del danno non patrimoniale, anche in assenza di reato, nel caso di lesione di interessi di rango costituzionale, sia perché in tal caso il risarcimento costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a limiti specifici, poiché ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi, sia perché il rinvio ai casi in cui la legge consente il risarcimento del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti la persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di risarcimento del danno non patrimoniale.
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2.2. Queste Sezioni unite condividono e fanno propria la lettura, costituzionalmente orientata, data dalle sentenze
n. 8827 e n. 8828/2003 all'art. 2059 c.c. e la completano nei termini seguenti.
2.3. Il danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l'art. 2059 c.c., si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.
Il suo risarcimento postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l'illecito civile extracontrattuale definito dall'art. 2043 c.c.
L'art. 2059 c.c. non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell'illecito civile, che si ricavano dall'art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest'ultimo dall'ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata: Corte cost. n. 372/1994; S.u. n. 576, 581, 582, 584/2008).
2.4. L'art. 2059 c.c. è norma di rinvio. Il rinvio è alle leggi che determinano i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale. L'ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale si ricava dall'individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela.
2.5. Si tratta, in primo luogo, dell'art. 185 c.p., che prevede la risarcibilità del danno patrimoniale conseguente a reato ("Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui").
2.6. Altri casi di risarcimento anche dei danni non patrimoniali sono previsti da leggi ordinarie in relazione alla compromissione di valori personali (art. 2 1. n. 117/1998: danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall'esercizio di funzioni giudiziarie; art 29, comma 9, 1. n. 675/1996: impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; art. 44, comma 7, d.lgs. n. 286/1998: adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; art. 2 1. n. 89/2001: mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo).
2.7. Al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.
Per effetto di tale estensione, va ricondotto nell'ambito dell'art. 2059 c.c., il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno biologico, del quale è data, dagli artt. 138 e 139 d.lgs. n. 209/2005, specifica definizione normativa (sent. n. 15022/2005; n. 23918/2006). In precedenza, come è noto, la tutela del danno biologico era invece apprestata grazie al collegamento tra l'art. 2043 c.c. e l'art. 32 Cost. (come ritenuto da Corte cost. n. 184/1986), per sottrarla al limite posto dall'art. 2059 c.c., norma nella quale avrebbe ben potuto sin dall'origine trovare collocazione (come ritenuto dalla successiva sentenza della Corte n. 372/1994 per il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria).
Trova adeguata collocazione nella norma anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (sent. n. 8827 e n. 8828/2003, concernenti la fattispecie del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto).
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Eguale sorte spetta al danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all'immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost. (sent. n. 25157/2008).
2.8. La rilettura costituzionalmente orientata dell'art. 2959 c.c., come norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale inteso nella sua più ampia accezione, riporta il sistema della responsabilità aquiliana nell'ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) (sent. n.8827/2003; n. 15027/2005; n. 23918/2006).
Sul piano della struttura dell'illecito, articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l'evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza), le due ipotesi risarcitorie si differenziano in punto di evento dannoso, e cioè di lesione dell'interesse protetto.
Sotto tale aspetto, il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l'ingiustizia del danno di cui all'art. 2043 c.c. la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (sent. 500/1999), mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perché tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona (sent. n. 15027/2005; n. 23918/2006).
2.9. La risarcibilità del danno non patrimoniale postula, sul piano dell'ingiustizia del danno, la selezione degli interessi dalla cui lesione consegue il danno. Selezione che avviene a livello normativo, negli specifici casi determinati dalla legge, o in via di interpretazione da parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona necessariamente presidiato dalla minima tutela risarcitoria.
2.10. Nell'ipotesi in cui il fatto illecito si configuri (anche solo astrattamente: S.u. n. 6651/1982) come reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori eventuali danneggiati (nel caso di illecito plurioffensivo: sent. n. 4186/1998; S.u. n. 9556/2002), nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.
La limitazione alla tradizionale figura del ed. danno morale soggettivo transeunte va definitivamente superata. La figura, recepita per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poiché né l'art. 2059 x.x. xx x'xxx. 000 x.x. xxxxxxx xx xxxxx morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poiché la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l'effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo (lo riconosceva quella giurisprudenza che, nel caso di morte del soggetto danneggiato nel corso del processo, commisurava il risarcimento sia del danno biologico che di quello morale, postulandone la permanenza. al tempo di vita effettiva: n.19057/2003; n. 3806/2004; n. 21683/2005) .
Va conseguentemente affermato che, nell'ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula "danno morale" non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.
In ragione della ampia accezione del danno non patrimoniale, in presenza del reato é risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (come avverrà, nel caso del reato di lesioni colpose, ove si configuri danno biologico per la vittima, o nel caso di uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione del rapporto parentale), ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non presidiati da siffatti diritti, ma meritevoli di tutela in base
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all'ordinamento (secondo il criterio dell'ingiustizia ex art. 2043 c.c.), poiché la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal rango dell'interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato. Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell'interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale.
2.11. Negli altri casi determinati dalla legge la selezione degli interessi è già compiuta dal legislatore. Va notato che, nei casi previsti da leggi vigenti richiamati in precedenza, il risarcimento è collegato alla lesione di diritti inviolabili della persona: alla libertà personale, alla riservatezza, a non subire discriminazioni.
Non può tuttavia ritenersi precluso al legislatore ampliare il catalogo dei casi determinati dalla legge ordinaria prevedendo la tutela risarcitoria non patrimoniale anche in relazione ad interessi inerenti la persona non aventi il rango costituzionale di diritti inviolabili, privilegiandone taluno rispetto agli altri (Corte cost. n. 87/1979).
Situazione che non ricorre in relazione ai diritti predicati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata con la legge n. 88 del 1955, quale risulta dai vari Protocolli susseguitisi, ai quali non spetta il rango di diritti costituzionalmente protetti, poiché la Convenzione, pur essendo dotata di una natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri Trattati internazionali, non assume, in forza dell'art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale, né può essere parificata, a tali fini, all'efficacia del diritto comunitario nell'ordinamento interno (Corte cost. n. 348/2007).
2.12. Fuori dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata.
2.13. In tali ipotesi non emergono, nell'ambito della categoria generale "danno non patrimoniale", distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale.
E' solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, come avviene, ad esempio, nel caso di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di danno biologico. Ci si riferisce in tal modo ad una figura che ha avuto espresso riconoscimento normativo negli artt. 138 e 139 d.lgs. n. 209/2005, recante il Codice delle assicurazioni private, che individuano il danno biologico nella "lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito", e ne danno una definizione suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.
Xx è ancora a fini descrittivi che, nel caso di lesione dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), si utilizza la sintetica definizione di danno da perdita del rapporto parentale.
In tal senso, e cioè come mera sintesi descrittiva, vanno intese le distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale) adottate dalle sentenze gemelle del 2003, e recepite dalla sentenza, n. 233/2003 della Corte costituzionale.
Le menzionate sentenze, d'altra parte, avevano avuto cura di precisare che non era proficuo ritagliare all'interno della generale categoria del danno non patrimoniale specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo (n. 8828/2003) , e di rilevare che la lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. doveva essere riguardata non già come occasione di incremento delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione del risarcimento degli stessi pregiudizi), ma come mezzo per colmare le lacune della tutela risarcitoria della persona (n. 8827/2003) . Considerazioni che le Sezioni unite condividono.
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2.14. Il catalogo dei casi in tal modo determinati non costituisce numero chiuso.
La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell'apertura dell'art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all'interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l'ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana.
3. Si pone ora la questione se, nell'ambito della tutela risarcitoria del danno non patrimoniale, possa inserirsi, come categoria autonoma, il c.d. danno esistenziale.
3.1. Secondo una tesi elaborata in dottrina nei primi anni '90 il danno esistenziale era inteso come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico (all'epoca risarcito nell'ambito dell'art. 2043 c.c. in collegamento con l'art. 32 Cost.), in assenza di lesione dell'integrità psicofisica, e dal ed. danno morale soggettivo (unico danno non patrimoniale risarcibile, in presenza di reato, secondo la tradizionale lettura restrittiva dell'art. 2059 c.c. in collegamento all'art. 185 c.p.), in quanto non attinente alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare non reddituale del soggetto.
Tale figura di danno nasceva dal dichiarato intento di ampliare la tutela risarcitoria per i pregiudizi di natura non patrimoniale incidenti sulla persona, svincolandola dai limiti dell'art. 2059 c.c., e seguendo la via, già percorsa per il danno biologico, di operare nell'ambito dell'art. 2043 c.c. inteso come norma regolatrice del risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale concernente la persona.
Si affermava che, nel caso in cui il fatto illecito limita le attività realizzatrici della persona umana, obbligandola ad adottare nella vita di tutti i giorni comportamenti diversi da quelli passati, si realizza un nuovo tipo di danno (rispetto al danno morale soggettivo ed al danno biologico) definito con l'espressione "danno esistenziale"
Il pregiudizio era individuato nella alterazione della vita di relazione, nella perdita della qualità della vita, nella compromissione della dimensione esistenziale della persona. Pregiudizi diversi dal patimento intimo, costituente danno morale soggettivo, perché non consistenti in una sofferenza, ma nel non poter più fare secondo i modi precedentemente adottati, e non integranti danno biologico, in assenza di lesione all'integrità psicofisica.
3.2. Va rilevato che, già nel quadro dell'art. 2043 c.c. nel quale veniva inserito, la nuova figura di danno si risolveva nella descrizione di un pregiudizio di tipo esistenziale (il peggioramento della qualità della vita, l'alterazione del fare non reddituale), non accompagnata dalla necessaria individuazione, ai fini del requisito dell'ingiustizia del danno, di quale fosse l'interesse giuridicamente rilevante leso dal fatto illecito, e l'insussistenza della lesione di un interesse siffatto era ostativa all'ammissione a risarcimento.
Di siffatta carenza, non percepita dalla giurisprudenza di merito, mostratasi favorevole ad erogare tutela risarcitoria al danno così descritto (danno-conseguenza) senza svolgere indagini sull'ingiustizia del danno (per lesione dell'interesse), è stata invece avvertita questa Corte, in varie pronunce precedenti alle sentenze gemelle del 2003.
La sentenza n. 7713/2000, pur discorrendo di danno esistenziale, ed impiegando il collegamento tra art. 2043 c.c. e norme della Costituzione (nella specie gli artt. 29 e 30), analogamente a quanto all'epoca avveniva per il danno biologico, ravvisò il fondamento della tutela nella lesione del diritto costituzionalmente protetto del figlio all'educazione ed all'istruzione, integrante danno-evento. La decisione non sorregge quindi la tesi che vede il danno esistenziale come categoria generale e lo dice risarcibile indipendentemente dall'accertata lesione di un interesse rilevante.
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La menzione del danno esistenziale si rinviene anche nella sentenza n. 4783/2001, che ha definito esistenziale la sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche (e quindi in presenza di reato), alle quali era seguita dopo breve tempo la morte, ed era rimasta lucida durante l'agonia, e riconosciuto il risarcimento del danno agli eredi della vittima. La decisione non conforta la teoria del danno esistenziale. Nel quadro di una costante giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per le perdita della vita (sent. n. 1704/1997, n. 491/1999, n. 13336/1999, n. 887/2002, n. 517/2006), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile (sent. n. 6404/1998, n. 9620/2003, n. 4754/2004, n. 15404/2004), ed a questo lo commisura, la sentenza persegue lo scopo di riconoscere il risarcimento, a diverso titolo, delle sofferenze coscientemente patite in quel breve intervallo. Viene qui in considerazione il tema della risarcibilità della sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo. Sofferenza che, non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione. Né, d'altra parte, può in questa sede essere rimeditato il richiamato indirizzo giurisprudenziale, non essendosi manifestato in questa Corte un argomentato dissenso.
In tema di danno da irragionevole durata del processo (art. 2 della legge n. 89/2001) la sentenza n. 15449/2002, ha espressamente negato la distinta risarcibilità del pregiudizio esistenziale, in quanto costituente solo una "voce" del danno non patrimoniale, risarcibile per espressa previsione di legge.
Altre decisioni hanno riconosciuto, nell'ambito del rapporto di lavoro (e quindi in tema di responsabilità contrattuale, ponendo questione sulla quale si tornerà più avanti), il danno esistenziale da mancato godimento del riposo settimanale (sent. n. 9009/2001) e da demansionamento (sent. n. 8904/2003), ravvisando nei detti casi la lesione di diritti fondamentali del lavoratore, e quindi ricollegando la risarcibilità ad una ingiustizia costituzionalmente qualificata.
Al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l'errato taglio di capelli, l'attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l'invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell'animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall'individuazione dell'interesse leso, e quindi del requisito dell'ingiustizia.
3.3. Questi erano dunque i termini nei quali viveva, nelle opinioni della dottrina e nelle applicazioni della giurisprudenza, la figura del danno esistenziale.
Dopo che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno fissato il principio, condiviso da queste Sezioni unite, secondo cui, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., unica norma disciplinante il risarcimento del danno non patrimoniale, la tutela risarcitoria di questo danno è data, oltre che nei casi determinati dalla legge, solo nel caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona, e cioè in presenza di una ingiustizia costituzionalmente qualificata, di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere.
3.4. Come si è ricordato, la figura del danno esistenziale era stata proposta nel dichiarato intento di supplire ad un vuoto di tutela, che ormai più non sussiste.
3.4.1. In presenza di reato, superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d'animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale
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nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile.
La tutela risarcitoria sarà riconosciuta se il pregiudizio sia conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall'ordinamento positivo, ivi comprese le convenzioni internazionali (come la già citata Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata con la legge n. 88 del 1955), e cioè purché sussista il requisito dell'ingiustizia generica secondo l'art. 2043 c.c. E la previsione della tutela penale costituisce sicuro indice della rilevanza dell'interesse leso.
3.4.2. In assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona.
Ipotesi che si realizza, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto (ed. danno da perdita del rapporto parentale), poiché il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.).
In questo caso, vengono in considerazione pregiudizi che, in quanto attengono all'esistenza della persona, per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che tuttavia possa configurarsi una autonoma categoria di danno.
Altri pregiudizi di tipo esistenziale attinenti alla sfera relazionale della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell'ambito del danno biologico (comprensivo, secondo giurisprudenza ormai consolidata, sia del ed. "danno estetico" che del ed. "danno alla vita di relazione"), saranno risarcibili purché siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità psicofisica.
Ipotesi che si verifica nel caso (esaminato dalla sentenza n. 6607/1986) dell'illecito che, cagionando ad una persona coniugata l'impossibilità di rapporti sessuali è immediatamente e direttamente lesivo del diritto dell'altro coniuge a tali rapporti, quale diritto-dovere reciproco, inerente alla persona, strutturante, insieme agli altri diritti- doveri reciproci, il rapporto di coniugio. Nella fattispecie il pregiudizio è conseguente alla violazione dei diritti inviolabili della famiglia spettanti al coniuge del soggetto leso nella sua integrità psicofisica.
3.5. Il pregiudizio di tipo esistenziale, per quanto si è detto, è quindi risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno. Se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria.
Per superare tale limitazione, è stata prospettata la tesi secondo cui la rilevanza costituzionale non deve attenere all'interesse leso, bensì al pregiudizio sofferto. Si sostiene che, incidendo il pregiudizio di tipo esistenziale, consistente nell'alterazione del fare non reddituale, sulla sfera della persona, per ciò soltanto ad esso va riconosciuta rilevanza costituzionale, senza necessità di indagare la natura dell'interesse leso e la consistenza della sua tutela costituzionale.
La tesi pretende di vagliare la rilevanza costituzionale con riferimento al tipo di pregiudizio, cioè al danno- conseguenza, e non al diritto leso, cioè all'evento dannoso, in tal modo confonde il piano del pregiudizio da riparare con quello dell'ingiustizia da dimostrare, e va disattesa.
Essa si risolve sostanzialmente nell'abrogazione surrettizia dell'art. 2059 c.c. nella sua lettura costituzionalmente orientata, perché cancella la persistente limitazione della tutela risarcitoria (al di fuori dei casi determinati dalla legge) ai casi in cui il danno non patrimoniale sia conseguenza della lesione di un diritto inviolabile della persona, e cioè in presenza di ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento dannoso.
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3.6. Ulteriore tentativo di superamento dei limiti segnati dalla lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059
c.c. è incentrato sull'assunto secondo cui il danno esistenziale non si identifica con la lesione di un bene costituzionalmente protetto, ma può scaturire dalla lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante.
La tesi è inaccettabile, in quanto si risolve nel ricondurre il preteso danno sotto la disciplina dell'art. 2043 c.c., dove il risarcimento è dato purché sia leso un interesse genericamente rilevante per l'ordinamento, contraddicendo l'affermato principio della tipicità del danno non patrimoniale.
E non è prospettabile illegittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c., come rinvigorito da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003, in quanto non ammette a risarcimento, al di fuori dei casi previsti dalla legge (reato ed ipotesi tipiche), i pregiudizi non patrimoniali conseguenti alla lesione non di diritti inviolabili, ma di interessi genericamente rilevanti, poiché la tutela risarcitoria minima ed insopprimibile vale soltanto per la lesione dei diritti inviolabili (Corte cost. n. 87/1979).
3.7. Il superamento dei limiti alla tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali, che permangono, nei termini suesposti, anche dopo la rilettura conforme a Costituzione dell'art. 2059 c.c., può derivare da una norma comunitaria che preveda il risarcimento del danno non patrimoniale senza porre limiti, in ragione della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno.
Va ricordato che l'effetto connesso alla vigenza di norma comunitaria è quello non già di caducare, nell'accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale (Corte cost. n. 170/1984; S.u. n. 1512/1998; Cass. n. 4466/2005).
3.8. Queste Sezioni unite, con la sentenza n. 6572/2006, trattando il tema del riparto degli oneri probatori in tema di riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale biologico o esistenziale da demansionamento o dequalificazione, nell'ambito del rapporto di lavoro, hanno definito il danno esistenziale, come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. La pronuncia è stata seguita da altre sentenze (n. 4260/2007; n. 5221/2007; n. 11278/2007; n. 26561/2007).
Non sembra tuttavia che tali decisioni, che si muovono nell'ambito della affermata natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro (così ponendo la più ampia questione della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento di obbligazioni, che sarà trattata più avanti e positivamente risolta), confortino la tesi di quanti configurano il danno esistenziale come autonoma categoria, destinata ad assumere rilievo anche al di fuori dell'ambito del rapporto di lavoro.
Le menzionate sentenze individuano specifici pregiudizi di tipo esistenziale da violazioni di obblighi contrattuali nell'ambito del rapporto di lavoro. In particolare, dalla violazione dell'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.). Vengono in considerazione diritti della persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione, grazie all'art. 32 Cost., quanto alla tutela dell'integrità fisica, ed agli art. 1, 2, 4 e 35 Cost., quanto alla tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili, la cui lesione dà luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale. Si verte, in sostanza, in una ipotesi di risarcimento di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista.
3.9. Palesemente non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più
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disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità. Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici. Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale.
In tal senso, per difetto dell'ingiustizia costituzionalmente qualificata, è stato correttamente negato il risarcimento ad una persona che si affermava "stressata" per effetto dell'istallazione di un lampione a ridosso del proprio appartamento per la compromissione della serenità e sicurezza, sul rilievo che i menzionati interessi non sono presidiati da diritti di rango costituzionale (sent. n. 3284/2008). [NdR Vedi BUFFONE - Diritto alla salute e danno esistenziale in Altalex]
E per eguale ragione non è stato ammesso a risarcimento il pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l'uomo e l'animale, privo, nell'attuale assetto dell'ordinamento, di copertura costituzionale (sent. n.14846/2007).
3.10. Il risarcimento di pretesi danni esistenziali è stato frequentemente richiesto ai giudici di pace ed ha dato luogo alla proliferazione delle ed. liti bagatellari.
Con tale formula si individuano le cause risarcitorie in cui il danno conseguenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto.
In entrambi i casi deve sussistere la lesione dell'interesse in termini di ingiustizia costituzionalmente qualificata, restando diversamente esclusa in radice (al dei fuori dei casi previsti dalla legge) l'invocabilità dell'art. 2059 c.c.
La differenza tra i due casi è data dal fatto che nel primo, nell'ambito dell'area del danno-conseguenza del quale è richiesto il ristoro è allegato un pregiudizio esistenziale futile, non serio (non poter più urlare allo stadio, fumare o bere alcolici), mentre nel secondo è l'offesa arrecata che è priva di gravità, per non essere stato inciso il diritto oltre una soglia minima: come avviene nel caso del graffio superficiale dell'epidermide, del mal di testa per una sola mattinata conseguente ai fumi emessi da una fabbrica, dal disagio di poche ore cagionato dall'impossibilità di uscire di casa per l'esecuzione di lavori stradali di pari durata (in quest'ultimo caso non è leso un diritto inviolabile, non spettando tale rango al diritto alla libera circolazione di cui all'art. 16 Cost., che può essere limitato per varie ragioni).
3.11. La gravità dell'offesa costituisce requisito ulteriore per l'ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza.
Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.).
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Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (criterio sovente utilizzato in materia di lavoro, sent. n. 17208/2002; n. 9266/2005, o disciplinare, S.u. n. 16265/2002).
3.12. I limiti fissati dall'art. 2059 c.c. non possono essere ignorati dal giudice di pace nelle cause di valore non superiore ad euro millecento, in cui decide secondo equità.
La norma, nella lettura costituzionalmente orientata accolta da queste Sezioni unite, in quanto pone le regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale, costituisce principio informatore della materia in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, che il giudice di pace, nelle questioni da decidere secondo equità, deve osservare (Corte cost. n. 206/2004).
3.13. In conclusione, deve ribadirsi che il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata "danno esistenziale", perché attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell'atipicità, sia pure attraverso l'individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario né è necessitata dall'interpretazione costituzionale dell'art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione (principi enunciati dalle sentenze n. 15022/2005, n. 11761/2006, n. 23918/2006, che queste Sezioni unite fanno propri).
3.14. Le considerazioni svolte valgono a dare risposta negativa a tutti i quesiti, in quanto postulanti la sussistenza della autonoma categoria del danno esistenziale.
4. 11 danno non patrimoniale conseguente all'inadempimento delle obbligazioni, secondo l'opinione prevalente in dottrina ed in giurisprudenza, non era ritenuto risarcibile.
L'ostacolo era ravvisato nella mancanza, nella disciplina della responsabilità contrattuale, di una norma analoga all'art. 2059 c.c., dettato in materia di fatti illeciti.
Per aggirare l'ostacolo, nel caso in cui oltre all'inadempimento fosse configurabile lesione del principio del neminem laedere, la giurisprudenza aveva elaborato la teoria del cumulo delle azioni, contrattuale ed extracontrattuale (sent. n. 2975/1968, seguita dalla n. 8656/1996, nel caso del trasportato che abbia subito lesioni nell'esecuzione del contratto di trasporto; sent. n. 8331/2001, in materia di tutela del lavoratore).
A parte il suo dubbio fondamento dogmatico (contestato in dottrina), la tesi non risolveva la questione del risarcimento del danno non patrimoniale in senso lato, poiché lo riconduceva, in relazione all'azione extracontrattuale, entro i ristretti limiti dell'art. 2059 c.c. in collegamento con l'art. 185 c.p., sicché il risarcimento era condizionato alla qualificazione del fatto illecito come reato ed era comunque ristretto al solo danno morale soggettivo.
Dalle strettoie dell'art. 2059 c.c. si sottraeva il danno biologico, azionato in sede di responsabilità aquiliana, grazie al suo inserimento nell'art. 2043 x.x. (Xxxxx xxxx. x. 000/0000) .
4.1. L'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. consente ora di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali.
Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non
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patrimoniale comporta l'obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale.
Se l'inadempimento dell'obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell'azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all'espediente del cumulo di azioni.
4.2. Che interessi di natura non patrimoniale possano assumere rilevanza nell'ambito delle obbligazioni contrattuali, è confermato dalla previsione dell'art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.
L'individuazione, in relazione alla specifica ipotesi contrattuale, degli interessi compresi nell'area del contratto che, oltre a quelli a contenuto patrimoniale, presentino carattere non patrimoniale, va condotta accertando la causa concreta del negozio, da intendersi come sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare, al di là del modello, anche tipico, adoperato; sintesi, e dunque ragione concreta, della dinamica contrattuale (come condivisibilmente affermato dalla sentenza n. 10490/2006).
4.3. Vengono in considerazione, anzitutto, i ed. contratti di protezione, quali sono quelli che si concludono nel settore sanitario. In questi gli interessi da realizzare attengono alla sfera della salute in senso ampio, di guisa che l'inadempimento del debitore è suscettivo di ledere diritti inviolabili della persona cagionando pregiudizi non patrimoniali.
In tal senso si esprime una cospicua giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto modo di inquadrare nell'ambito della responsabilità contrattuale la responsabilità del medico e della struttura sanitaria (sent. n. 589/1999 e successive conformi, che, quanto alla struttura, hanno applicato il principio della responsabilità da contatto sociale qualificato), e di riconoscere tutela, oltre al paziente, a soggetti terzi, ai quali si estendono gli effetti protettivi del contratto, e quindi, oltre alla gestante, al nascituro, subordinatamente alla nascita (sent. n. 11503/1003; n. 5881/2000); ed al padre, nel caso di omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata (sent. n. 6735/2002; n. 14488/2004; n. 20320/2005).
I suindicati soggetti, a seconda dei casi, avevano subito la lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32, comma 1, Cost.), sotto il profilo del danno biologico sia fisico che psichico (sent. n. 1511/2007); del diritto inviolabile all'autodeterminazione (artt. 32, comma 2, e 13 Cost.), come nel caso della gestante che, per errore diagnostico, non era stata posta in condizione di decidere se interrompere la gravidanza (sent. n. 6735/2002 e conformi citate), e nei casi di violazione dell'obbligo del consenso informato (sent. n. 544/2006); dei diritti propri della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), come nel caso di cui alle sentenze n. 6735/2002 e conformi citate.
4.4. Costituisce contratto di protezione anche quello che intercorre tra l'allievo e l'istituto scolastico. In esso, che trova la sua fonte nel contatto sociale (S.u. n. 9346/2002; sent. n. 8067/2007), tra gli interessi non patrimoniali da realizzare rientra quello alla integrità fisica dell'allievo, con conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale da autolesione (sentenze citate).
4.5. L'esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l'inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge.
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E' questo il caso del contratto di lavoro. L'art. 2087 c.c. ("L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro"), inserendo nell'area del rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica (l'integrità fisica e la personalità morale) già implicava che, nel caso in cui l'inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale.
Il presidio dei detti interessi della persona ad opera della Costituzione, che li ha elevati a diritti inviolabili, ha poi rinforzato la tutela. Con la conseguenza che la loro lesione è suscettiva di dare luogo al risarcimento dei danni conseguenza, sotto il profilo della lesione dell'integrità psicofisica (art. 32 Cost.) secondo le modalità del danno biologico, o della lesione della dignità personale del lavoratore (artt. 2, 4, 32 Cost.), come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa.
Nell'ipotesi da ultimo considerata si parla, nella giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 6572/2006), di danno esistenziale. Definizione che ha valenza prevalentemente nominalistica, poiché i danni-conseguenza non patrimoniali che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti alla svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia costituzionalmente qualificata.
4.6. Quanto al contratto di trasporto, la tutela dell'integrità fisica del trasportato è compresa tra le obbligazioni del vettore, che risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio (art. 1681 c.c.) .
Il vettore è quindi obbligato a risarcire a titolo di responsabilità contrattuale il danno biologico riportato nel sinistro dal viaggiatore. Ove ricorra ipotesi di inadempimento-reato (lesioni colpose), varranno i principi enunciati con riferimento all'ipotesi del danno non patrimoniale da reato, anche in relazione all'ipotesi dell'illecito plurioffensivo, e sarà dato il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua ampia accezione.
4.7. Nell'ambito della responsabilità contrattuale il risarcimento sarà regolato dalle norme dettate in materia, da leggere in senso costituzionalmente orientato.
L'art. 1218 c.c., nella parte in cui dispone che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, non può quindi essere riferito al solo danno patrimoniale, ma deve ritenersi comprensivo del danno non patrimoniale, qualora l'inadempimento abbia determinato lesione di diritti inviolabili della persona. Ed eguale più ampio contenuto va individuato nell'art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta, riconducendo tra le perdite e le mancate utilità anche i pregiudizi non patrimoniali determinati dalla lesione dei menzionati diritti.
D'altra parte, la tutela risarcitoria dei diritti inviolabili, lesi dall'inadempimento di obbligazioni, sarà soggetta al limite di cui all'art. 1225 c.c. (non operante in materia di responsabilità da fatto illecito, in difetto di richiamo nell'art. 2056 c.c.), restando, al di fuori dei casi di dolo, limitato il risarcimento al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui l'obbligazione è sorta.
Il rango costituzionale dei diritti suscettivi di lesione rende nulli i patti di esonero o limitazione della responsabilità, ai sensi dell'art. 1229, comma 2, c.c. (E'nullo qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione della responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico).
Varranno le specifiche regole del settore circa l'onere della prova (come precisati da Sez. un. n. 13533/2001), e la prescrizione.
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4.8. Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre.
Si è già precisato che il danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie.
Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.
E' compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.
Viene in primo luogo in considerazione, nell'ipotesi in cui l'illecito configuri reato, la sofferenza morale. Definitivamente accantonata la figura del ed. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale. Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale. Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell'animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente. Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza. Egualmente determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato.
Possono costituire solo "voci" del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il ed. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell'integrità psicofisica, sicché darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione.
Certamente incluso nel danno biologico, se derivante da lesione dell'integrità psicofisica, è il pregiudizio da perdita o compromissione della sessualità, del quale non può, a pena di incorrere in duplicazione risarcitoria, darsi separato indennizzo (diversamente da quanto affermato dalla sentenza n. 2311/2007, che lo eleva a danno esistenziale autonomo).
Ed egualmente si avrebbe duplicazione nel caso in cui il pregiudizio consistente nella alterazione fisica di tipo estetico fosse liquidato separatamente e non come "voce" del danno biologico, che il ed. danno estetico pacificamente incorpora.
Il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine. Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla
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giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita (sent. n. 1704/1997 e successive conformi), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura (sent. n. 6404/1998 e successive conformi). Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione.
4.10. Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827 e n. 8828/2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato.
Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso, parlando di "danno evento". La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza
n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003.
E del pari da respingere è la variante costituita dall'affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo.
Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (artt. 138 e 139 d. lgs. n. 209/2005) richiede l'accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. Così come è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico, del pari il giudice potrà non disporre l'accertamento medico- legale, non solo nel caso in cui l'indagine diretta sulla persona non sia possibile (perchè deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni. Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva. Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.
B) Ricorso n. 734/06
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell'art. 345, comma 1, c.p.c, nel testo vigente prima del 30.4.1995, e vizio di motivazione su punto decisivo, in riferimento alla affermata inammissibilità della domanda di risarcimento del danno esistenziale.
Il ricorrente si duole anzitutto che la corte d'appello abbia ritenuto che la richiesta di risarcimento del danno esistenziale integrasse una domanda nuova senza considerare che essa costituiva la mera riproposizione di richieste già formulate in primo grado. Afferma che, in quella sede, ci si era specificamente riferiti alle singole voci di danno (estetico, alla vita di relazione, alla vita sessuale) che sarebbero state poi ricompresse nella nozione di danno esistenziale, all'epoca non ancora elaborata, e censura la sentenza per aver dato rilievo alla qualificazione giuridica data alla richiesta, piuttosto che alle circostanze di fatto poste a fondamento della domanda originaria: circostanze identiche, come poteva rilevarsi dalla lettura dell'atto di citazione e di quello di appello (i cui passi sono riportati in ricorso), e concernenti lo stato di disagio in cui versava nel mostrarsi privo di un testicolo, con conseguenti ripercussioni negative nella sfera relativa ai propri rapporti sessuali.
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Sostiene poi che erroneamente i giudici di merito avevano ritenuto che la nozione di danno alla salute ricomprenda i concreti pregiudizi alla sfera esistenziale, che concerne invece la lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona (che nella specie potevano ritenersi provati anche mediante ricorso a presunzioni).
2. Con il secondo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell'art. 345, comma 1 e 2, c.p.c. nel testo vigente prima del 30.4.1995, con riferimento alla affermata inammissibilità della prova richiesta in appello in punto di disagio del leso nel mostrare i propri organi genitali e delle conseguenti limitazioni dei suoi rapporti sessuali.
La sentenza è censurata per aver ritenuto inammissibile la prova testimoniale articolata in appello sul senso di "vergogna" provato dal ricorrente nei momenti di intimità interpersonale e sul suo conseguente desiderio di limitare nel numero e nel tempo i rapporti sessuali.
Si sostiene che, una volta escluso che fosse stata proposta una domanda nuova, l'art. 345, comma 2, c.p.c, nella previgente formulazione, non sarebbe stato d'ostacolo all'ammissione della prova testimoniale, invece ritenuta inammissibile proprio perché vertente su una domanda erroneamente qualificata come nuova, e come tale inammissibile.
2.1. Il primo motivo è fondato nei sensi che seguono.
Le considerazioni svolte in sede di esame della questione di particolare importanza consentono di affermare che il pregiudizio della vita di relazione, anche nell'aspetto concernente i rapporti sessuali, allorché dipenda da una lesione dell'integrità psicofisica della persona, costituisce uno dei possibili riflessi negativi della lesione dell'integrità fisica del quale il giudice deve tenere conto nella liquidazione del danno biologico, e non può essere fatta valere come distinto titolo di danno, e segnatamente a titolo di danno "esistenziale" (punto 4.9).
Al danno biologico va infatti riconosciuta portata tendenzialmente omnicomprensiva confermata dalla definizione normativa adottata dal d. lgs. n. 209/2005, recante il Codice delle assicurazioni private ("per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente dell'integrità psico-fisica della persona, suscettibile di valutazione medico-legale, che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico- relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito"), suscettibile di essere adottata in via generale, anche in campi diversi da quelli propri delle sedes materiae in cui è stata dettata, avendo il legislatore recepito sul punto i risultati, ormai generalmente acquisiti e condivisi, di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. In esso sono quindi ricompresi i pregiudizi attinenti agli "aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato".
Ed al danno esistenziale non può essere riconosciuta dignità di autonoma sottocategoria del danno non patrimoniale (punto 3.13) .
Nella specie, in primo grado, l'attore aveva fatto valere, tra i pregiudizi denunciati, quello concernente la limitazione dell'attività sessuale nei suoi rapporti interpersonali, qualificandolo come pregiudizio di tipo esistenziale. Il primo giudice aveva riconosciuto il danno biologico, senza considerare il segnalato aspetto attinente alla vita relazionale. Di ciò si era lamentato, con l'appello, l'attore ed aveva richiesto prove a sostegno del dedotto profilo di danno, qualificandolo come esistenziale (prove che potevano essere richieste in secondo grado, ai sensi dell'art. 345 c.p.c. nel testo previgente, trattandosi di giudizio introdotto prima del 30.4.2005). Ma la corte territoriale ha ritenuto nuova tale domanda e conseguentemente inammissibili le prove.
La decisione non è corretta.
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La domanda risarcitoria relativa ai pregiudizi subiti per la limitazione dell'attività sessuale del leso non era nuova, come è univocamente evincibile dalla sostanziale identità di contenuto delle deduzioni del primo e del secondo grado, al di là della richiesta di risarcimento del "danno esistenziale" subordinatamente formulata col terzo motivo di appello; appello col quale l'attuale ricorrente s'era doluto della inadeguata considerazione delle conseguenze del tipo di lesione subita in relazione alla sua età all'epoca del fatto (45 anni) ed al suo stato civile di celibe.
La corte territoriale ha, dunque, impropriamente fatto leva sul nomen iuris assegnato dall'appellante alla richiesta di risarcimento del pregiudizio che viene in considerazione e che era stato già puntualmente prospettato in primo grado, dove era stato anche correttamente inquadrato nell'ambito del danno biologico.
3. All'accoglimento del primo motivo per quanto di ragione consegue quello del secondo, avendo la corte d'appello escluso che la prova testimoniale fosse ammissibile per la sola ragione che essa si riferiva ad una domanda erroneamente ritenuta nuova.
4. La sentenza va dunque cassata.
5. Il giudice del rinvio, che si designa nella stessa corte d'appello in diversa composizione, non dovrà necessariamente procedere all'ammissione della prova testimoniale, non essendogli precluso di ritenere vero - anche in base a semplice inferenza presuntiva - che la lesione in questione abbia prodotto le conseguenze che si mira a provare per via testimoniale e di procedere, dunque, all'eventuale personalizzazione del risarcimento (nella specie, del danno biologico); la quale non è mai preclusa dalla liquidazione sulla base del valore tabellare differenziato di punto, segnatamente alla luce del rilievo che il consulente d'ufficio ha dichiaratamente ritenuto di non attribuire rilevanza, nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, al disagio che la menomazione in questione provoca nei momenti di intimità (ed ai suoi consequenziali riflessi).
6. Il giudice del rinvio liquiderà anche le spese del giudizio di cassazione.
7. Ricorrono i presupposti di cui all'art. 52, comma 2, del d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in materia di protezione dei dati personali.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia, anche per le spese, alla corte d'appello di Venezia in diversa composizione;
dispone che, in caso di diffusione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica, su riviste, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati.
Roma, 24 giugno 2008
1.3 Cassazione civile , SS.UU., sentenza 13.09.2005 n° 18128
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. All'esame dei motivi occorre premettere che il Tribunale ha qualificato come clausola penale la sanzione prevista, negli artt. 18 e 23 nel regolamento di natura contrattuale, a carico dei condomini inadempienti nel pagamento dei contributi dovuti.
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Tale qualificazione non è posta in discussione dalle parti ed anzi il ricorrente su detta qualificazione poggia il motivo di ricorso, con il quale denuncia come erronea la decisione del giudice di merito nella parte in cui ha negato che il giudice possa ridurre d'ufficio la penale.
Pertanto, il ricorso deve essere esaminato da questa Corte sulla base di tale avvenuta qualificazione.
2. È preliminare l'esame del secondo motivo, perché con esso si deduce la nullità della clausola penale, cosicché se la censura fosse fondata cadrebbe la necessità di esaminare il primo motivo, con il quale la sentenza impugnata è censurata, invece, per avere negato il potere del giudice di ridurre la penale in assenza di una richiesta di parte.
3. Con il secondo motivo si denuncia: Violazione ed erronEa applicazione dell'art. 1815, secondo comma, c.c. e difetto di motivazione in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.
Si deduce che - non contestata l'usurarietà del tasso di interesse previsto nella penale - «la c.d. funzione calmieratrice prevista dall'art. 1815 c.c., come modificato dalla l. 7 marzo 1996, n. 108, trova applicazione sempre, allorquando ricorra nel contratto un vantaggio usurario, quale che sia il rapporto obbligatorio sottostante, creandosi in caso contrario una indebita sperequazione nel trattamento delle clausole penali e delle clausole fissanti tassi di interessi moratori, che altro non sono che una sanzione per il mancato pagamento nei tempi stabiliti della obbligazione pecuniaria».
4. La censura è infondata.
Il ricorrente, sostanzialmente, invoca l'applicazione dei criteri fissati dalla l. 7 marzo 1996, n. 108 per attribuire carattere usurario alla somma dovuta in forza della penale pattuita.
Senonché - a prescindere da ogni altro rilievo in ordine alla esattezza o meno della tesi prospettata - il ricorrente non considera che i criteri fissati dalla l. n. 108 dei 1996, per la determinazione del carattere usurario degli interessi, non trovano applicazione con riguardo alle pattuizioni anteriori all'entrata in vigore della stessa legge, come emerge dalla norma di interpretazione autentica contenuta nell'art. 1, primo comma, d.l. 29 dicembre 2000,
n. 394 (convertito, con modificazioni, nella l. 28 febbraio 2001, n. 24), norma riconosciuta non in contrasto con la Costituzione con sentenza n. 29 del 2002 Corte cost. (principio ripetutamente affermato da questa Corte: v., tra le più recenti, Xxxx. 25 marzo 2003, n. 4380; Cass. 13 dicembre 2002, n. 17813; Cass. 24 settembre 2002, n. 13868).
Ora poiché, come è pacifico, la convenzione alla quale il ricorrente attribuisce natura usuraria, è anteriore alla entrata in vigore della l. 7 marzo 1996 n. 108, già per questa sola ragione la sua disciplina non le si può applicare e pertanto appare superfluo l'esame del problema relativo alla trasponibilità della disciplina dell'art. 1815 c.c. ad una clausola, come quella oggetto della presente controversia, che trae origine da un rapporto in cui non è identificabile una causa di finanziamento.
5. Con il primo motivo del ricorso si denuncia: Violazione ed erronea applicazione degli artt. 1382 e 1384 c.c. - Difetto di motivazione. Il tutto in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.
Si deduce l'erroneità dell'assunto del Tribunale in ordine alla ritenuta non riducibilità d'ufficio della penale e si richiama a sostegno della censura la sentenza n. 10511/1999 di questa Corte.
6. La censura pone il problema se il potere di ridurre la penale, conferito al giudice dall'art. 1384 c.c., possa essere esercitato d'ufficio ovvero se sia necessaria la domanda o la eccezione della parte tenuta al pagamento.
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6.1. Il dato normativo, come detto, è costituito dall'art. 1384 c.c. secondo cui «La penale può essere diminuita equamente dal giudice, se l'obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se l'ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento».
6.2. Fin dall'entrata in vigore del codice civile del 1942, la giurisprudenza della Corte di Cassazione è stata concorde nell'affermare che il potere del giudice di ridurre la penale non può essere esercitato d'ufficio, pur manifestando nell'ambito di questo orIentamento, notevoli oscillazioni in ordine al modo ed ai tempi in cui le parti avrebbero dovuto esercitare il loro riconosciuto dovere di sollecitare la pronuncia del giudice, giungendo, in taluni casi, ma con affermazione poi superata dalla successiva prevalente giurisprudenza, a ritenere che la richiesta di riduzione della penale dovesse ritenersi implicita nell'affermazione di nulla dovere a tale titolo.
Tale orientamento è stato, tuttavia, posto in discussione dalla sentenza n. 10511/1999 di questa Corte, la quale ha, invece, ritenuto che la penale possa essere ridotta dal giudice anche d'ufficio.
Questo nuovo orientamento non ha però trovato seguito nella successiva giurisprudenza della Corte, che (fatta eccezione per la sentenza n. 8188/2003 che ad esso si è adeguata) ha ribadito l'orientamento tradizionale, con le sentenze n. 5324/2003, n. 8813/2003, n. 5691/2002, n. 14172/2000.
6.3. Queste sezioni unite, chiamate a risolvere il richiamato contrasto, ritengono di dover confermare il principio affermato dalla sentenza n. 10511/1999, cui si è adeguata la sentenza n. 8188/2003.
6.4. Non vi è dubbio che la svolta operata dalla sentenza n. 10511/1999 è stata influenzata da due concorrenti elementi.
Il primo relativo al riscontro nella giurisprudenza, che fino ad allora aveva negato il potere del giudice di ridurre d'ufficio la penale, di taluni cedimenti, individuati nel fatto che, in alcune delle pronunzie, l'ossequio al principio tradizionale appariva solo formale, poiché si giungeva talvolta a ritenere la domanda di riduzione implicita nell'assunto della parte di nulla dovere a titolo di penale ovvero l'eccezione relativa proponibile in appello.
Il secondo fondato sull'osservazione che l'esegesi tradizionale non appariva più adeguata alla luce di una rilettura degli istituti codicistici in senso conformativo ai precetti superiori della Costituzione, individuati nel dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.), nell'esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie (Corte cost. n. 19/1994), da valutare insieme ai canoni generali di buona fede oggettiva e di correttezza (artt. 1175, 1337, 1359, 1366, 1375 c.c.).
6.5. Quanto al primo elemento sopra ricordato, non v'è dubbio che le variegate posizioni assunte dalla giurisprudenza, in ordine ai tempi ed ai modi in cui la richiesta di riduzione della penale debba avvenire ed alle ragioni per le quali la stessa possa essere richiesta, denotano quanto meno una debolezza dei fondamenti giuridici sui quali si basa la tesi della non riducibilità d'ufficio della penale, nonché una implicita contraddittorietà, individuabile specie in quelle pronunce le quali affermano che la norma dell'art 1384 c.c. - che attribuisce al giudice il potere di diminuire equamente la penale - non ha la funzione di proteggere il contraente economicamente più debole dallo strapotere del più forte, bensì mira alla tutela e ricostitUzione dell'equilibrio contrattuale, evitando che da un inadempimento parziale o, comunque, di importanza non enorme, possano derivare conseguenze troppo gravi per l'inadempiente (x. Xxxx. 6 aprile 1978, n. 1574), ovvero ritengono che la riduzione della penale, per effetto di parziale adempimento dell'obbligazione, a norma dell'art. 1384 c.c., non integra un diritto del debitore, ma è rimessa all'equa valutazione del giudice, in relazione all'interesse dei creditore al tempestivo ed integrale adempimento (x. Xxxx. 7 luglio 1981, n. 4425).
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6.6. Quanto al secondo elemento non può che condividersi la necessità di una lettura della norma di cui all'art. 1384 c.c. che meglio rispecchi l'esigenza di tutela di un interesse oggettivo dell'ordinamento alla luce dei principi costituzionali richiamati.
6.7. Naturalmente una lettura di questo tipo, consentita dal fatto che l'art. 1384 c.c. non contiene alcun riferimento ad un'iniziativa della parte rivolta a sollecitare l'esercizio del potere di riduzione da parte del giudice, non può prescindere dalla necessità di sottoporre a vaglio le argomentazioni addotte dalla giurisprudenza che ritiene necessaria quella iniziativa e di verificare nel contempo se sussistano altre ragioni, che consentano quella lettura della norma adeguata ai principi costituzionali posti bene in luce dalla sentenza n. 10511/1999.
6.8. Gli argomenti addotti dalla giurisprudenza che nega il potere del giudice di ridurre d'ufficio la penale sono principalmente tre.
6.8.1. Il primo argomento si fonda sul principio generale, al quale l'art. 1384 c.c. non derogherebbe, secondo cui il giudice non può pronunciare se non nei limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti.
Senonché questo argomento non appare decisivo e sembra fondarsi sull'assunto della esistenza di un fatto che è, invece, da dimostrare.
Occorre partire dal testo dell'art. 112 c.p.c., secondo cui «Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare d'ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti».
Ora, il giudice che riduca l'ammontare della penale, al cui pagamento il creditore ha chiesto che il debitore sia condannato, non viola in alcun modo la prima proposizione del richiamato art. 112 c.p.c., atteso che il limite postogli dalla norma è, in linea generale, che egli non può condannare il debitore ad una somma superiore a quella richiesta, mentre può condannarlo al pagamento di una somma inferiore.
Ma l'art. 112 c.p.c. dispone anche che il giudice non può pronunciare d'ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti.
La norma lascia intendere che vi sono, oltre alle eccezioni proponibili soltanto dalle parti, anche eccezioni che non lo sono e, in quanto tali, rilevabili d'ufficio.
Se così è, allora, il problema della riducibilità della penale non è risolto dall'art. 112 c.p.c., ma dalla risposta al quesito se la riduzione della penale sia oggetto di una eccezione che può essere proposta soltanto dalla parte.
Nel codice civile sono espressamente individuate varie ipotesi di eccezioni proponibili soltanto dalla parte; in via esemplificativa: art. 1242, primo comma. c.c. - eccezione di compensazione; art. 1442, comma quarto, c.c. - eccezione di annullabilità del contratto, quando è prescritta l'azione; art. 1449, secondo xxxxx, c.c. - eccezione di rescindibilità del contratto, quando l'azione è prescritta; art. 1460, xxxxx xxxxx, c.c. - eccezione di inadempimento; art. 1495, terzo comma, c.c. - eccezione di garanzia, nella vendita, anche se è prescritta l'azione; art. 1667, terzo comma, c.c. - eccezione di garanzia, nell'appalto - anche se l'azione è prescritta; art. 1944, secondo xxxxx, c.c. - eccezione di escussione da parte del fideiussore; art. 1947, xxxxx xxxxx, c.c. - beneficio della divisione nella fideiussione; art. 2938 c.c. - eccezione di preScrizione; art. 2969 c.c. - eccezione di decadenza,
«salvo che, trattandosi di materia sottratta alla disponibilità delle parti, il giudice xxxxx rilevare le cause d'improponibilità dell'azione».
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L'art. 1384 c.c., al contrario delle ipotesi sopra indicate, non fa alcuna menzione della necessità della eccezione della parte o, quantomeno, della necessità che il giudice debba essere sollecitato ad esercitare il potere di riduzione della penale conferitogli dalla legge.
Il silenzio della norma sul punto non depone certamente a favore della tesi secondo cui la riduzione della penale debba essere chiesta dalla parte, ma fa propendere, se mai, a favore della tesi contraria, specie se si guardi ad altre previsioni del codice civile nelle quali l'intervento del giudice è visto in funzione correttiva della volontà manifestata dalle parti (x. Xxxx. sez. un. 17 maggio 1996, n. 4570, che espressamente parla di «funzione correttiva» del giudice, non solo nell'ipotesi della riduzione della penale manifestamente eccessiva (art. 1384 c.c.), ma anche nei casi di riduzione dell'indennità dovuta per la risoluzione della vendita con riserva di proprietà (art. 1526 c.c.) e di riduzione della posta di giuoco eccessiva (art. 1934 c.c.).
6.8.2. Il secondo argomento addotto è che la riduzione della penale fissata dalle parti è prevista dalla legge come istituto a tutela degli specifici interessi del debitore, al quale quindi deve essere rimessa, nell'esercizio della difesa dei propri diritti, ogni iniziativa al riguardo ed ogni consequenziale valutazione della eccessività della penale ovvero della sua sopravvenuta onerosità, in relazione alla parte di esecuzione che il contratto ha avuto.
Anche questo argomento si fonda su un dato non dimostrato e cioè che l'istituto della riduzione della penale sia predisposto nell'interesse della parte debitrice.
Intanto una affermazione di questo tipo appare contraddetta dall'osservazione che la penale «può» ma non
«deve» essere ridotta dal giudice, avuto riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento; dal che si desume che non esiste un diritto del debitore alla riduzione della penale e che il criterio che il giudice deve utilizzare per valutare se una penale sia eccessiva ha natura oggettiva, atteso che non è previsto che il giudice debba tenere conto della posizione soggettiva del debitore e del riflesso che sul suo patrimonio la penale può avere, ma solo dello squilibrio tra le posizioni delle parti, mentre il riferimento all'interesse del creditore ha la sola funzione di indicare lo strumento per mezzo del quale valutare se la penale sia manifestamente eccessiva o meno.
Ne discende che, pur sostanziandosi la riduzione della penale in un provvedimento che rende in concreto meno onerosa la posizione del debitore e che deve essere adottato tenuto conto dell'interesse che il creditore aveva all'adempimento, il potere di riduzione appare attribuito al giudice non per la tutela dell'interesse della parte tenuta al pagamento della penale, ma, piuttosto, a tutela di un interesse che lo trascende.
Del resto il nostro ordinamento conosce altri casi in cui l'intervento equitativo del giudice pur risolvendosi in favore di una delle parti in contesa non è tuttavia predisposto specificamente per la tutela di un suo interesse.
Si pensi all'ipotesi in cui una delle parti abbia chiesto il risarcimento del danno in forma specifica; il giudice, in questo caso, anche se l'esecuzione specifica sia possibile, ha tuttavia il potere di disporre che il risarcimento avvenga per equivalente «se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore» (art. 2058 c.c.).
È un potere che il giudice può esercitare pacificamente d'ufficio avuta presente l'obiettiva difficoltà che il debitore può incontrare nell'eseguire la prestazione risarcitoria; la difficoltà, appunto perché obiettiva, non riguarda però la situazione economica del debitore, ma piuttosto l'esecuzione stessa della prestazione, ad esempio quando venga a mancare una proporzione tra danno, costo ed utilità. L'onerosità per il debitore viene cioè in rilievo come metro di giudizio perché il giudice possa effettuare la sua valutazione e non come interesse tutelato dalla norma.
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Si pensi ancora al potere attribuito al giudice di liquidare il danno con valutazione equitativa se lo stesso non può essere provato nel suo preciso ammontare (art. 1226 c.c.), pacificamente esercitatile indipendentemente dalla richiesta delle parti.
Già, quindi, dall'esame critico della giurisprudenza maggioritaria, emergono elementi per affermare che il potere di riduzione della penale è concesso dalla legge al giudice per fini che prescindono dalla tutela dell'interesse della parte, che al pagamento della penale sia tenuta per effetto del suo inadempimento o ritardato adempimento.
6.8.3. Il terzo argomento addotto dalla giurisprudenza prevalente è che il giudice, nell'esercizio dei poteri equitativi diretti alla determinazione dell'oggetto dell'obbligazione della clausola, non dispone di altri parametri di giudizio che di quelli dati dai contrapposti interessi delle parti al fine esclusivo di verificare se l'equilibrio raggiunto dalle parti stesse, nelle preventiva determinazione delle conseguenze dell'inadempimento, sia equo o sia rimasto tale.
Ma anche questo argomento non appare decisivo ove si consideri che la mancata allegazione (o la impossibilità di riscontri negli atti acquisiti) della eccessività della penale incide sul piano fattuale dell'accertamento della sussistenza delle condizioni per la riduzione della penale medesima, ma non sull'esercizio officioso del potere del giudice.
In proposito è sufficiente ricordare ciò che accade in tema di nullità del contratto, che il giudice può dichiarare d'ufficio purché risultino dagli atti i presupposti della nullità medesima (Cass. n. 4062/1987), senza che per l'accertamento della nullità occorrano indagini di fatto per le quali manchino gli elementi necessari (Cass. n. 1768/1986, 4955/1985, 985/1981), e più di recente Cass. n. 1552/2004, secondo cui «La rilevabilità d'ufficio della nullità di un contratto prevista dall'art. 1421 c.c. non comporta che il giudice sia obbligato ad un accertamento d'ufficio in tal senso, dovendo invece detta nullità risultare "ex actis" ossia dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, essendo i poteri officiosi dei giudice limitati al rilievo della nullità e non intesi perciò ad esonerare la parte dall'onere probatorio gravante su di essa», nonché da ultimo Xxxx., sez. un., 4 novembre 2004, n. 21095.
6.8.4. Sembra, quindi, che nessuno dei tre argomenti prospettati dalla giurisprudenza maggioritaria sia decisivo per la soluzione del quesito oggetto del contrasto, mentre, come in parte anticipato, vi sono argomenti che appaiono sufficientemente probanti a sostegno della tesi fin qui minoritaria, i quali assumono una valenza decisiva alla luce dei principi costituzionali posti in luce dalla sentenza n. 10511/1999.
6.9. Poiché nella discussione sull'esistenza del potere del giudice di ridurre d'ufficio la penale è stato spesso introdotto il tema dell'autonomia contrattuale è bene prendere le mosse proprio da tale punto.
L'art. 1322 c.c. - la cui rubrica è appunto intitolata all'autonomia contrattuale - attribuisce alle parti:
a) il potere di determinare il contenuto del contratto;
b) il potere di concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare.
Nel primo caso l'autonomia delle parti deve svolgersi «nei limiti imposti dalla legge», nel secondo caso la libertà è limitata per il fatto che il contratto deve essere diretto «a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico».
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La legge, quindi, nel riconoscere l'autonomia contrattuale delle parti, afferma che essa ha comunque dei limiti.
L'osservanza del rispetto di tali limiti è demandato al giudice, che non può riconoscere il diritto fatto valere, se esso si fonda su un contratto il cui contenuto non sia conforme alla legge ovvero sia diretto a realizzare interessi che non appaiono meritevoli secondo l'ordinamento giuridico.
L'intervento del giudice in tali casi è indubbiamente esercizio di un potere officioso attribuito dalla legge.
Se nel nostro ordinamento non fosse stato previsto e disciplinato l'istituto della clausola penale e, tuttavia, le parti avessero introdotto in un contratto una clausola con tale funzione, il giudice, chiamato a pronunciarsi in ordine ad una domanda di condanna del debitore al pagamento della penale pattuita per effetto dell'inadempimento, avrebbe dovuto formulare, d'ufficio, un giudizio sulla validità della clausola; giudizio che avrebbe potuto avere esito negativo, ove fosse stato ravvisato un contrasto dell'accordo con principi fondamentali dell'ordinamento, ad esempio per il fatto che la penale doveva essere pagata anche se il danno non sussisteva.
In questo caso vi sarebbe stato un controllo d'ufficio sulla tutelabilità dell'accordo delle parti e, ove il controllo si fosse concluso negativamente, la tutela non sarebbe stata accordata.
Nel nostro diritto positivo questo controllo non è necessario perché l'istituto è riconosciuto e disciplinato dalla legge (artt. 1382 e segg. c.c.).
Nel disciplinare l'istituto la legge ha ampliato il campo normalmente riservato all'autonomia delle parti, prevedendo per esse la possibilità di predeterminare, in tutto o in parte, l'ammontare del risarcimento del danno dovuto dal debitore inadempiente (se si vuole privilegiare l'aspetto risarcitorio della clausola), ovvero di esonerare il creditore di fornire la prova del danno subito, di costituire un vincolo sollecitatorio a carico del debitore, di porre a carico di quest'ultimo una sanzione per l'inadempimento (se se ne vuole privilegiare l'aspetto sanzionatorio), e ciò in deroga alla disciplina positiva in materia, ad esempio, di onere della prova, di determinazione del risarcimento del danno, della possibilità di istituire sanzioni private.
Tuttavia, la legge, nel momento in cui ha ampliato l'autonomia delle parti, in un campo normalmente riservato alla disciplina positiva, ha riservato al giudice un potere di controllo sul modo in cui le parti hanno fatto uso di questa autonomia.
Così operando, la legge ha in sostanza spostato l'intervento giudiziale, diretto al controllo della conformità del manifestarsi dell'autonomia contrattuale nei limiti in cui essa è consentita, dalla fase formativa dell'accordo - che ha ritenuto comunque valido, quale che fosse l'ammontare della penale - alla sua fase attuativa, mediante l'attribuzione al giudice del potere di controllare che la penale non fosse originariamente manifestamente eccessiva e non lo fosse successivamente divenuta per effetto del parziale adempimento.
Un potere di tal fatta appare concesso in funzione correttiva della volontà delle parti per ricondurre l'accordo ad equità.
Vi sono casi in cui la correzione della volontà delle parti avviene automaticamente, per effetto di una disposizione di legge che ne limita l'autonomia e che sostituisce alla volontà delle parti quella della legge (in tali casi l'accordo delle parti, che non rispecchia il contenuto tipico previsto dalla legge, non viene dichiarato nullo ma viene modificato mediante la sostituzione della parte non conforme); ve ne sono altri, in cui una inserzione automatica della disciplina legislativa, in sostituzione di quella pattizia, non è possibile perché non può essere
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determinata in anticipo la prestazione dovuta da una delle parti, che quindi non può essere automaticamente inserita nel contratto; in tali casi la misura della prestazione è rimessa al giudice, per evitare che le parti utilizzino uno strumento legale per ottenere uno scopo che l'ordinamento non consente ovvero non ritiene meritevole di tutela, come è reso evidente, proprio in tema di clausola penale, dal fatto che il potere di riduzione è concesso al giudice solo con riferimento ad una penale che non solo sia eccessiva, ma che lo sia «manifestamente», ovvero ad una penale non più giustificabile nella sua originaria determinazione, per effetto del parziale adempimento dell'obbligazione.
In tale senso inteso, il potere di controllo appare attribuito al giudice non nell'interesse della parte ma nell'interesse dell'ordinamento, per evitare che l'autonomia contrattuale travalichi i limiti entro i quali la tutela delle posizioni soggettive delle parti appare meritevole di tutela, anche se ciò non toglie che l'interesse della parte venga alla fine tutelato, ma solo come aspetto riflesso della funzione primaria cui assolve la norma.
Può essere affermato allora che il potere concesso al giudice di ridurre la penale si pone come un limite all'autonomia delle parti, posto dalla legge a tutela di un interesse generale, limite non prefissato ma individuato dal giudice di volta in volta, e ricorrendo le condizioni previste dalla norma, con riferimento al principio di equità.
Se così non fosse, apparirebbe quanto meno singolare ritenere, sicuramente con riferimento all'ipotesi di penale manifestamente eccessiva, in presenza di una clausola valida (si ricordi che è valida la clausola ancorché manifestamente eccessiva), che l'esercizio del potere del giudice di riduzione della penale debba essere condizionato alla richiesta della parte, quasi che, a questa, fosse riconosciuto uno jus poenitendi, e, quindi la facoltà di sottrarsi all'adempimento di un'obbligazione liberamente assunta (quella appunto del pagamento di una penale che fin dall'origine si manifestava come eccessiva).
Se si considera che il potere di riduzione della penale può essere esercitato solo in presenza di una clausola che sia valida (e quindi esente da vizi che ne determino la nullità o l'annullabilità) più coerente appare allora qualificare detto potere come officioso nel senso sopra specificato, di riconduzione dell'accordo, frutto della volontà liberamente manifestata dalle parti, nei limiti in cui esso appare meritevole di ricevere tutela dall'ordinamento.
Non è privo di significato il fatto che la giurisprudenza, pur affermando la tesi della necessità della domanda o eccezione della parte al fine di sollecitare il potere di riduzione affidato al giudice, non ha potuto tuttavia non riconoscere (come del resto la quasi unanime dottrina) la natura inderogabile della disposizione di cui all'art. 1384 c.c., attributiva al giudice del potere di ridurre la penale, riconoscendo che essa è posta principalmente a salvaguardia dell'interesse generale, per impedire sconfinamenti oltre determinati limiti di equilibrio contrattuale (v. in tal senso Cass. 4 febbraio 1960, n. 163 e successivamente, in modo conforme circa la natura inderogabile della norma, Cass., sez. un., 5 dicembre 1977, n. 5261; Cass. 7 agosto 1992, n. 9366; Cass. 29 marzo 1996, n. 2909; Cass. 5 novembre 2002, n. 15497 - queste ultime tre in motivazione), in tale modo riconoscendo l'esistenza dei presupposti per un intervento officioso dei giudice, non tanto per la tutela di interessi individuali, ma piuttosto per una funzione correttiva di riequilibrio contrattuale (se si vuole privilegiare la tesi della natura risarcitoria della penale) ovvero di adeguatezza della sanzione (se si vuole privilegiare la tesi della funzione sanzionatoria).
Aspetto quest'ultimo particolarmente sottolineato da Xxxx. 24 aprile 1980, n. 2749, secondo cui il potere conferito al giudice dall'art. 1384 c.c. di ridurre la penale manifestamente eccessiva è fondato sulla necessità di correggere il potere di autonomia privata riducendolo nei limiti in cui opera il riconoscimento di essa, mediante l'esercizio di un potere equitativo che ristabilisca un congruo contemperamento degli interessi contrapposti,
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valutando l'interesse del creditore all'adempimento, cui ha diritto, tenendosi conto dell'effettiva incidenza di esso sull'equilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale.
Pare, quindi, a queste sezioni unite, che la lettura della norma interessata, svolta nel quadro dei principi generali dell'ordinamento e dei principi costituzionali posti in luce dalla sentenza n. 10511/1999, consenta di giungere alla conclusione che il potere del giudice di ridurre la penale possa essere esercitato d'ufficio, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con riferimento all'ipotesi in cui la riduzione avvenga perché l'obbligazione principale e stata in parte eseguita, giacché in quest'ultimo caso, la mancata previsione da parte dei contraenti di una riduzione della penale in caso di adempimento di parte dell'obbligazione, si traduce comunque in una eccessività della penale se rapportata alla sola parte rimasta inadempiuta.
7. È questa lettura della norma che porta ad affermare il principio che «il potere di diminuire equamente la penale, attribuito dall'art. 1384 c.c. al giudice, può essere esercitato anche d'ufficio».
8. In questi termini deve essere accolto il secondo motivo del ricorso con rinvio della causa ad altra sezione del Tribunale di Roma che si atterrà al principio sopra enunciato.
9. È di conseguenza assorbito il terzo motivo, con il quale, denunciandosi: Violazione ed erronea applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. e difetto di motivazione in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., si deduce che in conseguenza della fondatezza delle tesi esposte dal ricorrente le spese del giudizio di merito (primo e secondo grado) sarebbero dovute essere poste a carico del condominio.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, a sezioni unite, rigetta il secondo motivo del ricorso, accoglie il primo motivo e dichiara assorbito il terzo. Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per la regolamentazione delle spese di questo giudizio di cassazione, ad altra sezione del Tribunale di Roma.
1.4 Cassazione civile , sez. III, sentenza 18.09.2009 n° 20106
Motivi della decisione
Preliminarmente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale
Con il primo motivo i ricorrenti principali denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 276 c.p.c. in relazione all'art. 158 c.p.c. (art. 360, n. 4 c.p.c.).
Sostengono che la sentenza impugnata sia affetta da nullità per vizi relativi alla costituzione del giudice, vale a dire per “mancanza di collegialità nella decisione testimoniata dal fatto che la sentenza impugnata risulta estesa il 28 settembre 2004, ossia molto prima che fosse tenuta la camera di consiglio del 12 ottobre 2004”.
Il motivo non è fondato.
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L'apposizione in calce alla sentenza della data del 28 settembre 2004, invece di quella del 12 ottobre 2004 (data in cui si è tenuta la camera di consiglio) risulta frutto di un semplice errore materiale, posto che - come risulta dagli atti - nella data del 28 settembre 2004 la Corte di merito si era già riunita in camera di consiglio per l'esame dell'appello.
Peraltro, l'errore materiale commesso è stato emendato attraverso il procedimento di correzione ex artt. 287 e 288 c.p.c., con ordinanza emessa in data 25.5.2005 - a seguito di scioglimento della riserva adottata all'udienza collegiale del 24.5.2005 - del seguente tenore “corregge la sentenza della Corte di Appello di Roma n. 136 depositata il 13 gennaio 2005 nel senso che dove è scritto, alla fine della sentenza e dopo la parola Roma, “28 settembre 2004” deve intendersi scritto “12 ottobre 2004”, disponendo che la cancelleria effettui l'annotazione di rito”.
La correzione così effettuata rende inammissibile la censura, posto che i ricorrenti non denunciano la correttezza del procedimento adottato, di correzione dell'errore materiale contenuto nella sentenza impugnata.
Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360, n. 3 c.p.c., in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.).
Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360, n. 5 c.p.c.).
Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360, n. 3 c.p.c.).
Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente.
Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono.
Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375).
In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476).
Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.).
I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico.
L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462).
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Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.
In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi.
La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, cosi si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore”, operando, quindi, come un criterio di reciprocità.
In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato.
In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante.
La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto.
Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate;
3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico;
4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte.
L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore.
È ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede.
Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva.
E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sé strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da
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alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata.
Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto.
La cultura giuridica degli anni ‘30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica.
Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che “nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto” (così ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti.
Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838).
Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale).
In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici.
E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (x. Xxxx. 11.6.2003 n. 9353).
Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387).
Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258).
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In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo “disvelamento” (piercing the corporate veil).
Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benché pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642).
E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947).
In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c. (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n.
8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; Cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273).
Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057).
Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano.
Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione.
Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti.
In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti.
Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso.
In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio.
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Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:
1) il giudice non ha alcuna possibilità di controllo sull'atto di autonomia privata; 2) la previsione contrattuale del recesso ad nutum dal contratto non consente, quindi, da parte del giudice, il sindacato su tale atto, non essendo “necessario alcun controllo causale circa l'esercizio del potere”, perché un tale potere rientra nella libertà di scelta dell'operatore economico in un libero mercato; 3) la Renault Italia non doveva tenere conto anche dell'interesse della controparte o di interessi diversi da quello che essa aveva alla risoluzione del rapporto; 4) la insussistenza di un'ipotesi di recesso illegittimo comporta la non pertinenza del richiamo agli artt. 1175 e 1375 c.c.; 5) i principii di correttezza e buona fede non creano obbligazioni autonome, ma rilevano soltanto per verificare il puntuale adempimento di obblighi riconducibili a determinati rapporti; 6) non sono presenti nel caso in esame i principi enucleati dalla giurisprudenza in tema di abuso del diritto; e ciò perché “La sussistenza di un atto di abuso del diritto (speculare ai cosiddetti atti emulativi) postula il concorso di un elemento oggettivo, consistente nell'assenza di utilità per il titolare del diritto, e di un elemento soggettivo costituito dall'animus nocendi, ossia l'intenzione di nuocere o di recare molestia ad altri”; 7) il “mercato”, concepito quale luogo della libertà di iniziativa economica (garantita dalla Costituzione), presuppone l'esistenza di soggetti economici in grado di esercitare i diritti di libertà in questione e cioè soggetti effettivamente responsabili delle scelte d'impresa ad essi formalmente imputabili. La nozione di “mercato libero” presuppone che il gioco della concorrenza venga attuato da soggetti in grado di autodeterminarsi; 8) alla libertà di modificare l'assetto di vendita, da parte della Renault Italia spa, conseguiva che il recesso ad nutum rappresentava, per il titolare di tale facoltà, il mezzo più conveniente per realizzare tale fine: non sussiste, quindi, l'abuso; 9) la impossibilità di ipotizzare “un potere del giudice di controllo diretto sugli atti di autonomia privata, in mancanza di un atto normativo che specifichi come attuare tale astratta tutela”, produce, come effetto, quello della introduzione di “un controllo di opportunità e di ragionevolezza sull'esercizio del potere di recesso; al che consegue una valutazione politica, non giurisdizionale dell'atto”; 10) la impossibilità di procedere ad un giudizio di ragionevolezza in ambito privatistico e, particolarmente, “in ambito contrattuale in cui i valori di riferimento non sono unitari, ma sono addirittura contrapposti e la composizione del conflitto avviene proprio seguendo i parametri legali dell'incontro delle volontà su una causa eletta dall'ordinamento come meritevole di tutela” fa sì che “solo allorché ricorrono contrasti con norme imperative, può essere sanzionato l'esercizio di una facoltà, ma al di fuori di queste ipotesi tipiche, normativamente previste, residua la più ampia libertà della autonomia privata”.
Le affermazioni contenute nella sentenza impugnata non sono condivisibili sotto diversi profili.
Punto di partenza dal quale conviene prendere le mosse è quello che non è compito del giudice valutare le scelte imprenditoriali delle parti in causa che siano soggetti economici, scelte che sono, ovviamente, al di fuori del sindacato giurisdizionale.
Diversamente, quando, nell'ambito dell'attività imprenditoriale, vengono posti in essere atti di autonomia privata che coinvolgono - ad es. nei contratti d'impresa - gli interessi, anche contrastanti, delle diverse parti contrattuali.
In questo caso, nell'ipotesi in cui il rapporto evolva in chiave patologica e sia richiesto l'intervento del giudice, a quest'ultimo spetta di interpretare il contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti.
Ciò vuol significare che l'atto di autonomia privata è, pur sempre, soggetto al controllo giurisdizionale.
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Gli strumenti di interpretazione del contratto sono rappresentati: il primo, dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate; con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi, quando la comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate, e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa; con l'adozione eventuale degli altri criteri interpretativi, comunque, di natura sussidiaria.
Ma il contratto e le clausole che lo compongono - ai sensi dell'art. 1366 c.c. - debbono essere interpretati anche secondo buona fede.
Non soltanto.
Il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve accompagnare il contratto nei suo svolgimento, dalla formazione all'esecuzione, ed, essendo espressione del dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 della Costituzione, impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell'ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche.
La sua violazione, pertanto, costituisce di per sé inadempimento e può comportare l'obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato (v. anche S.U. 15.11,2007 n. 23726; Cass. 22.1.2009 n. 1618; Cass. 6.6.2008 n. 21250; Cass.
27.10.2006 n. 23273; Cass. 7.6.2006 n. 13345; Cass. 11.1.2006 n. 264).
Il criterio della buona fede costituisce, quindi, uno strumento, per il giudice, finalizzato al controllo - anche in senso modificativo o integrativo - dello statuto negoziale; e ciò quale garanzia di contemperamento degli opposti interessi (v. S.U. 15.11.2007 n. 23726 ed i richiami ivi contenuti).
Il giudice, quindi, nell'interpretazione secondo buona fede del contratto, deve operare nell'ottica dell'equilibrio fra i detti interessi.
Ed è su questa base che la Corte di merito avrebbe dovuto valutare ed interpretare le clausole del contratto - in particolare quella che prevedeva il recesso ad nutum - anche al fine di riconoscere l'eventuale diritto al risarcimento del danno per l'esercizio di tale facoltà in modo non conforme alla correttezza ed alla buona fede.
Sotto questo profilo, pertanto, dovrà essere riesaminato il materiale probatorio acquisito.
In sostanza la Corte di merito - di fronte ad un recesso non qualificato - non poteva esimersi dal valutare le circostanze allegate dai destinatari dell'atto di recesso, quali impeditive del suo esercizio, o quali fondanti un diritto al risarcimento per il suo abusivo esercizio.
Anche con riferimento all'abuso del diritto, le indicazioni fornite dalla Corte di merito non possono essere seguite.
Il controllo del giudice sul carattere abusivo degli atti di autonomia privata è stato pienamente riconosciuto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte di legittimità, cui si è fatto cenno.
La conseguenza è l'irrilevanza, sotto questo aspetto, delle considerazioni svolte in tema di libertà economica e di libero mercato.
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Nessun dubbio che le scelte decisionali in materia economica non siano oggetto di sindacato giurisdizionale, rientrando nelle prerogative dell'imprenditore operante nel mercato, che si assume il rischio economico delle scelte effettuate.
Ma, in questo contesto, l'esercizio del potere contrattuale riconosciutogli dall'autonomia privata, deve essere posto in essere nel rispetto di determinati canoni generali - quali quello appunto della buona fede oggettiva, della lealtà dei comportamenti e delle correttezza - alla luce dei quali debbono essere interpretati gli stessi atti di autonomia contrattuale.
Ed il fine da perseguire è quello di evitare che il diritto soggettivo, che spetta a qualunque consociato che ne sia portatore, possa sconfinare nell'arbitrio.
Da ciò il rilievo dell'abuso nell'esercizio del proprio diritto.
La libertà di scelta economica dell'imprenditore, pertanto, in sé e per sé, non è minimamente scalfita; ciò che è censurato è l'abuso, ma non di tale scelta, sibbene dell'atto di autonomia contrattuale che, in virtù di tale scelta, è stato posto in essere.
L'irrilevanza, per il diritto, delle ragioni che sono a monte della conclusione ed esecuzione di un determinato rapporto negoziale, non esclude - ma anzi prevede - un controllo da parte del giudice, al fine di valutare se l'esercizio della facoltà riconosciuta all'autonomia contrattuale abbia operato in chiave elusiva dei principii espressione dei canoni generali della buona fede, della lealtà e della correttezza.
Di qui il rilievo riconosciuto dall'ordinamento - al fine di evitare un abusivo esercizio del diritto - ai canoni generali di interpretazione contrattuale.
Ed in questa ottica, il controllo e l'interpretazione dell'atto di autonomia privata dovrà essere condotto tenendo presenti le posizioni delle parti, al fine di valutare se posizioni di supremazia di una di esse e di eventuale dipendenza, anche economica, dell'altra siano stati forieri di comportamenti abusivi, posti in essere per raggiungere i fini che la parte si è prefissata.
Per questa ragione il giudice, nel controllare ed interpretare l'atto di autonomia privata, deve operare ed interpretare l'atto anche in funzione del contemperamento degli opposti interessi delle parti contrattuali.
Xxxx, pertanto, il giudice di merito quando afferma che vi è un'impossibilità di procedere ad un giudizio di ragionevolezza in ambito contrattuale, escludendo che lo stesso possa controllare l'esercizio del potere di recesso; ritenendo che, diversamente si tratterebbe di una valutazione politica.
Il problema non è politico, ma squisitamente giuridico ed investe i rimedi contro l'abuso dell'autonomia privata e dei rapporti di forza sul mercato, problemi questi che sono oggetto di attenzione da parte di tutti gli ordinamenti contemporanei, a causa dell'incremento delle situazioni di disparità di forze fra gli operatori economici.
Al giudicante è richiesta, attraverso il controllo e l'interpretazione dell'atto di recesso - al fine di affermarne od escluderne il suo esercizio abusivo, condotto alla luce dei principii più volte enunciati - proprio ed esclusivamente una valutazione giuridica.
Le considerazioni tutte effettuate consentono, quindi, di concludere che la Corte di merito abbia errato quando ha adottato le seguenti proposizioni argomentative: 1) che la sussistenza di un atto di abuso del diritto sia
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soltanto speculare agli atti emulativi e postuli il concorso di un elemento oggettivo, consistente nell'assenza di utilità per il titolare del diritto, e di un elemento soggettivo costituito dall'animus nocendi; 2) che, stabilito che la Renault Italia era libera di modificare l'assetto di vendita, il recesso ad nutum era il mezzo più conveniente per realizzare tale fine; al che conseguirebbe l'insussistenza dell'abuso; 3) che, una volta che l'ordinamento abbia apprestato un dato istituto, spetta all'autonomia delle parti utilizzarlo o meno; 4) che non sussista la possibilità di utilizzare un giudizio di ragionevolezza in ambito privatistico - in particolare contrattuale - in cui i valori di riferimento non solo non sono unitari, ma sono addirittura contrapposti; 5) che nessuna valutazione delle posizioni contrattuali delle parti - soggetti deboli e soggetti economicamente “forti” -, anche con riferimento alle condizioni tutte oggetto della previsione contrattuale, rientri nella sfera di valutazione complessiva del Giudicante.
La Corte di merito ha affermato che l'abuso fosse configurabile in termini di volontà di nuocere, ovvero in termini di “neutralità”; nel senso cioè che, una volta che l'ordinamento aveva previsto il mezzo (diritto di recesso) per conseguire quel dato fine (scioglimento dal contratto di concessione di vendita), erano indifferenti le modalità del suo concreto esercizio.
Ma il problema non è questo.
Il problema è che la valutazione di un tale atto deve essere condotta in termini di “conflittualità”. Ovvero: posto che si verte in tema di interessi contrapposti, di cui erano portatrici le parti, il punto rilevante è quello della proporzionalità dei mezzi usati.
Proporzionalità che esprime una certa procedimentalizzazione nell'esercizio del diritto di recesso (per es. attraverso la previsione di trattative, il riconoscimento di indennità ecc.).
In questo senso, la Corte di appello non poteva esimersi da un tale controllo condotto, secondo le linee guida esposte, anche, quindi, sotto il profilo dell'eventuale abuso del diritto di recesso, come operato.
In concreto, avrebbe dovuto valutare - e tale esame spetta ora al giudice dei rinvio - se il recesso ad nutum previsto dalle condizioni contrattuali, era stato attuato con modalità e per perseguire fini diversi ed ulteriori rispetto a quelli consentiti.
Ed in questo esame si sarebbe dovuta avvalere del materiale probatorio acquisito, esaminato e valutato alla luce dei principii oggi indicati, al fine di valutare - anche sotto il profilo del suo abuso - l'esercizio del diritto riconosciuto.
In ipotesi, poi, di eventuale, provata disparità di forze fra i contraenti, la verifica giudiziale del carattere abusivo o meno del recesso deve essere più ampia e rigorosa, e può prescindere dal dolo e dalla specifica intenzione di nuocere: elementi questi tipici degli atti emulativi, ma non delle fattispecie di abuso di potere contrattuale o di dipendenza economica.
Le conseguenze, cui condurrebbe l'interpretazione proposta dalla sentenza impugnata, sono inaccettabili.
La esclusione della valorizzazione e valutazione della buona fede oggettiva e della rilevanza anche dell'eventuale esercizio abusivo del recesso, infatti, consentirebbero che il recesso ad nutum si trasformi in un recesso, arbitrario, cioè ad libitum, di sicuro non consentito dall'ordinamento giuridico.
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Il giudice del rinvio, quindi, dovrà riesaminare la questione, tenendo conto delle indicazioni fornite e dei principii enunciati, al fine di riconoscere o meno il carattere abusivo del recesso e l'eventuale, consequenziale diritto al risarcimento del danni subiti.
Tutto ciò in chiave di contemperamento dei diritti e degli interessi delle parti in causa, in una prospettiva anche di equilibrio e di correttezza dei comportamenti economici.
Le conclusioni raggiunte consentono di ritenere irrilevante, e, quindi, superfluo l'esame degli ulteriori profili di censura proposti.
I temi dell'abuso di dipendenza economica e della applicabilità analogica od estensiva della normativa in materia di subfornitura (in particolare art. 9 L. 18.6.1998 n. 172) non hanno costituito oggetto di specifica censura contenuta nei motivi di ricorso.
Quanto alle analogie riscontrate dai ricorrenti fra il contratto di concessione di vendita e quello di agenzia, ai fini del riconoscimento del diritto dei concessionari a percepire una somma a titolo di indennità, poi, ad un sommario esame - il quale, peraltro, si presenterebbe superfluo ai fini che qui interessano, per le conclusioni raggiunte sui temi in precedenza trattati - si presentano di dubbia praticabilità.
Il contratto di concessione di vendita, infatti, per la sua struttura e la sua funzione economico -sociale, presenta aspetti che lo avvicinano al contratto di somministrazione, ma non può, però essere inquadrato in uno schema contrattuale tipico, trattandosi, invece, di un contratto innominato, che si caratterizza per una complessa funzione di scambio e di collaborazione e consiste, sul piano strutturale, in un contratto - quadro o contratto normativo (Cass. 17 dicembre 1990, n. 11960), dal quale deriva l'obbligo di stipulare singoli contratti di compravendita, ovvero l'obbligo di concludere contratti di puro trasferimento dei prodotti, alle condizioni fissate nell'accordo iniziale (v. anche Cass. 22.2.1999 n. 1469; Cass. 11.6.2009 n. 13568).
Proprio una tale struttura e funzione economica, che esclude profili rilevanti di collaborazione, sembra doverlo porre al di fuori dell'area di affinità con il contratto di agenzia (v. anche Cass. 21.7.1994 n. 6819).
Con il quinto motivo (subordinato) i ricorrenti principali denunciano la mancata compensazione delle spese relative al giudizio di appello da parte della Corte di merito.
Il motivo resta assorbito dalle conclusioni raggiunte in ordine ai motivi che precedono. Ricorso incidentale
Con unico motivo la resistente e ricorrente incidentale denuncia la omessa motivazione sull'appello incidentale proposto dalla Renault Italia spa, relativamente alla liquidazione delle spese del giudizio di primo grado.
Anche questo motivo, in materia di spese, resta assorbito dalle conclusioni raggiunte in ordine ai motivi del ricorso principale che precedono.
Il giudice del rinvio, dovrà, infatti, procedere ad una nuova ed autonoma regolamentazione delle spese del processo.
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Conclusivamente, va rigettato il primo motivo del ricorso principale; vanno accolti, nei limiti di cui in motivazione, il secondo, terzo e quarto motivo; vanno dichiarati assorbiti il quinto motivo ed il ricorso incidentale.
La sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi, come accolti, e la causa va rimessa alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione.
Il giudice del rinvio si pronuncerà anche sulle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi. Rigetta il primo motivo del ricorso principale, Accoglie, nei limiti di cui in motivazione, il secondo, terzo e quarto motivo. Dichiara assorbiti il quinto, nonché il ricorso incidentale. Xxxxx in relazione e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione.
1.5 Corte Costituzionale, ordinanza del 21.10. 2013, n. 248
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 1385, secondo comma, del codice civile, promosso dal Tribunale ordinario di Tivoli nel procedimento vertente tra P. S. ed altro e C. C. ed altro, con ordinanza del 10 ottobre 2012, iscritta al n. 2 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 25 settembre 2013 il Giudice relatore Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxx.
Ritenuto che □ in un giudizio civile promosso per ottenere la restituzione di somma che gli attori assumevano versata come anticipo (in misura di circa un terzo del pattuito) per l’acquisto di un immobile, che non aveva poi potuto, però, aver luogo per la mancata erogazione, ad essi, di un mutuo bancario destinato a coprire il residuo prezzo □ l’adito Tribunale ordinario di Tivoli, premesso che nel preliminare di vendita, l’importo corrisposto dai promissari acquirenti, era stato testualmente qualificato come “caparra confirmatoria”, ha sollevato d’ufficio, con l’ordinanza in epigrafe, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1385, secondo comma, del codice civile, «nella parte in cui non dispone che – nelle ipotesi in cui la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra e nella ipotesi in cui, se inadempiente è invece la parte che l’ha ricevuta, l’altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra – il giudice possa equamente ridurre la somma da ritenere o il doppio da restituire, in ipotesi di manifesta sproporzione o ove […] sussistano giustificati motivi»;
che, ad avviso del rimettente, si prospetta, nella specie, una esigenza di bilanciata tutela del diritto della parte non inadempiente (cioè del venditore), a percepire la caparra, e dell’opposto interesse di quella inadempiente (cioè del promissario acquirente) a non perdere un capitale notevole, ed eccessivo nella sua quantificazione, a fronte di un (proprio) inadempimento che, «seppur colposo, certamente non è stato voluto e rispetto al quale si è adoperato in ogni modo per trovare una soluzione»;
che, però, l’automatismo della disciplina recata dalla disposizione denunciata non lascerebbe spazio al giudice per alcun rimedio ripristinatorio dell’equità oggettiva e del complessivo equilibrio contrattuale; dal che il dubbio, appunto, della sua “irragionevolezza”;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità della questione, per omessa espressa indicazione dei parametri costituzionali violati; e, in subordine, per la sua non fondatezza.
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Considerato che, dal contesto dell’ordinanza di rimessione, è chiaramente individuabile, nell’articolo 3, secondo comma, della Costituzione, il parametro rispetto al quale il giudice a quo sollecita la verifica di costituzionalità della disciplina della caparra confirmatoria, per sospetta sua «intrinseca incoerenza […] rispetto alla complessiva finalità perseguita dal legislatore», per cui non risulta fondata l’eccezione di inammissibilità come sopra formulata dall’Avvocatura;
che la questione in esame è, però, comunque, manifestamente inammissibile per difetto di motivazione, in punto sia di non manifesta infondatezza che di rilevanza;
che, infatti, per il primo profilo, nel presupporre un oggettivo ed insuperabile automatismo tra l’inadempimento del tradens e la ritenzione della caparra confirmatoria da parte dell’accipiens (e, specularmente, tra l’inadempimento dell’accipiens e il diritto della controparte ad esigerne il doppio), il rimettente omette di considerare che ciò che viene in rilievo, anche nel contesto della disciplina del recesso recata dall’articolo 1385 del codice civile, è comunque un inadempimento «gravemente colpevole, […] cioè imputabile (ex art. 1218 x.x. x xxx. 0000 x.x.) x xx xxx xxxxxx importanza (ex art. 1456 c.c.)», come ben posto in evidenza nella sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 533 del 2009;
che, in punto poi di rilevanza, il Tribunale rimettente, per un verso, trascura di indagare compiutamente la reale portata dei patti conclusi dalle parti contrattuali, così da poter esprimere un necessario coerente giudizio di corrispondenza del nomen iuris rispetto all’effettiva funzione della caparra confirmatoria; per altro verso, non tiene conto dei possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta (come, nella specie, egli prospetta) un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte. E ciò in ragione della rilevabilità, ex officio, della nullità (totale o parziale) ex articolo 1418 cod. civ., della clausola stessa, per contrasto con il precetto dell’articolo 2 Cost., (per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà) che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa, «funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale nella misura in cui non collida con l’interesse proprio dell’obbligato» (Corte di cassazione n. 10511 del 1999; ma già n. 3775 del 1994 e, in prosieguo, a sezioni unite, n. 18128 del 2005 e n. 20106 del 2009).
Visti gli artt. 26, secondo xxxxx, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1385, secondo comma, del codice civile, sollevata, in riferimento all’articolo 3, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Tivoli, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 ottobre 2013.
1.6 Corte Costituzionale, ordinanza del 2.4. 2014, n. 77
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1385, secondo comma, del codice civile, promosso dal Tribunale ordinario di Tivoli nel procedimento civile tra L.C. e M.P., con ordinanza del 3 aprile 2013, iscritta al n. 181 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
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udito nella camera di consiglio del 26 febbraio 2014 il Giudice relatore Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxx.
Ritenuto che con l’ordinanza in epigrafe – emessa nel corso di un giudizio civile promosso, dalla promissaria acquirente di un immobile, per ottenere, in ragione della mancata stipula del contratto definitivo, la condanna del promittente venditore a restituirle il doppio della caparra già versata – l’adito Tribunale ordinario di Tivoli ha sollevato, sotto il profilo della irragionevolezza, intesa come «intrinseca incoerenza, contraddittorietà od illogicità», questione di legittimità costituzionale dell’art. 1385, secondo comma, del codice civile, «nella parte in cui non dispone che – nelle ipotesi in cui la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra e nella ipotesi in cui, se inadempiente è invece la parte che l’ha ricevuta, l’altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra – il giudice possa equamente ridurre la somma da ritenere o il doppio da restituire, in ipotesi di manifesta sproporzione o ove sussistano giustificati motivi», tenendo conto della natura dell’affare e delle prassi commerciali;
che, ad avviso del rimettente, l’automatismo della disciplina recata dalla disposizione denunciata non lascerebbe spazio al giudice per alcun rimedio ripristinatorio dell’equità oggettiva e del complessivo equilibrio contrattuale in fattispecie – come quella al suo esame – in cui sussista una «evidente sproporzione che porterebbe ad una restituzione complessiva di somme, addirittura superiori al valore stesso dell’affare»;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità della questione, per omessa espressa indicazione dei parametri costituzionali evocati, e, in subordine, per la sua infondatezza.
Considerato, che, dal contesto dell’ordinanza di rimessione, è chiaramente individuabile, nell’art. 3, secondo comma, della Costituzione, il parametro rispetto al quale il giudice a quo sollecita la verifica di costituzionalità della disciplina della caparra confirmatoria, per sospetta sua «intrinseca incoerenza […] rispetto alla complessiva finalità perseguita dal legislatore», per cui non risulta fondata l’eccezione di inammissibilità come sopra formulata dall’Avvocatura;
che, comunque, questione identica a quella odierna – già sollevata dal medesimo Tribunale ordinario di Tivoli in fattispecie speculare, di ritenzione della caparra da parte del promittente del venditore – con sentenza di questa Corte n. 248 del 2013, è stata dichiarata manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sia in punto di non manifesta infondatezza che di rilevanza. Quanto al primo profilo, perché – nel presupporre un oggettivo ed insuperabile automatismo tra l’inadempimento dell’accipiens o del tradens, e, rispettivamente, la restituzione del doppio, ovvero la ritenzione, della caparra confirmatoria – il rimettente aveva omesso di considerare, al fine del decidere, che ciò che viene in rilievo, anche nel contesto della disciplina del recesso recata dall’art. 1385 del codice civile, è comunque un inadempimento «“gravemente colpevole […], cioè imputabile (ex artt. 1218 e 1256 c.c.) e di non scarsa importanza (ex art. 1456 c.c.)” come ben posto in evidenza nella sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 533 del 2009». E, quanto al secondo profilo, perché quel Tribunale non aveva tenuto conto dei possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta (come da sua prospettazione) un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte. E ciò in ragione della rilevabilità ex officio della nullità (totale o parziale), ex art. 1418 cod. civ., della clausola stessa, per contrasto con il precetto dell’art. 2 Cost. (per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà), che entra direttamente nel
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contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa,
«“funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale nella misura in cui non collida con l’interesse proprio dell’obbligato” (Corte di cassazione n. 10511 del 1999; ma già n. 3775 del 1994 e, in prosieguo, a Sezioni unite, n. 18128 del 2005 e n. 20106 del 2009)»;
che – stante l’assoluta identità di contenuto tra l’ordinanza di rimessione oggetto della richiamata sentenza n. 248 del 2013 e quella odierna – la questione da quest’ultima riproposta (in relazione a fattispecie analoga, ancorché a parti invertite, rispetto a quella precedente) va, conseguentemente, a sua volta, dichiarata, per le stesse ragioni, manifestamente inammissibile.
Visti gli articoli 26, secondo xxxxx, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1385, secondo comma, del codice civile, sollevata, in riferimento all’art. 3, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Tivoli, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 marzo 2014.
2. L’invalidità
2.1 Cassazione civile , SS.UU., sentenza 12. 12. 2014 n° 26242
All. 1
3. Il procedimento di formazione
3.1 Cassazione civile , SS.UU., sentenza 27.03.2008 n° 7930
Motivi della decisione
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Preliminarmente, devesi confermare che i due ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza e tra loro connessi, vanno riuniti ex art. 335 c.p.c..
Va, inoltre, del pari preliminarmente rilevato come i ricorsi rubricati sub nn. R.G. 13911/03 ( O. c/ ICE-SNEI) e
R.G. 13686/03 (ICE-SNEI c/ O.), proposti contestualmente ai rispettivi controricorsi e con i quali, tra l'altro, le parti riprospettano le medesime questioni fatte valere con i loro ricorsi originari, siano da considerare inammissibili.
E', infatti, principio acquisito che la parte, dalla quale siasi già proposto ricorso per cassazione (sia esso principale od incidentale) contro alcune delle statuizioni della sentenza di merito, nel rapporto con un determinato avversario, non possa successivamente presentare un nuovo ricorso, nell'ambito dello stesso rapporto, nemmeno se nel frattempo abbia ricevuto notificazione del ricorso di detto avversario, ed a prescindere dal fatto che quest'ultimo possa suggerire un'estensione della contesa anche con riguardo ad altre pronunzie relative a quel rapporto, atteso che l'ordinamento non consente il reiterarsi o frazionarsi dell'iniziativa impugnatoria in atti separati (secondo il principio della cosiddetta consumazione dell'impugnazione) e che il relativo divieto non trova deroga nelle disposizioni di cui all'art. 334 c.p.c., le quali operano soltanto in favore della parte che, prima dell'iniziativa dell'altro contendente, abbia fatto una scelta di acquiescenza alla sentenza impugnata (da ultimo, Cass. 2.2.07 n. 2309, 14.11.06 n. 24219, 27.10.05 n. 20912, 26.9.05 n. 18756, 10.2.05 n. 2704, 24.12.04 n. 23976).
Si può, quindi procedere all'esame dei due ricorsi originar, dei quali quello previamente proposto (R.G. n. 10084/03 ICE-SNEI c/ O.) va considerato principale e quello successivo (R.G. 10431/03 O. c/ ICE-SNEI) incidentale.
1. - RICORSO PRINCIPALE. Con il primo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente, denunziando violazione del principio della domanda con riferimento agli artt. 99 e 112 c.p.c., sotto il profilo della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del principio dell'onere della prova con riferimento all'art. 2697 c.c., si duole, rispettivamente: che il giudice a quo non abbia tenuto conto della domanda di risoluzione del preliminare, siccome formulata per inadempimento della controparte non all'obbligazione di stipulare il definitivo, unica presa in considerazione nell'impugnata sentenza pur senza domanda in tal senso, bensì alla diversa obbligazione di pagamento del prezzo, posta con l'art. 4 del contratto, laddove le parti avevano espressamente previsto che il ritardo nel pagamento o il mancato pagamento anche di una sola rata di mutuo avrebbe comportato la facoltà per la venditrice di risolvere il contratto, obbligazione della quale nella sentenza stessa non è stato tenuto alcun conto;
che il giudice a quo abbia escluso l'inadempimento della controparte in relazione al pagamento del prezzo convenuto nonostante questa non a-vesse fornito dimostrazione alcuna di tale pagamento.
Con il secondo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, la ricorrente denunzia vizi di motivazione sulle questioni sollevate con il motivo precedente.
Le riportate censure - che, per connessione, possono essere trattate congiuntamente - non meritano accoglimento sotto alcuno dei prospettati profili d'omessa pronunzia e d'extrapetizione.
Quanto al primo profilo, per inammissibilità: dacchè, come ripetutamente evidenziato da questa Corte, l'omessa pronunzia, quale vizio della sentenza, dev'essere, anzi tutto, fatta valere dal ricorrente per cassazione esclusivamente attraverso la deduzione del relativo error in procedendo e della violazione dell'art. 112 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4 e non già in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
Ciò che la ricorrente non ha fatto.
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Può aggiungersi che, onde possa utilmente dedursi il detto vizio, è necessario, da un lato, che al giudice del merito fossero state rivolte una domanda od un'eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si rendesse necessaria ed ineludibile, e, dall'altro, che tali domanda od eccezione siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente e/o per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l'indicazione specifica, altresì, dell'atto difensivo del giudizio di secondo grado nel quale l'una o l'altra erano state proposte o riproposte, onde consentire al giudice di legittimità di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività della proposizione nel giudizio a quo ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi; ove, infatti, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, dell'art. 112 c.p.c., ciò che configura un'ipotesi di error in procedendo per il quale questa Corte è giudice anche del "fatto processuale", detto vizio, non essendo rilevabile d'ufficio, comporta pur sempre che il potere- dovere del giudice di legittimità d'esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato all'adempimento da parte del ricorrente, per il principio d'autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l'altro, il rinvio per relationem agli atti della fase di merito, dell'onere d'indicarli compiutamente, non essendo consentita al giudice stesso una loro autonoma ricerca ma solo una loro verifica (Cass. 19.3.07 n. 6361, 28.7.05 n. 15781 SS.UU., 23.9.02 n. 13833, 11.1.02 n. 317, 10.5.01 n. 6502).
Anche rispetto a tali oneri la ricorrente risulta inadempiente, donde un'ulteriore ragione d'inammissibilità della censura.
Quanto al secondo profilo, per infondatezza, dacchè, almeno nei termini in cui sono state prospettate, le censure d'extrapetizione e di connesso vizio di motivazione non trovano rispondenza all'esame della sentenza impugnata.
Con la quale la causa petendi della riconvenzionale in risoluzione proposta dall'odierna ricorrente è stata correttamente individuata, nel fatto che " O.E. con detto preliminare si era impegnato al pagamento della complessiva somma di L. 8.337.360, ma non aveva provveduto al pagamento delle rate in cui era stato dilazionato il prezzo nè al pagamento delle rate del mutuo accollato", ma ne è stato escluso il fondamento, in quanto vi si è ritenuto che, risultando contrattualmente pattuita la stipulazione del definitivo nei dieci giorni dall'invito rivolto per lettera raccomandata dalla promittente venditrice al promissario acquirente e la prima non avendo mai provveduto al riguardo, nessun inadempimento fosse imputabile al secondo "neanche in relazione al pagamento del prezzo convenuto".
In siffatto se pur sintetico iter logico-argomentativo - evidentemente ispirato al principio per cui un inadempimento del promissario acquirente all'obbligazione di pagamento del prezzo non può ravvisarsi ove non siano stati contrattualmente stabiliti versamenti a scadenze determinate anteriori alla stipulazione del definitivo - sarebbero stati eventualmente ravvisabili e denunziabili errori d'interpretazione del contratto preliminare e/o d'inappropriata applicazione del richiamato principio al caso di specie, peraltro neppure accennati con i motivi in esame, ma non sono ravvisabili i dedotti vizi d'extrapetizione e di connesso difetto di motivazione.
D'altra parte, la censura neppure presenta il requisito dell'autosufficienza, ed è pertanto inammissibile, dacchè non vi è riportato il testo del contratto o, quanto meno, delle clausole tutte pertinenti alla prospettata questione, di guisa che il giudice di legittimità, cui non è consentito l'esame diretto dell'incarto processuale se non nelle ipotesi di denunziati errores in procedendo, non è posto in condizione di valutare la dedotta erronea applicazione del regolamento pattizio.
2. - RICORSO INCIDENTALE. L' O. - denunziando con il primo motivo del ricorso n. 10431/03 la violazione dell'art. 1158 c.c. e art. 116 c.p.c., xxxxxx omessa o insufficiente e contraddittoria motivazione - oltre a dolersi dell'inadeguatezza delle argomentazioni svolte dalla corte territoriale, laddove ha escluso l'interversione della sua detenzione sull'immobile de quo in un possesso utile all'usucapione, contesta, anzi tutto, la stessa qualificazione come detenzione, anzichè come possesso, data da quel giudice alla materiale disponibilità del bene quale da lui conseguita in esecuzione di specifica clausola del contratto preliminare; assume, al riguardo, che, tale pattuizione
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avendo avuto la funzione di anticipare gli effetti del trasferimento del diritto di proprietà, oggetto del contratto cui era intesa la volontà delle parti, e, quindi, anche l'effetto dell'immissione nel possesso e non nella detenzione dell'immobile, non fosse conseguentemente necessario alcun atto d'interversione perchè ne avesse luogo l'usucapione con il decorso del termine ventennale di prescrizione acquisitiva dall'immissione nel godimento dello stesso.
In tal senso svolgendo le proprie tesi, l' O. contrappone alla soluzione adottata dal giudice a quo - che, come ricordato nell'ordinanza di rimessione, si è conformato alla giurisprudenza di legittimità prevalente - la difforme soluzione adottata da un indirizzo giurisprudenziale minoritario e, tuttavia, a tratti riemergente in alcune pronunzie, anche relativamente recenti, di questa Corte.
La motivazione della maggior parte delle quali si traduce in affermazioni apodittiche, riproduttive di massime tralaticie, mentre, nelle poche obiettivamente argomentate, l'iter logico dell'adottata soluzione prende le mosse dalla considerazione per cui il possesso non è escluso dalla conoscenza del diritto altrui, nè è subordinato all'esistenza della correlativa situazione giuridica,dacchè esso è ricollegato, sia sotto il profilo materiale (corpus) sia sotto quello psicologico (animus), ad una situazione di fatto, che si concretizza nell'esercizio di un potere oggettivo sulla cosa manifestantesi in un'attività corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà o di altro diritto reale e distinguentesi dalla detenzione solo per l'atteggiamento psicologico del soggetto che lo esercita, caratterizzato, nel possesso, dal cd. animus rem sibi habendi (ossia, l'intenzione o il volere di esercitare la signoria che è propria del proprietario o del titolare del diritto reale) e, nella detenzione, dal cd. animus detinendi (che implica il riconoscimento della signoria xxxxxx).
Soggiungendosi, poi, che tale principio di carattere generale non soffre deroga nei casi in cui il soggetto che assume d'essere possessore abbia ricevuto il godimento dell'immobile per effetto d'una convenzione negoziale, con la precisazione che, se la convenzione ha effetti obbligatori, perchè diretta ad assicurare il mero godimento della cosa, senza alcun trasferimento immediato o differito del bene, colui che, avendo ricevuto la consegna per questo solo scopo, si è immesso, nomine alieno, nel godimento del bene, necessariamente stabilisce con la cosa un rapporto di mera detenzione che gli consente di mutare il titolo originario di questo rapporto con la cosa solo attraverso un atto di interversione del possesso, ai sensi dell'art. 1141 c.c., comma 2.
Vi si evidenzia, quindi, che ciò spiega la ragione del principio, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo il quale "per stabilire se in conseguenza di una convenzione con la quale un soggetto riceve da un altro il godimento di un immobile si abbia un possesso idoneo alla usucapione o una mera detenzione, occorre fare riferimento all'elemento psicologico del soggetto stesso ed a tal fine stabilire se la convenzione sia un contratto ad effetti reali o un contratto ad effetti obbligatori, dato che solo nel primo caso il contratto è idoneo a determinare nel predetto soggetto l'animus possidendi (sent. n. 4819 del 1981; sent. n. 4698 del 1987; sent. n. 741 del 1983)"; che, tuttavia, proprio la ragione del principio di diritto ora enunciato ne fissa anche il limite, escludendone l'applicazione alle convenzioni con le quali, per quanto con effetti solo obbligatori, le parti tendano a realizzare il trasferimento della proprietà del bene o di un diritto reale su di esso quando ad esse si aggiunga un patto accessorio d'immediato effetto traslativo del possesso, sostanzialmente anticipatore degli effetti traslativi del diritto che, con la convenzione, le parti stesse si sono ripromesse di realizzare.
Vi si perviene, così, alla conclusione per cui nelle ipotesi predette, tra le quali rientra quella più diffusa del contratto preliminare di compravendita, la convenzione non tende solo ad attribuire il godimento del bene (che si realizza, appunto, attraverso il trasferimento della mera detenzione, caratterizzando coerentemen-te la consegna della cosa) ma è in funzione di un comune proposito di trasferimento della proprietà o di un diritto reale, alla quale è coerente il passaggio immediato del possesso, che costituisce solo un'anticipazione dell'effetto giuridico finale perseguito; onde il patto di immediato trasferimento del possesso che eventualmente acceda a queste convenzioni, con le quali è perfettamente compatibile, caratterizza, dunque, anche la consegna che ad esso
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faccia seguito, conferendole effetti attributivi della disponibilità possessoria e non della mera detenzione, anche in mancanza dell'immediato effetto reale del contratto cui il patto accede, tenuto anche conto che la consegna, essendo il possesso un fenomeno che prescinde dal fondamento giustificativo, è atto neutro, o negozio astratto, per il quale non si richiede affatto il requisito del fondamento causale.
Tali essendo le ragioni giustificative delle esaminate decisioni, devesi considerare che, sfrondate dei superflui richiami ai principi generali, che si dichiarano condivisi, esse si riducono, in buona sostanza, alla sola affermazione per cui, nonostante la natura esclusivamente obbligatoria del preliminare, con il prevedervi anche l'immediata consegna del bene verso la contestuale corresponsione, in tutto od in parte, del prezzo, i contraenti intendono anticipare "l'effetto traslativo del diritto" proprio del definitivo.
Tesi siffatta non può trovare adesione, sia che della fattispecie in esame si consideri l'aspetto possessorio, in quanto il possesso non è suscettibile di trasferimento disgiuntamente dal diritto reale del quale costituisce l'esercizio, sia che se ne consideri quello contrattuale, in quanto la disponibilità della res conseguita dal promissario acquirente deriva da un contratto di comodato collegato al preliminare per il quale al comodatario è attribuita la detenzione e non il possesso; ciò per le ragioni che di seguito si espongono.
In primis, è lo stesso invocato intento delle parti ad esservi erroneamente individuato e/o travisato, in quanto, con lo stipulare un preliminare, sono per l'appunto gli effetti reali traslativi, propri del definitivo, che le parti non vogliono si verifichino per effetto immediato e diretto della conclusa convenzione.
La situazione giuridica in esame, come evidenziato anche in dottrina, è, in vero, il portato d'una prassi contrattuale sviluppatasi, essenzialmente nel settore immobiliare, in ragione della sua attitudine a fornire uno strumento idoneo a soddisfare sollecitamente determinate esigenze delle parti, principalmente la disponibilità del bene per l'una e del denaro per l'altra ma ulteriori se ne possono agevolmente ipotizzare, pur contestualmente garantendone i rispettivi diritti sui beni oggetto delle reciproche attribuzioni, indipendentemente dalla sorte della convenzione, per il tempo necessario a che si realizzino quelle condizioni oggettive e/o soggettive, agevolmente ipotizzabili anch'esse nella loro molteplicità, in ragione delle quali - tanto che siano rimaste del tutto estranee alla convenzione, eppertanto giuridicamente irrilevati anche a solo livello di presupposizione, quanto che, invece, sianvi espressamente previste come condizioni sospensive o risolutive - le parti stesse non hanno voluto o potuto addivenire ad un contratto definitivo.
Sono usuali, al riguardo, particolarmente nella materia delle compravendite immobiliari - che è quella più interessata dal fenomeno - le ipotesi in cui il promittente venditore debba portare a termine procedimenti amministrativi di regolarizzazione dell'edificio od opere di completamento dell'edificio stesso o delle infrastrut- ture accessorie od estinguere ipoteche o mutui, in difetto di che non sussiste l'interesse e conseguentemente la volontà di perfezionare l'acquisto da parte del promissario acquirente; o quelle in cui quest'ultimo debba, a sua volta, procurarsi, anche in più riprese, le disponibilità necessarie alla corresponsione integrale del prezzo, il conseguimento del quale condiziona parimenti interesse e volontà del promittente venditore alla realizzazione della vendita.
Dottrina e giurisprudenza, quando - sulla considerazione per cui la terminologia "promette di vendere o di acquistare" non è automaticamente indicativa d'una semplice promessa e la cosiddetta anticipazione degli effetti della vendita può essere indice dell'intento di porre in essere un contratto definitivo se il differimento della manifestazione di volontà non risulti chiaramente dal contratto - affermano che, al fine di attribuire ad una stipulazione il contenuto del contratto di compravendita o piuttosto quello del preliminare di compravendita, è determinante l'identificazione del comune intento delle parti - diretto, nel primo caso, al trasferimento della proprietà della res verso la corresponsione di un certo prezzo, conformemente alla causa negoziale dell'art. 1470 c.c., e, nel secondo caso, all'insorgenza di un particolare rapporto obbligatorio che impegni ad un'ulteriore manifestazione di volontà, alla quale sono rimessi il trasferimento del diritto dominicale sulla res e l'adempimento
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dell'obbligazione del pagamento del prezzo - onde il giudice del merito deve esaminare la stipulazione nel suo complesso al fine di accertare la comune volontà delle parti nell'un senso piuttosto che nell'altro, compiono, in verità, solo un primo approccio alla questione in esame, che, evidentemente, più non si porrebbe ove l'accertamento demandato al giudice si risolvesse nel senso del contratto ad effetti reali, dacchè, in tal caso, non vi sarebbe, evidentemente, luogo a parlare di preliminare, dacchè le prestazioni rese avrebbero già realizzato gli effetti del definitivo.
Viceversa, se l'accertamento compiuto dal giudice dovesse approdare al preliminare, è da escludere in re ipsa, come si è già sottolineato, che le parti intendessero realizzare qualsiasi effetto del definitivo, eppertanto, ai fini della soluzione della questione in esame, si rende necessaria un'indagine ulteriore e diversa in ordine alla volontà delle parti, onde identificare quali effetti, differenti da quelli propri del definitivo ma aggiuntivi rispetto a quelli ordinari del preliminare, le parti stesse avessero inteso far derivare dalla convenzione, in attuazione della quale ed in particolare delle pattuizioni aggiuntive hanno, di seguito, operato alcune prestazioni corrispondenti a quelle proprie del definitivo.
Al fine della qual ulteriore indagine, devesi preliminarmente considerare come la previsione e l'esecuzione della traditio della res e/o del pagamento, anche totale, del prezzo non siano affatto, di per se stessi, incompatibili con l'intento di stipulare un contratto solo preliminare di compravendita, dacchè, in tal guisa operando, le parti manifestano e concretamente realizzano esclusivamente l'intento d'anticipare non gli effetti del contratto di compravendita - l'impegno alla cui futura stipulazione costituisce l'oggetto delle obbligazioni assunte con la convenzione stipulata nella prescelta forma del preliminare, mentre tali effetti rappresentano, per contro, proprio quel risultato cui le parti stesse non hanno inteso, al momento, pervenire - ma solo quelle prestazioni che delle obbligazioni nascenti dalla compravendita costituiscono l'oggetto, id est la consegna della res ed il pagamento del prezzo, quali, ex artt. 1476 e 1498 c.c., sono poste a carico, rispettivamente, del venditore e del compratore (nel tempo, Cass. 19.4.00 n. 5132, 7.4.90 n. 2916, 3.11.88 n. 5962, ma già 1.12.62 n. 3250).
Escluso che con la stipulazione del preliminare, sia pure con previsione, ed esecuzione, della consegna della res e/o del pagamento del prezzo, le parti debbano avere necessariamente inteso che si verificassero gli effetti della compravendita - nel qual caso, d'altronde, come si è già evidenziato, si sarebbe in presenza d'un definitivo e non d'un preliminare - devesi anche escludere che, in virtù di tale esecuzione, possa essersi trasmesso dal promittente venditore al promissario acquirente il possesso della res.
In vero, come questa Corte ha già avuto occasione d'evidenziare - richiamando anche accreditata dottrina, per la quale "ciò che si trasferisce è solo l'oggetto del possesso, il quale, invece, non si compra e non si vende, non si cede e non si riceve per l'effetto di un negozio", e, perciò, "l'acquisto a titolo derivativo del possesso è un'espressione da usarsi solo in senso empirico e traslato" - dalla stessa nozione del possesso, definito dall'art. 1140 cod. civ. come "il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale", si evince ch'esso non può essere trasferito per contratto separatamente dal diritto del quale esso costituisca l'esercizio, considerato che un'attività non è mai trasmissibile, ma può solo essere intrapresa, e l'intrasmissibilità è maggiormente evidente in ordine al possesso, in quanto l'attività che lo contraddistingue deve essere accompagnata dall'animus possidendi (volontà di esercitare sulla cosa una signoria corrispondente alla proprietà o ad altro diritto reale), cioè da un elemento che, per la sua soggettività, può essere proprio soltanto di colui che attualmente possiede e non di chi ha posseduto in precedenza. (Cass. 27.9.96 n. 8528).
Quindi esattamente si è affermato in dottrina che, essendo il possesso uno stato di fatto, l'acquisto ne è in ogni caso originario, sì che anche chi propende per la tesi contraria riconosce che di acquisto derivativo possa parlarsi "soltanto per sottolineare che l'acquisto del possesso ha luogo con l'assenso e la partecipazione del precedente possessore e non con il solo contegno di colui che acquista il possesso, come accade nell'apprensione".
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L'unica eccezione a questa regola si ha nella successione universale, ma è un'eccezione espressamente prevista e regolata dal legislatore che, in forza dell'elaborata fictio legis, ha consentito la continuazione nell'erede del possesso esercitato dal de cuius, con effetto dall'apertura della successione, indipendentemente dalla verificazione dei suoi presupposti di fatto, ma, appunto perchè di diritto singolare ed eccezionale, l'istituto non può essere utilizzato onde pervenire ad una soluzione diversa da quella indicata con la richiamata regola generale.
Nè, a sostegno della tesi della possibilità d'una trasmissione contrattuale del possesso, può richiamarsi l'art. 1146 c.c., comma 2, perchè per tale norma l'accessio possessionis, da essa prevista, ha, per presupposto indispensabile, l'esistenza di un titolo, anche viziato, idoneo in astratto, alla cessione del diritto di proprietà (o di altro diritto reale) del bene formante oggetto del possesso (Cass. 6552/81, 3876/76, 3369/72, 936/70, 1378/64, 1044/62); inoltre, la norma non prevede affatto la trasmissione del possesso da un soggetto all'altro, ma soltanto la possibilità per il successore a titolo particolare (acquirente o legatario) di unire al proprio possesso quello distinto e diverso del dante causa per goderne gli effetti sostanziali e processuali.
Per altro verso, devesi considerare che il preliminare di compravendita con il quale siano contestualmente pattuite anche la consegna anticipata della res e la corresponsione del pari anticipata del prezzo in una o più soluzioni non è un contratto atipico, almeno se con tale termine s'intende definire un contratto caratterizzato da una funzione economico-sociale non riconducibile agli schemi normativamente predeterminati e tuttavia suscettibile di riconoscimento e di tutela, sul presupposto dell'autonomia contrattuale che l'ordinamento riconosce ai privati, in ragione dellasua liceità e della sua meritevolezza.
Nella fattispecie in esame va ravvisata, infatti, la convergenza, in un'unica convenzione, degli elementi costitutivi di più contratti tipici, nel qual caso resta escluso che la convenzione stessa possa essere qualificata come atipica, dal momento che, sia pure considerata nelle sue plurime articolazioni, non è intesa a realizzare una funzione economico-sociale nuova e diversa rispetto a quelle dei singoli contratti tipici che in essa sono confluiti.
Pertanto, considerato che le parti, nell'esplicazione della loro autonomia negoziale, possono, con manifestazioni di volontà espresse in un unico contesto, dar vita a più negozi tra loro del tutto distinti ed indipendenti, come pure a più negozi variamente interconnessi, la qualificazione della fattispecie va, piuttosto, effettuata con riguardo alla sua riconducibilità nell'ambito d'una delle categorie, elaborate da dottrina e giurisprudenza nell'esame delle fattispecie congeneri, dei contratti misti o complessi, o dei contratti collegati.
I contratti misti o complessi sono quelli maggiormente assimilabili al contratto atipico, se pur se ne differenziano per non essere intesi alla realizzazione d'una funzione economico-sociale nuova e diversa rispetto a quelle dei contratti tipici che vi confluiscono, dacchè in essi la pluralità degli schemi contrattuali tipici u- tilizzati si combina in guisa che, per la fusione delle cause, gli elementi costitutivi di ciascun negozio vengono assunti quali elementi costitutivi di un negozio rispetto a ciascun d'essi autonomo e distinto caratterizzato dall'unicità della causa; con la precisazione, evidenziata da alcuna parte della dottrina, per cui, nei contratti misti, si ha un solo schema negoziale, al quale vengono apportate alcune variazioni mediante l'inserimento di clausole assunte da uno o più diversi schemi, mentre, in quelli complessi, si ha la convergenza di tutti gli elementi costitutivi tratti da più schemi negoziali tipici nella regolamentazione dell'unico negozio risultantene.
Nell'una ipotesi come nell'altra, la disciplina del contratto è unitaria, come unitaria ne è la causa, e va ravvisata in quella del negozio di maggior rilievo, questo da individuarsi, quanto al contratto misto, nell'unico contratto cui sono stati aggiunti singoli elementi tratti da altri e che in esso si fondono (teoria dell'assorbimento), e, quanto al contratto complesso, in quello, tra i più contratti integralmente confluiti nell'unica convenzione, cui, all'esame della volontà quale in concreto manifestata dalle parti, risulti essere stato conferito rispetto agli altri il maggior rilievo in considerazione della finalità perseguita (teoria della prevalenza).
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Minor seguito ha, in dottrina, la tesi per cui, nell'ipotesi del contratto complesso, i vari profili della convenzione andrebbero singolarmente disciplinati con riferimento allo schema contrattuale corrispondente (teoria della combinazione); ed, in effetti, tesi siffatta non consente, poi, a differenza dalla teoria della prevalenza, un'adeguata differenziazione di disciplina tra la fattispecie del contratto complesso e quella dei contratti collegati.
La quale ricorre ove più contratti autonomi, ciascuno caratterizzato dalla propria causa, formino oggetto di stipulazioni coordinate, nell'intenzione delle parti, alla realizzazione di uno scopo pratico unitario, costituito, di norma, dall'agevolare la realizzazione della funzione economico-sociale dell'un d'essi.
Il collegamento contrattuale, come è stato ripetutamente evidenziato dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti, nei suoi aspetti generali non da luogo ad un autonomo e nuovo contratto, ma è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, che viene realizzato non per mezzo di un singolo contratto, bensì attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è finalizzato ad un unico regolamento dei reciproci interessi.
Ond'è che il criterio distintivo fra contratto unico, se pur misto o complesso, e contratto collegato non va ravvisato in elementi formali - quali l'unità o la pluralità dei documenti contrattuali (un contratto può essere unico anche se ricavabile da più testi, mentre un unico testo può riunire più contratti) o la mera contestualità delle stipulazioni (i contratti posso essere stipulati anche in momenti diversi in relazione ad esigenze sopravvenute) - ma nell'elemento sostanziale dell'unicità o pluralità degli interessi perseguiti, dacchè il "contratto collegato" non è un tipo particolare di contratto, ma uno strumento di regolamentazione degli interessi economici delle parti caratterizzato dal fatto che le vicende che investono un contratto (invalidità, inefficacia, risoluzione, ecc.) possono ripercuotersi sull'altro, seppure non in funzione di condizionamento reciproco (ben potendo accadere che uno soltanto dei contratti sia subordinato all'altro, e non anche viceversa) e non necessariamente in rapporto di principale ad accessorio.
Pertanto, affinchè possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la considerazione unitaria della fattispecie, è necessario che ricorrano sia il requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell'ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia il requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l'effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale.
Tanto considerato, risulta evidente come la fattispecie in discussione debba essere ricondotta alla categoria dei contratti collegati.
In essa, infatti, le parti, onde agevolare, per le plurime ragioni quali in precedenza accennate, la realizzazione delle finalità perseguite con la stipulazione del preliminare di compravendita, stipulano altresì - e, come del pari si è già evidenziato, ciò può aver luogo contemporaneamente e contestualmente al preliminare ma anche in tempi e con atti diversi, a seconda che le circostanze lo richiedano - dei contratti accessori, al preliminare necessariamente perchè funzionalmente connessi e, tuttavia, autonomi rispetto ad esso, rispondendo ciascuno ad una precisa tipica funzione economico- sociale eppertanto disciplinati ciascuno dalla pertinente normativa sostanziale.
Contratti con i quali le parti pervengono ad una regolamentazione, se pur provvisoria tuttavia ben definita, dei rapporti accessori funzionalmente collegati al principale e nei quali, secondo un'autorevole opinione dottrinaria meritevole d'esser condivisa, vanno ravvisati, quanto alla concessione dell'utilizzazione della res da parte del promittente venditore al promissario acquirente, un comodato e, quanto alla corresponsione di somme da parte del promissario acquirente al promittente venditore, un mutuo gratuito.
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Ne consegue, con riferimento al primo dei considerati contratti, che la materiale disponibilità della res nella quale il promissario acquirente viene immesso, in esecuzione del contratto di comodato, ha natura di detenzione qualificata esercitata nel proprio interesse ma alieno nomine e non di possesso.
Possesso che il promissario acquirente può, dunque, opporre al promittente venditore solo nei modi previsti dall'art. 1141 c.c., in particolare assumendo e dimostrando un'intervenuta interversio possessionis.
Questa, come ha correttamente ricordato il giudice a quo, non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore ha cessato d'esercitare il potere di fatto sulla cosa nomine alieno ed ha iniziato ad esercitarlo esclusivamente nomine proprio ed, inoltre, manifestazione siffatta dev'essere non solo tale da palesare inequivocabilmente l'intenzione del soggetto di sostituire al precedente animus detinendi un nuovo animus rem sibi habendi, ma anche essere specificamente rivolta contro il possessore, in guisa che questi sia posto in condizione di rendersi conto dell'avvenuto mutamento, quindi tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere della concreta opposizione all'esercizio del possesso da parte del possessore stesso; tra tali atti, ove non accompagnati da altra manifestazione dotata degli indicati connotati dell'opposizione, non possono ricomprendersi nè quelli che si traducano in una inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita, verificandosi in tal caso un'ordinaria ipotesi d'inadempimento contrattuale, nè quelli che si traducano in ordinari atti d'esercizio del possesso, verificandosi in tal caso una mera ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene.
Al qual riguardo l' O. addebita al giudice a quo, denunziando vizi di motivazione, di non aver desunto dalle emergenze istruttorie quegli evidenti elementi costitutivi della fattispecie ch'egli ritiene vi fossero adeguatamente rappresentati.
La censura non merita accoglimento.
Per costante insegnamento di questa Corte, in vero, il motivo di ricorso per Cassazione con il quale alla sentenza impugnata venga mossa censura per vizi di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 dev'essere inteso a far valere, a pena d'inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 4, in difetto di loro specifica indicazione, carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nell'attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune, od ancora mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi; non può, invece, essere inteso a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte ed, in particolare, non vi si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli e-lementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame; diversamente, il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe - com'è, appunto, per quello di cui trattasi - in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità.
Nè, com'è del pari da tralaticio insegnamento di questa Corte, può imputarsi al detto giudice d'aver omesse l'esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacchè nè l'una nè l'altra gli sono richieste, rientrando nel suo potere discrezionale, a norma dell'art. 116 c.p.c., individuare le fonti del proprio convincimento, mentre soddisfa all'esigenza d'adeguata motivazione che questo, una volta raggiunto, risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo; in altri termini, perchè sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell'art. 132 c.p.c., n. 4 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell'esito dell'avvenuto esame di tutte le
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prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell'adottata decisione evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse.
Nella specie, non solo il motivo, già non inteso a censurare la rado decidendi ma a prospettare una diversa interpretazione degli accertamenti in fatto, estranea alle valutazioni consentite al giudice di legittimità, è per ciò solo inammissibile, ma la motivazione fornita dal giudice a quo all'assunta decisione risulta logica e sufficiente, basata com'è su argomentazioni adeguate in ordine alla valenza oggettiva dei plurimi e pertinenti elementi di giudizio presi in considerazione e su razionali valutazioni di essi;
un giudizio operato, pertanto, nell'ambito dei poteri discrezionali del giudice del merito a fronte del quale, in quanto obiettivamente immune dalle censure ipotizzabili in forza dell'art. 360 c.p.c., n. 5 la diversa opinione soggettiva di parte ricorrente è inidonea a determinare le conseguenze previste dalla norma stessa.
Con il secondo motivo, il ricorrente - denunziando violazione dell'art. 102 c.p.c. - si duole che il giudizio di merito promosso dalla controparte per la risoluzione del preliminare si sia svolto a contraddittorio non integro, in quanto il contratto in discussione era stato stipulato anche da suo fratello Xxxxxx, rimasto estraneo al giudizio, e che tale nullità non sia stata rilevata d'ufficio dal giudice a quo.
La doglianza va disattesa, in quanto l' O., totalmente vittorioso sul punto essendo stata respinta l'avversa domanda di risoluzione tanto in primo grado quanto in appello, difetta d'interesse ad impugnare per cassazione al riguardo se non condizionatamente all'accoglimento del ricorso di controparte, condizione che, come da reiezione del ricorso principale, non si è avverata.
3. - CONCLUSIONI. Nessuno degli esaminati motivi meritando accoglimento, entrambi i ricorsi vanno, dunque, respinti.
Tale esito del giudizio di legittimità giustifica l'integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio stesso.
P.Q.M.
LA CORTE
Decidendo a Sezioni Unite, dichiara inammissibili i ricorsi iscrittial R.G. con i numeri 13911/03 e 13686/03; respinge i ricorsi iscritti al R.G. 10084/03 e 10431/03; compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 8 maggio 2007.
3.2 Cass. SS.UU. 24 agosto 2007 n. 17952
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, i due ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza e tra loro connessi, vanno riuniti ex art. 335 c.p.c..
Va, poi, esaminata la questione sollevata dal controricorrente, con la memoria 27.12.06, relativamente alla ritenuta necessità d'esaminare preliminarmente il terzo motivo del ricorso principale, con il quale l'impugnata pronunzia è censurata nel capo in cui, decidendo della subordinata domanda risarcitoria, il giudice a quo ha
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escluso che dal rapporto inter partes, valutatene le varie possibili qualificazioni, potessero derivare gli effetti giuridici pretesi dall'originario attore; sostiene il controricorrente che, ove tale censura venisse disattesa, verrebbe meno l'interesse alla decisione sulla necessità o meno dell'integrazione del contraddittorio nel giudizio di merito.
La questione, anche a voler prescindere dalla non consentita tardiva proposizione in memoria, va comunque disattesa, in quanto, attenendo al merito della controversia, è essa necessariamente condizionata alla previa soluzione della questione posta sull'integrità del contraddittorio ab origine e non viceversa.
Con il motivo da esaminare in questa sede, si duole il ricorrente - denunziando violazione degli artt. 2932 c.c., 177 c.c., 184 c.c., 189 c.c., 354 c.p.c. - che il giudice a quo erroneamente abbia escluso la sussistenza del litisconsorzio necessario tra i coniugi in comunione dei beni nel giudizio ex art. 2932 c.c. che il promissario acquirente del bene oggetto di comunione, promessogli in vendita non da entrambi ma da uno soltanto dei coniugi comproprietari, abbia promosso nei soli confronti di quest' ultimo e, pur avendo riconosciuto che detta azione, ove intesa ad ottenere il trasferimento non della sola quota del promittente ma dell'intero bene, debba essere promossa nei confronti d'entrambi i coniugi, abbia tuttavia rigettato la domanda invece di rimettere la causa al primo giudice ex art. 354 c.p.c. per l'integrazione del contraddittorio.
La censura è fondata: per la contestata esclusione del contraddittorio, oltre che per l'evidenziata contraddizione in termini.
La comunione ordinaria, quale regolata dagli artt. 1100-1116 c.c., si configura come comunione pro indiviso o proprietà plurima parziaria, nella quale il diritto di proprietà è unico ed ha ad oggetto il bene nella sua interezza e, tuttavia, il diritto di ciascuno dei partecipanti non ha per oggetto né il bene nella sua interezza, né una parte fisicamente individuata di esso, bensì una quota ideale, proporzionata al suo diritto di partecipazione, del quale costituisce la misura.
In tale situazione, la promessa di vendita di un bene in comunione (come hanno evidenziato queste SS.UU. con la sentenza 8.7.93 n. 7481) è, di norma, considerata dalle parti attinente al bene medesimo come un unicum inscindibile e non come somma delle singole quote che fanno capo a ciascuno dei comproprietari - salvo che l'unico documento predisposto per il detto negozio venga redatto in modo tale da farne risultare la volontà di scomposizione in più contratti preliminari in base ai quali ognuno dei comproprietari s'impegna esclusivamente a vendere la propria quota al promissario acquirente, con esclusione di forme di collegamento negoziale o di previsione di condizioni idonee a rimuovere la reciproca insensibilità dei contratti stessi all'inadempimento di uno di essi - di guisa che i detti comproprietari costituiscono un'unica parte complessa e le loro dichiarazioni di voler vendere si fondono in un'unica volontà negoziale; onde, quando una di tali dichiarazioni manchi (o sia invalida), non si forma (o si forma invalidamente) la volontà di una delle parti del contratto preliminare, escludendosi, pertanto, in loto la possibilità per il promissario acquirente d'ottenere la sentenza costitutiva di cui all'art. 2932
c.c. nei confronti dei soli comproprietari promittenti, sull'assunto di una mera inefficacia del contratto stesso rispetto a quelli rimasti e-stranei, dacché, da un lato, non è configurabile un interesse alla sua esecuzione parziale da parte del promissario acquirente (per mancanza del diritto su cui tale interesse si dovrebbe fondare) e, dall'altro, il comproprietario promittente venditore che ha espresso il suo consenso (o lo ha espresso validamente) non oppone un semplice interesse contrario (giuridicamente apprezzabile o meno) all'avversa richiesta d'esecuzione parziale, ma invoca l'insussistenza stessa del diritto vantato dalla controparte.
La situazione è diversa ove si verta in tema di comunione legale tra coniugi, quale regolata dagli artt. 177-197 c.c..
Fondamentale è stata, al riguardo, la ricostruzione che dell'istituto ha operato la Corte costituzionale con la sentenza 17.3.88 n. 311, nella quale si è evidenziata la netta distinzione tra comunione ordinaria e comunione
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legale tra coniugi, questa configurata come una proprietà plurima parziaria, per più versi analoga alla classica communio, sulla considerazione: che trattasi di comunione senza quote; che i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di quota, bensì solidalmente titolari, in quanto tali, di un diritto avente per oggetto i beni della comunione; che la quota non è un elemento strutturale, ma ha soltanto la funzione di stabilire la misura entro cui i beni della comunione possono essere aggrediti dai creditori particolari, la misura della responsabilità sussidiaria di ciascuno dei coniugi con i propri beni personali verso i creditori della comunione, la proporzione in cui, sciolta la comunione, l'attivo e il passivo debbono essere ripartiti tra i coniugi od i loro eredi.
Configurazione cui consegue che, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge ha il potere di disporre dei beni della comunione e che il consenso dell'altro, richiesto dal modulo dell'amministrazione congiuntiva adottato dall'art. 180/11 c.c. per gli atti di straordinaria amministrazione, non è un negozio unilaterale autorizzativo, nel senso d'atto attributivo di un potere, ma piuttosto nel senso, secondo la nota teoria formulata dalla giuspubblicistica, di atto che rimuove un limite all'esercizio di un potere e requisito di regolarità del procedimento di formazione dell'atto di disposizione, la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o mobile registrato, si traduce in un vizio del negozio, onde l'ipotesi regolata dall'art. 184/1 c.c. tecnicamente si riferisce non ad un caso d'acquisto inefficace perché a non domino, bensì ad un caso d'acquisto a domino in base ad un titolo viziato.
Per il che, nella comunione legale tra coniugi, la mancanza del consenso d'uno dei condomini al negozio a-vente ad oggetto diritti reali su immobili o mobili registrati non determina, come nella comunione ordinaria, l'invalidità assoluta del negozio, ma solo la sua annullabilità nello stabilito termine di prescrizione annuale (e tuttavia, come affermato nella massima CCos. 0010600, la prevista annullabilità dell'atto non costituisce deroga al generale principio d'inefficacia degli atti di disposizione posti in essere da alienante non legittimato, onde da parte della dottrina anche si sostiene che l'atto posto in essere dal singolo coniuge è colpito dalla sanzione generale dell'inefficacia dell'atto compiuto dal non legittimato nei confronti del coniuge pretermesso, e che in favore di quest'ultimo si aggiunge la possibilità d'esperire altresì l'azione speciale d'annullamento ex art. 184 c.c. al fine d'evitare di rimanere personalmente obbligato per l'inadempimento verso il terzo).
La riportata metodologia ricostruttiva dell'istituto non ha trovato larghi consensi in dottrina - dalla quale se n'è anche evidenziata l'incoerenza con la ratio della comunione legale, quale introdotta dalla novella n. 151/1975, come intesa al superamento della discriminazione del coniuge più debole, insita nel precedente regime della separazione dei beni, ed alla maggiore tutela patrimoniale della famiglia - e tuttavia ha costituito la base delle pronunzie adottate in materia dalla successiva giurisprudenza di legittimità che, non di meno, pur partendo da tale comune presupposto, sulla questione che ne occupa è pervenuta, come si è visto, a soluzioni diametralmente opposte.
In particolare, la recente Cass. 28.10.04 n. 20867 - ponendosi in consapevole contrasto con la prevalente giurisprudenza anteriore, in ordine alla quale rileva come l'inevitabile coinvolgimento nel giudizio ex art. 2932 c.c. del coniuge rimasto estraneo al preliminare vi fosse stato asserito in modo generico - sulla consideraione che i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di quota ma solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni della comunione, che nei rapporti con i terzi ciascun coniuge ha il potere di disporre dei beni della comunione, che l'azione ex art. 2932 c.c. non ha natura reale ma personale, perviene alla conclusione per cui in quest'ultima non sia ravvisabile un'ipotesi di litisconsorzio necessario, non vertendosi in situazione sostanziale caratterizzata da un rapporto unico ed inscindibile con pluralità di soggetti e non rivestendo, quindi, il coniuge rimasto estraneo al preliminare, del quale si chiede l'esecuzione in forma specifica, la qualità di parte la cui presenza in giudizio sia condizione essenziale affinché la sentenza non venga inutiliter data.
In realtà, di quest'ultimo asserto - che non costituisce affatto una logica conseguenza delle premesse, atteso anche il carattere di specialità con il quale si pone la normativa regolatrice dell'istituto della comunione familiare -
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l'esaminata sentenza non fornisce dimostrazione alcuna, a differenza dai disattesi precedenti che, affatto generici al riguardo, la contraria opinione fondano su una pluralità d'argomenti validi, condivisi ed integrati dalla prevalente dottrina.
Non appare, in vero, conclusiva la ragione - mutuata dalle remote Cass. 27.4.82 n. 2635 e 28.12.88 n. 7081 - addotta in considerazione della natura obbligatoria e non reale del preliminare.
Va, infatti, considerato che i richiamati precedenti pervenivano a tale affermazione in funzione della ritenuta esperibilità dell'azione ex art. 2932 c.c. limitatamente alla quota del coniuge promittente venditore, tesi disattesa dalla giurisprudenza successiva, con e-spresso richiamo ai principi posti dal Giudice delle leggi con la richiamata sentenza 311/88, sulla considerazione dell'inconciliabilità dell'ingresso d'un estraneo nella comunione familiare con la natura e la disciplina peculiari dell'istituto (Cass. 2.2.95 n. 1252, 14.1.97 n. 284, 11.4.02 n. 5191, 19.3.03 n. 4033); d'altro canto, stante il pacifico principio per cui, in tema d'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto ex art. 2932 c.c., la sentenza che tenga luogo del contratto definitivo non concluso deve necessariamente riprodurre, nella forma del provvedimento giurisdizionale, il medesimo assetto d'interessi assunto dalle parti quale contenuto del contratto preliminare, senza possibilità di introdurvi modifiche (ex pluribus, Cass. 29.3.06 n. 7273, 25.2.03 n. 2824, 7.8.02 n. 11874, in tema di comunione Cass. 1.3.95 n. 2319, 3
0.12.94 n. 11358, 8.7.93 n. 7481, 2.8.90 n. 7749 e, nello specifico, Cass. 19.5.88 n. 3483), una volta che il preliminare abbia avuto ad oggetto l'obbligazione di trasferire l'intero bene, neppure potrebbe il promissario acquirente agire per il trasferimento della sola quota del promittente venditore.
La tesi in discussione, d'altronde, può giustificare, al più, il difetto di legittimazione attiva del coniuge rimasto estraneo all'atto compiuto dall'altro senza il suo consenso quando trattisi di diritti d'obbligazione, in quanto la comunione legale fra i coniugi, di cui all' art. 177 c.c., attiene agli "acquisti", id est agli atti implicanti l'effettivo trasferimento della proprietà della res o la costituzione di diritti reali sulla medesima, non quindi i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i quali, per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentali all'acquisizione di una res, non sono suscettibili di cadere in comunione(Cass. 1.4.03 n. 4959, 4.3.03 n. 3185, 13.12.99 n. 13941, 18.2.99 n. 1363, 27.1.95 n. 987, 11.9.91 n. 9513); ma tali ragioni, peraltro fortemente criticate in dottrina, non possono valere nel caso inverso, laddove, come meglio in seguito, l'obbligazione del coniuge che ha agito senza il consenso dell'altro è fatta valere dal terzo e l'adempimento coattivo comporta l'aggressione al patrimonio familiare in generale ed al diritto di comproprietà del coniuge pretermesso in particolare.
Inoltre, dalla giurisprudenza e da parte della dottrina si è anche evidenziato come, stante il disposto dell'art. 184/1 c.c., la categoria dei negozi immobiliari, per i quali è previsto il consenso congiunto dei coniugi, sia da identificare in base alla natura del bene sul quale cadono gli effetti del contratto, ricomprendendo, quindi, tanto i negozi ad effetti reali quanto quelli ad effetti obbligatori; come debbasi, ancora, fare riferimento al regime degli effetti, reale o personale che sia l'azione, ai fini dell'affermazione o meno della necessità del litisconsorzio (Cass. 31.3.06 n. 7698, 6.7.04 n. 12313, 14.5.03 n. 7404, 5.7.01 n. 9083, 1.7.97 n. 5895 SS.UU.).
E', piuttosto, evidente che l'essere ciascun coniuge titolare del bene per l'intero, e dell'intero poter disporre, non può implicare, di per sé, che debba escludersi la necessaria partecipazione dell'altro coniuge al giudizio nel quale si discuta della traslazione del bene stesso, evento rispetto al quale non può negarsi l'interesse ad interloquire del detto altro coniuge, pur sempre comproprietario del bene stesso.
Partire, infatti, dal presupposto che, al momento dell'introduzione del giudizio ex art. 2932 c.c., il coniuge promittente venditore abbia già efficacemente a-lienato il bene, così che il coniuge rimasto estraneo al negozio abbia perso, contestualmente alla stipulazione del preliminare, la propria contitolarità sul bene e non possa fare
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ricorso se non all'azione d'annullamento, oltre ad essere in palese contrasto con la lettera dello stesso art. 184/1 c.c., che prevede una possibilità di convalida successiva inconciliabile con una già intervenuta perdita della titolarità del bene, implica una non condivisibile attribuzione a tale tipo di contratto d'un effetto traslativo, estraneo alla sua funzione ed alla sua natura, che non gli è riconosciuto neppure da quella parte della dottrina per la quale esso sarebbe configurabile come una sorta di vendita obbligatoria ed il definitivo come un semplice atto esecutivo o ripetitivo.
Vero è, per contro, che, stipulato il preliminare, nel momento in cui il coniuge promittente venditore si rende inadempiente e costringe il promissario acquirente all'azione d'esecuzione specifica, l'altro coniuge, che non abbia partecipato al negozio né vi abbia prestato altrimenti il proprio consenso, è ancora contitolare del bene e su di esso legittimato ad esercitare i suoi poteri d'amministrazione congiunta; atteso l'effetto solo obbligatorio del preliminare, l'attività negoziale posta in essere dal coniuge promittente con l'impegnarsi ad alienare non ha prodotto ancora l'effetto di sottrarre il bene al patrimonio comune ed alla contitolarità su di esso d'entrambi i comproprietari, onde il coniuge rimasto estraneo al preliminare è ancora titolare d'una situazione giuridica inscindibile che lo rende litisconsorte necessario nel giudizio d'esecuzione specifica dell'obbligo di contrarre.
E', infatti, ancora sul piano degli effetti della promossa azione ex art. 2932 c.c. che occorre muoversi ai fini della soluzione del problema che ne occupa.
Come evidenziato dalla dottrina prevalente e da quella parte della giurisprudenza che si ritiene qui di confermare, ove dal preliminare scaturiscano controversie, non può disconoscersi al coniuge rimasto estraneo al negozio l'interesse a partecipare ai relativi giudizi, in quanto, pur se non è rimasto personalmente obbligato e se non è corresponsabile assieme al coniuge stipulante, unico obbligato, tuttavia l'impegno assunto da quest'ultimo e la responsabilità personale del medesimo sono comunque tali da incidere sul patrimonio comune e sul tenore di vita della famiglia, giacché, ex art. 189 c.c., espongono all'altrui azione esecutiva non solo i beni del promittente ma anche quelli della comunione, essendo, infatti, la richiesta pronunzia ex art. 2932 c.c., o l'alternativa pronunzia risarcitoria quanto meno per responsabilità precontrattuale, destinate ad incidere anche sul diritto del coniuge comproprietario o contitolare non stipulante e sulla consistenza del patrimonio familiare.
Ne consegue l'ineludibile presenza in giudizio del coniuge rimasto estraneo al preliminare, dacché, come questa Corte ha ripetutamente evidenziato, si ha litisconsorzio necessario, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, allorquando la decisione richiesta, indipendentemente dalla sua natura (di condanna, d'accertamento o costitutiva), sia di per sé inidonea a spiegare i propri effetti, cioè a produrre un risultato utile e pratico, anche nei riguardi delle sole parti presenti, stante la natura plurisoggettiva e concettualmente unica ed inscindibile, sia in senso sostanziale, sia, alle volte, in senso solo processuale, del rapporto dedotto in giudizio, nel quale i nessi fra i diversi soggetti, e tra questi e l'oggetto comune, costituiscono un insieme unitario, con conseguente immutabilità del rapporto medesimo ove non vi sia la partecipazione di tutti i suoi titolari (da ultimo, Cass. 7.3.06 n. 4890, 6.7.04 n. 12313, 23.9.03 n. 14102, 5.7.01 n. 9083, 11.4.00 n. 4593 e 1.7.97 n. 5895 a SS.UU.).
Per altro verso, la necessaria partecipazione del coniuge rimasto estraneo al preliminare va affermata anche in applicazione dell'art. 180 c.c., dal quale, coerentemente alla ratio della novella che riconosce quale principio informatore del diritto di famiglia la parità di diritti e doveri tra i coniugi, si stabilisce che l'amministrazione dei beni della comunione spettano disgiuntamente a ciascuno di essi per gli atti d'ordinaria amministrazione ma congiuntamente ad entrambi per quelli di straordinaria amministrazione e per la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento nonché la rappresentanza in giudizio per gli atti ad essa relativi.
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Un valido criterio discretivo tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione generalmente accolto è quello della normalità dell'atto di gestione, che viene travalicata ove questo comporti un rischio di pregiudizio sulla consistenza del patrimonio o la possibilità d'alterazione della sua struttura, per il che a determinare il discrimine non è tanto il contenuto, modesto o rilevante, dell'atto, quanto piuttosto la sua finalità ed il suo effetto; onde può dirsi che, in linea di massima e rapportando comunque il criterio a ciascun singolo caso concreto, ove il negozio sia per sua natura intrinsecamente idoneo ad alterare la consistenza del patrimonio, a pregiudicarne le potenzialità economiche, a sottrarne o modificarne elementi costitutivi, esso è di straordinaria amministrazione, mentre è di ordinaria amministrazione ove sia tendenzialmente idoneo a conservare la consistenza quantitativa del patrimonio pur se rischioso.
Alla luce di tale criterio, non si può non riconoscere carattere pregiudizievole al contratto anche solo ad efficacia obbligatoria, in quanto potenzialmente idoneo ad incidere sulla consistenza del patrimonio dello stipulante; in particolare, carattere siffatto va riconosciuto al contratto preliminare di vendita, che, come è stato evidenziato in dottrina ed in giurisprudenza, si pone quale momento originario d'una serie obbligatoria consequenziale e successiva, il cui esito finale necessitato è il trasferimento della proprietà del bene promesso in vendita, sì che, in ragione dell'effetto conclusivo della sequenza, tale contratto, che alla serie obbligatoria dà inizio, va considerato atto eccedente l'ordinaria amministrazione.
Anche il contratto preliminare può avere, dunque, una rilevanza pregiudizievole sulla consistenza patrimoniale della comunione e sulle condizioni di vita della famiglia, in considerazione dell'obbligazione assunta dal disponente, che pur vincola unicamente costui, e della responsabilità dello stesso per l'inadempimento; onde il contratto preliminare di vendita di bene immobile in regime di comunione legale costituisce negozio eccedente l'ordinaria amministrazione e, per il richiamato espresso disposto del secondo comma dell'art. 180 c.c., le azioni che da esso traggono origine richiedono la presenza in giudizio d'entrambi i coniugi.
In definitiva, per tutte le esposte ragioni, devesi ritenere che nell'azione ex art. 2932 c.c. promossa dal promissario acquirente, per l'adempimento in forma specifica o per i danni da inadempimento precontrattuale, nei confronti del promittente venditore che, coniugato in regime di comunione dei beni, abbia stipulato senza il consenso dell'altro coniuge, quest'ultimo sia litisconsorte necessario; che, di conseguenza, ove il coniuge rimasto estraneo alla stipulazione del preliminare non sia stato convenuto in giudizio unitamente al coniuge stipulante e nei suoi confronti non sia stato integrato il contraddittorio, il giudizio svoltosi sia nullo e debba essere, pertanto, nuovamente celebrato a contraddittorio integro.
Nella specie, deve, dunque, essere dichiarata la nullità delle sentenze di primo e di secondo grado, con conseguente rinvio della causa, ex art. 383, ultimo comma, c.p.c., al Tribunale di Firenze il quale provvedere anche sulle spese, comprese quelle della presente fase del giudizio.
P. Q. M. LA CORTE
riuniti i ricorsi, accoglie il primo motivo del principale, assorbiti gli altri e l'incidentale, cassa in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, al tribunale di Firenze.
3.3 Cass., ordinanza 12 marzo 2014, n. 5779
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ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso 18978/2008 proposto da:
M.F. C.F. (XXXXXXX), S.M. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in XXXX, XXX XXXXXXX 0, presso lo studio dell'avvocato XXXXX XXXXX XXXXXX, rappresentati e difesi dall'avvocato XXXXX XXXXXXXXX;
- ricorrenti - contro F.G.;
- intimato - contro
F.M. c.f. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ORTI DELLA FARNESINA 126, presso lo studio dell'avvocato XXXXXX XXXXXXX XXXXXXX, rappresentata e difesa dall'avvocato XXXXXX XXXXXXXXXX per proc. speciale del 20/1/2014 rep. n. 218742;
- resistente -
avverso la sentenza n. 1696/2007 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, depositata il 25/05/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/02/2014 dal Presidente Relatore Xxxx. XXXXXXX XXXXXXX XXXXXX;
udito l'Avvocato Xxxxx Xxxxxxxxx difensore dei ricorrenti che ha chiesto l'accoglimento del ricorso, in subordine, rimissione alle S.U.;
udito l'Avv. Xxxxxx Xxxxxxx con delega orale dell'Avv. Xxxxxx Xxxxxxxxxx difensore della resistente anch'egli presente e chiedono il rigetto del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Xxxx. XXXXXXX Xxxxx, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione Premesso:
La Corte di appello di Napoli, con sentenza in data 25 maggio 2007 ha dichiarato la nullità del contratto preliminare in data 9 luglio 1996 intercorso tra M.F. e S.M.,da una parte, e F.G. e Xx.Xx., dall'altra, in ordine alla vendita da parte dei primi ai secondi di una porzione di un fabbricato in (OMISSIS), prevedendo la stipulazione di un "regolare preliminare di compravendita" ove, entro un certo termine il Banco di Napoli avesse dato il suo assenso alla cancellazione dell'ipoteca gravante (anche) su tale porzione immobiliare.
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M.F. e S.M. hanno proposto ricorso per cassazione, contestando l'esattezza dell'orientamento seguito dalla Corte di appello di Napoli in ordine alla nullità del c.d. preliminare di preliminare.
Il collegio non ignora che questa S.C. ha già avuto occasione di affermare che il contratto in virtù del quale le parti si obblighino a stipulare un successivo contratto ad effetti obbligatori (ovvero un contratto preliminare di preliminare) è nullo per difetto di causa, non essendo meritevole di tutela l'interesse di obbligarsi ad obbligarsi, in quanto produttivo di una inutile complicazione (sent. 2 aprile 2009 n. 8038, seguita, senza ulteriori approfondimenti da Xxxx. 10 settembre 2009).
Ritiene, tuttavia, che tale orientamento, nella sua assolutezza, potrebbe essere meritevole di precisazioni, con riferimento alle ipotesi che in concreto possono presentarsi.
In primo luogo, potrebbe dubitarsi della nullità del contratto preliminare il quale si limitasse a prevedere un obbligo di riproduzione del suo contenuto al verificarsi di determinate circostanze, come nel caso di specie, in cui la stipulazione di un "regolare contratto preliminare" era subordinata al consenso del Banco di Napoli alla cancellazione dell'ipoteca gravante (anche) sulla porzione immobiliare promessa in vendita.
Ma quello che più conta è che il contratto preliminare di contratto preliminare non esaurisce il suo contenuto precettivo nell'obbligarsi ad obbligarsi, ma contiene - come nel caso di specie - anche l'obbligo ad addivenire alla conclusione del contratto definitivo.
Ora, appare difficile, in considerazione del principio generale di cui all'art. 1419 x.x., xxxxx 0, xxxxxxxx che la nullità dell'obbligo di concludere un contratto preliminare riproduttivo di un contratto preliminare già perfetto possa travolgere anche l'obbligo, che si potrebbe definire finale, di concludere il contratto definitivo.
Alla luce di queste considerazioni ritiene il collegio che forse sarebbe opportuno l'intervento delle Sezioni Unite sul problema.
P.Q.M.
Si rimettono gli atti al Primo Presidente, perchè valuti l'opportunità della rimessine del ricorso all'esame delle Sezioni Unite.
Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2014. Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2014
4. Le sopravvenienze
4.1 Cassazione civile , SS.UU., sentenza 11.04.2014 n° 8510
Motivi della decisione
1. - Il ricorso viene all'esame delle Sezione Unite per comporre il contrasto sulla questione se, convertita in corso di causa la domanda di adempimento del contratto in quella di risoluzione del contratto inadempiuto ai sensi
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dell'art. 1453 c.c., comma 2, sia consentita, contestualmente alla variatio, la proposizione della domanda di risarcimento dei danni.
La questione è posta con il secondo motivo di ricorso.
2. - In ordine logico è tuttavia preliminare l'esame:
- (a) del primo motivo (violazione e falsa applicazione dell'art. 2909 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè vizio di motivazione in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5), con cui la ricorrente Xxxx Xxxxx denuncia che la sentenza impugnata avrebbe disatteso il giudicato esterno rappresentato dalla sentenza, intervenuta tra le stesse parti, n. 4 del 2004 del Tribunale di Pordenone, sezione distaccata di San Xxxx al Tagliamento, la quale, avendo dichiarato la cessazione del contratto di appalto di escavazione, precluderebbe la possibilità di discutere nel merito la stessa controversia;
- e (b) del terzo motivo, con cui la ricorrente censura violazione e falsa applicazione degli artt. 1343, 1418 e 1421 c.c., con riferimento in particolare al principio di rilevabilità d'ufficio della nullità dei contratti inter partes in data 2 gennaio 1992 (promessa di appalto di escavazione), 9 settembre 1993 (convenzione) e 17 novembre 1994 (integrazione della promessa di appalto di escavazione del 2 gennaio 1992), in relazione alla Legge Urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150, artt. 7 e ss., 13 e ss. e 28, e successive modificazioni ed integrazioni, nonchè violazione degli artt. 1218 e 1453 c.c., osservando che la Corte d'appello di Trieste avrebbe dovuto rilevare che nel caso di specie mancava il titolo giuridico per poter legittimamente eseguire il contratto poi erroneamente dichiarato risolto.
3. - La censura articolata con il primo motivo è infondata.
3.1. - Dal diretto riesame degli atti del processo emerge che - di fronte al giudice della prima causa, iniziata con atto di citazione del 26 febbraio 2000, svoltasi tra le stesse parti e definita con la sentenza, passata in giudicato, del Tribunale di Pordenone, sezione distaccata di San Xxxx al Tagliamento, 26 febbraio 2004, n. 4 - erano state proposte, per quanto qui ancora rileva, le seguenti domande:
- da parte dell'attrice CGB s.r.l. (poi Xxxxx Xxxxxx s.p.a.), in via principale, la domanda di accertamento - per effetto del contratto in data 2 gennaio 1992 - di essere divenuta proprietaria "dei terreni meglio individuati nell'atto di citazione", con condanna di Cave Ponte al rilascio dei terreni "nella libera disponibilità di CGB";
- da parte della convenuta Xxxx Xxxxx (la quale, contestando l'assunto di controparte, affermava che il contratto del 2 gennaio 1992 si configurava come preliminare di vendita mobiliare/contratto di appalto, che, "a causa di tormentata ed annosa vicenda connessa alla mancata approvazione del PRG comunale del 1991, aveva potuto avere concreta attuazione - come si evinceva dalla convenzione del 9 settembre 1993 - solo nei limiti di quanto già assentito - in favore di Xxxx Xxxxx - dalla rediviva autorizzazione alla escavazione del 1986"), la domanda riconvenzionale, in via principale, "che fosse dichiarato che il rapporto contrattuale di appalto era cessato con il compimento dell'opera di escavazione" (si legge nelle conclusioni:
"dichiararsi cessato il rapporto contrattuale di appalto inter partes con il compimento dell'opera di escavazione e il conseguente contratto di vendita del materiale asportato");
- da parte, ancora, dell'attrice CGB, la domanda, in via di reconventio reconventionis: "accertato che il contratto 2 gennaio 1992 è tuttora valido e produttivo di effetti, accertato altresì che il PRG adottato dal Comune di San Xxxx al Tagliamento in data 28 novembre 2002 non comporta nessun mutamento al progetto di scavo di cui al
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PRG del 1991, ed accertato quindi che la condizione sospensiva del perfezionarsi positivamente dell'iter amministrativo di autorizzazione del progetto di cui al PRG comunale del 1991, come successivamente modificato nel rispetto del nuovo PRG approvato il 28 novembre 2000, si è avverata, voglia condannare Cave Ponte...
all'adempimento del contratto ovvero, in via di ulteriore subordine, e qualora la condizione di cui sopra non si sia ancora avverata, voglia dichiarare che il contratto 2 gennaio 1992 è tuttora valido ed efficace, sospensivamente condizionato al positivo concludersi dell'iter autorizzativo del progetto di riqualificazione ambientale di cui al PRG comunale del 1991, come modificato nel rispetto del nuovo PRG adottato in data 28 novembre 2000, e dichiarare pertanto Cave Ponte... tenuta all'adempimento del contratto detto al verificarsi della condizione medesima".
Tal essendo la materia del contendere, il Tribunale:
- ha rigettato la domanda principale proposta dall'attrice (sul rilievo che "il programma che emerge dalla Promessa di appalto di escavazionè del 2 gennaio 1992 non presenta alcun elemento di sostegno all'ambizioso assunto che CGB ha formulato con la sua domanda principale, deducendo l'esistenza di un effetto traslativo di proprietà immobiliare, sia immediato - per le aree, già all'epoca, di proprietà di Cave Ponte - sia differito - per le aree che Cave Ponte si impegnava ad acquisire, alcune delle quali nel corso del tempo furono, poi, per l'appunto, effettivamente acquisite");
- ha dichiarato "fondate le domande riconvenzionali della convenuta Xxxx Xxxxx (ad esclusione però della domanda di condanna generica al risarcimento dei danni, asseritamente subiti, per il ritardo nella riconsegna dell'area di cantiere)", così statuendo in dispositivo (al punto 3): "dichiara cessato il rapporto d'appalto fra l'attrice Xxxxxxxxxxxx... (ora Xxxxx Xxxxxx s.p.a.) e la convenuta Cave Ponte della Regina s.r.l., in rapporto alle aree detenute dall'attrice, e ne ordina a quest'ultima il rilascio in favore di Cave Ponte";
- ha dichiarato inammissibili le altre domande proposte dall'attrice (punto 2 del dispositivo): una inammissibilità - è spiegato in motivazione - da genericità della "domanda svolta da CGB in via subordinata", perchè "CGB si è palesemente sottratta all'onere di affermare quali precise conseguenze debbano - secondo lei - trarsi dalla fonte Promessa di appalto di escavazione del 2 gennaio 1992;
invero, CGB ha chiesto (sul riflesso che l'elemento condizionante - iter amministrativo di autorizzazione del progetto di cui al PRG comunale del 1991..." - possa ancora avverarsi o si sia sostanzialmente avverato), la condanna di Xxxx Xxxxx all'adempimento del contratto 2 gennaio 1992, o l'accertamento che Cave Ponte è tenuta all'adempimento del contratto detto al verificarsi della condizione medesima. Quali siano, secondo CGB, i diritti derivanti dal contratto in questione, CGB non ha dedotto, e il Tribunale non può certo, su questo aspetto fondamentale, surrogarsi ad essa CGB".
Ora, sia dal dispositivo (punto n. 3) sia dalla motivazione della sentenza (pag. n. 15) emerge per tabulas che la pronuncia di merito di cessazione del rapporto di appalto non è generale, ma oggettivamente limitata all'area di cantiere detenuta da CGB. Si legge nella pronuncia del Tribunale: "... risulta essere stato posto in essere da CGB ogni ragionevole e possibile intervento di scavo e di apprensione di materiale inerte, talchè deve dichiararsi cessato (estinto, esaurito) il rapporto contrattuale di appalto inter partes - rispetto all'area detenuta da CGB - ordinando nel contempo a CGB di rilasciare a Cave Ponte la libera disponibilità dell'area di cantiere medesima". E che la dichiarazione di cessazione del rapporto sia limitata, ed in rapporto esclusivo alle aree detenute a quella data dall'attrice CGB, è confermato dalla sottolineatura che è "si badi, con riguardo specifico all'area detenuta da CGB" che la stessa sentenza ha ritenuto superflua "un'indagine intesa ad evidenziare se (...) esista davvero una
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maggiore possibilità di sfruttamento (rispetto a quanto assentito dalla vecchia autorizzazione di xxxx) in relazione alle previsioni del PRG comunale del 1991".
3.2. - Correttamente la sentenza d'appello qui impugnata ha perciò rilevato che il giudicato di cui alla citata sentenza n. 4 del 2004 inerisce alle sole aree detenute da Cave Ponte e che la cessazione del rapporto di appalto tra le parti è limitata a tali aree, sulle quali l'attività estrattiva era esaurita, non toccando le altre aree facenti parte di un comprensorio più ampio che avrebbe dovuto formare oggetto dell'estrazione di inerti da parte di Xxxxx Xxxxxx, comprensorio di cui alle premesse del contratto di appalto, destinato alla realizzazione di uno specchio acqueo in conformità del piano regolatore generale comunale del 1991 costituito da 7 ettari già nella disponibilità di Cave Ponte e ulteriori aree limitrofe che quest'ultima si era impegnata ad acquisire.
Invero, non essendo intervenuta alcuna decisione di merito con riguardo alle obbligazioni nascenti dal contratto di appalto avente ad oggetto altre aree del comprensorio, ma una mera dichiarazione di inammissibilità della domanda per genericità e quindi per un vizio della sua introduzione, la sentenza del Tribunale n. 4 del 2004 non può considerarsi come giudicato preclusivo della cognizione sulle domande articolate da Xxxxx Xxxxxx con l'atto di citazione notificato il 23 novembre 2005, e poi modificate in corso di causa a seguito dell'esercizio dello ius variandi di cui all'art. 1453 c.c., comma 2, con l'affiancamento alla domanda di risoluzione della domanda risarcitoria, avendo queste ad oggetto, appunto, aree ulteriori rispetto a quelle, considerate nella sentenza n. 4 del 2004, "detenute dall'attrice", e sulle quali, in forza del contratto del 2 gennaio 1992, avrebbero dovuto estendersi gli specchi d'acqua previsti.
Per un verso, infatti, la pronuncia di inammissibilità della domanda per vizio della sua introduzione (per la mancata identificazione, nella citazione introduttiva, del bene della vita richiesto), senza alcun esame della pretesa dedotta in giudizio, non equivale ad una sentenza di rigetto nel merito, e pertanto non impedisce la riproposizione della stessa domanda con un successivo, rituale atto introduttivo di un nuovo giudizio (Sez. 2^ 22 luglio 2004, n. 13785).
D'altra parte - premesso che il giudicato, formatosi con la sentenza intervenuta tra le parti, copre il dedotto ed il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e cioè non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto fatte valere in giudizio, ma anche tutte le possibili questioni, proponibili sia in xxx xx xxxxxx, xxx xx xxx xx xxxxxxxxx, xx quali, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici necessari della pronuncia (Sez. 1^ 28 ottobre 2011, n. 22520; Sez. Lav. 16 agosto 2012, n. 14535) - rispetto alla statuizione sul modo di (dover) essere della situazione sostanziale nascente dal provvedimento che ha concluso, oramai irretrattabilmente, quella vicenda giurisdizionale, nel senso della cessazione soltanto parziale del rapporto contrattuale, limitatamente cioè all'attività estrattiva eseguita ed esaurita nell'area interessata dall'autorizzazione di cava, l'accertamento della insussistenza di altre obbligazioni nascenti dal medesimo contratto, ma diverse da quelle aventi ad oggetto le aree detenute da CGB, non si pone neppure come necessaria premessa ovvero come presupposto logico indefettibile. Xxxx, la dichiarazione di cessazione soltanto parziale dell'efficacia del contratto è indice inequivocabile della permanenza in vita del vincolo negoziale con riferimento all'altra parte non toccata dalla pronuncia giurisdizionale passata in cosa giudicata.
Di qui l'esclusione dell'ostacolo alla proponibilità, da parte di CGB, delle domande azionate in questo secondo giudizio (e già oggetto di una reconventio reconventions dichiarata inammissibile per genericità con sentenza divenuta definitiva): ben potendo aversi risoluzione giudiziale per inadempimento del contratto di appalto, e complementare tutela risarcitoria da inattuazione dello scambio contrattuale, rispetto ad aree oggetto del negozio, destinate alla realizzazione di uno specchio acqueo in conformità della disciplina di piano regolatore, diverse ed ulteriori rispetto a quelle per le quali il precedente giudicato di merito tra le stesse parti abbia ritenuto cessato, ma
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appunto soltanto parzialmente, il rapporto derivante da quella stessa fonte negoziale per il compimento del pattuito intervento escavativo.
4. - Passando allo scrutinio del terzo motivo, con esso Cave Ponte si duole che la Corte d'appello di Trieste non abbia rilevato che nel caso di specie mancava il titolo giuridico per poter legittimamente eseguire il contratto poi (erroneamente) dichiarato risolto.
Confondendo tra titoli autorizzatori e strumenti urbanistici, la sentenza impugnata - sostiene la ricorrente - non avrebbe considerato che gli strumenti urbanistici non costituiscono, di per sè, titoli autorizzatori di alcuna attività, essendo per loro natura atti programmatori, avendo effetti conformativi della proprietà o impositivi di vincoli espropriativi. E nel caso di specie entrambi gli strumenti urbanistici comunali, sia quello del 1991 che quello del 2000, subordinerebbero ogni intervento pubblico e privato alla predisposizione di uno strumento di pianificazione attuativo, denominato piano di recupero ambientale, ed alla sottoscrizione di una convenzione tra il Comune e Cave Ponte, avente ad oggetto gli obblighi gravanti su quest'ultima per la realizzazione del recupero.
Senza detti strumenti attuativi nessuno dei due piani regolatori era idoneo - si osserva - a produrre effetti concreti, e quindi i contratti stipulati tra le parti erano nulli. La ricorrente - dopo avere rilevato che la rilevabilità d'ufficio anche in sede di legittimità della causa di nullità del contratto è condizionata al solo fatto che siano acquisiti al processo tutti gli elementi che la evidenziano - sottolinea conclusivamente che la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento, con conseguente condanna al risarcimento del danno, "presuppone la validità dello stesso ed il giudice, cui spetta di verificare le condizioni dell'azione, deve rilevare d'ufficio la nullità del negozio, ove essa risulti dagli atti processuali, anche indipendentemente dal fatto che la convenuta s.r.l. Cave Ponte della Regina abbia sollevato la relativa eccezione di invalidità".
4.1. - Il motivo è inammissibile.
4.2. - Occorre premettere che - come queste Sezioni Unite hanno statuito (sentenza 4 settembre 2012, n. 14828) - alla luce del ruolo che l'ordinamento affida alla nullità contrattuale, quale sanzione del disvalore dell'assetto negoziale e atteso che la risoluzione contrattuale è coerente solo con l'esistenza di un contratto valido, il giudice di merito, investito della domanda di risoluzione del contratto, ha il potere-dovere di rilevare dai fatti allegati e provati, o comunque emergenti ex actis, una volta provocato il contraddittorio sulla questione, ogni forma di nullità del contratto stesso, purchè non soggetta a regime speciale.
Nella specie nessuna nullità è stata rilevata dal giudice del merito; e la ricorrente innesta la propria censura proprio su questo mancato rilievo, chiedendo, per la prima volta nel giudizio di cassazione, che venga dichiarata la nullità del contratto di appalto inter partes, e ciò per la mancanza del piano di recupero o della stipula della convenzione tra il Comune e la stessa committente.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte (Sez. 2^ 5 agosto 1977, n. 3544; Sez. 3^ 8 settembre 1977, n. 3925; Sez. 1^ 30 gennaio 1979, n. 651; Sez. 1^ 17 giugno 1985, n. 3633; Sez. 2^ 22 giugno 2000, n. 8478; Sez.
1^ 15 luglio 2009, n. 16541; Sez. lav. 22 dicembre 2009, n. 26987), il principio della deducibilità e rilevabilità, anche d'ufficio, in ogni stato e grado del processo, della nullità del negozio giuridico opera, in sede di legittimità, solo quando la nullità medesima derivi da elementi già acquisiti in causa e risultanti dalla sentenza impugnata, mentre resta preclusa la possibilità di dedurre per la prima volta con il ricorso per cassazione una ragione di nullità che implichi nuove indagini di fatto, non consentite in detta sede.
Di qui l'impossibilità di dare ingresso alla censura veicolata con il motivo: posto che la mancanza del piano di recupero ambientale o della convenzione, addotta a ragione della nullità della promessa di appalto, non risulta
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accertata dal testo della sentenza impugnata, ma presuppone nuove indagini di fatto non compiute nei precedenti gradi di merito.
5. - A questo punto può passarsi all'esame del secondo motivo, che concerne la questione oggetto del contrasto.
Con la proposta censura Xxxx Xxxxx lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 1453 c.c., nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, sul presupposto che erroneamente il giudice d'appello avrebbe rigettato l'eccezione da essa formulata, volta a far dichiarare l'inammissibilità del mutamento della domanda, da condanna all'esecuzione del contratto a risoluzione per inadempimento e risarcimento del danno: e ciò in quanto la domanda di condanna al risarcimento del danno costituisce domanda eventuale e distinta rispetto a quella di risoluzione, avendo per oggetto un bene diverso da quello che, nell'ipotesi di inadempimento dell'altro contraente, può essere alternativamente richiesto, in base alla richiamata disposizione codicistica, sub specie di domanda di adempimento e di risoluzione.
5.1. - Il motivo interroga queste Sezioni Unite sul se il contraente fedele possa introdurre nel corso del giudizio la domanda di risarcimento del danno, ex novo e contestualmente al mutamento, consentito dall'art. 1453 c.c., comma 2, della originaria domanda di adempimento del contratto in quella di risoluzione del contratto inadempiuto.
5.2. - Come ricordato dalla Seconda Sezione nell'ordinanza interlocutoria, sul punto si confrontano due orientamenti, uno che nega, l'altro che ammette la possibilità di affiancare la domanda di risarcimento del danno a quella, nascente dalla conversione della originaria domanda di adempimento, di risoluzione del contratto per inadempimento.
5.2.1. - Il primo, restrittivo, è scolpito nel principio di diritto enunciato da Sez. 2^ 23 gennaio 2012, n. 870, in base al quale l'art. 1453 x.x., xxxxx 0, xxxxxx xxxx xxxxx processuali che vietano la mutatio libelli nel corso del processo, nel senso di permettere la sostituzione della domanda di adempimento del contratto con quella di risoluzione per inadempimento, ma tale deroga non si estende alla domanda ulteriore di risarcimento del danno consequenziale a quella di risoluzione, trattandosi di domanda del tutto diversa per petitum e causa petendi rispetto a quella originaria. Il principio è stato enunciato in un caso nel quale l'attore - un promissario acquirente di un appartamento in condominio, detentore del bene oggetto di causa per averne ricevuto la consegna anticipata - aveva agito per ottenere l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere il contratto definitivo ex art. 2932 c.c., per poi proporre, nel corso del giudizio, la domanda di risoluzione del contratto preliminare per inadempimento, in luogo di quella originaria di adempimento, e, contestualmente, quella di risarcimento del danno, pari agli oneri straordinari corrisposti al condominio nel periodo in cui aveva abitato l'appartamento. La Corte ha cassato senza rinvio il capo della sentenza con cui il giudice del merito a-veva accordato anche la chiesta tutela risarcitoria, trattandosi di "causa" che non poteva essere proposta in quel giudizio.
Alla base di questo indirizzo vi è la presa d'atto che la facoltà concessa dall'art. 1453 c.c., comma 2, al contraente non inadempiente di mutare l'originaria domanda di adempimento in quella di risoluzione, apporta una vistosa eccezione - come tale di stretta applicazione - alla regola del divieto assoluto di modifica della domanda, che cala all'esito dell'udienza di trattazione della causa o della sua propaggine rappresentata dalla memoria ex art. 183 c.p.c.
E poichè l'introduzione, nel corso del giudizio, ancorchè contemporaneamente all'esercizio dello ius variandi di cui all'art. 1453 c.c., comma 2, della domanda risarcitoria affiancata alla (consentita) domanda di risoluzione, comporta l'introduzione di un ulteriore tema d'indagine e di un nuovo petitum, sono destinate a trovare applicazione le preclusioni di cui agli artt. 183 e 345 c.p.c. La deroga al divieto di mutatio libelli non opera,
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quindi, per la domanda di risarcimento dei danni, fatta salva in ogni caso dal primo comma dell'art. 1453 cod. civ., integrando questa un'azione del tutto diversa, per causa petendi e per petitum, dalle altre due, sia da quella con cui è stato attivato il rimedio manutentivo, sia da quella con cui è stato chiesto lo scioglimento del contratto per inadempimento.
Espressione del medesimo orientamento che vede nello ius variandi di cui all'art. 1453 c.c., comma 2, una previsione eccezionale, è la regola che ammette la proponibilità della domanda di risoluzione solo se anteriormente è stato chiesto l'adempimento: il mutamento, invece, non può avvenire quando in un primo tempo l'attore si è limitato a chiedere il risarcimento del danno (Sez. 3^ 30 marzo 1984, n. 2119, seguita da Sez. 3^ 9 aprile 1998, n. 3680, da Sez. 3^ 26 aprile 1999, n. 4164, e da Sez. 3^ 27 luglio 2006, n. 17144).
Simmetricamente, se in un primo tempo è stato domandato l'adempimento, non è possibile chiedere in corso di causa il risarcimento: tornano ad applicarsi le norme processuali che precludono la proposizione di domande nuove (Sez. lav. 27 marzo 2004, n. 6161, e Sez. lav. 16 giugno 2009, n. 13953). In questo stesso "ambiente" si colloca Sez. 3^ 14 marzo 2013, n. 6545: la quale, richiamandosi alla citata sentenza n. 870 del 2012, ha negato l'ingresso, durante il corso del giudizio, ad una domanda di condanna generica al risarcimento dei danni per l'accertato inadempimento definitivo dell'obbligo di trasferire un immobile, quando, originariamente, la tutela risarcitoria era stata avanzata per il ritardo nell'adempimento (in misura corrispondente al valore locativo dell'immobile).
5.2.2. - Al secondo indirizzo, che invece ammette la possibilità di affiancare la domanda risarcitoria contestualmente al passaggio al rimedio ablativo, è riconducibile Sez. 2^ 31 maggio 2008, n. 26325.
Vi si afferma che "la facoltà prevista dall'art. 1453 x.x., xxxxx 0, xx xxxxxxxxx xxxxx xxxxxxx di adempimento in quella di risoluzione contrattuale in deroga al divieto di mutatio libelli si estende anche alla conseguente domanda di risarcimento danni (nonchè per le stesse ragioni a quella di restituzione del prezzo (...)), essendo quest'ultima domanda sempre proponibile quale domanda accessoria sia di quella di adempimento sia di quella di risoluzione, come espressamente previsto dall'art. 1453 c.c., comma 1".
Sulla stessa linea estensiva si muove, in fattispecie particolare, Sez. 3^ 19 novembre 1963, n. 2995, la quale, in un caso nel quale il contraente deluso aveva già esplicitamente introdotto la pretesa risarcitoria accanto a quella di manutenzione del contratto, ha riconosciuto la possibilità di domandare, in occasione della mutatio libelli ex art. 1453 c.c., comma 2, i danni da risoluzione in luogo di quelli da ritardo nell'adempimento o da inesatto adempimento: ciò sul rilievo che "quando la legge ammette, in deroga alle generali norme processuali, la sostituzione della domanda di risoluzione a quella di adempimento, non può, correlativamente, non ammettere l'introduzione della richiesta dei danni da risoluzione, anche se effettivamente diversi, per essenza e quantità, da quelli che siano stati richiesti insieme con l'originaria domanda di adempimento (arg. ex art. 1453 c.c., commi 1 e 2)". Il principio è stato incidentalmente richiamato e confermato da queste Sezioni Unite con la sentenza 18 febbraio 1989, n. 962, precisandosi che esso è destinato a valere "nel caso... in cui la domanda di risoluzione sia, come deve essere, fondata sullo stesso fatto costitutivo della domanda d'adempimento (ovvero, senza che ad esso siano sostituiti altri elementi materiali, tali da integrare una nuova causa petendi) e la connessa domanda di risarcimento dei danni, malgrado ciò, sia diretta a conseguire un ristoro patrimoniale essenzialmente diverso, per qualità e quantità, da quello perseguito con la prima domanda di danni, restando peraltro inalterata la causa petendi della domanda principale".
La giurisprudenza ammette altresì che, in occasione della mutatio, possa essere avanzata ex novo, accanto alla domanda di risoluzione, quella di restituzione del praestatum Sez. 2^ 27 novembre 1996, n. 10506, e Sez. 2^ 27 maggio 2010, n. 13003, declamano che la facoltà di poter mutare nel corso del giudizio di primo grado, nonchè in
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appello e persino in sede di rinvio la domanda di adempimento in quella di risoluzione in deroga al divieto di mutatio libelli sancito dagli artt. 183, 184 e 345 c.p.c., xxxxxxxxx si resti nell'ambito dei fatti posti a base della inadempienza originariamente dedotta, senza introdurre un nuovo tema d'indagine, comporta che, in tema di contratto preliminare di compravendita, qualora sia sostituita la domanda di adempimento con quella di risoluzione, il contraente deluso possa chiedere la restituzione della somma versata a tiolo di prezzo, quale domanda consequenziale a quella di risoluzione, implicando l'accoglimento di questa, per l'effetto retroattivo espressamente previsto dall'art. 1458 cod. civ., l'obbligo di restituzione della prestazione ricevuta, onde di tale domanda - si afferma - il giudice può decidere anche se su di essa non vi sia stata accettazione del contraddittorio.
6. - Il contrasto va composto aderendo all'indirizzo espresso dall'orientamento estensivo, dovendo riconoscersi che lo ius variandi possa esercitarsi in modo completo affiancando alla domanda di risoluzione, non solo quella di restituzione, ma anche quella di risarcimento dei danni.
7. - L'art. 1453 x.x., xxxx'xxxxxxxxxx xx xxxxxxxxxx xxxxxx xx xxxxxxx xx xxxxxxxx "x sua scelta" l'adempimento o la risoluzione del contratto, offre alla parte che, con la domanda di adempimento, abbia inizialmente puntato all'attuazione del contratto sul presupposto del suo mantenimento, anche la possibilità - a fronte di un inadempimento che, nel prolungarsi del giudizio, perdura o si aggrava - di rivedere la propria scelta, e, perduti la speranza o l'interesse rispetto alla prestazione, di reagire all'inattuazione dello scambio contrattuale passando alla domanda di risoluzione per inadempimento, onde veder cancellato e rimosso l'assetto di interessi disposto con il negozio.
Il codice civile, nell'accordare la facoltà di scegliere tra la condanna del debitore all'adempimento e la risoluzione del contratto, in considerazione dell'interesse al conseguimento tardivo della prestazione, se ed in quanto ancora realizzabile, al contempo non vincola il contraente non inadempiente ad una scelta irrevocabile, quale risulterebbe dall'avere "optato per l'adempimento senza la possibilità di chiedere successivamente la risoluzione all'esito infruttuoso della domanda di adempimento" (Sez. Un. 18 febbraio 1989, n. 962, cit.).
Lo ius variandi si giustifica con il fatto che le due azioni, quella di adempimento e quella di risoluzione, pur avendo un diverso oggetto, mirano a risultati coordinati e convergenti dal punto di vista dello scopo. Nei contratti a prestazioni corrispettive, l'azione di adempimento e quella di risoluzione costituiscono due diversi rimedi giuridici a tutela del diritto che dal rapporto sostanziale deriva al contraente in regola: pur presentando diversità di petitum, entrambe mirano a soddisfare lo stesso interesse del creditore insoddisfatto, consistente nell'evitare il pregiudizio derivante dall'inadempimento della controparte (Sez. 2^ 29 novembre 2011, n. 15171). E lo testimonia il fatto che la proposizione della domanda di adempimento ha effetto interruttivo della prescrizione anche con riferimento al diritto di chiedere la risoluzione del contratto, il quale potrà essere esercitato fino a quando il termine prescrizionale non sarà nuovamente decorso per intero (Sez. Un. 10 aprile 1995, n. 4126).
Lo ius variandi della vittima dell'inadempimento non può cogliere di sorpresa il debitore. Questi, infatti, è rimasto inadempiente nonostante sia stato sollecitato ad eseguire (o ad eseguire esattamente) la prestazione richiesta, laddove la sua esecuzione successiva alla domanda di adempimento avrebbe rimosso il presupposto della risoluzione. D'altra parte, la domanda di adempimento non può significare rinuncia all'efficacia risolutiva dell'inadempimento nel perdurare dello stato di violazione del contratto. Come è stato efficacemente osservato in dottrina, l'inerzia del debitore, per ogni momento che passa, viene ad aggravare lo iato tra il momento della scadenza ed il momento dell'esecuzione, sicchè la scelta iniziale per il rimedio manutentivo in presenza di un inadempimento precorso non distrugge la facoltà di ricorrere alla tutela ablativa per un inadempimento che si rinnova, che cresce o che si aggrava nella pendenza del processo.
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Prevedendo la reversibilità della scelta inizialmente espressa per la manutenzione del contratto ed offrendo al creditore che ha chiesto l'adempimento la possibilità di cambiare idea e di chiedere la risoluzione, il codice detta, anzitutto, una norma di diritto sostanziale che disciplina l'esercizio di un'opzione tra i diversi mezzi di reazione all'altrui inadempimento: un diritto che non può essere ostacolato dall'anteriore scelta per il rimedio manutentivo.
Lo dimostra il fatto che la giurisprudenza ammette che il contraente deluso, anche se si sia formato un giudicato di condanna all'esecuzione in forma specifica, conserva pur sempre la possibilità di domandare la risoluzione del contratto dopo il processo, qualora l'adempimento non si verifichi (Sez. 2^ 18 maggio 1994, n. 4830; Sez. 2^ 4 ottobre 2004, n. 19826; Sez. 2^ 12 luglio 2011, n. 15290).
Lo ius variandi, pur non dovendo necessariamente esercitarsi nel processo rivolto ad ottenere l'adempimento, ha tuttavia una valenza sicuramente processuale, come dimostra la stessa formulazione letterale dell'art. 1453 c.c., comma 2, che, guardando alla dimensione giudiziale dell'istituto, discorre di risoluzione che "può essere domandata" e di "giudizio... promosso per ottenere l'adempimento". L'esercizio del potere del contraente non inadempiente di provocare lo scioglimento del contratto non può essere pregiudicato dalla pendenza del giudizio promosso per ottenere l'adempimento.
Quando in luogo dell'adempimento chiede la risoluzione, l'attore non si limita a precisare o a modificare la domanda già proposta. Egli ne muta l'oggetto. L'azione di risoluzione è nuova rispetto a quella di adempimento: la trasformazione della domanda di adempimento a quella di risoluzione rappresenta un'autentica mutatio libelli.
Sotto questo profilo, il passaggio, consentito dall'art. 1453 c.c., comma 2, dalla domanda di adempimento a quella di risoluzione costituisce una deroga alle norme processuali che precludono il mutamento della domanda nel corso del giudizio e la proposizione di domande nuove in appello. La disposizione dell'art. 1453 c.c., comma 2, infatti, abilita la parte che ha invocato la condanna dell'altra ad adempiere, a sostituire a tale pretesa quella di risoluzione, in deroga agli artt. 183 e 345 c.p.c., nelle fasi più avanzate dell'iter processuale, oltre l'udienza di trattazione: non solo per tutto il giudizio di primo grado, ma anche nel giudizio di appello (Sez. 2^ 5 maggio 1998, n. 4521; e questo indirizzo è stato ribadito - da Sez. 2^ 6 aprile 2009, n. 8234, e da Sez. 2^ 12 febbraio 2014, n. 3207, entrambe riferite a vicende processuali iniziate dopo il 30 aprile 1995 - in seguito alle riforma del regime delle preclusioni processuali realizzata dalla L. 26 novembre 1990, n. 353).
Tutto ciò - come queste Sezioni Unite hanno già precisato (con la citata sentenza 18 febbraio 1989, n. 962) - vale a condizione che i fatti dedotti a fondamento della domanda di risoluzione coincidano con quelli posti a base della domanda di adempimento originariamente proposta. Se l'attore allega alla domanda di risoluzione un inadempimento diverso, ossia una nuova causa petendi, con l'introduzione di un nuovo tema d'indagine, tornano ad applicarsi le preclusioni di cui agli artt. 183 e 345 c.p.c., xxxxxxx la deroga alle disposizioni del codice di rito è limitata all'introduzione di un nuovo e sostitutivo petitum immediato. L'immutazione dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, introducendo nel processo un nuovo tema d'indagine e di decisione, altererebbe "l'oggetto sostanziale dell'azione ed i termini della controversia", e si risolverebbe, in definitiva, nel far valere in giudizio "una pretesa... diversa, per la sua intrinseca natura, da quella fatta valere in precedenza". "Inderogabili esigenze del contraddittorio e della difesa - hanno precisato le Sezioni Unite - sono d'ostacolo a che possa porsi a base della nuova domanda di risoluzione un fatto costitutivo, materialmente diverso da quello su cui sia stata fondata la domanda originaria d'adempimento, non essendo, cioè, permesso di dedurre, quale causa petendi della domanda di risoluzione, inadempimenti nuovi e diversi da quelli in base ai quali sia stata prima richiesta la prestazione pattuita".
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8. - Ritengono le Sezioni Unite che l'interpretazione estensiva, oltre a non essere incompatibile con il dato letterale dell'art. 1453 c.c., comma 2, ne coglie le ragioni e l'intima ratio e al tempo stesso assicura la finalità di concentrazione e pienezza della tutela che la disposizione del codice ha inteso perseguire: tale lettura, infatti, offrendo al contraente non inadempiente la possibilità di spingere la pretesa alle naturali conseguenze sul piano restitutorio e risarcitorio, consente di realizzare, nell'ambito dello stesso processo, il completamento sul piano giuridico ed economico degli effetti che si ricollegano allo scioglimento del contratto.
8.1. - Dal punto di vista letterale, l'art. 1453 x.x., xxxxx 0, xxxxxxxxxx x'xxxxxxx xxxxxx, xxx xxxxxxxxx dall'azione di esecuzione del contratto a quella di risoluzione dello stesso per il persistere dell'inadempimento della controparte. Si tratta di una disciplina dettata senza pretesa di completezza, la quale, lasciando all'interprete il compito di completare il dettaglio della trama normativa per le fattispecie non e-spressamente regolate, non esclude che, in occasione dell'esercizio dello ius variandi, vi si affianchino quelle pretese che hanno una funzione complementare rispetto al rimedio base.
Del resto, il primo comma dello stesso articolo, nel fare "salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno", configura come possibile il cumulo tra la domanda rivolta ad ottenere lo scioglimento del contratto e l'azione risarcitoria per la riparazione del pregiudizio economico del creditore insoddisfatto, delineando un modello di tutela unitario risultante dall'operare combinato dei due rimedi, con l'azione di danno che può accompagnarsi tanto all'azione di adempimento quanto alla domanda di risoluzione.
Mentre l'azione di adempimento e quella di risoluzione danno luogo ad un concorso alternativo di rimedi, in parte tra loro surrogabili, con il solo limite della seconda parte del secondo comma (posto che "non può più chiedersi l'adempimento quando è stata domandata la risoluzione"), la domanda di risarcimento può, a scelta dell'interessato, essere proposta insieme con quella di adempimento o di risoluzione.
La lettera della norma del codice non impedisce, pertanto, di considerare che l'accoppiamento dei due rimedi (risoluzione del contratto e risarcimento del danno) possa aversi, non solo quando il contraente in regola abbia puntato, sin dall'inizio, alla cancellazione degli effetti del contratto, ma anche quando questi, dopo una citazione con domanda di condanna ad adempiere, abbia abbandonato il rimedio attuativo del contratto e sia passato ad una domanda rivolta ad eliminarne gli effetti.
8.2. - A questa soluzione conduce un'interpretazione sistematica, orientata dalla ratio dello ius variandi.
L'interesse del contraente deluso che domanda la risoluzione non è soltanto quello di ottenere lo scioglimento del vincolo contrattuale per un difetto funzionale sopravvenuto, di eliminare cioè il regolamento contrattuale in quanto fonte di prestazioni corrispettive e di essere in tal guisa liberato dalla prestazione su di lui gravante. Di fronte alla violazione dell'obbligazione contrattuale, pattuita in corrispettivo di una prestazione ancora da eseguire, al contraente non inadempiente basta opporre l'eccezione al fine di non dovere prestare a chi si sia reso inadempiente, secondo quanto disposto dall'art. 1460 c.c., (inadimplenti non est adimplendum).
All'iniziativa risolutoria il contraente in regola è stimolato a rivolgersi anche per un interesse che va al di là della mera cancellazione del sinallagma: per conseguire la restituzione della propria prestazione, ove già eseguita, e per ottenere la riparazione del pregiudizio che abbia eventualmente sofferto a causa dello scioglimento del rapporto.
Precludere a chi in prima battuta abbia chiesto in giudizio la condanna della controparte all'adempimento e si sia poi rivolto alla tutela risolutoria, di azionare, nell'ambito dello stesso giudizio in cui ha esercitato la facoltà di mutamento, la tutela complementare restitutoria e risarcitoria, vanificherebbe la finalità di concentrazione che il codice civile ha inteso perseguire accordando al contraente in regola lo ius variandi nel corso di uno stesso ed
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unico giudizio. La vittima dell'inadempimento, infatti, per procurarsi il risultato ripristinato rio della risoluzione, con la restituzione della prestazione eseguita e dei suoi accessori, e per rimuovere le differenze tra la situazione in cui si sarebbe trovato in caso di integrale attuazione del contratto e la situazione conseguente allo scioglimento del vincolo, sarebbe costretta ad intraprendere un nuovo e separato processo, con la frammentazione delle istanze giurisdizionali e l'allungamento dei tempi complessivi necessari ad ottenere l'integrale soddisfazione delle proprie ragioni. E ciò nonostante, da un lato, le restituzioni rappresentino il logico corollario dello scioglimento ex tunc del contratto (la risoluzione provocando il venir meno della giustificazione causale delle prestazioni eseguite), e dall'altra il risarcimento del danno scaturente dalla rimozione del contratto rinvenga la propria origine proprio nell'inadempimento della controparte agli obblighi contrattuali assunti e miri a far ottenere al risolvente un assetto economico equivalente a quello che gli avrebbe assicurato lo scambio fallito.
La ratio dello ius variandi - offrire giusta protezione all'interesse dell'attore vittima dell'inadempimento, specie di fronte al comportamento del debitore convenuto in giudizio, che permane inattivo nonostante sia stato sollecitato a eseguire la prestazione - richiede che, in occasione del (e contestualmente al) mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione del contratto, sia ammessa l'introduzione della domanda restitutoria e della richiesta di danni da risoluzione, data la funzione complementare che l'una e l'altra svolgono rispetto al rimedio diretto ad ottenere la rimozione degli effetti del sinallagma.
9. - A questa soluzione non sono di ostacolo nè la circostanza che la norma dell'art. 1453, secondo comma, cod. civ., in quanto recante una disciplina di deroga rispetto a quella sancita dal codice di rito in tema di preclusioni processuali, dovrebbe formare oggetto di stretta interpretazione, stante il principio generale di divieto di nova, che non consente l'ampliamento successivo del thema decidendi;
nè il rilievo che la pretesa risarcitoria è non solo nuova per petitum e causa petendi rispetto alla domanda iniziale di adempimento o a quella, risultante dalla mutatio, di risoluzione, ma anche - a differenza della domanda restitutoria - non consequenziale a quella di risoluzione del contratto.
9.1. - Innanzitutto occorre rilevare che già nel passaggio, espressamente regolato dal codice civile, dall'adempimento alla risoluzione, l'indagine si allarga, dovendo questa essere diretta all'acquisizione di dati ulteriori che potrebbero mancare in quel processo, non essendo di per sè necessari ai fini nel giudizio promosso per ottenere l'adempimento.
Per chiedere la condanna all'esecuzione, è sufficiente che il contratto risulti inadempiuto, senza bisogno di una particolare qualificazione dell'inadempimento. Invece, la risoluzione del contratto ha presupposti più rigidi, occorrendo un certo livello di gravità: presupposto basilare per conseguire la risoluzione giudiziale del contratto è che "l'inadempimento di una delle parti sia di non scarsa importanza, avuto riguardo all'interesse dell'altra" (art. 1455 c.c.).
D'altra parte, se l'attore non può allegare a fondamento della successiva domanda di risoluzione un distinto fatto costitutivo, cioè un inadempimento diverso da quello posto a base della pretesa originaria e già verificatosi. all'atto della introduzione di quest'ultima (Sez. Un. 18 febbraio 1989, n. 962, cit.), è ben possibile la deduzione, da parte sua, dei fatti sopravvenuti che, rendendo irreversibile l'inattuazione del sinallagma negoziale, orientano e inducono la parte, di fronte agli sviluppi successivi alla proposizione della domanda iniziale, ad avvalersi dello ius variandi.
9.2. - E' poi senz'altro esatto che soltanto la domanda di restituzione, e non anche la domanda di risarcimento del danno, è propriamente accessoria alla domanda di risoluzione. Soltanto la prima, infatti, pur essendo autonoma nell'oggetto (petitum), costituisce un effetto legale dello scioglimento del sinallagma contrattuale, avendo il
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proprio titolo immediato nell'effetto giuridico (recuperatorio ex tunc delle prestazioni eseguite) che forma oggetto della domanda principale di risoluzione.
Questo rapporto di consequenzialità logico-giuridica manca con riguardo all'azione risarcitoria, la quale non solo non presuppone il necessario esperimento dell'azione di risoluzione del contratto, ma neppure, a maggior ragione, il suo accoglimento (Sez. 3^ 10 giugno 1998, n. 5774; Sez. 3^ 23 luglio 2002, n. 10741; Sez. 1^ 27
ottobre 2006, n. 23273).
E tuttavia, la qualificazione concettuale non è dirimente nel caso in esame.
In primo luogo perchè anche la tutela restitutoria (per la quale occorre una autonoma domanda, nonostante l'obbligo di restituzione della prestazione ricevuta costituisca un effetto naturale della risoluzione del contratto: Sez. 2^ 2 febbraio 2009, n. 2562; Sez. 3^ 29 gennaio 2013, n. 2075) può, talvolta, esigere l'acquisizione di dati che non sono disponibili nel giudizio che sia stato promosso per ottenere la condanna all'esecuzione: basti pensare alla eventualità della conversione della restituzione in natura in restituzione (in tutto o in parte) per equivalente, che si ha quando il venir meno della causa solvendi riguardi una cosa perita o deteriorata, giacchè in tal caso occorrerà accertarne il valore o la diminuzione di valore (cfr. art. 2037 c.c.).
In secondo luogo perchè la tutela risarcitoria, quantunque non legata da un rapporto di consequenzialità logico- giuridica alla domanda di risoluzione, concorre nondimeno ad integrare e a completare le difese del contraente in regola, costituendo un coelemento, un tassello di un sistema complessivo di tutela, affidato - proprio nell'impianto della stessa disposizione che contempla lo ius variarteli - all'azione combinata di più domande: sistema nel quale, con l'affiancamento alla risoluzione della pretesa risarcitoria, si offre alla parte non inadempiente la soddisfazione del suo interesse a guardare al negozio, i cui effetti vengono eliminati grazie alla risoluzione, come fonte anche di un determinato assetto quantitativo del suo patrimonio.
L'art. 1453 c.c., comma 2, infatti, proprio nel suo carattere processuale, ha la funzione di recare non solo la disciplina generale dell'azione di risoluzione, ma anche dei suoi rapporti con le altre azioni poste comunque a tutela del contraente non inadempiente, mirando ad attuare, nello specifico contesto del rapporto contrattuale con prestazioni corrispettive litigioso, il principio di economia del e nel processo, consentendo alla vittima dell'inadempimento di evitare il promovimento di un'ulteriore controversia attraverso lo sfruttamento più razionale ed intensivo delle risorse del giudizio già promosso, che è e diventa la sede idonea anche per dispiegarvi la richiesta di tutela complementare.
9.3. - In questa prospettiva, neppure appare logico circoscrivere la possibilità per il contraente fedele di introdurre la pretesa risarcitoria in occasione della mutatio libelli al solo caso in cui questi avesse già proposto sin dall'origine la domanda di danni, affiancandola a quella di adempimento. Una tale soluzione non tiene conto del fatto che anche in tale evenienza, pur essendo la domanda risarcitoria presente sin dall'inizio nel processo, il tema d'indagine è destinato comunque a variare con il passaggio al rimedio ablativo: posto che quando la richiesta di risarcimento si accoppia alla domanda di adempimento, il danno da risarcire è equivalente alla differenza tra un'esatta o tempestiva esecuzione del contratto e un'esecuzione inesatta o tardiva ma fermo restando il contratto, mentre il danno scaturente dalla rimozione degli effetti del contratto è pari alla differenza tra la situazione scaturita dal fallimento della vicenda contrattuale ed il vantaggio che il contratto autorizzava a ritrarre (cfr. Sez. 2^ 24 maggio 1978, n. 2599; Sez. 3^ 7 maggio 1982, n. 2850; Sez. Un. 25 luglio 1994, n. 6938; Sez. 2^ 7 febbraio 1998, n. 1298; Sez. 2^ 30 agosto 2012, n. 14714).
10. - La proposizione nel corso del giudizio di merito, anche quando siano calate le ordinarie preclusioni di cui all'art. 183 c.p.c., della domanda risarcitoria affiancata al rimedio risolutorio, comporta certamente un
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ampliamento dell'oggetto del giudizio (che dall'inadempimento grave si allarga al pregiudizio sofferto e all'entità dei danni) e, conseguentemente, del thema probandum: di qui la necessità che al contraente in regola sia accordata la possibilità dimostrare i fatti costitutivi della pretesa risarcito- ria, e, parimenti e corrispondentemente, che all'altra parte sìa consentito di difendersi, replicando alla domanda nuova, proponendo le eccezioni che sono conseguenza della stessa e provando eventuali fatti impeditivi, estintivi o modificativi del diritto al risarcimento fatto valere.
Si è tuttavia al di fuori dell'operatività del regime delle preclusioni. Queste tendono ad impedire il comportamento dilatorio delle parti, imponendo loro di allegare all'inizio del processo tutto ciò di cui sono già in possesso per far valere le loro ragioni. Ma poichè qui è il codice civile che consente, per ragioni di effettività e concentrazione della tutela, di far valere, contestualmente al mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione del contratto inadempiuto, la pretesa risarcitoria, il regime di preclusioni non è di ostacolo nè alla possibilità dell'introduzione del nuovo tema di indagine, nè al pieno dispiegarsi, su di esso, del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio in condizioni di parità.
Non si pone neppure un problema di rimessione in termini, venendo piuttosto in gioco il doveroso esercizio dei poteri di direzione del processo da parte del giudice per rendere possibile l'esercizio del diritto in sede giuri- sdizionale nel rispetto dei principi del giusto processo.
E' la domanda nuova che pone l'esigenza di allegazioni, controallegazioni, eccezioni, deduzioni e controdeduzioni istruttorie: sicchè queste attività processuali debbono essere consentite, non già per provvedimento discrezionale del giudice, ma per garanzia del diritto di azione e di difesa e del giusto processo.
11. - L'ordinamento, del resto, conosce altre ipotesi nelle quali il divieto di nova è derogato al fine di evitare la moltiplicazione dei giudizi in relazione alla medesima fattispecie.
11.1. - Nel settore tradizionale delle azioni a difesa della proprietà, la rivendicazione può essere proseguita anche contro chi, dopo la domanda, dolo desiit possidere, e, in caso di impossibilità di attuare la tutela restitutoria in natura, è possibile "trasformare" la domanda in una "diversa" causa, eventualmente mirante anche al risarcimento del danno, su specifica richiesta del proprietario (art. 948, primo comma, cod. civ.).
11.2. - Nel campo del diritto delle società per azioni, l'art. 2378 c.c., comma 2, nel testo conseguente alla riforma operata dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, preclude l'annullamento della delibera societaria impugnata se nel xxxxx xxx xxxxxxxx xxxxx xxxx nel socio o nei soci opponenti la quota azionaria minima per potere essere legittimati all'impugnazione, ma fa espressamente salvo in tal caso il diritto a pretendere il risarcimento del danno, per ciò stesso evidentemente consentendo che xxxxxxxx domanda possa essere introdotta durante il giudizio.
11.3. - Sebbene nel giudizio d'appello non possano proporsi domande nuove, l'art. 345 c.p.c., non si limita a porre tale divieto, ma accorda la possibilità di domandare, tra l'altro, il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza impugnata. Possono così trovare ingresso nuovi temi d'indagine: dandosi alla vittima di lesioni personali la possibilità di domandare nel giudizio di appello, senza violare il divieto di ius novorum, sia il risarcimento dei danni derivanti dalle lesioni, ma manifestatisi dopo la sentenza di primo grado, sia il risarcimento dei danni la cui esistenza, pur precedente alla sentenza impugnata, non poteva essere rilevata con l'uso dell'ordinaria diligenza (Sez. 3^ 31 marzo 2008, n. 8292);
consentendosi - "atteso che la ratio della norma è quella di evitare il frazionamento dei giudizi" - di chiedere "nel xxxxx xxx xxxxxxxx xx xxxxxxx, x xxxx xxxx xxxxxxxxxxxx xxxxx xxxxxxxxxxx" "x danni riconducibili alla causa già dedotta in primo grado", ma "manifestatisi successivamente all'inizio della controversia" (Sez. 3^ 15 marzo 2006,
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n. 5678); affermandosi in generale che "nel giudizio di risarcimento del danno è consentito all'attore chiedere per la prima volta in appello il risarcimento degli ulteriori danni, provocati dal medesimo illecito, manifestatisi solo in corso di causa" (Sez. 3^ 18 aprile 2013, n. 9453). Al fondo di questo orientamento vi è, ancora una volta, la consapevolezza che "sarebbe irrazionale costringere l'attore a promuove successivi giudizi per far valere il progressivo ampliarsi del danno, in presenza di un comportamento dannoso in atto al momento della domanda o di un evento dannoso che non ha ancora esaurito i suoi effetti" (Sez. 3^ 10 novembre 2003, n. 16819).
12. - A composizione del contrasto di giurisprudenza, va pertanto enunciato il seguente principio di diritto: "La parte che, ai sensi dell'art. 1453 c.c., comma 2, chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l'adempimento, può domandare, contestualmente all'esercizio dello ius variarteli, oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento negoziale".
13. - Il ricorso contiene altri due motivi.
Con il quarto mezzo, infatti, la ricorrente censura violazione e falsa applicazione degli artt. 2935 e 2946 c.c., sul rilievo che la sentenza impugnata avrebbe dovuto accogliere l'eccezione di prescrizione, giacchè il diritto al risarcimento del danno poteva essere esercitato sin dal 1994.
Il quinto motivo, a sua volta, denuncia contraddittorietà delle diverse statuizioni dell'impugnata sentenza, illogicità della motivazione relativa all'ammontare del danno e violazione degli artt. 1218 e 1223 c.c.. Sarebbe in primo luogo contraddittoria la statuizione di risolvere i contratti di cui è causa, risalenti agli anni 1992, 1993 e 1995, e poi fare riferimento ai valori dell'anno 2008 per determinare il quantum del risarcimento. Avrebbe poi errato la sentenza impugnata a ritenere l'ammontare del danno equivalente ai valori di mercato del materiale scavato, dovendosi calcolare anche i costi effettivi che Xxxxx Xxxxxx o la sua dante causa avrebbero sopportato nel 1994 con riferimento sia agli oneri per l'escavazione che a quelli relativi alle spese generali. Il profitto, infine, non poteva essere tout court pari ai prezzi di mercato, giacchè Xxxxx Xxxxxx avrebbe dovuto dimostrare il prezzo di vendita a quella data praticato nei confronti degli altri clienti.
Ai sensi dell'art. 142 disp. att. c.p.c., la causa va rimessa alla Seconda Sezione per la decisione, con separata sentenza, di questi ulteriori motivi.
P.Q.M.
La Corte così provvede:
- rigetta il primo motivo di ricorso;
- dichiara inammissibile il terzo motivo di ricorso;
- rigetta il secondo motivo di ricorso ed enuncia il seguente principio di diritto: "La parte che, ai sensi dell'art. 1453 c.c., comma 2, chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l'adempimento, può domandare, contestualmente all'esercizio dello ius variandi, oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento negoziale";
- rimette la causa alla Seconda Sezione civile per la decisione, con separata sentenza, degli ulteriori motivi.
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Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 25 marzo 2014.
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