RAPPORTI TRA CONTRATTI COLLETTIVI DI DIVERSO LIVELLO
Dipartimento di Giurisprudenza Cattedra di Diritto del Lavoro
RAPPORTI TRA CONTRATTI COLLETTIVI DI DIVERSO LIVELLO
RELATORE
Xx.xx Prof. Xxxxxxxx Xxxxxxx
CORRELATORE
Xx.xx Xxxx. Xxxxxxx Xxxxx
CANDIDATO:
Xxxxxxx Xxxxxx Xxxx. 132873
Anno Accademico 2018 - 2019
Indice
Introduzione Pag 2
Capitolo I
• Fonti normative 5
• Origine del contratto collettivo 21
• Natura giuridica e funzioni dell’accordo collettivo 28
• Efficacia del contratto collettivo 33
• Rapporti e conflitti tra contratti collettivi di diverso livello 38
Capitolo II - Evoluzione normativa
• Dalla contrattazione articolata al protocollo Xxxxxx del 1983 42
• La riforma della struttura contrattuale – Il protocollo del 1993 e 47
il modello accentrato
• L’Accordo quadro del 22 gennaio 2009 e il decentramento 54
contrattuale
• Il Caso FIAT 58
• L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e il Protocollo 61
del 2013
• Dal TU sulla rappresentanza del 2014 all’Accordo 66
interconfederale del 9 marzo 2018
Capitolo III - Orientamenti giurisprudenziali e dottrinali sui conflitti tra contratto nazionale e contratto aziendale
• Applicabilità dell’art 2077 c.c. al rapporto tra contratti di 69
diverso livello
• Il criterio gerarchico 71
• Il criterio cronologico 73
• Rilevanza dell’autonomia negoziale 76
• Il criterio di specialità come criterio dirimente del conflitto 79
Capitolo IV - Rapporti tra Xxxxx e contrattazione collettiva
• Art. 8 Legge 14 settembre 2011 n.148: innovazione e 83
compatibilità costituzionale
• Struttura e requisiti dell’art 8 l.148/2011 91
Considerazioni finali 96
Bibliografia 100
Introduzione
La presente tesi si propone l’intento, attraverso l’analisi dell’evoluzione della contrattazione collettiva in Italia dal secondo dopoguerra ad oggi, di valutare i rapporti tra i contratti collettivi di diverso livello spesso in conflitto sul piano della applicabilità sia soggettiva che oggettiva al fine di individuare spunti di riflessione sulle modalità di intervento per migliorare la gestione della contrattazione collettiva.
In questo periodo gli attori principali della contrattazione collettiva, associazioni datoriali e sindacati, hanno interpretato ruoli spesso diversi alla presenza di un “regista”, il legislatore che spesso è stato assente nella emanazione di regole..
La critica, rappresentata dalla giurisprudenza e dalla dottrina, ha poi evidenziato criticità e problematiche, trovando le soluzioni più adeguate alle singole fattispecie, che hanno contribuito alla modifica delle regole della contrattazione recepite nelle differenti versioni succedutesi negli anni, sostituendosi di fatto al legislatore.
La tesi propone un excursus sulle fonti normative che costituiscono la base della contrattazione collettiva e quindi prende in considerazione l’evoluzione dei diversi accordi sindacali succedutisi dagli anni 60 in poi, cercando di inquadrare il contesto storico in cui questi sono stati realizzati.
Si cercherà di evidenziare come inizialmente, nei periodi di depressione i contratti tendessero a tutelare le necessità primarie dei lavoratori (salario, posto di lavoro) anche a scapito di altre tutele al momento ritenute non indispensabili, mentre nei periodi di espansione, fossero gli stessi lavoratori che, attraverso la contrattazione decentrata, cercavano di ottenere maggiori benefici al fine di condividere il benessere con il datore di lavoro.
La alternanza di periodi di depressione e di espansione ha quindi portato a diverse formulazioni delle regole con un andamento quasi sinusoidale.
Nell’ultimo decennio la globalizzazione del mercato ha ribaltato l’impostazione iniziale, in quanto la necessità di aumentare la flessibilità per migliorare la competitività delle aziende, ha prodotto accordi aziendali sempre più parcellizzati nei quali si assisteva alla deroga “in peius” dai principi generali, per cercare di
aumentare la occupazione e migliorare la produttività delle aziende. Questo cambio di rotta ha previsto un sempre maggiore coinvolgimento delle associazioni datoriali e delle associazioni sindacali, ponendo il problema della rappresentatività che si è cercato di regolare con gli accordi del 2011 e con il TU del 2014.
In uno dei suoi sporadici interventi il legislatore con l’art 8 della L 148/11 ha permesso che, nei contratti aziendali, si potesse derogare “in peius” a specifiche norme. Questo articolo ha posto questioni di compatibilità costituzionale che saranno trattate all’interno della tesi insieme agli effetti di questa legge sulla risoluzione dei conflitti.
Le regole sulla rappresentanza inserite negli accordi interconfederali del 2011 combinate a quanto disposto dall’art 8, hanno poi prodotto la formulazione di contratti collettivi, stipulati tra associazioni datoriali e sindacati che avevano una rappresentanza elevata solo all’interno di comparti molto piccoli e che potevano essere considerati “di nicchia”. Questo fatto ha portato, nella forma più distorta, ai cosiddetti “contratti pirata” e al dumping contrattuale.
L’ultimo accordo interconfederale del 2018 ha cercato di trovare un rimedio al fenomeno del dumping contrattuale ma la questione è ancora aperta.
La mancanza di leggi specifiche e la contemporanea esistenza di diversi contratti, ha spesso determinato conflitti tra contratti collettivi di diverso livello, che, sia la dottrina, che la giurisprudenza, hanno cercato di dirimere. Si è evidenziato che la regolamentazione interna agli accordi sindacali, avendo valenza obbligatoria, non è idonea a risolvere i conflitti. I criteri elaborati da dottrina e giurisprudenza presentano invece i caratteri di idoneità alla risoluzione dei conflitti, anche se non sempre sono univoci. Si analizzerà l’evoluzione delle soluzioni proposte attraverso l’applicazione di diversi criteri, quello cronologico, quello gerarchico soffermandosi in modo maggiore sul criterio di specialità, che consente di ricostituire il rapporto tra diversi livelli di contrattazione anche nei casi di contrattazione separata e di negoziazione operante su rinvio legislativo. Un ulteriore analisi sarà condotta sulla valorizzazione dell’autonomia negoziale delle parti, come criterio dirimente degli eventuali conflitti.
Nella parte finale della tesi, si cercherà di valutare quali possano essere i modelli da proporre al fine di migliorare la “governance” della contrattazione collettiva senza la pretesa di trovare una soluzione, ma con l’intento di mettere in evidenza quali possano essere le eventuali strade da percorrere.
Capitolo I
Fonti Normative
La disciplina dei contratti collettivi è condizionata da un sistema di fonti di produzione del diritto del lavoro che presenta aspetti di particolare complessità e problematicità in ragione del concorso di una molteplicità di atti che, se pur dotati di un diverso grado di efficacia, hanno tutti la forza giuridica di incidere sulla regolamentazione concreta del rapporto di lavoro e di determinarla.
Le fonti normative che concorrono alla produzione del diritto del lavoro e che condizionano la disciplina dei contratti collettivi possono essere suddivise nel modo che segue:
• fonti sovranazionali;
• fonti legislative interne.
L’art. 35 della Costituzione dispone, al comma 3, che la Repubblica «promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro».
Nel novero delle fonti sovranazionali si distinguono due livelli di produzione normativa:
⁃ il primo, relativo alla partecipazione dello Stato italiano alla Comunità internazionale degli Stati;
⁃ il secondo, afferente invece alla partecipazione dello Stato italiano alle Comunità economiche europee.
Con riferimento al primo livello, oltre ai vari trattati internazionali stipulati anche dall'Italia (tra i più importanti ricordiamo la Carta Internazionale del Lavoro (Versailles, 1919), aggiornata dalla Dichiarazione di Filadelfia (1944), la Carta sociale europea (Torino, 1961), sottoscritta dai membri del Consiglio d’Europa, i quali ne hanno ribadito i criteri minimi applicativi nel Codice europeo di sicurezza sociale del 1964), rivestono fondamentale importanza alcuni atti ad efficacia esterna emanati dall'O.I.L. (Organizzazione internazionale del lavoro, nata nel
1917 , istituzionalmente deputata a favorire il progresso delle classi lavoratrici nel mondo), e cioè:
⁃ le convenzioni, strutturate in articoli, aventi natura di veri e propri atti normativi, che assumono valore di norme interne se sono rese esecutive
con legge dello Stato;
⁃ le raccomandazioni, prive di valore impegnativo, con cui si auspica che gli Stati destinatari si attivino per la risoluzione di un determinato problema.
L’obiettivo principale dell’Organizzazione internazionale del lavoro, della quale fanno parte gli Stati membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, è la tutela dell’uomo che lavora e la volontà di evitarne lo sfruttamento.
Gli atti normativi dell’Oil, costituiscono espressione di importanti principi di civiltà giuridica; basti pensare :
- alla convenzione n. 87 del 1948 e alla n. 98 del 1949 in materia di diritti sindacali e di tutela antidiscriminatoria;
- alla n. 100 del 1951 in materia di eguaglianza tra lavoratori e lavoratrici;
- alla n. 103 del 1952 in materia di tutela della maternità;
- alla n. 132 del 1970 sulle ferie annuali retribuite;
- alla n. 138 del 1973 sull’età minima di ammissione al lavoro.
Tali atti normativi hanno avuto, invero, poca influenza sull’evoluzione del diritto del lavoro italiano, posto che il nostro ordinamento ha già previsto livelli di tutela qualitativamente e quantitativamente più elevati di quelli predisposti dalla Comunità internazionale.
Con riferimento al secondo livello, va ricordato che il diritto dell’Unione Europea è costituito dalle disposizioni dei trattati istitutivi dell’Unione Europea (Fonti di diritto comunitario originario), così come integrati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e da atti successivi, da ultimo dal Trattato di Lisbona (firmato il 13-12-2007 ed entrato in vigore il 1°-12-2009) che ha modificato il trattato sull’Unione Europea (TUE) e il Trattato istitutivo della Comunità europea ridenominato Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), nonché dagli atti emanati dalle istituzioni dell’Unione (regolamenti, direttive e decisioni (cd. Fonti di diritto comunitario derivato).
A differenza delle norme del diritto internazionale, quelle del diritto comunitario - che hanno assunto, specie nell'ultimo decennio, una sempre crescente importanza possono esplicare efficacia immediata e diretta all'interno degli ordinamenti giuridici degli Stati membri. Tali norme sono quelle contenute:
• nei regolamenti comunitari, che, ai sensi dell'art. 189, co. II, del Trattato C.E.E., hanno portata generale applicandosi a tutto il territorio comunitario ed a tutti i soggetti giuridici comunitari;
• nelle direttive comunitarie, che, a norma del co. III dell'art. 189 del Trattato istitutivo della C.E.E., vincolano lo Stato membro cui sono rivolte per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma ed ai mezzi.
Il diritto dell’Unione Europea ha acquisito sempre più importanza come fonte del diritto del lavoro, condizionando la disciplina dei contratti collettivi, anche in considerazione della notevolissima ricaduta delle direttive sullo sviluppo della legislazione nazionale in materia.
Gran parte dei provvedimenti adottati negli ultimi anni — ad esempio in materia di lavoro a tempo determinato, part time, tutela delle lavoratrici madri, tutela contro le discriminazioni, sicurezza del lavoro e orario di lavoro etc. — costituisce
«attuazione» di direttive cui l’Italia è tenuta in forza dell’appartenenza all’Unione Europea.
Il recepimento di tale normativa nella legislazione interna deve avvenire salvaguardando
il livello di tutela dei lavoratori già esistente nel Paese, per cui dall’attuazione delle direttive comunitarie non può derivare un arretramento del livello generale di protezione in un determinato ambito (cd. principio di non regresso).
Necessitando di adattamento per produrre effetti nel diritto interno, le direttive devono, dunque, essere recepite. Il Governo ogni anno presenta al Parlamento un disegno di legge per l’attuazione, appunto, delle norme dell’Unione Europea.
Il recepimento avviene trasponendo il contenuto in un atto interno (legge, decreto
legislativo, decreto legge, atto amministrativo) secondo criteri e modalità procedurali oggi disciplinate dalla L. 4-2-2005, n. 11 (che ha sostituito la L. 86/1989, cd. legge «La Pergola»).
Appare necessario sottolineare che, ad oggi, la normativa comunitaria non è sufficiente a delineare un sistema compiuto di diritto del lavoro comunitario e tanto perché non risultano superate le divergenze sulle tecniche di regolazione tra coloro che privilegiano l’assetto di un’Europa sociale fondato su un sistema di regole rigide e vincolanti e coloro che, viceversa, auspicano il rafforzarsi di strumenti di indirizzo e coordinamento convenzionalmente denominato di soft law.
In proposito è appena il caso di ricordare il dibattito sulla flexicurity attivato su iniziativa della Commissione e ripreso con diversi accenti dal Parlamento europeo attraverso atti normativi non vincolanti per indirizzare e orientare le politiche del lavoro degli Stati membri per il superamento della difficoltà di coniugare le esigenze di flessibilità delle imprese con la necessità di garantire la sicurezza del reddito dei lavoratori nei periodi di non lavoro.
Gli atti emanati dall’Unione Europea (regolamenti, direttive e decisioni) dispiegano efficacia nell’ordinamento degli Stati membri in diversa guisa.
In particolare, i regolamenti, contenenti precetti generali ed astratti, tendono ad uniformare le legislazioni nazionali, mentre le decisioni sono riferite a situazioni specifiche. Entrambi gli atti sono direttamente applicabili nei confronti degli Stati e degli individui e prevalgono sulle norme di diritto interno eventualmente difformi.
Le direttive, invece, per l’adozione delle quali sono previste maggioranze diverse, tendono ad armonizzare le legislazioni nazionali dei Paesi membri attraverso la previsione di determinati obiettivi, ma non incidono sulle forme e i mezzi, e la loro trasposizione resta affidata ad atti interni dei Paesi membri.
Secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia le direttive, anche in mancanza di norme di attuazione, possono avere efficacia verticale nei confronti dello Stato e degli Enti pubblici, quando contengano disposizioni chiare precise ed incondizionate, ma non efficacia orizzontale, ossia nei rapporti tra privati perché altrimenti avrebbero la stessa efficacia dei regolamenti.
Nel caso in cui lo Stato non provveda ad attuare la direttiva nei termini stabiliti, il privato cittadino ha diritto al risarcimento del danno da parte dello Stato ma, ovviamente, non può pretendere l’applicazione immediata della direttiva, non attuabile nei rapporti con altri privati, perché, altrimenti, la stessa direttiva avrebbe non solo efficacia verticale ma anche quella orizzontale, propria dei regolamenti.
Inoltre, la Corte di giustizia ha più volte affermato che il giudice nazionale deve comunque interpretare il diritto interno, quando non vi sia un insanabile contrasto tra disposizioni interne e quelle comunitarie, in conformità al diritto comunitario (c.d. interpretazione conforme)1
In materia di diritto del lavoro, le fonti legislative sono le seguenti:
• la Costituzione, che si pone all'apice della gerarchia delle fonti;
• le leggi ordinarie e gli altri atti aventi forza di legge, collocati in posizione subordinata rispetto alla Costituzione;
• i regolamenti di attuazione o di esecuzione degli atti summenzionati, emanati nella forma del decreto del Presidente della Repubblica dal Governo, ovvero dai ministri con proprio decreto, ovvero da altre autorità ove ciò sia previsto. Tali regolamenti non possono modificare le leggi e gli altri atti aventi forza di legge, né derogare ad essi.
La Costituzione della Repubblica affronta il tema del lavoro essenzialmente nella prima parte (princìpi generali: artt. 1, 2, 3 e 4) e nel titolo III (rapporti economici, artt. 35-40), oltre a contenere alcuni riferimenti distribuiti in altri articoli.
Prima di analizzare gli articoli della Costituzione che hanno refluenza diretta nella disciplina dei contratti collettivi di lavoro un breve cenno va fatto sui principi generali.
1 (Cfr., da ultimo, Corte giust. UE, 26 novembre 2014, n. 22, cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13).
Il rilievo dato dalla Costituzione al lavoro si evince, innanzitutto, dall'art. 1, co. I, ai sensi del quale 'L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro'.
Fondare sul lavoro la Repubblica democratica fu una scelta dirompente dell'Assemblea costituente, di chiara discontinuità non soltanto con il regime fascista ma anche rispetto al precedente ordinamento liberale che, sia pure tra forti conflitti sociali, era rimasto saldamente ancorato al primato dell’iniziativa economica privata, del diritto di proprietà e della posizione di supremazia sociale da esso derivante, alla differenziazione di casta e ai privilegi della nascita.
Per comprendere il salto di qualità realizzato in Italia con la Costituzione è sufficiente ricordare che il termine “lavoro” con il quale essa esordisce non compare invece mai nello Statuto del 1848.
Nell’Assemblea Costituente non solo i partiti di ispirazione marxista, ma anche quelli liberal democratici o cattolici riconobbero il ruolo decisivo delle classi lavoratrici nella sconfitta del nazifascismo e le responsabilità delle connivenze dei potentati economici nella soppressione delle libertà e nel sostegno alla dittatura, insieme, all’esigenza di informare la vita pubblica del paese a princìpi di profondo rinnovamento democratico.
In tale contesto, risultò ridimensionata la posizione assunta dal diritto di proprietà e dall’iniziativa privata: nel riconoscerli (art. 41), la Costituzione pone infatti condizioni e limiti al loro esercizio che sarebbero stati impensabili in un sistema liberale “classico”, nel quale l’assioma della non interferenza dello Stato sull’autonomia dei privati portava a considerare intangibili la proprietà e la libertà dei mercati.
L’operazione del legislatore costituente nel patto costituzionale si caratterizzò allora per uno “squilibrio” in favore del lavoro.
Il principio di eguaglianza sancito dall'art.3 esalta il valore del lavoro come strumento privilegiato di affermazione della dignità individuale, indissolubilmente collegato al fine dell’integrazione sociale: in questa prospettiva, il dettato costituzionale va oltre una visione meramente economicista del lavoro stesso, per assumerlo come la più incisiva espressione della persona umana nella sua dimensione sociale, in funzione della crescita materiale e culturale della collettività (Mortati, 1954).
Questa visione del lavoro al fine di tutelare la dignità sociale dell’individuo si espande oltre il limite della cittadinanza per coinvolgere tutti coloro che vivono e lavorano sul territorio della Repubblica.
Questo tema, probabilmente, non era particolarmente avvertito dai costituenti, preoccupati piuttosto di sancire la libertà di emigrazione e di assicurare la tutela dei lavoratori italiani all’estero (art. 35, 4° comma), ma è oggi di notevole attualità.
La dichiarazione solenne del “diritto al lavoro” completa il quadro dei princìpi costituzionali riguardanti tale materia.
Con l’art. 4, 1° comma, viene infatti riconosciuto a tutti i cittadini il diritto al lavoro ed è assegnato alla Repubblica il compito di promuovere le condizioni che lo rendano effettivo.
Oltre al riconoscimento del diritto al lavoro, il 2° comma sancisce il dovere, per ogni cittadino, di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale e morale della società.
La collocazione degli articoli da 35 a 40 nel titolo III della Costituzione (rapporti economici) dimostra l’intento del legislatore costituente di regolare, sia pure per grandi linee, i principali aspetti del rapporto di lavoro avendo riguardo all’esigenza di superare la storica posizione di svantaggio contrattuale del prestatore d’opera rispetto al datore e, conseguentemente, di meglio specificare i concreti soggetti sociali rispetto ai quali opera la speciale posizione attribuita nell’ordinamento per il concorso nella disciplina dei rapporti di lavoro.
Nel regolare i contenuti del rapporto di lavoro (retribuzione, orario, riposi settimanali e ferie annuali), l’art. 36 rappresenta una essenziale specificazione del principio di tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, riguardante essenzialmente le garanzie inerenti al rapporto di lavoro subordinato.
Durante la discussione all’Assemblea Costituente la formulazione del 1° comma dell’art. 36 non mancò di suscitare il timore che l’individuazione di criteri, sia pure generali, per la determinazione della retribuzione ponesse i presupposti per una ingerenza dello Stato nella sfera riservata alla competenza della contrattazione collettiva (così si espresse Xxxxxxxx Di Xxxxxxxx nella seduta della III
Sottocommissione del 12 settembre 1946); prevalse tuttavia alla fine la preoccupazione, concordemente avvertita dai diversi schieramenti politici, di prevenire con una disposizione di rango costituzionale il perpetrarsi delle condizioni di sotto salario tipiche dell’assetto produttivo italiano.
Si trattava comunque di una novità nel sistema normativo che, in passato, si era limitato a considerare la retribuzione soltanto come corrispettivo della prestazione determinato di norma in via pattizia (artt. 2094 e 2099 c.c.), nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato.
La norma costituzionale inglobava questo profilo, ma andava oltre la dimensione del diritto definito per via contrattuale poiché la retribuzione non era intesa più solo come il compenso convenuto in relazione a un determinato dispendio di energie psicofisiche nell’ambito dell’organizzazione dell’impresa, ma veniva commisurata anche a un criterio esistenziale, riguardante le esigenze di vita del lavoratore e della sua famiglia , congiunto con il principio di proporzionalità (la giurisprudenza costituzionale è costante nel sottolineare la complementarietà dei due criteri).
Attraverso questo percorso si è attuata una sorta di generalizzazione dell’efficacia soggettiva degli attuali contratti collettivi che, se da un lato esprime il favore che l’ordinamento accorda in generale alla determinazione della retribuzione in via negoziale, dall’altro lascia aperti margini di incertezza derivanti dalla reversibilità degli orientamenti giurisprudenziali, poiché la decisione su base equitativa delle controversie individuali in materia retributiva può sempre essere adottata secondo parametri diversi da quelli desunti da fonti contrattuali.
Alla finalità di assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa sono ispirate anche le disposizioni del 2° e 3° comma dell’art. 36, sulla durata massima della giornata lavorativa, sui riposi settimanali e sulle ferie annuali: anche in questo caso si è di fronte alla costituzionalizzazione di richieste storiche del movimento sindacale, riguardanti la limitazione della pretesa padronale di decidere unilateralmente tempi e modi della prestazione lavorativa.
La disposizione costituzionale stabilisce una riserva di legge a carattere relativo sulla determinazione della durata massima della giornata lavorativa, nel senso che la contrattazione collettiva può integrare la prescrizione normativa, disponendo
limiti inferiori rispetto a quelli legali: una tale possibilità è stata esplicitamente prevista dalla legge 196/1997, con la quale la durata legale normale dell’orario di lavoro è stata fissata in quaranta ore settimanali (con conseguente abrogazione del rdl 692/1923, che la fissava in quarantotto ore settimanali).
Lo spazio accordato alla contrattazione collettiva, anche per la flessibilizzazione delle modalità di calcolo dell’orario, è stato sostanzialmente conservato anche nel d.lgs 66/2003 (di attuazione delle direttive comunitarie 93/104 e 2000/34), che ha dettato la disciplina generale dell’orario di lavoro nel settore pubblico e privato, nonché del lavoro notturno e straordinario: l’orario normale di quaranta ore è stato confermato, con la precisazione però del limite settimanale di quarantotto ore, comprensivo delle prestazioni straordinarie.
Anche le disposizioni costituzionali sul diritto irrinunciabile alle pause settimanali e alle ferie annuali rappresentano un ulteriore aspetto della tutela dell’integrità psicofisica dei lavoratori. Da notare che l’Assemblea Costituente respinse la proposta di sostituire le parole “riposo settimanale” con ”riposo festivo”, proprio in relazione alla volontà di non vincolare alla domenica il riposo stesso.
L’art. 37, 1° comma, nello stabilire il principio della parità di retribuzione tra i sessi a parità di lavoro, segna una netta cesura con la legislazione sociale precedente sia con quella del periodo liberale, ancorata a una concezione “protettiva” del lavoro delle donne e dei minori, estranea al concetto di eguaglianza di genere, sia con quella fascista, per la quale le protezioni accordate alle donne in relazione soprattutto alla politica demografica del regime costituirono la contropartita per il mantenimento di una condizione di sottoccupazione e di sotto retribuzione.
La disposizione costituzionale pone invece un limite all’autonomia privata e, al tempo stesso, costituisce una specificazione del principio di eguaglianza tra i sessi, affermato al 1° comma dell’art. 3 – e rafforzato dalle riforme costituzionali più recenti 2, con l'imposizione del criterio delle pari opportunità –, nonché del principio di uguaglianza sostanziale, poiché mira a eliminare una condizione di
2 (L. cost. n. 1/2003 e n. 3/2003)
subalternità della donna sul lavoro, che ne aggrava la posizione di marginalità sociale e politica.
Per il lavoro minorile, l’art. 37, 2° e 3° comma, stabilisce una riserva di legge per la determinazione dell’età minima per l’accesso al lavoro e la garanzia di parità retributiva.
Le disposizioni sull’assistenza travalicano ovviamente l’ambito lavoristico, riconoscendo un diritto alle prestazioni sociali a tutti coloro che, a vario titolo, si trovino nelle condizioni di inabilità al lavoro e di impossibilità di provvedere al proprio mantenimento: va tuttavia segnalata la disposizione del 3° comma, che include nel nucleo essenziale del diritto all’assistenza anche il diritto all’istruzione e Nella prospettiva costituzionale data la posizione di debolezza contrattuale del singolo prestatore di lavoro, l'attività di autotutela, per essere efficace, non può non realizzarsi che in forma collettiva, attraverso l’organizzazione sindacale che, nel contesto istituzionale della Repubblica, si trova a svolgere una funzione di interesse generale in relazione al perseguimento delle finalità sociali della Costituzione.
Con tali premesse, può destare sorpresa il fatto che l’art. 39 della Costituzione sia rimasto quasi del tutto inattuato; si tratta, tuttavia, di una incongruenza solo apparente, poiché ciò non ha pregiudicato, e anzi per taluni aspetti ha agevolato, il radicamento del sindacato nella realtà italiana.
D’altra parte la mancata attuazione legislativa dell’art. 39 non ha suscitato particolari proteste nel mondo sindacale e sembra avere ormai assunto i tratti di una situazione definitiva.
I motivi di questa situazione sono vari e complessi: basti qui richiamare le remore, da parte sindacale, sulle possibili limitazioni di carattere amministrativo all’autonomia organizzativa e contrattuale, che sarebbero potuto derivare dall’applicazione delle norme sulla registrazione e sulla rappresentanza negoziale, nelle quali si può ravvisare una certa contiguità con l’ordinamento corporativo.
Una forte discontinuità con il corporativismo è invece marcata dal 1° comma dell’art. 39, l’unico immediatamente precettivo che, nello stabilire la libertà dell’organizzazione sindacale, specificando e approfondendo la norma costituzionale sulla libertà di associazione (art. 18), provvede alla liquidazione del
precedente sistema, fondato sul monopolio sindacale attribuito a organizzazioni di categoria dotate di personalità giuridica di diritto pubblico e legittimate a stipulare contratti validi erga omnes, ovvero per tutti gli appartenenti alla categoria medesima.
La libertà sindacale riconosciuta dalla Costituzione e suffragata da numerose fonti internazionali (tra cui le Convenzioni Oil nn. 87 e 97, ratificate con la legge 367/1958 e la Carta sociale europea del 1961, ratificata con la legge 929/1965) ha molte implicazioni: essa sancisce in primo luogo un diritto di libertà della persona di aderire o di promuovere la formazione di un’organizzazione sindacale (libertà positiva) ovvero di non aderire ad alcun sindacato (libertà negativa); in secondo luogo, garantisce il pluralismo sindacale, e, infine, impedisce sia al datore di lavoro sia alla pubblica amministrazione di interferire con l’autonoma organizzazione dei lavoratori mediante vincoli o condizioni suscettibili di creare posizioni di privilegio o di svantaggio per l’una o per l’altra formazione (sono esplicitamente vietati, dall’art. 15 dello Statuto dei lavoratori, e, ancor prima, dalla Convenzione Oil n. 98, soltanto i c. d. “sindacati di comodo”, emanazione dei datori di lavoro).
La fonte legislativa interna più rilevante, quanto all’attuazione dell’art. 39, 1° comma, è lo Statuto dei lavoratori3: con esso, dopo un lungo periodo in cui la presenza del sindacato sui luoghi di lavoro era stata contrastata in vario modo, sono state dettate norme finalizzate a tutelare la libertà e la dignità del lavoratore, a rafforzare l’esercizio delle libertà sindacali sui luoghi di lavoro, anche mediante la repressione della condotta antisindacale del datore, e a sostenere le organizzazioni sindacali dei lavoratori.
Nelle parti inattuate, l’art. 39 disegnava un ordinamento sindacale nel quale era attribuito ai sindacati, registrati dopo l’accertamento del carattere democratico dell’organizzazione interna, la personalità giuridica e la possibilità di partecipare alla stipula di contratti efficaci erga omnes nell’ambito di una rappresentanza costruita su base proporzionale.
3 Legge 300/1970.
Il concreto svolgimento delle relazioni industriali ha prodotto, tuttavia, un assetto del tutto diverso dal progetto costituzionale, poiché i sindacati hanno continuato a operare come associazioni di fatto.
La mancata attuazione dell’art. 39 ha lasciato tuttavia irrisolto il problema dell’individuazione di criteri idonei a misurare l’effettività della rappresentanza sindacale.
La questione è stata affrontata nello Statuto dei lavoratori. In particolare, all’art. 19, lo Statuto dei lavoratori ha riconosciuto il diritto di costituire proprie rappresentanti sindacali aziendali (Rsa) alle organizzazioni aderenti alle confederazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale, oltre che alle organizzazioni firmatarie di contratti collettivi applicati all’interno dell’unità produttiva.
Lo sciopero costituisce storicamente la forma più incisiva di esercizio dell’autotutela di interessi collettivi attuato mediante l’organizzazione sindacale. Il riconoscimento di esso come diritto di libertà nell’art. 40 della Costituzione, oltre a conferire concretezza al principio di libertà sindacale, rappresenta un evento emblematico della volontà del nuovo ordinamento democratico di attribuire un ruolo di protagonista a soggetti e classi rimasti in passato ai margini della vita pubblica.
Considerato un delitto dal Codice penale sardo, lo sciopero cessò di essere qualificato come tale, purché posto in essere senza atti di violenza o di minaccia, con il Xxxxxx Xxxxxxxxxx (1890), e tornò ad essere penalmente sanzionato con la legge sindacale fascista del 1926, che lo vietò (insieme alla serrata) con norme che, tra l’altro, sopravvissero all’ordinamento corporativo, restando in vita dopo l’entrata in vigore della Costituzione, dando così luogo a una situazione paradossale, parzialmente sanata solo dall’intervento della Corte costituzionale.
L’art. 40 fu approvato dall’Assemblea Costituente, dopo una lunga e contrastata discussione, in una formulazione che riprendeva l’analoga disposizione costituzionale francese: con essa ci si limitava a stabilire che lo sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano, ma la mancata adozione di esse fino al 1990 ha fatto sì che il suo inquadramento giuridico restasse affidato sostanzialmente all’elaborazione giurisprudenziale.
La legge statale e le fonti ad essa equiparate, e cioè i decreti legge e i decreti legislativi, costituiscono il vero telaio della disciplina del rapporto di lavoro.
Basti ricordare la disciplina dell’impiego privato4, ancora in vigore in alcune sue parti, per non parlare del codice civile che contiene una disciplina organica del rapporto di lavoro, e dello Statuto dei lavoratori che, da un lato, ha introdotto il sindacato in azienda riconoscendo ad esso una serie di diritti e prerogative, e dall’altro, ha innovato sensibilmente la disciplina codicistica del rapporto di lavoro.
Per legge deve intendersi anche ogni altro atto avente forza di legge, e quindi:
- i decreti legislativi, di cui agli artt. 76 e 77, co. I, Cost., che hanno trovato ampia applicazione in materia di lavoro, soprattutto in virtù della legge delega 14 luglio 1959, n. 741, che autorizzò il Governo a recepire, appunto con decreto legislativo, in via transitoria, i contratti collettivi fino a quel momento stipulati per conferire ai medesimi efficacia generale;
- i decreti-legge, di cui all'art. 77, co. II e III, Cost, che hanno conosciuto una notevole diffusione negli ultimi tempi (si pensi, ad esempio ai decreti-legge sul costo della forza lavoro).
Numerosissime sono le c.d. leggi speciali volte a tutelare il lavoratore, non solo in quanto contraente debole, ma anche nella sua qualità di soggetto che impegna la propria persona nel rapporto di lavoro, ricavandone un reddito che costituisce, nella maggior parte dei casi, la sua unica fonte di sostentamento. Nella più recente legislazione si registra la tendenza a tutelare, oltre all'integrità fisica del lavoratore, anche l'integrità morale dello stesso.
Nell'ambito delle leggi ordinarie, una posizione preminente, quale fonte del diritto del lavoro, spetta al Codice Civile ed in particolare al suo libro V che reca l'intestazione 'Del lavoro'. Va, però, precisato, al riguardo, che non tutte le norme in esso contenute afferiscono alla materia del lavoro, così come, per converso, molte norme appartenenti al diritto del lavoro sono contenute in altri libri del codice.
4 R.d.L n. 1825 del 1924.
Nello studio dell’evoluzione del diritto del lavoro si è soliti assumere come punto di partenza il passaggio dalla scarna disciplina del codice civile del 1865 (che non prevedeva una disciplina del rapporto di lavoro, ma solo, agli artt. 1570 e ss., quella della locazione delle opere e dei servizi) alla regolamentazione del rapporto di lavoro in tutti i suoi aspetti.
Con l’entrata in vigore del codice civile del 1942 si ha una sistemazione organica della materia del lavoro, cui è dedicata una disciplina ben distinta da quella concernente i contratti in genere.
La disciplina del lavoro è ricompresa unitamente a quella dell’impresa e delle società, nel Libro V (in particolare, i primi quattro titoli: artt. 2060-2246).
Il nostro Codice civile non contiene una disciplina del contratto di lavoro. Esso però regola il rapporto di lavoro. In questo modo il nostro legislatore ha voluto dare maggiore importanza al rapporto che sorge tra lavoratore e datore di lavoro, piuttosto che al momento in cui esso sorge attraverso la conclusione del contratto. L’art.2094 del Codice civile stabilisce che “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.
Il datore di lavoro, tuttavia, non necessariamente è un’impresa, può essere anche un libero professionista (si pensi alla segretaria di uno studio medico) o anche un privato (come nel caso di assunzione di una collaboratrice domestica).
Al contratto di lavoro si applicano le regole stabilite dal codice civile in materia di contratti in generale, ad eccezione delle ipotesi nelle quali le norme che disciplinano il rapporto di lavoro dispongano diversamente.
Il Codice civile, all’art.1321, definisce il contratto come “l'accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale".
Il successivo articolo 1322, al 1° comma, prevede “che le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti posti dalla legge”.
In materia di lavoro, l’art 2077, definisce l’efficacia dei contratti collettivi e di quelli individuali , stabilendo che le clausole difformi dei contratti individuali
rispetto ai contratti collettivi, sono sostituite di diritto da quelle dei contratti collettivi, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro “. Questo, ovviamente, per evitare che il contratto individuale diventi lo strumento attraverso il quale il datore di lavoro vada a violare i diritti riconosciuti al lavoratore per legge.
Sempre applicabili al contratto di lavoro sono anche le norme che prevedono che il “contratto si considera concluso nel momento in cui in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell'accettazione dell'altra parte” (art.1326, 1° comma) e quella che prevede che “le clausole d'uso s'intendono inserite nel contratto se non risulti che non sono state volute dalle parti” (art.1340).
Il contratto di lavoro non può avere una causa contraria alle norme giuridiche o all'ordine pubblico, o al buon costume.
Inoltre l’oggetto del contratto di lavoro, cioè l’attività che il lavoratore deve svolgere, deve essere possibile, lecito e determinabile.
Per quanto concerne la forma del contratto di lavoro occorre precisare che il Codice civile non richiede la forma scritta. Questa però è pretesa, in genere, dai contratti collettivi.
La giurisprudenza di legittimità affronta da lungo tempo la vexata quaestio della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e rapporto di lavoro subordinato.
Secondo un consolidato insegnamento della Suprema Corte, l'elemento essenziale di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato consiste nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, da ricercare in base ad un accertamento esclusivamente compiuto sulle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. In particolare, mentre la subordinazione implica l'inserimento del lavoratore nella organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro mediante la messa a disposizione, a suo favore, delle proprie energie lavorative (operae) ed il contestuale assoggettamento al potere direttivo di costui, nel lavoro autonomo l'oggetto della prestazione è costituito dal risultato dell'attività (opus)5.
5 Cass. civ. 9.3.2009, n. 5645; Cass. civ. 28.3.2003, n. 4770;Cass. civ. 22.11.1999, n. 12926; Cass.
civ. 11.7.2018, n. 18253.
In adesione a numerosi arresti giurisprudenziali, ai fini della individuazione della natura giuridica del rapporto, il primario parametro distintivo della subordinazione deve essere necessariamente accertato od escluso mediante il ricorso ad elementi sussidiari che il giudice deve individuare in concreto, dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dall'effettivo svolgimento del rapporto, essendo il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto dell'art. 1362, comma 2, cod. civ.), ma anche ai fini dell'accertamento di una nuova e diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell'attuazione del rapporto e diretta a modificare singole sue clausole e talora la stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista, da autonoma a subordinata; con la conseguenza che, in caso di contrasto tra i dati formali iniziali di individuazione della natura del rapporto e quelli di fatto emergenti dal suo concreto svolgimento, a quest'ultimi deve darsi necessariamente rilievo prevalente nell'ambito di una richiesta di tutela formulata tra le parti del contratto6.
Elementi - come l'assenza del rischio economico, il luogo della prestazione, la forma della retribuzione e la stessa collaborazione - possono avere solo valore indicativo e non determinante, costituendo quegli elementi, ex se, solo fattori che, seppur rilevanti nella ricostruzione del rapporto, possono in astratto conciliarsi sia con l'una che con l'altra qualificazione del rapporto stesso.7
6 Cass. civ. 15.6.1999, n. 5960
7 Cass. civ. 10.5.2003, n. 7171; Cass. civ. 14.7.1993, n. 7796; Cass. civ. 14.7.1984, n. 4131.
Origine del contratto collettivo
Il fenomeno della contrattazione collettiva, inteso come accordo tra lavoratori e datori di lavoro ovvero tra le rispettive associazioni sindacali, inizia ad affermarsi tra la fine dell’ottocento e i primi del novecento, quale diretta conseguenza della rivoluzione industriale e dell’acuirsi del conflitto tra gli interessi – inevitabilmente contrapposti – di chi detiene i mezzi di produzione e di chi, invece, trae dal lavoro l’unico mezzo di sostentamento per soddisfare le proprie esigenze di vita.
Storicamente, ci troviamo in un momento politico e culturale complesso e pieno di evoluzioni sociali che si ripercuotono sulla disciplina del lavoro e della contrattazione collettiva, il cui sviluppo si pone in una stretta connessione con l’alfabetizzazione e con le riforme politiche di stampo liberale, che trasformarono l’economia di scambio in un’economia di industria.
Inizia, infatti, a concretizzarsi una prima forma di legislazione sociale attraverso l’emanazione di leggi a tutela del lavoro come quelle riguardanti, nel 1870 il divieto di lavoro minorile, quella a tutela delle donne e dei minori del 1886 n. 36578.
Ciononostante, la permanente debolezza economica e sociale dei lavoratori singolarmente considerati nei confronti del datore di lavoro implicava, in sede di contrattazione, una sostanziale dipendenza dei primi ai secondi e, quindi, una diseguaglianza tra le parti, con inesorabili e rilevanti riflessi sui livelli salariali e sulle condizioni di lavoro.
Ben presto, i lavoratori si resero conto che l’asimmetria contrattuale poteva essere superata, o comunque fronteggiata, esclusivamente attraverso una azione collettiva e quindi mediante la volontaria, e per ciò libera, coalizione in associazioni, allo scopo di esercitare una maggiore pressione sui datori di lavoro e aumentare così il proprio potere negoziale, in guisa da eliminare la concorrenza tra gli appartenenti al gruppo e soprattutto ottenere la tutela dei propri interessi essenziali, id est condizioni minime di salario e lavoro.9.
8 Pessi R.: Lezioni di diritto del lavoro 2010 quarta edizione X. Xxxxxxxxxxxx, editore Torino.
9 X.Xxxxxx: il contratto collettivo di impresa, Milano 1963; Castelvetri, dagli antichi concordati di tariffa alla contrattazione collettiva nazionale ed aziendale, in ADL 4-5 2010;
Ciò avveniva, perlopiù, attraverso lo strumento dello sciopero, considerato - all’interno del neo costituito Regno d’Italia - da alcuni come un sintomo patologico di proteste dirette a sovvertire l’ordine sociale, da altri come uno prezioso mezzo di riequilibrio dei rapporti di forza tra lavoratori e industriali.
In tale contesto, si registra a livello aziendale la crescente diffusione dei c.d. contratti o concordati di tariffa, nei quali si individua l’origine embrionale del contratto collettivo, e attraverso cui venivano ad essere convenute le retribuzioni minime che il datore di lavoro si obbligava ad erogare ai suoi dipendenti.
É cosi che la formazione, sempre più frequente, di coalizioni occasionali si trasforma in vere e proprie organizzazioni sindacali (commissioni interne o di fabbrica ) e il concordato di tariffa si evolve assumendo la forma di contratto collettivo di lavoro, in quanto estende il proprio oggetto regolamentando non solo il salario, ma anche altri aspetti del rapporto di lavoro, quali ad esempio: l’orario, le mansioni, i riposi, le sanzioni disciplinari eccetera.
Risale al 1906 il primo contratto collettivo aziendale, stipulato tra la Fiom (federazione italiana operai metallurgici) e la Itala (Fabbrica di automobile di Torino), nel quale si ha per la prima volta la presenza della commissione interna aziendali, e il cui contenuto può essere tuttora considerato l’origine del diritto del lavoro e del diritto sindacale10.
La crescente attenzione alle esigenze e alle condizioni di vita dei lavoratori trova conferma nella enciclica di Xxxx Xxxxx XXXX Rerum Novarum del 1906 e nella nascita nello stesso anno della Confederazione Generale del Lavoro (CgdL), dalla quale in seguito verrà costituita la CGIL, nonché nell’approvazione – rispettivamente nel 1912 e nel 1923 - del suffragio universale per i soli uomini e della legge sull’orario di lavoro. Solo nel 1924 viene promulgata una legge che regola, però, il rapporto di lavoro degli impiegati ma non degli operai.
Nell’Italia liberale il contratto collettivo aveva un’efficacia meramente obbligatoria11 ed un essenza aziendale, in quanto trovava applicazione soltanto ai
10 Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, diritto dei lavori, diritto sindacale rapporto di lavoro, 2013, Torino, Giappichelli editore)
11 X. Xxxxxxx, I concordati di tariffa nell’ordinamento giuridico del lavoro, in Riv. Dir.
Comm. I, 458; anche in Scritti Giuridici, vol. IV, Scritti di diritto del lavoro, Xxxxxxx, Milano, 1984, 4.
singoli lavoratori iscritti ai gruppi contraenti, coerentemente con quanto previsto dall’art 1123 e 1130 del Codice Civile del 1865, malgrado la magistratura industriale12,più volte, abbia provato ad estendere l’efficacia delle tariffe anche agli operai non sottoscrittori e quindi alle classi o categorie di tutta l’industria per ragioni di equità. La sua violazione in sede di stipula del contratto individuale comportava esclusivamente l’obbligo a risarcire l’eventuale danno senza che il lavoratore potesse invocare l’applicazione diretta al suo rapporto di lavoro della fonte collettiva.
L’ambito e gli effetti del contratto collettivo liberale subiscono una notevole trasformazione con l’avvento del regime fascista e con l’istituzione dell’ordinamento corporativo avvenuto con la legge del 3 aprile del 1926 n.563.
Si assiste, infatti, ad un passo indietro nell’ambito della tutela dei lavoratori, essendo – di fatto - soppressa la libertà sindacale e di sciopero, oltre che negata l’esistenza stessa del conflitto tra lavoratori e datori di lavori, ritenendo prevalente l’interesse pubblico alla produzione e alla economia.
Con il patto di Palazzo Xxxxxx del 1925 vennero abolite le commissioni interne, perché considerate di intralcio all’interesse superiore della nazione, in quanto manifestazione di una “diretta ed articolata presenza del sindacato in tutte le istanze dove si svolge la vita produttiva”13
Non era, perciò, ipotizzabile il conflitto sociale, posto che tutte le categorie di lavoratori riuniti in un sindacato nazionale avrebbero dovuto operare per un fine pubblico unitario.
La legge istitutiva dell’ordinamento corporativo se, da un lato, riconosceva in astratto la possibilità di costituire più sindacati, dall’altro, attribuiva al governo il potere di riconoscere la “personalità giuridica di diritto pubblico” ad un solo sindacato (sia per i datori che per i lavoratori) di sicura fede nazionale per ciascuna categoria di lavoratori, datori di lavoro, artisti o professionisti14.
12 Probiviri Milano, 18 dicembre 1901, nonché 27 febbraio 1901, in Monitore dei Tribunali, 1902, pagg. 257,1901,217
13 X. Xxxxxx: Esperienze corporative post corporative nei rapporti collettivi di lavoro in Italia, in Il mulino 1956; X. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, diritto dei lavori, diritto sindacale rapporto di lavoro.
14 X.Xxxxxx, Diritto Sindacale, 2006, Bari, Cacucci editore.
A seguito del riconoscimento, che avveniva per decreto, al sindacato unico di diritto pubblico era riconosciuto la rappresentanza legale ed istituzionale di tutti i lavoratori appartenenti alla categoria professionale per cui era costituito, a prescindere dal vincolo di affiliazione sindacale, con ciò intendendosi tutti i soggetti che operano nello stesso settore di produzione.
In astratto, le altre organizzazioni poteva continuare ad esistere come associazioni di mero fatto, ma non avevano più alcun potere di incidere sulla regolamentazione dei rapporti di lavoro all’interno delle imprese ed inoltre ai loro iscritti si sarebbe comunque applicato il contratto collettivo stipulato dai sindacati corporativi, motivo per cui vennero private di utilità e non furono mai costituiti.
Il contratto collettivo di tipo corporativo, a differenza di quello liberale, aveva efficacia erga omnes, nel senso che produceva effetti vincolanti per tutti gli appartenenti alla categoria, e perseguendo interessi pubblici viene inquadrato tra le fonti del diritto, per cui non era derogabile in peius ma solo in melius da parte del contratto individuale di lavoro,
In particolare, l’art 1 delle pre-leggi – nel disciplinare le fonti del diritto- indicava al n.3 proprio le norme corporative, con ciò intendendosi – ai sensi dell’art 5 delle stesse disposizioni sulla legge in generale - non solo i contratti collettivi di lavoro, ma anche le ordinanze corporative, gli accordi economici collettivi e le “sentenze collettive” 15 emesse dalla Magistratura del lavoro (Sezioni speciali istituite presso le Corti d’appello, composte da tre giudici togati e due cittadini esperti nei problemi della produzione e del lavoro), sentenze che facevano le veci del contratto collettivo laddove le rispettive organizzazioni di lavoratori e datori di lavoro non raggiungevano l’accordo contrattuale.
Ed inoltre, trovava espressa disciplina all’interno del libro V codice civile del 1942 agli art. da 2067 a 2078, in cui veniva data una specifica regolamentazione alle procedure di stipulazione e rinnovo, nonché ai rapporti tra contratto collettivo e individuale.
Il contratto collettivo corporativo, essendo una fonte del diritto e avendo efficacia erga omnes, produceva anche effetti reali, nel senso che prevaleva sulle clausole
15 X.Xxxxxxxx, Diritto Sindacale, Torino, 2010, 90
difformi del contratto individuale, realizzando, di fatto, un trattamento uniformante tra le parti.
A seguito della caduta del fascismo, con il r. d. l. del 43 n. 721, si ebbe l’abolizione dell’ordinamento corporativo e dopo una breve fase transitoria lo scioglimento dei sindacati fascisti, nonché il ritorno del contratto collettivo all’interno della sfera del diritto privato.
Nello stesso anno (settembre del 1943), con l’intervento del capo dei sindacalisti socialisti Xxxxx Xxxxxx, si giunse alla stipulazione del primo accordo sindacale nazionale - conosciuto come accordo Xxxxxx Xxxxxxx - che ricostituiva le commissioni interne di fabbrica, soppresse con il patto di Palazzo Xxxxxx.
Al fine di garantire ai lavoratori il mantenimento delle condizioni minime di lavoro raggiunte e di non privare improvvisamente gli stessi di ogni tutela, fu prevista l’ultrattività dei contratti collettivi corporativi in attesa di un successivo intervento legislativo.
In particolare, l’art 43 del D.l..lgt. n. 369/1944 mantenne in vigore – salve le successive modifiche16 - le norme dei contratti colletti corporativi e delle sentenze collettive, purché chiaramente conformi e compatibili con le norme sovraordinate e con i principi costituzionali, la cui verifica era rimessa al controllo diffuso di ciascun giudice17, non rientrando nel sindacato della Corte Costituzionale, in quanto atti privi di forza di legge.
Nel 1948, con la promulgazione della Costituzione italiana, nasce lo Stato sociale e viene sancito all’articolo 39 della Costituzione il principio di libertà sindacale, distinto da quello, più generale, di libertà di associazione di cui all’articolo 18 della Costituzione.
16 X. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Diritto dei lavori, diritto sindacale rapporto di lavoro, Xxxxxxxxxxxx 2013, secondo cui: “questo inciso fu variamente interpretato; alcuni sostenevano che le modifiche dovessero intervenire con atti di rango normativo mentre secondo l’interpretazione prevalente, anche della Cassazione, tali modifiche potevano essere introdotte anche dai contratti collettivi di diritto comune. Tale interpretazione – se per un verso poteva apparire non rigorosa perché riconosceva ad un contratto collettivo di diritto comune e cioè ad un atto di autonomia privata la forza di modificare un atto normativo come il contratto corporativo – soddisfaceva le esigenze del nuovo sistema e riconosceva spazio al ruolo dinamico della contrattazione collettiva di diritto comune che si andava costituendo e diffondendo”.
17 Xxxxx Xxxxxxxxxxxxxx 00/0; Xxxxx Xxxxxxxxxxxxxx 00/00; Xxxxx Xxxxxxxxxxxxxx 00/00; Xxxxx Xxxxxxxxxxxxxx 00/00.
L’affermazione del principio di libertà di organizzazione sindacale, limitato solo dalla necessaria presenza di un ordinamento interno a base democratica ai fini della registrazione, comportava l’esigenza per i padri costituenti di predisporre un modello avente efficacia generalizzata, in modo da evitare il conflitto tra i contratti collettivi di categoria che potenzialmente potevano essere stipulati dalle diverse organizzazioni sindacali.
Per tale motivo gli art 39 co 2 e ss della Costituzione prevedono un complesso procedimento la cui articolazione è rimessa alla legge ordinaria, in virtù del quale è riconosciuto solo ai sindacati registrati la personalità giuridica e la legittimazione a contrarre contratti collettivi con efficacia obbligatoria nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria, in proporzione ai propri iscritti.
In tal modo, i costituenti credevano di aver risolto il problema, cioè quello di rendere compatibile il principio di libertà sindacale e la connessa possibilità di costituire una pluralità di sindacati per la medesima categoria, da un lato, con l’efficacia erga omnes del contratto collettivo, dall’altro18.
La registrazione, però, rappresentava e rappresenta un onere e non un obbligo per i sindacati, da porre in essere soltanto laddove gli stessi volessero partecipare alla redazione di contratti collettivi con efficacia erga omnes.
Tale modello, tuttavia, non venne mai attuato a causa tanto per motivi tecnici, dato che era difficile delimitare volontariamente l’ambito di applicazione dei destinatari della disciplina collettiva, quanto per ragioni di natura politica che, tra l’altro, hanno comportato l’inerzia del legislatore nell’emanare la normativa che disciplinasse le modalità di registrazione.
Forti, infatti, furono le resistenze da parte delle stesse organizzazioni sindacali che, da una parte, si dichiararono contrarie ad un controllo ed interferenza esterna sul proprio ordinamento interno, dall’altro alcuni di essi – e in particolare la CISL- ritenevano che in tal modo si sarebbe avvantaggiata la CIGL, quale organizzazione che vantava un maggior numero di iscritti.
In attesa della attuazione di quanto previsto dalla Costituzione, spinti dalla necessità di assicurare minime condizioni economiche e normative, con la legge
18 X.Xxxxxx, Op. cit.
n.741 del 1959, c.d. legge Xxxxxxxxx, si delegava in via transitoria il Governo a recepire entro un anno integralmente il contenuto dei contratti collettivi stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi anteriormente alla sua entrata in vigore, in modo da consentire la loro applicazione anche al di fuori della sfera degli iscritti alle associazioni stipulanti.
Da un punto di vista formale, il governo non dichiarava l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi, ma dettava direttamente una disciplina sui minimi di trattamento economico e normativo ad essi conforme, in quanto vincolato ad adeguarsi al loro contenuto19.
La Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di tale legge, con la nota sentenza 106 del 1962, da un lato, ha positivamente valutato tale meccanismo di tipo meramente transitorio teso a fronteggiare una lacuna normativa, dall’altro però ha affermato l’illegittimità della successiva legge 1027 del 1960, con la quale si prorogava il termine di scadenza originariamente previsto, evidenziando che in tal modo si finiva per stabilizzare una disciplina eccezionale e temporanea, estendendo la sfera soggettiva del contratto collettivo in violazione ed elusione del meccanismo previsto dalla Costituzione.
La mancata attuazione della normativa costituzionale, tuttavia, non ha impedito ai sindacati di procedere comunque alla stipula di contratti collettivi post- corporativi, denominati dalla dottrina “ di diritto comune”, manifestazione del potere di autoregolamentazione dei soggetti di diritto privato e quindi espressione dell’autonomia privata riconosciuta e prevista dall’ordinamento Italiano nell’articolo 1322 c.c
19 X. Xxxxxx, Diritto sindacale, Bari, 2006
Natura giuridica e funzioni dell’accordo collettivo
Il contratto collettivo costituisce la principale manifestazione dell’attività sindacale, espressione della libertà di organizzazione e contrattazione implicitamente ricavabili dall’articolo 39 della Costituzione.
Si tratta di un atto negoziale prodotto all’esito di un processo di contrattazione e composizione dei conflitti esistenti tra i lavoratori e i datori di lavoro ad opera dei rispettivi sindacati, attraverso cui si giunge ad una regolamentazione minima del rapporto di lavoro, a tutela delle parti rappresentate.
Malgrado a seguito dell’abrogazione dell’ordinamento corporativo il contratto collettivo non rientri più tra le fonti del diritto, parte della dottrina lo accosta comunque ad esse per la stretta somiglianza che intercorre con la legge, dal momento che entrambi dettano norme generali e astratte dirette a regolare una serie infinita di casi concreti. Tale teoria, secondo alcuni orientamenti dottrinali, troverebbe ulteriore conferma nelle riforme processuali del 1998 e delle 2006, là dove è stata prevista l’impugnabilità per cassazione delle sentenze viziate dalla violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi nazionali20
La dottrina e la giurisprudenza assolutamente prevalenti, invece, ritengono che l’accordo sia, certamente, manifestazione dell’autonomia privata, e di conseguenza rientri nella nozione di contratto prevista dall’articolo 1321 c.c.21.
Pur essendo citato dall’art. 39 della Costituzione, il contratto collettivo non è mai stato direttamente ed espressamente definito o regolato dalla legge ordinaria, né con riferimento al suo contenuto, né con riguardo al procedimento di stipula e di rinnovazione.
Esso, quindi, non può essere ricondotto all’interno dell’alveo dei contratti tipici, rientrando a pieno titolo nell’ambito delle manifestazioni della autonomia contrattuale di cui all’art 1322 c.c., secondo cui “ le parti possono concludere
20 X. Xxxxxxx, riflessi sostanziali del ricorso per cassazione per violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi, in X. Xxxxxx, X. Xxxxxxx, processo del lavoro e rapport alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, Padova, Cedam 1999; X. Xxxxxxx, violazione e falsa applicazione dei contratti collettivi di lavoro, in X. Xxxxxxxxxxxx,
X. Xxxxxxxxxx, il nuovo giudizio di cassazione, Xxxxxxx, Milano, 2007.
00 X. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Xxxxxxxxx collettiva in enciclopedia dir. Vol. IV; X. Xxxxxx contratti collettivi di lavoro in enciclopedia giur. Roma, 1980 Vol VIII
contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”.
Il contratto collettivo, dunque, ha natura esclusivamente privatistica ed è unicamente soggetto e disciplinato dalle disposizioni generali previste dal codice civile in materia di contratti, non essendo applicabili gli art. 2067 e ss c.c. dettati per i contratti corporativi, ormai privi di efficacia.
Da un punto di vista nominalistico, può essere qualificato come contratto nominato, in considerazione dei ripetuti richiami che ad esso fa la legge, ovvero più semplicemente come contratto atipico per la mancanza di una disciplina legale22, ancorché considerato - in relazione alla sua funzione- come socialmente tipico23.
Ciononostante, è stato definito – da autorevole dottrina - come un contratto unico stipulato da un soggetto rappresentativo di una collettività e vincolante per entrambe le parti, con la funzione di predeterminare in modo uniforme il contenuto dei contratti individuali di lavoro24.
Più semplicemente può intendersi come il contratto stipulato tra gli opposti sindacati, o dal sindacato dei lavoratori con l’impresa, che disciplina in modo generale e astratto il rapporto di lavoro di una determinata categoria di prestatori di lavoro25.
La sua funzione è quella di ottenere condizioni di trattamento e di lavoro più favorevoli rispetto a quelle che possono essere ottenute dai singoli lavoratori facendo leva sulla “ forza dei numeri”; condizioni da applicare in modo uniforme in tutti i contratti individuali relativi alla categoria professionale di coloro che fanno parte del gruppo, predeterminando le clausole non solo dei contratti futuri, ma anche di quelli in corso di svolgimento al momento della sua stipulazione.
Sotto questo profilo il contratto collettivo si caratterizza come “contratto normativo”, categoria con la quale si indica un negozio preparatorio con cui le
22 X.Xxxxxxxx, Diritto Sindacale, X.Xxxxxxxxxxxx editore, Torino, 2010, 113
23 X.Xxxxxx, op. cit.
24 X. Xxxxx, lezioni di diritto del lavoro, cap IV, il contratto collettivo di diritto comune 2010, quarta edizione, X. Xxxxxxxxxxxx editore, Torino.
25 Xxxx-Xxxxxxxxx, Commentario breve al codice civile, sub art. 2067, Cedam, 2016
parti, in previsione di rapporti futuri, ne determinano preventivamente il contenuto26.
A differenza del contratto preliminare, non comporta alcun obbligo di stipula di ulteriori contratti, ma implica che ove siano conclusi, le parti siano obbligate a rispettare le condizioni e le regole xxxxxxx00.
Malgrado il contratto collettivo sia comunemente ritenuto un contratto normativo, autorevole dottrina si esprime in senso contrario, poiché ritiene che si differenzi dal contratto normativo di diritto privato.
In particolare, tali autori rilevano che il contratto collettivo non fa riferimento a singoli rapporti successivi, bensì ad una serie indeterminata ed indeterminabile di rapporti non solo futuri ma anche preesistenti; inoltre non produce effetti meramente obbligatori, in quanto si caratterizza – come vedremo – per un’immediata operatività, derivante dalla sostituzione automatica delle clausole difformi del contratto individuale con quelle del contratto collettivo.
Altra parte della dottrina, invece, ritiene più corretto inquadrare il contratto collettivo nella categoria del “contratto tipo”, con ciò intendendosi una sottospecie dei contratti normativi28 non aventi efficacia vincolante, con cui i contraenti non si limitano ad indicare solo alcuni punti dei futuri contratti ma predeterminano l’intero schema contrattuale29, considerato che esso non predetermina gli elementi cui si dovranno adeguare i futuri contratti in forma generica, ma “ li detta nella veste stessa che dovranno assumere nel rapporto cui si riferisce, predisponendo una serie di clausole ordinatamente raccolte in uno schema”30.
A prescindere dal suo inquadramento entro il perimetro del contratto normativo o del contratto tipo, il contratto collettivo rappresenta un patto diretto a dettare le norme che dovranno regolare i rapporti di lavoro dei dipendenti di una data categoria professionale31. .
26 X.X Xxxxxx, Il contratto in generale, Milano, Xxxxxxx editore, 2015,
27 X.Xxxxxxxx, Il sistema del diritto civile, III, Il contratto, Dike Giuridica Editore, 2018
28 Scognamiglio
29 X.X Xxxxxx, Op. Cit.
30 X.Xxxxxx, La responsabilità contrattuale delle associazioni sindacali, Xxxxxxx, Milano; X.Xxxxxx, Op. Cit., 134.
31 X. Xxxx : contratto collettivo come fonte e contrattazione collettiva come sistema di produzione di regole
In tal senso, particolarmente significativa, oltre che ancora attuale in considerazione della sua funzione normativa e della connessione teleologica che sussiste tra la legge e i contratti collettivi (entrambi destinati a disciplinare ed influire sui rapporti concreti), è la definizione fornita da Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxx, nei primi del secolo scorso, secondo cui il contratto collettivo “ha il corpo del contratto e dell’anima della legge”32.
Alla funzione normativa si aggiunge anche una funzione obbligatoria, da alcuni ritenuta strumentale alla prima33, in virtù della quale alcune clausole del contratto collettivo non sono dirette a disciplinare i rapporti di lavoro individuali, bensì a disciplinare i rapporti tra le associazioni sindacali partecipanti alla stipulazione dei contratti medesimi, senza creare obblighi e diritti per i singoli lavoratori. Si pensi, ad esempio, clausole istitutive di organismi paritetici come Enti bilaterali o Fondi di assistenza sanitaria, alla previsione di obblighi di comunicazione sindacale, all’istituzione di procedure conciliative e di arbitrato, alle clausole sindacali di tregua mediante le quali le organizzazioni sindacali stipulanti si impegnano a non proclamare o appoggiare scioperi durante la vigenza del contratto collettivo.
Una delle peculiarità del contratto collettivo è rinvenibile nella circostanza che almeno una delle due parti è necessariamente complessa, dato che per i lavoratori la parte stipulante deve essere una coalizione plurisoggettiva, riunita e rappresentata da un’associazione sindacale, tanto a livello di contrattazione nazionale quanto a livello aziendale, mentre per il datore di lavoro il contratto può essere stipulato anche dal singolo imprenditore a livello aziendale.
La funzione normativa da essi perseguita influisce anche sulla forma del contratto collettivo, richiedendo e presupponendo implicitamente la forma scritta, ancorché, in adesione al principio di libertà di cui all’art 1350 c.c., è da ritenersi valida e lecita qualsiasi modalità, stante l’assenza di ogni previsione al riguardo.
In tal senso, la giurisprudenza di legittimità34 ha ammesso l’efficacia di contratti collettivi stipulati in forma orale, fermo restando gli enormi problemi in sede
32 Carnelutti F: teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro ,Padova Cedam 1936 pagina 117
34 Xxxx, Xxx Un, 95/3318; Cass 94/2088
probatoria, superabili soltanto attraverso un comportamento concludente ovvero mediante usi aziendali.
Efficacia del contratto collettivo
La natura privatistica del contratto collettivo influisce altresì sulla sua efficacia, ponendo due distinte problematiche, una relativa al piano soggettivo concernente l’individuazione dei soggetti vincolati, l’altra attinente al profilo oggettivo riguardante il rapporto tra il contratto collettivo e contratto individuale.
A seguito della mancata attuazione dell’art 39 della Costituzione, il contratto collettivo non ha efficacia erga omnes, ma trova applicazione esclusivamente nei confronti dei soggetti iscritti alle associazioni sindacali stipulanti35, in base ad un mandato a tal fine implicitamente ad essi conferito per effetto del vincolo associativo, dal momento che il nostro ordinamento non conferisce ai sindacati nè potere rappresentativo né una legittimazione a disporre dei diritti dei lavoratori36. Ne consegue che l’iscrizione del lavoratore al sindacato è condizione necessaria ma di per sé non sufficiente all’applicazione del contratto collettivo, essendo a tal fine necessario che anche il datore di lavoro sia iscritto ad un sindacato sottoscrittore, in modo che sia per lui vincolante37.
La giurisprudenza di legittimità, tuttavia, ha cercato di estendere la sfera soggettiva del contratto collettivo, riconoscendone l’applicazione anche verso datori di lavoro non obbligati, quando la sua operatività sia espressamente richiamata nel contratto individuale ovvero quando abbiano spontaneamente applicato le clausole ai singoli rapporti di lavoro, identificando in questo un’adesione tacita o implicita al contratto collettivo per comportamento concludente38.
L’applicazione generalizzata del contratto collettivo, talvolta, è favorita dallo stesso legislatore subordinando la concessione di benefici al suo rispetto,
35 X.Xxxxxx, Op.Cit., 139
36 Cass. 85/2445
37 X.Xxxxxxxx, Op. Cit., 102
38 Cass. 96/1672; Cass. 98/7795
sanzionando l’inosservanza con la decadenza dalle agevolazioni39, in un’ottica di corrispettivo,
L’unica ipotesi di efficacia soggettiva generalizzata del contratto collettivo si ha con riguardo alla retribuzione, in quanto la giurisprudenza di legittimità pacificamente ritiene che il quantum retributivo indicato nei contratti collettivi configuri il giusto salario applicabile a prescindere dal rapporto di affiliazione sindacale del datore di lavoro, in attuazione di quanto previsto dall’art 36 della Costituzione, ritenuta norma immediatamente precettiva e non programmatica, secondo cui la retribuzione deve essere proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente a garantire una esistenza libera e dignitosa.
Con riguardo al secondo profilo, come già detto, durante il periodo fascista sotto la vigenza dell’ordinamento corporativo, il rapporto tra l’autonomia collettiva e quella individuale era basato sul principio “ dell’inderogabilità in peius”. Ciò significava che il contratto individuale di lavoro non poteva prevedere, per il lavoratore, trattamenti economici e normativi peggiori di quelli previsti nel contratto collettivo e le eventuali clausole peggiorative erano sostituite automaticamente con quelle più favorevoli per il lavoratore previste dal contratto collettivo, così come sancito dall’articolo 2077 c.c., a differenza del periodo pre- corporativo ove invece la violazione delle previsioni collettive generava una obbligazione risarcitoria.
Con la nascita della Repubblica, venuto meno l’ordinamento corporativo e conseguentemente cessata la natura di fonte del diritto del contratto collettivo, si pose da subito il problema della inderogabilità del contratto collettivo di diritto comune, con la conseguente necessità per gli interpreti di individuare un fondamento normativo che giustificasse non solo la prevalenza di un atto di autonomia privata, cioè del contratto collettivo di diritto comune, rispetto ad un altro atto, anch’esso di autonomia privata, come il contratto individuale di lavoro, ma anche che obbligasse le parti del rapporto di lavoro individuale ad essere
39 In tal senso l’art. 36 dello statuto dei lavoratori che obbliga le imprese che siano appaltatori di opere pubbliche o destinatari di agevolazione finanziarie e creditizie concesse dallo stato di applicare o di far applicare nei confronti dei lavoratori dipendenti condizioni non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi di lavoro della categoria e della zona.
vincolate, nella determinazione del contenuto del loro negozio, oltre che dalla legge, anche da quanto stabilito da altri soggetti privati come le associazioni sindacali.
Sul punto, si rilevano due distinte correnti dottrinali, una tendente a risolvere la criticità mediante il ricorso ai principi generali del diritto civile, l’altro tendente a individuare una soluzione in base ad elementi diversi da quelli prettamente civilistici.
All’interno del primo orientamento, c.d. teoria della rappresentanza, autorevole dottrina40 ha affermato che il contratto collettivo è espressione dell’autonomia privata collettiva, in quanto i contraenti (gruppi intermedi tra l’individuo e la società generale) tutelano non l’interesse generale di tutta la società, ma quello di una comunità di persone aventi un bisogno comune.
Per questo, tale autore ha giustificato la prevalenza del contratto collettivo su quello individuale, ricorrendo alla figura del mandato collettivo e del mandato nell’interesse di altri soggetto di cui agli art. 1723 co 2 e 1726, il quale è derogabile solo ad opera della stessa ed intera collettività che lo ha conferito.
In tali casi, infatti, la pluralità dell’interesse che soggiace all’incarico rappresentativo deroga alla personalità del mandato, evitando che il rapporto risenta della volontà o delle vicende personali del singolo mandante.
Ne consegue l’impossibilità per il singolo mandante (ciascun datore e lavoratore) di revocare il mandato conferito all’organizzazione sindacale prima della sua esecuzione e di derogare, poi, all’osservanza del contratto collettivo stipulato in esecuzione del mandato stesso41.
Come autorevolmente sostenuto si tratta, tuttavia, di una ricostruzione basata su una finzione, in quanto si finge che il mandato conferito dai singoli datori di lavoro all’associazione di categoria sia configurabile come collettivo42
Altra parte della dottrina4344, invece, fondano la prevalenza del contratto collettivo nell’atto di adesione al sindacato comportante la soggezione del singolo alla scelte
40 X.Xxxxxxx Passerelli, Autonomia Collettiva, giurisdizione e diritto di sciopero, in Studi in onore di X. Xxxxxxxxxx,vol. IV, Cedam, Padova, 437
41 Xxxx-Xxxxxxxxx, Commentario breve al codice civile, sub art. 2077, Cedam, 2016
42 X.Xxxxxxxx, Op. Cit., 108.
43 X.Xxxxxxx, il “favor” verso il prestatore di lavoro subordinato, Xxxxxxx, Milano, 1966;
del sindacato, in considerazione del rapporto di rappresentazione che soggiace tra gli stessi.
All’interno del secondo orientamento, rilevata l’inadeguatezza del ricorso ai principi civilistici, si è rinvenuto fondamento eteronomo della prevalenza dell’inderogabilità del contratto collettivo identificandolo nell’art. 39 della costituzione45, il quale attribuirebbe rilevanza ai contratti collettivi all’interno dell’ordinamento giuridico, in quanto principale manifestazione dell’attività sindacale di cui legittima l’operato.
In particolare, analogamente agli schemi del diritto internazionale, le norme dell’ordinamento intersindacale acquistano efficacia immediata nell’ordinamento statuale, attraverso il rinvio operato da un’entità sovrana statuale alle procedure dell’ordinamento richiamato.
Successivamente, tali orientamenti non sono stati condiviso dalla giurisprudenza, la quale ha continuato ad applicare l’articolo 2077 c.c., riconoscendo efficacia reale alle disposizioni del contratto collettivo e facendole prevalere su quelle del contratto individuale46. In contrario, tuttavia, si è rilevato che tale articolo opererebbe esclusivamente per i contratti corporativi, stante la loro diversa natura47.
Un fondamento normativo alla inderogabilità in peius del contratto collettivo ad opera del contratto individuale è stato rinvenuto nell’art 2113 c.c., così come modificato dalla legge 533/73, con cui si prevede la nullità delle rinunce o transazioni che abbiano ad oggetto disposizioni inderogabili di legge e dei contratti o accordi collettivi.
In tal modo, il legislatore ha parificato le norme imperative di legge con quelle dei contratti collettivi e per l’effetto ha chiarito che le disposizioni di questi ultimi trovano applicazione ai singoli rapporti di lavoro a prescindere dalla volontà dei
44 X.Xxxxxxxxxx, Adesione al sindacato e prevalenza del contratto collettivo sulcontratto individuale di lavoro, in Riv. Trim. Dir. Proc., 1966
45 Bortone, Il Contratto collettivo tra funzione normativa e funzione obbligatoria
46 Per tutte, Cass. 21 febbraio 2007 n. 4011
47 X.Xxxxxx, Op.Cit, 137.
contraenti, ponendo così fine indirettamente alla problematica attraverso una soluzione a cui si è subito adeguata anche la giurisprudenza48.
In conseguenza di tale evoluzione, un autorevole autore ha ritenuto che tale modifica costituisca una vera e propria conferma dell’applicabilità diretta del 2077 c.c. ai contratti collettivi di diritto comune49., posto che la sua applicabilità non andrebbe circoscritta alla questione della inderogabilità50.
L’inderogabilità del contratto collettivo può essere definita unidirezionale, in quanto è perfettamente compatibile con la previsione nel contratto individuale di trattamenti più favorevoli per il lavoratore.
Non sussistono, infatti, elementi ostativi alle modifiche in melius, tenuto conto della finalità del contratto collettivo che, come detto, è quella di garantire condizioni salariali e normative minime alla parte debole del negozio al fine di riequilibrare il sinallagma.
Particolarmente complessa è l’individuazione del trattamento più favorevole derivante dalle due fonti, laddove presentino vantaggi e svantaggi in senso non convergente, ad esempio ove il contratto individuale preveda retribuzione maggiore e ferie più brevi. A tal fine prevalgono i fautori della teoria del conglobamento51, per la quale è da considerare più favorevole la regolamentazione che è tale nel suo complesso, a differenza di quanto sostenuto dalla tesi del cumulo, secondo cui il lavoratore può cumulare le disposizioni più favorevoli dell’una e dell’altra disciplina contrattuale, ovvero della soluzione intermedia – per lo più affermata in ambito giurisprudenziale – per cui occorre effettuare tale analisi guardando al singolo istituto e non confrontando i trattamenti complessivi o le clausole.
48 Cass. del 21.11.1977, n.5084
00 Xxxxxxxxxxx, Xxx.xx.xxx.xxx, 89, I, 357.
50 Nogler, Saggio sull’efficacia regolativa del contratto collettivo, 161
51 Cass. 95/5244; Cass. 99/9545
Rapporti e conflitto tra contratti collettivi di diverso livello
La contrattazione collettiva si articola normalmente su più livelli, rispetto ai quali i più diffusi sono senz’altro quello interconfederale, quello nazionale e quello decentrato, altresì detto aziendale.
L’accordo interconfederale rappresenta il piano più alto della negoziazione sindacale, privo di cadenza temporale, contratti dalle confederazioni allorquando si ritenga di dare una disciplina uniforme di taluni aspetti del rapporto di lavoro a tutte o ad una pluralità di categorie, come ad esempio in tema di licenziamenti individuali e collettivi. La loro stipulazione è direttamente proporzionale allo sviluppo e al rafforzamento dell’attività, non a casa furono molto diffusi fino alla fine degli anni 50 per poi lasciare il passo alla contrattazione di categoria, più vicina e quindi più sensibile ai rapporti da regolare.
Non a caso con l’accordo di riforma del 1993 sono stati individuati e confermati due differenti livelli di contrattazione collettiva, uno nazionale di categoria e l’altro alternativamente aziendale o territoriale.
Il contratto collettivo nazione di categoria costituisce il fulcro dell’intero sistema sindacale ed è stipulato periodicamente al fine di “garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore, ovunque impiegati nel territorio nazionale”52.
Esso, come detto, svolge una duplice funzione normativa ed obbligatoria5354, poiché non solo detta il trattamento minimo a cui devono adeguarsi i contratti individuali, ma regolamenta anche i rapporti, ivi compresi i rispettivi diritti ed obblighi, tra le stesse organizzazioni sindacali, non esplicando alcuna efficacia nei confronti dei singoli.
Il contratto collettivo aziendale non è la la somma di contratti individuali conclusi tra il datore di lavoro e ed i singoli lavoratori, ma è la forma più decentrata di contrattazione, in quanto stipulata - tra le singole rappresentanze aziendali ( r.s.a.
52 Clausola 2 dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011
53 X. Xxxxxx: la responsabilità contrattuale delle associazioni sindacali Xxxxxxx Milano 1963
54 X. Xxxx: il diritto sindacale; in Diritto del Lavoro Vol I – UTET
e r.s.u.) dei lavoratori e gli imprenditori – all’interno di una singola impresa ovvero a livello territoriale, normalmente provinciale o regionale, allo scopo di integrare o specificare il contratto nazionale, incidendo su materie specifiche non disciplinabili a livello nazionale.
Tale tipo di contrattazione collettiva cominciò a diffondersi agli inizi degli anni 60 in seguito all’accordo Intersind Asap tra le federazioni di categoria dei sindacati metalmeccanici e le associazioni delle imprese a partecipazione statale, che prevedeva tre livelli (nazionale di categoria, di settore e aziendale) e una serie di rinvii di competenza al contratto di livello inferiore.
A seguito del periodo di forte conflittualità sociale della fine degli anni 60 (definito “ autunno caldo sindacale”), in cui la protesta dei lavoratori fu rivolta non solo nei confronti della controparte imprenditoriale ma anche contro il burocratismo delle organizzazioni sindacali, si ebbe il tramonto della contrattazione articolata, che presupponeva il coordinamento tra i due livelli di contrattazione, quello aziendale e quello nazionale.
Ciò, tuttavia, non comportò l’eliminazione del secondo livello di contrattazione, con il conseguente passaggio ad una contrattazione decentrata, non vincolata, in cui i due diversi livelli non sono più coordinati tra loro.
E’ in questo periodo storico, intorno agli anni 70, che il legislatore attribuisce maggiore rilevanza alla rappresentanza aziendale, con la previsione dei consigli di fabbrica e delle rappresentanze sindacali aziendali, ma è soltanto con l’approvazione dello Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970 numero 300), e quindi con l’applicazione dell’art. 19, che il contratto aziendale assume una rilevanza normativa propria, distinta da quella del contratto di categoria.
La struttura della contrattazione collettiva, articolata su due livelli, implica che un medesimo rapporto di lavoro possa essere regolato da due o più contratti collettivi e di conseguenza si pone il problema della concorrenza di discipline contrattuali diverse, ma ugualmente applicabili al medesimo rapporto.
Si verifica il conflitto quando gli accordi prevedono discipline diverse ed in contrasto fra loro, come nel caso in cui viene stipulato un contratto aziendale in deroga al precedente contratto nazionale o, viceversa, quando un contratto nazionale deroga ad uno aziendale.
Non si può parlare invece di conflitto quando entrambi i contratti che regolano il rapporto di lavoro sono applicabili; per esempio quando un contratto aziendale interviene a regolamentare aspetti delimitati dal contratto nazionale, o a regolamentare questioni da quest’ultimo indicate.
Il contratto collettivo aziendale, essendo esso stesso un “atto generale”, può avere anche efficacia modificativa di precedenti accordi collettivi dello stesso livello o livello diverso sia in modo migliorativo che peggiorativo.
Nessun problema sorge nel caso di deroghe migliorative, posto che la funzione del contratto collettivo aziendale è quella di tutela del lavoro, con previsioni di trattamento economico e normative più favorevoli di quelle previste nel contratto collettivo nazionale di categoria.
Non è così nei casi di deroghe peggiorative, che potrebbero riguardare le imprese di piccole dimensioni che non riescono a sopportare i costi dell’applicazione del contratto collettivo nazionale di categoria .
A tal proposito sia la dottrina che la giurisprudenza offrono soluzioni e tesi diverse particolarmente complesse che più avanti saranno esaminate ed esposte.
Come già detto la deroga ai contratti collettivi nazionali, anche in peius , da parte dei contratti collettivi aziendali è possibile, posto che, in questi casi, non è applicabile l’articolo 2077 c.c. che riguarda, solo, i rapporti tra contratti collettivi e contratti di lavoro individuale.
Sul rapporto tra contratti collettivi di diverso livello influisce anche l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi aziendali, dal momento che – in assenza di una disciplina al riguardo - si poneva il problema della applicabilità delle clausole contrattate a livello aziendale, nei confronti della totalità dei lavoratori della struttura produttiva.
Dottrina e giurisprudenza cercano di colmare la lacuna normativa elaborando teorie che, non sempre, trovano un filone unitario. Parte della giurisprudenza ritiene che, in virtù della mancata applicazione dell’articolo 39 Costituzione e, quindi, della natura privatistica attribuita al sistema della contrattazione collettiva, il sindacato venga legittimato, alla stipulazione dei contratti collettivi aziendali, dal mandato che, indirettamente, riceverebbe dai lavoratori con la loro iscrizione al sindacato stesso. Ciò, però, comporterebbe che il contratto aziendale spieghi la
sua efficacia solo nei confronti dei lavoratori iscritti alle organizzazioni firmatarie, non producendo quindi efficacia erga omnes55.
Un altro orientamento, condiviso anche da parte della dottrina, ritiene che agli accordi aziendali debba necessariamente attribuirsi efficacia erga omnes, tenuto conto della natura “indivisibile” della materia disciplinata, nonchè della natura “collettiva” degli interessi dei lavoratori su cui incide il contratto. Perciò, nei casi in cui il soggetto stipulante sintetizzi gli interessi individuali dei lavoratori in una dimensione collettiva, si realizza un vero e proprio contratto collettivo56.
Una più recente ricostruzione giurisprudenziale, invece, ha cercato di contemperare le due precedenti argomentazioni, sostenendo che il contratto collettivo aziendale avrebbe, in linea di principio, un’efficacia generale, capace di esplicare i suoi effetti nei confronti dell’eventuale dissenso individuale, ma non nei confronti delle dissenso sindacale57, il che significa che il contratto collettivo aziendale non potrebbe essere imposto a quei lavoratori, che aderendo ad una organizzazione diversa da quella stipulante, ne abbiano condiviso l’esplicito dissenso.
La coesistenza e successione di più contratti collettivi pone anche il problema dei diritti quesiti, cioè di quei diritti che sono stati già acquisiti nel patrimonio di un soggetto.
In realtà la questione dei diritti quesiti dovrebbe riguardare solo i casi di successione di norme di legge e non quello di successione dei contratti collettivi di stampo privatistico. Quest’ultima, infatti, è regolata dal principio di autonomia delle parti e quindi dal rispetto della libertà della volontà negoziale.
Ciononostante, non è ammissibile che un contratto collettivo successivo possa incidere sui diritti già precedentemente acquisiti dalle parti del rapporto di lavoro, quando tali diritti siano sorti in virtù di un precedente contratto collettivo, costituito e stipulato in base alla disciplina di legge all’epoca vigente58, in relazione ad un rapporto o ad una fase già esaurita.
55 Cass. 24 aprile 1993 n. 4802
56 Cass. 27 maggio 1996 n. 4870
57 Cass. Luglio 2014 n. 16089; Cass. 28 Maggio 2014 n. 10353.
58 Cass. 20/ 3/ 1996 n. 2361.
Capitolo II
Dalla contrattazione collettiva articolata al protocollo Xxxxxx del 1983
In Italia, nell’immediato dopoguerra, le organizzazioni sindacali, grazie al riconoscimento costituzionale, iniziarono a giocare un ruolo di rilievo nella contrattazione collettiva. La situazione economica sfavorevole, legata alla fine della guerra, rendeva prioritaria la tutela di interessi essenziali e comuni a tutti i lavoratori, come la tutela del reddito e della occupazione. Questo favorì lo sviluppo di un sistema di contrattazione centralizzato (che riusciva a tutelare interessi minimi e per tutti), e lasciava solo dei margini limitati a contratti aziendali volti a ricercare benefici destinati a un numero ridotto di lavoratori.
Tale forma di contrattazione decentrata era spesso portata avanti da Commissioni interne che non avevano una rappresentanza di tipo sindacale, era avversata da una gran parte degli imprenditori e non era comunque ancora stata riconosciuta formalmente.
Il primo riconoscimento formale di contrattazione collettiva aziendale avvenne agli inizi degli anni 60 con l’accordo stipulato tra le federazioni sindacali di categoria dei metalmeccanici e le associazioni delle imprese a partecipazione statale, nello specifico Intersind e ASAP (5 luglio 1962). Tale accordo delineò i principi che portarono all’istituzione di un sistema contrattuale fondato su più livelli, la c.d. contrattazione articolata, caratterizzato da tre livelli: nazionale di categoria, di settore ed aziendale, tra cui vigeva comunque un criterio di subordinazione gerarchica, dato che l’ambito di applicazione del contratto aziendale era limitato e soggetto a specifiche clausole di rinvio.
Fino a quel momento il contratto aziendale era stato considerato come contratto plurisoggettivo, ovvero di tipo individuale, e da questa impostazione derivava la impossibilità di derogare in peius al contratto nazionale, in quanto l’interesse collettivo era prevalente su quello individuale. 59
59 X. Xxx Xxxxx - Il contratto collettivo aziendale in M.D’Antona (a cura di) Lezioni di diritto sindacale, Napoli 1990.
La subordinazione gerarchica del contratto aziendale rispetto al contratto collettivo derivava anche dal fatto che fino agli anni ’60 questo tipo di contrattazione era praticata da soggetti non aventi natura sindacale.
Alla fine degli anni ’60 si cominciano ad individuare delle rappresentanze sindacali all’interno delle aziende, non ancora formalmente riconosciute (delegati di fabbrica – consiglio di fabbrica) che costituiscono l’embrione da cui si svilupperà l’idea delle rappresentanze sindacali aziendali RSA, introdotta nello Statuto dei Lavoratori del 1970. 60
Con l’introduzione delle rappresentanze sindacali, dapprima spontanee, ed in seguito formalmente riconosciute dallo Statuto dei Lavoratori, cambia la prospettiva sia del diritto che della giurisprudenza, affermandosi sempre più il riconoscimento del valore collettivo anche del contratto aziendale61.
Con l’intervento delle rappresentanze sindacali aziendali, si assiste, alla fine degli anni ’60, ad una intensa attività contrattuale aziendale che amplia il suo range di competenza intervenendo anche su materie che non erano espressamente delegate dalle clausole di rinvio.
Il nuovo modello di contrattazione detta “non vincolata” prevede quindi due livelli: nazionale ed aziendale, non più coordinati gerarchicamente con preminenza del primo sul secondo ma più liberi, e i contratti aziendali, non assolvono solo ad un ruolo di integrazione della disciplina di categoria, ma rivestono una funzione di traino nei confronti dei contratti collettivi nazionali, all’interno dei quali spesso vengono integrati elementi presenti nei contratti di alcune grandi aziende.
L’avvento della crisi petrolifera e la contemporanea recessione economica, e i primi esempi di contratto collettivo aziendale che presentava modificazioni in peius alla disciplina di categoria, la cui legittimità veniva riconosciuta anche dalla Corte di Cassazione 62 63 resero necessaria una nuova ricentralizzazione del sistema di contrattazione.
60 Xxxxxxx Xxxxxxxxxx F.– Nozioni di diritto del lavoro; X. Xxxxxx - Contrattazione aziendale e democrazia industriale, Il Mulino 1956.
61 Bortone X. Xxxxxx P. – Il contratto collettivo – UTET 1984.
62 Cass Sent. N. 4912/1979
Il momento di svolta è dato dall’Accordo Interconfederale del 1975 con cui veniva introdotta la cosiddetta “scala mobile”, ovvero la automatica indicizzazione dei salari in funzione degli aumenti dei prezzi.
Con il Protocollo del 23 gennaio 1983 il Governo entra per la prima volta in modo formale nella contrattazione collettiva che da sistema bilaterale si trasforma in un sistema di contrattazione triangolare e la centralizzazione della contrattazione raggiunge un nuovo apice.
Il Protocollo dell’8364, stipulato tra le maggiori confederazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro insieme al Governo, aveva come obiettivo quello di contrastare l’inflazione, e garantire il potere di acquisto delle retribuzioni. A tal fine il Governo e le parti sociali dovettero decidere di limitare lo strumento della contrattazione collettiva aziendale, poiché, quest’ultima non sarebbe stata idonea a realizzare gli obiettivi di politica economica necessari, che si sarebbero potuti ottenere solo con una struttura di contrattazione centralizzata65.
Da un punto di vista strutturale la più importante novità del protocollo era determinata dalla partecipazione formale del Governo al negoziato politico; da un punto di vista politico, maggiore importanza si rilevava nel fatto che tutte le parti che avessero sottoscritto l’accordo perseguirono il medesimo fine, cioè l’arginamento del fenomeno inflattivo e l’aumento dell’occupazione66.
L’accordo può, quindi, essere definito “strumento programmatico della volontà pubblica” oltre che di quella sindacale.
Fu in quel periodo, che si introdussero le c.d. clausole di raccordo tra i due livelli di contrattazione.
Tale accordo, detto anche Protocollo Xxxxxx, prende il nome dall’allora ministro del lavoro e delle politiche sociali Xxxxxxxx Xxxxxx, si compone di ben 14 punti programmatici; ma, i punti che riguardano il nostro ambito di studio, sono nello specifico i punti 8, 11 e 13 dell’accordo.
63 Sciarra S. - Contratto collettivo e contrattazione in azienda. X. Xxxxxx Editore. 1985.
64 X. Xxxxxx, L’accordo sul costo del lavoro: problemi e prospettive, in Dir lav.,1983;
65 X. Xxxxxxx, Il protocollo Xxxxxx e il c.d. blocco della contrattazione aziendale, in Xxx. Xx.xxx.,0000,XX.
66 X. Xxxxxxx, La concertazione nell’esperienza italiana. in: Europa e concertazione. Modelli a confronto. CEDAM, Padova
Nel punto 8, in ottemperanza agli impegni assunti, si fissava la misura massima dell’aumento della retribuzione per i successivi 3 anni. Nel successivo capoverso del suddetto punto veniva, però, stabilito che, si doveva tener conto, durante la stipulazione dei contratti nazionali, nella determinazione dell’aumento retributivo, dei “parametri retributivi coerenti con l’obiettivo della valorizzazione della professionalità dei lavoratori e dell’efficienza delle aziende”67
L’ incremento della produttività, rimesso alla competenza del contratto aziendale, attribuiva a quest’ultimo notevole importanza, nonostante, comunque, si dovesse tener conto della direttrice programmatica contenuta nell’Accordo68.
Il punto 11 del Protocollo69 prevedeva, invece, la riduzione dell’orario di lavoro che, da un lato penalizzava la contrattazione aziendale relegandola ad un ruolo di
67 Vedi Protocollo Xxxxxx del 1983 Art 8: In coerenza con i vincoli assunti in ordine alla crescita del costo del lavoro e valutati i benefici derivanti alle retribuzioni nette dei lavoratori dipendenti dalla modifica dell'Irpef e dalla introduzione dell'assegno integrativo per i figli a carico, le misure massime degli aumenti retributivi per i rinnovi dei contratti collettivi, già scaduti o in scadenza nei settori industriali, sono le seguenti:
L. 25.000 a decorrere dal 1° gennaio 1983
ulteriori L. 35.000 a decorrere dal 1° gennaio 1984
ulteriori L. 40.000 a decorrere dal 1° gennaio 1985
Le quantità indicate per il 1983 e per il 1984 si intendono come comprensive di qualsiasi aumento di carattere collettivo a livello aziendale, fino al diciottesimo mese dalla stipula del contratto di categoria. Nella determinazione degli incrementi retributivi, che avrà luogo in sede di stipulazione dei contratti di categoria, sarà tenuto conto della necessità di ristabilire parametri retributivi coerenti con l'obiettivo della valorizzazione della professionalità dei lavoratori e dell'efficienza delle Aziende. Nella specifica sede dei rinnovi di categoria e specificatamente in quelli del pubblico impiego si procederà ad una revisione degli altri automatismi, tra cui quelli inerenti agli scatti di anzianità, per attenuarne il peso. Per il settore pubblico sarà costituita una commissione per valutare i flussi finanziari per la spesa destinata ai dipendenti del settore pubblico allargato e per procedere, sulla base delle risultanze conoscitive, ad un confronto con le Organizzazioni sindacali per valutare anche le spese da ricondurre a contrattazione.
68 X. Xxxxxxx, Contratto collettivo e contrattazione in azienda. Op cit.
69 Art. 11 protocollo Xxxxxx: Al fine di realizzare regimi di orario di lavoro più corrispondenti alle esigenze produttive, le parti concorderanno, nei rinnovi di categoria, clausole che consentano un più intenso utilizzo degli impianti, un recupero della prestazione effettiva rispetto all'orario contrattuale, nonché i criteri per una maggiore flessibilità di orari da porre in essere in sede aziendale.
Verrà inoltre affrontato il problema della distribuzione delle ferie dell'anno impegnando a tale fine gli organi competenti in sede regionale e nazionale, per esaminare i problemi connessi. I rinnovi contrattuali definiranno una riduzione di orario di lavoro di 20 ore in ragione d'anno nel corso del secondo semestre 1984 e di ulteriori 20 ore in ragione d'anno nel corso del primo semestre 1985. I rinnovi contrattuali definiranno modalità e tempi di applicazione della riduzione di orario per settori e comparti industriali e regimi
mera applicazione ma, dall’altro la rendeva più dinamica nella gestione delle crisi aziendali70 .
Infine, il punto 13 del Protocollo Xxxxxx limitava le materie di competenza del contratto aziendale, dato che quest’ultimo “non poteva avere ad oggetto materie già definite in altri livelli di contrattazione”. Ciò comportava che, nel caso in cui si fosse raggiunto un accordo a livello nazionale su una determinata materia, quest’ultima non poteva essere oggetto di contrattazione a livello periferico71.
In realtà, il punto 13 del Protocollo non venne applicato in ogni sua parte, anche perché le clausole limitative in esso contenute avrebbero trasformato la contrattazione decentrata in “contrattazione articolata”.
In definitiva, tale modello di accordo, autoritario e centralista, negli anni successivi, non fu attuato poiché, nella pratica, la contrattazione collettiva aziendale si dimostrò uno strumento utile e necessario, soprattutto nella gestione dei momenti di crisi aziendale, come in realtà, successe, nel 1984 per il risanamento dell’IRI72 .
particolari di orario. La riduzione suddetta sarà assorbita da orari inferiori esistenti a livello aziendale ad eccezione dei trattamenti concessi specificatamente per nocività del lavoro. Allo scopo di contenere il ricorso alla cassa integrazione guadagni e fornire un impiego più razionale della manodopera, per riduzioni di orario che venissero attuate a livello aziendale in situazioni di esuberanza di personale, le ore di riduzione potranno essere retribuite in misura ridotta, da stabilirsi nei contratti collettivi e con il concorso temporaneo della cassa integrazione guadagni fino ad una quota del 50% della retribuzione effettivamente corrisposta dall'Azienda. Il Governo si impegna a presentare al Parlamento un provvedimento in forza del quale, qualora a livello aziendale venissero concordate riduzioni di orario con contestuale assunzione di nuovo personale, specie giovanile, siano previste particolari agevolazioni ivi compresi eventuali sgravi di contributi sociali.
70 X. Xxxxxxxx, Contratti collettivi normativi e contratti collettivi gestionali, in ADL, 1999,
71 X. Xxxxxx, Legislazione e contrattazione collettiva nel 1982-1983, in dir. Lav. Rel. Ind., 1983.
72 X. Xxxxx, Innovazione tecnologica e sistema di relazioni industriali: ”La contrattazione della trasformazione” e il “Protocollo IRI” , in riv. It. Dir. Lav., 1983”.
La riforma della struttura contrattuale - Il protocollo del 1993 e il modello accentrato
I primi anni novanta sono stati caratterizzati da avvenimenti di portata storica in quanto lo Stato Italiano, pressato dagli impegni internazionali generati dalla presenza dell’Italia nel sistema monetario europeo, all’epoca sotto pressione per manovre speculative internazionali, aveva cercato di risolvere la propria situazione debitoria anche attraverso manovre economiche che hanno causato tensioni nella popolazione.
Nello stesso periodo si è assistito anche alla cosiddetta operazione “mani pulite” che, con una serie di inchieste sulla corruzione nel sistema politico, ha generato un sovvertimento delle consolidate strutture partitiche italiane, per arrivare a quella che sarebbe poi stata definita “seconda repubblica”.
Non ultimo deve essere segnalato che quel periodo venne contrassegnato anche dalle due stragi mafiose che causarono la morte di Xxxxxxx e Xxxxxxxxxx.
Tali cabiamenti di natura storica e politica hanno inciso su numerosi settori della società italiana, coinvolgendo anche la classe operaia, all’interno della quale si potevano distinguere tre diverse tipologie di categorie lavorative: il lavoratore della grande impresa, il lavoratore della piccola impresa e il lavoratore dei servizi e del terziario, questi ultimi spesso assunti con contratto a tempo determinato e senza rappresentanza sindacale.73
Fino ad allora il modello aziendale prevalente era quello fordista in cui capitale e lavoro avevano una posizione antitetica, con il secondo subordinato al primo, in cui il lavoratore aveva una posizione sostanzialmente poco coinvolta e poco integrata nello sviluppo e nella gestione aziendale.
Successivamente si sviluppa un modello “egemonico e monistico che richiede competenza, flessibilità e coinvolgimento nello sviluppo dei propri compiti
73 Bagnasco, L’Italia in tempi di cambiamento politico, Bologna, 1996.
aspirando, nel contempo a modificare le stesse relazioni industriali, grazie al minor formalismo dei rapporti e al coinvolgimento nei destini di azienda” 74.
In questo periodo piuttosto turbolento, il 31 luglio 1992, venne siglato il cosiddetto patto tripartito che aveva come obiettivo quello di ridurre il costo del lavoro ed il tasso di inflazione.
Con questo accordo le associazioni sindacali rinunciano all’indicizzazione automatica dei salari rispetto all’inflazione (la c.d. “scala mobile”) in nome dell’interesse nazionale, anche se questa posizione viene interpretata dalla base come una sconfitta e dà origine a proteste.
L’effetto sui mercati internazionali è comunque positivo e genera fiducia nel Sistema Italia, ponendo le basi per la permanenza nello SME riducendo i tassi di interesse.
L’accordo del luglio 1992 costituiva una premessa per il successivo accordo del luglio 1993 avendo teorizzato le linee guida per il rinnovo contrattuale che sarebbe stato poi concretizzato nel successivo protocollo del luglio 1993.
Il 23 luglio 1993, con il governo Xxxxxx viene sottoscritto un protocollo tra governo e parti sociali, riguardante la politica dei redditi dell’occupazione, gli assetti contrattuali, le politiche del lavoro e il sostegno al sistema produttivo.
Gli accordi del 31 luglio 1992 e del 23 luglio 1993, costituiscono due momenti dello stesso progetto delle parti contraenti volto ad individuare una diversa politica sui redditi e a realizzare una riforma del sistema contrattuale e delle rappresentanze sindacali aziendali75.
I contratti collettivi fino ad allora stipulati dai sindacati dei lavoratori, di fatto si svuotarono di significato visto che erano stati conclusi, relativamente alla parte retributiva, tenendo conto del principio della c.d. scala mobile, alla quale i sindacati avevano rinunciato per venire incontro alle esigenze politiche ed economiche del Paese.76
74 Balbi F., Xxxxxx C., I contratti collettivi, Il Sole 24 Ore, 2014.
75 Xxxxx, Xxxxxx, i contratti collettivi, Il Sole 24 ORE 2014 .
76 X. Xxxxxxxx, protocollo del 1993 e assetti contrattuali di categoria: un modello e molti “sistemi”, in studi in onore di Xxxx Xxxxxx, Bari, 1999.
Il Protocollo del luglio ’93 definisce un modello contrattuale organizzato su due livelli: il primo è rappresentato dal Contratto Nazionale di categoria e il secondo dal Contratto Integrativo aziendale o territoriale.
Al primo vengono attribuite competenze sia normative (con durata quadriennale) che economiche (con durata biennale) individuando materie proprie su cui non poteva intervenire il livello aziendale.77
Il secondo aveva un ambito di competenza più ristretto riguardante la produttività, premi e altre materie, legate al raggiungimento di obiettivi aziendali, facendo si che attraverso questo sistema si potesse pervenire ad un miglioramento della efficienza aziendale.
Con il protocollo del 1993, viene riconosciuta al sindacato una maggiore rilevanza, sia negoziale che partecipativa nella contrattazione collettiva, al fine di realizzare un decentramento della contrattazione così da aumentare la produttività e la crescita economica e quindi l’occupazione.
Il protocollo del ‘93, definito da Giugni una vera e propria “carta costituzionale” per le relazioni industriali italiane, ha confermato la presenza di due livelli di contrattazione: uno nazionale di categoria e l’altro aziendale o territoriale.78
Con tale accordo si definiscono, così, le competenze e i rapporti tra i due livelli di contrattazione ma, contemporaneamente, si programma una riorganizzazione delle relazioni industriali, nel senso di una regolamentazione in via esclusivamente negoziale.
Il doppio livello di contrattazione prevede che da un lato venga affidata al contratto nazionale di categoria la regolamentazione delle competenze del contratto decentrato, mediante clausole di rinvio; dall’altro venga stabilito che il secondo livello di contrattazione avesse una funzione specializzata e autonoma rispetto al primo livello.
Al primo livello di contrattazione è affidato il compito di salvaguardare il potere di acquisto delle retribuzioni, e di aumentarne l’importo; al secondo il protocollo
77 Xxxxxxx X. Xxxxxx dell’imprenditore, rappresentanze sindacali unitari e contratti collettivi.
Il Mulino 1996.
78 X. Xxxxxx, Diritto sindacale, Cacucci, Bari, 2001.
affida la disciplina delle “materie e istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del contratto collettivo nazionale di lavoro”. 79
Alla contrattazione nazionale era riservata la regolamentazione degli elementi fissi della retribuzione, comuni per tutta la categoria, mentre, alla contrattazione aziendale, le forme contributive variabili, dipendenti dalla produttività e dagli obiettivi.
Con il protocollo del 93, si realizza, così, una struttura contrattuale che attribuisce al livello nazionale un ruolo di controllo delle dinamiche salariali, di indirizzo dei negoziati aziendali, definendo, le competenze della contrattazione di secondo livello.
Al secondo livello, quindi, spettava la “gestione degli effetti sociali connessi alle trasformazioni sociali quali le innovazioni tecnologiche, organizzative e i processi di ristrutturazione che influivano sulle condizioni di sicurezza, di lavoro e occupazione”.80
Il protocollo del 93, prevedeva oltre alle clausole di rinvio, anche le clausole di non ripetibilità limitatamente alla materia retributiva, volte ad evitare una duplicazione dei costi del lavoro; veniva anche stabilito che le materie trattate dal contratto collettivo nazionale non dovevano essere contenute all’interno dei contratti aziendali.
La presenza di contratti collettivi di diverso livello, poneva il problema della valutazione del rapporto dell’uno nei confronti dell’altro.
Le possibili soluzioni a questo problema sono state individuate ricorrendo al principio gerarchico, poiché, come abbiamo già visto, il contratto collettivo nazionale indicava le materie di competenza della contrattazione aziendale o territoriale, mediante le clausole di rinvio. Altra soluzione passava attraverso il rapporto funzionale, visto che il livello decentrato aveva una funzione specializzata e autonoma rispetto a quella del primo livello.
Viene, infatti, distinta in maniera netta la funzione redistributiva del livello nazionale e quella partecipativa del livello decentrato, “in relazione alla
79 Punto 3 e 4 parte II del Protocollo luglio 1993.
80 Protocollo 23 luglio 1993 – art 3.
produttività e redditività dell’impresa mediante elaborazione di programmi e obiettivi comuni”.81
Possiamo, quindi, dire che con il protocollo del ‘93 si è cercato di realizzare una centralizzazione della negoziazione, anche se nella realtà dei fatti, viene attuato un modello decentrato controllato e coordinato dal contratto nazionale di categoria.
Come già detto, il Protocollo del ’93 prevedeva, per il livello nazionale, un contratto economico biennale e un contratto normativo quadriennale, invece il contratto aziendale aveva ad oggetto un contratto economico a durata quadriennale specializzato, poiché inerente a materie differenti rispetto a quelle trattate nel contratto gerarchicamente sovraordinato.
Per permettere la stabilità funzionale di questo sistema, il protocollo stesso si prefiggeva di mantenere la continuità dei rinnovi contrattuali nel momento della scadenza e di “ predisporre lo strumento dell’indennità di vacanza contrattuale per disincentivare pretestuose lungaggini nelle trattative” Infatti, al decorrere dei tre mesi dalla scadenza del contratto senza un intervento volto a rinnovarlo, viene riconosciuto un indennizzo retributivo, ai lavoratori, pari al 30% del tasso di inflazione programmata, sui minimi contrattuali, comprendendo anche la ex indennità di contingenza, in modo da raggiungere la percentuale del 50%, dopo sei mesi.
Viene introdotto anche il c.d. “periodo di raffreddamento” che vieta, alle parti, per un periodo di tre mesi dall’apertura delle trattative, di assumere iniziative uni laterali o di procedere ad azioni dirette sospendendo così ogni “conflitto sindacale”, in vista del regolare svolgimento di particolari attività, quali il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro, la ristrutturazione e/o riorganizzazione aziendale; alla violazione di questa “pausa” consegue una riduzione o l’allungamento del periodo dal quale decorre l’obbligo di indennità di vacanza contrattuale.
81 Xxxxx, Paiola, i contratti collettivi, Il Sole 24 ORE 2014 .
Al contratto aziendale viene affidato il compito di ripartire i margini di produttività “ mediante l’elaborazione di schemi partecipativi in funzione della produttività o redditività dell’impresa” 82.
Il protocollo del ‘93 pone, inoltre, le premesse per arrivare al superamento del problema riguardante le forme di rappresentanza sindacale dei lavoratori e in aggiunta pone, anche, le basi per un intervento legislativo, al fine di generalizzare l’efficacia soggettiva dei contratti aziendali che rappresentino la maggioranza dei lavoratori oltre a prevedere l’eliminazione delle norme legislative che si pongono in contrasto con le disposizioni dell’accordo.
Circa la rappresentanza, il protocollo del 93 si rifà al modello dell’intesa quadro del 91, intervenuta tra le tre maggiori confederazioni, ossia CGIL, CISL e UIL, inerente, nello specifico, la designazione elettiva dei rappresentanti. Il protocollo del 93 apportava, a tal proposito delle modifiche, infatti, si stabiliva l’istituzione di rappresentanze sindacali unitarie a struttura mista, in cui 2/3 dei componenti venivano eletti da tutti i lavoratori dell’unità produttiva, mentre 1/3 era riservato alle associazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo di lavoro nazionale.83 Con questo modello venivano rappresentati tutti i lavoratori e, in più, i rappresentanti svolgevano soltanto compiti che gli venivano assegnati dai sindacati di categoria mediante il contratto nazionale. Tale struttura garantiva una maggiore partecipazione di tutti i lavoratori dell’unità produttiva, sia a livello attivo che rappresentativo; questo però non risolveva il problema della rappresentatività sindacale a livello nazionale.
Parte della dottrina, sostiene, che il sistema di contrattuale così strutturato mostra i suoi limiti. 84
Se da una parte, infatti, la centralizzazione della contrattazione collettiva ha contribuito al risanamento della finanza pubblica e alla riduzione del tasso d’inflazione, grazie al contenimento delle dinamiche salariali, dall’altra gli assetti della contrattazione non sono risultati sufficientemente articolati per rispondere alle esigenze specifiche dei mercati del lavoro territoriali.
82 Xxxxx, Xxxxxx, i contratti collettivi, Il Sole 24 ORE 2014 .
83 X. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, diritto dei lavori e dell’occupazione, Giappichelli editore, 2017.
84 X. Xxxxx, X. Xxxxxxxxxx, Istituzioni di diritto del lavoro, Xxxxxxx, Milano, 2007.
La mancata attuazione della contrattazione decentrata, nella maggior parte delle strutture produttive (infatti il livello di contrattazione territoriale si è attuato, tranne qualche eccezione, nei settori produttivi come l’artigianato, l’agricoltura, l’edilizia, dove già veniva utilizzato), ha comportato una centralizzazione della contrattazione e una minor crescita delle retribuzioni dovuta alla mancanza di contratti aziendali che prevedessero premi per gli obiettivi aziendali, eventualmente, raggiunti.
Nonostante tutti gli aspetti positivi,l’accordo del 1993 presentava alcune criticità, poichè era strutturato in modo troppo rigido e gerarchico, per consentire una larga diffusione della contrattazione decentrata che rispettasse le specifiche necessità delle singole aziende.
L’accordo quadro del 22 gennaio 2009 e il decentramento contrattuale
Quanto stabilito dall’accordo del 1993 ha costituito per lungo tempo oggetto di dibattito giurisprudenziale, soprattutto riguardo al decentramento avvenuto tramite depotenziamento del contratto collettivo nazionale in favore di quello aziendale.
Se all’inizio il protocollo del 93 ha trovato attuazione, nel periodo successivo, l’applicazione dell’accordo viene meno, anche a causa della congiuntura economica conseguente ad un periodo di crisi finanziaria in cui si viene a trovare il Paese. Nel 2008, per arrivare ad una risoluzione di questa problematica, le confederazioni sindacali gettano le basi per arrivare ad un nuovo accordo per rinegoziare le regole della contrattazione collettiva; si giunge così alla stipula, il 23 gennaio 2009, del c. d. Accordo Quadro di riforma degli assetti contrattuali, definito così perché stabilisce i principi e regole a cui dovranno attenersi le parti sociali nella contrattazione collettiva successiva.
Il suddetto accordo fu sottoscritto da tutte le associazioni imprenditoriali e sindacali, tranne quella maggioritaria, la CGIL, la quale sosteneva che l’Accordo Quadro non avrebbe tutelato il salario reale. Tutto ciò determinò problemi nelle relazioni industriali.
In tale accordo fu affrontato, tra l’altro, il problema della “riduzione numerica dei contratti collettivi nazionali di lavoro, infatti, la razionalizzazione degli stessi avrebbe portato ad un ampliamento del loro campo di applicazione con conseguente maggiore diffusione dell’utilizzo della contrattazione di secondo livello, che meglio avrebbe consentito l’adeguamento della disciplina dei CCNL alle diverse e specifiche esigenze aziendali o territoriali”. 85
Oltre alla conferma della presenza dei due livelli di contrattazione, l’accordo del 2009 stabilisce la durata triennale del contratto nazionale, modificando la durata
85 X. Xxxxxxxx, regole del conflitto e conflitto sulle regole. L’accordo separato sulla revisione del modello contrattuale, in X. Xxxxxxxx –X. Xxxxxxx. Xxxxxx e ruolo delle autonomie nella riforma della contrattazione pubblica. BOLOGNA: Il Mulino
di quattro anni prevista dal protocollo del 1993, sia per la parte normativa che per quella economica con l’obiettivo di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni a tutti i lavoratori del settore su tutto il territorio nazionale, rinviando ai successivi accordi l’attuazione dei relativi principi.
Quest’ultimi saranno attuati, per quanto riguarda il settore industriale, con l’adozione dell’accordo interconfederale del 15 aprile 2009, per il settore pubblico, con l’accordo interconfederale del 30 aprile 2009.
L’Accordo Quadro stabiliva alcuni punti fondamentali riguardanti, la garanzia della conservazione del potere d’acquisto dei lavoratori e cioè del valore reale delle retribuzioni; la semplificazione della procedura per il rinnovo del contratto collettivo; l’ambito di applicazione del contratto collettivo di secondo livello, dalla distribuzione della produttività alla derogabilità in peius, quest’ultima come contrappeso alla possibilità di maggiore occupazione; la velocizzazione del processo di armonizzazione tra pubblico e privato, sia in tema di rappresentanza che di rappresentatività.86
Il primo punto fu attuato con la scelta di sostituire il tasso di inflazione programmata con il tasso di inflazione previsto, con un nuovo indice previsionale stabilito sulla base dell’indice dei prezzi al consumo, armonizzato in ambito europeo per l’Italia (IPCA), depurato dalla dinamica dei prezzi al consumo dei prodotti energetici importati. Venne prevista, inoltre, una procedura per l’eventuale recupero, entro o al termine della vigenza contrattuale, del recupero dello scarto tra il suddetto indice e l’inflazione reale.
Per favorire il ricorso alla contrattazione collettiva aziendale e, quindi, per cercare di attuare maggiormente il decentramento, fu introdotto, nell’Accordo Quadro il c. d. elemento economico di garanzia, cioè un elemento retributivo che le aziende erano obbligate a corrispondere ai propri dipendenti, nel caso in cui, durante la contrattazione collettiva aziendale, il premio di risultato o di obiettivi non fosse stato previsto. Infatti, per incentivare questo tipo di contrattazione legata alla produttività, furono, anche, individuati dei meccanismi retributivi, di
86 X. Xxxxx, Prospettive evolutive delle relazioni industriali in Italia: la riforma degli assetti contrattuali, in Dir. Delle relazioni industriali, 2009, Xx. Xxxxxxx, Milano.
“tipo sanzionatorio”, da applicare in caso di mancanza di contrattazione aziendale con premio di risultato. 87
Come già detto, nell’accordo veniva inserita una parte che prevedesse la semplificazione del processo di rinnovo del contratto collettivo nazionale. Il sistema precedente ammetteva la possibilità di rinnovo ogni due anni, dato che il contratto collettivo nazionale, riguardo alla parte normativa, aveva un’efficacia temporale biennale, per evitare, quindi, di rimanere bloccati nelle maglie della conflittualità, con conseguente mancanza di rinnovi dei contratti collettivi, si ritenne opportuno ritornare al termine di scadenza triennale, sia per la parte economica che per quella normativa.
L’accordo del 2009 inoltre, a fine di ridurre i tempi per le trattative relative ai “ tempi e modi” delle piattaforme rivendicative, ha rinviato ai contratti successivi, la ridefinizione degli stessi, garantendo, però, ai lavoratori in servizio, una copertura economica per gli eventuali periodi di vacanza contrattuale .
Altro punto dell’Accordo Quadro riguardava, invece, l’ampliamento degli spazi dedicati alla contrattazione aziendale, a tal proposito, venne confermata, la competenza della contrattazione aziendale, “in deroga sui premi di risultato”, al fine di garantire una retribuzione correlata all’aumento della produttività. Tra l’altro, nell’Accordo venne anche mantenuta la possibilità, per il contratto nazionale, di stabilire le materie del contratto decentrato, rimandando alle specifiche intese di comparto, la definizione degli istituti.
A differenza del 93, però, l’ambito di negoziazione della contrattazione aziendale, fu esteso anche alle “ materie delegate, in tutto o in parte, dal CCNL o dalla legge” su “materie e istituti” non contrattati in altri livelli di contrattazione.88 Inoltre, le clausole di non ripetibilità, già introdotte e previste nell’accordo del 93, non furono più limitate alla materia retributiva, ma furono estese, anche, ad altri istituti, assumendo, così un valore gerarchicamente superiore, trattandosi, di materia delegata.
87 X. Xxxxxxxx, l’accordo interconfederale dell’aprile 2009 di riforma del sistema della contrattazione collettiva: brevi not in Arg. Dir. Lav.,2009,I.
88 X. Xxxxx: L’accordo quadro e l’accordo interconfederale – Confindustria 2009.
Altra novità, rispetto al 93, fu rappresentata dal richiamo alla legge, prima non previsto, introducendo, quindi, la possibilità da parte del contratto aziendale di derogare alle materie delegate dalla legge.
Nello stesso accordo fu stabilito, che in caso di conflitto tra le competenze, le eventuali controversie fossero risolte con gli strumenti della conciliazione prima e dell’ arbitrato poi, in virtù del principio dell’autonomia collettiva.
Ma la parte dell’accordo che più realizzò il decentramento della contrattazione collettiva, fu quella in cui venne introdotta, tramite le c. d. clausole di uscita, la possibilità di deroga al contratto nazionale, però solo ad alcune condizioni e per determinate finalità.
Le cosiddette “clausole di uscita”, erano clausole che potevano essere inserite nel contratto collettivo nazionale per demandare, alla contrattazione decentrata, un potere derogatorio, anche in peius, rispetto alla disciplina prevista nel contratto nazionale di categoria, a condizione che, l’utilizzo delle stesse fosse finalizzato a risolvere situazioni di crisi o a favorire lo sviluppo economico di un territorio o di singole aziende, o ancora a realizzare un migliore livello occupazionale.
Era, comunque, necessario che fossero rispettate le procedure e i limiti dettati, per gli aspetti economici e normativi, dagli stessi contratti di categoria, essendo, tali clausole, comunque, applicabili soltanto nei casi di crisi di azienda o per favorire lo sviluppo economico e occupazionale territoriale o aziendale, la loro efficacia inoltre doveva essere limitata nel tempo. Tra i limiti legali stabiliti nei contratti nazionali che a cui non si poteva derogare vi erano, per esempio, quelli riguardanti il salario minimo, le ferie e le disposizioni inderogabili di legge.
La possibilità di derogare al contratto nazionale da parte dei contratti decentrati, aziendali o territoriali era, comunque, già stata riconosciuta e ammessa dalla parte della giurisprudenza. La Corte di Cassazione poco prima della riforma, con la sentenza del 18 giugno 2003, n. 9784, aveva infatti riconosciuto la legittimità del principio della derogabilità in peius del contratto collettivo nazionale ad opera di quello aziendale, anche nel caso in cui si derogasse a materie che non fossero espressamente devolute alla competenza di quest’ultimo.
Il caso Fiat
Le circostanze indicate nell’accordo del 2009 non hanno realizzato un decentramento nella contrattazione collettiva, principalmente nel settore metalmeccanico, soprattutto per quanto riguarda il gruppo FIAT.
L’azienda dopo la fusione con Xxxxxxxx e la ridenominazione in FCA, doveva competere all’interno di un mercato globale nel quale le regole della contrattazione collettiva italiana, rendevano difficile la partecipazione come player di primo livello.
Per questo motivo la FCA dopo il 2009, anche se inizialmente sembra accogliere gli elementi presenti negli accordi di quell’anno, sfruttando le opportunità individuabili a favore di una contrattazione decentrata aziendale, decide in seguito di dare vita ad un accordo aziendale che riguarda gli stabilimenti di Mirafiori e di Polmigliano d’Arco, qualificando gli stessi come contratti “collettivi specifici di primo livello”, sganciandosi dal sistema categoriale o intercategoriale della contrattazione collettiva, con tutte le funzioni di garanzia del contratto di categoria che assicurava trattamento economico e normativo uniforme.
In precedenza, parte della dottrina aveva individuato un sistema di decentramento contrattuale forte tanto da riconoscere la possibilità di disattendere quanto indicato all’interno del contratto collettivo nazionale, qualora venisse stipulato un accordo aziendale che riguardasse le stesse materie del primo.89.
La riforma del 2009, di contro, accentuava il ruolo specialistico del contratto aziendale, rispetto a quello di categoria che manteneva invece un ruolo centrale e di governo.
Con la formulazione degli accordi aziendali di Mirafiori e Pomigliano si inizia a dimostrare la debolezza del sistema di relazioni industriali italiano, “incapace di porre un freno alla tendenza delle imprese di liberalizzarsi” 90
Vengono messe in discussione le tradizionali “comunità di riferimento” che rappresentano il sistema tradizionale di relazioni di impresa, con alla base le funzioni di garanzia del contratto collettivo..
89 Ichino P. – FIAT, l’errore di restare fermi in Lettera sul lavoro – Corriere della sera 30 dic 2010
90 Xxxxxx X. – Sbagliato accusare Xxxxxxxxxx – Lettera su “Il Mattino” 26 luglio 2010.
Il caso FIAT rappresenta, in Italia, il caso principale in cui in una impresa multinazionale vi è la presenza di un organization-based employment system, dato che la stessa FIAT costruisce un proprio sistema contrattuale autonomo da quello confindustriale, costituendo il cosiddetto “company agreement monolivello” contrapposto al più datato “industrial collective agrreeiment” a doppio livello.
L’obiettivo individuato è quello di ottenere un incremento produttivo a costo degli stessi ritmi di lavoro, prevedendo una turnazione su 3 turni per 6 giorni alla settimana, un maggiore ricorso alle ore di lavoro straordinario e anche una restrizione dei diritti fondamentali dei lavoratori, come per esempio il diritto di sciopero o le limitazioni in materia di malattia.91
Per meglio inquadrare la vicenda FIAT, bisogna concentrarsi principalmente sull’accordo Mirafiori del 23 dicembre 2010 e sul secondo accordo di Pomigliano del 29 dicembre 2010, qualificati come “contratti collettivi specifici di lavoro di primo livello” quindi svincolati dagli altri contratti di categoria, in modo tale da liberarsi dall’applicazione del CCNL soprattutto per quanto riguarda il problema dell’efficacia soggettiva limitata dello stesso. In altre parole, stipulando un nuovo contratto (definito di primo livello, sebbene solo limitato ad una unità produttiva) i lavoratori non erano più tenuti al rispetto delle norme contenute nel CCNL anche se facevano parte di un sindacato che all’epoca aveva sottoscritto tale contratto.
Inizialmente FIAT aveva tenuto un atteggiamento più ortodosso, formulando l’accordo di Pomigliano del 15 giugno 2010, utilizzando il meccanismo della deroga, previsto dal contratto di categoria del 2009 (peraltro firmato solo da alcune sigle sindacali CISL e UIL, ma non dalla CGIL). In seguito abbandona questa linea formulando i due accordi di Mirafiori e Pomigliano del dicembre 2010. I sindacati firmatari del contratto nazionale di lavoro del 2009 (CISL e UIL), con la modifica dell’art 4 bis del contratto, che aveva esteso le ipotesi derogatorie a quelle situazioni dirette a favorire lo sviluppo economico ed occupazionale, e aveva inserito la cosiddetta “clausola di uscita”, prevedendo il
91 Xxxxxxx X. – Contrattazione collettiva e relazioni industriali nell’”archetipo” FIAT di Pomigliano d’ARCO – Q. rass sind. 2010
contratto aziendale come principale livello per le intese modificative, offrirono legittimazione all’accordo aziendale derogatorio. 92.
L’accordo derogatorio poneva un sostanziale problema legato al rinnovo del contratto. Infatti, mentre i lavoratori iscritti a CISL e UIL erano tenuti all’applicazione degli accordi del dicembre 2010, per i lavoratori della CGIL- FIOM e coloro che non erano iscritti a nessun sindacato restava in vigore il CCNL firmato nel 2008 che avrebbe dovuto essere rinnovato alla scadenza quadriennale ovvero nel 2012.
La condizione veniva complicata anche dall’uscita di FIAT da Confindustria, rendendo l’azienda non più firmataria del CCNL del 2008, con conseguente mancanza di ultrattività dello stesso contratto, alla sua scadenza.
Sulla scorta di quanto sopra detto, i lavoratori non appartenenti a CISL e UIL, ovvero ai firmatari degli accordi del dicembre 2010, alla scadenza del CCNL del 2008 si sarebbero trovati nella situazione di poter scegliere tra i minimi di legge e il trattamento previsto dagli accordi del dicembre 2010.
Gli accordi del dicembre 2010 vennero sottoposti a referendum sulla cui legittimità è lecito avere più di qualche dubbio, soprattutto perché svolto sotto “ricatto” del posto di lavoro.
In ogni caso l’operazione realizzata da FIAT costituisce un caso a sé nell’ambito della contrattazione collettiva, non potendosi di certo classificare come un momento di evoluzione della stessa, in quanto si tratta di un soluzione basata sulla disdetta unilaterale di un CCNL, seguita dall’uscita dall’asscoiazione di categoria (Confindustria) al fine di legittimare il mancato rinnovo del CCNL e stipulare un contratto definito in modo non ortodosso “di primo livello” ma in realtà di livello aziendale senza tenere conto del sistema di regole fino ad allora condivise.
92 Carinci F. La cronaca si fa storia: da Pomigliano a Mirafiori – CDSLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx” 133 – 2011
L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e il protocollo del 2013
Per superare le incertezze nelle relazioni sindacali scaturite dal dissenso della CGIL, configuratosi con la non sottoscrizione degli accordi interconfederali del 2009, e dal conflitto esploso a seguito dei contratti di Pomigliano e Mirafiori, venne stipulato un Accordo Interconfederale il 28 giugno 2011 (AI 2011).
La “separazione” contrattuale, evidente soprattutto nel settore metalmeccanico, subisce un sostanziale arresto con un ritorno ad una posizione “unitaria” e la firma da parte delle tre maggiori confederazioni sindacali dell’AI 2011.93
Gli obiettivi principali dell’AI 2011 sono:
• Regolamentare la rappresentatività sindacale e la conseguente legittimazione a stipulare contratti nazionali.
• Confermare la strutturazione della contrattazione su due livelli individuando un ruolo strategico nella contrattazione aziendale, con presenza di “clausole di uscita”.
• Stabilire i criteri di efficacia dei contratti aziendali nei confronti dei lavoratori che fanno parte delle associazioni sindacali firmatarie attraverso il sistema della RSU e della rsa.
• Prevedere clausole di pace sindacale.
Il primo punto va a trattare il tema cruciale dei criteri di rappresentatività. Con il termine rappresentatività si indica la capacità di rappresentare gli interessi dei lavoratori. Il grado di rappresentatività, viene determinato combinando il consenso di tipo associativo (percentuale di iscritti ad una associazione sindacale) con la percentuale di voti ottenuta dalle liste sindacali alle elezioni RSU. L’indice minimo di rappresentatività è pari al 5% che conferisce “legittimazione a negoziare”.94
Questo meccanismo della rappresentanza, assolve sia la funzione di indicare una rappresentatività minima e sufficiente per essere ammessi alle trattative, sia di
93 X. Xxxxxxx, La Cronaca di fa storia: da Pomigliano a Xxxxxxxxx, Arg. Dir. Lav-, 2011
94 Punto 1 dell’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011
raggiungere il consenso necessario senza la previsione di ulteriori adempimenti per la validazione del contratto collettivo nazionale.
Il testo dell’accordo, inoltre, specifica che “ai fini della certificazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali per la contrattazione collettiva nazionale di categoria, si assumono come base i dati associativi riferiti alle deleghe relative ai contributi sindacali conferiti dai lavoratori. Il numero delle deleghe viene certificato dall’INPS e tramite un’apposita sezione nelle dichiarazioni aziendali (UNIEMES) che verrà predisposta a seguito di convenzione tra l’INPS e le parti stipulanti il presente accordo inconferenziale. I dati così raccolti e certificati, trasmessi complessivamente al CNEL, saranno da ponderare con i consensi ottenuti nelle elezioni periodiche delle rappresentanze sindacali unitarie da rinnovare ogni tre anni, e trasmesse dalle confederazioni sindacali al CNEL”.
Tale disposizione prevede una media tra il dato associativo, costituito dalle deleghe dei contributi sindacali e il dato elettorale. Le deleghe vengono identificate da una sezione nelle dichiarazioni aziendali, ossia la sopracitata UNIENES tramite una certificazione da parte dell’INPS.
La maggiore novità contenuta nell’accordo consiste nel riconoscimento del principio maggioritario che riconosce l’efficacia dei contratti collettivi di tipo generale, nei confronti dei lavoratori iscritti alle delle associazioni sindacali firmatarie, con effetti vincolanti nei confronti di tutti i lavoratori iscritti alle associazioni aderenti alle confederazioni firmatarie dell’AI 2011.95 Inoltre impedisce la possibilità che venga avviata una contrattazione “separata” con esclusione di sindacati di categoria che abbiano una sufficiente percentuale di rappresentatività.96
Deve essere rilevata la assenza di indicazione di una soglia minima di rappresentatività sindacale necessaria per la firma dei contratti nazionali, che in un
95 Xxxxxxxx X., L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011. Mass di Giurispr del Lav. 8-9/2011. 96 Xxxxxx X. Xxxxx e certezze sull’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, in Il Diario del Lavoro (rivista telematica – xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx), 5 luglio 2001
primo documento interno della CGIL veniva inidcata nel 51%, senza che questo valore sia stato recepito dall’AI 201197
Un altro aspetto importante è la ripartizione delle competenze tra contratto nazionale e contratto aziendale. Infatti il contratto collettivo nazionale di lavoro garantisce la certezza dei trattamenti economici e normativi di tutti i lavoratori, appartenenti ad un determinato settore, che svolgono le loro mansioni nel territorio nazionale. Tale punto sottolinea il carattere solidaristico del suddetto contratto.
Per quanto riguarda invece il contratto collettivo aziendale, le materie di competenza vengono delegate, in tutto o in parte dal livello nazionale o dalla legge. Questo aspetto di “subordinazione” del contratto aziendale introduce il criterio gerarchico, dato che il contratto collettivo nazionale vincola il contratto aziendale a non regolare determinate materie senza una delega che consenta tale trattazione. Per il principio del ne bis in idem, non dovrebbe essere consentito al contratto aziendale di disciplinare materie già prevsite dal contratto nazionale98, anche se la formulazione “in tutto o in parte” presente al punto 2 dell’AI 2011, potrebbe far pensare ad una piena liberazione del contratto aziendale dai vincoli del contratto nazionale ovviamente solo in relazione a deroghe in melius.99 100
Al punto 7 dell’accordo è trattato l’argomento della deroga in peius da parte del contratto aziendale infatti “i contratti collettivi aziendali possono attivare strumenti di articolazione contrattuale mirati ad assicurare la capacità di aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi. I contratti collettivi aziendali possono pertanto definire anche in via sperimentale e temporanea, specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenuti dei contratti collettivi nazionali di lavoro nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti collettivi nazionali di lavoro. Xxx non previste ed in attesa che i rinnovi definiscano la materia del contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’azienda, i contratti collettivi aziendali conclusi con le rappresentanze
97 Alleva P., Xxxxxx e prospettive dell’accordo interconfederale 28.6.11, xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xxx 4 luglio 2011
98 Xxxxxxx Xxxxxxxxxx G. Accordo interconfederale 28 giugno 2011 e art 8 d.l. 138/2011. molte divergenze e poche convergenze. Arg. Dir Lav. 2011.
99 Xxxxxx X. op cit.
100 Persiani M. osservazioni sull’accordo interconfederale del 2011. Arg Dir. Lav 2011.
sindacali operanti in azienda di intesa con le organizzazioni sindacali territoriali firmatarie del presente accordo interconfederale, al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa, possono definire intese modificative con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa , gli orari e l’organizzazione del lavoro. Le intese modificative così definite auspicano l’efficacia generali come disciplinata nel presente accordo”.
I requisiti previsti dall’AI 2011 (situazioni di crisi aziendali … favorire investimenti produttivi), sono piuttosto vaghi anche se, a salvaguardia dei lavoratori, viene prevista l’intesa dei sindacati territoriali che presumibilmente avrebbe dovuto implicare una unanimità. Deve essere sottolineato che l’AI 2011 non prevede regole di governo nell’eventuale gestione del dissenso tra le associazioni sindacali territoriali.
In parziale conclusione sul secondo punto va detto che, per le sue peculiarità il contratto aziendale sembra delinearsi con una sua propria disciplina quasi a configurare una sostituzione funzionale del contratto nazionale con quello aziendale. Anche in questo caso, appare applicabile la sintetica osservazione di Bordogna, in realtà riguardante il caso FIAT: “non più di clausole di uscita si tratta, ma di uscita dalle clausole centralmente controllate”.101
Le clausola 4 e 5 dell’AI 2011 prevedono che il contratto aziendale sia efficace nei confronti di “tutto il personale in forza” ma anche delle “associazioni sindacali firmatarie del presente accordo interconfederale operanti all’interno dell’azienda” sia che venga approvato dalla maggioranza delle RSU che nel caso in cui sia stato concluso dalle r.s.a. In quest’ultimo caso (approvazione da parte delle r.s.a.) viene prevista una specifica procedura per invalidare un contratto aziendale, sottoponendolo a referendum che può essere richiesto da una associazione sindacale firmataria dell’AI 2011 o dal 30% dei lavoratori.
Il quorum previsto è del 50% +1 e il contratto viene respinto con la maggioranza semplice dei votanti.
101 Bordogna L., Regole delle relazioni industriali e strategie sindacali, Italinieuropei, giugno 2011.
Il punto 6 dell’accordo prevede infine le c.d. clausole di pace sindacale che vincola le organizzazioni sindacali a osservare gli obblighi contrattuali senza interferire con l’organizzazione del lavoro approvata col contratto nell’unico modo giuridico consentito: lo sciopero.
La possibilità che tale clausola sia accusata di incostituzionalità viene superata allorquando il diritto di sciopero viene impedito solo alle organizzazioni sindacali firmatarie dell’AI 2011, mentre viene garantito agli altri sindacati aziendali (non firmatari) e ai singoli lavoratori che rimangono liberi di scioperare in coalizione occasionale o per adesione a sciopero indetto da altra associazione non firmataria.102
102 Xxxxxx P., Accordi FIAT, clausola di pace sindacale e limiti al diritto di sciopero WP CSDLE, “Xxxxxxx X’Xxxxxx” 117/2011
Dal Testo Unico sulla Rappresentanza all’Accordo Interconfederale del 28 febbraio 2018.
In tema di misurazione della rappresentanza, sempre nel segno della continuità con l’AI del 2011 e con il Protocollo di intesa del 31 maggio 2013, venne sottoscritto tra Confindustria e i sindacati confederali il T.U. del gennaio 2014. Tale intesa prevedeva la misurazione della rappresentatività sindacale nel campo di applicazione di ciascun contratto collettivo, al fine di vincolare la minoranza dissenziente.
La misurazione della rappresentanza, di tipo comparativo, prevedendo che il perimetro della misurazione si esaurisse nell’ambito di applicazione di ciascun contratto collettivo, aveva fatto sì che, oltre alle rappresentanze riconducibili al tradizionale universo sindacale, sorgessero altri soggetti rappresentativi soltanto di una parte limitata dei lavoratori, pur prevalente in uno specifico e limitato ambito.103
Queste rappresentanze di lavoratori potevano anche interagire e sottoscrivere contratti collettivi con rappresentanze datoriali, alternative al tradizionale mondo rappresentato da confindustria, confcommercio e confartigianato, stimolando una progressiva frammentazione della rappresentanza datoriale agevolata dalla possibilità di sottoscrivere contratti in deroga che portassero ad una riduzione sostanziale del costo del lavoro oltre che ad una più snella ed moderna offerta relativa a flessibilità di impiego e produttività. 104 105
La condizione sopra indicata portò come conseguenza una proliferazione di contratti collettivi riguardanti ambiti sempre più ristretti, comportando il fenomeno del c.d. dumping contrattuale anche per la scarsa attrattività per i datori di lavoro a sottoscrivere i rinnovi dei contratti collettivi firmati dai sindacati tradizionali.
103 Xxxxxxxxxxx P, La rappresentanza sindcale e gli assetti della contrattazione collettiva dopo il testo unico sulla rappresentanza del 2014, spunti di riflessione, D.R.I. 2016
104 Olini G, I contratti nazionali: quanti sono e perchè crescono, DLRI 2016
105 Papa V, L’attività sindacale delle organizzazioni datoriali. Rappresentanza, rappresentatività e contrattazione, Xxxxxxxxxxxx 2017.
L’Accordo Interconfederale del 9 marzo 2018
L’ultimo accordo interconfederale siglato il 9 marzo 2018 ha rappresentato la più recente intesa tra le maggiori organizzazioni sindacali e confindustria.
Questo accordo si proponeva da un lato l’obiettivo di ridare centralità ad una politica della concertazione reagendo a quel momento di deregolazione presente nelle intese siglate negli ultimi anni che aveva visto perdere la posizione di rilievo della contrattazione collettiva.
L’altro obiettivo di rilievo era la reazione al disordine del sistema della contrattazione fino ad allora attuato con le conseguenti pratiche di dumping contrattuale. 106
Sul primo punto viene confermata la necessità di una contrattazione collettiva prevista su due livelli.
Un primo livello nazionale cui sia demandato il compito di garantire trattamenti economici e normativi comuni a tutti i lavoratori del settore, attraverso la disciplina del trattamento economico composta dal TEC (trattamento economico complessivo) che comprende il TEM (trattamento economico minimo) e i trattamenti economici, compreso il welfare, comuni a tutti i lavoratori del settore. Alla contrattazione di secondo livello, viene invece delegata l’introduzione di trattamenti economici legati ad obiettivi di crescita e della produttività aziendale. Uno dei temi particolarmente importanti dal punto di vista della crescita culturale delle relazioni industriali è quello della partecipazione, che non si limita solo ai processi organizzativi, ma deve interessare “gli indirizzi strategici dell’impresa”. In relazione alla reazione al dumping contrattuale, il nuovo accordo si propone di conferire al contratto una efficacia “erga omnes”. Al fine di promuovere questo obiettivo, viene indicata la opportunità di misurare oltre al peso delle organizzazioni dei lavoratori, anche quello delle organizzazioni datoriali. Le parti dichiarano di ritenere utile: “che si definisca un percorso condiviso anche con le altre Associazioni datoriali per arrivare ad un modello di certificazione della rappresentanza datoriale”.
106 Liso F, Qualche erratica considerazione sul recente accord interconfedrale Confindustri CGIL CISL UIL del 9 marzo 2018, Boll. ADAPT 2018
Inoltre l’accordo modifica il perimetro della misurazione dal campo di applicazione di ciascun contratto collettivo catalogato dalle confederazioni firmatarie, all’intero “perimetro contrattuale” all’interno del quale possono anche operare diversi contratti collettivi nazionali di categoria (forse da identificare con settori merceologici?), auspicando che l’ampliamento del campo di misurazione del peso relativo delle associazioni possa essere un freno ai fenomeni di dumping contrattuale.
La soluzione proposta dall’accordo, ancorchè ambiziosa, appare legata a meccanismi concertativi che troveranno sicuramente notevoli resistenze da parte dei sottoscrittori dei contratti pirata. Da qualche parte si è proposta una ipotesi di legge dedicata alla rilevazione della rappresentatività che, però troverebbe sempre dei confini vaghi nella definizione del perimetro contrattuale su cui queste misurazioni andrebbero effettuate. Un intervento legislativo più incisivo potrebbe essere ispirato dall’applicazione completa dell’art 39 Cost., così da arrivare ad un contratto valido erga omnes all’interno di un settore, attraverso la individuazione per legge dei vari settori, così da permettere la misurazione comparativa delle associazioni dei lavoratori e datoriali al fine di ritornare ad un contratto unico collettivo interessante il settore considerato. 107 108
107 Marazza M, Perimetri e rappresentanze sindacali in LLI, 2018
108 Magnani M, Riflessioni sulla misurazione della rappresentanza datoriale nell’ordinamento statale e intersindacale. WP CSDLE “Xxxxxxx x’Xxxxxx” 2018
CAPITOLO III
Applicabilità dell’art 2077 x.x. x xxx 0000 x.x. xx xxxxxxxx tra contratti collettivi di diverso livello
Alcuni orientamenti giurisprudenziali, per cercare di risolvere il conflitto tra I diversi livelli di contrattazione, hanno fatto ricorso all’art 2077 c.c., che rendeva inammissibile la trattazione derogatoria in peius della contrattazione collettiva nazionale da parte della contrattazione collettiva aziendale.
La scelta operata dalla giurisprudenza, di chiara matrice corporativa, venne adoperata per cercare un fondamento alla derogabilità del contratto di diritto comune109.
L’applicazione dell’art 2077 c.c. venne successivamente anche estesa al conflitto tra regolamento di diverso livello e, mentre in alcune pronunce fu giustificata con il ricorso all’analogia, in altri casi la norma venne adoperata in modo diretto “non soltanto nei confronti dei singoli datori di lavoro e prestatori di opera, ma anche nei rapporti delle organizzazioni sindacali di grado inferiore le quali, evidentemente, non potevano addivenire a pattuizioni che fossero in contrasto con la regolamentazione di carattere generale posta in essere dalle maggiori associazioni sindacali. 110
Tale conclusione così come indicata non può essere accolta poichè l’art 2077 c.c. applicato nei confronti del contratto collettivo di diritto comune fa sorgere parecchi dubbi.111
D’altro canto l’art 2077 c.c., oltre ad essere non conciliabile con la dimensione liberale dei negozi sorti nel periodo post-costituzionale, fa riferimento
109 X. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx Inderogabilità dei contratti collettivi di diritto comune
110 Cass., 5 maggio 1958 n 1470
111 X. Xxxxxxx, Funzione del contratto collettivo, in nuovo trattato di diritto del lavoro, Padova, 1971; X. Xxxxxx, la funzione giuridica del contratto collettivo di lavoro, in atti del terzo congresso nazionale di diritto del lavoro sul tema Il contratto collettivo di lavoro, Pescara-Teramo, 1-4 giugno 1967, Milano, 1968)
esclusivamente al rapporto tra il contratto collettivo e il contratto individuale e non a quello che intercorre tra contratti collettivi di diverso livello.112
Per permettere l’applicazione della norma, data l’impossibilità di impiegare il criterio cronologico in via analogica, si potrebbe presupporre la negazione del carattere collettivo del contratto collettivo aziendale, facendolo così rientrare nella categoria dei negozi giuridici plurisoggettivi.
In tal senso si era espressa la giurisprudenza113 con la pronuncia di sentenze in merito alla possibilità di applicazione dell’art 2077 c.c. al rapporto tra contratti collettivi di diverso livello.
Diversamente altra dottrina114 aveva individuato come criterio risolutore del conflitto l’art 2113 c.c., che permetteva al singolo di disporre dei propri diritti con l’assistenza del sindacato.115
In realtà la norma sembra riferirsi ad una ipotesi diversa e non alla regolamentazione del conflitto tra negozi collettivi.116
Queste soluzioni, invero, assimilano il problema del conflitto tra regolamenti collettivi con quello del conflitto tra accordo individuale ed accordo collettivo.117 Il problema infatti non riguarda il rapporto tra autonomia collettiva e autonomia individuale, per cui, considerando che l’intesa aziendale ha natura collettiva, le soluzioni da adottare devono fare riferimento alla natura collettiva degli eventuali accordi in conflitto.
112 M. D’Xxxxxx, appunti sulle fonti di determinazione della retribuzione, in riv. Giur. Lav., 1986
113 X. Xxxxxxx, Legge, norma collettiva e contratto aziendale, I Dir. Lav. 1958. Per la giurisprudenza Cass. 5 maggio 1958, n. 1470; Cass 31 marzo 1967, n. 721
114 X. Xxxxxxxx, Xxxxx, giudice e contratto collettivo, in Dir. Lav., 1977
115 X. Xxxxxxxx, ult. Op. cit. “nello stesso modo e secondo la stessa prospettiva in cui il sindacato è abilitato, in relazione ad una sua valutazione di convenienza riferita ad un singolo caso concreto, a consentire che vengano validamente derogate disposizioni di legge, tale abilitazione dovrebbe, a maggior ragione, valere in sede di stipulazione del contratto collettivo.”
Cass. 7 giugno 1985, n. 3419.
116 M. D’Xxxxxx, Appunti sulle fonti di determinazione della retribuzione, in Riv. Giur. Lav., 1986.
000 X. Xxxxxxxxx, il diritto sindacale, Bologna, 1982
Il criterio gerarchico
Per poter risolvere il conflitto tra contratti collettivi di diverso livello si è anche fatto riferimento al c.d. criterio gerarchico, in base al quale il livello decentrato sarebbe subordinato a quello nazionale.
Alcuni hanno ritenuto che possa esserci un rapporto gerarchico “tra atti di autonomia privata”.118
A questa conclusione si giunge in virtù di una graduazione discendente degli interessi collettivi insiti nei diversi atti di autonomia privata.
Giurisprudenza minoritaria motiva l’applicazione del criterio gerarchico con il ricorso al secondo comma dell’art 39 che fa riferimento al contratto di categoria, mentre altra teoria fa ricorso al criterio gerarchico sostenendo che la stessa organizzazione sindacale avrebbe una struttura gerarchica,119 richiamando l’art 19 dello statuto dei lavoratori.120
Questa teoria però non è stata supportata dalla dottrina sul fondamento dell’autonomia delle rappresentanze sindacali121 dato che il collegamento tra rappresentanze sindacali, presenti nei luoghi di lavoro, e le organizzazioni sindacali, firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva indicate dall’art 19, non si sostanzia un rapporto di subordinazione.122
L’organizzazione gerarchica delle rappresentanze sindacali, non trova neppure fondamento nell’art 39 Cost.123, il quale tutela l’azione di qualsiasi sindacato
118 X. Xxxxxxx, Intervento, in Rapporti tra contratti collettivi di diverso livello atti delle giornate di studio AIDLASS Milano 1982
119 Pret. Milano, 30 giugno 1979
120 Cass. 18 gennaio 1978, n. 233
121 X. Xxxxxxx, Procedure e strutture della contrattazione collettiva a livello d’impresa, in riv.
Giur. Lav., 1985; X. Xxxxxx, L’attività sindacale dell’impresa, Milano, 1978; X. Xxxx, Sindacato e rappresentanze aziendali, abologna, 1971; G. F. Xxxxxxx, Commento all’art 19, in X Xxxxxx, G. F. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxxx (a cura di), Commento allo statuto dei diritti dei lavoratori, Bologna-Roma, 1972; X. Xxxxxxx, Commento sull’art 19 in Assanti, Pera (a cura di), Commento allo statuto dei lavoratori, Padova, 1972; X. Xxxxxxxx, X Xxxxxxxxx, IL sindacato, L’associazione sindacale in Il sindacato. Dottrina e giurisprudenza di diritto del lavorodiretto da X. Xxxxxx, Milano, 1984; X. Xxxxxxxxx, Rappresentanza e diritti sindacali in azienda, in Giorn. Dir. lav. Rel ind., 2011
122 X. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Derogabilità del contratto collettivo e livelli di contrattazione, in dir. lav. Rel. ind., 1980
123 X. Xxxxxx, libertà sindacale, in Dig., disc. Priv., vol IX, Torino 1993.
senza considerare l’ampiezza minore o maggiore de, l gruppo che rappresenta124 e anche l’analisi delle organizzazioni125 sulla base dei singoli statuti porta a differenti conclusioni.
Ciò che caratterizza il sindacato, infatti, inteso come formazione sociale intermedia, è l’unitarietà di scopo che non esclude il carattere autonomo e associativo del sindacato e non impone il rapporto gerarchico tra gruppi di minore e maggiore rappresentanza.
Si ha quindi la necessità di coordinazione tra le varie azioni delle varie articolazioni ma non secondo un ordine gerarchico ma coniugando l’autonomia e la libertà di ogni livello nel rispetto dello scopo unitario previsto.
Se anche dallo statuto si evincesse un ordine gerarchico tra le disposizioni, non potrebbe influire nella contrattazione collettiva data la natura obbligatoria delle stesse che non inciderebbero quindi sulla volontà della contrattazione ma, come già in precedenza detto, comporterebbe, in caso di violazione, esclusivamente una responsabilità contrattuale degli agenti negoziali.
Non si può prospettare, neppure tra gli atti di autonomia collettiva, una gerarchia. Nessun fondamento infatti trova l’opinione che l’autonomia collettiva dei gruppi minori sia subordinata all’autonomia collettiva dei gruppi maggiori. Tale concezione poteva essere collegata al periodo corporativo ma se da una parte l’art 39 Cost. fa riferimento all’efficacia erga omnes degli accordi, dall’altra, come già precedentemente esposto, il riferimento all’autonomia collettiva attribuisce uguale rilevanza ai diversi tipi di contrattazione, valorizzando qualsiasi organizzazione sindacale indipendentemente dall’ampiezza del gruppo rappresentato.126
124 X. Xxxxxx, introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, Milano 1960.
125 X. Xxxx, L’organizzazione sindacale. I soggetti, Milano, 1970; X. Xxxx’Xxxx, L’organizzazione e l’azione sindacale, Xxxxxx, 0000; X. Xxxxxxxxx, Il contratto collettivo d’impresa, Milano, 1963; X. Xxxxxxxx, Xx xxxxxxx xxxxxxxxxx, Xxxxxxx, 0000; X. Xxxxxxx, Contratto collettivo e contrattazione in azienda, Milano, 1985; L. Xxxx Xxxxxxxx, Associazione sindacale, in Noviss. Dig.. vol; X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxxxx, in Il sindacato. L’associazione sindacale, Dottrina e giurisprudenza di diritto del lavoro diretto da X. Xxxxxx, Milano,1984; X. Xxxxxxx, Delle associazioni non riconosciute e dei comitati, in Comm. Del cod. Civ., a cura di Xxxxxxxx Xxxxxx, Bologna-Roma, 1967; Id, Persone giuridiche, in commentario al codice civile a cura di Scialoja Branca, Bologna-Roma, 1968
126 X. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Autonomia collettiva, Diritto di sciopero, in saggi di diritto civile, Napoli, 1961; X. Xxxxxx, introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, Milano, 1960; X. Xxxxxxxx, Saggio sull’interesse privato collettivo, Padova,1972.
Il criterio cronologico
Negli anni 80, si ebbe una nuova impostazione giurisprudenziale che ritenne di applicare un criterio cronologico alla successione tra contratti collettivi, anche di diverso livello, per cui nell’ipotesi di successione di contratti, l’ultima pattuizione prevaleva sulle precedenti.127
La giurisprudenza ha sostenuto che il contratto decentrato è un atto negoziale che realizza un’uniforme disciplina dell’interesse collettivo dei lavoratori con efficacia di normativa generale tipica della contrattazione colletiva per cui “non è applicabile la norma dell’ art 2077 c.c. per questo “un accordo aziendale ben può derogare in preius il trattamento previsto (…) da un precedente contratto collettivo nazionale”.128 Perciò il principio generale di diritto comune in base al quale l’ultima pattuizione prevale129, può essere applicato esclusivamente nelle ipotesi di successione di contratti aventi lo stesso oggetto e stipulato dalle medesime parti contrattuali e quindi nelle ipotesi di cià, di successione di contratti collettivi dello stesso livello.
Nel caso di contratti collettivi di diverso livello i soggetti stipulanti non sono gli stessi, così come nella c. d. stipulazione separata che riguarda contratti dello stesso livello con soggetti diversi.
È proprio in questo caso che si pone il problema della prevalenza del contratto successivo su quello precedente soprattutto in relazione ai lavoratori dissenzienti130.
Per i lavoratori non iscritti al sindacato stipulante si applicano i principi di accettazione implicita del contratto collettivo, mediante comportamento
127 Cass., 4 ottobre 1985, n. 4819
128 Cass. 4 ottobre 1985, n. 4819
129 X. Xxxxxxxxxx, Rapporti tra contratti collettivi di diverso livello, in X. Xxxx (a cura di), Le fonti, Il diritto sindacale, Diritto del lavoro, Milano, 2007.
130 X. Xxxxxxxxxx, La contrattazione separata, in X. Xxxxxxx (a cura di), da Pomigliano a Mirafiori: La cronaca si fa storia, in Arg. Dir. Lav., 2010; X. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Efficacia soggettiva del contratto collettivo: accordi separati, dissenzo individuale e clausola di rinvio, in Riv. it. dir. lav., 2010; X. Xxxxxxxxxx, Le nuove regole sulla contrattazione collettiva: problemi giuridici, in Riv. Giur. Lav., 2010; X. Xxxxxxx , Accordi collettivi separati: tra libertà contrattuale e democrazia sindacale, in Riv. it. dir. lav., 2010.
concludente.131 Nei confronti dei lavoratori dissenzienti è come se si considerassero esistenti due contratti collettivi separati per cui non si ha successione tra i due contratti.132
Non può infatti essere sostenuta l’argomentazione della giurisprudenza, in base alla quale i soggetti stipulanti il contratto aziendale posteriore abbiano inteso sostituire “in toto” la disciplina del contratto nazionale. In realtà spesso tra il contratto nazionale e quello aziendale può esistere un rapporto di integrazione, specificazione e/o completamento oltre che di contrasto.
Anche l’applicazione dell’art 12 disp. att. che fa riferimento al criterio cronologico per la soluzione delle antinomie legislative non può essere utilizzato per la soluzione dei conflitti tra contratti collettivi.133
L’art 12 disp. att. determina l’efficacia temporale degli ordinamenti e delle norme limitandone la loro efficacia, ne consegue che, la norma successiva più che derogare alla norma precedente ne limita l’efficacia al passato, attribuendo a quella successiva efficacia per il futuro.134
Il principio generale sopra esposto135 non esclude una sua aplicazone diretta anche alla successione tra contratti collettivi136nonostante questi ultimi137 non siano fonti di diritto in senso proprio.
Solo con l’effetto sostitutivo tra le norme si attribuisce rilevanza alla norma successiva, se ciò non avviene non si attua il principio cronologico.
131 X. Xxxxxxxx, Le relazioni sindacali dopo gli accordi di Pomigliano e Mirafiori, in Lav. Giur., 2011.
132 Trib. Torino, 18 Aprile 2011; Trib. Modena, 22 Aprile 2011; Trib. Torino, 2 Maggio 2011;
Trib. Tolmezzo, 17 Maggio 2011; X. Xxxxxxxxx, Quale contratto collettivo va applicato nel settore metalmeccanico? I giudici si pronunciano sull’antisindacalità del comportamento dei datori di lavoro., in Riv. Prev. oggi, 2011; X. Xxxxxxx, Gli accordi “separati” sono antisindacali? Il “sistema sindacale di fatto” nell’era della disunità sindacale, in Riv. it. dir. lav., 2011; Trib. Monza, 6 Ottobre 2009; App. Brescia, 7 Marzo 2009.
133 X. Xxxxxxx, Xxxxx giuridica (teoria generale), in Enc. Dir., vol. XXVIII; X. Xxxxxxx, Antinomie e lacune, in Enc. Giur., vol. II; X. Xxxxxx, Antinomia, in Nov. Dig. It., vol. I; X. Xxx, X. Xxxxxxxxxxx, Xxxxxxx xxxxxxxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000.
134 X. Xxxxxxx, Xxxxx giuridica (teoria generale), in Enc. Dir., vol. XXVIII
135 X. Xxxxxxx, Xxxxx giuridica (teoria generale), in Enc. Dir., vol. XXVIII
136 X. Xxxxxx, Rapporti tra contratti collettivi di diverso livello: una “svolta” tra continuità e rottura con il passato, in Il Foro it., 1987.
137 X. Xxxxxxx, Ordinamento, ruolo del sindacato, dinamica contrattuale di tutela, Napoli, 1981.
Il riferimento a quest’ultimo, perciò, in casi di successione tra contratti di diverso livello non è convincente, in quanto non si realizza in pieno quell’effetto sostitutivo che ne è il fondamento.
L’effetto sostitutivo si realizza quindi solo quando si tratti di successione di contratti che esprimono una serie di interessi omogenei.
Rilevanza dell’autonomia negoziale
Successivamente nella seconda metà degli anni 80 la giurisprudenza espresso un nuovo orientamento volto a dirimere i conflitti tra i contratti collettivi di diverso livello con la valorizzazione dell’autonomia nazionale delle parti138.139
Si erano superati i criteri di gerarchia e specialità che più si addicevano ai conflitti tra fonti normative, e si ritenne di dare maggiore rilevanza alla volontà delle parti attribuendo alle diverse regolamentazioni della contrattazione collettiva pari dignità e forza ugualmente vincolante. Si valorizzò quindi, maggiormente, l’autonomia negoziale delle parti contraenti mediante un’attenta analisi dell’effettiva volontà di queste ultime.
La Sentenza del 19 Aprile 2006 n. 9052 aveva infatti specificato che: “il rapporto tra contraenti collettivi – come è anche da qualificare il contratto aziendale – di diverso livello deve essere risolto in base non già al principio della subordinazione del contratto collettivo locale a quello nazionale (salva l’espressa previsione di disposizioni di rinvio), nè di quello cronologico (della prevalenza del contratto posteriore nel tempo), ma alla stregua dell’effettiva volontà delle parti operanti in area più vicina agli interessi disciplinati”.
Nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi la Suprema Corte ha ritenuto di applicare il criterio letterale di cui all’art 1362 c.c., che costituisce, comunque sempre il punto di partenza per una corretta interpretazione di ogni clausola, ma anche il criterio logico sistematico di cui all’art 1363 c.c. secondo cui le clausole del contratto vanno interpretate le une per mezzo delle altre. In tema di contratti collettivi, ne consegue che, ove una clausola sia composta da diverse
138 Cass. 5 maggio 1986, n. 1445; Cass. 17 maggio 1985, n. 3047; Cass. 4 febraio 1988, n.
1147; Cass. 1 luglio 1986, n. 4354; Cass. 19 marzo 1987, n. 4758;
139 X. Xx Xxxxxxxx, Recenti tendenze giurisprudenziali sui rapporti tra contratti collettivi; X. Xxxxxxxxx, Osservazione su una recente pronuncia della Cassazione in tema di rapporti tra contratti collettivi di diverso livello, in Riv. It. Dir. lav., 1987; X. Xxxxx, Sull’applicazione del criterio di “specialità” al concorso-conflitto tra contratti collettivi di diverso livello, in Riv. It. Dir. lav., 1987; X. Xxxxxx, X. Xxxxxxxxxx, Rapporti tra contratti collettivi, Milano, 2007; M. D’Antona, Appunti sulla fonte di determinazione della retribuzione, in Riv. Giur. Lav., 1986; X. Xxxx, La contrattazione in deroga, in Da Pomigliano e Mirafiori. Milano, 2012.
parti e diverse disposizioni volte a regolare un solo istituto, la interpretazione delle singole clausole non può prescindere dalla lettura dell’intera clausola.140
Per cui, quando un contratto collettivo richiama fonti esterne o quando queste, seppur non richiamate sono poste a condizione di applicabilità di specifiche clausole, in sede di interpretazione, si deve tener conto anche di queste ultime , in quanto esse possono divenire anche se per relationem parte integrante della disciplina sindacale collettiva.
In ogni caso nella ricostruzione della volontà delle parti si deve tener conto del valore paritetico delle fonti contrattuali in contrasto e, quindi, della possibilità di deroga del contratto collettivo decentrato, sia in melius che in peius, nei confronti del contratto collettivo nazionale.141
La stessa Corte di Cassazione ha affermato che: “ I contratti negoziati a livello aziendale hanno natura ed efficacia di contratti collettivi, sicchè, non applicandosi la disciplina dell’art 2077 c.c., che regola soltanto i rapporti tra contratto collettivo e contratto individuale, la nuova disciplina contenuta in un contratto collettivo aziendale può modificare in senso peggiorativo quella precedente, contenuta in un contratto nazionale”.142
Nonostante tutto, comunque, è lecito dubitare che la valorizzazione della volontà delle parti possa portare ad una risoluzione del conflitto.143
I contratti collettivi, infatti, sono, comunque, espressione delle volontà delle parti, perciò è la volontà contrastante delle parti che si concretizza in regolamentazioni contrastanti. Per cui l’orientamento giurisprudenziale fin qui esposto, appare alquanto contraddittorio in quanto sostiene che per la risoluzione del conflitto tra le diverse volontà e quindi tra le diverse regolamentazioni dei contratti collettivi
140 Cass 17 Xxxxxx 1993, n. 5586; Cass 19 Maggio2003, n. 7847; Cass 4 Marzo 2002, n. 3091;
Cass 5 Xxxxxx 2004, n. 8567; Cass 6 Febb 2005, n. 2469; Cass 21 Xxxxx 2006, n. 6264; Cass
21 Maggio 2009, n. 11834; Cass 7 Ott 2010, n. 20817; Cass. 6 ottobre 2000, n. 13300, in
Notiz. giur. lav., 2001; Cass. 19 maggio 2003, n. 7847, in Giust. Civ. Mas., 2003.
141 X. Xxxxxx, Diritto sindacale, Bari, 1986; Cass 4 Apr 1997 n. 2955 in Giust. Civ. Mass 1997; Cass 4 Nov 2005 n. 21379 in cui la suprema corte aveva ribadito che nei rapporti giuridici di durata, quale è il rapporto di lavoro, alle parti sociali non è inibita la stipulazione di una clausola applicativa rispetto al contratto collettivo precedente.
142 Cass. Sez. Lav. 4 Marzo 1998 n. 2363; Vedi Sentenza 19 Maggio 2003 n. 7847 in Rep. Foro
It 2003, Cass 18 Maggio 2010 n. 12098.
143 X. Xxxx, Xx xxxxxxxxxxxxxx xx xxxxxx, Xxxxxx, 0000; X. Xxxxxxxxx , Rapporti tra contratti collettivi, Milano, 2007.
(nazionale e decentrato) si debba ricorrere alla ricerca della stessa volontà delle parti che ha dato origine al conflitto.
Infatti, nel caso in cui l’interpretazione ermeneutica delle volontà delle parti rilevi l’esistenza di un contrasto tra le volontà, non si può ricorrere, per la composizione del conflitto alla ricostruzione delle stesse volontà tra loro contrastanti, che lo hanno determinato.
L’indagine ermeneutica della volontà delle parti può rivelarsi importante nei casi in cui essendoci più regolamentazioni concorrenti, una può essere posta ad integrazione dell’altra. In tali ipotesi, infatti, si potrà giungere all’applicazione di entrambe le discipline in concorso. 144
144 X. Xxxxxxxx, Contrattazione collettiva, in Dig. Disc. Priv., sez. Comm., IV.
Il criterio di specialità come criterio dirimente del conflitto
In generale, per risolvere i conflitti tra le diverse norme la dottrina ha fatto ricorso anche al principio di specialità, con tale concetto si indica un canone interpretativo delle norme che assicura la prevalenza del precetto specializzato su quello generale.
Esso è quindi una regola interpretativa che tende a limitare il contenuto della norma generale escludendo la sua applicazione alla fattispecie regolata dalla norma più specifica. Per applicare il criterio di specialità è necessario fare una comparazione tra le regole, che impone un accertamento del loro contenuto. La specialità di una norma, infatti, non può essere considerata in sè, ma la “ specialità” si può considerare solo se la norma viene messa in relazione con un’altra a seguito di un’attività interpretativa.
La norma, quindi, può dirsi speciale se, dopo essere stata correlata con un’altra norma, disciplini in modo “più determinato” alcuni tipi di fattispecie che sono anche ricomprese nella norma generale.
Autorevole dottrina sostiene, infatti, che la norma speciale contenga un elemento ulteriore rispetto alla norma generale, proprio in virtù della maggiore determinatezza della norma speciale, perciò, quando una norma speciale concorre con quella generale non si ha una abrogazione della seconda da parte della prima ma soltanto una limitazione dell’estensione dell’efficacia della norma generale da parte della norma speciale che disciplina determinati rapporti.145
Con il passaggio dalla regola generale a quella special, l’applicazione del criterio di specialità, secondo dottrine rilevanti, porterebbe ad un progressivo adeguamento delle regole di giustizia alle articolazioni della realtà sociale, fino a giungere al limite ideale del trattamento diverso per ciascun individuo e quindi alla realizzazione di un principio di giustizia sociale sostanziale.146
000 X. Xxxxx, Xx diritto sindacale e il sistema giuridico, Milano, 1942; N. Irti, Le leggi speciali tra teoria e storia, in L’età della decodificazione, Milano, 1999; P. Coppa- Zuccari, Diritto singolare e diritto territoriale. Studi, I, Modena, 1915.
146 X. Xxxxxx, Sui criteri per risolvere le antinomie, in Studi in onore di Xxxxxxx Xxxxx, Milano 1968
Nel nostro ordinamento il principio di specialità è sancito nell’art 12 disp. att. c.c. come criterio generale per la risoluzione delle antinomie legislative e poi introdotto in materia penale nell’art 15 c.p. .
Successivamente è stato ancora adoperato dalla giurisprudenza giuslavoristica per la soluzione dei conflitti tra le diverse contrattazioni collettive.
Si tratta di un principio di natura teoretica in quanto derivante da una relazione logica tra norme facenti parte di un sistema.147
Si può quindi dire che nel nostro ordinamento il principio di specialità ha assunto una portata generale, nel senso che esso può essere applicabile a qualsiasi tipo di norme, di origine legislativa ma anche ad altre di qualsiasi natura, anche autonoma, poste sempre in relazione con altre norme facenti parte di un sistema per la risoluzione dei conflitti tra clausole sia di natura eteronoma che autonoma e quindi anche per quelle negoziali.
Secondo il Carnelutti “quando i due comandi abbiano una portata diversa, nel senso che uno sia un comando di genere e l’altro un comando di specie, l’antinomia è eliminata per via di interpretazione mediante la regola generi per speciem derogatur, giusta la quale la concorrenza dei due comandi induce a interpretare il più ampio nel senso restrittivo escludendone i casi regolati dal meno ampio; codesta regola deriva dal principio di conservazione del comando, riconosciuto per il comando contrattuale dell’art 1367 c.c., il quale va esteso per analogia ai comandi di qualsiasi altra categoria.148
Il criterio di specialità è stato infatti, adoperato in via analogica anche dalla giurisprudenza per la soluzione dei conflitti tra contratti collettivi sia richiamandolo in modo espresso, sia facendo riferimento alla maggiore “prossimità” del contratto aziendale al rapporto di lavoro.149
Non vi è dubbio, che il rapporto tra regolamentazione nazionale e aziendale sia un rapporto da considerare in termini di genere e specie, cioè nel senso che il contratto aziendale regolamenta in modo più specifico alcuni rapporti di lavoro tra quelli che sono anche regolamentati dal contratto nazionale. Si ha quindi una
147 X. Xxxxxxx, Xxxxx (teoria generale), in Enc. Dir., vol. XXVIII.
148 X. Xxxxxxxxxx, Teoria generale del diritto, Xxxx, 0000.
149 Conf. Cass. 19 Aprile 2006 n. 9052 in Rep. Foto it. 2006 voce lavoro
differenza di estensione dell’applicazione delle norme speciali rispetto a quelle generali tipica del rapporto genere-specie. Per cui il contratto aziendale, in relazione alle materie disciplinate, è da considerarsi speciale rispetto alla contrattazione nazionale.
La giurisprudenza ha fatto ricorso al principio di specialità quando il “contratto nazionale e contratti di portata più limitata possono ritenersi ricompresi in un insieme organizzativamente e funzionalmente coordinato”.150
Tale criterio, ripreso anche da autorevole dottrina, assumeva rilevanza, perciò, anche come criterio di composizione dei conflitti tra contratti collettivi di diverso livello.151
Ciò nasce dalla constatazione di una pluralità differenziata di competenze negoziali all’interno di sistemi di organizzazioni sindacali unitarie complesse, in cui, in mancanza di norme interne di coordinamento, si potesse individuare un “valido titolo” che consentisse al contratto aziendale di “specializzare” la disciplina nazionale.
Altra dottrina facendo riferimento ai soggetti stipulanti sosteneva però che, il principio di specialità potesse essere applicato in casi di contrasto tra regolamentazioni provenienti da soggetti omogenei sotto il profilo della rappresentanza e cioè nei casi in cui i contratti collettivi divergenti fossero stipulati dalle medesime organizzazioni sindacali.152
Tale orientamento è stato accolto anche da parte della giurisprudenza la quale ha approvato il criterio di specialità cioè della prevalenza della contrattazione aziendale, anche peggiorativa rispetto a quella nazionale in quanto più vicina alla fattispecie concreta da regolare, temperandolo con il criterio della competenza e dell’autonomia.
150 Cass. 12 Luglio 1986, n. 4517
151 X. Xxxxxx, Rapporti tra contratti collettivi di diverso livello, in AA. VV, Rapporti tra contratti collettivi di diverso livello. Atti delle giornate di studio di Arezzo del 15-16 maggio 1981, Milano, 1982.
152 X. Xxxxxx, Invervento, in Rapporti tra contratti collettivi di diverso livello op. cit.; X. Xxxxxxx Passerelli, Diritto dei lavori e dell’occupazione, Torino 2017.
Si è ritenuto, infatti, che per considerare l’accordo aziendale derogatorio, in peius, legittimo, si deve tener conto anche della volontà delle parti e dell’intero sistema contrattuale.153
Ciò detto, in applicazione del principio di specialità il contratto aziendale prevale su quello nazionale perchè speciale rispetto a quello nazionale.
Non sempre però la giurisprudenza nella soluzione dei diversi conflitti tra negoziati vi ha fatto ricorso anche in considerazione delle particolari materie su cui la contrattazione aziendale ha operato delle deroghe, anche in peius alla contrattazione collettiva nazionale.
153 Cass. 19 Aprile 2006, n. 9052 in Rep. Foro it., 2006 voce lavoro; Cass. 19 Maggio 2003 n.7847 in Rep. Foro it., 2003 voce lavoro; Cass. 18 Maggio 2010 n. 12098.
Capitolo IV
Rapporti tra legge e contrattazione collettiva
Art. 8 Legge 14 settembre 2011 n.148: innovazione e compatibilità costituzionale
L’art. 8 della legge n.148 del 14 settembre 2011154 rappresenta una grande novità all’interno del diritto del lavoro e delle relazioni sindacali,
154 Art. 8. Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità – 1. I contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, compreso l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, possono realizzare specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali, finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all'avvio di nuove attività.
2. Le specifiche intese di cui al comma 1 possono riguardare la regolazione delle
materie inerenti l'organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento: a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell'orario di lavoro; e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio, il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonché fino ad un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore ed il licenziamento in caso di adozione o affidamento.
2-bis. Fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, le specifiche intese di cui al comma 1 operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro.
3. Le disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell'accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto stesso si riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori. 3- bis. All’articolo 36, comma 1, del decreto legislativo 8 luglio 2003, n. 188, sono apportate le seguenti modifiche: a) all’alinea, le parole: "e la normativa regolamentare, compatibili con la legislazione comunitaria, ed applicate" sono sostituite dalle seguenti: "la normativa regolamentare, compatibili con la legislazione comunitaria, ed applicate" (lettera così modificata dall'art. 37, comma 2, legge n. 27 del 2012); b) dopo la lettera b), è inserita la seguente: "b-bis) regolazione dei trattamenti di lavoro del personale definiti dalla
intervenendo in modo deciso ed autoritario sull’autonomia sindacale, con l’obiettivo di favorire la flessibilità del rapporto di lavoro, conferendo alla contrattazione di secondo livello, detta anche di prossimità, una sempre maggiore rilevanza e centralità.
La disposizione in esame, da un lato, ha profondamente inciso sulla gerarchia della contrattazione in ambito giuslavoristico, attribuendo – come vedremo - ai contratti collettivi sottoscritti a livello aziendale o territoriale la facoltà di derogare – anche in peius - non solo alla disciplina contenuta nella contrattazione nazionale di categoria, ma anche a quella legale di tutela del lavoratore, dall’altro è intervenuto su uno dei nodi più problematici del diritto sindacale, id est l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi, prevedendo, ancorché limitatamente alla contrattazione di secondo livello e a determinate condizioni, che essi producano effetti nei confronti di tutti i lavoratori dell’unità produttiva cui si riferiscono, a prescindere dalla appartenenza alle organizzazioni sindacali firmatarie o dalla sottoscrizione ad opera delle stesse organizzazioni cui appartengono, e quindi con efficacia erga omnes.
Con l’introduzione di tale norma, attraverso una derogabilità assistita o presidiata, già auspicata da autorevole dottrina155 quale linea guida di un futuro cambiamento, il legislatore di fatto ha ribadito il proprio favor verso la contrattazione aziendale o territoriale, ritenendola non solo la più idonea ad adeguare la disciplina generale alle particolari ed eterogenee esigenze delle varie realtà produttive, ma anche il principale strumento attraverso cui cogliere le specificità dei mercati del lavoro nelle diverse aree geografiche e nel quale contemperare al meglio le esigenze di tutela dei lavoratori con i bisogni delle aziende, in un periodo in cui la stessa esistenza e permanenza delle aziende, e per l’effetto dei posti di lavoro, è sempre più minacciata dalla crisi economica e da
contrattazione collettiva svolta dalle organizzazioni più rappresentative a livello nazionale" (lettera così modificata dall'art. 37, comma 2, legge n. 27 del 2012).
155 X. Xxxxx nel saggio Libro Bianco sul mercato del lavoro, pubblicato nell’ottobre del 2001
e in precedenza tale opinione fu presentata dall’insigne giurista al Comitato scientifico di Confindustria riunitosi il 18 aprile 2001 e successivamente pubblicata anche sulla Rivista Italiana di Diritto del lavoro (2001, 257 – 289).
condizioni di mercato impari, dovute alla globalizzazione e ai diversi sistemi legislativi e previdenziali.
In considerazione del suo carattere innovativo, tale intervento normativo è stato definito da alcuni autori come la “rivoluzione di agosto”156 o “una cambiale in bianco rilasciata alla contrattazione collettiva”157, mentre da altri 158 è stata vista addirittura come una controriforma rispetto alla riforma degli assetti contrattuali avvenuta con l’Accordo Interconfedereale del 28 giugno 2011, tendente a rompere il patto di azione tra le tre confederazioni in materia di rappresentatività sindacale e di efficacia del contratto aziendale faticosamente raggiunto, liberando la contrattazione di prossimità dai vincoli posti in tale sede.
Prima della sua introduzione, l’ambito operativo della contrattazione aziendale era compresso, oltre che dall’inderogabilità in peius delle disposizioni previste dalla legge, entro i limiti tassativi ed invalicabili fissati dal contratto collettivo di categoria. Ciò significa che i contratti collettivi aziendali potevano disporre all’interno delle materie ad esso delegate, ma non potevano mai prevedere condizioni lavorative di maggior sfavore per i dipendenti rispetto ai principi dettati dalla legge e dalla Costituzione.
L’effetto dirompente dell’art. 8 della l. 148/11 è quello di consentire una derogabilità, non solo migliorativa ma anche peggiorativa, da parte dei contratti collettivi aziendali o territoriali rispetto alle disposizioni della legge, determinando così un’inversione del rapporto tra fonte legale e fonte contrattuale, il che rappresenta una novità importante in un sistema normativo privo di norme, come quello sindacale.
Non si tratta, però di una deroga assoluta operante in ogni ambito del rapporto di lavoro, ma limitata dal comma II bis alle materie espressamente indicate, nonché testualmente vincolata al rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti da normative europee e dalle convenzioni internazionali, seppure quest’ultima
156 X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, L’articolo 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 e la “rivoluzione di Agosto” del Diritto del lavoro, in W.P. C.S.D.L.E n. 132/2011.
157 X.Xxxxxxx, Introduzione al capezzale del sistema contrattuale: il giudice, il sindacato, il
legislatore, in X.Xxxxxxx (a cura di) Contrattazione in deroga, Xxxxxxx Xxxxx e lavoro diretta da Xxxxxx Xxxxxxx, Ipsoa, 2012, p.32
158 X.Xxxxxx, Inchiesta sul lavoro, perché non dobbiamo avere paura di una grande riforma, Ed. Mondadori, Milano, 2012, pag. 208.
precisazione appare del tutto pleonastica, dal momento che anche ove non previsto i contraenti sono comunque tenuti al rispetto di quanto sancito da tali normative.
L’attribuzione del potere derogatorio alla contrattazione aziendale e territoriale pone dei dubbi di legittimità costituzionale con riguardo agli art. 3 e 117 Cost., co II, lett. m, in base ai quali è garantito una uniformità di trattamento nell’intero territorio nazionale della disciplina in materia di lavoro.
La frammentazione, pur essendo preclusa alla normativa regionale, alla luce dell’art.8, potrebbe essere realizzata pattiziamente attraverso la contrattazione aziendale e territoriale.
In questo la disposizione si distingue nettamente con quanto convenuto nell’Accordo interconfederale del 2011, secondo cui il contratto collettivo nazionale garantisce trattamenti comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale, mentre la contrattazione di secondo livello opera nelle sole materie ad esso delegato da quella nazionale o dalla legge.
In contrario, però, si potrebbe obiettare che la deroga trova pur sempre fondamento in una legge statale e soprattutto che l’affermazione di una necessaria uniformità di trattamento priverebbe di rilevanza, oltre che di margine operativo, l’autonomia collettiva e la libertà sindacale, considerato che ogni contratto implica una diversa regolamentazione.
In realtà, forse la criticità risiede più nella genericità e nella vaghezza dell’elenco delle materie riportate dall’art 8, in quanto in virtù del principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 della Costituzione sono giustificati trattamenti diversi in presenza di fattispecie diverse valutate in base al criterio di ragionevolezza. Tuttavia, l’aver subordinato la produzione di effetti derogatori alla stipula di intese finalizzate al perseguimento di obiettivi incerti probabilmente impedisce tale riscontro, rendendo difficile ogni valutazione.
La deroga al contratto nazionale ad opera di quello aziendale, anche in senso peggiorativo e/o oltre i limiti previsti, invece, è un dato già da tempo ammesso, acquisito e cristallizzato dalla giurisprudenza159 che ne ha affermato la validità,
159 Cass., 18 maggio 2010, n. 12098; Cass., 19 maggio 2003, 7847.
salvo le eventuali responsabilità endoassociative dei soggetti che hanno negoziato in violazione dei vincoli posti dai livelli superiori.
Sul punto, i Giudici di Piazza Cavour ritengono che il contratto aziendale stipulato in violazione delle competenze assegnate dal contratto nazionale non può essere nullo ex 1418, in quanto gli atti di autonomia sindacale non possono essere assimilati a norme imperative di legge160, ma essendo una nuova e successiva regolamentazione dei rapporti tra privati, rispetto alla quale non trova applicazione il criterio gerarchico bensì quello temporale, è da intendersi valido ed efficace, fermo restando impregiudicati i diritti già acquisiti, i quali - essendo entrati a far parte del patrimonio del lavoratore, quale corrispettivo di una prestazione già resa e nell’ambito, quindi, di un rapporto o di una fase già esaurita
– sono intangibili.
Oltre che dalla giurisprudenza, la possibilità per il contratto aziendale di prevedere disposizioni diverse, e quindi anche peggiorative, rispetto al contratto nazionale è stata riconosciuta anche dalle stesse parti sindacali, in quanto espressamente ammessa negli accordi interconfederali del 28.01.2011 (punti 3 e 7) e del 10.01.2014 (parte terza), seppur entro i limiti e secondo le procedure indicate dallo stesso contratto nazionale ed in relazione a specifiche esigenze dei contesti produttivi al fine di fronteggiare e superare situazioni di crisi.
I due livelli di contrattazione (nazionale e decentrato) hanno pari rilevanza e la scelta effettuata dal legislatore – con l’art.8- di attribuire capacità derogatoria solo a livello aziendale non implica alcuna lesione del principio di libertà sindacale sancito dall’art 39 della Costituzione. Tale disposizione, infatti, non tutela solo la libertà dei singoli di associarsi liberamente, ma garantisce anche l’autonomia organizzativa e negoziale del sindacato, nella quale vi rientra inevitabilmente sia la contrattazione nazionale che quella decentrata.
Se, infatti, da un lato è vero che con l’art 39 co 4 i padri costituenti probabilmente intendevano riferirsi alla contrattazione collettiva nazionale, in quanto l’unica all’epoca conosciuta, quale conseguenza del corporativismo, dall’altro non può
160 Cass. 18Maggio 2003, n.9784
che aversi una lettura dinamica e attuale dell’art. 39 co 4 della Costituzione, in guisa di evitare un contrasto con la libertà sindacale di cui al primo comma.
Il riferimento alla deroga dei contratti collettivi nazionali, lasciando trasparire l’esistenza di una gerarchia tra gli atti sindacali esclusa dalla stessa Costituzione, sembra quantomeno improprio.
Ad ogni modo, per effetto dell’art 8 l.148/2011 si è consentito al contratto aziendale o territoriale non solo di sostituirsi a quello concluso a livello superiore anche al di fuori delle materie ad esso delegate, ma anche di avere efficacia generale, producendo effetti nei confronti di tutti i lavoratori, purché con l’assenso delle parti firmatarie e in una casistica delineata, ancorché in modo generico ed impreciso, dalla stessa disposizione di nuova introduzione.
Tale innovazione si pone in un ottica di continuità rispetto all’accordo confederale del 2011, nel quale è previsto l’efficacia del contratto aziendale nei confronti di tutti i lavoratori, a patto che sia approvato dalla maggiorana dei componenti delle RSU ovvero dalle RSA titolari della maggioranza delle deleghe relative all’anno precedente alla stipula.
L’efficacia generale del negoziato aziendale riconosciuta dalla legge, tuttavia, oltre a porre problemi di compatibilità costituzionale con il particolare e complesso meccanismo previsto dall’art 39 della Costituzione, tende a privare di ogni rilevanza il dissenso del singolo lavoratore, il quale in tal modo è obbligato a rispettare quanto in esso previsto, anche laddove non ne condivide il contenuto e/o pur non avendo rilasciato alcuna delega sindacale e quindi non essendo iscritto ad alcuna delle organizzazioni firmatarie. La giurisprudenza precedente all’emanazione dell’art. 8, invece, pur affermando l’applicazione del contratto aziendale a tutti i rapporti di lavoro dell’azienda, riconosceva il diritto al dissenso di natura sindacale, per mezzo del quale si escludeva l’applicazione di tale contratto al lavoratore dissenziente aderente ad una organizzazione sindacale non firmataria, poiché in mancanza di una espressa disposizione legislativa il negozio aziendale non può che avere effetto solo tra le parti161, malgrado talvolta talune pronunce abbiano cercato di estenderne l’efficacia anche ai dissenzienti attraverso
161 Cass. 18.04.2012, n.6044;
vari strumenti non del tutto convincenti, come la ratifica per atti concludenti ex 1399162 ovvero in base all’unicità e indivisibilità dell’interesse collettivo163,
La norma, dunque, finisce per regolare un modello fino a quel momento lasciato alla libera determinazione delle parti, sancendo una efficacia oggettiva e quasi imperativa del contratto aziendale o territoriale, accettando implicitamente il sacrificio delle esigenze del singolo innanzi a quelle della maggioranza.
L’efficacia erga omnes dei contratti di prossimità, seppur limitata nelle materie elencate, determina dei problemi di compatibilità con la struttura sistematica del nostro ordinamento giuridico, in quanto implica l’attribuzione di forza cogente ad un atto che non rientra tra le fonti del diritto, ma è riconducibile all’intero dei negozi di diritto privato, aventi efficacia di legge solo tra le parti ex 1372 c.c..
A ciò si aggiungono ulteriori dubbi di costituzionalità della disposizione dovuti al fatto che il legislatore ordinario di fatto non solo individua una modalità diversa da quella prevista dalla Costituzione per attribuire efficacia generale ai contratti collettivi, ma finisce per eludere e violare il disposto dell’art 39 co 4 della Costituzione, secondo cui “ I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.
Più chiaramente, al fine di consentire ai contratti collettivi di produrre effetti erga omnes, la Costituzione prevede che i sindacati – dopo essersi registrati e aver conseguito personalità giuridica autonoma – formino una rappresentanza unitaria abilitata a contrarre, nella quale ciascun sindacato ha un numero di rappresentati proporzionale al numero degli iscritti.
L’art. 8, invece, persegue lo stesso risultato senza richiedere alcuna registrazione ai sindacati, riconoscendo artificiosamente la legittimità alle organizzazioni sindacali attraverso la maggiore rappresentatività all’interno del comparto di riferimento sia a livello locale che nazionale, forse così richiamando e adeguandosi al criterio maggioritario indicato nella Costituzione nella disciplina dei rapporti e del peso dei diversi sindacati all’interno delle trattative.
162 Cass. 27.01.1988, n.719
Sul punto, tuttavia, autorevole dottrina164 sostiene che “il meccanismo mediante il quale la contrattazione collettiva produce effetti vincolanti erga omnes non può essere manomesso: può essere soltanto attuato o sostituito con le procedure costituzionalmente previste”
La questione relativa alla violazione della procedura stabilita dalla fonte costituzionale sul conseguimento dell’efficacia erga omnes del contratto collettivo, pur avendo particolare rilevanza e potendo implicare il venire meno dell’intero impianto normativo di nuova emanazione, non ha trovato ancora una soluzione certa, poiché la questione non è stata ancora sollevata incidentalmente innanzi la Corte Costituzionale, che dunque non ha avuto modo di pronunciarsi al riguardo.
La tematica, in verità, era stata sollevata dalla Regione Toscana attraverso un giudizio promosso in via principale, ma il Giudice delle leggi165 - dopo aver evidenziato che la materia sindacale e di regolamentazione intersoggettiva del rapporto di lavoro, a cui si riferiscono le specifiche intese dell’art.8, è riconducibile all’ordinamento civile di competenza esclusiva dello Stato – ha escluso una violazione delle competenze regionali rispetto all’art. 39 co 4 Cost. senza quindi entrare nel merito della problematica.
A prescindere dai profili di compatibilità costituzionalità, il legislatore, a fronte della neutralizzazione del dissenso del singolo lavoratore, ha cercato di tutelare la posizione dei lavoratori legando la validità e l’efficacia dei contratti di prossimità ad una doppia condizione di rappresentatività delle organizzazioni firmatarie a monte e a valle del procedimento negoziale.
L’art. 8, infatti, richiede non solo che i contratti di prossimità siano sottoscritti da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale, ma anche che siano sottoscritte dalla maggioranza delle predette rappresentanze sindacali, in modo da raggiungere quanto più possibile l’appartenenza di quanto da essi convenuto ai lavoratori.
164 X. Xxxxxxxxx, Il diritto del lavoro torna al Medioevo, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx;
165 Xxxxx Xxxx, 00 settembre 2012, n. 221.
Struttura e requisiti dell’art 8 l.148/2011
L’art. 8 della legge n.148 del 2011 si compone di cinque commi, di cui i primi tre strettamente connessi e aventi carattere generale, mentre i restanti rispondono ad esigenze concrete, essendo destinati sanare situazioni già esistenti, prevedendo l’estensione della applicazione dei contratti già stipulati a tutto il personale dell’unità produttiva, purché siano approvati a maggioranza dei lavoratori.
La facoltà di derogare alla legge e ai contratti collettivi nazionali, nonché l’efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati, non è attribuita a tutta la contrattazione collettiva, ma solo a quella decentrata, senza peraltro alcuna distinzione tra quella aziendale e territoriale, il che lascia intendere – almeno in linea astratta - una loro possibile coesistenza, a differenza del protocollo del 23 luglio 1993, ove la presenza dell’avverbio “alternativamente” ne escludeva la contemporanea sussistenza.
L’attribuzione di una competenza normativa delegata ai soli contratti di prossimità altro non è che una vera e propria scelta politica del legislatore, basata sul principio di ragionevolezza e incentrata sulla convinzione che la contrattazione di secondo livello è la più idonea a soddisfare le articolate esigenze del mercato, costituendo una sorta di vestito cucito addosso all’azienda.
All’interno dei contratti di prossimità, è previsto che possano acquistare effetti derogatori o efficacia generale solo quelli contenenti specifiche intese concluse al fine di perseguire una delle finalità indicate dalla stessa disposizione, a condizione che siano sottoscritti sulla base di un criterio maggioritario dai sindacati comparativamente più rappresentativi e riguardino un elenco di materie espressamente, ancorché approssimativamente, previsto (comma II).
Non è chiaro, invece, se gli scopi166 a cui devono essere finalizzate le intese costituiscano o meno un vero e proprio requisito necessario per la produzione di effetti generali e derogatori.
166 Gli obiettivi delle intese di cui all’art 8 co 1 sono: la maggiore occupazione, la qualità dei contratti di lavoro, l’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, l’emersione del lavoro irregolare, gli incrementi di competitività e di salario, la gestione delle crisi aziendali e occupazionali, gli investimenti e l’avvio di nuove attività.
Dall’analisi del tenore letterale della norma, tuttavia, appare evidente come trattasi di finalità particolarmente generiche e così vaghe da essere tendenzialmente incluse o comunque facilmente inseribili in quasi ogni accordo da stipulare.
Per tale motivo, autorevole dottrina167 ritiene che essi non costituiscano un vero e proprio requisito dei patti in deroga, tale da condizionare e limitare la capacità del contratto di prossimità di produrre i suoi effetti, ma rappresentino una sorte di giustificazione politica per la scelta legislativa compiuta, volta a favorire la competitività delle imprese con una maggiore flessibilità e una diminuzione di tutele a salvaguardia dei livelli occupazionali.
In contrario, altra parte della dottrina168 sostiene che si tratti un vero e proprio requisito teleologico che connota i contratti di secondo livello come contratti c.d. “di scopo”, con la conseguenza che la loro assenza è ostativa alla produzione degli effetti indicati dalla disposizione.
Ciò detto, in ordine ai restanti requisiti si pongono diversi profili che meritano un approfondimento, con particolare attenzione alla legittimazione attiva dei sindacati e alla natura tassativa o meno delle materie indicate.
Con riguardo al primo aspetto, il testo della norma fa riferimento non a qualsiasi soggetto collettivo, ma subordina l’efficacia generale e il potere derogatorio alla sottoscrizione delle intese ad opere delle “ associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero alle rappresentanze sindacali operanti in azienda”. In tal modo il legislatore si astiene dal definire e delineare i contorni della regola maggioritaria, rimettendo alla competenza delle organizzazioni sindacali la concretizzazione di tale aspetto. Tale criterio, adottato in origine dal legislatore al fine di debellare i c.d. contratti- xxxxxx000, costituisce un vero e proprio filtro di accesso, attraverso cui il
167 X.Xxxxx, La contrattazione in deroga. Problematicità, in X.Xxxxxxx (a cura di) Contrattazione in deroga, Xxxxxxx Xxxxx e lavoro diretta da XXXXXX XXXXXXX, IPSOA, 2012 168 X. Xxxxxxx, Al capezzale del sistema contrattuale: il giudice, il sindacato, il legislatore, cit.,
p. 15. Contra, per l’opinione secondo cui l’elenco delle materie e delle finalità sarebbe tassativo, X. Xxxxxxx e X. Xxxxxxxx, L’articolo 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 e la “rivoluzione di Agosto” del Diritto del lavoro, ;
169 Con tale espressione si indicano accordi “negoziati e poi firmati da sindacati minori, privi
di una reale rappresentatività, e da compiacenti associazioni al fine di costituire una alternativa rispetto al contratto collettivo nazionale di lavoro, in modo da consentire al datore di lavoro di assumere formalmente la posizione giuridica- e, quindi, i conseguenti
legislatore pone una stretta connessione tra la facoltà di stipulare contratti di prossimità con efficacia generale o in deroga e il raggiungimento di una certa soglia di rappresentatività da parte dei soggetti firmatari, la cui sussistenza può essere accertata tanto a livello nazionale, quanto a livello territoriale, facendo riferimento ai criteri dell’Accordo interconfederale del 2011, e quindi in base al numero delle deleghe e dei voti raccolti da ciascun sindacato nelle elezioni del r.s.u170, ovvero mediante una verifica verosimilmente ex post da parte dell’autorità giudiziaria in base agli indicatori presuntivi elaborati dalla giurisprudenza, quali ad esempio: numero di iscritti, diffusione uniforme sul territorio, partecipazione costante alle trattative sindacali, presenza in diverse categorie.
Il concetto di sindacato comparativamente più rappresentativo, ad ogni modo, si ritiene essere una «escogitazione linguistica intelligente e feconda»171 a cui ha fatto ricorso il legislatore per sostituire il criterio del sindacato maggiormente rappresentativo, in quanto ritenuto presumibilmente più efficace e protettivo delle esigenze specifiche delle singole categorie, tenuto conto che i contratti sottoscritti da una coalizione comparativamente minoritaria nella categoria, anche se maggioritaria nel complesso, potrebbero essere ottenuti al “ribasso” rispetto a
vantaggi – di chi applica un contratto collettivo”. In tal senso X. XXXXXXX, Accordi collettivi separati: tra libertà contrattuale e democrazia sindacale, in RIDL, 2010, n. 1, I, 29 ss.
170 Proprio in ambito, recentemente (20 settembre 2019) è stata stipulata una Convenzione
per la misurazione della rappresentanza dei sindacati dei lavoratori nelle aziende del sistema Confindustria tra INPS, Confindustria, Ispettorato Nazionale del Lavoro, Cgil, Cisl e Uil, in forza della quale viene affidata all’Inps la rilevazione dei dati degli iscritti alle organizzazioni sindacali, il cosiddetto “dato associativo” (il rapporto fra lavoratori iscritti a ogni organizzazione e il totale degli iscritti al sindacato), nonchè la raccolta di dati relativi alle rappresentanze nelle aziende, il cosiddetto “dato elettorale” (il rapporto fra lavoratori che, nelle elezioni delle rappresentanze sindacali aziendali, hanno votato la specifica organizzazione sindacale e il totale dei lavoratori che hanno preso parte al processo elettorale). Alla base di tale intesa, volta a favorire la misurazione della rappresentanza delle organizzazioni sindacali dei lavoratori, vi è la forte volontà di limitare la proliferazione di contratti collettivi stipulati da soggetti privi di effettiva rappresentanza, tenuto conto che il Cnel su 868 contratti collettivi depositati aveva valutato in circa 2/3 l’incidenza di “contratti pirata”, garantendo in tal modo una maggiore trasparenza durante la contrattazione e probabilmente una maggiore forza anche a quei contratti effettivamente stipulati da organizzazioni più rappresentative.
171 X. Xxxxxx, Intervento, in AA.VV., Autonomia collettiva e occupazione. Atti del 2°Congresso nazionale di diritto del lavoro, Milano, 23-25 maggio 1997 Xxxxxxx, 1998, 240.
quanto la coalizione maggioritaria potrebbe ottenere nel medesimo ambito categoriale.
La novità in tema di rappresentatività risiede nel fatto che può essere misurata anche a livello territoriale, malgrado a causa dell’imprecisione del testo normativo che non sia stato circoscritto l’ambito di riferimento, generando così dubbi interpretativi ed operativi in ordine alla rilevanza di tipo regionale, provinciale o comunale, con il rischio che possano essere legittimate anche organizzazioni con una rappresentatività molto limitata nello spazio.
Il legislatore, oltre alle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, riconosce la legittimazione a stipulare contratti aziendali o territoriali anche alla rappresentanze sindacali operanti in azienda, rinviando ai fini della loro determinazione alla legge e agli accordi interconfederali, citando espressamente l’Accordo del 28 giugno 2011.
In base agli accodi interconfederali, peraltro riconfermati con l’accordo del 10.1.2014, in ottemperanza all’impegno assunto dalle confederazioni sindacali, si sta provvedendo progressivamente alla sostituzione delle Rsa con le Rappresentanze sindacali unitarie (Rsu). Queste possono essere costituite nelle unità produttive con più di quindici dipendenti mediante elezione a suffragio universale e a scrutinio segreto da parte dei sindacati aderenti alle confederazioni firmatarie dell’accordo o alle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale di lavoro applicato all’unità produttiva.
La Corte Costituzionale172, tuttavia, ha espressamente esteso la legittimazione a costituire Rsu anche alle organizzazioni sindacali di categoria non confederali o non firmatarie, purché abbiano partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti, malgrado poi non lo abbiano sottoscritto.
Quanto alla natura dell’elenco delle materie riportato nell’art. 8, alla luce di quanto affermato dalla Corte Costituzionale173, non residua più alcun dubbio in ordine al suo carattere restrittivo e tassativo.
In tal senso, infatti, si è espressa il Giudice delle leggi che, chiamata a vagliare la legittimità costituzionale dell’art. 8 L. 148/2011 con riferimento agli art. 39, 117,
172 Corte Cost n. 231/2013
000 Xxxxx Xxxx, 000/0000.
3 comma e 118 Cost., in seguito ad un giudizio promosso in via principale dalla regione Toscana, ha ritenuto che“ il suddetto elenco ha carattere tassativo, come si desume sia dall’espressione utilizzata dal legislatore (“con riferimento” alle specifiche materie indicate), sia – ed ancora più chiaramente – dal dettato dell’art. 8, comma 2 – bis, alla stregua del quale “le specifiche intese di cui al comma 1 operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi di lavoro”. “Ciò significa che l’effetto derogatorio previsto dal citato comma 2-bis opera in relazione alle materie richiamate dal comma 2 e non ad altre. Inoltre, trattandosi di norma avente carattere chiaramente eccezionale, non si applica oltre i casi e i tempi da essa considerati”. Del resto, l’indicazione di un elenco di materie non avrebbe avuto alcun senso laddove poi si consenta di operare anche al di fuori di esse.
Pertanto, trattandosi di norma eccezionale che non può trovare applicazione al di fuori dei casi espressamente previsti dallo stesso art. 8 l.148/11, i conflitti tra contratti collettivi di diverso livello non rientranti in tali ipotesi continueranno ad essere affrontati e risolti con i normali criteri elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza e quindi con il criterio gerarchico, di specialità o attraverso la ricerca della intenzione delle parti.
Le deroghe poste dai contratti collettivi aziendali o territoriali alle disposizioni di legge incontrano un limite - testualmente previsto al co II bis - nel rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti da normative europee e dalle convenzioni internazionali, tuttavia ciò appare una precisazione pleonastica, dal momento che anche ove non previsto i contraenti sono comunque tenuti al rispetto di quanto sancito da tali normative.
Considerazioni finali
Dopo avere esaminato la evoluzione della contrattazione collettiva, sia attraverso l’analisi degli accordi interconfederali succedutisi nel tempo, che analizzando le tesi della dottrina e le pronunce giurisprudenziali, risulta evidente che la contrattazione collettiva presenti ancora notevoli criticità.
In primo luogo si è rilevato che il mutare delle condizioni politico economiche ha determinato un spostamento della centralità e dell’importanza della contrattazione collettiva dal livello centrale a quello periferico, al fine di adattarsi quanto più possibile alle reali esigenze produttive e alle contingenti condizioni sociali.
Inizialmente, l’autonomia collettiva aveva come principale obiettivo la tutela dei diritti basilari dei lavoratori da effettuarsi attraverso la contrattazione nazionale, mentre la contrattazione di secondo livello - con ciò intendendosi tanto quella aziendale, quanto quella territoriale – veniva utilizzata nelle materie delegate e in conformità alla cornice delineata dal livello superiore per garantire diritti aggiuntivi e benefici ulteriori, essendo finalizzata ad una condivisione dei profitti dell’azienda.
In seguito, con le mutate condizioni socio economiche e con la globalizzazione dei servizi e delle imprese, alla contrattazione di secondo livello veniva assegnato il compito di favorire la flessibilità, anche derogando in peius ai diritti sanciti dai contratti nazionali e dalla legge, per cercare di mantenere i livelli occupazionali e favorire lo sviluppo delle aziende che si trovavano a competere in un mercato globalizzato in cui, la presenza di paletti troppo rigidi, avrebbe reso non competitive le stesse aziende rispetto ai loro competitor internazionali. A fronte di questa riduzione delle tutele i lavoratori acquisivano un maggior peso all’interno delle aziende partecipando direttamente alla pianificazione strategica e alle scelte produttive delle aziende stesse.
Con la globalizzazione si è assistito inoltre ad una modificazione del classico sistema sindacale italiano, precedentemente caratterizzato da una quasi egemonia della “triplice” CGIL CISL UIL, con la comparsa di altre sigle sindacali, di
nicchia, con una rapresentanza numerica bassa a livello assoluto, ma rilevante relativamente ad un comparto o addirittura ad una singola azienda.
Queste mutate condizioni hanno reso necessario un intervento per favorire la gestione della rappresentanza esitato negli accordi del 2011 e nel TU del 2014 che ha interessato oltre che le organizzazioni dei lavoratori anche le organizzazioni datoriali.
Nel più recente passato, e anche attualmente, la riduzione delle tutele dei lavoratori, consentita da accordi e norme di legge, e dalla frammentazione delle rappresentanze datoriali e dei lavoratori, ha causato il cosiddetto fenomeno del dumping contrattuale con sottoscrizione di contratti nazionali che interessavano comparti molto piccoli nei quali era prevista una notevole riduzione dei diritti e garanzie per i lavoratori.
A fronte di una materia così complessa gli interventi del legislatore non sono stati frequenti. La mancanza di una norma precisa di riferimento, fa si che si parli di “diritto senza norme”. La presenza di diversi contratti nazionali che interessano coorti di lavoratori che spesso si sovrappongno e la possibilità che ci siano contratti di diverso livello che possono derogare agli accordi nazionali e, in certi casi anche alla legge, provocano spesso l’insorgenza di conflitti che devono essere risolti attraverso il ricorso alla giurisprudenza o facendo riferimento a elaborazioni dottrinali.
Sia la dottrina che la giurisprudenza hanno indicato soluzioni che tenevano conto di criteri correlati alle condizioni politiche e economiche contingenti e che per questa ragione talvolta sono state mutevoli.
Ci si può chiedere quindi se sia necessario proporre una modifica dei modelli di governance della contrattazione collettiva e quali possano essre i modelli proposti. Le alternative possibili sono sostanzialmente tre
Applicazione dell’art 39 della Costituzione.
La più radicale delle proposte potrebbe essere quella di dare una concreta applicazione alle disposizioni dei padri costituenti, che prevedevano una registrazione dei sindacati legata al numero dei loro iscritti. La mancanza di una legge di attuazione e probabilmente la mancata volontà da parte dei sindacati di
volere misurare concretamente il peso dei loro tesserati, ha reso di fatto poco attuabile una applicazione concreta di questo articolo. Di contro questa mancata applicazione ha fatto si che non possa essere imposta una validità erga omnes dei contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali. Si deve prendere atto che, se negli ultimi 71 anni non si è riusciti ad attuare compiutamente l’art 39, probabilmente non sarà possibile farlo nel futuro, a meno di una modifica dello stesso che, per il lungo prcedimento di modifica costituzionale, sembra quantomeno improbabile.
Emanazione di una norma di legge specifica
Un altro modo di migliorare la governance potrebbe essere l’emanazione di una legge ad hoc che regoli la contrattazione collettiva. Un tentativo in tal senso deve essere considerato l’art 8 della L 148/11, che come si è visto ha prodotto alcune criticità (probabilmente è una delle cause del dumping contrattuale) e ha causato dispute sulla sua costituzionalità. Qualsiasi norma di legge, emanata in un contesto politico sociale specifico, tenderebbe comunque ad imporre delle regole rigide correlate alle esigenze contingenti ma che, al mutare delle condizioni, potrebbero risultare troppo poco flessibili per consentire un ragionevole compromesso tra i diritti delle due parti contraenti, che consenta di affrontare mutate condizioni sociali. D’altronde si è visto come già fin dalla sua emanazione l’art 8 sia stato soggetto a critiche e a modifiche, quasi a sottolineare il concetto sopra indicato ovvero che una legge può risultare troppo “stringente” e mal si adatta ad un argomento come quello della contrattazione collettiva, che ha necessità di frequenti e rapidi adattamenti a mutate condizioni socio economiche. Probabilmente si potrebbe pensare ad un’intervento legislativo relativo alla rappresentanza che, senza avere la pretesa di fare appllicare l’art 39 della Costituzione, possa favorire una migliore valutazione della rappresentanza cercando di porre un limite alla sottoscrizione di contratti che abbiano una rappresentanza troppo bassa. L’evidente esigenza che la norma dovrebbe prevedere anche delle deroghe legate a specifiche condizioni territoriali o strutturali di azienda (numero di occupati, volume di affari etc) dimostra quanto possa essere complessa la redazione di una siffatta norma.