COMMISSIONE LAVORO E PREVIDENZA SOCIALE CAMERA DEI DEPUTATI
COMMISSIONE LAVORO E PREVIDENZA SOCIALE CAMERA DEI DEPUTATI
SENATO DELLA REPUBBLICA
XXXXXX DI DECRETI LEGISLATIVI RECANTI DISPOSIZIONI IN MATERIA DI CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO A TUTELE CRESCENTI E DI RIORDINO DELLA NORMATIVA IN MATERIA DI AMMORTIZZATORI SOCIALI IN CASO DI DISOCCUPAZIONE INVOLONTARIA E DI RICOLLOCAZIONE DEI LAVORATORI DISOCCUPATI
Gennaio 2015
Gli schemi di decreti legislativi in esame costituiscono le prime disposizioni attuative di un ambizioso progetto di riforma del lavoro (il cosiddetto “Jobs Act”), ispirato ad un rinnovamento strutturale complessivo del mercato del lavoro, con l’obiettivo di favorire il rilancio dell’occupazione attraverso forme stabili di contratti di lavoro.
Da questo punto di vista, da parte del Governo non è corrisposta, però, analoga attenzione sui temi di politica industriale, inquadrando il percorso riformatore di politica del lavoro avviato con il Jobs Act in un organico progetto di sviluppo dell’economia e della competitività delle aziende, di ampio respiro, unendo le politiche di rilancio dell’occupazione in sinergia con politiche di sostegno agli investimenti.
A tal fine, sarebbe stato auspicabile un maggiore coinvolgimento della Parti Sociali e, in particolare, per quanto riguarda la categoria dei dirigenti, delle scriventi Organizzazioni di rappresentanza, che avrebbero potuto fornire un quadro esplicativo della realtà produttiva italiana, anche considerando che sono proprio i manager ad essere chiamati a dare concreta attuazione alle riforme del lavoro a livello aziendale.
Contratto a tutele crescenti
Se l’impianto complessivo dello schema di decreto in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti appare certamente condivisibile, tuttavia, riteniamo opportuno esprimere alcune considerazioni per consentire un migliore perseguimento degli obiettivi prefissati dalla riforma.
Per quanto di nostro specifico interesse, dobbiamo rilevare come il legislatore abbia scelto di non prendere in considerazione i dirigenti nell’ambito di applicazione della riforma, escludendo la nostra categoria del complesso delle disposizioni in esame, evidentemente alla luce della peculiare disciplina giuslavoristica che per la categoria dei dirigenti esclude la tutela reale con conseguente impossibilità di reintegra sul posto di lavoro.
Ciò oltre a non essere coerente con l’obiettivo generale di garantire stabilità ai rapporti di lavoro, introduce evidenti profili discriminatori da cui si possono generare contenziosi anche in termini di coerenza rispetto alla normativa comunitaria.
Da questo punto di vista, si ricorda come recentemente il nostro legislatore è dovuto intervenire con la Legge 30 ottobre 2014 n. 161 (cd. “Legge Europea 2013-Bis”) per adeguare la normativa di cui agli artt. 4 e 24 della Legge n. 223/1991, nella parte in cui escludeva la categoria dei dirigenti dall’ambito di applicazione delle procedure di licenziamento collettivo per riduzione di personale, a seguito della sentenza della Corte di Giustizia Europea C-596/2012 del 13/02/2014, che ha condannato l’Italia per non aver recepito la Direttiva comunitaria 98/59/CE, al fine di avvicinare le legislazioni degli Stati membri dell’UE, prevedendo l’applicazione delle procedure di licenziamento collettivo nei confronti di tutti i dipendenti dell’azienda, compresi i dirigenti.
Tra le incongruenze che derivano dall’esclusione dei dirigenti dalla normativa in esame si segnala, in particolare, la nuova disciplina dell’offerta di conciliazione (art. 6) che il datore di lavoro può attivare per evitare il possibile contenzioso giudiziario successivo al licenziamento.
E’ paradossale che tale nuovo strumento conciliativo, introdotto con l’espressa volontà di deflazionare il contenzioso giudiziario del lavoro, non venga esteso anche ai casi di licenziamento dei dirigenti a cui, nella pratica comune, spesso il datore di lavoro fa seguire una proposta transattiva, proprio per evitare ogni possibile impugnazione successiva e riconoscere l’estinzione definitiva del rapporto di lavoro alla data del licenziamento.
Tenendo conto che, nella nuova fattispecie conciliativa, l’importo offerto dal datore di lavoro non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettato a contribuzione previdenziale, appare ancora più evidente che l’esclusione della categoria dei dirigenti dal suddetto ambito di applicazione costituisce un elemento di discriminazione per i dirigenti.
Tale incongruenza potrebbe essere sanata introducendo la possibilità che:
- la risoluzione del rapporto di lavoro, a seguito della procedura conciliativa, venga qualificata come risoluzione consensuale (mantenendo la possibilità per i lavoratori di fruire della Naspi);
- il datore di lavoro possa offrire al lavoratore anche un’ulteriore somma, oltre all’assegno circolare dell’offerta di conciliazione, a titolo di transazione e/o incentivo all’esodo, per definire ogni altra questione derivante dall’intercorso rapporto di lavoro, definendo in modo “tombale” ogni possibile controversia.
L’intervento estensivo della nuova procedura di conciliazione facoltativa a favore dei dirigenti andrebbe completato con la possibilità che il dirigente interessato sottoscriva un successivo contratto di ricollocazione (di cui all’art. 17 del decreto legislativo sugli ammortizzatori sociali e sulla ricollocazione), ritenendo, anche in questo caso, limitativa la previsione per cui il contratto di
ricollocazione possa attivarsi solo nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per licenziamento collettivo.
Questo in considerazione del fatto che l’accesso alle misure di ricollocazione andrebbe consentito ad ogni lavoratore, inclusi i dirigenti, a prescindere dalla legittimità o meno del licenziamento, per cui, diversamente, l’efficacia degli strumenti di politica attiva del lavoro sarebbe subordinata alla definizione di un eventuale contenzioso giudiziario.
Nel merito di un’analisi più generale sul provvedimento, occorre segnalare come la scelta di non applicare la nuova disciplina normativa a tutti i rapporti di lavoro - ma solo alle nuove assunzioni attivate nel 2015 - sul piano tecnico potrebbe generare incertezze e contenziosi – specie con riferimento ai casi di licenziamento collettivo - in quanto viene evidentemente a crearsi un regime di tutela diversificato a seconda della data di assunzione, considerato che per i dipendenti già in forza all’entrata in vigore del decreto legge in commento resta in essere la disciplina della Legge Fornero.
Inoltre, dopo gli innumerevoli tentativi di lanciare il contratto di apprendistato - per definizione un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato - come principale canale di ingresso nel mondo del lavoro, la nuova disciplina introdotta per il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e la mancata specificazione circa la sua applicazione anche agli apprendisti non fa che frapporsi, ancora una volta, al raggiungimento dell’obiettivo, in quanto tale formula contrattuale può essere considerata come una valida e più conveniente alternativa all’apprendistato, alla luce di un trattamento contributivo più favorevole e di una maggiore semplicità procedurale.
Per quanto riguarda le fattispecie di licenziamento per cui è prevista la reintegra nel caso in cui sia dimostrata in giudizio l’“insussistenza del fatto materiale contestato”, si fa riferimento al fatto oggettivo e materiale, escludendo qualsiasi valutazione giudiziale sulla gravità dell’inadempimento e sulla proporzionalità del licenziamento rispetto ad essa. Per conseguenza, anche un inadempimento di modica entità potrebbe essere, per i neoassunti, causa di licenziamento.
Si potrebbe assistere, pertanto, ad una doppia discriminazione soggettiva – ricordando che per i dipendenti già in forza all’entrata in vigore del decreto legge in commento, resta in essere la Legge Fornero – non soltanto quella legata alla diversa data di assunzione ma altresì al diverso grado di inadempimento: una medesima condotta illecita sul posto di lavoro potrebbe dar vita a due sanzioni differenti o, nella peggiore delle ipotesi, come potrebbe accadere, ad esempio, nel caso di un inadempimento di lieve entità, al licenziamento di uno solo dei soggetti in questione.
Riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali
Passando al secondo schema di decreto legislativo, recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, occorre innanzitutto segnalare che nel ridefinire le politiche dell’occupazione ci si aspettava più coraggio.
Considerato l’assunto del Governo - collegare il sostegno al reddito alla ricerca di nuova occupazione - abbiamo sperato che venisse rovesciata l’attuale impostazione sugli investimenti nelle politiche del lavoro; al contrario anche nel Jobs Act vi è un forte disallineamento tra gli stanziamenti relativi alle politiche attive e quelli relativi alle politiche passive.
Solo per il 2015 a fronte di una spesa complessiva di 2.200 milioni di euro destinati alle politiche passive è prevista una spesa di soli 50 milioni per il contratto di ricollocazione.
Riguardo a tale fattispecie, applicabile anche alla figura del dirigente, ribadiamo la necessità di non limitare il contratto di ricollocazione solo ai casi di “giustificato motivo oggettivo” e di “licenziamento collettivo”. Riteniamo, inoltre, percorribile e auspicabile l’ipotesi di prevedere forme di compartecipazione da parte dei datori di lavoro al voucher consegnato dal Centro per l’impiego, come sostegno alle politiche di workfare.
In linea generale, con l’obiettivo di puntare da subito sull’attivazione di politiche di orientamento, formazione e placement e su queste investire più risorse possibili, manca un quadro regolatorio sull’integrazione tra politiche pubbliche e non, che enfatizzi l’utilità dell’intervento delle parti sociali con propri strumenti bilaterali per integrare il sistema pubblico.
Sotto questo profilo molto possono fare, ad esempio, i Fondi interprofessionali per la formazione continua. Come noto, tali Fondi finanziano piani formativi per i dipendenti delle aziende ad essi iscritte; i destinatari della formazione devono avere un rapporto di lavoro subordinato presso le imprese che contribuiscono al Fondo che eroga la formazione.
La Legge n. 2/2009, all’art. 19, comma 7, ha introdotto una parziale apertura anche nei confronti di soggetti inoccupati per i quali non è versata la contribuzione da parte delle imprese pari allo 0,30% della retribuzione per la formazione continua interprofessionale, consentendo a tutti i Fondi interprofessionali una deroga a favore dei lavoratori disoccupati finalizzata al sostegno al reddito.
Non solo per il perdurare della crisi, ma anche al fine di percorrere forme nuove di integrazione pubblico-privato, chiediamo che si possa dare ai predetti Fondi la possibilità di agire a favore dei lavoratori disoccupati, con l’erogazione di appositi servizi, quali misure di formazione legata al placement, senza gli attuali vincoli normativi che appaiono veramente anacronistici.
Da questo punto di vista, sarebbe opportuno vincolare una quota degli investimenti dei predetti Fondi interprofessionali (ad esempio il 20% del montante complessivo) a sostegno dell’occupazione e ricollocazione, destinando tali risorse ad appositi strumenti di politica attiva del lavoro.
In sintesi, occorre facilitare una efficiente gestione dei Fondi, slegando la loro attività dai vincoli burocratici e normativi collegati alla gestione di denaro pubblico, nonché coordinare le competenze concorrenti in materia di formazione, per migliorare l’efficacia degli strumenti, evitando la dispersione delle risorse diversamente dedicate alla formazione continua e coordinando gli interventi promossi in sede nazionale con quelli di carattere regionale o territoriale.
Per quanto riguarda la Nuova Aspi, lo schema di decreto legislativo sugli ammortizzatori sociali non esclude l’applicazione anche alla categoria dei dirigenti, tuttavia va detto che la maggior parte dei dirigenti esce dall’azienda con un accordo transattivo e quindi non ha diritto a percepire il nuovo trattamento di disoccupazione nonostante che, in costanza di rapporto, l’azienda abbia versato l’aliquota dell’1,61% per l’assicurazione contro la disoccupazione.
E’ chiaro, quindi, che per tale specifica figura le Organizzazioni di rappresentanza si sono attivate insieme con le loro controparti per integrare tramite i CCNL il modello pubblico di politiche di sostegno al reddito e ricerca di nuova occupazione, considerando che dal 2008 al 2014 circa
60.000 manager hanno perso il posto di lavoro e, tra questi, chi è rientrato nel tessuto produttivo solo in parte lo ha fatto con la qualifica di dirigente, ma spesso come collaboratore d’impresa o come quadro.
Sono state adottate misure contrattuali per il riposizionamento professionale dei dirigenti non occupati, per il bilancio delle competenze e la loro certificazione, specie per agevolare l’incontro con quelle piccole e medie imprese che intendessero cogliere opportunità di sviluppo e di crescita.
Ma il modello della bilateralità può aiutare a regolare il mercato del lavoro e può sostenere i livelli occupazionali a condizione che vi siano regole certe e forme di incentivo, che nello schema di decreto legislativo mancano del tutto.