CONVEGNO “LE NOVITA’ DEL CONTENZIOSO BANCARIO ED IL LORO IMPATTO SUL QUESITO”; 28 OTTOBRE 2016
CONVEGNO “LE NOVITA’ DEL CONTENZIOSO BANCARIO ED IL LORO IMPATTO SUL QUESITO”; 28 OTTOBRE 2016
I CONTRATTI BANCARI: OBBLIGO DI FORMA SCRITTA
Contratto di apertura di credito
L’apertura di credito è il contratto con il quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell’accreditato una somma di denaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato (art. 1842 c.c.).
Si distingue dal mutuo in quanto mentre nell’apertura di credito la banca si impegna a tenere una somma di denaro a disposizione (per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato) del cliente, il quale potrà eventualmente utilizzarla anche subito dopo la stipulazione, il secondo è un contratto reale, con il quale una parte consegna all’altra, che si obbliga a restituirla, una determinata quantità di denaro o di altre cose fungibili (si cfr. Cassazione Civile 1225/2000).
L’apertura di credito si perfeziona a prescindere dalla consegna del denaro e non è assimilabile ad un contratto reale, atteso che la causa tipica del contratto consiste nell’attribuzione del godimento di una disponibilità, di per sé in grado di soddisfare un interesse dell’accreditato meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico. L’accreditato non acquista la proprietà di tale somma, ma diviene titolare del diritto di pretenderne dalla banca la corresponsione, acquisendone la disponibilità finanziaria solo qualora ne dovesse disporre. Ciò esclude che le somme disponibili possano essere trasferite a terzi o possano costituire oggetto di cessione di crediti a terzi ovvero possano essere sequestrate o pignorate dai creditori dell’affidato; né i creditori possono ricorrere all’azione surrogatoria, visto che la disponibilità del denaro è rimessa esclusivamente alla volontà del cliente della banca. Si tratta, invece, di un contratto consensuale ad effetti obbligatori, in quanto la banca si obbliga a
tenere a disposizione del cliente una somma di denaro, della quale rimane proprietaria sino al momento dell’utilizzazione da parte dell’accreditato, sul quale peraltro non grava alcun obbligo di farne effettivamente uso, salvo diversa specifica pattuizione.
Dalla predetta qualificazione consegue che il contratto di apertura di credito, ancorché accompagnato da contestuale dazione di ipoteca, non può essere considerato titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474 c.p.c. né può essere posto a fondamento di una azione esecutiva atteso che non documenta l'esistenza attuale, né certa di un credito della banca ma la semplice messa a disposizione del cliente del fido, mentre l'obbligo di restituire dipende dall'effettivo e successivo utilizzo della provvista (nell'apertura semplice), seguito dalla revoca dell'affidamento (nell'apertura in conto corrente (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 18182 del 09/09/2004).
Uno degli effetti del perfezionarsi del contratto, nascente già con la creazione della disponibilità, è rappresentato dal fatto che l’eventuale inadempimento della banca nella effettiva erogazione del denaro, può legittimare l’accreditato ad agire giudizialmente per ottenere la condanna all’adempimento nonché al risarcimento degli eventuali danni ex art. 1453 c.c. Peraltro, il diritto soggettivo di cui è titolare l’accreditato non si configura come diritto liquido ed esigibile, posto che per la banca il correlativo debito non diventa scaduto ed attuale sino a che l’accreditato non ne richieda la somministrazione.
Parte della dottrina evidenzia, inoltre, la differenza concettuale tra l’apertura di credito ed il fido bancario, espressione usata per indicare le operazioni attive nonché l’ammontare globale del credito concesso al singolo soggetto.
L’apertura di credito è contratto a titolo oneroso, dato che all’obbligazione della banca corrisponde quella dell’accreditato di versare una provvigione o commissione di conto (da non confondersi con i diritti di commissione di cui agli articoli 1826 e 1857 c.c. che rappresentano invece il corrispettivo specifico per determinati servizi resi dalla banca, nell’ambito del rapporto e con i quali può eventualmente cumularsi) e gli interessi sulle
somme effettivamente utilizzate; a fronte della messa a disposizione di tale provvista finanziaria e, quindi, anche indipendentemente dalla sua effettiva utilizzazione, l’accreditato è obbligato, in ogni caso, a pagare alla banca la c.d. provvigione o commissione di conto. Conseguentemente, è negozio giuridico avente i caratteri della bilateralità e della corrispettività.
Nei limiti della somma messagli a disposizione dalla banca l’accreditato ha, dunque, diritto ad ottenere l’erogazione, in una o più soluzioni, dell’intero importo oggetto dell’affidamento o anche solo di parte, assumendo, proprio per effetto della concreta utilizzazione del credito e nei limiti di questa, l’obbligo di provvedere alla relativa restituzione all’estinzione del rapporto. Infine, il predetto negozio ha natura di contratto di durata, prevedendo il godimento di una disponibilità per un lasso di tempo idoneo a determinare per entrambe le parti un valore economico, con conseguente applicabilità della disciplina speciale dettata agli artt. 118 e 119, D.lgs. n. 385/1993, come novellati dal d.lg. n. 141/2010 (in materia, rispettivamente, di applicazione e modalità di esercizio dello jus variandi e di obblighi di comunicazioni periodiche alla clientela).
Trattasi, più precisamente, di un contratto ad esecuzione continuata suscettibile, secondo quanto previsto dal citato art. 1842 c.c., di essere pattuito a tempo sia determinato che indeterminato, con conseguenti riflessi in ordine all’esercizio della facoltà di recesso da parte dell’istituto di credito.
Forma e regime probatorio
Sino all’entrata in vigore della legge sulla trasparenza bancaria (Legge 17 febbraio 1992, n. 154), nonostante nella prassi l’apertura di credito avesse sempre assunto la fisionomia di un contratto stipulato per iscritto, mediante la compilazione e la sottoscrizione di moduli a tal fine predisposti dagli istituti di credito, la dottrina prevalente lo ha qualificato come contratto
a forma libera.
La giurisprudenza, chiamata a pronunciarsi in materia di revocatoria fallimentare sulle rimesse in conto corrente bancario, pur riconoscendo in linea di principio, la possibilità che lo stesso potesse perfezionarsi verbalmente ovvero per facta concludentia, manifestava particolare prudenza nella valutazione in concreto del comportamento delle parti.
La problematica ha assunto particolare rilievo nell’ambito delle azioni revocatorie laddove la qualificazione delle rimesse come solutorie ovvero ripristinatorie ha assunto rilievo dirimente per l’esito del giudizio.
Invero, prima della riforma sulle procedure concorsuali (d.l. 14 marzo 2005 n.35, conv. in l.
14 maggio 2005 n.8; d.lg. 9 gennaio 2006 n.5; d.lg. 12 settembre 2007 n. 169) l’interpretazione dei giudici di legittimità in ordine all’art. art. 67, comma 2, l. fall., era nel senso che fossero revocabili esclusivamente le rimesse eseguite su conto corrente bancario aventi carattere solutorio, ossia integranti veri e propri pagamenti, e, dunque, solo nel caso in cui fossero confluite su conti “scoperti” (cioè non assistiti da apertura di credito ovvero con saldo passivo eccedente il fido effettivamente concesso). Diversamente, le rimesse effettuate su conto corrente passivo, nei limiti del fido accordato al correntista, non assumono natura solutoria bensì esclusivamente ripristinatoria, atteso che l’art. 1845 c.c. stabilisce che il credito non sia esigibile prima della scadenza del termine previsto o comunque, previo preavviso, nel termine contrattualmente pattuito.
Nell'ipotesi di conto corrente bancario in cui la provvista sia costituita da un'apertura di credito, ai fini della revocatoria fallimentare, nei confronti della banca, dei versamenti effettuati sul suo conto dal correntista poi fallito (o da terzi), è necessario che dallo svolgimento del conto rimanga accertato che, nel periodo considerato dall'art. 67, secondo comma, della legge fallimentare, si sia verificato uno "scoperto" del conto per avere la banca pagato, per conto del cliente, una somma superiore a quella postagli a disposizione e che il successivo versamento sia stato imputato dalla banca a pagamento del relativo debito sorto in capo al correntista (stante l'immediata esigibilità del corrispondente credito): solo in questo
caso, infatti, può farsi luogo alla revocatoria, poiché, ove tale "scoperto" non si sia verificato, il versamento nel conto (si tratti di un versamento in contanti del correntista, o di un bonifico di somme provenienti da terzi, ovvero di un giroconto) configura un mero accreditamento di somme per la reintegrazione della somma posta dalla banca a disposizione del correntista, di volta in volta decurtata da operazioni passive, che, in sé stesso, non è atto né gratuito, né oneroso e, quindi, non è soggetto alla revocatoria fallimentare, consistendo, invece, in una mera operazione contabile.
Muovendo dalla natura consensuale del contratto, la dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate sull’ammissibilità in materia di prove indiziarie e testimoniali, avendo cura di individuare criteri idonei a distinguere le aperture di credito tacite – perfezionatesi a mezzo di facta concludentia – dalle concessioni “unilaterali” di credito, sempre regolate in conto corrente, ma frutto della mera tolleranza della banca che consentiva solo occasionali scoperture di credito.
La giurisprudenza, di contro, ha visto con sfavore il riconoscimento di aperture di credito tacite. E’ stata ritenuta non provata l’avvenuta stipulazione di un contratto di apertura di credito sulla base di una semplice delibera interna di concessione di fido da parte della banca ovvero di una annotazione nel libro fidi degli estremi dell’affidamento bancario, trattandosi di documenti interni al procedimento bancario e come tali non in grado di costituire prova della formazione di un univoco accordo delle parti ai sensi e per gli effetti dell’art. 1321 c.c. (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 12947 del 05/12/1992 “l'annotazione nel libro fidi di una banca degli estremi di un affidamento, con riferimento sia al limite dello scoperto sia alla delibera interna di concessione, ancorché trovi corrispondenza in una situazione di fatto caratterizzata dallo svolgimento di un conto passivo con adempimenti reiterati, da parte della banca, di ordini di pagamento del correntista, anche in assenza di provvista e nell'ambito dei limiti di rischio dalla stessa banca preventivamente valutati, non dimostra in sé la stipulazione, per fatti concludenti, di un contratto di apertura di credito in conto corrente, con obbligo della banca di eseguire operazioni di credito passive, potendo la suddetta situazione di fatto trovare fondamento in
una posizione di mera tolleranza da parte della banca, che ha la possibilità di controllare la situazione patrimoniale e finanziaria del correntista e fare immediato ricorso a forme sollecite di copertura e tutela”).
L’obbligo della forma scritta ad substantiam, per i contratti relativi alle operazioni e ai servizi bancari, e quindi anche per le aperture di credito, è stato introdotto con l’art. 3 L. 17.02.1992
n. 154 (Legge per la trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari), entrata in vigore in data 09.07.1992, che ha imposto l’osservanza della forma scritta, nonché l’obbligo della consegna della copia del contratto al cliente della banca.
Con l’entrata in vigore del T.U. bancario (D.Lgs. 1 settembre 1993 n. 385) il Legislatore ha fatto confluire in un’unica previsione le disposizioni già contemplate dagli artt. 3, 4, 5 legge 154/92, ribadendo il principio per cui i contratti debbono essere redatti per iscritto a pena di nullità ed un loro esemplare deve essere consegnato ai clienti.
Il suddetto principio, tuttavia, sembra subire un’attenuazione dal comma 2 dell’art. 117 T.U.B., a tenore del quale, in coerenza con quanto già previsto dall’art. 3, commi 2 e 3 l. n. 154/92, il CICR può prevedere che ”per motivate ragioni tecniche, particolari contratti possano essere stipulati in altra forma”.
Il CICR in effetti, sul solco di tale facoltà, con la Delibera 04.03.2003 ha attribuito alla Banca d’Italia il potere di “individuare forme diverse da quella scritta, per le operazioni ed i servizi effettuati sulla base di contratti, redatti per iscritto, nonché per le operazioni e i servizi, oggetto di pubblicità [omissis] che hanno carattere occasionale ovvero comportano oneri di importo contenuto per il cliente”. La Banca d’Italia, nelle disposizioni di attuazione emanate nel corso del tempo, ha espressamente escluso l’obbligo della forma scritta per le operazioni e i servizi effettuati in esecuzione di previsioni contenute in contratti redatti per iscritto, con la precisazione che «l’esenzione dalla forma scritta si ha, per esempio, per le operazioni regolate in conto corrente”.
In altri termini, dunque, le disposizioni emanate dal CICR e dall’Autorità di vigilanza hanno
ritenuto non necessaria la forma scritta per i contratti relativi ad operazioni o servizi già previsti in contratti redatti per iscritto, tra cui il contratto di conto corrente, con la
conseguenza che poiché nella prassi bancaria l’apertura di credito è normalmente regolata in conto corrente il precetto di cui all’art. 117 T.U.B. è soddisfatto dalla presenza di quest’ultimo contratto redatto per iscritto.
La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi in proposito, ha chiarito che gli atti emanati dal CICR (e dal Ministro del Tesoro nel 1992, in via d'urgenza, in sua sostituzione), nonché dalla Banca d’Italia, completano ed integrano la norma di legge, nei limiti consentiti dalla legge stessa, ed in quanto tali assumono la natura di atti a contenuto ed efficacia normativi, tanto da dovere essere conosciute d’ufficio dal giudice, secondo il principio iura novit curia (Corte di Cassazione, sentenza n. 14470 del 9 luglio 2005). Il fatto poi che nel provvedimento del Ministero del Tesoro e della Banca d’ Italia non vi sia espressa menzione delle “motivate ragioni tecniche” che giustifichino la deroga alla forma scritta non può rendere illegittimo il provvedimento in questione, poiché l’onere di motivazione può considerarsi assolto con l’individuazione del tipo di contratto e la precisazione che esso deve riferirsi ad operazioni e servizi già individuati in contratti stipulati per iscritto. La ratio risiede nella considerazione che il cliente viene sufficientemente garantito dalla stipulazione per iscritto del contenuto normativo del contratto, mentre poi la concreta stipulazione alle condizioni previste per iscritto, potrà anche avvenire in altra forma, per esigenze di celerità ed operatività di tali tipi di contratti.
Conseguentemente il contratto di apertura di credito, in quanto disciplinato dal contratto scritto di conto corrente, può essere validamente concluso anche per facta concludentia ex art. 1327 c.c. , dovendo quindi essere stipulate per iscritto solo le aperture di credito non collegate ad un conto corrente bancario, nonché le aperture di credito finalizzate a procurare la provvista finanziaria per l’esecuzione di lavori pubblici ex art. 3 l. 26 settembre 1920 n. 1495 ed altresì ai sensi e per gli effetti dell’art. 125 bis T.U.B., per le aperture di credito in conto corrente stipulate con un consumatore.
Se, dunque, come già per le aperture di credito in essere alla data di entrata in vigore della
legge sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari, anche per quelle stipulate in epoca posteriore, alla stregua delle citate disposizioni, deve ritenersi la regola della libertà di forma, il problema per l’interprete continuerà ad essere – esattamente come nella previdente disciplina – non già sotto il profilo dell’ammissibilità dei mezzi di prova, bensì soltanto sul piano dell’esatta valutazione delle risultanze istruttorie acquisite agli atti di causa. Potrà essere ammessa la prova indiziaria e/o orale, idonea a dimostrare inequivocabilmente la conclusione del contratto per facta concludentia, avendo cura di distinguere tale figura dagli altri rapporti negoziali generalmente definiti come “fidi bancari”.
Il criterio da utilizzare per valutare l’esistenza di una vera e propria apertura di credito sarà l’accertamento della stabilità o meno del rapporto desumibile dal comportamento assunto reciprocamente dalla banca e dal cliente, esplicitato nell’andamento del conto corrente attestato dai relativi estratti conto. Una condotta protratta nel tempo potrà integrare un comportamento concludente idoneo a provare l’esistenza di una fonte contrattuale, nonché l’obbligo della banca di assicurare al cliente, alle condizioni contemplate dal conto corrente, la disponibilità ex art. 1842 c.c., con conseguente diritto del cliente di utilizzarla ex art. 1843 secondo comma c.c.; cosicché la prova dell’esistenza di tale contratto potrà emergere dagli estratti conto, dall’estratto notarile del libro fidi e/o del c.d. “schedario nominativo dei rischi”, nonché dell’avvenuta segnalazione della posizione alla Centrale Rischi; purché si escluda che la concessione del fido sia dovuta ad una situazione di precarietà ovvero ad una mera tolleranza di una situazione di scoperto, da considerarsi alla stregua di concessioni discrezionalmente accordate caso per caso. In sostanza, occorre che il rapporto sia provato anche da una serie di indizi convergenti ed univoci, che siano in grado di palesare l’incontro delle opposte volontà delle parti, deponendo non per un’occasionale disponibilità di mezzi, ma per una vera e propria concessione di credito.
Xxxxx, tuttavia, rilevare come la sentenza della Suprema Corte richiamata (Xxxx. Sez. 1, Sentenza n. 14470 del 09/07/2005), pur escludendo in astratto l’obbligo della forma scritta
ad substantiam anche per le aperture di credito regolamentate in conto corrente, abbia in concreto negato valenza probatoria all’estratto autentico del libro fidi ed alla scheda degli affidamenti, ribadendo la natura di documenti interni alla banca e, dunque, inidonei a provare l’avvenuta stipulazione del contratto.
Mancato rispetto della forma scritta nei contratti bancari: la mancanza della firma della banca
L’art. 117 del TUB al comma 3 stabilisce espressamente la nullità dei contratti “in caso di inosservanza della forma prescritta” con specificazione contenuta nel successivo art. 127 TUB secondo cui: ”Le nullità previste dal presente titolo operano soltanto a vantaggio del cliente e possono essere rilevate d’ufficio dal giudice”.
E’ chiaramente un’ipotesi di nullità relativa di protezione, con la conseguenza che potrà operare solo a vantaggio del cliente, il quale potrà valutare se avvalersene o meno.
La ratio è evidente: in assenza di tale disposizione normativa la banca avrebbe potuto dedurre la nullità del negozio per difetto di forma, producendo effetti negativi per la parte debole del rapporto, come la domanda di immediata restituzione di quanto erogato, con conseguente ulteriore aggravio della situazione di debolezza contrattuale del cliente. Il giudice potrà provvedere al rilievo d’ufficio della nullità nei limiti delle domande proposte e valutando in concreto l’interesse del cliente; in particolare, il giudice potrà rilevare la questione all’udienza ex art. 183 c.p.c., 4° comma, eventualmente sollecitando il contraddittorio tra le parti, che potrà svilupparsi nelle memorie previste dal comma 6 dell’art. 183 c.p.c. ovvero potrà rilevarlo sempre nel corso del processo, ai sensi del 2° comma dell’art. 101 c.p.c.
L’introduzione del requisito della forma scritta è stato introdotto dal Legislatore per tutelare il cliente, parte contrattuale debole, e per consentirgli di avere la massima consapevolezza dei propri diritti e dei propri obblighi nei rapporti con le banche, sia in tema di contratti di finanziamento, disciplinati dalla legge sulla trasparenza bancaria e poi dal TUB, sia in tema di
contratti di investimento finanziari (D.Lgs. 24.02.1998 n. 58; .TU.F.).
Nella pratica dei rapporti con la banca, è molto frequente che il contratto non sia redatto in unico documento, ma sia il risultato di una proposta cui fa seguito l’accettazione; spesso la banca è in possesso di un esemplare del contratto sottoscritto solo dal cliente, in cui il medesimo dà espressamente atto che “un esemplare del presente contratto mi viene rilasciato debitamente sottoscritto dai soggetti abilitati a rappresentarvi”. Dal che sembrerebbe vi siano due esemplari del contratto: uno sottoscritto dal cliente e consegnato alla banca, l’altro sottoscritto dal funzionario della banca e consegnato al cliente. In altri casi vi è una dichiarazione sottoscritta dal cliente con cui il medesimo dà atto di aver ricevuto la lettera della banca (contenente la proposta), il cui testo viene integralmente trascritto, e contestualmente accetta, sottoscrivendo per conferma della proposta ricevuta e per accettazione della stessa.
Motivo del contendere è sorto in merito alla validità ed efficacia di un documento prodotto in giudizio solo con la sottoscrizione del cliente, in relazione alle disposizioni che prescrivono la forma scritta ad substantiam.
Secondo l’orientamento tradizionale, sino all’inizio del 2016 assolutamente prevalente, la produzione della scrittura privata da parte del soggetto che non l’ha sottoscritta costituisce equipollente della mancata contestuale sottoscrizione della controparte e perciò perfeziona, sia sul piano sostanziale che probatorio, il contratto in essa contenuto (cfr. Cass. 15.05.2006 n. 11409).
Né occorrono formule sacramentali nei documenti prodotti e non occorre che l’incontro delle volontà sia contestuale, potendo risultare da documenti diversi anche cronologicamente distinti, pur nel caso in cui la parte che non l’ha firmato lo produca a giudizio con il dichiarato intento di avvalersi del contenuto negoziale di esso (si veda Xxxx. SS.UU. 02.12.2010 n. 24418, che ha ribadito il principio con un obiter dictum).
Proprio in applicazione di tali principi, la giurisprudenza nel decidere una controversia nell’ambito della quale era stato prodotto in giudizio un contratto di conto corrente
sottoscritto solo dal cliente, ha chiarito che la produzione in giudizio da parte dell’istituto di credito della copia del contratto realizza un valido equivalente della sottoscrizione mancante e quindi la conclusione valida ed efficace del contratto (Cass. 22.03.2012 n. 4564).
La Corte, infatti, ha affermato che sia la produzione a giudizio della scrittura da parte di chi non l’ha sottoscritta, sia qualsiasi manifestazione di volontà del contraente che non ha firmato, risultante da uno scritto diretto alla controparte e dalla quale emerga l’intento di avvalersi del contratto, integrano un valido equivalente della sottoscrizione mancante. Pertanto, anche qualora non vi fosse una copia del contratto firmata dalla banca, la sua volontà risulterebbe comunque dal deposito del documento a giudizio, dalle manifestazioni esternate da questa nel corso del rapporto di conto corrente in ordine alla volontà di volersene avvalere, con conseguente perfezionamento dello stesso. In altre parole, il perfezionamento del contratto non si produrrebbe solo con il deposito del documento, ma con qualsiasi manifestazione esternata mediante un documento scritto, anche se non sottoscritto, nel corso del rapporto. La volontà della banca di volersi avvalere della dichiarazione negoziale sottoscritta dal cliente sarà quindi desumibile anche dall’invio degli estratti conto al correntista, da cui si evince che nel corso del rapporto sono state applicate dalla banca le condizioni concordate nel contratto sottoscritto dal cliente e tale volontà realizza un valido equivalente della sottoscrizione, con conseguente perfezionamento del contratto.
In altri termini, dunque, la parte che non ha materialmente sottoscritto il contratto per il quale sia richiesta dalla legge la forma scritta può validamente perfezionarlo, al fine di farne valere gli effetti contro l'altro contraente sottoscrittore, sia producendolo in giudizio sia manifestando in via stragiudiziale alla controparte per iscritto la volontà di avvalersi del contratto, sempreché tale conferma non sopraggiunga dopo che la controparte abbia già revocato il proprio assenso, ciò rendendo impossibile la formazione dell'accordo contrattuale (cfr. Cass. Sez. 6-1 n. 17740 ud. 16/06/2015).
Tale orientamento sostanzialmente consolidato è stato di recente posto in discussione.
Invero, la Suprema Corte dapprima con la sentenza n. 5919/2016, cui hanno fatto seguito pronunce del medesimo tenore (Cass. 7068/2016; 8396/2016; 10711/2016), ha mutato inaspettatamente indirizzo dichiarando espressamente di non voler dare continuità al precedente richiamato.
Le fattispecie poste all’attenzione della Suprema Corte nelle quattro sentenze richiamate sono sostanzialmente similari e possono essere di seguito riassunte.
L’investitore agisce in giudizio, deducendo la nullità delle operazioni di investimento, per assenza di un preesistente contratto quadro, producendo un contratto sottoscritto esclusivamente da lui stesso ma non anche dall'intermediario, e recante la dicitura, “prendiamo atto che una copia del presente contratto ci viene rilasciata debitamente sottoscritta da soggetti abilitati a rappresentarvi". L’istituto di credito esibisce copia del medesimo testo, assumendo come tale produzione sia sufficiente ad integrare il requisito di forma previsto dalla legge. La Corte accoglie la soluzione più rigorosa dichiarando nullo il contratto quadro per vizio di forma e conseguentemente i singoli atti di investimento.
Elemento assolutamente centrale della decisione deve essere rinvenuto nell’efficacia che la Suprema Corte attribuisce alla produzione in giudizio del documento da parte della Banca con particolare riguardo al momento in cui tale efficacia può dirsi verificata.
La Corte, infatti, modificando recisamente il precedente orientamento afferma che "la produzione in giudizio da parte del contraente che non ha sottoscritto la scrittura realizza un equivalente della sottoscrizione, con conseguente perfezionamento del contratto, perfezionamento che non può verificarsi se non ex nunc, e non ex tunc (ed infatti il contratto formale intanto si perfeziona ed acquista giuridica esistenza, in quanto le dichiarazioni di volontà che lo creano siano state per l’appunto formalizzate), tant’è che il congegno non opera se l’altra parte abbia medio tempero revocato la proposta, ovvero se colui che aveva sottoscritto l’atto incompleto non è più in vita nel momento della produzione, perché la morte determina di
regola l’estinzione automatica della proposta (v. articolo 1329 c.c.) rendendola non più impegnativa per gli
eredi”. La Corte prosegue, dunque, osservando come il “il «contratto quadro» non può dirsi utilmente perfezionato (sì da sorreggere il successivo ordine di acquisto) per effetto della sua produzione in giudizio da parte della banca. (…) Va da sé che nel caso in discorso la produzione in giudizio del contratto da parte della banca, la cui sottoscrizione difetta, avrebbe determinato il perfezionamento del contratto solo dal momento della produzione, la quale, perciò, non può che rimanere senza effetti, per i fini della validità del successivo ordine di acquisto delle obbligazioni argentine, tale da richiedere a monte (e non ex post) un valido contratto quadro. D’altro canto, far discendere la validità dell’ordine di acquisto dal perfezionamento soltanto successivo del «contratto quadro», non è pensabile, stante il principio dell’inammissibilità della convalida del contratto nullo ex articolo 1423 c.c.”.
In sostanza, dunque, la produzione in giudizio da parte della Banca della copia del negozio costituisce certamente manifestazione di volontà di avvalersi del contratto, tuttavia la medesima, avendo efficacia ex nunc e non giammai ex tunc, sopraggiunge quando la controparte ha già revocato la proposta proponendo la domanda giudiziale di nullità.
Nello sviluppo della motivazione la Corte sposta la verifica del requisito della forma scritta sul piano della prova, escludendo che la forma solenne possa essere supplita dalla prova testimoniale, dalle presunzioni e dalla dichiarazione confessoria resa dalla controparte.
Con particolare riguardo all’ammissibilità della prova per testi si è affermato che la stessa è consentita ai sensi del combinato disposto dagli artt. 2725 comma 2 e 2724 n. 2 c.c. solamente nell'ipotesi in cui il contraente abbia perso senza sua colpa il documento che gli forniva la prova del contratto, escludendo l’equiparazione tra la volontaria consegna alla “perdita”. In tema di contratti per cui è prevista la forma scritta ad substantiam, nel caso in cui un contraente non sia in possesso del documento contrattuale per averlo consegnato all'altro contraente, il quale si rifiuti poi di restituirlo, il primo non può provare il contratto avvalendosi della prova testimoniale, poiché non si verte in un'ipotesi di perdita incolpevole del documento ai sensi dell'articolo 2724, n. 3, c.c., bensì di impossibilità di procurarsi la prova del contratto ai sensi del precedente n. 2 di tale articolo (Cass. 26 marzo 1994, n. 2951;
Cass. 19 aprile 1996, n. 3722; Cass. 23 dicembre 2011, n. 28639).
La pronuncia, inoltre, supera l’ultimo argomento particolarmente sviluppato nel disatteso precedente (Cass. 22 marzo 2012 n. 4564), escludendo che in tema di contratti solenni possa operare il disposto dell’art. 1361 c.c. nonché sia possibile valorizzare i comportamenti concludenti delle parti come sostitutivi ed alternativi alla forma scritta. La forma quando è richiesta ad substantiam, è elemento costitutivo del contratto, nel senso che il documento deve essere l'estrinsecazione formale e diretta della volontà delle parti di concludere un determinato contratto avente una data causa, un dato oggetto e determinate pattuizioni, sicché occorre che il documento sia stato creato al fine specifico di manifestare per iscritto la volontà delle parti diretta alla conclusione del contratto.
Mentre la prima delle statuizioni che inaugurano il nuovo e per certi versi dirompente orientamento giurisprudenziale (Cass. 5919/2016) lascia aperta la questione inerente alla possibilità per l’investitore di selezionare la domanda di nullità con esclusivo riguardo agli investimenti non ritenuti soddisfacenti, la successiva sentenza n. 8396 del 27.04.2016 dà una risposta affermativa a tale ulteriore quesito, concludendo che l'investitore ex artt. 99 e 100
c.p.c. può selezionare il rilievo della nullità e rivolgerlo agli acquisti finanziari dai quali si è ritenuto illegittimamente pregiudicato. La Corte precisa, inoltre, che la rilevabilità d'ufficio, peraltro non incondizionata, delle nullità di protezione, affermata dalle S.U. nella sentenza n. 26242 del 2014, si limita a configurare la possibilità di estendere l'accertamento giudiziale anche a cause di nullità protettive non dedotte dalle parti, senza tuttavia consentirne il rilievo anche ad atti diversi da quelli verso i quali la censura è rivolta.
La possibilità per l’investitore di selezionare gli investimenti cui rivolgere la domanda di nullità è stata contrastata da altra parte della giurisprudenza di merito la quale, prendendo in considerazione la ratio della tutela con particolare riguardo alla finalità meramente informativa della forma contrattuale nei contratti di investimento, ha ritenuto che la sottoscrizione del solo cliente possa assicurare la realizzazione dello scopo sotteso al precetto
di legge, costituendo adeguata garanzia dell'avvenuta ricezione di un testo, recante le informazioni essenziali, richieste dalla disciplina di settore. Del pari, secondo tale prospettazione sia la domanda di nullità del contratto quadro per difetto di doppia sottoscrizione, sia la domanda di nullità con riguardo ad alcuni degli investimenti sono censurabili sotto il profilo dell’abuso del diritto. L’abuso del diritto è una categoria di costruzione dottrinale e giurisprudenziale non integrante una vera e propria violazione di legge in senso formale, ed è ravvisabile quando si altera il rapporto tra il potere di autonomia del soggetto ed il suo atto di esercizio. L’ordinamento esclude la tutela ai poteri, diritti ed interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. Una pronuncia di merito (Trib. Torino 7 marzo 2011, in Corr. mer., 2011, 699) ha fatto concreta applicazione dei predetti principi in una controversia avente ad oggetto la dedotta nullità di un contratto quadro di investimento mobiliare per difetto di sottoscrizione della banca. Il Tribunale, premettendo come l’obbligo della forma scritta sia diretto a conferire maggiore protezione alla parte debole, ha ritenuto scorretta la condotta del cliente di dedurre la nullità ab origine del rapporto per assenza di un contratto quadro, nonostante questo avesse avuto esecuzione per molti anni. Quindi la richiesta di far valere la nullità del contratto è stata interpretata quale abuso del diritto, con conseguente inammissibilità della domanda e della consequenziale richiesta restitutoria.
La predetta impostazione, nonostante presenti delle criticità rispetto alla rilevabilità d’ufficio del difetto di forma, rinviene la propria ratio decidendi nella figura della nullità di protezione – che è nullità relativa – (art. 36 cod. cons.): per cui quando è chiaro che il rimedio della nullità è destinato a proteggere una parte del contratto, cioè il consumatore, non c’è ragione per consentire a quella parte di abusare della protezione che le riconosce la norma. L’investitore, dunque, non può ragionevolmente far valere i propri diritti in forma distorta per trarne conseguenze selettive, cioè per chiedere la restituzione di investimento svantaggiosi e procacciarsi solo gli effetti favorevoli, in considerazione della semplice mancanza della
sottoscrizione da parte della banca del contratto quadro di prestazione di servizi di
investimento.
Il nuovo orientamento, sia pur espresso in tema di contratti di intermediazione finanziaria, appare enucleare principi innovativi in materia, applicabili anche ai diversi contratti bancari, tra i quali il conto corrente bancario ed il contratto di apertura di credito.
Depone in tal senso la circostanza secondo cui il precedente al quale la Suprema Corte dichiara espressamente di non voler dare ulteriore corso riguardava proprio un contratto di conto corrente sottoscritto dal solo cliente; del pari parte della giurisprudenza di merito ha inteso applicare il nuovo orientamento anche in tema di contratto di apertura di credito (cfr. Tribunale di Ragusa 17.10.2016; Tribunale di Bologna ordinanza 11.08.2016; pubblicate sul sito xxx.xxxxxx.xx).
E’ quanto mai auspicabile, come già suggerito in una pronuncia di merito che ha disatteso il nuovo orientamento (cfr. Tribunale Padova 04 agosto 2016; il xxxx.xx), l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite.
Mancanza della firma della banca - Rassegna giurisprudenziale
Si riportano i passaggi salienti delle sentenza richiamate:
- Corte di Cassazione, I Sez. Civ. , n. 4564/2012 (orientamento precedente);
La giurisprudenza di questa Corte ha affermato che l'accertamento della avvenuta sottoscrizione di un contratto costituisce accertamento di merito non sindacabile in sede di legittimità se correttamente motivato. Nel caso di specie la corte d'appello ha ritenuto che il contratto sarebbe stato firmato anche dalla banca perché, essendosi il negozio concluso per corrispondenza, la copia firmata dalla banca non poteva che essere in mani dei ricorrenti. Tale accertamento appare ragionevolmente argomentato ove si tenga conto che nel contratto stesso, per come riportato dai ricorrenti nel ricorso, è dato atto da parte di questi che "un esemplare del presente contratto ci è stato da voi consegnato"; il che rende ragionevole affermare che il detto esemplare fosse quello sottoscritto dalla banca e consegnato ai ricorrenti. A prescindere da ciò va, peraltro, rilevato che la giurisprudenza costante di questa
Corte, premesso che, nei contratti per cui è richiesta la forma scritta "ad substantiam" non è necessaria la simultaneità delle sottoscrizioni dei contraenti, ha ritenuto che sia la produzione in giudizio della scrittura da parte di chi non l'ha sottoscritta, sia qualsiasi manifestazione di volontà del contraente che non abbia firmato, risultante da uno scritto diretto alla controparte e dalla quale emerga l'intento di avvalersi del contratto, realizzano un valido equivalente della sottoscrizione mancante, purché la parte che ha sottoscritto non abbia in precedenza revocato il proprio consenso ovvero non sia deceduta (cfr., tra le tante, Cass. 16.10.1969 n. 3338; Cass. 22.5.1979 n. 2952; Cass. 18.1.983 n. 469; Cass. 5868/94; Cass.
2826/00; Cass.9543/02; Cass. 22223/06).
Corte di Cassazione, I Sez. Civ. , n. 17740/2015 (orientamento precedente);
La parte che non ha materialmente sottoscritto il contratto per il quale sia richiesta dalla legge la forma scritta può validamente perfezionarlo, al fine di farne valere gli effetti contro l'altro contraente sottoscrittore, sia producendolo in giudizio sia manifestando in via stragiudiziale alla controparte per iscritto la volontà di avvalersi del contratto, sempreché tale conferma non sopraggiunga dopo che la controparte abbia già revocato il proprio assenso, ciò rendendo impossibile la formazione dell'accordo contrattuale (cfr. Cass. Sez. 6-1 n. 17740 ud. 16/06/2015).
Xxxxx xx Xxxxxxxxxx, X Xxx. Xxx. , x. 0000/0000
“ …Xxxx'accogliere il primo motivo di impugnazione, la Corte d'appello:
dopo aver rammentato che il contratto quadro deve essere redatto in forma scritta sotto pena di nullità ai sensi dell'articolo 23 del Tuf, ha osservato che, nel caso esaminato, risultava prodotto un modulo contrattuale predisposto dalla banca e sottoscritto dalla sola cliente, ma privo di ogni manifestazione di volontà negoziale dell'intermediario, dunque di una semplice proposta, ancorché corredata della dichiarazione prestampata secondo cui «una copia del presente contratto ci viene rilasciata debitamente sottoscritta dai soggetti abilitati a rappresentarvi»;
Il quarto motivo è svolto … sotto la rubrica: «Violazione dell'articolo 23 decreto legislativo numero 5/2003 e degli articoli 1325, 1326, 1350 e 1418 c.c. (articolo360, primo comma, numero 3, c.p.c.)». Viene ancora una volta ribadito che la Corte d'appello sarebbe incorsa in errore nel non applicare alla fattispecie il principio espresso da Xxxx. 22 marzo 2012, n. 4564, ritenendo che la domanda di dichiarazione della nullità del contratto avrebbe implicato una volontà opposta al vincolo contrattuale, giacché, al contrario, le domande di nullità, annullamento, risoluzione …erano tutte logicamente incompatibili con una volontà di revoca del consenso prestato: ed anzi la cliente aveva fondato la propria pretesa non già sulla mancanza di un proprio consenso, bensì sulla mancanza del consenso della banca…
In particolare, l'originaria attrice ha agito in giudizio producendo il documento …recante il conferimento alla banca del mandato di negoziazione,
predisposto sotto forma di lettera diretta alla stessa banca, mancante della sottoscrizione di quest'ultima, ma contenente la dicitura: «Prendiamo atto che una copia del presente contratto ci viene
rilasciata debitamente sottoscritta da soggetti abilitati a rappresentarvi», seguita dalla sottoscrizione della cliente.
Nel corso del giudizio analogo documento è stato prodotto dalla banca…
Non è incompatibile con la formazione del contratto attraverso lo scambio di due documenti, entrambi del medesimo tenore, ciascuno sottoscritto dall'altro contraente. Non v'è difatti ragione di discostarsi dall'insegnamento più volte ribadito, secondo cui il requisito della forma scritta ad substantíam è soddisfatto anche se le sottoscrizioni delle parti sono contenute in documenti distinti, purché risulti il collegamento inscindibile del secondo documento al primo, «sì da evidenziare inequivocabilmente la formazione dell'accordo» (Cass. 13 febbraio 2007, n. 3088; Cass. 18 luglio 1997, n. 6629 ; Cass. 4 maggio 1995, n. 4856).
Ciò detto, vertendosi in tema di forma scritta sotto pena di nullità, in caso di formazione dell'accordo mediante lo scambio di distinte scritture inscindibilmente collegate, il requisito della forma scritta ad substantiam in tanto è soddisfatto, in quanto entrambe le scritture, e le corrispondenti dichiarazioni negoziali, l'una quale proposta e l'altra quale accettazione, siano formalizzate. E, insorta sul punto controversia, vale la regola generale secondo cui, con riguardo ai contratti per i quali la legge prescrive la forma scritta a pena di nullità, la loro esistenza richiede necessariamente la produzione in giudizio della relativa scrittura (Cass. 14 dicembre 2009, n. 26174).
La stipulazione del contratto non può viceversa essere desunta, per via indiretta, in mancanza della scrittura, da una dichiarazione quale quella nella specie sottoscritta: «Prendiamo atto che una copia del presente contratto ci viene rilasciata debitamente sottoscritta da soggetti abilitati a rappresentarvi». La verifica del requisito della forma scritta ad substantiam si sposta qui sul piano della prova (è la stessa banca ricorrente, del resto, a riconoscerlo), ove trova applicazione la disposizione dettata dal codice civile che consente di supplire alla mancanza dell'atto scritto nel solo caso previsto dall'articolo 2725, comma 2, c.c., che richiama l'articolo 2724, n. 3, c.c.: in base al combinato disposto di tali norme, la prova per testimoni di un contratto per la cui stipulazione è richiesta la forma scritta ad substantiam, è dunque consentita solamente nell'ipotesi in cui il contraente abbia perso senza sua colpa il documento che gli forniva la prova del contratto. E la preclusione della prova per testimoni opera parimenti per la prova per presunzioni ai sensi dell'articolo 2729 c.c. nonché per il giuramento ai sensi dell'articolo 2739 c.c.. Interdetta è altresì la confessione (Xxxx. 2 gennaio1997, n. 2; Cass. 7 giugno 1985,
n. 3435) quale, in definitiva, sarebbe la presa d'atto, della consegna dell'omologo documento
sottoscritto dalla banca. D'altronde, la consolidata giurisprudenza di questa Corte esclude l'equiparazione alla «perdita», di cui parla l'articolo 2724 c.c., della consegna del documento alla controparte contrattuale. Nell'ipotesi prevista dalla norma, difatti, il contraente che è in possesso del documento ne rimane privo per cause a lui non imputabili: il che è il contrario di quanto avviene nel caso della volontaria consegna dell'atto, tanto più in una vicenda come quella in discorso, in cui non è agevole comprendere cosa abbia mai potuto impedire alla banca, che ha predisposto la modulistica impiegata per l'operazione, di redigere il «contratto quadro» in doppio originale sottoscritto da entrambi i contraenti.
La costante giurisprudenza della Corte di cassazione, muovendo dalla premessa che nei contratti per cui è richiesta la forma scritta ad substantiam non è necessaria la simultaneità delle sottoscrizioni dei contraenti, ha più volte ribadito il principio secondo cui tanto la produzione in giudizio della scrittura da parte di chi non l'ha sottoscritta, quanto qualsiasi manifestazione di volontà del contraente che non abbia firmato, risultante da uno scritto
diretto alla controparte, dalla quale emerga l'intento di avvalersi del contratto, realizzano un valido equivalente della sottoscrizione mancante;
…che, nella specie considerata, anche in mancanza di una copia del contratto firmata dalla banca, l'intento di questa di avvalersi del contratto risultava comunque, oltre che dal deposito del documento in giudizio, dalle manifestazioni di volontà da questa esternate ai ricorrenti nel corso del rapporto, da cui si evidenziava la volontà di avvalersi del contratto (bastando a tal fine le comunicazioni degli estratti conto) con conseguente perfezionamento dello stesso. Ritiene però la Corte che al precedente non possa darsi continuità.
Questa Corte ha più volte ribadito che la mancata sottoscrizione di una scrittura privata è supplita dalla produzione in giudizio del documento stesso da parte del contraente non firmatario che se ne intende avvalere …
In generale, il ragionamento posto a sostegno di tale indirizzo si riassume in ciò, che la produzione in giudizio da parte del contraente che non ha sottoscritto la scrittura realizza un equivalente della sottoscrizione, con conseguente perfezionamento del contratto, perfezionamento che non può verificarsi se non ex nunc, e non ex tunc (ed infatti il contratto formale intanto si perfeziona ed acquista giuridica esistenza, in quanto le dichiarazioni di volontà che lo creano siano state per l'appunto formalizzate), tant'è che il congegno non opera se l'altra parte abbia medio tempero revocato la proposta, ovvero se colui che aveva sottoscritto l'atto incompleto non è più in vita nel momento della produzione, perché la morte determina di regola l'estinzione automatica della proposta (v. articolo 1329 c.c.) rendendola non più impegnativa per gli eredi.
La forma scritta, quando è richiesta ad substantiam, è insomma elemento costitutivo del contratto, nel senso che il documento deve essere l'estrinsecazione formale e diretta della volontà delle parti di concludere un determinato contratto avente una data causa, un dato oggetto e determinate pattuizioni, sicché occorre che il documento sia stato creato al fine specifico di manifestare per iscritto la volontà delle parti diretta alla conclusione del contratto.
Orbene, è di tutta evidenza che documentazione quale quella in questo caso depositata dalla banca (contabili, attestati di seguito, eccetera), indipendentemente dalla verifica dello specifico contenuto e della sottoscrizione di dette scritture (aspetti che nel caso di specie non risultano dal ricorso per cassazione), non possiede i caratteri della “estrinsecazione diretta della volontà contrattuale”.
Qui, tuttavia, non occorre approfondire l'argomento e stabilire se la figura dell'abuso del diritto, in particolare sotto forma di abuso dell'eccezione di nullità, possa dirsi ricorrente, o se invece l'investitore abbia invocato la nullità proprio al fine per cui essa è prevista, per l'evidente considerazione che tale argomento non risulta essere stato mai affrontato nelle fasi di merito, non essendovene traccia né nella sentenza impugnata e neppure nell'espositiva del fatto contenuta nel ricorso per cassazione”.
- Corte di Cassazione, I Sez. Civ. , n. 7068/2016
“…Va invece accolta la tesi della ricorrente che aveva tempestivamente eccepito la nullità del contratto quadro per vizio di forma e non solo la nullità degli ordini di acquisto. Dal contenuto del ricorso ex art. 19 emergeva la richiesta di dichiarazione di nullità del "contratto di borsa" per assenza di sottoscrizione, richiesta ad substantiam, richiamandosi l'assenza di contratto scritto ( violazione dell'art. 23 T.U.F.) e denunciandosi che non vi era stato alcun
contratto di intermediazione né alcun ordine scritto. Errata è dunque l'affermazione che l'odierna ricorrente avrebbe eccepito la nullità del contratto quadro in epoca successiva. Sussistendo controversia, la prova dell'esistenza del contratto richiede necessariamente la produzione in giudizio della relativa, o delle relative scritture (Cass. N. 26174 del 2009). Al contrario, la stipulazione non può essere desunta , in via indiretta, da dichiarazioni di contenuto differente ( ad es. di scienza, di ricognizione„ ecc. ). Né potrebbero , all'evidenza, sopperire prove
testimoniali, per presunzioni, O il giuramento o confessione Giurisprudenza altrettanto consolidata di questa Corte afferma che, dopo la stipulazione del contratto di negoziazione, gli ordini di acquisto e le operazioni di compravendita danno luogo ad atti sicuramente negoziali, ma non a veri e propri contratti, per di più autonomi rispetto all'originale contratto quadro i di cui essi costituiscono attuazione ed adempimento. La nullità del contratto incide dunque sulla validità dei successivi ordini di acquisto. Pertanto, nella specie, la produzione in giudizio del contratto di negoziazione da parte della banca, non rende validi retroattivamente gli ordini di acquisto e le operazioni di compravendita de quibus, con la conseguente necessità di restituzione della somma impiegata dal
cliente e dei titoli alla banca…”
- Corte di Cassazione, I Sez. Civ. , n. 8396/2016
Rimane da esaminare il rilievo sollevato in controricorso relativo all'abusività e conseguente illegittimità dell' eccezione di nullità "selettiva" del contratto quadro, in quanto rivolta esclusivamente a produrre effetti nei confronti di alcuni acquisti di prodotti finanziari. Al riguardo la Corte d'Xxxxxxx ha ritenuto che la nullità perdifetto di forma scritta non può che coinvolgere l'intero rapporto contrattuale "pena l'inammissibile esercizio strumentale ed abusivo del diritto", pur riconoscendo che"anche questa conseguenza pratica (la nullità selettiva n.d.r.) rientrerebbe pur sempre nella disponibilità dell'investitore in esito ad una sua autonoma valutazione L'assunto non può essere condiviso dal momento che, nella specie, il requisito della forma scritta ad substantiam per il contratto quadro non determina una modificazione della qualificazione giuridica della nullità che consegue all'inosservanza dell'obbligo di forma. Anche tale nullità è rilevabile esclusivamente dall'investitore ed è configurabile come nullità di protezione. L'applicazione del regime giuridico rigoroso della forma scritta ad substantiam, derivante dall'esame testuale dell'art. 23 T.U.F. nell'interpretazione conforme di questa Corte ( S.U. n.26724 del 2007) non ne modifica né la natura né la funzione né le modalità di rilievo. L'eccezione può, di conseguenza, essere prospettata dalla parte, coerentemente con l'interesse sostanziale dedotto in giudizio. Al riguardo deve rilevarsi che l'investitore ex art. 99 e 100 cod. proc. civ. può selezionare il rilievo della nullità e rivolgerlo agli acquisti (o più correttamente i contratti attuativi del contratto quadro) di prodotti finanziari dai quali si è ritenuto illegittimamente pregiudicato, essendo gli altri estranei al giudizio. La rilevabilità d'ufficio, peraltro non incondizionata, delle nullità di protezione, affermata di recente dalle S.U. nella sentenza n.26242 del 2014, si limita a configurare la possibilità di estendere l'accertamento giudiziale anche a cause di nullità protettive non dedotte dalle parti senza tuttavia consentirne il rilievo anche ad atti diversi da quelli verso i quali la censura è rivolta. L'accoglimento del primo motivo determina l'assorbimento dei rimanenti.
Ne consegue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio al giudice del merito perché si adegui ai seguente principio di diritto: - nel contratto d'intermediazione finanziaria, la produzione in giudizio del modulo negoziale relativo al contratto quadro sottoscritto soltanto dall'investitore, non soddisfa l'obbligo della forma scritta ad substantiam imposto a pena di nullità dall'art. 23 d.lgs n. 58 del 1998. Tale nullità può essere eccepita anche limitatamente ad alcuni degli ordini di acquisto eseguiti in virtù del contratto viziato".
- Corte di Cassazione, I Sez. Civ. , n. 10711/2016
“Al momento della stipulazione erano vigenti la L. n. l del 1991 ed il Dlgs n. 58 del 1998. Com'è noto, l'art. 6 L. n. 1/91, confermato dall'art. 23 Dlgs n. 58/98, introduceva il requisito di forma scritta ad substantiam per il contratto quadro (al riguardo, Xxxx. N. 10598 del 2005). E'appena il caso di precisare che tale requisito richiede necessariamente che siano formalizzate le dichiarazioni negoziali di proposta ed accettazione, in un unico contesto ovvero anche in tempi e contesti diversi. Orientamento consolidato di questa Corte (tra le altre: Cass. N. 22223 del 2006; n. 12711 del 2014) precisa che alla mancata sottoscrizione di una scrittura privata, può sopperirsi con la produzione in giudizio del documento stesso da parte del contraente non firmatario che se ne intende avvalere.
La giurisprudenza suindicata afferma che la produzione in giudizio, realizza un equivalente della sottoscrizione, con conseguente perfezionamento del contratto ex nunc, salvo in ogni caso che l'altra parte abbia revocato la proposta ovvero sia deceduta.
Pertanto, nella specie, la produzione in giudizio del contratto di negoziazione da parte della banca , non rende validi retroattivamente gli ordini di acquisto e le
operazioni di compravendita de quibus, con la conseguente necessità di restituzione della somma impiegata dal cliente e dei titoli alla banca”.
La richiesta di copia dei contratti: art. 119 TUB o art. 117 c.1 TUB? e l’ordine di esibizione art. 210 c.p.c.
L’art. 119 del Testo Unico Bancario - “Comunicazioni periodiche alla clientela” – dispone
che le banche e gli intermediari finanziari:
• Devono fornire al cliente, nei contratti di durata, una comunicazione chiara in merito allo svolgimento del rapporto, almeno una volta l’anno e comunque alla scadenza del contratto (la comunicazione deve avvenire in forma scritta o mediante altro supporto durevole preventivamente accettato dal cliente) (art. 119, comma 1);
• Per i rapporti regolati in conto corrente, devono inviare al cliente l’estratto conto, con periodicità annuale oppure a scelta del cliente, con periodicità semestrale, trimestrale o mensile (art. 119, comma 2);
• Devono fornire al cliente (a colui che gli succeda a qualunque titolo o che gli subentri nell’amministrazione dei suoi beni – quindi sicuramente gli eredi ed il curatore fallimentare), se lo richieda, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni e comunque non oltre 90 giorni dalla domanda, con addebito al cliente dei costi di produzione della documentazione (art. 119 comma, comma 4).
Un primo problema riguarda la questione se la disciplina di cui all’art. 119 TUB includa anche la copia dei contratti e/o della documentazione fondamentale del rapporto, intendendo come tale non le comunicazioni periodiche esplicitate nella disposizione, bensì il documento che contenga le norme contrattuali del rapporto.
Dalla lettura dell’art. 119 TUB non emerge nulla in merito alla copia del contratti, facendo la norma espresso riferimento solo alle comunicazioni periodiche e precisa che la richiesta può essere presentata relativamente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni.
In realtà il diritto del cliente di ricevere anche copia dei contratti sottoscritti è diritto sostanziale quale diritto soggettivo autonomo, di rango superiore a quello di ricevere le comunicazioni periodiche o relative a singole operazioni. A ciò corrisponde il dovere generale della banca di comportarsi secondo la correttezza e solidarietà; regola peraltro in capo ad entrambi i contraenti, in ossequio i principi di cui agli xxxx.xx 1175 c.c.
(“Comportamento secondo correttezza”), 1375 c.c. (“Esecuzione di buona fede”) e 1374 c.c. (“Integrazione del contratto”). Il rapporto banca–cliente è fondato sul principio di buona fede, che è clausola generale di interpretazione e di esecuzione del contratto, nonché fonte di integrazione della regolamentazione negoziale.
Tra i doveri di comportamento derivanti dal principio di buona fede contrattuale vi è anche quello di consegnare alla controparte la documentazione relativa al rapporto obbligatorio (cfr. Cass. 12093/2001).
Lo stesso art. 117 comma 1 TUB, dopo aver previsto che i contratti siano redatti per iscritto a pena di nullità, stabilisce che un esemplare del contratto venga consegnato al cliente, il quale quindi ha diritto di riceverne copia sia al momento della sottoscrizione, sia successivamente in caso di smarrimento del documento o di dichiarazione di non averlo mai ricevuto in precedenza ovvero di richiesta di consegna.
Pertanto, il diritto del cliente o del suo successore a qualsiasi titolo, di ricevere copia dei contratti, sussiste a prescindere dal dovere di informazione della banca contenuto nell’art. 119 TUB, poiché sorge dall’obbligo di eseguire il contratto secondo buona fede (cfr. Cass. 11004/2006) ed è indipendente altresì dall’uso che il richiedente ne voglia fare.
Inoltre, tale diritto non appare soggetto a limiti temporali.
Il limite decennale previsto dall’art. 119 TUB si riferisce alla copia della documentazione relativa a singole operazioni poste in essere appunto negli ultimi dieci anni ma non si applica ai contratti bancari, che costituiscono la fonte della disciplina dei rapporti tra le parti. La conseguenza è che trascorsi dieci anni dalla sottoscrizione il documento contrattuale non può essere distrutto ma conservato, salvo la prescrizione dei diritti da esso nascenti (cfr. Corte d’ Appello di Milano sent. 1796 del 2012).
La giurisprudenza di merito ha altresì precisato che il diritto del cliente di chiedere alla banca copia del contratto permane peraltro anche dopo lo scioglimento del rapporto (Si veda:
Tribunale Monza, sez. III, n. 95 del 18.01.2016), anche in caso di fallimento del cliente medesimo.
Controverso è se tale diritto sia tutelabile ricorrendo alla procedura ingiuntiva. In materia fallimentare si era ritenuto ammissibile il ricorso al procedimento da parte del curatore fallimentare, allo scopo di ottenere copia degli estratti conto relativi ai rapporti intrattenuti con le banche dal soggetto fallito (cfr. Trib. Milano 21.06.1996). La dottrina ha criticato tale orientamento sulla base di due argomenti: il bene deve essere previamente formato all’esito di una complessa attività istruttoria, per cui la consegna concretizza solo l’obbligazione di facere del debitore; il procedimento ingiuntivo non viene attivato al fine di conseguire rapidamente la condanna alla consegna di una cosa o al pagamento di una somma di denaro, bensì allo scopo di ottenere il rilascio di un documento da utilizzarsi in un diverso giudizio quale prova documentale. L’eventuale opposizione del debitore potrebbe riguardare solo il diritto del ricorrente all’esibizione del documento, e non le singole poste contabili dell’estratto. Pertanto, il procedimento monitorio verrebbe in sostanza a rappresentare un mezzo per ottenere un ordine di esibizione del documento con gli effetti dell’art. 210 c.p.c.
Inoltre, l’ordine verrebbe impartito con decreto, anziché con il rispetto delle forme prescritte per l’ ordinanza, che va emessa sentite le parti ( artt. 134 e 186 c.p.c.), ed in aperta violazione del disposto dell’art. 176 c.p.c. applicabile a tutti i provvedimenti istruttori.
La Corte di Cassazione ha evidenziato che la richiesta di copia da parte dell’interessato non deve essere dettagliata: non è necessario che il richiedente indichi specificamente gli estremi del rapporto a cui si riferisce la documentazione richiesta in copia, essendo sufficiente che costui fornisca alla banca gli elementi minimi indispensabili per consentirle l’individuazione dei documenti richiesti, quali ad esempio i dati del soggetto titolare del rapporto, il tipo di rapporto ed il periodo di tempo nell’ arco del quale le operazioni da documentare si sono svolte.
Trattandosi di documenti accessibili secondo le modalità di cui all’ art. 119 TUB, la parte
deve diligentemente e previamente acquisirli in via stragiudiziale ed allegarli agli atti di causa, salvo fornire la prova in giudizio di avere presentato formale richiesta alla banca ma di avere ottenuto un diniego di accesso. Infatti, la giurisprudenza prevalente, sia di merito che di legittimità, nega generalmente alla parte processuale la facoltà ex art. 210 c.p.c., sul presupposto che non si possa derogare all’ onere probatorio ex art. 2697 c.c. Per contro, sarà ammissibile l’istanza, che rimane pur sempre un rimedio eccezionale, qualora il cliente, ben prima dell’ instaurarsi del processo, abbia richiesto alla banca, ma senza successo, la consegna della copia con istanza ex art. 119 TUB. L’esibizione ex art. 210 c.p.c. non può essere ordinata allorché l’istante avrebbe potuto di propria iniziativa acquisire direttamente la documentazione in questione e produrla in causa, esercitandone il relativo diritto in qualità di contraente, ed in forza dell’ art. 119 TUB, che consente di ottenere in qualsiasi momento anche duplicati e copie del contratto bancario.
Di recente la Suprema Corte, richiamando il principio ormai consolidato per cui l’esibizione a norma dell’art. 210 c.p.c. non può in alcun caso supplire al mancato assolvimento dell’onere probatorio e che comunque può riguardare solo atti o documenti specificamente individuati o individuabili, dei quali sia noto un preciso contenuto influente per la decisione della causa, ha precisato che non possono costituire oggetto di istanza di esibizione gli estratti conto dei rapporti bancari quando questi siano finalizzati alla generica ricostruzione della contabilità del rapporto di conto corrente, senza la specificazione della utilità del documento in funzione della domanda giudiziale (cfr. Cass. Civ. sentenza n. 6511/16 del 04.04.2016).
La mancata o indeterminata pattuizione contrattuale dei tassi di interesse e dei prezzi praticati ante e post TUB
Anteriormente all’ entrata in vigore della legge 154/1992 sulla trasparenza bancaria e poi del
d. lgs. 1.09.1993 (TUB), era prassi determinare, nei rapporti tra la banca e la clientela, il tasso d’interesse debitore e gli ulteriori oneri e commissioni, semplicemente con un generico rinvio ai cd. “usi di piazza” ossia ai valori adottati dagli istituti di credito in una determinata zona.
Con l’entrata in vigore della normativa specifica sulla materia sono state introdotte regole precise, principalmente a tutela del consumatore, ma anche rispettose dei principi di contrattualistica in tema di determinabilità dell’oggetto del contratto (xxxx.xx 1418 – 1325 e 1346 c.c.) e di determinazione per iscritto della relativa pattuizione (art. 1284 c.c.).
Il comma 7 dell’ art. 117 TUB così recita: ”In caso di inosservanza del comma 4” – cioè nel caso in cui il contratto non indichi il tasso di interesse ed ogni altro prezzo e condizioni praticati, inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di mora – “e nelle ipotesi di nullità indicate dal comma 6” a norma del quale “sono nulle e si considerano non apposte le clausole contrattuali di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi di interesse e di ogni altro prezzo e condizioni praticati nonché quelle che prevedono tassi, prezzi e condizioni più sfavorevoli per i clienti di quelli pubblicizzati “ trovano applicazione le condizioni sostitutive dettate dallo stesso comma 7 dell’art. 117 TUB.
Già la L. 17.02.1992 n. 154 all’ art. 5 prevedeva che: “Nelle ipotesi di nullità di cui all’art. 4, comma 4, nonché nei casi di mancanza di specifiche indicazioni, si applicano: a) il tasso nominale minimo e quello massimo del Buoni Ordinari del Tesoro annuali o di altri titoli similari eventualmente indicati dal Ministro del Tesoro, emessi nei dodici mesi precedenti la conclusione del contratto, rispettivamente per le operazioni attive e per quelle passive; b) gli altri prezzi e condizioni resi pubblici nel corso della durata del rapporto per le corrispondenti categorie di operazioni e servizi; in mancanza di pubblicità nulla è dovuto”.
Dalla normativa discende che nel caso in cui la pattuizione sul tasso di interesse sia invalida ovvero il tasso non sia stato concordato per iscritto, si applicherà, in sostituzione del tasso invalido indicato dalle parti, quello previsto dall’ art. 117 comma 7 TUB, secondo i criteri e le prescrizioni analiticamente indicate dalla norma. In subordine, qualora la norma non fosse applicabile, sarà comunque richiamato il tasso legale previsto dall’ art. 1284 c.c. Tale disposizione prevede in via generale al comma 3 che in caso di mancata pattuizione per iscritto del tasso di interesse ultralegale, troverà applicazione il tasso di interesse nella misura legale.
La differenza con le regole sulla forma scritta dei contratti bancari, si concreta nel fatto che l’inosservanza della forma scritta limitatamente alla determinazione del tasso di interesse, pur avendo come effetto la nullità della clausola, non annulla l’obbligo del debitore di pagare comunque gli interessi, calcolati secondo quanto prescritto dall’ art. 117 TUB ovvero dall’art. 1284 c.c. Trova quindi applicazione la disciplina della “inserzione automatica di clausole” di cui all’ art. 1339 c.c. , secondo la quale il patto invalido viene di diritto sostituito dalla clausola dettata dalla legge.
Giova evidenziare che l’art. 117 TUB comma 7 prevede l’applicazione del tasso nominale minimo dei BOT per le operazioni bancarie attive – intendendosi come tali quelle in cui la banca impiega i fondi raccolti nell’esercizio del credito a favore dei propri clienti, in altre parole, in caso di mutui o aperture di credito in conto corrente ed in cui quindi la banca diviene creditrice -, mentre prevede l’applicazione del tasso nominale massimo dei BOT per le operazioni bancarie passive – che sono quelle con cui l’ istituto di credito raccoglie i fondi dai cliente, a mezzo di depositi in conto corrente con saldi a credito del correntista, in cui quindi la banca diviene debitrice. Da questo punto di vista la norma è evidentemente sfavorevole nei confronti dell’istituto di credito ed assume funzione sanzionatoria nei confronti della banca, responsabile di non aver pattuito tassi conformi alla normativa.
La conversione con il tasso BOT emesso nei dodici mesi precedenti la conclusione del
contratto, prevista dall’art. 117 TUB cit., può ritenersi ragionevole nel solo caso di contratti bancari che contengono un’unica operazione di finanziamento, ma non per quelli di durata, come nel caso di un conto corrente bancario, nei quali vi è un susseguirsi di operazioni nel tempo soggette alle mutevoli condizioni del mercato e quindi laddove nasce l’esigenza di calcolare gli interessi al momento in cui ciascuna operazione viene effettuata. In sostanza, non si può applicare per tutta la durata del rapporto il tasso minimo dei BOT rilevato nei dodici mesi precedenti al momento della conclusione del contratto, bensì dovrà farsi riferimento al valore minimo e massimo dei BOT relativo ai dodici mesi precedenti ogni periodica chiusura dei conti (trimestrale o annuale). Diversamente ragionando, si avrebbe il paradosso ad esempio che, con la continua discesa dei tassi negli anni ’90 (si pensi che il tasso minimo dei BOT nei sei mesi precedenti il 09.07.1992 – data di entrata in vigore della legge 154/92 sulla trasparenza bancaria – era pari a 11,88%), si verrebbero a praticare tassi oltremodo elevati, superiori, a partire dal 1999, anche ai tassi soglia disposti dalla legge 108/1996.
Si è discusso anche sul destino delle pattuizione invalide relative ai contratti antecedenti la legge sulla trasparenza bancaria. Secondo l’orientamento prevalente sarebbe applicabile l’art. 1284 c.c., che sin dal 1942 ha stabilito la necessità della forma scritta ad substantiam per la determinazione del tasso d’interesse ultralegale, da considerarsi nel combinato disposto con l’ art. 1346 c.c., sulla necessaria determinabilità dell’oggetto del contratto. C’è peraltro chi sostiene che successivamente all’entrata in vigore della L 154/1992 e poi del TUB dovrebbero invece applicarsi i tassi sostitutivi previsti dalla normativa speciale anche per i contratti conclusi anteriormente alla loro entrata in vigore, limitatamente al periodo di durata dei rapporti successivo alla loro introduzione. Si registra, infine, un'altra posizione condivisa da chi ritiene che i nuovi criteri sostitutivi dovrebbero applicarsi sempre anche ai contratti stipulati in precedenza, per la loro intera durata; è chiaro che seguente quest’ultima corrente di pensiero non si tiene in debito conto che sia la legge sulla trasparenza bancaria che il
TUB, non assumono efficacia retroattiva.
Il problema è stato evidenziato in occasione dell’esame di una questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Milano, proprio sulle predette norme, con riferimento all’ art. 3 Cost., nella misura in cui tali norme imporrebbero l’applicazione del tasso sostitutivo legale al valore minimo e massimo dei BOT, nel periodo di dodici mesi antecedenti la conclusione del contratto, per i rapporti sorti prima della entrata in vigore della legge sulla trasparenza bancaria. Ebbene la Corte Costituzionale, con ordinanza del 18.12.2009 n. 338, con cui ha escluso le prospettate censure di illegittimità, ha chiarito che l’interpretazione assunta dai Giudici di Milano non è l’unica possibile, richiamando sul punto la giurisprudenza di legittimità e di merito ritenuta costituzionalmente conforme (cfr. ex multis Cass. 1.03.2007 n. 4853; Cass. 21.12.2005 n. 28302; Trib. Reggio Xxxxxx 17.11.2001; App. Napoli 1514/2008), secondo la quale, in caso di rapporti bancari costituiti antecedentemente alle leggi sulla trasparenza bancaria ed all’entrata in vigore poi del TUB, non devono applicarsi le norme sostitutive di cui all’ art. 4 L 154/1992 ed all’ art. 117 TUB, bensì il tasso legale previsto dall’ art. 1284 c.c.
La giurisprudenza più recente è ormai unanime nel riconoscere la nullità ex tunc della clausola di mero rinvio agli usi di piazza, quand’anche contenuta nei contratti stipulati anteriormente al 1992, attesa la contrarietà tanto all’art. 1284, comma 3 x.x. xxxxxx xxx’ xxx. 0000 x.x. , xx xxxxxxx di un criterio valido, certo, univoco ed idoneo a consentire la determinabilità dell’oggetto.
Con la sentenza n. 6447 del 23.06.1998, la Suprema Corte, con riferimento alla portata dell’ art. 1284 terzo comma c.c., ha statuito che il principio secondo il quale la convenzione di interessi dovuti in misura extralegale necessita della forma scritta ad substantiam (art. 1284 c.c.) va interpretato nel senso che il requisito della necessaria determinazione scritta degli interessi ben può essere soddisfatto anche per relationem, attraverso il richiamo a criteri prestabiliti ed elementi estrinseci, purché obbiettivamente individuabili. Non può considerarsi sufficientemente univoca la clausola che si limiti ad un mero riferimento alle
condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza, in quanto ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di determinazione del tasso convenzionale, il riferimento per relationem può considerarsi valido soltanto ove esistano vincolanti discipline del saggio, fissate su scala nazionale con accordi di cartello, e non già ove tali accordi contengano diverse tipologie di tassi o, addirittura, non costituiscano più un parametro centralizzato e vincolante.
La clausola di determinazione del tasso d’ interesse deve avere un significato assolutamente univoco e contenere la puntuale specificazione del tasso d’interesse. Nell’eventualità in cui il tasso convenuto sia variabile, la clausola sarà valida se conterrà il riferimento a parametri fissati su scala nazionale, alla stregua degli accordi interbancari ossia se è idonea ad esplicitare quale previsione le parti hanno inteso richiamare con la relativa pattuizione (ex multis Cass. 29.7.2009 n. 17679 ; Cass. 2.2.2007 n. 2317; Cass. 25.2.2005 n. 4095).
Conseguentemente, trattandosi di obbligazioni pecuniarie, il requisito della determinazione scritta degli interessi ultralegali può essere soddisfatto anche per relationem, con il richiamo a criteri prestabiliti, purché sufficientemente chiari ed individuabili. Una clausola che dovesse contenere un generico riferimento alle condizioni usualmente praticate dalle aziende di credito sulla piazza potrebbe essere valida ed univoca, solo ed esclusivamente se il riferimento per relationem sia agganciato a vincolanti discipline del saggio, fissate a livello nazionale con accordi di cartello, in modo tale che il patto consenta di stabilire quale particolare regolamentazione le parti hanno voluto applicare nel rapporto (cfr. tra le tante Cass. 2.10.2003 n. 14684; Cass 23.09.2002 n. 13823).
Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx del Tribunale di Ivrea