Contract
n. 22 – gennaio 2022
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SOMMARIO
SOMMARIO 2
APPROFONDIMENTI 5
CIVILE 6
Fideiussioni stipulate "a valle" di intese dichiarate nulle dall’antitrust 6
Premessa 6
La natura delle norme bancarie uniformi e il provvedimento n. 55 del 2005 adottato da Banca d’Italia 6
Le clausole dichiarate nulle da Banca d’Italia quale Xxxxxxxx xxxxxxx xxxxx xxxxxxxxxxx 00
Xx xxxxx xxx xxxxxxxxx "x valle" 12
Segue. La sorte dei contratti "a valle": i rimedi di (in)validità 12
Segue. La sorte dei contratti "a valle": i rimedi di responsabilità 16
La sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite 18
Conclusioni 21
PENALE 22
Consenso dell’avente diritto e uso di carte di credito e pagamento altrui: profili penalistici. 22
Cassazione Penale, II Sezione, sentenza n.18609/2021 22
La questio iuris 22
La normativa 22
Il fatto 23
Il consenso dell’avente diritto 23
La pronuncia della Seconda Sezione della Cassazione 25
Conclusione 31
AMMINISTRATIVO 32
I vincoli urbanistici: tra perseguimento dell’interesse pubblico e tutela della proprietà 32
La disciplina dettata dal TU espropriazioni 32
Vincoli espropriativi e vincoli conformativi: differenze 34
Il ricorso a strumenti perequativi come bilanciamento 36
PILLOLE DI DIRITTO 40
CIVILE 41
La pillola di diritto del 13.1.2022 41
Risarcimento del c.d. “maggior danno” 41
A cura dell’avvocato Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxx 41
#maggiordanno #art.1224c.c 41
Corte di Cassazione, sez. VI civile, sentenza n.25666 del 22/09/2021 41
PENALE 44
La pillola di diritto del 29.1.2022 44
Il perimetro applicativo della scriminante della legittima difesa. 44
A cura dell’avvocato Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxx 44
#art.52c.p. #legittimadifesa 44
Corte di Cassazione, sez. I penale, sentenza n. 38097 del 28/09/2021 (dep. 25/10/2021). 44
AMMINISTRATIVO 46
La pillola di diritto del 17.1.2022 46
Il soccorso istruttorio opera anche nei concorsi pubblici 46
#soccorsoistruttorio #concorsipubblici #autocertificazione 46
T.A.R. Campania, sez. V, Sent. n. 8374 del 31.12.2021 46
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Anno 3, n. 22 gennaio 2022
Xxxxxxx Xxxxx La Rivista è la rivista dell’Associazione Culturale Calamus iuris, La penna del diritto: una rivista di divulgazione e informazione giuridica, con approfondimenti mirati di diritto, di giurisprudenza e di tecniche di scrittura.
Redazione Xxxxx Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx
Comitato scientifico
Xxxx Xxxxxxx – Magistrato amministrativo, Consigliere del T.A.R. Campania – Presidente del Comitato Xxxxxx Xxxxxx –scrittore e giornalista
Xxxxxxx Xxxxxxxx – Magistrato militare, Giudice del Tribunale Militare di Napoli, abilitato (ASN) quale professore di prima fascia in filosofia del diritto
Xxxxxxxx Xxxxx Xxxxxx – Professore Ordinario di procedura civile, Università degli studi di Napoli Parthenope
Xxxxxxxx Xx Xxxx– Magistrato amministrativo, Consigliere del T.A.R. Campania
Xxxxxxx Xxxxxxx – Magistrato ordinario “fuori ruolo” presso il MIT
Xxxxxx Xxxxxxxx– Professore di prima fascia di procedura penale, Università degli studi di Roma Tor Vergata Xxxxxxxx Xxxxxxx- Professore di seconda fascia in diritto penale, Università degli studi Suor Xxxxxx Xxxxxxxxx di Xxxxxx Xxxxx Xxxxxxx– Magistrato ordinario, Giudice del Tribunale di Santa Xxxxx Xxxxx Vetere
Xxxxxxxx Xxxxxx – Magistrato ordinario, Giudice del Tribunale di Xxxxxxxxx
Xxx Xxxxxx- Magistrato Xxxxx Xxxxxxx- Magistrato Xxxxxx Xxxxxxxx - Magistrato
Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx – Magistrato
Xxxxx Xxxxxxxx – in attesa di nomina quale magistrato ordinario
indirizzo redazione
Xxx Xxxxx Xxxxx 00, Xxxxxx
T. +39 – 3479966161
APPROFONDIMENTI
CIVILE
Fideiussioni stipulate "a valle" di intese dichiarate nulle dall’antitrust
di Xxxxxxxx Xxxxxxxxx
Premessa
Il presente contributo si propone di analizzare il dibattito attuale avente ad oggetto la sorte dei contratti stipulati "a valle" di un’intesa “a monte” considerata lesiva della concorrenza ai sensi dell’articolo 2 della L. 287 del 1990 e come tale dichiarata dall’Autorità Garante della Concorrenza.
L’annosa questione sorge poiché nessun rimedio, né di responsabilità nè di validità, è espressamente è previsto dalla legge c.d. antitrust in riferimento a tali regolamenti negoziali.
Si sono così affermate più tesi, sia giurisprudenziali che dottrinali, per lo più sovrapponibili, sino alla soluzione recentemente proposta dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 41994 del 30 dicembre 2021. Da tale premessa è ben possibile comprendere che il punto di frizione si
concretizza, da un lato, nella necessità per il sistema giuridico di non legittimare negozi giuridici che producano, se valutati su scala macroscopica, un effetto lesivo della concorrenza e, dall’altro, nella difficoltà di giustificare il travolgimento di un regolamento negoziale in ragione di un’intesa perfezionatasi inter alios senza ledere il principio di relatività degli effetti e del collegamento negoziale.
A tal fine, appare necessario inquadrare sistematicamente la quaestio facti prendendo le mosse dalla natura delle norme bancarie uniformi predisposte dalla Associazione Bancaria Italiana (di seguito A.B.I.) e dal provvedimento adottato nel 2005 dalla Banca d’Italia, per, successivamente, esporre e esaminare le tesi proposte dalla dottrina e dalla giurisprudenza in un’ottica di efficace analisi del principio di diritto affermato dalla sentenza citata.
La natura delle norme bancarie uniformi e il provvedimento n. 55 del 2005 adottato da Banca d’Italia
I contratti di fideiussione omnibus sono redatti dagli istituti bancari in conformità alle norme bancarie uniformi predisposte dalla A.B.I. sin dal 1964.
Infatti, nel 1964 l'A.B.I. ha per la prima volta diffuso nel sistema bancario alcune condizioni generali di fideiussione, che avevano l'obiettivo dichiarato di rafforzare la tutela della banca creditrice. Nello specifico, con la Circolare 24, serie tecnica C, del 11 giugno 1964, l’A.B.I. ha predisposto il primo modello omnibus dal titolo « Condizioni generali uniformi relative alle fideiussioni senza indicazione di limite massimo a garanzia di qualunque operazione (fideiussione omnibus)»1 .
In tale modello comparivano già due2 delle tre clausole poi ritenute lesive della concorrenza, ovvero la c.d. clausola di reviviscenza e quella di deroga di rispetto dei termini ai sensi dell’articolo 1957 c.c. Con lettera circolare n. 20 del giugno 1987, l’A.B.I. ha sostituito i modelli standard con altri nuovi cinque schemi
1 X. XXXXX, Osservatorio in difesa delle fideiussioni omnibus ABI, in Banca Borsa Titoli di credito, fasc. 1/2021, pg. 141 e ss.
2 Non era presente la c.d. xxxxxxxx di sopravvivenza; il contenuto delle clausole singole si analizzerà in seguito.
tipo in cui, per quanto concerne quello di fideiussione omnibus, erano già presenti tutte e tre le clausole successivamente sanzionate, agli articoli 2, 6 e 83.
L’A.B.I., peraltro, auspicava un’applicazione uniforme del testo modificato, in modo tale da garantire all’intero settore un comportamento unitario nella predisposizione degli schemi contrattuali.
Nell’ottobre del 1990 è entrata in vigore la legge Antitrust n. 287 del 1990 e, in forza di essa, la Banca d’Italia, che all’epoca era Autorità Garante della Concorrenza tra gli Istituti di Credito, ha aperto un’istruttoria nei confronti delle norme bancarie predisposte dall’A.B.I., ritenendo, all’esito, lesive della concorrenza le clausole di fideiussione omnibus che modificavano in senso sfavorevole al cliente le disposizioni degli articoli 1949 e 1950 c.c. «relativamente alla restrizione dell'azione di regresso» (articolo 10 del modello) e all'articolo
3 V. xxxx://xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx/xx- content/uploads/2020/02/3- CIRC_ABI_20_00XXX0000.pdf .
1945 «relativamente all'opponibilità delle eccezioni da parte del fideiussore » (art. 7, comma 1 del modello)4.
In tal senso, però, le clausole di reviviscenza e di sopravvivenza sono state considerate conformi al diritto Antitrust.
Successivamente, con circolare n. 10727 del 28 dicembre del 1994, l’A.B.I. ha dichiarato che i modelli tipo elaborati
«costituiscono una mera traccia priva di ogni valore vincolante o di raccomandazione, sottolineando come, di conseguenza, ogni banca abbia facoltà di avvalersene o meno e di apportarvi tutte le modifiche ritenute opportune ». Nel febbraio del 19955, assieme con una circolare che ribadiva questo principio, l’A.B.I. ha diffuso alle associate i nuovi modelli di contratto fra cui quello della fideiussione omnibus ove erano riportate le clausole di reviviscenza, di deroga all’articolo 1957 c.c. e quella di sopravvivenza. Tali schemi tipo sono rimasti in vigore sino al 2002, anno in cui
4 Il riferimento è a Banca d’Italia, provvedimento n. 12 del
3 dicembre 1994, xxxxx://xxx.xxxxxxxxxxxx.xx/xxxxxxx/xxxxxxxxx/xxxxxx- pub/tutela- concorrenza/provvedimenti/provv12_03_12_94.pdf .
A.B.I. ha elaborato un nuovo prototipo negoziale con alcune associazioni per la tutela dei consumatori, volontariamente comunicato all’Autorità di Xxxxxxxxx ai sensi dell’articolo 13, l. 287 del 1990. Banca d’Italia, dal canto suo, ha richiesto alcune modifiche che, però, non coinvolgevano le clausole poi ritenute lesive della concorrenza.
L'A.B.I. ha, quindi, predisposto un ulteriore schema di fideiussione in adempimento alle richieste di Banca d’Italia. Il 25 luglio, Banca d'Italia ha quindi trasmesso l’emendato modello
A.B.I. all'A.G.C.M., che ha reso il proprio parere ex art. 20, comma 3°, l. 10 ottobre 1990, n. 287; prospettando l'esigenza di avviare la procedura istruttoria.
A seguito di essa, il 22 aprile 2005, l'A.G.C.M. ha comunicato il parere a Banca d'Italia, la quale ha adottato il provvedimento conclusivo (n. 55 del 2005) il successivo 2 maggio, stabilendo che « gli articoli 2, 6 e 8 dello schema
5 Circolare n. 739 del 3 febbraio 1995, xxxx://xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx/xx- content/uploads/2020/02/4- CIRC_ABI_739_03FEB1995.pdf
contrattuale predisposto dall'Abi per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie (fideiussione omnibus) contengono disposizioni che, nella misura in cui vengano applicate in modo uniforme, sono in contrasto con l'articolo 2, comma 2°, lettera a), della l. 287/90 ».
Ora, è necessario comprendere il valore normativo da attribuire alle norme bancarie uniformi che vengono elaborate dall’A.B.I. e che risultano attenzionate in prima linea dall’A.G.C.M. e dalla Banca d’Italia, potendosi anche da ciò solo desumerne l’importanza nel panorama giuridico.
In un primo momento, una costante prassi bancaria tendeva ad attribuire alle norme bancarie uniformi valore normativo, poiché da interpretarsi alla stregua di raccolta di usi negoziali ai sensi dell’articolo 1368 c.c..
La giurisprudenza di legittimità ha, poi, però, escluso che tali clausole possano essere annoverate negli usi negoziali, stabilendo che esse possano al più essere qualificate alla stregua di condizioni generali di contratto ai sensi dell’articolo
6 Cass. Civ., Sez. I, sentenza n. 2374 del 16.3.1999; Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 3096 del 30.03.1999.
1341 e 1342 c.c.6
Ciò muovendo le considerazioni dall’assunto secondo cui l’A.B.I è un’associazione di categoria e, dunque, tali norme hanno valore meramente pattizio, così qualificandosi come proposte di condizioni generali di contratto indirizzate dall’associazione alle banche associate che sono la quasi totalità degli istituti di credito. In tal senso, quindi, le banche sono assolutamente libere di adottare e recepire tali condizioni7.
Alla luce di ciò, e sebbene gli istituti di credito non siano vincolati da tali condizioni predisposte da A.B.I., nella prassi si verifica una generalizzata applicazione delle stesse, motivo per il quale si è posta la questione che ci occupa. Infatti, le clausole de quo sarebbero in astratto lecite per l’ordinamento giuridico nel singolo negozio contrattuale, ma assumono carattere illecito poiché adottate a seguito di un’intesa restrittiva della concorrenza e, dunque, in quanto macroscopicamente considerate.
7 X. Xxxxxxxx, I contratti-tipo. Modelli negoziali per la regolazione del mercato: natura, effetti, limiti, Napoli, 2017, pgg. 404 ss
Il provvedimento n. 55 del 2005 ha ritenuto che alcune clausole dello schema predisposto da A.B.I. applicate in modo uniforme dalle banche costituissero un’intesa restrittiva della concorrenza, come tale vietata, e, dunque, che tali norme fossero da ritenere nulle.
L’intesa de quo aveva l’effetto, infatti, di fissare direttamente o indirettamente i prezzi di acquisto o di vendita o altre condizioni contrattuali, poiché prescrive per il fideiussore delle condizioni contrattuali svantaggiose e onerose senza un’adeguata giustificazione, in mancanza di un equilibrato contemperamento degli interessi delle parti.
Dunque, l’adozione generalizzata di tali clausole potrebbe causare effetti anticoncorrenziali, limitando la possibilità di addivenire a condizioni contrattuali più favorevoli per il garante.
Occorre notare che la sanzione dell’invalidità delle clausole riguarda lo schema adottato da A.B.I. niente prevedendo il provvedimento circa le conseguenze che ne derivano in punto di singoli regolamenti negoziali.
Le clausole dichiarate nulle da Banca d’Italia quale Autorità garante della concorrenza
Le clausole sanzionate dalla Banca d’Italia sono tre e sono la c.d. “clausola di reviviscenza”, “clausola di sopravvivenza” e una clausola che deroga al termine di decadenza ai sensi dell’articolo 1957 c.c.
Per ciò che concerne la prima, la c.d. clausola di reviviscenza, la stessa è stabilita dall’articolo 2 delle norme bancarie uniformi e prevede che“il fideiussore è tenuto a rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni pagate dal debitore e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo”. Dunque, in base a tale clausola, se il debitore principale adempie la sua obbligazione nei confronti della banca, ma successivamente il pagamento viene dichiarato nullo o inefficace e, quindi, la banca è tenuta a restituire la somma al debitore, “rivive” l’obbligazione originaria del fideiussore il quale dovrà pagare il debito alla banca.
Per ciò che concerne la seconda, la c.d. clausola di sopravvivenza, è prevista dall’art. 6 delle norme bancarie uniformi e disciplina l’ipotesi in cui il finanziamento venga dichiarato nullo, disponendo che “qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione garantisce comunque l’obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate”. In tal senso, l’obbligazione del fideiussore rimane valida per garantire alla banca la restituzione del finanziamento erogato in esecuzione del debito principale.
Da ultimo, la clausola di deroga al termine di decadenza previsto dall’articolo 1957
c.c. di cui all’art. 8 delle norme bancarie uniformi fissa che “i diritti derivanti alla banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti, a seconda dei casi, dall’art. 1957 c.c., che si intende derogato”.
Tale previsione stabilisce un’importante deroga rispetto alla disposizione civilistica la quale sancisce che la banca, per non decadere dalla garanzia, deve agire contro
il debitore principale (o contro il fideiussore) entro sei mesi dalla scadenza dell’obbligazione principale, mentre con la clausola de qua il fideiussore rinuncia a questo termine di decadenza a suo favore, in modo tale che la banca non soggiace ad alcun termine, salvo quello ordinario di prescrizione decennale.
Tali condizioni ictu oculi integrano degli oneri complessivamente gravosi per il fideiussore rispetto a quelli disciplinati nella normativa codicistica, avendo l’effetto di rendere la posizione del garante più gravosa e la banca più sicura in termini di restituzione del credito.
La Banca d’Italia ha rilevato come tali clausole importino un trattamento deteriore senza una giustificazione legittima, creando un assetto degli interessi già squilibrato, e non facilitino l’accesso al credito, presentando piuttosto una copertura della scarsa diligenza della
banca8.
Nel provvedimento si legge che le clausole integravano un’intesa lesiva della concorrenza “solo nella misura in cui” le stesse venissero applicate in maniera uniforme dagli istituti di credito associati.
La sorte dei contratti "a valle"
I contratti c.d. "a valle" sono quei contratti stipulati dal singolo fideiussore con lo specifico istituto creditizio, cioè quei contratti predisposti secondo il modello A.B.I. astrattamente legittimi, perché niente si oppone a concluderli in quei termini, ma strumento di una violazione del libero mercato, poiché attraverso di essi le imprese partecipanti ad un’intesa o titolari di una posizione dominante attuano i loro scopi anticoncorrenziali.
Tali contratti sono, si potrebbe dire, viziati “di riflesso” rispetto a ciò che sta “a monte”, ovvero l’intesa inter alios avvenuta.
L’intesa anticoncorrenziale, infatti,
8 X. XXXXXXX, Nullità dei “contratti "a valle"” come pratica concordata anticoncorrenziale (il caso delle fideiussioni A.B.I.), in Giust. Civile, fasc. 4/2019, pg. 675 ss.
raggiunge l’effetto restrittivo solamente attraverso atti ad essa strumentali che realizzano la distorsione del mercato; da qui la necessità che i consequenziali atti, frequentemente strumentali, vengano travolti dal divieto di cui all’articolo 2 del l. 287/1990.
Con quali rimedi? La questione è annosamente dibattuta sia in giurisprudenza che in dottrina, ove le tesi che si contrappongono, seppur diversificate al loro interno, sono sostanzialmente due, l’una a favore dell’esperimento di un rimedio di validità, nella specie della nullità dei contratti "a valle", e l’altra a favore di un rimedio di responsabilità di tipo risarcitorio.
Segue. La sorte dei contratti "a valle": i rimedi di (in)validità
La tesi della nullità del contratto "a valle" è stata sostenuta sia da parte della dottrina che da parte della giurisprudenza.
In primo luogo, vi sono tesi, di cui, per amor di sintesi9, si richiameranno le più
9 Per una ricognizione per sommi capi delle tesi ulteriori in punto di nullità A. GENTILI, La nullità dei contratti "a valle" come pratica concordata anticoncorrenziale (il caso delle fideiussioni
rilevanti, per le quali la nullità sarebbe integrale.
Secondo una prima xxxx00, xx xxxxxxx xxx xxxxxxxxx "x valle" sarebbe da sostenere in ragione della ratio dell’articolo 2 della l.
287 del 1990 la quale, prevedendo la nullità degli accordi fra imprese che hanno ad oggetto o per effetto di impedire o limitare la concorrenza, ha lo scopo di assicurare un mercato competitivo improntato alla libera concorrenza.
In tal senso, l’opinione muove le proprie considerazioni dalla circostanza che, essendo i contratti finali a determinare l’effetto anticoncorrenziali, gli stessi non possano essere tollerati come validi nel nostro ordinamento.
Si tratterebbe dunque di una c.d. nullità virtuale per vizio proprio da contrarietà a
ABI), fasc. 4/2019, pg. 675 ss.; nello specifico per la nullità per illiceità della causa si v. X. XXXXX PRISCOLI, La dichiarazione di nullità dell'intesa anticoncorrenziale da parte del giudice ordinario, in Giur comm., fasc. 2/1999 pg. 226 ss; X. XXXXXXX, Nullità ed inefficacia nel sistema europeo dei contratti, in Eu. e dir. priv., 2001, pg. 492; per nullità per illiceità dell’oggetto si v. X. XXXXXXXXXX, Antitrust e abuso di responsabilità civile, in Danno e resp., 2004, pg. 469 ss., 473; X. XXXXXXXXXX, Ancora su norme antitrust e contratti "a valle", in Giur. it., 2000, pg. 1876.
10 X. XXXXXXXX, La nullità delle intese anticoncorrenziali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, pg. 439 ss.; X. XXXXXXX, Nullità dei contratti nell’intesa anticompetitiva, Milano, Xxxxxxxx, 2012, pg. 179 ss., che peraltro lascia spazio all’ipotesi della nullità testuale; C. LO SURDO, Il
norma imperativa: come emblematicamente sottolineato in dottrina, infatti, “il contratto che lega l’impresa all’utente finale costituisce lo strumento attraverso cui la prima attualizza l’oggetto della collusione pre- disposta con i suoi pari e, nella misura in cui consente alle imprese coinvolte di trarre i frutti della propria condotta, finisce inevitabilmente per assorbirne la natura illecita”11.
La critica che viene mossa in riferimento a tale orientamento è che la nullità virtuale sarebbe configurabile solamente qualora si trattasse di norma inderogabile, a tutela di interessi generali, che riguardi elementi intrinseci al contratto o alla sua struttura o al suo contenuto, mentre la normativa Antitrust in questione non concerne tali elementi del contratto "a valle"12.
Secondo una differente tesi13, invece, il regolamento negoziale sarebbe viziato da
diritto della concorrenza tra vecchie e nuove nullità, in Banca borsa, 2004, I, pg. 205 ss.
11 commento di X. XXXXXXXXX, Xxxxxxxx e contratti dei consumatori: da Xxxxxxx a Xxxxxxx? a Cass. Civ. sentenza n. 9384 dell’ 11.06.2003, in Foro it., fasc. 1/04, pg. 466 ss.
12 X. XXXXXXXXXX XXXXXXX, Diritto antitrust e rimedi utilizzabili in Italia dai soggetti danneggiati dai c.d. “contratti "a valle"”. Un problema ancora aperto, in Diritto dell’economia, anno 65, fasc. 98, ovvero fasc. 1/2019, pg. 269 ss.
13 X. XXXXX, Norme bancarie uniformi e condizioni generali di contratto, in Contr., 1996, pg. 152ss; X. XXXXXXXXX, Disciplina antitrust e contratti bancari, in Banca borsa, titoli di credito, fasc. 2/1995, pg. 420 ss; X. XXXXXXXX,
X. XXXXXXXXX, Disciplina della concorrenza nella CE, Torino, 1996, pg. 474 ss.; L. DI VIA, L’invalidità dei
nullità derivata per vizio riflesso, applicando l’istituto amministrativo dell’invalidità derivata viziante. In tal senso, il collegamento fra l’intesa e il contratto "a valle" sarebbe tale da imporre una considerazione unitaria della fattispecie in applicazione del principio simul stabunt simul cadent.
Tale tesi è stata oggetto di critiche da parte di altra dottrina, mancando in tal senso gli elementi essenziali del collegamento negoziale, vale a dire un’unica causa (si pensi al credito al consumo) e la comune volontà delle parti14.
A favore della tesi della nullità integrale del contratto "a valle", si è posta anche la sentenza della Corte di Cassazione n. 29810 del dicembre 2017 secondo cui la normativa Antitrust ha come destinatari “non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato, ovvero chiunque abbia
contratti tra imprenditori, in X. Xxxxxx (a cura di), Diritto Privato Europeo, Padova, 1997, pg. 761 ss.
14 L’istituto civilistico richiede che “il contratto accessorio, pur conservando una propria distinta fisionomia causale, o risulti funzionalizzato, nella comune volontà delle parti, alla realizzazione delle finalità perseguite con il contratto principale (collegamento c.d. volontario); ovvero sia comunque oggettivamente funzionale al perseguimento dello scopo unitario dell’operazione (collegamento c.d. funzionale). E nel caso in esame difetta sia l’uno che l’altro presupposto, attesa la estraneità del terzo contraente "a valle" tanto rispetto al negozio a monte che alla trama di interessi e finalità che
interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere per effetto di un'intesa vietata, tenuto conto, da un lato, che, di fronte ad un'intesa restrittiva della libertà di concorrenza, il consumatore, acquirente finale del prodotto offerto dal mercato, vede eluso il proprio diritto ad una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza, e, dall'altro, che il cosiddetto contratto "a valle" costituisce lo sbocco dell'intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti”. In tal senso, gli Ermellini ritenevano, però, che tale principio potesse essere applicato solamente ai contratti di fideiussione stipulati prima dell’indagine svolta dall’Autorità Xxxxxxx, ma non chiariscono se debba applicarsi la regola generale di cui all’articolo 1419 c.c.
La giurisprudenza di merito15 si è, invece, posta in maniera più rigorosa effettuando
vi sono sottesi; ed ancora, e soprattutto, attesa la ben distinta connotazione causale del contratto "a valle" rispetto a quella caratterizzante il cartello” si v. X. XXXXXXXXX, Contratti "a valle", rimedi civilistici e disciplina della concorrenza, Napoli, 2008, pg. 71 ss.
15 Corte d’Appello di Bari, sentenza n. 2/2020, n. 45/2020,
n. 522/2020, n. 3016/2018; Tribunale di Salerno sentenza n. 3016/2018.
una lettura costituzionalmente orientata della normativa anticoncorrenziale; fra tutti il Tribunale di Salerno16 ha statuito che “poiché qualsiasi forma di distorsione della competizione del mercato (che rappresenta un valore costituzionale ai sensi dell’art. 41 Cost., dunque espressione di un interesse generale), in qualunque modo posta in essere, costituisce comportamento rilevante per l’accertamento della violazione dell’art. 2 della normativa antitrust (...), è inevitabile concludere che l’intero portato, "a valle" di quella distorsione, debba essere assoggettato alla sanzione della nullità”.
In secondo luogo, vi sono orientamenti che ritengono che la nullità debba essere qualificata come parziale e dunque investire le sole clausole oggetto di intesa anticoncorrenziale.
A deporre a favore di questa tesi è principalmente il favor dell’ordinamento per la conservazione del negozio giuridico, costituendo la nullità parziale la regola nel nostro ordinamento17.
In tal senso, è precisa la sentenza del Tribunale di Mantova del 16 gennaio
16 Tribunale di Salerno, sentenza n. 2084 e 480 del 2020.
17 in tal senso, Cass. Civ., Sez. I, sentenza n. 16017 del 13.06.2008, nonché giurisprudenza di merito quale
2019 secondo cui: “a) l'intesa concernente le clausole in materia di fideiussione e di cui agli artt. 2, 6 e 8 dello schema predisposto dall'ABI (e integralmente recepite nella fideiussione oggetto del giudizio) è stata ritenuta dalla Banca d'Italia, con provvedimento n. 55/2005, contrastante con il disposto di cui all'art. 2, comma 2, della legge n. 287/1990; b) l'intesa vietata ai sensi della predetta norma è nulla « a ogni effetto » come sancito dal comma 3 dell'art. 2 della legge n. 287/1990; c) il c.d. contratto "a valle" costituisce lo sbocco dell'intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti sicché la nullità dell'intesa a monte prevista « a ogni effetto » non può che comportare la nullità delle clausole oggetto dell'accordo illecito e trasposte nella fideiussione, come da ultimo affermato da Cass. civ. n. 29810/2017; d) le clausole in questione debbono ritenersi nulle, ma, alla stregua di quanto previsto dall'art. 1419 c.c., la loro invalidità non determina quella dell'intera fideiussione, dovendosi presumere, secondo una indagine condotta in concreto, che le parti avrebbero egualmente concluso il contratto di mutuo e di fideiussione avendo avuto di xxxx,
Tribunale di Brescia con sentenza del 4 marzo 2021, Trib. Padova, n. 7767 del 29 gennaio 2019, Trib. Rovigo, 9
settembre 2018.
da un lato, la concessione del finanziamento alle condizioni economiche pattuite e, dall'altro, il rilascio della garanzia fideiussoria (come dimostra il fatto che l'istituto di credito, agendo in giudizio, non si è avvalso delle condizioni illecite pattuite)”.
Segue. La sorte dei contratti "a valle": i rimedi di responsabilità
Vi è poi un differente indirizzo che ritiene che, in caso di nullità delle clausole dello schema A.B.I., l’unico rimedio a disposizione dei privati sarebbe quello risarcitorio.
La sentenza in commento, infatti, dà conto di una tesi secondo la quale ciò che difetta sarebbe la mancanza di una vera libertà di determinazione e scelta da parte del contraente cliente della banca, il quale non avrebbe altra scelta, essendo la fideiussione valida, che quella di proporre l’azione per il risarcimento dei danni.
Il modello di tutela sarebbe quello di cui al dolo incidente ex art. 1440 c.c. che permette di reagire a comportamenti di malafede.
In tal senso, la giurisprudenza di legittimità ha così delineato i confini di tale responsabilità statuendo che si tratterebbe di un’ipotesi di responsabilità precontrattuale (della banca) da contratto valido, ma sconveniente per il fideiussore perché stipulato "a valle" del contegno sleale di uno dei contraenti: “quando, come nell'ipotesi prefigurata dall'art. 1440 c.c., il danno derivi da un contratto valido ed efficace ma sconveniente, il risarcimento deve essere ragguagliato al minor vantaggio o al maggiore aggravio economico determinato dal contegno sleale di una delle parti, salvo la prova di ulteriori danni che risultino collegati a tale comportamento "da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto”18.
Quest’ultima muove le proprie considerazioni dalla circostanza che la legge antitrust non prevede testualmente la nullità dei contratti "a valle" e che tale nullità non può essere applicata proprio perché ne mancano i presupposti non concernendo direttamente il contenuto del contratto "a valle" tra impresa e cliente.
18 Cass. Civ., Sez. I, sentenza n. 19024 del 29.09.2005
Peraltro, viene evidenziato che la nullità del contratto "a valle" potrebbe non corrispondere all’interesse dell’utente finale.
Una differente ricostruzione per giungere alle medesime conclusioni, viene, invece, fornita da una sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 2207 del 200519 la quale ha ritenuto di estendere la portata dell’articolo 2 della l. 287 del 1990 non solo agli imprenditori, ma anche agli altri soggetti del mercato o a chiunque abbia un interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo e che quindi possa arrecare l’aver subito un danno. Ne discende, quindi, che il soggetto finale vede eluso il proprio diritto ad una scelta effettiva e che quindi la violazione di tale interesse possa integrare, almeno potenzialmente, il danno ingiusto ex art. 2043 c.c.
In guisa di ciò, il consumatore avrebbe a propria disposizione il rimedio di cui all’articolo 33 della medesima legge.
19 Xxxxxxx precisare che la sentenza si è pronunciata incidentalmente sul tema, avendo ad oggetto la materia assicurativa.
Tale tesi non è esente da critiche20, di cui la maggiore sicuramente è quella secondo cui, qualora il contraente non abbia subito un danno emergente o un lucro cessante, nessun risarcimento potrebbe essere accordato allo stesso, così determinando l’assenza di conseguenze per il proposito dell’intesa. Nell'ottica della concorrenza il rimedio risarcitorio che invece protegge il singolo, e solo se danneggiato patrimonialmente, è perciò di per sé inadeguato considerando che l’efficacia dissuasiva di tale strumento sarebbe nella, pratica, esigua dal momento che non tutti i danneggiati agiscono in giudizio e non tutti riescono ad ottenere il risarcimento del danno. Dunque, anche ammesso che il rimedio congruo all'antigiuridicità dei contratti "a valle" non sia l'invalidità, occorre che esso colpisca la restrizione alla concorrenza, e non soltanto ed eventualmente il pregiudizio patrimoniale patito dal cliente.
In tal senso è decisamente preferibile la tesi che ritiene che i due rimedi, quello di
20 P. LIBRICI, Clausole ABI e nullità del contratto di fideiussione. Ancora sull’invalidità dei contratti "a valle" per contrasto delle “norme bancarie uniformi” con la disciplina antitrust, in JUSCIVILE, fasc 4/2020, pg. 1071 ss.
validità e quello di responsabilità, possano, al più, essere cumulati, così la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 13896 del 2007 secondo cui “siccome la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall'ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto ex art. 2043 c.c., il consumatore finale, che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l'effetto di una collusione "a monte", ha a propria disposizione, ancorchè non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli imprenditori autori della collusione, l'azione di accertamento della nullità dell'intesa e di risarcimento del danno di cui alla L. n. 287 del 1990, art. 33”21.
La Direttiva Enforcement n. 104/2014/UE stabilisce, in merito alle modalità di risarcimento, che "a norma del principio di efficacia, gli Stati membri provvedono affinché tutte le norme e procedure nazionali relative all'esercizio del diritto di chiedere il risarcimento del danno siano concepite e applicate in modo da non rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficoltoso l'esercizio del diritto, conferito dall'Unione, al pieno risarcimento per il
21 In senso analogo cfr. Cass. Civ., Sez. I, sentenza n. 14238 del 6.07.2005, n.; Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 14716 del
danno causato da una violazione del diritto della concorrenza. A norma del principio di equivalenza le norme e procedure nazionali relative alle azioni per il risarcimento del danno a seguito di violazioni degli artt. 101 o 102 TFUE non devono essere meno favorevoli, per i presunti soggetti danneggiati, di quelle che disciplinano azioni simili per danni derivanti da violazioni del diritto nazionale”.
La sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite
La sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite in commento ha sposato la tesi della nullità parziale delle clausole oggetto dell’intesa anticoncorrenziale statuendo il seguente principio di diritto “i contratti di fideiussione "a valle" di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Xxxxxxx, in relazione alle sole clausole contrastanti con la l. 287 del 1990, art. 2 comma 2, lett. a) e art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, sono parzialmente nulli, ai sensi dell’art. 2, comma 3 della Legge succitata e dell’articolo 1419 c.c., in relazione alle sole clausole che riproducano quello
14.10.2005; Cass. Civ, Sez. III, sentenza n. 993 del 21.01.2010,
schema unilaterale costituente l’intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti”.
La decisione della giurisprudenza di legittimità si basa su plurime considerazioni.
Preliminarmente, secondo quanto pacificamente affermato dalla Corte di Giustizia22, è competenza della giurisprudenza nazionale individuare in base al diritto interno di ciascuno stato membro gli effetti giuridici sul contratto "a valle” conseguenti all’accertamento di un’intesa anticoncorrenziale e, quindi, alla dichiarazione di nullità delle clausole coinvolte in applicazione del principio di effettività e del principio di equivalenza. In primis una di ordine generale, ovvero la circostanza che l’articolo 2 lett. a) della legge 287 del 1990 ha per oggetto la protezione, in via immediata, dell’interesse generale alla libertà della concorrenza sancito dall’articolo 41 Cost., nonché dal Trattato di Maastricht
nel 1992 e dal TFUE agli articolo 3 e 101. Lo scopo è quello di impedire un risultato economico consistente nella alterazione del libero gioco della concorrenza a favore di tutti i soggetti del mercato ed in qualsiasi forma la stessa venga posta in essere.
Dunque, costituendo i contratti "a valle" lo sbocco dell’intesa e lo strumento tramite cui realizzare il risultato vietato, l’operazione vietata nel suo complesso, gli stessi non possono che essere sanzionati. Gli Ermellini rinvengono fra l’intesa a monte e i contratti "a valle" un c.d. collegamento funzionale ovvero un nesso la cui funzionalità si riscontra quando il contratto "a valle" è interamente o parzialmente riproduttivo dell’intesa a monte, dichiarata nulla dall’autorità di vigilanza, nonché quando viene riprodotta solo una parte del contenuto dell’atto anticoncorrenziale che lo precede, venendo a costituire lo strumento di attuazione dell’intesa.
È proprio quindi questo nesso funzionale a
22 C.G.U.E. 14/12/1983, C-319/82, Societè de Vente de Cimentes; C.G.U.E. 10/07/1997, C-261/95 Palmisani;
C.G.U.E. 20/09/2001, C-453/99, Courage Ltd x. Xxxxxx.
creare il meccanismo distorsivo della concorrenza vietato dalla normativa: le clausole de quo, infatti, se isolatamente considerate, non determinano alcun effetto anticoncorreziale, il quale, invece, viene prodotto dal nesso funzionale fra l’intesa a monte ed il contratto "a valle". Ciò, dice il Xxxxxxxx, è ancora più evidente quando le deroghe vengano riproposte e reiterate in più contratti, ledendo la libertà di scelta dei clienti contraenti e incidendo negativamente sul mercato.
Tale invalidità viene qualificata dalla sentenza come una nullità “speciale” in quanto conseguenza di una “nullità a tutti gli effetti” prevista dalla normativa di cui alla l. 287 del 1990 in chiara applicazione del diritto Eurounitario. La ratio di tale nullità ulteriore e differente deve rinvenirsi proprio nell’esigenza di salvaguardia dell’ordine pubblico economico. Quest’ultimo istituto è noto, peraltro, alla giurisprudenza, la quale ne ha fatto applicazione anche in differenti ambiti quale l’aggravamento del dissesto in una società già decotta al fine di
ritardare la dichiarazione di fallimento. Chiaramente, tale necessità deve essere posta in relazione e in bilanciamento con i principi che reggono il sistema giuridico dell’ordinamento italiano, fra cui quello di conservazione del contratto.
In tal senso, la sentenza de quo statuisce che i contratti "a valle" non possono ritenersi integralmente nulli, bensì la nullità è destinata a colpire solamente quelle clausole che hanno l’effetto di realizzare l’effetto distorsivo della concorrenza e, dunque, le clausole A.B.I. dichiarate invalide in relazione alla normativa antitrust.
Ciò conformemente a quanto stabilito, peraltro, dalla Corte di Giustizia23, la quale ha ritenuto che la sanzione della nullità si applica solo alle clausole dell’accordo colpite dal divieto a meno che tali clausole non risultino inseparabili dall’accordo o dalla decisione, nel qual caso saranno tavoli integralmente.
In guisa di ciò, il contratto "a valle" è nullo solamente in parte qua salvo che tale parte non sia connotata da essenzialità per
23 C.G.U.E. 30/06/1966, C- 56/65, LTM.
i contraenti.
La parte contraente, peraltro, può chiedere in aggiunta all’accertamento della nullità parziale anche l’eventuale ripetizione dell’indebito ex art 2033 c.c., nonché l’azione di risarcimento dei danni. In tertiis gli Ermellini si confrontano con il valore probatorio da attribuire al provvedimento sanzionatorio emesso dalla Banca d’Italia in qualità di Autorità Garante recependo l’orientamento ritenuto maggioritario in giurisprudenza24 secondo cui lo stesso costituisce prova privilegiata della condotta anticoncorrenziale. In tal senso, il giudice di merito è tenuto ad apprezzarne il contenuto complessivo senza poter limitare il suo esame a sole parti di esso. In quartiis e da ultimo, la rilevabilità processuale della nullità parziale è rimessa alla volontà delle parti; prevede, infatti, la Corte che quand’anche le parti propongano domanda di nullità integrale, il giudice debba d’ufficio rilevarne la nullità parziale e rimettere alle stesse la
24 Cfr. Cass. Civ., Sez. I., sentenza n. 13846 del 22.05.2019; Cass. Civ. Ordinanza n. 29810 del 12.12.2017; in senso contrario si era espressa in un’altra pronuncia la Cass. Civ. Sentenza n. 30818/2020, la quale statuiva che comunque
decisione sulla prosecuzione del giudizio di accertamento, non potendo sostituirsi alla valutazione e alle determinazioni espresse nel processo.
Conclusioni
In conclusione, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno optato per una soluzione di compromesso che appaga sia l’interesse al non dilagare di pratiche commerciali scorrette sia la necessità che non tutti i contratti "a valle" vengano travolti inesorabilmente dalla dichiarazione di nullità.
In tal senso, la netta cesura fra rimedi di invalidità e rimedi di responsabilità presente nell’ordinamento italiano continua a dimostrare alcune criticità e una flessibilità che male si adatta alla compenetrazione delle normative nazionali e sovranazionali.
il soggetto danneggiato dovesse provare la partecipazione dell’istituto di credito a quella intesa o comunque il carattere diffuso dell’intesa anticoncorrenziale che investiva anche il regolamento negoziale de quo.
PENALE
Consenso dell’avente diritto e uso di carte di credito e pagamento altrui: profili penalistici.
di Xxxxxx Xxxxxx
Cassazione Penale, II Sezione, sentenza n.18609/2021
La questio iuris
Con la pronuncia n. 18609/2021 del 12 Maggio 2021 la Seconda Sezione della Cassazione si è pronunciata, in caso di indebito utilizzo di carte di credito, sull’applicabilità della causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto alla fattispecie rispetto all’utilizzo da parte di un terzo. Il presente contributo, pertanto, si propone di analizzare la statuizione della pronuncia di legittimità dopo aver esaminato, se pur per sommi capi, l’esimente di cui all’art. 50 c.p.
La normativa
Art. 493 ter c.p.– Indebito utilizzo e falsificazione di carte di credito e di pagamento:
1.Chiunque al fine di trarne profitto per sé o per altri, indebitamente utilizza, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 310 euro a 1.550 euro. Alla stessa pena soggiace chi, al fine di trarne profitto per sé o per altri, falsifica o altera carte di credito o di pagamento o qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, ovvero possiede, cede
o acquisisce tali carte o documenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi.
2. In caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per il delitto di cui al primo comma è ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, nonché del profitto o del prodotto, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero quando essa non è possibile, la confisca di beni, somme di denaro e altre utilità di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale profitto o prodotto.
3.Gli strumenti sequestrati ai fini della confisca di cui al secondo comma, nel corso delle operazioni di polizia giudiziaria, sono affidati dall’autorità giudiziaria agli organi di polizia che ne facciano richiesta.
Il fatto
La pronuncia che si annota consegue al ricorso proposto avverso la sentenza di secondo grado che, in riforma dell'assoluzione pronunciata in prime cure, condannava i coimputati per indebito utilizzo di carta di credito, intestata alla persona offesa, per ripetuti prelievi di carburante, effettuati in un'area di servizio in orario notturno. Il giudice di prime cure aveva ritenuto scriminata la fattispecie di reato prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2007, art. 55, comma 9, vigente all'epoca del fatto, oggi trasfuso nell’art. 493 ter c.p., sulla scorta delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, concludendo che questa avesse assentito all'utilizzo della carta per estinguere il debito intercorrente con uno dei due imputati. La Corte d'Xxxxxxx aveva ribaltato il verdetto assolutorio riscontrando un prelievo di importo superiore al debito.
Con il ricorso veniva dedotta la mancanza di prova circa il contributo del ricorrente, sotto il profilo materiale e psicologico, all'ipotizzato utilizzo abusivo dell'altrui carta di credito; veniva altresì censurata la mancata considerazione dell'argomento utilizzato dalla sentenza di primo grado per dimostrare l'esistenza del consenso dell'avente diritto all'uso dello strumento di pagamento.
Il consenso dell’avente diritto L’esimente del consenso dell’avente diritto è l’unica scriminante che non pone
il delicato problema di comparazione di
interessi e di complementare verifica della prevalenza dell’interesse sull’altro. Anzi essa si basa sulla carenza di un interesse da tutelare a seguito della rinunzia del titolare alla conservazione del bene protetto dalla norma. La liceità, quindi, deriva dall’indifferenza mostrata dall’ordinamento alla tutela del bene allorché il soggetto legittimato esprima il consenso alla sua lesione.
Controversa, da sempre, è stata la ratio dell’istituto in disamina: una prima tesi dottrinale ne individua il fondamento
nella natura negoziale del consenso che attribuirebbe ad altri il diritto di ledere un proprio bene giuridico; la tesi maggioritaria, tuttavia, considera il consenso come un permesso cui si conferisce al destinatario il potere di agire, senza che si crei alcun rapporto giuridico. L’atto in questione determina, quindi quale effetto unico, l’esclusione dell’illiceità della condotta per il semplice abbandono dell’interesse e la correlata accettazione del fatto.
Il consenso, affinchè operi come causa di giustificazione, è necessario che presenti alcuni requisiti: deve essere attuale, ossia sussistente al momento della condotta delittuosa; libero, giacchè è necessario che il soggetto possa validamente disporre del diritto in quanto una volontà viziata sarebbe improduttiva di effetti; lecito, perché un consenso prestato in violazione del buon costume o di norme imperative sarebbe irrilevante; ancora deve essere consapevole, dato che il soggetto deve conoscere i possibili esiti della condotta consentita ed, infine, specifico perché manifestato in relazione a precise condotte.
Bisogna, inoltre, indugiare sul versante oggettivo poiché il consenso non può essere prestato per tutti i diritti, ma solo per quelli disponibili, ovvero per quelle posizioni giuridiche per le quali lo Stato non conserva il proprio peculiare interesse alla conservazione del bene. Ai fini di disciplina va chiarito che diritti non sono solo i diritti soggettivi in senso tecnico, ma anche ogni interesse che sia oggetto di tutela cui l’interessato possa rinunziare. A tal riguardo, perché il consenso riguarda diritti disponibili, è opportuno distinguere tra diritti assolutamente disponibili, quali il diritto all’inviolabilità dei segreti privati, i diritti patrimoniali e la libertà sessuale; diritti relativamente disponibili, quale l’integrità fisica a patto che sia temporanea e riparabile dal punto di vista organico o funzionale. Sono, infine, assolutamente indisponibili i beni appartenenti allo Stato o a enti pubblici.
Quanto ai limiti soggettivi, il consenso può essere prestato dal solo titolare dell’interesse tutelato, ossia dal soggetto passivo del reato. E’ chiaro che questi, per poter validamente esprimere il consenso,
ne deve avere la capacità: quella parte della dottrina, favorevole alla natura negoziale, propende per la sussistenza della capacità di agire ex art. 2 c.c.; l’orientamento maggioritario ritiene sufficiente la capacità naturale, da accertare caso per caso.
Sembra evidente che non sia necessaria una forma particolare per esprimere il consenso, anche in considerazione della rilevata natura non convenzionale. Può esprimersi, dunque, con un’espressa manifestazione di volontà, resa con atto scritto unilaterale anche non recettizio o in un atto negoziale, una comunicazione verbale, oppure con un comportamento concludente o tacito, di certo univocamente orientato a denunziare quella direzione del volere. Anche il silenzio, allorquando assuma un significato inequivocabile e sia correttamente valutato nel contesto concreto, può valere a configurare il consenso rilevante in presenza di una componente oggettiva rilevante.
Alla rilevanza obiettiva della scriminante fin ora descritta, l’indirizzo prevalente ricollega la ritenuta irrilevanza del
consenso presunto che si ha quando il soggetto attivo sa che l’avente diritto non ha prestato il consenso, ma ritiene che lo avrebbe fatto se fosse stato a conoscenza della situazione di fatto o se ne fosse stato in grado. Ciò si basa sul dato per cui il consenso non elide l’antigiuridicità di un fatto offensivo se non quando sia effettivamente riconducibile alla sfera volitiva del soggetto destinatario della condotta.
La pronuncia della Seconda Sezione della Cassazione.
La Suprema Corte, con la sentenza in commento, enuncia il principio di diritto secondo cui la causa scriminante del consenso dell’avente diritto non può applicarsi al delitto di indebito utilizzo di carte di credito o di pagamento, trattandosi di reato plurioffensivo in quanto posto a presidio di due distinti beni giuridici, quali il patrimonio individuale e l’interesse pubblico alla sicurezza nelle transazioni commerciali, laddove la suddetta causa di giustificazione può applicarsi solo
nell’ipotesi in cui l’interesse giuridico protetto dalla norma penale rientri nel novero dei diritti disponibili della parte lesa.
La necessità di intervenire a tutela delle carte di pagamento è piuttosto recente, a partire dagli anni ’90, e la casistica relativa a tale fattispecie è cresciuta in modo direttamente proporzionale all’incremento dell’utilizzo degli strumenti medesimi. Fin dalle sue origini, la materia è stata strettamente connessa a quella dell’antiriciclaggio, tant’è vero che fino al D.Lgs. 21/2018 la medesima era inserita nell’art. 55 del D.Lgs. 231/2007, valorizzandone la funzione di limitazione dell’uso del contante, per essere, poi, oggi trasfusa nell’art. 493 ter c.p..
L’attuale collocazione della disposizione citata nel libro II, capo III del titolo VII del codice penale, anziché nel titolo XIII, conferma che il bene giuridico tutelato non sia solo il patrimonio del titolare della carta di credito, come dimostrerebbero sia la finalità perseguita dalle leggi speciali con cui era stata introdotta l’originaria norma incriminatrice, ossia il contrasto dei fenomeni di riciclaggio, anche
attraverso il controllo dell’utilizzo dei nuovi strumenti elettronici di circolazione del denaro, sia dalla successiva collocazione della previsione incriminatrice nella struttura del codice penale nell’ambito dei delitti di falso, secondo le indicazioni contenute nella legge di delega dedicata alla riserva di codice e recepite nel DLgs. 21/2018.
Il Supremo Xxxxxx ha statuito che la scriminante del consenso dell'avente diritto non possa operare in quanto l'esimente in questione richiede che il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice rientri nella categoria dei diritti disponibili e tale non è l'interesse pubblico alla sicurezza delle transazioni commerciali e alla fiducia nell'utilizzazione da parte dei consociati di mezzi sostitutivi del contante che, unitamente al patrimonio personale del titolare dello strumento di pagamento, viene protetto dalla norma che sanziona l'uso indebito di carte di credito. E’ bene chiarire che la consistenza assiologia descritta dell’art. 493 ter c.p. vada coordinata con le caratteristiche di questo delitto inteso come figura criminosa
multiforme, sia in riferimento all’oggetto materiale, che investe un’ampia gamma di documenti diversi tra di loro per natura, funzioni e modalità d’impiego; sia per quel che concerne “la condotta penalmente rilevante, essendo contemplata, accanto all’ipotesi dell’indebita utilizzazione dei documenti, da parte di chi non ne sia titolare, anche quella di falsificazione di questi ultimi in possesso di documenti di prevenzione illecita o comunque falsificati o alterati, nonché di ordini di pagamento con essi prodotti”.25
Questa chiave interpretativa trova un significativo riscontro nella natura della disposizione che sanziona l’uso indebito di carte di credito e di pagamento, pacificamente diretta alla tutela non solo del patrimonio personale del titolare dello strumento di pagamento o prelievo, ma anche degli interessi pubblici alla sicurezza delle transazioni commerciali e alla fiducia nell’utilizzazione da parte dei consociati di quegli strumenti.
Per tale ragione si è affermato che “la norma incriminatrice mira, in positivo, a
25 In questo senso Corte Cost. con sentenza n°302/2002
presidiare il regolare e sicuro svolgimento dell’attività finanziaria attraverso mezzi sostitutivi del contante, ormai largamente penetrati nel tessuto economico”, con la conseguenza che “è giocoforza ritenere che le condotte da essa represse assumano – come del resto riconosciuto anche dalla giurisprudenza di legittimità in sede di analisi dei rapporti tra la fattispecie criminosa in questione ed i reati di truffa e di ricettazione – una dimensione lesiva che comunque trascende il mero patrimonio individuale, per estendersi, in modo più o meno diretto, a valori riconducibili agli ambiti categoriali dell’ordine pubblico o economico, che dir si voglia, e della fede pubblica”.26
Rispetto al delitto d’indebito utilizzo della carta, come rigidamente inteso relativamente alla condotta del terzo, sembra, in particolare, predicabile una prospettiva di tutela patrimonialistica anticipata, volta a tutelare il patrimonio del titolare da quelle forme insidiose di aggressione perpetrate mediante violazione da parte del terzo dei limiti
26 Corte Cost. sentenza n° 302/2002
dell’utilizzo concesso27. Una visione di questo tipo è, in realtà, sostenibile, a prescindere dal superamento dei limiti del consenso scriminante, considerando già l’elemento soggettivo del reato costituito dal dolo specifico del fine di profitto. Questo fine non può, infatti, non avere una sua rilevanza anche sul piano della tipicità, nel senso che la sua previsione denota una strumentalità del mezzo oggettivo al perseguimento del fine soggettivo: “il fine tipico non può che rappresentare il polo teleologico di un unitario comportamento esterno, di cui puntualizza la globale tipicità.”28
Valorizzando la predetta componente finalistica così ricostruita, l’orientamento di rigore nei confronti del terzo assume una valenza autonoma ed indipendente, disvelando una carica offensiva che ha una sua razionalità nella struttura sostanziale della fattispecie: la strumentalizzazione dell’autorizzazione del titolare all’utilizzo della carta da parte del terzo è di per sé condotta tipica ai
27 Galante, “La tutela penale delle carte di pagamento, cit.296, il quale discorre d’ipotesi di infedeltà da parte dell’utilizzatore legittimato.
sensi dell’art. 493 ter c.p. proprio perché strumento idoneo a conseguire un guadagno indebito, in conflitto con l’interesse protetto.
A sostegno di quanto sostenuto, si fa presente il differente ambito di operatività dell’art. 493 ter c.p. e del meno grave delitto di frode informatica di cui all’art. 640 ter c.p..
Attraverso una breve analisi delle due norme incriminatrici astrattamente applicabili, si può affermare che il delitto di frode informatica presenta una duplice struttura. Viene punita la condotta di alterazione, in qualsiasi modo, di un sistema informatico, che presuppone un intervento manipolativo o modificativo sul funzionamento del sistema stesso (da qui l’utilizzo in rubrica del termine frode, che richiama gli artifici e raggiri tipici della truffa); l’altra ipotesi descritta dalla norma è rappresentata dall’intervento senza diritto e con qualsiasi modalità su dati, informazioni o programmi finalizzato all’ingiusto profitto.
28 Cfr. Picotti, Il dolo specifico. Un’indagine sugli “elementi finalistici” delle fattispecie penali, Milano, 1993, 501.
Diversamente, l’art. 493 ter c.p. prende in considerazione tre distinte ipotesi delittuose: a) l’utilizzazione indebita del titolo di pagamento, da parte di chi non è titolare, al fine di trarne profitto; b) la falsificazione o alterazione della carta di pagamento al fine di trarne profitto; c) il possesso, la cessione o l’acquisizione di carte o documenti di provenienza illecita o falsificata al fine di trarne profitto, nonché gli ordini di pagamento.
Sotto il profilo del bene giuridico tutelato, le due fattispecie incriminatrici appaiono destinate a finalità protettive diverse: l’art. 640 ter c.p è stato collocato tra i delitti contro il patrimonio mediante frode, pertanto il bene giuridico tutelato sarebbe il patrimonio (si rileva, in dottrina, un orientamento che la ritiene una fattispecie plurioffensiva, in quanto l’oggetto di tutela sarebbe rappresentato anche dal regolare funzionamento dei sistemi informatici e dalla riservatezza).
Il dibattito attorno al rapporto tra il reato di frode informatica e la disciplina penale prevista per l’indebito utilizzo di carte di
credito o pagamento, infatti, ha offerto interpretazioni, almeno parzialmente, discordanti sul tema. Un primo orientamento ritiene “integrato il reato di indebita utilizzazione di carte di credito di cui all’art. 55, comma 9, cit., e non quello di frode informatica, nel reiterato prelievo di denaro contante presso lo sportello bancomat di un istituto bancario mediante utilizzazione di un supporto magnetico clonato, in quanto il ripetuto ritiro di somme per mezzo di una carta bancomat illecitamente duplicata configura l’utilizzo indebito di uno strumento di prelievo sanzionato dal predetto art. 55 cit.” 29. Le argomentazioni a sostegno di tale indirizzo fanno leva sull’assenza di un’effettiva alterazione di un sistema informatico e di un abusivo intervento sui dati del sistema stesso, entrambi elementi alternativi costitutivi della frode informatica: il solo prelievo di denaro contante mediante l’abusivo utilizzo di supporti magnetici sostanzia la fattispecie di indebito utilizzo di strumenti di pagamento.
A questo filone giurisprudenziale se ne
29 Sez. VI Cass. n°1333 del 4/11/2015
contrappone un altro secondo il quale “integra il delitto di frode informatica, e non quello di indebita utilizzazione di carte di credito, la condotta di colui che, servendosi di una carta di credito falsificata e di un codice di accesso fraudolentemente captato in precedenza, penetri abusivamente nel sistema informatico bancario ed effettui illecite operazioni di trasferimento fondi, tra cui quella di prelievo contanti attraverso i servizi di cassa continua” 30. A fondamento di questa conclusione vi è l’applicazione del principio di specialità ai sensi dell’art. 15 c.p., in virtù del quale, secondo la giurisprudenza citata, la condotta di cui all’art. 493 ter c.p. resta assorbita nella ritenuta integrazione del delitto di frode informatica, in quanto l’art. 640 ter c.p. contiene in sé l’elemento specializzante rappresentato dall’utilizzazione fraudolenta del sistema informatico, che costituisce un presupposto assorbente rispetto alla generica indebita utilizzazione di una carta di credito.
Poste queste premesse, la Cassazione ritiene che la circostanza dell’omesso esame dell’operatività della causa di
giustificazione da parte del giudice di merito non ha prodotto alcun effetto deteriore per il ricorrente, trattandosi di ipotesi che non poteva essere riconosciuta nella specie. Viene, tuttavia, disposto che non può ignorarsi che l’utilizzo degli strumenti elettronici di pagamento o di prelievo effettuato da persona diversa dal titolare possa costituire evento non infrequente (quando per ragioni di impedimento momentaneo, dovuto a particolari condizioni di fragilità, disabilità, ovvero a ragioni di salute, il titolare non sia in grado di utilizzare lo strumento di pagamento, pur avendone necessità). È, però, necessario in tali ipotesi, che l’eventuale autorizzazione costituisca lo strumento per la realizzazione
esclusiva dell’interesse del titolare della carta di credito. In altri termini, “l’autorizzazione assumerà rilevanza solo nelle ipotesi in cui sia apprezzabile in modo manifesto, attraverso la dimostrazione dei rapporti esistenti tra le parti e delle circostanze in cui sia intervenuta tale autorizzazione, che il terzo
30 Sez. II Cass. n° 41777 del 30/09/2015; Sez. II Cass. n° 17748 del 15/04/2011
utilizzatore dello strumento di pagamento o di prelievo di denaro agisce solo nell’interesse del titolare”31, eseguendo materialmente le operazioni consentite con l’uso della carta di credito, su disposizione del titolare legittimo. Questa ricostruzione ha, poi, una sua plausibilità dal punto di vista fenomelogico, in quanto la cessione della carta al terzo gli conferisce, in considerazione dell’assenza della possibilità di controllo in itinere, un potere di disposizione potenzialmente indefinito. Tanto che se, invece, come puntualizza la Corte, il terzo operi soltanto come longa manus o mero esecutore di un’operazione non comportante la sottoscrizione di alcun atto, che non può sfuggire in alcun modo al dominio del soggetto legittimato, la fattispecie penale non si applica.
Conclusione
In conclusione, si è affermato che la norma incriminatrice mira, in positivo, a presidiare il regolare e sicuro svolgimento dell’attività finanziaria attraverso uso di mezzi sostitutivi del contante, ormai
penetranti nel tessuto economico, con la conseguenza che sarà inevitabile ritenere che le condotte da essa represse assumono una dimensione lesiva che trascende il mero patrimonio individuale per estendersi ai valori tipici della fede pubblica.
31 Sez II, sentenza n. 17453 del 22/02/2019
AMMINISTRATIVO
I vincoli urbanistici: tra perseguimento dell’interesse pubblico e tutela della proprietà
di Xxxxxxxx Xxxxxxxx
La disciplina dettata dal TU espropriazioni
Il modo di intendere il diritto di proprietà è cambiato nel tempo. Nel 1848, per esempio, tale diritto era considerato centrale per l’ordinamento, tanto che finanche la partecipazione alla vita politica era subordinata a presupposti di natura censitaria. Nel Codice del 1942 la prospettiva è cambiata: il diritto in parola diventa suscettibile di limitazioni perché muta il concetto stesso di ricchezza, che non si identifica più nel solo patrimonio immobiliare ma anche e soprattutto nell’attività produttiva.
Oggi, il diritto di proprietà è soggetto ad una tutela multilivello, essendo protetto dall’art. 42 Cost., dalla Carta di Nizza (art. 17) e dalla CEDU, il cui art. 1 del
protocollo n. 1 lo consacra come diritto fondamentale dell’uomo.
Va premesso che l’art. 832 c.c. sancisce che tale posizione giuridica soggettiva attribuisce al titolare la facoltà di utilizzare il bene nel modo che più ritiene opportuno. Il proprietario può, quindi, sfruttare il fondo, lasciarlo inutilizzato e, a certe condizioni, costruire su di esso. Va ricordato cha una delle caratteristiche dei diritti reali sta nel fatto che essi non hanno bisogno dell’intermediazione di nessuno per trovare attuazione. Tuttavia può accadere che l’interesse pubblico richieda un intervento della PA sul diritto del soggetto, limitandone le facoltà o addirittura espropriando completamente in tutto o in parte il bene.
Più precisamente, la PA può disporre provvedimenti personali, obbligatori e reali e, questi ultimi possono essere adottati in seguito ad un procedimento amministrativo (occupazione preliminare, temporanea o per forza maggiore) o autonomamente (es. requisizione).
Peraltro, va ricordato che i beni si distinguono in: beni non espropriabili (quando sono demaniali), espropriabili a
certe condizioni (se appartengono al patrimonio indisponibile) o suscettibili di espropriazione (tutti gli altri).
Perché tali misure conculcano un diritto fondamentale, è essenziale che la legge preveda espressamente le modalità, i tempi e le tutele che il procedimento amministrativo deve garantire al privato, per far sì che egli non subisca abusi da parte dell’amministrazione.
Prima del 2001 il procedimento di espropriazione si componeva di 4 fasi: dichiarazione di pubblica utilità, piano particolareggiato di esecuzione, offertà di indennità di esproprio e decreto di esproprio.
In seguito all’adozione del TU sulle espropriazioni (D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327), invece, il legislatore ha previsto un procedimento differente. L’articolo 8 della legge urbanistica (nel testo sostituito dall’articolo 1, comma 1, della legge 19
novembre 1968, n. 1187), infatti, sancisce che “ Il decreto di esproprio può essere emanato qualora: a) l'opera da realizzare sia prevista nello strumento urbanistico generale, o in un atto di natura ed efficacia equivalente, e sul bene da espropriare sia stato apposto il vincolo
preordinato all'esproprio; b) vi sia stata la dichiarazione di pubblica utilità; c) sia stata determinata, anche se in via provvisoria, l'indennità di esproprio”.
Dunque è essenziale che la PA segua scrupolosamente la procedura disposta dalla legge. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, infatti, ha precisato che, perché l’espropriazione sia legittima, deve avvenire in “buona e dovuta forma”, dovendo sussistere due presupposti: che essa si basi sulla legge, il che implica l’esistenza di una legge chiara, la presenza di un atto fin dall’inizio del procedimento e la conclusione di quest’ultimo in un tempo predeterminati, e la sussistenza di un provvedimento finale.
Va ricordato, poi, che se l’autorità espropriante occupa con una dichiarazione di pubblica utilità che poi viene annullata si configura un’ipotesi di occupazione appropriativa, che non va confusa con quella usurpativa, in cui manca ab origine il provvedimento espropriativo e configura un’ipotesi di comportamento mero della PA, di competenza del GO.
Vincoli espropriativi e vincoli conformativi: differenze
Tra i numerosi compiti della PA vi è anche la gestione del territorio. Ciò avviene, di norma, tramite l’adozione di Piani Regolatori, all’interno dei quali le aree comunali vengono divise in zone e, all’interno di queste, vengono individuati i luoghi in cui si deve intervenire, ad esempio, creando reti ferroviarie, stradali o marittime.
Più precisamente, la zonizzazione può essere funzionale e architettonica: nel primo caso le previsioni contengono delle indicazioni circa l’uso che la PA intende fare delle singole parti del territorio; mentre nel secondo si indicano i vincoli relativi alle caratteristiche che devono avere le abitazioni e le costruzioni.
Nel perseguimento dell’interesse pubblico, quindi, la PA ha una scelta: o espropria completamente il bene o, per, salvaguardare zone a carattere storico, ambientale o paesistico, appone dei vincoli alle facoltà del proprietario32. Si
tratta di una decisione di carattere discrezionale che determina conseguenze molto diverse, sia dal punto di vista giuridico che sotto il profilo pratico.
Nella prima ipotesi, infatti, al proprietario viene completamente sottratto il bene. Dalla dichiarazione di pubblica utilità in poi, infatti, questi non potrà più costruire, alienare, né esercitare alcun tipo di diritto sul bene, che diventerà a tutti gli effetti di proprietà dell’amministrazione.
Diversamente, il vincolo conformativo potrebbe svuotare il diritto del proprietario in tutto ma anche solo in parte. Il vincolo, quindi, può costituire un impedimento al pieno esercizio del diritto di proprietà. Questo spiega perché la Corte costituzionale è dovuta intervenire a più riprese per porre dei limiti e dare indicazioni circa la reiterazione e gli indennizzi da liquidare in caso di vincoli. La Consulta, infatti, con le sentenze n. 55 e 56 del 1968 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7 e dell’art. 40 della Legge Urbanistica, nella parte in cui
32 Xxxxxxxx X.X., Introduzione sulla potestà conformativa del territorio, in Scritti 1984-1990, Milano, 2006, pp.779 ss.
queste disposizioni “non prevedono un indennizzo per l’imposizione di limitazioni operanti immediatamente e a tempo indeterminato nei confronti dei diritti reali”.
L’art 40 della Legge Urbanistica prevedeva, infatti, che “Nessun indennizzo è dovuto per le limitazioni ed i vincoli previsti dal piano regolatore generale nonché per le limitazioni e per gli oneri relativi all’allineamento edilizio delle nuove costruzioni. Non è dovuta indennità neppure per la servitù di pubblico passaggio che il Comune creda di imporre sulle aree di portici delle nuove costruzioni e di quelle esistenti. Rimangono a carico del Comune la costruzione e manutenzione del pavimento e la illuminazione dei portici soggetti alla predetta servitù”.
I giudici della Legge, quindi, hanno rilevato l’incoerenza di un ordinamento che dispone un indennizzo in caso di esproprio e non nel caso in cui vengano apposti dei vincoli tali da svuotare, di fatto, il diritto di proprietà.
Si è posto, allora, il problema relativo a come riconoscere la natura del vincolo apposto: perché un conto è un vincolo che impedisce completamente l’esercizio del diritto di proprietà, altro è il mero riconoscimento di una qualità del bene.
Le sentenze in commento, a tal proposito, hanno individuato tre tipologie di limitazioni: vincoli preordinati all’esproprio, tramite i quali la PA si riserva di trasformare il bene per perseguire un fine pubblico e che impediscono al privato di trasformare il bene; vincoli che conculcano la possibilità di utilizzare il bene, pur consentendo la conservazione della titolarità del diritto di proprietà in capo al privato; e infine vincoli che limitano l’utilizzo del bene sottoponendo le trasformazioni ad una preventiva approvazione.
Si è affermato, quindi, che i vincoli paesaggistici, ambientali, storici, artistici ed idrogeologici, non necessitano di un indennizzo in quanto la Pubblica Amministrazione non modifica il diritto, ma si limita a riconoscere la presenza, nel bene, di quelle caratteristiche intrinseche predeterminate dalla legge, sottoponendo tale bene al regime giuridico previsto dalla legge.
Successivamente, nel 1980 e poi nel 1999, la Corte Costituzionale si è pronunciata nuovamente sul diritto del privato a ricevere un congruo indennizzo in caso di
vincoli che vadano a svuotare il suo diritto di proprietà. Si è specificato, così, che l’indennizzo deve essere fissato rispettando le caratteristiche strutturali del bene e non in astratto. Inoltre, è stata considerata inammissibile la reiterazione ad oltranza dei vincoli preordinati all’esproprio scaduti senza predisporre un adeguato indennizzo.
Il ricorso a strumenti perequativi come bilanciamento
Alla luce delle sentenze della Corte costituzionale, la PA è obbligata a ristorare il privato per l’espropriazione e per tutte le limitazioni subite a causa dell’adozione di un provvedimento che appone un vincolo espropriativo. Come noto, però, gli enti locali hanno frequentemente problemi di liquidità, per cui, per evitare tali esborsi, le Amministrazioni hanno iniziato a percorrere due strade: da un lato si è cominciato ad apporre dei vincoli, reiterandoli sine die, dall’altro si sono previsti dei meccanismi perequativi volti a
33 Sul tema cfr. Xxxxxx P., Xxxxxxxxx S. C., Diritto urbanistico. Organizzazione e rapporti, Torino, VI ed., 2017.
ristorare il privato con strumenti alternativi al denaro.
Quanto al primo sistema, si è già avuto modo di precisare che tale pratica è stata considerata illegittima dalla Consulta, la quale ha ribadito il dovere di indennizzare il privato che si veda svuotare del proprio diritto.
Quanto alla seconda modalità, occorre compiere delle precisazioni preliminari. Va ricordato che l’urbanistica è una materia che compete soprattutto alle Regioni, che si sono dotate di una autonoma disciplina rispetto alla possibilità di esercizio del potere conformativo del diritto di proprietà33. Tali interventi presentano due rationes di fondo: da un lato la tutela del territorio, dall’altro, per quanto possibile, il risparmio di spesa34.
Per questo motivo, uno degli strumenti più frequentemente utilizzati per evitare importanti esborsi alle casse regionali è rappresentato dal superamento della rigida dicotomia tra zonizzazioni e
34 Xxxxxxx A., La proprietà edilizia, in Trattato di dir. priv., VII, Torino, 2005, p. 489.
localizzazioni, configurandosi zone a destinazione mista, tali da mitigare le conseguenze negative derivanti dalla suddivisione suddetta.
Solo qualora ciò non risulti bastevole la PA tende ad incentivare la partecipazione del privato al procedimento, così da sostituire il momento autoritativo con quello consensuale e concordato. Questo giustifica l’introduzione di strumenti perequativi, che permettono di separare lo ius aedificandi dal diritto di proprietà.
Tale istituto, però, ha determinato una alterazione delle modalità di esercizio del potere urbanistico e lo stesso perimetro del diritto di proprietà. E’ accaduto, infatti, che, per superare le disparità di trattamento conseguenti all’esercizio della discrezionalità amministrativa al momento della zonizzazione, e per evitare un eccessivo esborso di denaro pubblico, i Comuni hanno compensato i privati sottoposti a vincoli con il riconoscimento di diritti edificatori completamente scollegati dalla proprietà di un fondo. Il cittadino, quindi, ottiene un’edificabilità virtuale, finalizzata a riequilibrare le conseguenze economiche
negative derivanti dalle scelte urbanistiche.
Nella prassi, inoltre, la pianificazione perequativa non si realizza attraverso un solo modello, potendosi distinguere almeno due tipologie di intervento: quello a priori e quello a posteriori.
La perequazione generalizzata a priori coinvolge l’intero territorio comunale e il ricorso ad essa non è molto frequente. Essa presuppone, infatti, che “i diritti edificatori vengano riconosciuti ai terreni urbani e periurbani come potenziale implicito alle loro condizioni di fatto e di diritto il quale, non dipendendo in alcun modo dalle scelte strategiche per il futuro assetto del territorio, non è negoziabile”. Questo significa, quindi, che il diritto edificatorio viene attribuito in modo convenzionale a prescindere dal piano e, dunque, a prescindere dall’apposizione di vincoli.
Gli enti locali, però, ricorrono più spesso alla perequazione parziale a posteriori, in cui gli indici edificatori non si basano esclusivamente sullo stato di fatto e di diritto in cui si trovano i terreni coinvolti, ma sul progetto di sviluppo dell’amministrazione.
In altri termini, si riconosce la medesima potenzialità edificatoria a tutti i fondi, tenuto però conto della volumetria di edifici già esistenti e a prescindere dalla destinazione pubblica o ad edilizia privata delle singole aree comprese nel comparto. In questo modo, si individua un unico indice edificatorio, che viene riconosciuto all’intera area e non solo a quelle effettivamente edificabili.
Quanto esposto ha indotto parte della dottrina ad interrogarsi sulla validità e
sull’efficacia del modo in cui è configurata la legislazione vigente. Ci si è chiesti, infatti, se attribuire questo tipo di scelte agli enti locali sia adeguato, o se debba ritenersi auspicabile la creazione di una normativa nazionale, tale da rendere uniformi i meccanismi perequativi, magari facendo ricorso a tabelle che siano uguali per tutti i territori.
n. 22 – gennaio 2022
39
PILLOLE DI DIRITTO
a cura di Xxxx Xxxxxxx
e di Xxxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxx
(è solo una selezione: per le altre vai sul nostro sito xxx.xxxxxxxxxxxx.xxx o sulla nostra pagina facebook)
CIVILE
La pillola di diritto del 13.1.2022
Risarcimento del c.d. “maggior danno”.
A cura dell’avvocato Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxx #maggiordanno #art.1224c.c.
Corte di Cassazione, sez. VI civile, sentenza n.25666 del 22/09/2021.
La decisione in commento conferma il consolidato orientamento, patrocinato dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite
n. 19499/2008, che ritiene che il maggior danno da ritardo sia presuntivamente pari, per la totalità dei creditori, al tasso di rendimento annuo lordo dei titoli di Stato non ultrannuali, rigettando, quindi, le pregresse categorie “socialmente tipiche di creditori” ideate da due sentenze delle Sezioni Unite- adottate negli anni 1979 e 1986.
Preliminarmente, occorre osservare che secondo la precedente ricostruzione giurisprudenziale, la principale figura di maggior danno era rappresentata dal c.d.
danno da svalutazione monetaria, la cui prova, oltre che essere fornita dal creditore, appariva particolarmente complessa, in quanto dipendeva dall’uso che il creditore faceva del danaro.
Pertanto, al fine di alleggerire l’onere probatorio del creditore, la giurisprudenza, prima con una decisione dell’anno 1979 e, poi con una sentenza dell’anno 1986, ha fatto ricorso ad un sistema di presunzioni, le quali si fondavano sulle c.d. categorie socialmente tipiche di creditori. Infatti, le categorie erano quattro: a) l’imprenditore;
b) il risparmiatore abituale; c) il risparmiatore occasionale e d) il consumatore.
Analizzando partitamente tali figure si riteneva che: a) per l’imprenditore, il maggior danno era rappresentato dalla differenza tra gli interessi passivi pagati dalle banche e gli interessi ( legali) percepiti di diritto ai sensi dell’articolo 1224, comma 1, c.c.; b) per il risparmiatore abituale, il maggior danno era pari alla differenza tra il tasso di
rendimento del suo investimento finanziario abituale e il tasso di interesse legale, di cui all’articolo 1224, comma 1, c.c.; c) per il risparmiatore occasionale, il maggior danno era rappresentato dalla differenza tra il tasso di interesse attivo sul deposito bancario e il tasso legale, di cui all’articolo 1224, comma 1, c.c.; d) infine, per il consumatore, il maggior danno equivaleva alla differenza tra il tasso di inflazione e il tasso di interesse legale percepito ai sensi dell’articolo 1224, comma 1, c.c.
Tale tassonomia, tuttavia, ha generato incertezze applicative, in quanto si riteneva che non venissero in rilievo adeguati elementi per sussumere un soggetto all’interno di una categoria piuttosto che in un’altra.
Ciò ha condotto, la Suprema di Corte di Cassazione a Sezioni Unite a chiarire che per tutti i creditori il maggior danno, di cui all’articolo 1224, comma 2, c.c. sia presuntivamente pari al tasso di rendimento annuo lordo dei titoli di Stato non ultrannuali.
A ciò si aggiunga, che tale presunzione è di tipo relativo. Pertanto, essa ammette
tanto la prova contraria del debitore, il quale può dimostrare che l’altra parte abbia sofferto un danno inferiore, quanto del creditore, che può dimostrare un danno maggiore rispetto a quello presuntivamente considerato.
Ciò premesso, la ricostruzione in commento è confermata da tale decisione nella parte in cui sostiene che: “nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all'art. 1224 c.c., comma 2, può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali; ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l'attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nei caso di pensionato, impiegato, ecc.), fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, ha l'onere di provare l'esistenza e l'ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva;
in particolare, ove il creditore abbia la qualità di
imprenditore, ha l'onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi, ovvero - attraverso la produzione dei bilanci - quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà invece l'onere di dimostrare, anche attraverso
presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale”.
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PENALE
La pillola di diritto del 29.1.2022
Il perimetro applicativo della scriminante della legittima difesa.
A cura dell’avvocato Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxx. #art.52c.p. #legittimadifesa
Corte di Cassazione, sez. I penale, sentenza n. 38097 del 28/09/2021 (dep. 25/10/2021).
La difesa legittima, di cui all’articolo 52 c.p., costituisce una deroga al principio del monopolio statuale dell’uso della forza, giustificata, da un lato, dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui e, dall’altro lato, dall’impossibilità dello Stato di porre in essere un intervento tempestivo ed adeguato. Pertanto, il fondamento ultimo della legittima difesa è rappresentato dal bilanciamento degli interessi disciplinato dal principio di proporzionalità.
Ciò premesso, la pronuncia in commento si concentra sul requisito della necessità della condotta difensiva. La vicenda concreta riguardava l’omicidio che il
soggetto P aveva compiuto ai danni
dell’individuo Y. La difesa dell’imputato sosteneva che la condotta omicidiaria fosse scriminata dal ricorrere della legittima difesa. Infatti, si evidenziava che la fattispecie si fosse realizzata in seguito alle minacce che il soggetto Y aveva proferito in danno sia del soggetto P sia della sua famiglia. Inoltre, la difesa sosteneva il ricorrere della c.d. necessità della condotta difensiva ancorché le minacce siano state pronunciate dalla strada in direzione del balcone dell’imputato, in quanto si riteneva che quest’ultimo avesse guadagnato la strada spinto dalla necessità di difendere sé e la sua famiglia dalla potenziale aggressione del soggetto Y.
Tale prospettazione, tuttavia, non è stata accolta dal collegio.
Preliminarmente, occorre chiarire che tra i requisiti utili ai fini della ricorrenza della scriminante della legittima difesa sussiste quello della necessità della condotta difensiva.
Al riguardo, la dottrina ha chiarito che la condotta difensiva può essere ritenuta
necessaria in presenza dei seguenti presupposti: a) la condotta deve esprimere un effetto neutralizzante rispetto al pericolo dell’offesa; b) il pericolo non può essere neutralizzato attraverso una condotta alternativa lecita (commudus discessus); c) il pericolo non può essere neutralizzato attraverso una condotta difensiva meno lesiva della sfera dell’aggressore.
Pertanto, la giurisprudenza maggioritaria esclude che la condotta tipica possa essere considerata antigiuridica per il ricorrere della scriminante della legittima difesa se sussistono condotte alternative lecite.
Nel caso di specie, la Suprema Corte di Cassazione evidenzia che ben poteva l’imputato non uscire dall’appartamento e richiedere l’intervento della forza pubblica. Invero, il collegio sostiene che “non era comunque configurabile la legittima difesa perché il P., pur avendo concrete e valide alternative di evitare il pericolo (rimanere barricato nella sua abitazione e chiamare la polizia), aveva scelto deliberatamente di accettare la sfida anche discostandosi dai consigli della moglie. […]In quest'ottica, vanno valutati
come pretestuosi ed infondati i suoi timori – dell’imputato ndr- di essere comunque raggiunto all'interno dell'appartamento nonostante la solidità della porta di accesso e del portone dell'edificio e di non avere il tempo necessario per rivolgersi alle forze dell'ordine”; in merito, la Corte ha, peraltro, escluso l’errore scusabile
AMMINISTRATIVO
La pillola di diritto del 17.1.2022
Il soccorso istruttorio opera anche nei concorsi pubblici
#soccorsoistruttorio #concorsipubblici #autocertificazione
T.A.R. Campania, sez. V, Sent. n. 8374 del 31.12.2021
1 – Nell’ambito dei concorsi pubblici, la giurisprudenza ha spesso adottato un atteggiamento formalistico e tanto per l’evidente preoccupazione di non aggravare eccessivamente l’attività burocratica dell’amministrazione indicente. Se la P.A. fosse tenuta a richiedere chiarimenti e integrazioni a tutti i concorrenti le cui domande presentassero delle imprecisioni si rischierebbe, infatti, di paralizzare la procedura concorsuale.
In simile ottica, si è consentita l’esclusione di candidati anche in relazione a vizi meramente formali della domanda. Quanto alla produzione del documento di identità, ad esempio, si è sostenuto, come
ricordato dalla Sentenza in commento, che essa deve essere considerata elemento costitutivo dell’autocertificazione, in quanto, in assenza di tale allegazione, qualsiasi dichiarazione resa ai sensi degli artt. 46 e 47 DPR n. 445/2000, pur se fisicamente presente in atti, è priva del valore legale tipico, ossia quello di autocertificazione, delineato dalla fattispecie normativa. Conseguentemente, la mancanza del documento di identità dovrebbe comportare sempre e comunque l’esclusione dalla procedura concorsuale. 2 – Il T.A.R. xxxxxxxxxx, invece, adotta un orientamento sostanzialista che costituisce una declinazione dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità con riferimento a un candidato che, pur non avendo allegato il documento di identità, ha impugnato l’esclusione a ciò dovuta per mancato esperimento del cd. soccorso istruttorio.
3 – In proposito, il Collegio rammenta che “l’art. 6 (Compiti del responsabile del procedimento), comma 1, lett. b) l. 7 agosto 1990, n. 241 ha introdotto, nell’ambito delle regole del procedimento amministrativo, il c.d.
soccorso istruttorio, con la finalità di regolarizzare o integrare una documentazione carente, nell’ottica della tutela della buona fede e dell’affidamento dei soggetti coinvolti dall’esercizio del potere”.
Con particolare riferimento ai concorsi pubblici, si osserva che la giurisprudenza ha consentito l’applicazione dell’istituto “al fine di invitare i candidati-concorrenti a completare o a fornire chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni presentati, con la precisazione che tale facoltà, affinché non sia turbata la par condicio dei candidati-concorrenti e non determini una modificazione del contenuto della documentazione presentata, non può arrivare al punto di consentire al concorrente di introdurre per la prima volta, oltre il termine perentorio, delle dichiarazioni sul possesso dei titoli valutabili che il ricorrente avrebbe dovuto produrre all’atto della domanda e che, comunque, per fatto a lui imputabile, non ha prodotto; al contrario, si ritiene che il soccorso istruttorio sia logicamente consentito allorquando si tratta di rettificare e/o regolarizzare un dato fornito sia pure in maniera erronea e quindi non del tutto mancante, non ledendosi in tal modo la par condicio, viepiù ove la mancanza contestata non
costituisca, ai sensi della lex specialis motivo espresso di esclusione”.
4 – Nel caso di specie, allora, la mancata produzione del documento è qualificato come mera irregolarità nella misura in cui la domanda era già provvista dei requisiti per identificare con certezza il candidato. Questi, infatti, aveva inserito la domanda nel sistema informatico previo accesso mediante credenziali nominative (username e password) e aveva già partecipato alla procedura selettiva nel cui ambito era stato ritualmente identificato. La condivisibile interpretazione del
T.A.R. campano costituisce applicazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza, buona fede e collaborazione e presenta un particolare interesse sistematico in rapporto alle procedure, sempre più automatizzate, di inserimento delle domande di partecipazione che prevedono una identificazione preliminare e una forma di validazione dei documenti presentati.
Il T.A.R., quindi, conclude nel senso che le modalità di partecipazione facciano gravare “sempre maggiori oneri sui concorrenti in relazione all’utilizzo di procedure telematiche,
di talché la soluzione innanzi prospettata appare la più conforme ai canoni di buona fede e leale collaborazione, sempre che le mancanze da regolarizzare siano giustificabili dalle peculiari modalità di svolgimento della procedura, non alterino la par condicio tra i candidati e siano facilmente superabili ed emendabili dall’amministrazione senza particolari aggravi con il ricorso all’istituto del soccorso istruttorio. A tanto va anche soggiunto che l’applicazione dei principi di proporzionalità e di ragionevolezza nell’agire della pubblica amministrazione e nei rapporti con il cittadino, oltre che del principio del raggiungimento dello scopo, implica quale suo complementare precipitato logico la necessità di far prevalere la sostanza sulla forma quando si sia in presenza di vizi meramente formali che sono in astratto suscettibili di sanatoria, e, segnatamente, allorquando sia possibile garantire comunque la certezza dei rapporti giuridici, attraverso consolidati istituti di collaborazione, qual è appunto il soccorso istruttorio”.