DOCENTE
Corso di preparazione per l’esame forense xxx.xxxxxxx.xxx
DOCENTE
Avv. Xxxxx Xxxxx
DISPENSA DI
DIRITTO CIVILE PARTE I
INDICE
DIVIETO PATTO COMMISSORIO pg. 14
REGOLAMENTO E CONTRATTO CONDOMINIALE:………………pg. 15
CONDOMINIO MINIMO:………………………………………………..pg. 16 Cass. 1337/2005:
al condominio minimo si applica la disciplina del condominio. Cass. 3264/2005:
la disciplina giuridica prevista per le scale si estende all’ascensore.
VENDITA A PREZZO IRRISORIO:…………………………………….pg. 24
PRELIMINARE PER PERSONA DA NOMINARE:……………………pg. 26
Cass., sez. unite, 11624/2006:
sul preliminare di cosa altrui. Cass.26232/2005:
contratto preliminare di vendita, caparra confirmatoria e risoluzione di diritto del contratto.
PROPOSTA IRREVOCABILE ED OPZIONE:…………………………pg. 36
MANDATO POST MORTEM:………………………………………….…pg.38 Cass.12143/2006:
mandato post mortem.
COMUNIONE LEGALE
E MOMENTO DELL’ACQUISTO DEL BENE:………………………...pg. 41 Cass. 1197/2006:
comunione legale e diritti di credito Cass.16177/2001:
contratto concluso senza il consenso dell'altro coniuge.
MANDATO AD ACQUISTARE UN IMMOBILE, REVOCA E FORMA
NECESSARIA: ………………………………………………………….pg. 54 Dottrina:
Xxxxxxx, La rappresentanza indiretta ed il mandato ad alienare.
ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE: ………………………………..pg.63 Cass. 20256/2006:
infedeltà e separazione. Cass. 1198/2006:
assegnazione della casa familiare. Cass.6276/2005:
rapporti sessuali negati e separazione.
CONTRATTO DI APERTURA DI CREDITO:…………………………pg. 74 Cass. 14470/2005:
sul contratto di apertura di credito.
DOLO OMISSIVO pg. 83
Cass.20260/2006:
dolo omissivo e risarcimento del danno. Cass. 9253/2006:
dolo omissivo ed annullamento.
SUCCESSIONE TESTAMENTARIA:……………………………………pg.96 Cass, sez. unite, 13524/2006:
sull'individuazione della quota di riserva spettante ai legittimari. Cass., sez. unite, 20644/2004:
sul termine di prescrizione dell'azione di riduzione.
RESPONSABILITA’ DELL’APPALTATORE:……………………….pg. 107 Cass. 8520/2006:
la responsabilità per rovina di edifici.
RESPONSABILITA’ DEL MEDICO:…………………………………..pg. 117 Cass. 5444/2006:
operazione non consentita e violazione della libertà di autodeterminazione. Cass. 861/2000:
danno esistenziale per violazione del diritto all' autodeterminazione del paziente.
DANNO TANATOLOGICO:…………………………………………..pg. 137 Cass. 15760/2006:
danno parentale non patrimoniale. Cass. 15019/2005:
danno da morte dei nonni. trib. Arezzo 123/2005:
danno da morte del convivente. Cass. 88/2002:
danno biologico da morte immediata.
PRINCIPIO DI INDIVISIBILITA’ DELLA SERVITU’:……………pg. 159 Cass. 8727/2005:
comunione impropria.
PAGAMENTO MEDIANTE ASSEGNO BANCARIO:………………pg. 163 Cass. 12372/2006:
conto corrente bancario e termine di decadenza di sei mesi per l’impugnazione dell’estratto conto.
Cass. 19997/2005:
deposito e restituzione. Cass. 8 luglio 2005:
responsabilità della banca. Cass. 18947/2005:
pluralità di conti correnti e compensazione.
CULPA IN VIGILANDO……………………………………………….pg. 197 Cass. 12501/2000:
responsabilità dei genitori.
Cass. 1478/06:
principio della vicinanza della prova.
INCIDENTE STRADALE E CINTURE DI SICUREZZA pg. 215
Cass. 4993/2004:
incidente stradale e cinture di sicurezza.
CONDOMINIO E PARCHEGGIO…………………………………pg. 226 Cass. 4599/2006:
diritto di uso del cortile.
DIRITTO DI ABITAZIONE:……………………………………….pg. 230
ACCOLLO E DONAZIONE INDIRETTA:……………………….pg. 231
DIRITTO DI SOPRAELEVAZIONE:……………………………..pg. 233 Cass. 4258/2006:
sopraelevazione e proprietari dell'ultimo piano. Cass. 4920/2006:
condominio e animali domestici. Cass. 13371/2005:
condominio minimo.
Cass 8066/2005:
condominio orizzontale. Cass. 3264/2005:
spese ascensore.
PRELIMINARE CON RISERVA DI USUFRUTTO:………….pg. 253
Dottrina:
Il contratto preliminare di vendita (estratto dal Trattato di diritto privato, Giappichelli), di Xxxxxxxxx Xxxxxxx.
PATTO COMMISSORIO:……………………………………….pg. 267 Cass. 7296/2006:
sale and lease-back.
PRELIMIARE DI COSA ALTRUI:…………………………….pg. 270 Cass. 11624/2006:
preliminare di cosa altrui. Cass. 16937/2006:
preliminare e soggetto incapace.
PATTO COMMISSORIO
E BENE CONCESSO DA UN TERZO:……………………..…pg. 283
ANNULLAMENTO E RESPONSABILITA’
PRECONTRATTUALE:……………………………………..…pg. 284 Cass. 16937/2006:
responsabilità precontrattuale e contrattuale.
CEDIBILITA’ DEL CONTRATTO DI OPZIONE pg. 293
ATTI GIURIDICI UNILATERALI ATIPICI:………………..pg. 294
BONDS – TRUFFA:…………………………………………….pg. 296 Tribunale di Genova, Sentenza 15 marzo 2005 N. 1230
Tribunale di Palermo, sentenza N. 3293-2005.
RETTIFICA DEL CONTRATTO:………………………………pg. 313
COMUNIONE TRA CONIUGI
E CONTRATTO PRELIMINARE:……………………………..pg. 314 Cass. 16177/2007:
preliminare senza consenso dell'altro coniuge ed azione di annullamento
MANDATO AD ACQUISTARE E FORMA:…………………...pg. 323
CONTRATTI COLLEGATI:………………………….………pg. 324 Cass. 1150/2005:
contratti misti
SOSTITUZIONE DEL RAPPRESENTATE:……………….pg. 330
CLAUSOLA DI IRRISOLUBILITA’:……………………….pg. 331
PATTO COMMISSORIO
AVENTE PER OGGETTO L’USUFRUTTO pg. 332
Dispensa sul divieto di patto commissorio. Cass. 10490/2006:
causa in concreto.
Cass. 7296/2006:
contratto di sale and lease-back .
RESPONSABILITÀ DEI GENITORI PER VIOLAZIONE DEL CODICE DELLA STRADA DA PARTE DEL FIGLIO:…………………….…pg.354 Cass. 6685/2007.
SIMULAZIONE E FRODE ALLA LEGGE:………………….……..pg. 356
VACANZA ROVINATA:……………………………………………...pg. 357 Cass. 3462/2007:
vacanza rovinata e risarcimento del danno esistenziale.
TRASPORTO GRATUITO ED AMICHEVOLE:…………………..pg. 362 Cass. 13130/2006:
art. 2054 c.c. e terzo trasportato. Cass. 17444/2006:
trasporto aereo e prescrizione.
DIRITTO DI ABITAZIONE, COMODATO E DONAZIONE:…...pg. 369
Cass.3179/07:
comodato precario e recesso.
CUSTODIA E DEPOSITO:…………………………………………...pg. 372 Cass. 7493/2007:
rimozione del veicolo in divieto di sosta ed obbligo di custodia.
CLAUSOLA REGOLAZIONE PREMIO-ASSICURAZIONE:……pg. 375
Cass., sez. unite, 4631/2007:
contratto di assicurazione e clausola di regolazione del premio. Cass. 395/2007:
contratto di assicurazione e massinale.
PROPRIETÀ E IUS AD AEDIFICANDUM:………………………pg. 387
PARCHEGGIO E SERVITÙ:……………………………………….pg. 388 Cass. 12793/2005:
cedibilità dei parcheggi in eccesso.
CONDICIO IURIS E NOVAZIONE:……………………………….pg. 402 Cass., sez. unite, 13294/2005:
REVOCA E COMUNIONE LEGALE:……………………….pg. 414 Cass. 966/2007:
revocatoria ordinaria e fondo patrinmoniale. Cass. 1197/2007:
comunione legale e diritti di credito. Cass. 19250/2004:
acquisto in deroga alla comunione. Cass. 16177/2001:
comunione legale e preliminare.
USUFRUTTO CONGIUNTIVO CON CLAUSOLA DI ACCRESCIMENTO
NEGLI ATTI ONEROSI pg. 440
ABBATTIMENTO E RICOSTRUZIONE DELL’IMMOBILE OGGETTO
DI USUFRUTTO:………………………………………………....pg. 441
RESPONSABILITÀ DEL NOTAIO:……………………………pg. 442 Cass. 9238/2007:
responsabilità dell'avvocato e chance di succeso. Cass. 12 dicembre 2001:
responsabilità dell'avvocato ed obbligazione di mezzi. Cass. 8826/2007:
responsabilità medica ed obbligazione di risultato.
TRUST A FAVORE DI FIGLIO DISABILE:…………………….pg. 468
Tribunale di Bologna 4545/2003:
sulla legittimità del trust.
COMUNIONE LEGALE TRA CONIUGI E CREDITO:…………….pg. 492
Cass., sez. unite, 17952/2007:
preliminare e consenso dei coniugi. Cass. 4823/2006:
preliminare e legittimazine ad agire del coniuge. Cass. 1197/2006:
comunione e contratto di conto corrente.
CESSIONE DEL CREDITO ALIMENTARE:……………………….pg. 508 Cass.4102/2007:
figlio maggiorenne e diritto al mantenimento.
NATURA CONTRATTUALE
DELL’ESPROMISSIONE CUMULATIVA:………………………….pg. 514 Cass. 8622/2006:
espromissione e momento di perfezionamento dell'accordo. Cass. 19396/2004:
espromissione.
ADEMPIMENTO DI OBBLIGAZIONE NATURALE:……………..pg. 529 Cass. 3713/2003:
obbligazione naturale e convivenza more uxorio.
CONTRATTO AUTONOMO DI GARANZIA:……………………….pg. 534 Cass. 5997/2006:
garanzie autonome e principio di buona fede. Cass. 23900/2006:
contratto autonomo di garanzia e fideiussione. Cass. 10864/1999:
exceptio doli generalis.
PRESUPPOSIZIONE pg. 556
Cass. 12235/2007:
presupposizione e necessità di autonomo rilievo. Cass. 6631/2006:
presupposizione, condizione e causa.
RESPONSABILITÀ DELLA BANCA ED ASSEGNO NON
TRASFERIBILE: ………………………………………………………pg. 574 Cass., sez. unite, 14712/2007:
responsabilità della banca ed assegno non trasferibile. Cass. 8826/2007:
responsabilità del medico e contatto sociale. Cass. 24456/05:
responsabilità degli insegnanti ed autolesioni.
DIRITTO DI SOPRAELEVAZIONE ED INDENNITÀ:……………..pg. 620
Cass., sez. unite, 16794/2007:
sul diritto di sopraelevazione. Cass. 12880/2005:
indennità di sopraelevazione. Cass. 972/2006:
condominio ed uso della cosa comune.
DEFINITIVO DIVERSO DAL PRELIMINARE:…………………pg. 636 Cass. 233/2007:
rapporti tra definitivo e preliminare. Cass. 10678/2007:
preliminare e clausola di pagamento a mezzo leasing. Cass. 9647/2006:
obbligo di concludere il definitivo e difformità catastali. Cass., sez. unite, 11624/2006:
preliminare di cosa altrui.
NULLITÀ VIRTUALE:……………………………………………….pg. 651 Cass. 3683/200/:
obblighi informativi degli intermediari finanziari: rimessione alle sezioni unite. Cass. 19024/2005:
obblighi informativi e nullità.
PRELIMINARE AD EFFETTI ANTICIPATI:………………………pg. 663 Cass. 16937/2006:
azione contrattuale ed extracontrattuale. Cass. 25703/2006:
preliminare e licenza di abitabilità. Cass. 12323/2001:
preliminare di vendita e vizi della cosa.
VENDITA A CATENA pg. 679
Cass. 5428/2002:
vendita a catena ed azioni esperibili.
CAUSA E SCOPO DI VACANZA:…………………………………..pg. 684 Cass. 16315/2007:
finalità turistica e causa in concreto. Cass. 10490/2006:
causa in concreto.
Cass. 13580/2004:
contratto di sale and leaseback .
CLAUSOLA LEASING:……………………………………………..pg. 703 Cass. 10678/2007:
preliminare e clausola di pagamento a mezzo leasing. Cass.10424/2007:
incidente stradale ed autovettura in lesing. Cass. 17145/2006:leasing finanziario
DANNI NON PATRIMONIALI:…………………………………….pg. 714 Cass. 21976/2007:
danni iure succesionis e lasso temparale di 24 ore Cass. 2546/2007:
danni iure proprio.
Cass. 18163/2007:
danno biologico terminale. Cass. 20987/2007:
danno parentale. Cass. 22338/2007:
età e danno alla salute. Cass. 10840/2007:
danno da perdita di chances lavorative. Cass. 2311/2007:
danno da lesione del diritto alla sessualità Cass. 8828/2003:
danno non patrimoniale in assenza di reato. Corte Cost. 30 giugno 2003:
danno non patrimoniale e colpa presunta.
PRELIMINARE DI COSA ALTRUI:……………………………….pg. 756 Cass., sez. unite, 11624/2006
Cass 24782/2005
Cass. 20976/2007:
preliminare di vendita, comunione ordinaria e fallimento del marito
DANNI DA MANCATE INFORMAZIONI:……………………….pg. 771 Cass. 21748/2007:
stato vegetativo ed interruzione dell'alimentazione forzata. Cass. 5444/2006:
consenso informato.
Cass. 1511/2007:
errore diagnostico e danno psichico.
MORTE DELL’ANIMALE DA AFFEZIONE pg. 809
Cass. 14846/2007.
perdita del cavallo e danno esistenziale.
DANNO ALL’IMMAGINE DELL’IMPRESA: ……………………..pg. 812
Trib. Lecce 46/2005.
Erronea segnalazione alla centrale Rischi Cass. 12929/2007:
danno all'immagine della persona giuridica. Cass. 10847/2007:
danno all'immagine e manager corrotto. cass. 9233/2007:
danno all'immagine ed illegittimo protesto.
PRELIMINARE E CONSENSO DELLA MOGLIE:………………..pg. 852 Cass 21098/2007:
diritti di credito e comunione. Cass. 16177/2001:
prelimonare ed azione di annullamento Cass., sez. unite, 17952/2007:
prelimiare e litisconsorzio.
FUMO PASSIVO NEL LUOGO DI LAVORO pg 873
Cass. 24404/2006:
fumo passivo ed assenze per malattia Cass. 22884/2007:
danno da fumo attivo Cass. 1513172007:
sigarette light Cass. 14840/2007:
cinesi lavorativa Cass. 10840/2007:
danno da perdita di opportunità di lavoro
VIZI DELLA COSA LOCATA pg 888
RESPONSABILITÀ DEL MEDICO:……………………………..pg.909 Cass. 8826/2007:
contratto di spedalità Cass. 1511/2007:
errore diagnostico
DIRITTO ALLA SESSUALITÀ:……………………………….pg. 946 Cass. 2311/2007: ammissibilità del diritto alla sessualità
Cass. 9801/2005: sessualità e costituzione
MINUTA E PUNTUAZIONE pg. 957
Cass. 16118/2006: minuta ed accertamento del giudice Cass. 910/2005: conclusione del contratto
DIVIETO DI PATTO COMMISSORIO
TRACCIA:
Tizio è un imprenditore di fama internazionale che si trova in una condizione momentanea di carenza di liquidità economica; Tizio è amico da diversi anni di Caio, direttore della società finanziaria di leasing denominata Caltalex.
Tizio decide di vendere l’immobile Alfa e diversi beni mobili alla società Caltalex, con l’accordo che quest’ ultima darà in leasing gli stessi beni (Alfa e i beni mobili) a Tizio.
In questo modo, Tizio riesce ad avere la liquidità necessaria per portare avanti i suoi interessi economici.
Dopo circa un anno, Caio fa presente a Tizio di voler riavere tutta la liquidità consegnata in cambio dell’immobile Alfa e di altri beni mobili, in quanto il contratto, precedentemente realizzato, era affetto da nullità perché in contrasto con il divieto del patto commissorio.
Tizio si reca dal legale Sempronio.
Il candidato, assunte le vesti di Sempronio, rediga motivato parere sulla questione giuridica posta.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE :
In premessa era utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente, il problema giuridico posto andava inquadrato nell'ambito del divieto di patto commissorio, ex art. 2744 c.c., per il pegno e l'ipoteca, ed art.
1963 c.c. per l'anticresi.
In linea generale, il patto commissorio può essere definito come un accordo con il quale il debitore destina in proprietà definitiva del proprio creditore (per compensazione totale o parziale del proprio debito), un bene in garanzia per il caso di propria inadempienza, senza alcuna previsione di stima di valore sulla base di quelli correnti in tale momento.
Il suddetto patto, per espressa previsione di legge è nullo, diversamente dal patto
c.d. marciano con cui creditore e debitore stabiliscono che, in caso di inadempimento, il creditore acquista la proprietà di un bene che il debitore trasferisce in garanzia, con l'obbligo, però, che un terzo stimatore provveda a valutare il bene stesso successivamente alla scadenza del credito: al creditore è consentito appropriarsi del bene nei limiti del valore del proprio credito, con l'obbligo di restituire l'eccedenza al debitore.
La ratio di tale istituto è stata individuata, con riferimento all'esigenza di tutelare il debitore da ingiustificate coartazioni, ovvero per tutelare la par condicio creditorum, ovvero per rispettare il principio della tipicità dei diritti reali (di garanzia). La giurisprudenza più datata tendeva ad ammettere il patto commissorio con schema risolutivo (il debitore trasferisce il bene al creditore, con l'accordo che quest'ultimo lo ritrasferirà al debitore in caso di adempimento), perchè l'art. 2744 c.c. sembrava vietare solo lo schema sospensivo (il creditore diviene proprietario del bene del debitore in caso di inadempimento di quest'ultimo): si privilegiava la lettera della legge piuttosto che la sostanza; la giurisprudenza più recente, invece, privilegiando la sostanza (perchè il mero
rispetto della lettera della legge rischiava di comportare la nullità dell'intero atto per frode alla legge, danneggiando il debitore ed avvantaggiando il creditore, in contrasto con la ratio di tutela del debitore stesso), vieta anche il patto commissorio con schema risolutivo, comminandone la nullità.
Indice rivelatore da tenere presente sarebbe la sproporzione tra valore effettivo del bene e valore del debito assunto, da verificare in concreto, secondo la giurisprudenza recente, in quanto è tale sproporzione a danneggiare in debitore, implicando un arricchimento ingiustificato in capo al creditore; in questo senso, allora, non esisterebbero contratti con patto commissorio nullo ex se, ma bisognerebbe verificare caso per caso, sia la sproporzione suddetta che la causa in concreto.
Se così è, allora, tutti i contratti realizzati con scopo di garanzia (alienazione a scopo di garanzia, lease-back, vendita con patto di riscatto, ecc.) non implicherebbero, sic et simpliciter, la nullità del patto commissorio.
Nel caso di specie, allora, Tizio e la società Caltalex diretta da Caio, non avranno necessariamente violato il patto commissorio con il loro contratto che riguarda il sale and lease-back (c.d. locazione finanziaria di ritorno), ma bisognerà verificare la causa concreta (che non è di garanzia, ma di leasing) e la sproporzione tra il valore del debito e il valore dell'immobole Alfa ed altri beni mobili.
In questo senso, pertanto, Tizio potrà legittimamente continuare ad utilizzare il "finanziamento" avuto dalla società Caltalex, in quanto il contratto (rectius: il patto del sale and lease-back) posto in essere non è necessariamente nullo, ma, anzi, sembra valido sotto un duplice profilo: in primis, non sembrerebbe poter emergere un pregresso rapporto economico tra Tizio e Caio, così che è inverosimile ritenere che il trasferimento patrimoniale sia stato effettuato a scopo di garanzia (non vi era ragione di garantire un debito, in quanto non vi erano pregressi inadempimenti, oltre al fatto che Tizio chiedeva un prestito espressamente per causa di leasing), ed in secundis perchè l'amicizia tra Tizio e Caio rende difficilmente credibile un approfittamento.
REGOLAMENTO E CONTRATTO CONDOMINIALE
TRACCIA:
Tizio acquista l’immobile Alfa, sito nel condominio Xxxx, xx xxx xxx Xxxxxxxxxx x Xxxx.
Il condominio Beta è costituito da sette piani; ogni piano è suddiviso in quattro unità abitative e ad ogni unità abitativa corrisponde un proprietario.
Tizio, al momento dell’acquisto dell’immobile Alfa, ha firmato un contratto condominiale, dichiarando di acconsentire al divieto assoluto di possedere animali domestici nella proprietà solitaria di sua appartenenza (Alfa).
Tizio comunica al resto della collettività condominiale, prevalentemente idiosincratica verso gli animali, di voler agire verso l’Autorità Giudiziaria per modificare il contratto condominiale.
La collettività condominiale si rivolge ad un avvocato per avere dei chiarimenti, precisando di non voler modificare il contratto condominiale.
Il candidato, assunte le vesti dell’avvocato, rediga motivato parere, affrontando le tematiche giuridiche sottese alla fattispecie presa in esame.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Subito dopo, il problema andava inquadrato nell'ambito del condominio, con particolare riferimento al regolamento condominiale e contratto condominiale. Il regolamento condominiale può impedire ai singoli condomini di possedere animali domestici nelle singole proprietà solitarie?
In generale, la normativa condominiale è inderogabile, ex art. 1138 ultimo comma c.c., nella misura in cui si intende limitare i diritti proprietari delle singole unità immobiliari; tuttavia, tale discorso vale per i regolamenti condominiali (ex art.
1138 c.c.), ma non per atti aventi natura giuridica diversa come i contratti.
I contratti (condominiali), in particolare, possono derogare alle previsioni della legge, sia perchè devono essere approvati all'unanimità (per cui tutti i condomini si autolimitano liberamente, diversamente dal regolamento in cui prevale la maggioranza) e sia perchè in tema di contratto si tende ad assicurare la più ampia libertà possibile (anche nel senso di autolimitazione), diversamente dal regolamento condominiale: i regolamenti condominiali possono disciplinare l'uso delle cose comuni (il regolamento condominiale si estende anche ai successori, diversamente dal contratto condominiale), mentre i contratti condominiali possono porre limiti all'uso delle singole unità immobiliari.
Pertanto, la collettività condominiale non avrà nulla da temere da Tizio, in quanto quest'ultimo, pur rivolgendosi all'Autorità Giudiziaria, non potrà ottenere alcunchè, in quanto il contratto condominiale è lecito e legittimo, oltre ad essere espressione della volontà contrattuale dei singoli condomini che il giudicante non può censurare, trattandosi di una sfera giuridica intangibile (autonomia negoziale, ex art. 1322 c.c.).
CONDOMINIO MINIMO
TRACCIA:
Tizio è proprietario di una piccola unità immobiliare Alfa; Caio è proprietario di una piccola unità immobiliare Beta; Sempronio è proprietario di una piccola unità immobilare Gamma.
Alfa, Beta e Gamma sono unità immobiliari collocate nell'ambito del medesimo edificio Kappa.
I rapporti tra Tizio, Caio e Sempronio, all'interno di Kappa, non sono disciplinati nè da un regolamento di condominio e nè da un contratto condominiale; inoltre, non è mai stato nominato un amministratore di condominio.
Caio ritiene di non dover pagare le spese per il rifacimento dell'ascensore, in quanto Beta si trova al primo piano, così che non traendo utilità dall'ascensore non sarebbe tenuto a pagare le relative spese.
Tizio e Sempronio, invece, ritengono che anche Caio debba pagare le spese per il rifacimento dell'ascensore, perchè le spese, a loro dire, andrebbero divise sempre in modo eguale per i beni comuni (indipendentemente dall'effettivo uso).
Caio si reca da un amico avvocato; il candidato rediga parere motivato sul caso posto alla sua attenzione.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
All'inizio poteva risultare utile ricostruire brevemente il fatto, ponendo particolare attenzione alla struttura di Kappa.
Successivamente, era necessario inquadrare giuridicamente il problema interpretativo posto; nell'ipotesi dell'edificio Kappa, in cui le unità immobiliari sono tre e non vi è l'obbligo di nominare un amministratore, è possibile parlare di condominio? Oppure il fatto che non sussista in concreto un'assemblea ed un amministratore depone nel senso di una contitolarità di diritti diversa da condominio, come la comunione? In altri termini, nelle ipotesi di condomini minimi, si applica la disciplina giuridica della comunione o quella del condominio?
Se si opta per la tesi della comunione, ex art. 1101 c.c., Tizio, Caio e Sempronio dovranno dividere le spese relative al rifacimento dell'ascensore in proporizioni uguali, in considerazione del fatto che nella comunione non emerge un concetto di ripartizione delle spese in rapporto all'uso, ma solo in rapporto al concetto di quote ed in mancanza, come nel caso di specie, le quote si presumono uguali; se le quote sono uguali, allora, de plano, le spese saranno uguali.
Diversamente, se si opta per la tesi del condominio, Caio sarebbe tenuto a pagare di meno rispetto agli altri condomini, in quanto potrebbe trovare applicazione il criterio del maggiore utilizzo, ex art. 1123 c.c. (o art. 1124 c.c.).
Pertanto, si tratta di comunione o condominio?
Secondo una prima impostazione, nel caso di specie si tratterebe di condominio, in quanto il condominio per esistere dovrebbe essere costituito almeno da quattro condomini, argomentando ex art. 1129 c.c.; inoltre, l'art. 1100 c.c. sembrerebbe formulare una presunzione giuridica relativamente alle contitolarità: se nulla è disposto (tramite regolamento condominiale o legge), allora, nei casi dubbi la contitolarità di diritti sarà in comunione.
Invero, secondo la ricostruzione giurispudenziale maggioritaria, il condominio
c.d. minimo sarebbe un vero e proprio condominio.
A favore di tale ricostruzione, emergerebbe il fatto che la contitolarità riguarda un edificio (proprio come nel condominio) e non un bene qualsiasi; inoltre, l'art. 1129
c.c. richiede la nomina di un amministratore se i condomini sono più di quattro, lasciando intendere sia che possono sussistere condomini con meno di quattro unità abitative, e sia che tale norma riguarda esclusivamente la nomina dell'amministratore, ma non la natura giuridica della contitolarità di condomini cotituiti da meno di quattro unità abitative; id est, l'art. 1129 c.c. non dice che i condomini minimi sono comunioni, ma che sopra i quattro condomini bisogna nominare un amministratore.
Altresì, il discorso sulla presunzione giuridica, ex art. 1100 c.c., sarebbe priva di fondamento in quanto applicabile solo "se la legge non dispone diversamente" e nel caso de quo la legge sembra disporre diversamente; infine, laddove si applicasse la disciplina della comunione, si richierebbe di violare l'art. 3 Cost., imponendo di trattare in modo eguale situazioni giuridiche diseguali, ovvero trattare in modo eguale Tizio, Caio e Sempronio, laddove si trovano in situazioni giuridiche diverse, essendo diverso l'utilizzo che possono fare di determinati beni (in particolare l'ascensore).
Chiarito tale aspetto, era necessario chiedersi quale disposizione, in concreto,
sembrerebbe trovare applicazione nel caso de quo.
In particolare, era utile chiedersi: si applicherà l'art. 1123 c.c. (II comma) che sembra individuare il solo criterio dell'utilizzo per la ripartizione delle spese, ovvero l'art. 1124 c.c., che individua una sorta di criterio misto? In altri termini, le spese per il rifacimento dell'ascensore sono parificabili a quelle relative alla manutenzione delle scale?
In senso negativo deporrebbe la lettera della legge: se l'art. 1124 c.c. si riferisce alle scale, allora, un'estensione applicativa di tale articolo rischierebbe di violare la lettera della legge.
Invero, secondo la giurisprudenza più recente il problema posto andrebbe risolto in termini diversi, in quanto non bisognerebbe tanto verificare la lettera della legge (soprattutto in considerazione del fatto che quando il codice fu formulato di certo non si pensava agli ascensori), quanto piuttosto la sua ratio giustificatrice; così che, se la ripartizione delle spese in tema di scale pone problemi analoghi a quelli dell'ascensore, la soluzione andrà individuata nell'estenzsione applicativa dell'art. 1124 c.c. (per analogia).
Da questo angolo visuale, allora, l'ascensore è molto simile alle scale, in quanto sono entrambi "strumenti" per raggiungere i piani più alti, ed in entrambi i casi vi è un diverso utilizzo in rapporto alla distanza dal suolo, con la conseguenza che questa analogia strutturale ben giustifica l'applicabilità dell'art. 1124 c.c. anche agli ascensori.
Ne segue, quindi, che in virtù di tali considerazioni, coerenti con la Costituzione (che impone di trattare in modo uguale situazioni giuridiche uguali o analoghe), con la lettera della legge (non vi è violazione di legge, ma interpretazione evolutiva) e con la sua ratio, Caio sarà tenuto a pagare la spesa per il rifacimento dell'ascensore, per metà in ragione del valore del suo piano e per l'altra "metà in rapporto alla distanza dal suolo" (Caio è al primo piano).
Si consiglia, poi, di leggere le sentenze che seguono (la prima si occupa del condominio minimo, mentre la seconda della ripartizione delle spese dell'ascensore).
-Al condominio minimo si applica la disciplina del condominio e non quella della comunione.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE II CIVILE
SENTENZA 22 GIUGNO 0000 X. 00000
(Presidente X. Xxxxxxxxxxx, Relatore X. Xxxxxx) SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 12 giugno 1990 Xxxxx G., Xxxxxxx e Paolo T., proprietari di uno dei due piani dell'edificio nel dettaglio indicato, proposero innanzi al Pretore di Rieti azione di danno temuto nei confronti di Xxxxxxxx e Xxxxxxxx S., proprietari dell'altro piano, denunziando il pericolo costituito dal
progressivo crollo del tetto dell'edificio.
Ottenuto dal Pretore il provvedimento cautelare richiesto, Xxxxx G., Xxxxxxx e Paolo T., che avevano provveduto al restauro del fabbricato, convennero Xxxxxxxx e Xxxxxxxx S. in riassunzione innanzi al Tribunale di Rieti, del quale il Pretore aveva affermato la competenza, e chiesero che fossero condannati al pagamento di quanto da essi dovuto, "secondo la ripartizione millesima-le da determinarsi in corso di causa", nonché al risarcimento dei danni da essi subiti per la ritardata esecuzione del detto restauro.
Xxxxxxxx e Xxxxxxxx S. si costituirono e chiesero il rigetto della domanda. Contestata la fondatezza dell'azione di danno temuto proposta da Xxxxx G., Xxxxxxx e Paolo T., i convenuti sostennero in particolare che essi erano tenuti soltanto al pagamento delle spese relative alla effettuazione dei lavori urgenti ed indifferibili di manutenzione delle parti comuni dell'edificio, nella misura e secondo la ripartizione millesimale da essi proposta; chiesero inoltre, in riconvenzione, la demolizione di quanto gli attori avevano realizzato, eseguendo le opere previste dall'ordinanza pretorile, che era espressione di una inesistente "servitù di grondaia" gravante su un contiguo fondo.
Con sentenza del 27 giugno 1995 il Tribunale di Rieti, individuato con una consulenza tecnica l'ammontare dei lavori urgenti ed indifferibili necessari per la conservazione dell'immobile condominiale, nonché le quote millesimali delle parti in lite, condannò Xxxxxxxx e Xxxxxxxx S. a pagare a Xxxxx G., Xxxxxxx e Paolo T. la somma di 3.602.400 lire (a fronte dei 3.030.802 di lire, di cui i convenuti avevano riconosciuto di essere debitori); e rigettò sia l'azione risarcitoria esperita da Xxxxx G., Xxxxxxx e Paolo T., sia la riconvenzionale di Xxxxxxxx e Xxxxxxxx S., non avendo questi ultimi "neppure dedotto di essere proprietari dell'asserito fondo servente".
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d'appello di Roma ha rigettato il gravame di Xxxxxxxx e Xxxxxxxx S..
In particolare, ha disatteso il motivo di appello con cui questi ultimi avevano censurato la sentenza impugnata per aver riconosciuto la legittimità dell'ordinanza con cui il Pretore aveva concluso la fase cautelare del procedimento di danno temuto intentato nei loro confronti da Xxxxx G., Xxxxxxx e Paolo T.; ha affermato poi che l'immobile per cui è causa è condominiale, e dunque che sono applicabili, nella specie, le norme dettate per gli edifici condominiali; ha disatteso inoltre la censura con cui gli appellanti avevano sostenuto l'erroneità della determinazione delle quote millesimali, osservando che essi non avevano allegato alcunché per dimostrare
tale asserita erroneità; infine ha disatteso anche la censura con cui gli appellanti avevano ribadito che gli attori, nel ricostruire il tetto, avevano posto le premesse per l'acquisizione di una servitù di grondaia, osservando che lo sporto realizzato non è maggiore di quello del preesistente tetto, giusta quanto emerge dalla relazione del consulente tecnico di ufficio e dalle fotografie esibite.
Xxxxxxxx S. ha chiesto la cassazione di tale sentenza per sette motivi. Xxxxx G., Xxxxxxx e Paolo T. hanno resistito con controricorso.
Xxxxxxxx S. non ha svolto attività difensiva. MOTIVI DELLA DECISIONE
Con i primi quattro motivi del suo ricorso Xxxxxxxx S. censura la sentenza impugnata per non aver dichiarato la nullità, ovvero per non aver annullato "tutti i provvedimenti emessi nella fase cautelare".
Il ricorrente denunzia violazione dell'art. 163, 112, 260 e 689 del codice di rito, dell'art. 1172 del codice civile, e vizi di motivazione.
Le censure sono inammissibili.
I provvedimenti cautelari emessi nell'ambito del procedimento di denunzia di nuova opera ai sensi degli art. 689 e 690 del codice di rito hanno carattere interinale e strumentale rispetto alla causa di merito e, pertanto, non sono suscettibili di impugnazione autonoma.
Volta poi che sia intervenuta una pronunzia che accerti o neghi il diritto del quale con essi è stata chiesta tutela, per l'appunto in via interinale, e provvisoria, viene meno la loro ragion d'essere, e con essa l'interesse ad impugnarli (cfr., tra le tante in tal senso, la sentenza di questa Corte n. 982-1999).
Con il quinto motivo del suo ricorso Xxxxxxxx S. censura la sentenza impugnata per ripartito le spese necessarie per i necessari rifacimenti dell'edifìcio applicando le norme del codice civile relative al condominio negli edifici (segnatamente gli art. 1123 e 1134), e non, come egli aveva sostenuto in appello, essendo l'edificio composto da due sole unità immobiliari, quelle sulla comunione in generale (segnatamente l'art. 1110).
Il ricorrente denunzia violazione delle citate nome, non senza sostenere che la motivazione della sentenza impugnata è carente ed illogica, non essendo configurabile nella specie, per la ragione detta, un condominio.
La censura è infondata.
La statuizione impugnata ha fatto puntuale applicazione del principio sempre affermato da questa Corte (cfr. le sentenze n. 7181-1997, 5298-1998, ed in particolare quella n. 5914-1993), secondo il quale, in base all'art. 1139 del codice civile, la disciplina del capo II del Titolo VII del terzo libro del codice civile (art. 1117-1138) è applicabile ad ogni tipo di condominio e, quindi, anche ai cosiddetti "condomini minimi", e cioè a quelle collettività condominiali composte da due soli partecipanti; in relazione alle quali sono da ritenersi inapplicabili soltanto le sole norme procedimentali sul funzionamento dell'assemblea condominiale, che resta regolato, dunque, dagli art. 1104, 1105, 1106. del codice civile.
Con il sesto motivo del suo ricorso Xxxxxxxx S. censura la sentenza impugnata per aver rigettato il suo motivo di appello con cui aveva sostenuto che la ripartizione millesimale effettuata dal Tribunale era illegittima.
Il ricorrente denunzia violazione dell'art. 1123 del codice civile, e lamenta che la Corte d'appello ha affermato, nella sua sentenza, che "nessun elemento sussiste a conforto delle sue apodittiche affermazioni circa gli errori sulla consistenza volumetrica e gli spazi condominiali", senza tener conto della "precisa e puntuale elencazione di argomenti tecnico-giuridici ampiamente motivati, esposti nelle sue difese, suffragati da una consulenza tecnica di parte (in atti), che espone, con dovizia di particolari e con precise confutazioni tecniche, una precisa tesi circa l'erroneità e la incongruità delle ripartizioni millesimali adottate dal Tribunale per la ripartizione delle spese".
Il motivo, con cui si censura la sentenza non tanto per la de-nunziata violazione di legge, quanto piuttosto per vizio di motivazione, è inammissibile.
Il ricorso per cassazione - in virtù del principio di cosiddetta autosufficienza dello stesso - deve contenere in sé tutti gli elementi necessari per individuare le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito, e per valutarne la fondatezza, in modo che non sia necessario far ricorso ad altri documenti o atti, in particolare quelli relativi al pregresso giudizio di merito (cfr. tra le tante, tutte conformi, da ultimo, le sentenze n. 12912-2004 e 13550-2004).
Il ricorrente non ha precisato, nel ricorso, quali sono gli argomenti tecnici giuridici da lui sviluppati per sostenere il motivo di gravame che a suo dire è stato
disatteso senza adeguata motivazione, e che la Corte d'appello non avrebbe adeguatamente considerati e valutati.
Con l'ultimo motivo del suo ricorso Xxxxxxxx S. censura la sentenza impugnata per aver confermato il rigetto della sua domanda riconvenzionale relativa alle dimensioni della sporgenza del tetto ricostruito deciso dal Tribunale in prime cure. Il ricorrente sostiene che non è vero quanto affermato al riguardo dalla Corte d'appello di Roma e in narrativa sintetizzato; in particolare sostiene che il consulente tecnico di ufficio si è limitato a proporre "valutazioni presuntive", e che dalle fotografie che raffigurano lo stato pregresso dei luoghi risulta il contrario di quanto affermato in sentenza. Denunzia quindi violazione dell'art.
2697 del codice civile e vizi di motivazione. La censura è inammissibile.
Con essa il ricorrente non fa altro che proporre una valutazione delle prove raccolte diversa da quella che ne ha data il giudice del merito, e a contrapporla a quella di questo ultimo; chiede in altri termini un riesame delle prove raccolte, che questa Corte, giudice della sola legittimità, non può effettuare.
Le spese seguono la soccombenza. PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso, e condanna Xxxxxxxx S. a rifondere a Xxxxx G., Xxxxxxx e Paolo T. le spese di questo giudizio, che liquida in 1.300,00 euro, di cui 1.200,00 per onorari, oltre accessori di legge.
-In tema di condominio, la disciplina giuridica prevista per le scale si estende all’ascensore, sussistendone la medesima ratio.
CASSAZIONE SEZIONE II CIVILE
SENTENZA 17 febbraio 2005 n. 3264
Svolgimento del processo
Con citazione notificata il 27.07.1989 Xxxxxxx M. convenne davanti al Tribunale di Milano il Condominio di Xxx XXXXX xx Xxxxxx impugnando la delibera 10.07.1989 con la quale l'assemblea aveva approvato la ripartizione delle spese millesimali di ascensore e riscaldamento.
Il Condominio, tardivamente costituitosi, chiese il rigetto della domanda.
Con separata citazione notificata il 3.11.89 Carlo e Caterina S. convennero in giudizio davanti allo stesso Tribunale il medesimo Condominio impugnando la delibera 12.10.89 con la quale l'assemblea aveva approvato i nuovi millesimi per la ripartizione delle spese diriscaldamento e di ascensore.
Il Condominio, costituitosi chiese il rigetto della domanda.
Disposta la riunione delle cause il M. chiese, in ordine alla domanda da lui proposta, la dichiarazione di cessazione della materia del contendere, in forza della delibera 12.10.89 che soddisfaceva le sue richieste, ed il rigetto della domanda proposta dagli S. nel cui giudizio era intervenuto.
Con successiva citazione 25.07.90 Carlo e Caterina S., Xxxx B., Lino P. ed Edoardo B. impugnarono la delibera 12.10.89 con riferimento all'approvazione delle spese di tinteggiatura dei serramenti, - nonchè la delibera del 27.06.90 relativamente al consuntivo 1.5.89/1.4.90 ed al nuovo regolamento di Condominio con allegate tabelle millesimali.
Costituitosi il Condominio, chiese il rigetto della domanda: riunite tutte le cause,
ordinata l'integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i condomini dei quali solo in pochi si sono costituiti, il Tribunale, con sentenza 22.10.98 ha respinto sia l'impugnazione delle due delibere 12.10.89 e 27.6.90, sia la domanda di revisione e determinazione giudiziale delle tabelle millesimali, dichiarando cessata la materia del contendere relativamente alla delibera 10.7.89.
Su impugnazione di Carlo e Caterina S., che insistevano per la dichiarazione di nullità delle delibera 12.10.89 e 27.6.90, nella parte in cui avevano modificato le tabelle millesimali per il riparto delle spese del servizio di ascensore nonchè per la nullità di ogni altra delibera che avesse comunque modificato le predette tabelle senza il consenso unanime degli aventi diritto, la Corte di appello di Milano, con sentenza 12.5.2000, respingeva l'appello.
Precisato che la sola questione controversa fra le parti riguarda la ripartizione delle spese di gestione dell'ascensore della scala C;
afferma la Corte d'appello, per quanto riguarda gli ascensori, che la presunzione di comproprietà fra i condomini dell'impianto, è fondata sulla relazione strumentale necessaria fra esso e l'uso comune e poichè la destinazione al soddisfacimento dell'interesse dei partecipanti al Condominio, non ha per tutti pari intensità, ma varia in funzione del piano in cui si trova la porzione di proprietà esclusiva del singolo Condominio, il criterio di ripartizione delle spese, secondo la misura della partecipazione alla comproprietà del bene da parte dei singoli deve essere coordinato con quello della proporzione dell'uso che ciascuno può farne; per cui il principio desumibile dall'art. 1117 c.c. deve essere coordinato con quello stabilito dall'art. 1123 2 e 3 c. C. Civ. che individua il criteriodi riparto in base all'uso differenziato (in particolare all'uso virtuale e non a quello effettivo);
- e la disciplina applicabile agli ascensori deve essere analoga a quella stabilita per le scale dall'art. 1124 C. Civ. il quale rappresenta una applicazione della regola generale stabilita dall'art. 1123 2 e 3 c. C. Civ..
- Aggiunge la Corte d'appello che se per le spese di conservazione delle parti comuni, essendo diretta alla tutela della integrità del valore capitale, può in astratto, ammettersi che esse siano dovute in proporzione alla quota di comproprietà; ciò non può ammettersi per le spese attinenti al godimento delle cose comuni, in quanto esse scaturiscono dall'uso, sicchè legittimo è il criterio stabilito con la delibera 12.10.89, ribadito nella successiva delibera del 27.6.90 (cioè 50% dei millesimi di proprietà e 50% in base ai piani).
Irrilevante, per la Corte d'appello, è la circostanza che l'impianto sia stato realizzato mediante differenti contribuzioni volontarie da parte dei condomini dal momento che il criterio della proporzionalità alle sole quote di proprietà, non è idoneo a rappresentare la misura secondo cui ciascun condomino gode e fa uso dell'impianto.
Con riferimento alla mancanza di una determinazione convenzionale dei valori immobiliari delle porzioni di proprietà esclusiva, afferma la Corte d'appello che il rapporto fra il valore della proprietà dell'intero edificio e quello della proprietà singola, esiste indipendentemente dalla formazione della tabella millesimale; e che l'assemblea, anche in assenza di un regolamento che fissi i criteri, ha il potere di stabilire la ripartizione delle spese fra i condomini; cosicchè nella fattispecie in esame, in cui non si deduce che per le spese dell'ascensore si siano consolidati, con effetti negoziali vincolanti, criteri di ripartizione diversi, del tutto legittimi sono i criteri richiamati nella delibera 12.10.89 tanto più che i valori dei piani espressi in millesimi esistono di fatto e sono applicati da anni senza contrasti.
Quanto, infine, alla dedotta ingestibilità" delle "tabelle ascensore" predisposte dal
C.T.U. (perchè non esisterebbe una caratura millesimale delle unità immobiliari in
base al "valore di piano o porzione di piano") afferma la Corte d'appello che l'inconveniente, ove fosse di fatto ravvisabile, non produrrebbe alcun effetto pregiudizievole, in quanto il Tribunale ha escluso che quelle tabelle avessero immediata efficacia per i condomini, in mancanza di consenso da parte di tutti. Avverso tale sentenza ricorrono in Cassazione Carlo e Caterina S. -Resiste con controricorso il M. Nessuna attività difensiva hanno svolto gli intimati.
Motivi della decisione
Deducono i ricorrenti a motivo di impugnazione: la violazione e falsa applicazione degli artt. 1100, 1123, 1124 Cod. Civ. in relazione all'art. 000 X 0 c.p.c..
- per avere la Corte d'appello erroneamente ritenuto, conformemente al Tribunale, applicabile, quale criterio di ripartizione delle spese di conservazione e manutenzione dell'ascensore, quello stabilito con la delibera 12.10.89 approvata con 553,71 voti e cioè in base al 50% dei millesimi di proprietà e al 50% del valore dei piani, NONOSTANTE:
a) in mancanza dell'unanimità dei consensi, trattandosi di ascensore (realizzato dopo 50 anni dall'edificazione dello stabile) oggetto di una comunione le cui quote sono espresse dalla misura della spesa con cui ciascuno concorse alla sua realizzazione, il criterio diripartizione delle spese non può che essere dettato dall'art. 1101 2^ c. c.c., norma ripresa dall'art. 1123 1^ c. c.c. non essendo applicabile il criterio dell'art. 1123 c. 2^ e 3 cod. civ., di cui l'art. 1124 c.c. è specificazione, norme queste ultime disciplinanti le spese relative agli impianti sorti contemporaneamente alla costruzione dell'edificio condominiale;
b) il riparto delle spese in base all'uso differenziato ex art. 1123 2 c.c. civ. NON sia applicabile alle spese generali;
c) il regolamento condominiale prescinda da qualsiasi determinazione dei "valori di piano" C quindi non sia possibile ripartire le suddette spese, senza la previa determinazione dei "valori di piano"da effettuarsi ex novo con criteri oggettivi, predeterminati e condivisi da tutti i condomini interessati.
Il ricorso è infondato.
Non merita, infatti, alcuna censura la decisione della Corte d'appello che, in conformità alla dottrina e giurisprudenza prevalente e consolidata, ha ritenuto legittimo il criterio di ripartizione delle spese di conservazione e manutenzione dell'ascensore, approvato con la delibera 12.10.89, in conformità a quanto stabilito dall'art. 1124 Cod. Civ., per la ripartizione delle spese relative alle scale; norma ritenuta applicabile in via analogica, in virtù della medesima ratio, alla fattispecie avente ad oggetto l'ascensore, per la cui disciplina manca una specifica norma.
Non derogando, inoltre, l'art. 1124 C. Civ. ai criteri generali previsti dall'art. 1123
C. Civ., (il valore e l'utilità); ed incidendo sulle spese di manutenzione il logorio dell'impianto, (maggiore in funzione dell'altezza dei piani), del tutto legittima deve ritenersi la delibera assembleare, in mancanza, come specificato dalla stessa Corte di appello, di criteri convenzionali che deroghino a quelli stabiliti dalle legge.
Il rilievo, poi, secondo il quale il criterio di ripartizione delle spese di cui all'art. 1224 C. Civ., sarebbe applicabile solo nell'ipotesi in cui l'ascensore fosse stato installato originariamente con la costruzione dell'edificio, e non, invece, quando, come nella specie, sia stato installato in un secondo tempo, è affermazione dei ricorrenti che prescinde dall'accertamento di fatto di cui in sentenza, dal quale si evince che l'installazione dell'ascensore, fu sì successiva alla costruzione dell'edificio, ma avvenne con il consenso di tutti i condomini, sia pure con il
contributo finanziario differenziato degli stessi.
Ciò comporta: la proprietà comune condominiale dell'impianto, già considerato tale ai sensi dell'art. 1117 N. 3 Cod. Civ., in mancanza di titolo contrario; nonchè, ai sensi dell'art. 1118 C. Civ., il diritto di ciascun condominio sullo stesso, proporzionato al valore del piano o porzione di piano di proprietà esclusiva.
Ne consegue, con riferimento alla ripartizione delle spese, l'applicabilità alla fattispecie dei criteri previsti dall'art. 1123 C. Civ., dei quali la disciplina stabilita dall'art. 1124 c.c., è una specifica applicazione, come precisata correttamente nella sentenza impugnata.
Erra, pertanto, il ricorrente nel ritenere applicabile alla fattispecie l'art. 1101 2 c. Cod. Civ., dal momento che, essendo stato l'ascensore installato con il consenso e la spesa di tutti i condomini, la comproprietà sullo stesso è comune a tutti i condomini, a nulla rilevando a tal fine il differente contributo finanziario degli stessi, contributo che ove accertato, per ciascun condomino di entità maggiore della quota di comproprietà non può che dar luogo ad un diritto di credito del singolo, verso il condominio.
Lo stesso, comunque, è a dirsi anche in relazione alla ritenuta (dai ricorrenti) applicabilità dell'art. 1101 2^ c. Cod. Civ., considerato che, nella comunione le quote di comproprietà, in mancanza di titolo contrario, si presumono uguali, e coloro che hanno pagato in più, possono vantare solo un credito verso gli altri comunisti.
Infondato è, infine, il rilievo sub c) del motivo in esame, dal momento che, come la giurisprudenza di questa Corta ha affermato (v. sentt. 6202/98; 431/90; 5794/83), l'esistenza della tabella millesimale non costituisce requisito di validità delle delibere assembleari, dato che il criterio per la determinazione delle singole quote preesiste alle tabelle, derivando dal rapporto tra il valore dell'intero edificio e quello della proprietà singola; rapporto che, nella specie come indicato dalla Corte d'appello, è stato di fatto determinato ed applicato.
Il ricorso va, quindi, respinto.
Segue alla soccombenza la condanna dei ricorrenti al pagamento in favore della controparte, delle spese del presente giudizio liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio in favore delle controparti, spese liquidate in E. 100,00 oltre E. 1000,00 per onorari.
Così deciso in Roma, il 30 aprile 2004. Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2005.
VENDITA A PREZZO IRRISORIO
TRACCIA:
Tizio è un anziano signore, che da diversi anni vive in una casa di riposo. Tizio è molto affezionato a Caio, giovane medico, al punto da volergli vendere una villa in Portofino a prezzo molto basso.
Tizio è senza eredi e vuole, prima di morire, liberarsi della suddetta villa proprio per rendere contento Caio che è giovane e promettente.
Caio e Tizio, così, si recano dal notaio Xxxxxx Xxxxxx, che stipula l'atto di vendita, precisando che il bene viene venduto ad un prezzo molto basso (circa ad 1/3 del valore effettivo) per volontà dello stesso Tizio.
Dopo circa due anni dalla stipula, inaspettatamente, Tizio fa recapitare una raccomandata con ricevuta di ritorno a Caio, dove viene scritto che il suddetto contratto di compravendita sarebbe nullo, in quanto trasferimento patrimoniale senza causa; l'assenza del prezzo serio in favore di un prezzo irrisorio o simbolico determinerebbe la nullità del contratto: non sarebbe possibile porre in essere una vendita valida ad un prezzo irrisorio.
Caio si reca da un legale.
Il candidato rediga motivato parere in favore di Caio. POSSIBILE SOLUZIONE:
In premessa poteva risultare utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente era utile entrare nel cuore del problema giuridico: il prezzo irrisorio può rendere l'atto nullo? La mancanza del prezzo serio è causa di nullità del contratto ex art. 1418 c.c.?
Secondo parte minoritaria della dottrina, il problema andrebbe risolto in termini positivi: il prezzo serio sarebbe elemento essenziale del contratto, in quanto oggetto contrattuale; quando vi è una vendita le prestazioni sono il trasferimento del bene ed il corrispettivo economico, così che l'oggetto sarebbe la prestazione del trasferimento dell'immobile per il venditore, e del pagamento del corrispettivo per l'acquirente.
In questo senso è stato detto che l'oggetto contrattuale sarebbe anche il prezzo, che deve essere serio per non vulnerare la struttura e ratio del contratto stesso di vendita.
Tale tesi, tuttavia, non è condivisibile perchè entra in contrasto con la lettera della legge, che laddove parla di oggetto, ex art. 1346 c.c, richiede che sia possibile, lecito, determinato o determinabile, senza alcun riferimento alla serietà.
La giurisprudenza prevalente opta per questa seconda ricostruzione, precisando che la pattuizione di un prezzo notevolmente inferiore al valore di mercato della cosa compravenduta, ma non privo del tutto di valore intrinseco, può rilevare sotto il profilo dell'individuazione del reale intento negoziale delle parti e della effettiva configurazione ed operatività della causa del contratto, ma non può determinare la nullità del medesimo per la carenza di un requisitio essenziale.
Così, nel caso di specie, la vendita della villa di Portofino non è nulla, ma al più può rivelare all'interprete che si tratta di una vendita mista a donazione (oppure donazione rimuneratoria), soprattutto in considerazione dello spirito di liberalità che sembra aver animato Tizio (si dice che Tizio vuole liberarsi della villa); nella vendita mista a donazione è dubbio se possa trovare applicazione la disciplina giuridica relativa all'istituto che sembra prevalere (nel caso di specie la donazione), ovvero una disciplina giuridica mista (in parte quella della vendita ed in parte quella della donazione).
In entrambi i casi, tuttavia, la disciplina giuridica della donazione potrebbe trovare applicazione (seppure in misura ridotta, con riferimento alla tesi mista), con la consegunza applicativa che Caio potrebbe vedersi revocare la villa di Portofino, ex art. 800 c.c.
In un'ottica difensiva della posizione di Caio sarebbe possibile sottolineare il fatto
che l'atto di trasferimento è una vendita (Xxxxxx Xxxxxx ha realizzato un atto di vendita) e non donazione, così che le forme utilizzate nell'atto deporrebbero proprio nel senso della vendita, tanto più che vi è stato un corrispettivo economico; inoltre, se del caso, comunque, Tizio dovrebbe dimostrare una delle cause ex art. 800 c.c. che, allo stato, non sembrano sussistere.
PRELIMINARE PER PERSONA DA NOMINARE
TRACCIA:
Tizio è proprietario dell'immobile Alfa; Caio vorrebbe acquistare l'immobile Alfa e si mette in contatto con il proprietario.
Tizio chiede a Caio, per la vendita dell'immobile Alfa, il prezzo di 200.000,oo euro; Caio ritiene il prezzo troppo alto e la vendita non si realizza.
La moglie di Tizio conosce, casualmente ad una festa di amici, la moglie di Caio e ne nasce una profonda amicizia.
Le due amiche, un giorno, litigano; Tizio, venuto a sapere dei fatti che avevano determinato il litigio, decide di non vendere per alcun motivo l'immobile Alfa a Caio, neanche laddove quest'ultimo avesse proposto un prezzo superiore a 200.000,oo euro.
Caio, allora, chiede a Sempronio di mettersi in contatto con Tizio per fingersi interessato all'acquisto dell'immobile Alfa; Sempronio contatta Tizio e i due si incontrano per vedere l'immobile Alfa.
Tizio chiede come corrispettivo della vendita dell'immobile Alfa la somma di euro 190.000,oo; Sempronio dice apertamente a Tizio che quell'immobile, invero, avrebbe un valore di gran lunga inferiore.
Tizio e Sempronio non realizzano il contratto di compravendita dell'immobile Alfa.
Qualche giorno dopo, Caio contatta Quarto, chiedendogli il favore di contattare, a sua volta, Tizio, per fingersi interessato all'acquisto dell'immobile Alfa; Tizio incontra Quarto, proponendogli la vendita dell'immobile Alfa al prezzo di euro 180.000,oo.
Quarto spiega a Tizio che il prezzo sarebbe eccessivo per un immobile come Alfa del valore massimo di 100.000,oo euro.
Dopo un mese, Caio chiede a Quinto di informarsi sul prezzo di vendita dell'immobile Alfa di proprietà di Tizio; Tizio e Quinto si incontrano.
Tizio propone a Quinto di vendergli il bene al prezzo di 100.000,oo euro; Quinto accetta, firmando un preliminare per persona da nominare.
Dopo sei mesi, allo scadere del preliminare, Quinto si presenta con Caio per firmare il contratto definitivo, davanti al notaio Xxxxxx Xxxxxx, precisando di voler sciogliere la riserva di nomina e nominare Caio acquirente.
Tizio va su tutte le furie e decide di non firmare alcunchè. Caio si reca da un legale.
Il candidato, assunte le vesti del legale, rediga motivato parere favorevole alla posizione del suo assistito.
POSSIBILE SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire (molto sinteticamente) il fatto. Subito dopo era necessario affrontare il discorso sulla validità o meno del preliminare per persona da nominare.
E’ possibile realizzare un contratto preliminare per persona da nominare? Secondo l’orientamento minoritario e più datato al quesito andrebbe data risposta negativa, perché non sarebbe ammesso uno sfalsamento soggettivo tra preliminare e definitivo, argomentando ex art. 2932 c.c.
In particolare, si dice, dall’art. 2932 c.c. sembrerebbe potersi desumere un principio relativo al fatto che tra preliminare e definitivo dovrebbe sussistere una perfetta coincidenza sia soggettiva che oggettiva; se, infatti, il giudice può emettere una sentenza che produce gli effetti “del contratto non concluso”, allora, il contratto definitivo non potrebbe essere diverso (nel contenuto soggettivo o oggettivo) dal preliminare, altrimenti la sentenza del giudice non potrebbe mai avere il significato di sostituire l’adempimento.
In altri termini, poiché il giudice può emettere solo una sentenza sostitutiva dell’adempimento (quando possibile e non escluso dal titolo), allora, il contenuto dello stesso adempimento deve essere già predeterminato nel preliminare; diversamente argomentando, sarebbe vulnerata la ratio dell’art. 2932 c.c. ed il giudice non potrebbe mai emettere la sentenza suddetta, perché il definitivo potrebbe sempre avere differenze rispetto al preliminare (che solo la comune volontà delle parti potrebbero determinare).
Tale testi, invero, è stata abbandonata sia perché il contratto preliminare è una figura generica e, come tale, compatibile con diversi schemi negoziali (preliminare a favore di terzo, preliminare di cosa altrui, secondo qualche voce isolata anche contratto preliminare di preliminare - quindi compatibilità giuridica anche con se stesso - ), e sia perché l’art. 2932 c.c. non impone un obbligo al giudice, così che lo strumento dell’esecuzione specifica di concludere un contratto è uno strumento ulteriore rispetto a quelli classici; sotto il secondo profilo, precisamente: se non vi è un obbligo vuol dire che non vi è un principio inderogabile, tanto più che lo stesso articolo 2932 c.c. sembra ammettere deroghe, laddove dice “qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo”.
In questo senso, pertanto, la giurisprudenza più recente ammette la figura del preliminare per persona da nominare, con la conseguenza applicativa che, in base a tali rilievi argomentativi, nel caso di specie,
il contratto realizzato tra Tizio e Quinto sarà pienamente valido ed efficace. Risolto tale quesito interpretativo, allora, bisognava chiedersi: il comportamento posto in essere da Caio è legittimo, ovvero rischia di essere illegittimo (con eventuale annullabilità del preliminare per dolo, nonché possibile responsabilità precontrattuale (a cui si applica, secondo l’orientamento prevalente, la disciplina giuridica della responsabilità aquiliana), sub specie di violazione della buona fede)?
Invero, in un’ottica difensiva, si potrebbe dire che il comportamento posto in essere da Caio difficilmente potrebbe essere qualificato come dolo, ex art. 1439 c.c., in quanto l’atteggiamento psicologico non era volto a danneggiare Tizio (dolo intenzionale), ma semplicemente ad acquistare un bene ad un prezzo vantaggioso; seppur, infatti, il comportamento di Caio può essere stato volto a raggirare il venditore Tizio (facendo “credere esistente l’inesistente”, sulla falsariga della truffa contrattuale ex art. 640 c.p.), non è stato, comunque, volto a danneggiarlo, con la conseguenza applicativa che ben si potrebbe versare nell’ipotesi di dolo consentito (o lecito), ove il fine è semplicemente quello di ottenere un bene a condizioni economiche vantaggiose: sarebbe un dolus bonus
(come nell’ipotesi in cui l’acquirente dice al venditore che il bene oggetto del futuro acquisto è venduto da terzi commercianti a prezzo inferiore a quello proposto dal venditore stesso).
Sotto tale profilo interpretativo, quindi, Caio potrebbe non vedere annullato il suo contratto.
Per quanto attiene all’ipotesi di possibile responsabilità precontrattuale cagionata da Quarto e Sempronio, poi, non sembra desumersi dal fatto che le trattative avevano raggiunto un livello talmente avanzato da ingenerare incolpevole affidamento sull’effettività dell’accordo con Tizio.
Inoltre, sotto un profilo difensivo, ben si potrebbe dire che la buona fede, ex art. 1337 c.c., non si riferisce ad una trasparenza assoluta nel rapporto negoziale, che è fisiologicamente deputato a presentare luci ed ombre (in quanto entrambi i contraenti cercano di avere il maggiore guadagno economico possibile), ma ad un comportamento complessivamente lecito, che ben si concilia con il dolus bonus di cui si è detto.
Il fatto, poi, che Tizio non avrebbe mai voluto vendere l’immobile non può assumere un significativo valore giuridico, non trattandosi di contratti intuitu personae, con la conseguenza logico-deduttiva che, tendenzialmente, non rileva la persona dell’acquirente, ma il solo vincolo obbligatorio.
Sotto tali profili ricostruttivi, pertanto, Caio potrebbe aver acquisito legittimamente e validamente l’immobile Alfa.
Si consiglia di leggere le sentenze che seguono, le quali, seppur non attinenti al caso proposto, possono essere utili a conoscere gli orientamenti giurisprudenziali più recenti.
-Preliminare di cosa altrui: il promissario acquirente, laddove venga a sapere che il bene oggetto di trasferimento non sia del promittente alienante, non può legittimamente rifiutare l'acquisto.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILE SENTENZA 18 maggio 2006, n. 11624
(Presidente Carbone – Relatore Bucciante) Svolgimento del processo
Con sentenza del 18 marzo 1998 il Tribunale di Pistoia ha Pronunciato la risoluzione, per inadempimento di Mirella P., di un contratto preliminare con il quale costei si era obbligata a vendere a Wladimiro L. e Xxxxxx V. un podere con casa colonica sito in Larciano, e ha condannato la promittente alienante alla restituzione degli acconti ricevuti, nella misura di lire 17.000.000, nonché al rimborso delle spese di giudizio.
Impugnata in via principale da Wladimiro L. e Xxxxxx V., incidentalmente da Mirella P., la decisione è stata riformata dalla Corte di appello di Firenze, che con sentenza del 21 marzo 2000, in parziale accoglimento di entrambi i gravami, ha dichiarato il contratto risolto per inadempimento del L. e della V., ha rideterminato in lire 16.000.000 la somma che doveva essere loro rimborsata, ha confermato il rigetto della domanda di risarcimento di danni formulata dalla P., ha posto a carico degli appellanti principali metà delle spese di entrambi i gradi di giudizio, compensandole tra le parti per l’altra metà.
A queste pronunce il giudice di secondo grado è pervenuto ritenendo: che «unica ragione della mancata stipula va ricondotta alla mancata proprietà del bene da parte della promittente venditrice, ma appare pacifico che in realtà anche tale questione era stata risolta precedentemente (il che assorbe ogni rilievo relativo all’effettiva conoscenza di tale altruità da parte dei L.) essendosi la P. presentata munita di procura a vendere del tutto rituale, relativa al bene de quo e rilasciata dai proprietari due giorni prima e davanti allo stesso notaio»; che «è d’altronde indiscusso che in caso di preliminare di vendita l’obbligo del promittente venditore è quello di procurarsi la proprietà del bene o di ottenere dal proprietario il consenso o l’autorizzazione alla vendita – Cassazione, 3677/96; 367/77; 8228/90 per cui non è dato vedere cosa possa imputarsi alla P. che era perfettamente in grado di vendere il bene alla data prefissata»; che «né può sostenersi come sembrano fare i L. che essi acquistando da “altri” potevano risultare meno garantiti, rispetto alla P.: invero nei loro confronti e in relazione alle garanzie loro spettanti per legge, unico interlocutore era e restava la P. personalmente e direttamente, per cui solo sulla P. continuavano a ricadere tutte le garanzie in materia di vizi o di evizione x. Xxxxxxxxxx, 0000/00»; che «non vi è alcuna prova (che la P. nemmeno ha chiesto di fornire)», in ordine ai danni da lei lamentati.
Wladimiro L. e Xxxxxx V. hanno proposto ricorso per cassazione, in base a un motivo. Mirella P. si è costituita con controricorso, formulando a sua volta due motivi di impugnazione in via incidentale, e ha depositato una memoria.
Motivi della decisione
In quanto proposte contro la stessa sentenza, le due impugnazioni vanno riunite in un solo processo, in applicazione dell’articolo 335 Cpc.
Con il motivo addotto a sostegno del ricorso principale Wladimiro L. e Xxxxxx V. lamentano che la Corte di appello «ha applicato il disposto dell’articolo 1478 Cc anziché quanto previsto dall’articolo 1479 Cc», pur se «al momento della sottoscrizione del contratto preliminare di compravendita la Sig.ra P. Mirella non aveva messo a conoscenza i promittenti acquirenti che l’immobile fosse di proprietà di altri» e in tali casi «è possibile per il compratore chiedere la risoluzione del contratto salvo che il venditore non abbia, nel frattempo, acquistato la proprietà della cosa», mentre «nella fattispecie ciò era tanto più importante perché esistevano, come è stato riconosciuto da tutti i tenti, problemi di esercizio del diritto di prelazione da parte di terzi, con la conseguenza che i ricorrenti non avrebbero più avuto la garanzia da parte del loro originale contraddittore e promittente venditore». Secondo i ricorrenti principali, pertanto,
Mirella P. avrebbe dovuto acquistare lei stessa l’immobile in questione e poi trasferirlo a loro, sicché legittimamente avevano rifiutato di farselo alienare direttamente dagli effettivi proprietari, per il tramite della stessa P. in veste di loro procuratrice.
In ordine alle modalità di adempimento dell’obbligazione assunta dal promittente venditore di una cosa altrui, nella giurisprudenza di legittimità è insorto un contrasto, per la cui composizione la causa è stata assegnata alle Sezioni unite.
In prevalenza, questa Corte si è orientata nel senso che la prestazione può essere eseguita, indifferentemente, acquistando il bene e ritrasmettendolo al promissario, oppure facendoglielo alienare direttamente dal reale proprietario, in quanto l’articolo 1478 Cc relativo al contratto definitivo di vendita di cosa altrui, ma applicabile per analogia anche al preliminare dispone che il venditore «è obbligato a procurarne l’acquisto al compratore», il che può ben avvenire anche facendo al che il terzo, al quale il bene appartiene, lo ceda egli stesso al promissario (v., tra le più recenti, Cassazione, 13330/00, 2656/01, 15035/01, 21179/04, 24782/05).
Talvolta si è però deciso che l’obbligazione in questione deve invece essere adempiuta acquistando il bene e ritrasferendolo, in particolare nel caso in cui l’altra parte non fosse stata consapevole dell’altruità, poiché l’articolo 1479 Cc – anch’esso dettato per la vendita definitiva, ma estensibile a quella preliminare abilita il compratore a «chiedere la risoluzione del contratto, se, quando l’ha concluso, ignorava che la cosa non era di proprietà del venditore, e se frattanto il venditore non gliene ha fatto acquistare la proprietà» (v. Cassazione 7054/90, 2091/99, relative, rispettivamente, a un contratto definitivo e a uno preliminare di vendita di cosa altrui).
Ritiene il collegio che debba essere seguito l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario.
Stante la latitudine delle citate previsioni normative, non vi è ragione per escludere che la prestazione possa essere eseguita “procurando” il trasferimento del bene direttamente dall’effettivo proprietario, senza necessità di un doppio trapasso; il comma 2 dell’articolo 1478 menziona bensì l’acquisto che eventualmente compia l’alienante, nel caso di vendita (definitiva) di cosa altrui, ma come una particolare modalità di adempimento, alla quale eccezionalmente riconnette l’effetto di far diventare senz’altro proprietario il compratore.
Né una diversa soluzione può essere adottata per il caso in cui il promissario avesse ignorato, al momento della conclusione del preliminare, la non appartenenza del bene al promittente. Il disposto dell’articolo 1479 Cc, che consente al compratore in “buona fede” di chiedere la risoluzione del contratto, è coerente con la natura di vendita definitiva del negozio cui si riferisce, destinato, nell’intenzione delle parti, a esplicare quell’immediato effetto traslatIvo che è stabilito dall’articolo 1376 Cc, ma è impedito dall’altruità della cosa: altruità che invece non incide sul sinallagma instaurato con il contratto preliminare, il quale ha comunque efficacia soltanto obbligatoria, essendo quella reale differita alla
stipulazione del definitivo, sicché nessun nocumento, fino alla scadenza del relativo termine, ne deriva per il promissario. Dall’articolo 1479 Cc, pertanto, non può desumersi che egli sia abilitato ad agire per la risoluzione e quindi ad opporre l’exceptio inadimpleti contractuo se l’altra parte, nel momento in cui vi è tenuta, é comunque in grado di fargli ottenere l’acquisto, direttamente dal proprietario.
D’altra parte, il ritenere esatta tale modalità di adempimento è in sintonia con l’essenza e la funzione del contratto preliminare di vendita, quali sono state individuate nelle più recenti elaborazioni dottrinali, che hanno superato la concezione tradizionale dell’istituto e che qualche riflesso hanno avuto anche in giurisprudenza.
Il contratto preliminare non è più visto come un semplice pactum de contrahendo, ma come un negozio destinato già a realizzare un assetto di interessi prodromico a quello che sarà compiutamente attuato con il definitivo, sicché il suo oggetto è non solo e non tanto un facere, consistente nel manifestare successivamente una volontà rigidamente predeterminata quanto alle parti e al contenuto, ma anche e soprattutto un sia pure futuro dare: la trasmissione della proprietà, che costituisce il risultato pratico avuto di mira dai contraenti. Se il bene già appartiene al promittente, i due aspetti coincidono, pur senza confondersi, ma nel caso dell’altruità rimangono distinti, appunto perché lo scopo può essere raggiunto anche mediante il trasferimento diretto della cosa dal terzo al promissario, il quale ottiene comunque ciò che gli era dovuto, indipendentemente dall’essere stato o non a conoscenza della non appartenenza della cosa a chi si era obbligato ad alienargliela.
Né vale obiettare che l’identità del venditore, come i ricorrenti principali deducono, non è indifferente per il compratore, il quale può risultare meno tutelato, relativamente all’evizione e ai vizi. in proposito, in consonanza con le menzionate opinioni dottrinali, la giurisprudenza si é orientata nel senso che la conclusione del definitivo, per tali profili, non assorbe né esaurisce gli effetti del preliminare, il quale continua a regolare i rapporti tra le parti, sicché il promittente alienante resta responsabile per le garanzie di cui si tratta (v., da ultimo, Cassazione, 15035/01).
Si deve quindi affermare che il promittente venditore di una cosa che non gli appartiene, anche nel caso di buona fede dell’altra parte, può adempiere la propria obbligazione procurando l’acquisto del promissario direttamente dall’effettivo proprietario.
Alla stregua di questo principio, il ricorso principale va rigettato, dovendoci riconoscere che la «Corte di appello correttamente ha ritenuto superfluo accertare se Wladimiro L. e Xxxxxx V. fossero stati inizialmente ignari dell’altruità dell’immobile in questione, essendo anche in tale ipotesi ingiustificato il loro rifiuto di addivenire alla conclusione del contratto definitivo, dato che Mirella P. si era munita di una procura rilasciatale, dagli effettivi proprietari del bene, che la abilitava a effettuarne la vendita in nome loro.
Con il primo motivo del ricorso incidentale, si deduce che la Corte d’appello ha dichiarato la risoluzione del contratto preliminare de quo per inadempimento di controparte senza condannarla al risarcimento del danno richiesto che
all’inadempimento consegue per legge non tenendo conto che tale domanda di risarcimento del danno. che spetta in ogni modo alla Comparente, era stata avanzata anche in via equitativa».
La doglianza va disattesa, poiché con la sentenza impugnata si è rilevato che nessuna prova, in ordine ai danni asseritamente subiti, era stata data né offerta da Mirella P.: prova che comunque avrebbe dovuto essere fornita, relativamente all’an poiché è soltanto per la determinazione del quantum che si può fare luogo alla liquidazione in via equitativa, ove non ne sia dimostrabile il preciso ammontare (v., per tutte, Cassazione, 16112/05).
Con il secondo motivo del ricorso incidentale Mirella P. lamenta che «una volta liquidate come da dIspositivo le spese di primo e secondo grado la Corte di appello non ha imposto a controparte la restituzione delle some che le erano state liquidate a titolo di spese legali dal Primo giudice».
Neppure questa censura può essere accolta, in quanto dalle conclusioni riportate nell’epigrafe della sentenza impugnata risulta che la domanda di restituzione di cui si tratta non era stata formulata.
Anche il ricorso incidentale deve essere pertanto rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione vengono compensate tra le parti, in considerazione della reciproca loro soccombenza.
PQM
La Corte riunisce i ricorsi; li rigetta entrambi; compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma il 16 marzo 2006. Depositata in cancelleria il-18 maggio 2006.
-In tema di contratto preliminare di vendita, il promittente acquirente che abbia versato la caparra confirmatoria, dopo aver chiesto che si accerti l’intervenuta risoluzione di diritto del contratto, non può chiedere che la controparte venga condannata a corrispondergli un importo pari al doppio della caparra, perché ciò presupporrebbe il contestuale esercizio del diritto di recesso da un contratto ancora esistente tra le parti.
Cassazione, sez. II civile, sentenza 02.12.2005 n° 26232 La Corte suprema di Cassazione
Sezione Seconda civile Sentenza n° 26232/05
Svolgimento del processo
Con atto di citazione ritualmente notificato il 05.05.1986 Vittorino C. convenne in giudizio davanti al Tribunale di Firenze Xxxxx S. perché fosse dichiarata la risoluzione per inadempimento a lei addebitabile, del contratto preliminare dagli stessi stipulato il 18.12.1985, con condanna della convenuta al risarcimento dei danni quantificati in L. 40.000.000, oltre interessi.
Assumeva l’attore che l’inadempimento si riferiva alla clausola concordemente aggiunta in data 27.01.1986, con la quale veniva stabilito di rinviare al 28.02.1986 sia la data di immissione nel possesso dell’immobile in favore di Xxxxxxxx C., promissario acquirente; sia il termine per l’adempimento da parte della Xxxxx dell’obbligazione assunta, quale promittente venditrice, di effettuare i lavori di risanamento dell’appartamento per i danni verificatisi nel dicembre del 1985 a causa della rottura delle condutture di scarico dell’appartamento sito al piano sovrastante; obbligazione in ordine alla quale la convenuta si era resa inadempiente nonostante la diffida ad adempiere notificatale il 06.03.1986.
Costituitasi, la convenuta contestava l’inadempimento addebitatole eccependo che inadempiente doveva considerarsi l’attore che insisteva nel pretendere l’esecuzione di opere diverse ed estranee all’impegno assunto.
Espletata C.T.U. ed assunte prove testimoniali, il Tribunale, con sentenza 13.08.1999 dichiarava risolto il contratto preliminare per inadempimento della convenuta che veniva condannata al pagamento del doppio della caparra a suo tempo ricevuta, e cioè a L. 40.000.000, oltre interessi legali.
Su impugnazione della Xxxxx S., la Corte di Appello di Firenze, con sentenza 11.06.2001 respingeva l’impugnazione. Afferma la Corte che la promittente venditrice, a seguito della diffida, avrebbe dovuto comunque a quanto pattuito con la clausola aggiuntiva, cioè ad eseguire le opere di risanamento, per eliminare i danni riportati dall’immobile a seguito delle infiltrazioni dal piano superiore; ed ad immettere l’attore nel possesso dell’immobile; dovendo il pagamento della seconda rata di prezzo essere effettuata con la presa in consegna dell’immobile.
La Xxxxx S., viceversa, è rimasta, per la Corte, inadempiente, adducendo che il Xxxxxxxx C. pretendeva da lei l’esecuzione di opere diverse da quelle necessarie per l’eliminazione dei danni da infiltrazioni, pretesa non risultante dalla diffida ed il cui accertamento è irrilevante a fronte della inattività della Xxxxx S.
Afferma, inoltre, la Corte, al legittima applicazione dell’art. 1385 II° co. c.c. fatta dal Tribunale, nel condannare la Xxxxx S. al pagamento del doppio della caparra ricevuta, trattandosi del legittimo esercizio di un perdurante diritto di recesso rispetto alla domanda originaria di risoluzione del contratto.
Avverso tale sentenza ricorre in Cassazione la Xxxxx S. Resiste con controricorso Xxxxxxxx C.
La Xxxxx S. ha depositato memoria
Motivi della decisione
Deduce la ricorrente a motivi di impugnazione.
1) La violazione degli artt. 1362, 1363, 1324, 1360 c.c., vizio di motivazione ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. per avere la Corte di Appello nell’affermare che la diffida 13.03.1986 inviata alla Xxxxx S. si riferiva solo all’esecuzione di quei lavori previsti nella clausola aggiuntiva, di risanamento del quartiere per i danni provocati dalle infiltrazioni di acque luride dal piano sovrastante; e che da tale diffida non si evinceva la pretesa del Xxxxxxxx C. di eseguire opere esorbitanti dall’obbligo assunto, erroneamente, a favore di una clausola formulata in termini
generici, senza alcuna specificazione dei lavori necessari e sufficienti allo scopo di risanare il quartiere da quei danni, proceduto ad una interpretazione pedissequamente letterale e parziale della diffida, non tenendo conto delle premesse costituenti parte integrante della stessa dalle quali si evinceva, secondo le conclusioni del C.T. di parte, che le infiltrazioni avevano gravemente danneggiato parte dei solai in legno (in particolare dell’ex cucina), danno escluso poi dal C.T.U., omettendo ogni indagine sulla comune intenzione delle parti ed ogni valutazione del comportamento delle stesse, anche posteriore alla conclusione del contratto; trascurando di interpretare le clausole contrattuali le une per mezzo delle altre.
2) La violazione o falsa applicazione dell’art. 1460 c.c. e 184 c.p.c. il vizio di motivazione ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., per aver la Corte di Appello, nonostante l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. sollevata dalla Xxxxx S. nel 1° grado di giudizio oggetto di specifico motivo di impugnazione di appello, erroneamente omesso di procedere ad una valutazione comparativa del comportamento inadempiente delle parti, non accertando, da un lato, se i lavori di ripristino pretesi dal Vittorino C. fossero eccedenti le necessità di risanamento cui la Xxxxx S. era tenuta e se tale pretese giustificasse il timore della Xxxxx S. che il Xxxxxxxx C. si sarebbe astenuto dal pagamento: a) a negare che il Xxxxxxxx C. avesse avanzato pretese eccessive (sulla base di una interpretazione scorretta dalla diffida; b) a negare rilievo a tali ulteriori pretese e conseguentemente a ritenere inammissibile la prova sul punto; c) a ritenere, quindi, sufficiente, a respingere l’eccezione di inadempimento, la sola valutazione dell’inadempimento della Xxxxx S.
3) La violazione o falsa applicazione dell’art. 1455 c.c., nonché il vizio di motivazione ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. per aver la Corte di Appello erroneamente omesso ogni valutazione della gravità dell’inadempimento addebitato alla Xxxxx S., nonostante tale valutazione fosse necessaria per il caso della risoluzione ex art. 1454 (diffida ad adempiere); e competesse d’ufficio al giudice
4) La violazione o falsa applicazione degli artt. 1385, 1453, 1454 c.c. il vizio di motivazione ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. per avere la Corte di Appello erroneamente ritenuto legittimamente liquidato al Xxxxxxxx C., a titolo di danno, il doppio della caparra nonostante l’esecuzione dagli oneri probatori relativi all’esistenza ed all’entità del danno sia prevista in caso di esercizio del diritto di recesso e non in caso di risoluzione di diritto del contratto, avvenuta come nella specie con il decorso dei 20 giorni dalla diffida, in un caso, cioè in cui il contratto è già venuto meno ope legis e l’esercizio del diritto di recesso è ormai precluso.
I primi tre motivi di ricorso, strettamente connessi, possono essere trattati congiuntamente. Essi sono infondati.
Corretta è, infatti, la decisione della Corte di Appello che, a fronte di una totale inattività della promettente venditrice, che pur era contrattualmente obbligate ad effettuare lavori di ripristino per rendere abitabile l’appartamento oggetto del preliminare danneggiato dalle infiltrazioni d’acqua (ed all’uopo era stata espressamente diffidata con concessione di un termine ulteriore per adempiere) ha ritenuto di confermare la decisione di palese e totale inadempimento della Xxxxx S., formulata dal primo giudice, considerando irrilevante indagare sulle ulteriori
pretese che il Xxxxxxxx C. avrebbe avanzato in difformità dei patti assunti. Accertato, infatti, dalla Corte territoriale che la Xxxxx S. si era astenuta dall’eseguire qualunque lavoro di ripristino e che il Xxxxxxxx C. era tenuto al pagamento della seconda rata di prezzo solo alla immissione in possesso dell’appartamento reso abitabile, cioè in un momento successivo all’adempimento dalla promettente venditrice, questa non poteva opporre l’eccezione di inadempimento per giustificare la sua inattività, se non dimostrando l’evidente pericolo di perdere la controprestazione, pericolo che la Corte di Appello ha ritenuto di escludere ribadendo la volontà di adempiere del Xxxxxxxx C. espressa con l’intimazione di cui alla diffida ad adempiere dallo stesso inviata alla controparte.
Quanto alla gravità dell’inadempimento imputato alla Xxxxx S., la valutazione della Corte emerge dal rilievo della stessa dato al comportamento di totale inattività della ricorrente, venuta meno all’adempimento di una obbligazione, quella di consegnare l’immobile risanato dalle infiltrazioni, di primaria rilevanza per gli interessi della controparte.
I primi tre motivi di ricorso vanno, conseguentemente, respinti.
E’, viceversa, fondato il quarto motivo di ricorso.
La Corte di Appello, in infatti, nel confermare la condanna della Xxxxx S. al pagamento di favore di Xxxxxxxx C. della somma di L. 40.000.000 pari al doppio della caparra da quest’ultimo versata alla stipula del preliminare, ha motivato tale decisione richiamandosi a quel filone giurisprudenziale di questa Corte, che ritiene applicabile il II° comma dell’art. 1385 c.c. e, quindi, esperibile il recesso dal contratto, con l’esercizio dei relativi diritti in ordine alla caparra confirmatoria, anche quando si sia agito per la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno.
Si ritiene, infatti, da detta giurisprudenza (V. sent. 7644/94), che in caso di versamento della caparra confirmatoria, chi ha agito per l’adempimento o per la risoluzione del contratto e la condanna al risarcimento danni, può far valere, anche in appello, i diritti di cui al II° comma dell’art. 1385 c.c., perché la modificazione della linea difensiva costituisce solo esercizio di una perdurante facoltà rispetto alla domanda di adempimento, ed una istanza più ridotta rispetto alla domanda di risoluzione, senza introduzione di domanda nuova ex art. 345 c.p.c.
Ora, se nel caso di proposizione della domanda di adempimento sostenere il perdurare della facoltà di recesso dal contratto, facoltà cui sono collegati i diritti relativi alla caparra confirmatoria, è del tutto conforme ai principi di diritto, considerato che il recesso non è altro che una forma di scioglimento dal contratto e si è, quindi, in linea con il disposto del II° comma dell’art.
1453 c.c.; nel caso di proposizione della domanda di risoluzione e risarcimento danni, per le quali dispone espressamente il III° comma dell’art. 1385 c.c. con il prescrivere, quanto al danno, la necessità che esso sia provato secondo le regole generali, limitarsi a ritenere ammissibile l’esercizio dei diritti relativi alla caparra confirmatoria, di cui all’art. 1385 II° comma c.c. (perché si tratterebbe di far valere una istanza di danni più ridotta, rispetto a quella maggiore che si suppone esercitata con le azioni di cui all’art. 1385 III° comma c.c.), è argomento che può ritenersi utile a negare, con riferimento alla richiesta di danni, al proposizione di una domanda nuova; ma non spiega come possa, giuridicamente ritenersi ammissibile l’esercizio dei diritti connessi alla facoltà di recesso, recesso che la già avvenuta risoluzione di
diritto del contratto, reclude.
Nel caso di specie, infatti, con la proposizione della domanda di risoluzione, il Xxxxxxxx C. espressamente richiamando gli effetti della diffida ad adempiere e, quindi, l’avvenuta risoluzione di diritto del contratto alla scadenza dei venti giorni concessi per adempiere e già decorsi al momento della proposta domanda di risoluzione, non poteva più esercitare il recesso e, quindi, far valere, con riferimento alla caparra confirmatoria, i diritti di cui all’art. 1385 II° comma c.c. Né la natura dichiarativa della sentenza che accerta la già avvenuta risoluzione di diritto del contratto, consente di affermare (dal momento che non c’è stata contestazione sulla validità ed efficacia della diffida) che il diritto di recesso può ancora essere esercitato fino al passaggio in giudicato della sentenza di risoluzione, come sostiene parte della dottrina e giurisprudenza. Tale argomento, semmai, potrebbe essere valido relativamente alla sentenza costitutiva di risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c.; ma non per le sentenze dichiarative, come quella oggetto del presente giudizio.
Nella fattispecie di cui è causa, pertanto, il Xxxxxxxx C. non potendo esercitare il diritto di recesso non può pretendere ai sensi dell’art. 1385 II° comma c.c. il doppio della caparra conferita.
Egli ha, tuttavia, diritto ad ottenere dalla parte inadempiente la restituzione della somma conferita di L. 20.000.000, somma che non si configura più come liquidazione convenzionale anticipata del danno; ma come somma indebitamente trattenuta dalla parte inadempiente, una volta venuta meno, con la risoluzione del contratto, la causa giustificativa della dazione, in piena aderenza con gli effetti restitutori propri della risoluzione contrattuale (V. sent. 8630/98, 3828/00).
In accoglimento del quarto motivo di ricorso, la sentenza impugnata va, perciò, cassata con rinvio, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte di Appello di Firenze che provvederà ad un nuovo esame della controversia, in relazione al motivo accolto, in applicazione dei principi esposti.
PQM
La Corte rigetta i primi tre motivi di ricorso; accoglie il quarto motivo;
cassa in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, ad altra sezione della Corte di Appello di Firenze.
Così deciso in Roma il 22.09.2004. Depositato in cancelleria il 02.12.2005.
PROPOSTA IRREVOCABILE E OPZIONE
TRACCIA:
Tizio intende vendere la sua splendida collezione di mobili antichi; unico deciso ad acquistare è Caio il quale, però, non ha il denaro sufficiente, ma spera nella donazione di un ricco zio.
Tizio e Caio, pertanto, si accordano (firmando una scrittura privata) nel senso che il primo si impegna verso il secondo, senza alcun corrispettivo, a tenere ferma la proposta di vendita, senza precisare alcun periodo di tempo.
Dopo due mesi, Tizio vende la sua collezione di mobili antichi, sostenendo che la
proposta irrevocabile fatta era senza effetto.
Caio si arrabbia molto, anche perchè aveva fatto una serie di rinunce economiche, nei due mesi successivi all'accordo; Caio si reca dal legale Sempronio.
Il candidato assuma le vesti del legale Sempronio e rediga motivato parere favorevole al proprio assistito.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Subito dopo bisognava parlare della proposta irrevocabile (visto che la traccia fa riferimento a questo istituto): in linea generale si può dire che la proposta irrevocabile, ex art. 1329 c.c., è un atto unilaterale (sulla falsariga dell’offerta al pubblico), gratuito, con un termine (elemento essenziale).
L’essenzialità del termine viene desunta, a contrario, dall’art. 1329 c.c.: la revoca è senza effetto, per cui non è possibile revocare la proposta solo se il proponente si è obbligato a “mantenere ferma la proposta per un certo tempo”, con la conseguenza logico-deduttiva che se non vi è la previsione di un termine la proposta è revocabile (e quindi non si tratta di proposta irrevocabile); id est, è possibile revocare ogni tipo di proposta se, in quest’ultima, non è stato previsto un termine di validità.
In questo caso, allora, Tizio ben potrebbe revocare la proposta e vendere i mobili antichi a chiunque altro vi abbia interesse, proprio perché la proposta irrevocabile intercorrente tra Tizio e Caio era nulla.
Tuttavia, l’avvocato Sempronio, favorevolmente al suo assistito Caio, potrebbe ricostruire la vicenda negoziale in termini diversi; in particolare, Tizio potrebbe aver stipulato con Caio un accordo di opzione, ex art. 1331 c.c., e non di proposta irrevocabile, con la conseguenza che il recesso potrebbe avvenire (come in tutti i contratti) solo per mutuo dissenso (ovvero altre cause non riaventi nella questione giuridica presa in esame).
Si tratterebbe, in particolare di opzione (qui il termine può essere disposto di ufficio e non giustifica la revoca del proponente) perché vi sarebbe un accordo (diversamente dalla proposta irrevocabile in cui non vi è un accordo, ma un atto unilaterale), con la conseguenza applicativa che Tizio potrà far valere il suo diritto di prelazione sostanziale rispetto ad altri potenziali acquirenti.
L’onerosità dell’opzione, poi, non sarebbe elemento essenziale di tale figura che influisce sulla sussistenza o meno della causa: l’opzione potrebbe essere anche gratuita, purchè corrisponda ad un interesse meritevole di tutela (qui l’interesse di Caio c’è, perché non aveva, al tempo della proposta, altri possibili acquirenti, per cui ha preferito autovincolarsi piuttosto che rischiare di non vendere i mobili antichi); ne segue che il fatto che la presunta proposta irrevocabile sia stata effettuata senza alcun corrispettivo non vuol dire che non possa trattarsi di opzione.
In altri termini, ben potrebbe Sempronio sostenere che la suddetta vicenda negoziale rientri nell’opzione, con la conseguenza applicativa che, laddove Tizio abbia venduto a terzi i mobili antichi, sarà tenuto a risarcire i danni causati a Caio, sub specie di inadempimento contrattuale; vi è da segnalare che, come sostenuto da un certo orientamento, Caio potrebbe anche agire ex art. 2932 c.c.
MANDATO POST MORTEM
TRACCIA:
Tizio è un anziano signore di 90 anni; Tizio ha due figli: Tizietto e Tizietta. Tizio si accorda con Tizietto affinchè, alla morte del primo (Tizio), il secondo (Tizietto) si occupi della sepoltura, da effettuarsi nel cimitero di Torino (affianco al padre deceduto 30 anni prima).
Tizio, poi, si accorda con Tizietta affinchè, alla morte del primo (Tizio), la seconda (Tizietta) erediti una parte significativa del patrimonio di famiglia, con la clausola che alla morte della stessa Tizietta lo stesso patrimonio dovrà essere trasferito alle suore di clausura di Torino, affinchè si occupino della tomba di famiglia.
Tizio decede; Tizietto e Tizietta vengono a sapere dei rispettivi mandati realizzati in vita dal padre Tizio.
Tizietta ritiene di dover avere una quota di eredità superiore a Tizio, proprio in virtù del mandato realizzato con il padre Tizio.
Tizietto, al contrario, ritiene che il suddetto mandato non sia valido.
Tizio si reca da un legale; il candidato rediga motivato parere sulla questione proposta.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente, si poteva accennare alla validità del mandato post mortem intercorso tra Tizio e Tizietto; tale mandato, avente ad oggetto le modalità delle sepoltura, non viola il divieto di patto successorio, ex art. 458 c.c., perché non si realizza una convenzione avente per oggetto la successione.
Semplicisticamente: disporre le modalità della propria sepoltura (come ha fatto Tizio con Tizietto) non vuol dire disporre della successione.
Si tratta, quindi, di un valido contratto (mandato post mortem exequendum), ex art. 1703 c.c., con cui una parte (Tizietto) si obbliga a compiere uno o più atti giuridici (relativi alle modalità della sepoltura) per conto dell’altra (Tizio) dopo la morte di quest’ultima.
Nello stesso senso si è espressa la giurisprudenza più recente (Cass. 12143/2006, sentenza riportata per esteso subito dopo il presente schema sintetico), argomentando, in particolare dall’art. 587 II comma c.c.
Dopo, era possibile affrontare il discorso sulla validità del contratto di mandato realizzato tra Tizio e Tizietta; anche in questo caso si tratta di un mandato post mortem, ma con oggetto illecito.
Precisamente, il mandato realizzato tra Tizio e Tizietta viola il divieto di patto commissorio, ex art. 458 c.c., perché ha per oggetto la successione e non le modalità della sepoltura; più da vicino: un mandato post mortem che ha per oggetto un trasferimento del patrimonio successorio alla morte del primo avente causa si traduce, nella sostanza, in una successione alla successione e, quindi, a
fortiori, in un accordo relativo alla propria successione.
L’oggetto del contratto, pertanto, è illecito, con il corollario applicativo che il contratto realizzato tra Tizio e Tizietta sarà nullo, ex art. 1418 c.c. e art. 1346 c.c. Da questa angolazione prospettica, pertanto, la giustificazione causale addotta da Tizietta per spiegare la maggiore quota di eredità verrà meno, con la conseguenza logica-giuridica che, se del caso, andranno riviste le c.d. quote di legittima.
Si consiglia di leggere la sentenza che segue.
-Ogni persona fisica puo’ scegliere liberamente le modalita’ ed il luogo della propria sepoltura; la legge consente espressamente che tra le disposizioni testamentarie rientrino anche quelle a carattere non patrimoniale (art. 587, secondo comma c.c.).
Tale scelta deve essere esercitata mediante conferimento di un mandato post mortem.
Corte di Cassazione - Sezione I - Sentenza n. 12143 del 23/05/2006 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del… il Tribunale di Palermo, in accoglimento della domanda proposta da X, Y e Z, fratelli della defunta A, e nella contumacia di Tizio, coniuge di quest'ultima, dichiarava che la A aveva conferito mandato agli attori di essere sepolta nella tomba destinata ad accogliere le spoglie della famiglia ed ordinava a Tizio di consegnare, nel rispetto delle prescrizioni amministrative, la salma della congiunta per consentirne la tumulazione nella tomba loro assegnata.
Avverso la decisione del Tribunale proponeva appello Tizio eccependo la nullita’ del giudizio di primo grado per essere nulla la notifica della citazione, e chiedendo l'integrale riforma della sentenza impugnata.
Si costituivano i germani X Y Z deducendo l'inammissibilita’ dell'appello per genericita’ dei motivi e chiedendone comunque il rigetto.
Con sentenza del… la Corte d'appello di Palermo rigettava l'impugnazione.
Contro la sentenza della Corte d'appello ha proposto ricorso Tizio sulla base di tre motivi.
X Y e Z hanno resistito notificando controricorso.
Il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione ha chiesto che fosse dichiarata l'inammissibilità del primo motivo di ricorso.
Con ordinanza n. 20960 del 2004 la Corte a Sezioni Unite ha dichiarato inammissibile il primo motivo di ricorso con il quale Tizio aveva dedotto che la decisione impugnata era in contrasto con l'ordinanza sindacale che aveva autorizzato il trasferimento della salma di A nella tomba del marito, trasferimento
rientrante a parere del ricorrente nella competenza esclusiva dell'autorità amministrativa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il secondo motivo di ricorso (il primo riguardando la questione di giurisdizione, che e’ stata dichiarata inammissibile con ordinanza n. 20960/2004 delle Sezioni Unite di questa Corte) il ricorrente ha dedotto violazione dell'art.
116 c.p.c. e degli artt. 1703 e segg. c.c., in relazione all'art. 360, n. 3 c.p.c.,in quanto la Corte d'appello di Palermo, nel ritenere l'esistenza del mandato post mortem, avrebbe fatto erronea applicazione delle risultanze processuali ed avrebbe trascurato di considerare che un simile mandato non poteva essere provato per testimoni, ma doveva risultare da atto scritto. In mancanza di una disposizione testamentaria, che rendesse evidente la volontà della defunta, il luogo della sepoltura avrebbe dovuto essere individuato tenendo presenti le richieste avanzate dai congiunti, prescelti fra quelli a lei più strettamente legati da vincoli, comparando - e dando prevalenza - allo "ius coniugii" rispetto allo "ius sanguinis".
Il motivo e’ infondato. Ogni persona fisica puo’ infatti scegliere liberamente circa le modalita’ ed il luogo della propria sepoltura, la legge consentendo espressamente che tra le disposizioni testamentarie rientrino anche quelle a carattere non patrimoniale (art. 587, secondo comma c.c.). Quando manca la scheda testamentaria, tale volontà può essere espressa senza rigore di forma attraverso il conferimento di un mandato ai prossimi congiunti. L'esistenza ed il contenuto di un simile mandato costituisce questione di fatto; e nella specie la Corte d'appello, con ampia motivazione che ha tenuto conto di una pluralità di elementi (e non soltanto delle risultanze testimoniali), e che appare del tutto corretta sotto il profilo delle norme di legge, ha chiarito le ragioni per le quali era da ritenere da un lato che la de cujus avesse espresso il desiderio di non essere tumulata post mortem nella cappella del marito, dall'altro lato che la sepoltura nella tomba destinata ad accogliere le spoglie della famiglia di A fosse quella più rispondente alla volontà delle defunta. Tale conclusione, investendo apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, si sottrarre a sindacato in sede di legittimità; ne’ puo’ darsi alcun rilievo all'argomento fondato sulla comparazione tra "ius coniugii" e "ius sanguinis", trattandosi di una tesi del tutto nuova che non risulta prospettata e discussa davanti al giudice di merito.
Col il terzo motivo il ricorrente ha dedotto violazione degli artt. 90 e segg. c.p.c., in relazione all'art. 360, n. 3 c.p.c. in quanto le circostanze da cui era scaturita la controversia avrebbero suggerito quanto meno una compensazione delle spese processuali. Il motivo e’ infondato, dal momento che la Corte d'appello, condannando Tizio alle spese del giudizio della soccombenza ex art. 90 si e’ limitata a fare applicazione della regola della soccombenza ex art. 91 c.p.c. Sotto altro profilo, la decisione del giudice del merito di compensare in tutto o in parte le spese di lite costituisce espressione di un potere discrezionale ad esso conferito dalla legge, potere il cui esercizio e’ incensurabile in sede di legittimità, a meno che la relativa decisione non sia sorretta da ragioni palesemente illogiche, tali cioè da inficiare per la loro inconsistenza lo stesso processo formativo della volontà decisionale espressa sul punto. Nella specie, peraltro, la condanna alle spese e’ stata emessa a favore della parte totalmente vincitrice e nei confronti della parte
totalmente soccombente. Consegue da quanto sopra che il ricorso deve essere respinto, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, spese che si liquidano in favore dei resistenti - tenuto conto della maggiorazione dovuta nel caso di difensore che assista una pluralità di parti - nella misura complessiva di euro 3.700,00 di cui euro 3.600,00 per onorario di avvocato, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in favore dei resistenti nella misura complessiva di euro 3. 700, 001 di cui euro 3. 600, 00 per onorari di avvocato, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 20 marzo 2006. Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2006.
COMUNIONE LEGALE E MOMENTO DELL’ACQUISTO DEL BENE
TRACCIA :
Con atto del Notaio Xxxxxx Xxxxxx del 15 marzo 1995, Tizio, in comunione legale con la moglie Tizia, acquistava da Caio l'appartamento che quest'ultimo avrebbe costruito in Portofino.
Il 20 settembre 1995, Tizio moriva, prima ancora che Caio avesse ultimato la costruzione.
Nel suo testamento olografo, pubblicato un anno dopo e redatto quindici giorni prima della morte, Tizio nominava erede universale la moglie Tizia e legava ogni diritto sul predetto appartamento al nipote Sempronio.
Un anno dopo, Sempronio decideva di vendere l'appartamento, ormai ultimato, a Felice Bianchi; Tizia, tuttavia, manifestava la volontà di non vendere il suddetto appartamento, precisando che l'acquisto fatto da Tizio, a suo tempo, era avvenuto in comunione legale, così che era necessario il suo consenso alla vendita.
Sempronio si reca da un legale; il candidato, assunte le vesti dell'avvocato di Sempronio, rediga motivato parere.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
In merito alla comunione legale, vi è da dire che non tutti i diritti acquistati da uno dei coniugi rientrano nella comunione legale, essendo esclusi, oltre i beni personali ex art. 179 c.c., i crediti, i contratti obbligatori e le cc.dd. fattispecie
strumentali.
Non vi rientrano, inoltre, quei negozi come la vendita obbligatoria che, pur essendo diretti al trasferimento, non lo realizzano immediatamente; ciò perché, secondo la disposizione dell’art. 177 primo comma lett. a) c.c. entrano in comunione non i diritti prodromici all’acquisto, ma i beni acquistati.
In altri termini, il momento nel quale si verifica l’acquisto alla comunione è solo quello in cui il coniuge diventa titolare del bene, mentre non rilevano le fasi precedenti, anche se costituite da negozi con effetti reali differiti.
In questo senso, allora, nella vendita di cosa futura (relativa all’acquisto dell’appartamento in Portofino, da costruire) non vi è acquisto alla comunione al momento della stipula del contratto (con atto del notaio Xxxxxx Xxxxxx), verificandosi in tale frangente soltanto l’effetto obbligatorio immediato e non l’effetto reale (differito), che comporterà l’acquisto alla comunione.
Pertanto, applicando quanto detto al fatto preso in esame, si deve concludere che i diritti sull’appartamento in questione, non essendo rientrati in comunione legale, spettano esclusivamente al legatario Sempronio, il quale, di conseguenza, è divenuto l’unico proprietario dell’appartamento; ne segue che Sempronio non ha bisogno del consenso di Tizia per vendere l’appartamento a Felice Bianchi.
Si consiglia di leggere le sentenze che seguono.
- La comunione legale tra coniugi di cui all'art. 177 cod. civ. non riguarda i diritti di credito sorti dal contratto di conto corrente concluso con la banca dal coniuge intestatario, essendo detto contratto “fonte, a seguito di saldo attivo, di un diritto di credito spettante esclusivamente a quest'ultimo (sentenza segnalata anche nella prima sessione).
CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE
Sentenza del 20 gennaio 2006 n. 1197 (Presidente: G. Lo savio; Relatore: A. Giusti) SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. – C. K., con citazione notificata il 1° agosto 1992, conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Grosseto C. B., dal quale si era consensualmente separata nel 1989, e sulla premessa che il verbale di separazione non costituiva la totale e completa definizione dei rapporti patrimoniali tra i coniugi - chiedeva la condanna del marito al pagamento di circa lire 90.000.000 a titolo di saldo della quota del 50% sulle somme alla medesima spettanti sulla comunione de residuo.
Nella resistenza del convenuto, il Tribunale di Grosseto, con sentenza 12 agosto 1997: (a) rigettava la domanda di pagamento in relazione ai maggiori esborsi sopportati nell'acquisto della casa coniugale, caduta in comunione, perché - essendo stato il bene acquistato durante il matrimonio - non v'era la prova della dichiarazione di cui all'art. 179, primo comma, lettera f), con cui l'attrice avrebbe potuto dare atto che parte del prezzo era stato pagato con risorse facenti parte del patrimonio personale (b) rigettava la domanda di restituzione della somma di lire 5.000.000, pari alla metà di quanto versato dal B. per l'acquisto di quote del fondo Eptafund, dato che la relativa somma era stata da lui incassata prima della separazione, e non v'era prova che fosse residuata al momento dello scioglimento
della comunione; (c) condannava il B. a pagare alla moglie la somma di lire 50.000.000, oltre interessi, pari alla metà dell'importo complessivamente pagato per l'acquisto delle quote dei fondi Imirend e Imicapital, sul rilievo che il convenuto, benché avesse dichiarato che tale importo costituiva il prezzo della vendita di un appartamento acquistato prima del matrimonio, non aveva in realtà prodotto l'atto di vendita, e quindi mancava la dichiarazione di cui al citato art. 179, primo cozza, lettera f), cod. civ., indispensabile per il riconoscimento del carattere personale del bene.
2. - La Corte d'appello di Firenze, con sentenza n. 104, depositata il 2 febbraio 2002, accogliendo uno dei motivi dell'appello principale proposto dal B. e rigettando l'appello incidentale della K., respingeva la domanda di quest'ultima in relazione all'acquisto di quote dei fondi di investimento Imirend e Imicapital, così riformando l'impugnata sentenza, che confermava nel resto, dichiarando compensate fra le parti le spese dei due gradi di giudizio.
Per quanto qui interessa, la corte d'appello - affermata la validità delle clausole dell'accordo di separazione implicanti l'attribuzione di beni ad uno o ad entrambi i coniugi rilevava che nell'accordo di separazione i coniugi avevano convenuto di "confermare" la loro rispettiva comproprietà dell'immobile al 50%, senza accennare ad alcun credito dell'un coniuge o dell'altro, sicchè la K. non poteva "smentire la rinuncia al proprio credito, quale inequivocamente
implicata dall'accordo", a nulla rilevando che costei avesse contribuito all'acquisto della casa coniugale con denaro non facente parte della comunione.
In relazione all'acquisto di quote dei fondi comuni di investimento, la corte territoriale - ritenuta raggiunta la prova, "in riferimento alla consecuzione dei fatti, quale emergente dalle prove orali assunte e dalla documentazione acquisita", che "le quote dei fondi Imirend e Imicapital furono acquistate dal B. nel maggio 1986 con il prezzo della vendita, avvenuta quello stesso mese, della piena proprietà di un immobile acquistato nel 1974, ossia prima del matrimonio, e del quale egli era nudo proprietario, mentre la madre era titolare del diritto di usufrutto" - affermava che esse dovevano considerarsi beni personali del marito, ai sensi dell'art. 179, primo comma, lettera f), cod. civ., con conseguente estraneità alla comunione.
Questa conclusione non era ostacolata dal fatto che il B. non avesse effettuato la dichiarazione prevista dalla citata disposizione, giacché - osservava la Corte territoriale - l'attestazione della provenienza personale del corrispettivo è necessaria solo quando è obiettivamente incerto se l'acquisto realizzi o meno il reinvestimento di danaro o beni personali, mentre il relativo onere non sussiste allorché, come nella specie, sia obiettivamente corto il carattere personale del corrispettivo. La Corte fiorentina riteneva priva di pregio l'obiezione della K. secondo cui il prezzo ricavato dalla vendita immobiliare sarebbe transitato, prima di essere investito nell'acquisto delle quote, in due conti correnti di pertinenza della comunione.
3. - Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la K., con atto notificato il 4 marzo 2003, deducendo due motivi di censura, ai quali ha resistito con controricorso il B..
MOTIVI DELLA DECISIONE
l. - Preliminarmente, deve ritenersi non sussistente la preclusione - che il controricorrente denuncia con il proprio atto, sollecitando questa Corte a rilevarla d'ufficio - che si sarebbe determinata per effetto della proposizione, da parte della K., di una domanda nuova con l'appello incidentale, con conseguente inammissibilità dello stesso per violazione dell'art. 345 cod. proc. civ.
Risulta infatti dagli atti di causa - ai quali è possibile accedere, trattandosi di
acclarare l'esistenza o mano di una preclusione all'esercizio della giurisdizione - che, sia dalla citazione introduttiva del giudizio di primo grado, la K. ebbe a chiedere la condanna del marito al pagamento di una somma di denaro, pari a circa lire 90.000.000, derivante dallo scioglimento della comunione legale tra gli stessi coniugi, in particolare deducendo tanto il maggior impegno finanziario da essa sostenuto nell'acquisto della casa coniugale quanto la caduta in comunione dell'acquisto, effettuato dal B., delle quote dei fondi comuni di investimento mobiliare Imirend e Imicapital.
Questa domanda, ribadita in sede di precisazione delle conclusioni, è stata puntualmente riproposta con l'appello incidentale, con cui la K. ha chiesto la condanna del B. a restituire e pagare, a titolo di rimborso, la quota da essa versata in eccedenza per l'acquisto della casa coniugale e la conferma, per il resto, della sentenza di primo grado, che aveva condannato il B. a pagare alla moglie la somma di lire 50.000.000, oltre interessi, pari alla metà dell'importo complessivamente investito per l'acquisto delle quote dei fondi Imirend e Imicapital.
Non vi è stata, pertanto, alcuna domanda nuova della K. in appello.
2. - Devesi, pertanto, esaminare il ricorso principale.
3. - Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione dell'art. 192, terzo comma, cod. civ., in relazione all'art. 360, primo comma, numero 3), cod. proc. civ. Sulla premessa di avere contribuito all'acquisto della casa coniugale in misura notevolmente maggiore rispetto al marito (avendo investito la somma di lire 70.000.000, provenienti dalla eredità paterna, laddove il marito aveva in realtà impiegato denaro della comunione), la ricorrente ritiene che nella specie avrebbe dovuto essere fatta applicazione dell'art. 192, .terzo comma, cod. civ., concernente il rimborso delle somma prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune. Erroneamente la Corte d'appello avrebbe dato rilievo all'accordo intervenuto in sede di separazione personale, giacché l'attribuzione, in esso contenuta, della proprietà della casa coniugale in ragione del 50% a ciascuno dei coniugi non eliminerebbe il riconoscimento, ad opera dello stesso accordo, del fatto storico della diversa contribuzioni, con denaro personale per quanto riguarda la moglie ed invece con denaro della comunione per quanto riguarda il marito. 4. - I1 motivo è inammissibile.
4.1. - I1 giudice del merito, interpretando l'accordo di separazione stipulato dai coniugi, che recava clausole finalizzate a regolare l'assetto patrimoniale in conseguenza dell'allentamento del vincolo coniugale, con particolare riguardo al godimento e alla proprietà dei beni, ha ritenuto che il riconoscimento, in esso contenuto, della comproprietà della casa coniugale al 50%, e - al contempo - l'assenza di qualsiasi riferimento a rapporti di dare ed avere tra i coniugi, nonostante gli apporti di diversa misura in relazione all'acquisto di tale immobile, implicasse inequivocamente - rinuncia al proprio credito" da parte della K..
4.2. - La ricerca della comune intenzione delle parti nella stipulazione di un accordo di separazione è compito del giudice di merito e costituisce una valutazione di fatto, incensurabile in sede di legittimità, se sorretta da una motivazione adeguata e immune dalla violazione delle norme dettate per l'interpretazione negoziale.
La ricorrente non denuncia l'interpretazione della portata dell'accordo per vizi di motivazione o per violazione dei canoni di ermeneutica negoziale, la doglianza di mancata applicazione dell'art. 192, terzo comma, cod. civ, non essendo idonea a veicolare una utile censura di violazione delle regole di interpretazione negoziale nel ragionamento seguito dal giudice del merito, tanto più che - come questa Corte
ha già statuito (cfr. Cass. 4 febbraio 2005, n. 2354; Cass. 24 maggio 2005, n. 10896) - detta norma non può essere invocata per riequilibrare, in sede di scioglimento della comunione legale, attraverso il meccanismo dei rimborsi e delle restituzioni, il maggiore impegno finanziario sostenuto da un coniuge rispetto all'altro ai fini dell'acquisto di un bene in comunione legale.
In definitiva, il motivo di ricorso si risolve nella mera contrapposizione di un'interpretazione dell'accordo di separazione diversa da quella adottata dalla Corte territoriale.
5. - Con il secondo motivo la ricorrente si duole della violazione dell'art. 179 cod. civ., in relazione agli artt. 177 e 195 cod. civ. Premette la ricorrente che il denaro per l'acquisto dei fondi è entrato nel conto corrente intestato al marito: ed essendo questa transazione intervenuta durante il matrimonio, il conto corrente, benché intestato al marito, doveva considerarsi appartenente alla comunione familiare, secondo quanto del resto statuito dalla giurisprudenza penale della Corte di cassazione (Cass. pen. 13 novembre 0000, Xxxxxxx). Erroneamente, pertanto, la Corte d'appello avrebbe applicato l'art. 179 cod. civ. relativamente all'acquisto delle quote dei fondi comuni di investimento, essendo stato impiegato per tale acquisto denaro transitato nel conto corrente e quindi divenuto, in forza della presunzione di cui agli artt. 177 e 195 cod. civ., oggetto della comunione legale.
6. - La doglianza è priva di fondamento.
6.1. - La Corte d'appello ha escluso che l'acquisto di quote di fondi comuni di investimento mobiliare da parte del marito fosse caduto in comunione legale, e ciò trattandosi della surrogazione di un bene personale (il prezzo ricavato dalla vendita di un immobile di cui il B. era proprietario prima del matrimonio) ai sensi dell'art. 179, primo comma, lettera f), cod. civ. ed ha giudicato non rilevante l'omissione della prevista dichiarazione, perché essa sarebbe necessaria solo quando è obiettivamente incerto se 1'acquisto realizzi o meno il reinvestimento di denaro personale, non già quando - come nella specie - é certa il carattere personale (ai sensi dell'art. 179, primo comma, lettera a) del corrispettivo.
6.2. - La ricorrente contesta questa conclusione, osservando che il denaro ricavato dalla vendita del bene personale, essendo stato depositato, prima del reinvestimento in quote di fondi comuni, su un conto corrente del marito, sarebbe caduto, per ciò solo, in comunione legale.
La tesi della ricorrente - secondo cui il denaro depositato su un conto corrente intestato ad un coniuge in regime di comunione legale entrerebbe a far parte della comunione - non può essere condivisa.
6.3. - Vero è che una pronuncia della Corte di cassazione penale (sentenza 13 novembre 1997; depositata il 23 gennaio 1998; Airoldi) ha statuito che -anche il denaro depositato in un istituto bancario è oggetto della comunione in via assoluta ai sensi dell'art. 177, primo comma, lettera c), cod. civ., senza che possa ammettersi una prova contraria a norma dell'ultima parte dell'art. 195 cod. civ., sia che provenga dall'attività di uno solo dei coniugi sia che provenga dalle singole attività dei due coniugi", ritenendo di conseguenza legittimo il provvedimento di sequestro conservativo avente ad oggetto la metà dei valori esistenti in conti correnti e depositi intestati esclusivamente al coniuge dell'imputato.
Ma la giurisprudenza della Cassazione civile segue un indirizzo diverso. La sentenza della V Sezione 1° aprile 2003, n. 4959 - sulla premessa che "la comunione legale tra coniugi di cui all'art. 177 cod. civ. riguarda gli acquisti, vale a dire gli atti implicanti l'effettivo trasferimento della proprietà di un bene o la costituzione di diritti reali sullo stesso, non quindi i diritti di credito
sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i quali, per la loro natura relativa e personale, pur se strumentali e finalizzati all'acquisto di un bene, non sono suscettibili di rientrare in una comunione legale dei beni" - ha escluso che possa comprendersi nella comunione legale dei beni il contratto di conto corrente concluso con la banca dal coniuge intestatario, essendo detto contratto "fonte, a seguito di saldo attivo, di un diritto di credito spettante esclusivamente a quest'ultimo". Ritiene configurabile una comunione de residuo, ai sensi dell'art. 177, primo comma, lettera c), sui redditi depositati su conto corrente (nella specie, cointestato), Cass., sez. I, 17 novembre 2000,
n. 14897, la quale conferma la decisione di merito che aveva considerato rientranti nella comunione de residuo le somme depositate sul conto cointestato, ritirate prima della separazione ed asseritamente utilizzate per l'attività dì impresa del coniuge prelevante. Più di recente, questa Sezione (con la sentenza 27 aprile 2004, n. 8002) ha precisato che il regime di cui all'art. 177 cod. civ. viene in realtà ad indirizzarsi sui soli acquisti di beni e non viene ad inerire, invece, all'instaurazione di rapporti meramente creditizi, quali, ove mai fatti oggetto di cointestazione nell'ambito di un conto corrente bancario, non esorbitano dalla logica di un tal tipo di rapporti e non conoscono, quindi, alcuna preclusione legata al preventivo scioglimento della comunione legale coniugale".
6.4. - Ritiene il Collegio che il denaro ottenuto a titolo di prezzo per l'alienazione di un bene personale rimane nella esclusiva disponibilità del coniuge alienante anche quando esso venga, come nella specie, dal medesimo coniuge depositato sul proprio conto corrente. Questa titolarità non muta in conseguenza della mera circostanza che il denaro sia stato accantonato sotto forma di deposito bancario, giacché il diritto di credito relativo al capitale non può considerarsi modificazione del capitale stesso, né d'altro canto configurabile come un acquisto nel senso indicato dall'art. 177, primo coma, lettera a), cod. civ., cioè come un'operazione finalizzata a determinare un mutamento effettivo nell'assetto patrimoniale del depositante. Correttamente, pertanto, la Corte d'appello è pervenuta alla conclusione che il coniuge potesse utilizzare le somme accantonate sul di lui conto corrente, provenienti dall'alienazione di un bene personale, ai fini della surrogazione reale di cui all'art. 179, primo comma, lettera f), cod. civ.
7. - Il ricorso è rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso della spose di questa fase del giudizio, liquidate in euro 1.600,00, di cui euro 1.500,00 per onorari, oltre le spese generali e gli accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della I Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 25 novembre 2005.
- Il contratto preliminare di vendita di un bene immobile della comunione legale tra coniugi, stipulato da un coniuge senza la partecipazione o il consenso dell'altro, è soggetto alla disciplina dell'art. 184 c.c.; esso, quindi, non è inefficace nei confronti della comunione, ma soggetto all'azione di annullamento solo da parte del coniuge non consenziente, con la conseguenza che finché detta azione di annullamento non viene proposta esso è produttivo di effetti tra la comunione ed il terzo.
Cassazione civile, sez. III 21 dicembre 2001, n. 16177
Pres. Giuliano – Rel. Segreto – P.M. Cesqui (conf.) Xxxxxxxxxxx c. Resi ed altri
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato a Xxxxxxxxxxx Xxxxxxxx il 19.3.1997, Resi Leonia, Xxxxx Xxxxx, Xxxxx Xxxxx e Xxxxx Xxxxxxxx, nella qualità di eredi di Xxxxx Xxxxx proponevano appello avverso la sentenza del tribunale di Firenze depositata il 13.6.1996, n. 1632, nella causa proposta dall'appellato contro Xxxxx Xxxxx e con la quale era stato dichiarato l'inadempimento di Xxxxx Xxxxx all'obbligo assunto nei confronti del Xxxxxxxxxxx con scrittura del 6.10.1988 di trasferirgli un appartamento in Firenze e condannato il Ricci a pagare la somma di L. 10 milioni, pari al doppio della caparra, oltre L. 3.360.394 ed interessi.
Assumevano gli appellanti che nessun inadempimento vi era stato da parte del loro dante causa, dovendo, invece considerarsi inadempiente il Xxxxxxxxxxx, che prima della scadenza del termine previsto contrattualmente per la stipula del contratto definitivo, aveva provveduto all'acquisto di altro immobile.
Resisteva il Xxxxxxxxxxx.
La corte di appello di Firenze, con sentenza depositata il 25.2.1999, in riforma dell'appellata sentenza, rigettava la domanda del Xxxxxxxxxxx.
Riteneva la corte di merito che l'impegno di acquisto, rilasciato dal Xxxxxxxxxxx all'agente immobiliare relativamente all'appartamento del Ricci, essendo stata accettato e sottoscritta da quest'ultimo, già costituiva un contratto preliminare, per cui non vi era la necessità della stipula di un nuovo preliminare davanti ad un notaio, né tanto era previsto nella scrittura del 6.10.1988; che tale eventuale patto, attenendo al preliminare di compravendita, doveva necessariamente risultare per iscritto e non poteva essere verbale, come sostenuto dal Xxxxxxxxxxx.
Pertanto non poteva ritenersi che lo stesso Ricci fosse inadempiente, per non essersi presentato davanti al notaio per la stipula di un altro preliminare in data 31.10.1988.
Secondo la corte, poiché il bene era in comunione familiare tra il Ricci e la moglie Resi, ben poteva il Ricci effettuare il preliminare di vendita, avendo esso contenuto solo obbligatorio, per cui egli prometteva per il 50% del coniuge (circostanza specificamente indicata nell'atto) l'obbligazione del terzo; che, in ogni caso, con missiva del 5.12.1988 entrambi i coniugi Ricci confermarono espressamente di voler procedere alla vendita; che il contratto definitivo era previsto per il 31.3.1989; che dalle testimonianze escusse non emergeva la volontà dei Ricci di non adempiere al contratto preliminare; che il Xxxxxxxxxxx con missiva del 7.12.1988 dichiarò di non voler acquistare l'appartamento a causa dell'inadempimento del Ricci per la mancata presentazione davanti al notaio per la stipula del preliminare; che il Xxxxxxxxxxx acquistò un diverso appartamento il 20.2.1989, cioè prima della scadenza del termine (31.3.1989) per la stipula del contratto definitivo di compravendita con il Ricci.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il Xxxxxxxxxxx.
Resistono con controricorso gli appellanti, che hanno anche presentato memoria. MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 180, 184 e 1381 c.c., ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c.
Assume il ricorrente che nell'ambito della comunione legale o ordinaria, l'obbligazione di vendere un bene immobile da chi non è legittimato a disporne per l'intero risulta inefficace, non trovando applicazione la disciplina dettata dall'art. 1381 c.c.; che, pur rientrando il preliminare di un bene immobile in comunione legale coniugale tra gli atti di straordinaria amministrazione, in caso di consenso di un solo coniuge non è applicabile la sanzione del solo annullamento, che riguarda gli atti di disposizione con effetti reali, per cui gli altri atti, che non comportano la fuoriuscita del cespite dalla comunione, ma solo effetti obbligatori, danno luogo solo all'inefficacia dell'atto stesso.
2.1. Ritiene questa Corte che il motivo sia infondato e che per l'effetto esso vada rigettato, pur presentando la sentenza impugnata - esatta nel dispositivo - errori di diritto, che vanno corretti nei termini che seguono, a norma dell'art. 384, c. 2, c.p.c.
Invero è completamente fuor di luogo il richiamo all'art. 1381 c.c., effettuato dalla corte di merito.
Va, anzitutto, rilevato, come affermato dalla Corte Cost. n. 311 del 1988, che la comunione legale dei beni tra i coniugi a differenza di quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei. Ne consegue che nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell'intero bene comune, ponendosi il consenso dell'altro coniuge (richiesto dal secondo comma dell'art. 180 c.c. per gli atti di straordinaria amministrazione) come un negozio unilaterale autorizzativo, la cui mancanza non rende inefficace o invalido l'atto, ma lo sottopone alla sola sanzione
dell'annullamento ai sensi dell'art. 184 c.c., in forza dell'azione proponibile dal coniuge pretermesso entro i termini previsti dall'art. 184 c.c. (Cass. 2.2.1995, n. 1252; Cass. 14.1.1997, n. 284).
2.2. L'art. 184 c.c., costituente il dato positivo in materia, al comma primo stabilisce che "gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell'altro coniuge e da questo non convalidati sono annullabili se riguardano beni immobili o beni mobili elencati nell'art. 2863"; al comma secondo aggiunge che "l'azione può essere proposta dal coniuge il cui consenso era necessario entro l'anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell'atto e in ogni caso entro un anno dalla data della trascrizione. Se l'atto non sia stato trascritto e quando il coniuge non abbia avuto conoscenza prima dello scioglimento della comunione l'azione non può essere proposta oltre l'anno dallo scioglimento stesso". La disposizione prevede testualmente, con espressioni chiare ed univoche, l'annullabilità e la convalida.
Orbene, l'annullabilità e la convalida suppongono la piena efficacia degli atti.
Sul piano politico, nel conflitto tra la tutela del terzo avente causa dal singolo coniuge e la tutela del coniuge pretermesso, la norma sembra privilegiare la prima, in difformità dal favor comunionis, che certamente ispira l'intera riforma dei rapporti patrimoniali tra coniugi. Sul piano strettamente tecnico, poi, la disciplina statuita dall'art. 184 cit. appare in contrasto con l'indirizzo del codice vigente che, per gli atti di disposizione compiuti dai soggetti privi di legittimazione, contempla la sanzione della inefficacia: in particolare, appare in contrasto con il disposto dell'art. 2258 comma 1 c.c., che in caso di amministrazione congiunta richiede il consenso di tutti coloro, ai quali spetta l'amministrazione.
2.3. La statuizione dell'annullabilità per gli atti riguardanti i beni immobili o mobili registrati, compiuti dai soggetti non legittimati a disporre dell'intero senz'altro raffigura un dato nuovo e diverso rispetto alla comunione ordinaria.
Ne consegue, anzitutto, che nella fattispecie non hanno rilevanza i precedenti giurisprudenziali richiamati dal ricorrente, poiché essi attengono alla comunione ordinaria.
3.1. Tenendo conto innanzi tutto che la comunione legale dei beni tra i coniugi non costituisce soltanto una situazione di titolarità, o di contitolarità, di beni, ma integra un "regime giuridico" che si riflette con carattere di specialità sia sulla responsabilità (artt. 000-000-000 c.c.) sia, per quanto specificamente in questa causa interessi, sugli effetti degli atti e dei negozi giuridici, nonché dei rapporti che in essi trovino fonte, il primo problema proposto deve trovare soluzione nella correlazione tra la disciplina degli artt. 180, 184 nonché 186 e 189 c.c.
Ove si ritenga che l'art. 180 c.c. stabilisce la regola generale in ordine al potere di amministrare la comunione e l'art. 184 indica le conseguenze degli atti compiuti in violazione della regola, deve ritenersi che gli atti posti in essere da un singolo coniuge senza il consenso dell'altro, o rientrano nella disciplina dell'art. 184 c.c., ovvero al di fuori di detta disciplina sono del tutto inefficaci nei riguardi della comunione, salvo ratifica dell'altro coniuge e salvo che un atto sia posto in essere
dal singolo coniuge in nome proprio, per cui gli effetti debbono fare capo a lui secondo, peraltro, la previsione dell'art. 189 comma 1 c.c., che coinvolge, con disciplina speciale sussidiaria, la responsabilità anche dei beni della comunione per le obbligazioni assunte dal singolo coniuge.
3.2. Così impostata la questione, si rileva che il primo comma dell'art. 184 c.c. attiene agli atti che, "se riguardano beni immobili", siano compiuti da un coniuge "senza il necessario consenso dell'altro coniuge".
Quando il consenso dell'altro coniuge sia necessario, è indicato dalla disciplina generale dell'art. 180/2 c.c. che, in deroga al principio generale - I comma dell'articolo - in base al quale l'amministrazione dei beni della comunione spetta disgiuntamente ad entrambi i coniugi, pone un'eccezione per "il compimento degli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione" spettante "congiuntamente ad entrambi i coniugi".
Ora, un contratto preliminare di vendita di un bene immobile soggetto al regime della comunione, sia che si richiami il criterio di straordinarietà inerente alla gestione del patrimonio dei minori, sia che si richiamino le norme proprie della comunione ordinaria (art. 1108 c.c.) ovvero quelle in tema di società, non pare dubbio che rientri nel concetto di amministrazione straordinaria, in quanto potenzialmente pregiudizievole all'interesse dell'altro coniuge e della comunione stessa ed in quanto eccedente la normalità degli atti da valutarsi sotto il profilo qualitativo e quantitativo.
3.3. Né può sottrarsi a detta qualificazione il contratto preliminare di vendita immobiliare, sulla base della considerazione che da esso derivano effetti obbligatori e non reali, in quanto il preliminare stesso è fonte di obbligazioni consequenziali a catena che, se ed in quanto validamente assunte ed in quanto si realizzino le condizioni di attuabilità, impongono in sequenza l'effetto distrattivo del bene dalla comunione e traslativo della proprietà, sia che esso avvenga con atto spontaneamente esecutivo dell'obbligazione di contrarre assunta, sia che si determini mediante la sostituzione della volontà del contraente inadempiente con la sentenza ex art. 2932 c.c. costitutiva secondo la disciplina dell'art. 2908 c.c.
3.4. Pur senza seguire la tesi di certa dottrina secondo cui il contratto preliminare di vendita sarebbe munito in sé di efficacia traslativa, sia pure condizionata ad una successiva obbligatoria stipulazione e documentazione del contratto, ovvero ad una successiva e necessitata pronuncia costitutiva; pur ritenendo, per contro, che il contratto preliminare abbia effetti obbligatori, non può non rilevarsi che oggetto dell'obbligo è la stipulazione di un contratto definitivo, di tipo e contenuto predeterminato, e con un oggetto specifico o determinabile.
Il contratto preliminare di vendita, quindi, si pone come momento originario di una serie obbligatoria consequenziale e successiva, il cui esito conclusivo necessitato è il trasferimento della proprietà del bene. In virtù dell'effetto conclusivo della sequenza, lo stesso preliminare, che alla serie obbligatoria dà inizio, diviene atto eccedente l'ordinaria amministrazione.
Ovvia appare, quindi la deduzione che, se il contratto preliminare di vendita di bene immobile in regime di comunione legale costituisce negozio eccedente
l'ordinaria amministrazione, esso costituisce altresì atto che può vincolare direttamente la comunione solo se compiuto congiuntamente dai coniugi, e che, se compiuto da un coniuge senza il consenso dell'altro, diviene atto annullabile a norma dell'art. 184 comma 1 c.c.
4.1. Né può sostenersi che, pur rientrando nella nozione di atto di amministrazione straordinaria secondo l'art. 180 c.c., il contratto preliminare di vendita di immobile non rientrerebbe nel regime dell'art. 184/1 c.c., regime che sarebbe limitato, in una interpretazione restrittiva, agli atti dispositivi con effetto reale e non agli atti con effetto immediatamente obbligatorio.
In primo luogo l'interpretazione restrittiva non trova riscontro nella lettera dell'art. 184/1 c.c. che sottopone, come già ricordato, all'azione di annullamento gli atti compiuti da un solo coniuge "senza il necessario consenso" dell'altro coniuge; e quando il consenso sia necessario (come già esposto) lo dispone l'art. 180 c.c. citato con riferimento generale agli atti di amministrazione straordinaria, determinando quindi una coincidenza concettuale tra gli atti di straordinaria amministrazione e quelli per i quali la mancanza del consenso determina, come effetto, l'annullabilità, non l'assoluta inefficacia di essi rispetto alla comunione.
4.2. In secondo luogo il primo comma dell'art. 184 c.c. delinea e delimita, tra gli atti di amministrazione straordinaria, quelli soggetti al regime dell'annullamento, mediante una qualificazione oggettiva: "se riguardano beni immobili".
Il "riguardare" beni immobili è espressione volutamente generica che non comprende solo gli atti immediatamente distrattivi dalla comunione in conseguenza di un effetto reale immediato, ma gli atti che comunque abbiano un'incidenza potenzialmente pregiudizievole sulla comunione con attinenza a beni immobili, ancorché l'effetto reale non sia immediato, ma conseguenza legittimamente necessitata, e giuridicamente tutelata fino alla costituzione degli effetti del contratto definitivo, in mancanza di volontà dell'obbligato (art. 2932
c.c. in relazione all'art. 1351 c.c.).
4.3. D'altronde, la suggerita interpretazione restrittiva non è sorretta neanche dal sistema che dalla disciplina dell'art. 184 c.c. emerge.
Basti considerare che, a differenza della comunione ordinaria nella quale la sanzione dell'atto derogante il necessario consenso di tutti i partecipanti è l'inefficacia nei confronti della comunione (art. 1108 c.c.), nel regime patrimoniale della famiglia, retto dalle regole della comunione legale, il legislatore si è posto il problema della tutela bilanciata della comunione e del coniuge non consenziente, da un lato, nonché del terzo, dall'altro.
La tutela del terzo è massima quando l'atto "riguardi" beni mobili (art. 184, comma 3) in quanto, anche se compiuto in violazione della regola della congiuntività, l'atto stesso è pur sempre valido ed efficace rispetto al terzo, risolvendosi l'eventuale situazione di pregiudizio con il rilievo di situazioni interne tra i coniugi.
La tutela del terzo è attenuata nel caso di atto riguardante beni immobili o mobili registrati, ma pur sempre sussistente, in quanto correlata al conferimento al
coniuge non consenziente di un potere di annullamento, in base al quale il coniuge incolpevole deve assumere comunque un atteggiamento attivo e dispositivo per ottenere la tutela del proprio diritto, come emerge dal breve termine prescrizionale cui è ristretto l'esercizio dell'azione di annullamento.
5.1. Riportando questi criteri al postulato di premessa, sarebbe illogico ed incongruo limitare la tutela del coniuge incolpevole ad una condotta attiva da esercitare entro breve termine per gli atti ad effetto reale traslativo immediato (e quindi con potenzialità lesiva maggiore ed immediata della comunione e del coniuge dissenziente), e sanzionare con l'assoluta inefficacia verso la comunione (e quindi con una situazione di maggior rilievo a tutela della comunione) un preliminare di vendita di bene comune, da cui derivano direttamente effetti obbligatori, con una prospettazione di pregiudizio o eguale, o minore, in quanto differito nel tempo.
5.2. E' pur vero che di fronte all'inefficacia del preliminare (nell'ipotesi di assoluta inefficacia del preliminare), l'azione di annullabilità, ed il relativo termine prescrizionale, si riproporrebbero davanti al negozio di esecuzione del preliminare.
Non sembra però coerente con la disciplina positiva che un atto munito in sé di efficacia obbligatoria, debba essere sanzionato con l'assoluta inefficacia in un sistema che richiede, invece, una condotta attiva del coniuge non consenziente, e ciò a tutela del terzo, in presenza di un negozio immediatamente traslativo del bene. Così ritenendo, si sottoporrebbero ad un effetto sanzionatorio disuguale due ipotesi che o sono eguali negli effetti pregiudizievoli della comunione, ovvero vi sarebbe un effetto sanzionatorio più rigoroso proprio per l'ipotesi di minore pregiudizio immediato; si realizzerebbe, quindi, una inammissibile discrasia sistematica.
D'altra parte per la sottoponibilità di annullamento del contratto preliminare di vendita (ancorché in fattispecie diverse) si è già pronunciata questa Corte (Cass. 19 marzo 1988 n. 3483; 18 giugno 1992 n. 7524).
5.3. Risulta superato il rilievo della tesi restrittiva secondo cui il comma 2 dell'art. 184 c.c. fa decorrere il termine prescrizionale dalla trascrizione dell'atto, e ciò al fine di delimitare il regime dell'annullamento (in contrapposizione a quello dell'inefficacia) agli atti previsti dall'art. 2643 c.c., tra i quali non vi sarebbe il contratto preliminare di vendita, pur ricomprendendosi nella previsione del n. 1 di detto articolo anche vendite con effetto obbligatorio.
Infatti, anzitutto, a norma dell'art. 2645 bis c.c., introdotto dall'art. 3 del d.l. 31.12.1996, n. 669 (conv. in l. 28.2.1997, n. 30), anche i contratti preliminari relativi a beni immobili devono essere trascritti.
Inoltre non bisogna dimenticare che il termine prescrizionale è, in primo luogo, decorrente dalla conoscenza effettiva dell'atto e, solo con carattere di sussidiarietà, dalla trascrizione ovvero dallo scioglimento della comunione, ed il criterio sussidiario non può comportare la delimitazione del criterio generale che detta delimitazione già non abbia in sé.
6. In definitiva deve ritenersi che il contratto preliminare di vendita di un bene immobile della comunione legale tra coniugi, stipulato da un coniuge senza la partecipazione o il consenso dell'altro, è soggetto alla disciplina dell'art. 184 c.c.; esso, quindi, non è inefficace nei confronti della comunione, ma soggetto all'azione di annullamento solo da parte del coniuge non consenziente (Cass. 17.12.1994, n. 10872), con la conseguenza che finché detta azione di annullamento non viene proposta esso è produttivo di effetti tra la comunione ed il terzo.
7. Il motivo risulta, quindi, infondato.
Ciò rende superfluo considerare che, ove lo stesso fosse stato fondato e che quindi il contratto preliminare stipulato dal Ricci fosse stato inefficace, non poteva aversi per l'effetto un inadempimento di questo ultimo, con le conseguenze patrimoniali tratte dal primo giudice, ma i rapporti tra i contraenti andavano regolati secondo i principi propri del solo indebito oggettivo (art. 2033 c.c., Cass. 13.10.1995, n.
10675).
8. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione dell'impugnata sentenza.
Assume il ricorrente che sulla base delle prove testimoniali e confessorie assunte in giudizio la volontà delle parti al momento della scrittura del 6 ottobre 1988 era quella di addivenire ad un successivo contratto preliminare, riportante quanto contenuto nella proposta di acquisto effettuata dal ricorrente e successivamente sottoscritta dal Ricci.
9.1. Ritiene questa Corte che il motivo sia inammissibile.
Infatti, anzitutto, qualora con il ricorso per Cassazione venga dedotta l'omessa od insufficiente motivazione della sentenza impugnata per l'asserita mancata o insufficiente o contraddittoria valutazione di risultanze processuali (un documento, deposizioni testimoniali, dichiarazioni di parti, accertamenti del c.t., ecc.), è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata (o insufficientemente valutata), che il ricorrente precisi - ove occorra, mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso - la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, il controllo deve essere consentito alla corte di cassazione sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative (Cass. civ., sez. II, 1 febbraio 1995, n. 1161).
Nella fattispecie nel ricorso non è indicato il contenuto specifico di dette risultanze processuali.
9.2. Inoltre la sentenza impugnata ha escluso l'inadempimento del promittente acquirente sulla base del rilievo che, costituendo la scrittura del 6.10.1988 già un preliminare, poiché la proposta di acquisto scritta risultava poi accettata e sottoscritta dal promittente alienante, essa già costituiva un contratto preliminare e dalla stessa non risultava l'obbligo del promittente alienante di addivenire ad un successivo contratto preliminare, dovendo anche detto obbligo risultare in forma
scritta.
Avverso questa seconda ratio decidendi (segnatamente quella fondata sulla mancanza della forma scritta), il ricorrente non ha proposto alcuna specifica censura.
Osserva questa Corte che, quando la statuizione impugnata sia fondata su più ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali sia giuridicamente e logicamente idonea a sorreggere la pronuncia, l'omessa censura di una di tali ragioni rende inammissibile, per difetto d'interesse, il motivo di ricorso per cassazione relativo alle altre, in quanto la sua eventuale fondatezza non potrebbe mai condurre all'annullamento della sentenza, essendo divenuta definitiva la motivazione autonoma non impugnata (Cass. civ., sez. lav., 9 dicembre 1994, n. 10555).
Il ricorso va, pertanto, rigettato ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali sostenute dai resistenti e liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di Cassazione, sostenute dai resistenti liquidate in L. 280.000, oltre L. 2.500.000, per onorario di avvocato.
MANDATO AD ACQUISTARE UN IMMOBILE, REVOCA E FORMA NECESSARIA
TRACCIA:
Tizio è amico da 12 anni di Caio.
Tizio si accorda con Caio, affinché il secondo acquisti, in nome proprio, l’immobile Alfa, con l’obbligo di ritrasferire il bene al primo; i due firmano una scrittura privata, avente ad oggetto la suddetta operazione, qualificata come mandato senza rappresentanza.
Una sera Tizio, a cena con Caio, dice di non essere più interessato all’acquisto di Alfa e di voler revocare il mandato formulato nei confronti di Caio.
Dopo un mese, Xxxx xxxxxxxx l’immobile Alfa e si reca da Tizio per trasferirgli il bene acquistato.
Tizio va su tutte le furie, precisando di aver revocato il mandato ad acquistare l’immobile Alfa un mese prima.
Caio si reca da un legale.
Il candidato, assunte le vesti del legale di Caio, rediga motivato parere. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE :
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente si poteva spiegare il contratto di mandato.
Il mandato è definito dall’art. 1703 c.c.; si tratta di un contratto consensuale, con effetti obbligatori (normalmente), normalmente oneroso ex art. 1709 c.c., ad
esecuzione differita ed è intuitu personae; può essere con rappresentanza (quando al mandato si aggiunge una procura, in forza della quale il mandatario rappresentante è autorizzato a spendere il nome del mandante rappresentato, rendendo, in tal modo, l’attività giuridica immediatamente efficace per quest’ultimo) o senza rappresentanza.
Detto questo, bisognava affrontare il discorso relativo alla forma; premesso che per il mandato senza rappresentanza ad acquistare un bene immobile (come Alfa) si ritiene necessaria la forma scritta, argomentando dall’art. 1351 c.c. (il preliminare come il mandato ad acquistare è un contratto obbligatorio ad effetti reali differiti, con la conseguenza che, trattandosi di contratti con la medesima natura giuridica, per analogia l’art. 1351 c.c. sarà applicabile anche al contratto di mandato), che forma deve rivestire la revoca del mandato? Qualsiasi forma, ovvero una forma particolare?
Secondo una certa tesi (minoritaria) il problema posto andrebbe risolto in termini negativi: la revoca potrebbe essere effettuata validamente, senza alcuna formalità, con la conseguenza applicativa che, nel caso di specie, Caio risulterà proprietario di Alfa e non potrà trasferirlo a Tizio (perché la revoca del mandato era valida, anche se espressa verbalmente).
A favore della tesi sostanziale, si evidenzia l’art. 1325 n. 4 c.c.: la forma è elemento essenziale del contratto solo laddove sia espressamente prevista come tale, con la conseguenza che il silenzio del legislatore in tema di forma nei contratti tipici va inteso come libertà di forma; in questo senso, allora, sarebbe desumibile un principio generale di libertà di forma (tanto nei contratti che negli atti unilaterali), che porterebbe a ritenere valida la revoca verbale del mandato fatta da Tizio verso Caio.
Invero, secondo la tesi prevalente in dottrina e giurisprudenza, seppur vi è un principio generale di libertà delle forme (argomentando dall’art. 1325 n. 4 c.c.), tuttavia, tale principio subisce una deroga nella materia del mandato senza rappresentanza ad alienare; in particolare, si dice, nel caso di specie potrebbe emergere una situazione analoga a quella prevista dal legislatore all’art. 1351 c.c., con la conseguenza che verrebbe ad emergere un principio di simmetria formale per cui come tra preliminare e definitivo deve intercorrere la stessa forma, così dovrebbe essere anche per il mandato e la sua revoca.
Precisamente: se il mandato è stato conferito rispettando una certa forma, per un principio di simmetria formale, allora, anche la revoca del mandato dovrà avere la stessa forma del mandato iniziale.
Applicando tale ricostruzione teorica maggioritaria la caso pratico in esame, Caio non avrà nulla da temere e Tizio sarà tenuto ad adempiere al contratto di mandato, pagando verosimilmente il corrispettivo pattuito per l’esecuzione del mandato.
Si riporta di seguito un contributo del giudice Xxxxxxx, La rappresentanza indiretta ed il mandato ad alienare, utile per conoscere varie tesi in tema di rappresentanza.
La rappresentanza indiretta e il mandato ad alienare
Premessa. La rappresentanza, intesa come attività diretta al soddisfacimento degli altrui interessi, è anche attività di gestione. Essa, però, si distingue dalle figure gestorie presenti nel nostro ordinamento in quanto produce direttamente ed
immediatamente effetti nella sfera giuridica del rappresentato. Nelle altre attività di gestione, infatti, tali effetti si producono nella sfera giuridica dell'agente e, solo successivamente, si trasferiscono in capo al gerito.
Si suole distinguere in dottrina tra rappresentanza diretta e rappresentanza indiretta: la prima è caratterizzata dall'agire del rappresentante in nome e per conto del rappresentato, mentre la rappresentanza indiretta, detta anche d'interessi, si caratterizza per l'agire del rappresentante in nome proprio e nell'interesse del rappresentato. Da ciò consegue che, mentre nella rappresentanza diretta il rappresentante è solo parte formale del rapporto contrattuale instaurato, divenendo il rappresentato parte sostanziale, nella rappresentanza indiretta, caratterizzata dalla mancanza della contemplatio domini, è il rappresentante ad essere al contempo parte formale e parte sostanziale del negozio, tanto che gli effetti dello stesso si producono nella sua sfera giuridica, salvo poi l'obbligo per il rappresentante di trasferirli al rappresentato. La disciplina ha, però, previsto che alcuni effetti possano esplicarsi direttamente nella sfera giuridica del rappresentato (v. artt. 1706, 1707 c.c.), attenuando le differenze tra i due tipi di rappresentanza. In proposito sono illuminanti le parole del Pugliatti: "l'agire del cooperatore per un interesse altrui ... costituisce la base per mezzo della quale il titolare dell'interesse è posto in condizione di poter conseguire la situazione soggettiva (formalmente) acquistata dal cooperatore e a lui destinata" (Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965 pag. 395).
Comunemente la rappresentanza indiretta si attua mediante un contratto di mandato senza rappresentanza. Con tale tipo di contratto, infatti, l'atto giuridico posto in essere dal mandatario senza rappresentanza esplica i suoi effetti solo nei rapporti tra lo stesso ed il terzo, senza incidere nella sfera giuridica del mandante. Natura giuridica. Dibattuta è la natura giuridica della rappresentanza indiretta.
Una prima tesi, autorevole ma minoritaria [1], afferma che la rappresentanza indiretta sia una vera e propria rappresentanza, poiché si agisce, così come nella rappresentanza diretta, per tutelare e soddisfare l'interesse altrui, e si realizza un risultato destinato ad incidere comunque nella sfera giuridica del rappresentato. L'Autore individua nelle disposizioni di cui agli artt. 1388, 1705 secondo comma, seconda parte, 1706 e 1707 c.c., gli addentellati normativi cui ancorare il risultato della propria indagine. Le suddette norme, secondo tale tesi, non sono da considerare eccezionalmente dirette al soddisfacimento dell'altrui interesse, ma come norme che sanciscono la generale rilevanza dello stesso. Invero si è sostenuto che, caratterizzandosi la rappresentanza come fenomeno di intermediazione, il rapporto giuridico si instaurerebbe sempre tra il rappresentato e il terzo, sia che il rappresentante dichiari l'alienità dell'interesse, per il cui soddisfacimento agisce, sia che non lo dichiari: i due tipi di rappresentanza sono fattispecie dello stesso fenomeno giuridico, quello della cooperazione giuridica per la costituzione di rapporti altrui.
Nell'esaminare le disposizioni normative cui ancorare il ragionamento testé compiuto, il Pugliatti ha affermato che l'art. 1388 c.c. ricollega l'efficacia diretta non solo all'agire in nome altrui ma anche "nell'interesse altrui"; gli articoli 1705, 1706 e 1707 c.c. attribuiscono al mandante importanti rimedi che sostanzialmente fanno coincidere gli effetti del mandato senza rappresentanza con quelli del mandato con procura. In particolare l'art. 1705, 2° comma, c.c., assegna al mandante la titolarità, e quindi la facoltà di esercizio dei diritti acquistati dal mandatario; l'art. 1706, 1° comma, c.c. prevede l'acquisto al mandante delle cose mobili acquisite, nella cura del suo interesse, dal mandatario; l'art. 1707 c.c. statuisce che i creditori del mandatario non possono aggredire i beni che questi ha
acquistato in esecuzione del mandato, implicitamente affermando che gli stessi appartengono al mandante. L'Autore sostiene, inoltre, che anche l'art. 1706, 2° comma, c.c., che assegna al mandante il diritto di chiedere l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo del mandatario di trasferire ciò che è stato acquisito in esecuzione del mandato, considera il diritto del mandante come espressione della proprietà sostanziale acquistata automaticamente dal mandante rispetto a quella meramente formale del mandatario.
Le differenze esistenti tra i due tipi di rappresentanza sono meramente strutturali: nella rappresentanza alla cura dell'interesse altrui, si accompagna la contemplatio domini, che, invece, è assente nella rappresentanza indiretta. Le due figure non sono diverse sotto il profilo effettuale: "se differenza c'è, essa consisterebbe unicamente in ciò, che nella rappresentanza diretta acquista immediatamente e soltanto il rappresentante, mentre in quella indiretta acquistano contemporaneamente il mandante e il mandatario; quest'ultimo, però, acquista e perde automaticamente, nello stesso istante in cui compie il negozio gestorio" (così Pugliatti). Lo stesso autore sottolinea inoltre che si può riaffermare che la rappresentanza indiretta ha in comune con quella diretta la base sostanziale del fenomeno: la cura dell'interesse altrui, a cui si ricollega l'alienità del negozio compiuto dal rappresentante. E oltre: si rende manifesta la necessità di una rielaborazione dello stesso concetto di rappresentanza, sotto il profilo dell'interesse (del dominus), anziché sotto quello della volontà (del cooperatore). Critica. La tesi del Pugliatti è stato oggetto di critiche da parte della dottrina prevalente. In primo luogo si è affermato che l'unico elemento, peraltro non decisivo, che accomuna le figure di rappresentanza è dato nella gestione dell'altrui interesse. Secondo questa opinione dottrinale maggiore importanza riveste la circostanza dell'esplicarsi degli effetti nella sfera giuridica del rappresentato, per cui la rilevanza della gestione dell'altrui interesse rileverebbe solo nella fase del trasferimento degli effetti in capo al gerito. Secondo la dottrina prevalente più che di rappresentanza la figura in discorso rientrerebbe nella più ampia area dell'interposizione gestoria o della sostituzione.
Si è, inoltre, affermato che (Mirabelli), soltanto l'attività esplicata in nome del rappresentato, e quindi caratterizzata dalla contemplatio domini, produce direttamente ed immediatamente gli effetti nella sfera giuridica dello stesso. Secondo l'Autore "il particolare modo di agire del sostituto non solo è sufficiente ad individuare il fenomeno, ma rende anche possibile rilevarne la presenza in tutti i casi in cui esso si esplichi unitamente ad una attività di gestione: da questa deriva il soddisfacimento dell'interesse altrui, da quello la diretta esplicazione degli effetti dell'attività nella sfera del titolare della posizione giuridica".
Altra critica alla tesi del Pugliatti sostiene che l'istituto in discorso non appartiene al genus della rappresentanza, atteso che in quest'ipotesi si darà luogo ad un contratto di mandato, che si pone in modo del tutto autonomo rispetto alla rappresentanza. Si è, infatti, affermato che il rapporto costituito tra il gestore ed il terzo non può imputarsi al gerito, non essendo sufficiente il mero interesse effettivamente gestito.
Opinione prevalente. Secondo la dottrina prevalente la rappresentanza indiretta è un figura che presenta solo alcune analogie con la rappresentanza diretta, rimanendo per il resto del tutto autonoma. L'unico elemento comune è dato dalla gestione nell'interesse altrui. Le conseguenze giuridiche si producono, infatti, nella sfera giuridica del rappresentante e solo mediatamente in capo al rappresentato, sicché la rilevanza del momento gestorio viene in evidenza solo al momento del trasferimento dei suddetti effetti in capo a quest'ultimo. Tale tesi
trova riscontro nella stessa lettera della legge. Dal raffronto operato tra l'art. 1388 e l'art. 1705, commi 1 e 2 parte prima c.c. si evince, infatti, che il primo dei due articoli citati prevede che gli effetti del contratto concluso dal rappresentante si producano direttamente in capo al rappresentato, laddove l'art. 1705 statuisce che è il mandatario ad agire in nome proprio e ad acquistare i diritti e gli obblighi scaturenti dal contratto concluso con i terzi e che questi ultimi non hanno alcun rapporto con il mandante. La tesi ha trovato adeguato riscontro in giurisprudenza laddove si afferma che affinché il mandato esplichi effetti nella sfera giuridica del mandante è necessaria la spendita del nome: "nel caso in cui taluno, senza contemplatio domini, abbia agito in nome proprio e per conto altrui, tutti gli effetti del contratto si producono in capo al mandatario e nessun rapporto può costituirsi fra mandante e terzo contraente, non avendo rilevanza, ai sensi dell'art. 1705, l'eventuale conoscenza del mandato da parte di detto terzo" [2].
La dottrina in discorso, che fa leva sulla disposizione di cui all'art. 1705 primo e secondo comma, prima parte, per affermare l'autonomia della figura rispetto alla rappresentanza c.d. diretta, pur conscia delle difficoltà interpretative poste dagli articoli 1705 secondo comma, seconda parte, 1706 e 1707 c.c., le supera asserendo che trattasi di eccezioni al principio generale sancito dal primo comma dell'art. 1705 c.c.. Tali articoli assegnano al mandante alcuni rimedi per l'attività posta in essere dal mandatario. Viene previsto, infatti, che il mandante possa sostituirsi al mandatario per l'esercizio dei diritti di credito derivanti dall'esecuzione del mandato, che possa rivendicare le cose mobili acquistate per suo conto dal mandatario e che i creditori del mandatario non possano aggredire i beni acquistati da questo nell'esecuzione del contratto di mandato se il contratto ha data certa anteriore al pignoramento, ovvero, se si tratta di beni immobili, che sia stato trascritto anteriormente al pignoramento. Per spiegare questi rimedi, la dottrina prevalente è concorde nel ritenere che essi abbiano natura eccezionale e che non sanciscano una rilevanza esterna del rapporto gestorio ai fini di un'efficacia diretta del mandato. Le disposizioni di cui agli articoli 1705, 2° comma, e 1706 c.c., infatti, sono il risultato della combinazione dei principi del mandato senza rappresentanza, con il principio consensualistico stabilito dall'art. 1376 c.c. In particolare i principi del mandato senza rappresentanza implicano che il mandante non può esercitare le azioni contrattuali derivanti dal contratto concluso dal mandatario con il terzo. Il mandante, infatti, non può esercitare l'azione di risoluzione del contratto, ovvero l'azione di annullamento dello stesso. Il principio consensualistico, invece, determina la produzione dell'effetto traslativo dal mandante al mandatario, dei diritti che quest'ultimo ha acquistato per conto del primo: "un effetto che, come nei casi di vendita obbligatoria (art. 1476,
n. 2), è ritardato al momento successivo alla espressione del consenso contrattuale, ma che, quando è in grado di prodursi (nel nostro caso quando il mandatario ha acquistato), si produce per effetto del consenso. Perciò le azioni ex contractu spettano al mandatario, ed a lui soltanto; le azioni ex re spettano al mandante, come appunto l'azione di rivendica" (così Xxxxxxx, Il negozio giuridico, Milano, 1988 pagg. 358, 359).
Pur partendo da questa premessa, si riscontra, però, una pluralità di soluzioni interpretative relative a quanto disposto dai suddetti articoli. Quanto al potere di sostituzione del mandante si parla di trasferimento ope legis [3], di azione surrogatoria [4], di azione diretta.
In particolare i sostenitori del trasferimento ope legis affermano che mentre gli obblighi del contratto stipulato dal mandatario gravano sullo stesso, non potendo interpretarsi diversamente la norma anche in virtù del principio di affidamento del
terzo, invece la proprietà delle cose mobili e dei crediti si trasferisce immediatamente al mandante, con la conseguenza che quest'ultimo può rivendicarle o esigere i crediti. Il trasferimento, quindi, avverrebbe per legge sulla base del contratto di mandato.
Altri sostengono, invece, che si sia in presenza di un'azione surrogatoria, apparentemente richiamata dalla lettera dell'art. 1705, 2° comma, c.c., pur in assenza dei presupposti richiesti dall'art. 2900 c.c.. A questa opinione si è obiettato che diversamente da quanto avviene con l'azione surrogatoria, con la quale il creditore esercita i diritti del debitore per la garanzia patrimoniale, il mandante si "appropria di un diritto di credito che gli spetta, in quanto derivante da un'operazione compiuta per suo conto. Questo potere di appropriazione trova tuttavia limite nei diritti che il mandatario ha a sua volta verso il mandante, come il diritto a ricevere i mezzi per adempiere le obbligazioni assunte verso il terzo" (così Bianca, Il contratto, Milano 1987 pagg. 126, 127).
La giurisprudenza, aderendo alla tesi della prevalente dottrina, ritiene il carattere eccezionale del principio posto dall'art. 1705, 2° comma c.c. rispetto alla regola generale, secondo cui il negozio concluso con il terzo contraente ricade esclusivamente nella sfera giuridica del mandatario, senza che si costituisca alcun rapporto tra mandante e terzo: "la disposizione del 2° comma - prima parte - dell'art. 1705 c.c., introduce, per ragioni di tutela dell'interesse del mandante, un'eccezione al fondamentale principio enunciato nel 1° comma dell'articolo per il quale il mandatario che agisce in nome proprio acquista i diritti ed assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi anche se questi hanno avuto conoscenza del mandato, consentendo al mandante di esercitare i diritti di credito derivanti dall'esecuzione del mandato" [5]. Quanto al tipo di rimedio concesso al mandante la Cassazione ritiene che si tratti di azione diretta che, però, non implica anche l'esercizio dei rimedi contrattuali: "la natura eccezionale della norma (art.
1705 2° comma c.c.), le finalità di tutela del mandante, l'inequivocità della espressione "diritti di credito derivanti dall'esercizio del mandato" inducono ad escludere, al di fuori dell'azione diretta al soddisfacimento di detti crediti, che il mandante possa esperire contro il terzo le azioni da contratto e, in particolare, quelle di risoluzione per inadempimento e di risarcimento dei danni; opinando diversamente la regola generale sancita dallo stesso art. 1705 c.c. resterebbe svuotata di contenuto" [6].
Quanto al disposto dell'art. 1706 c.c., la prevalente dottrina riconoscendo che trattasi di eccezione al principio dell'efficacia obbligatoria del mandato, fonda la possibilità di rivendica sul presupposto che all'acquisto del mandatario accederebbe un ritrasferimento automatico al mandante (Luminoso, Mandato, commissione, spedizione, Milano, 1985). Della stessa opinione è anche il Carraro, (Il mandato ad alienare, pp. 9-10) il quale sostiene che "il mandato ad acquistare mobili avrebbe, accanto all'efficacia obbligatoria, un'efficacia reale, nel senso che all'assunzione dell'obbligo ad acquistare si accompagnerebbe già la manifestazione di una volontà di ritrasferire al dominus la proprietà dei mobili che successivamente entreranno nella titolarità del mandatario, operandosi, quindi, il ritrasferimento nello stesso istante in cui detto mandatario ne acquista la proprietà".
Nello stesso senso si è espressa la giurisprudenza che, però, ritiene che il secondo trasferimento possa esteriorizzarsi in un successivo negozio, senza che ciò implichi la compromissione del diritto di revindica acquistato dal mandante: "l'art. 1706 c.c., che conferisce al mandante il potere di rivendicare le cose mobili acquistate per suo conto dal mandatario presuppone che all'atto stesso
dell'acquisto da parte di quest'ultimo si attuino due distinti trasferimenti, logicamente successivi, ma cronologicamente contemporanei, l'uno dal terzo al mandatario e l'altro dal mandatario al mandante. Siffatto condivisibile principio non ha tuttavia impedito che, con una non recente sentenza (Cass. 773/66), si sia ritenuto ammissibile che il secondo trasferimento, pur senza compromettere il diritto di revindica già acquisito dal mandante, si esteriorizzi in un successivo, distinto negozio. Invero, il contratto con il quale viene pattuito l'acquisto di cose mobili ad opera del mandatario, che non agisce (e, non essendo munito di poteri di rappresentanza, non può agire) in nome del mandante, vede quali parti uniche e necessarie il terzo alienante e, quale acquirente, lo stesso mandatario; sicché a questi soltanto il primo trasferisce o rimane obbligato a trasferire le cose mobili, specificate nel contratto senza che - nella legittima ignoranza dell'esistenza del mandato e sino a che non sia esercitata dal mandante la revindica ex art. 1706, 1° comma, c.c. - possa sottrarsi alla pattuita consegna alla controparte" [7].
Sempre riguardo all'azione ex art. 1706 c.c. altra dottrina (Tilocca) ha sostenuto che quanto disposto dal primo comma di detto articolo non è un'eccezione al principio statuito dall'art. 1705, 1° comma. Secondo questa interpretazione, ricadendo anche i beni mobili in proprietà del mandatario e potendo anch'egli esperire, al pari del mandante, l'azione di rivendica, l'art. 1706 c.c. andrebbe interpretato alla stregua del disposto dell'art. 1705, ritenendo implicito nella norma in discorso il potere di sostituzione che il secondo comma dell'art. 1705 attribuisce al mandante. L'Autore sostiene, infatti, che la proprietà dei mobili viene acquistata dal mandatario, ma che il mandante può appropriarsene con un proprio atto unilaterale di sostituzione da intendersi come speciale atto di autotutela. Questo sarebbe possibile in forza della considerazione che, per i diritti di credito e per i beni mobili, non sono necessari gli adempimenti relativi alla forma ed alla pubblicità previsti per i diritti reali immobiliari.
Anche l'art. 1707 c.c. relativo ai rapporti con i creditori del mandatario, pur essendo espressione della tesi prevalente, che prevede il ritrasferimento dei beni dal mandatario al mandante, è stato oggetto di diverse ricostruzioni dottrinali.
Secondo una prima tesi la norma conferma che le cose mobili e i crediti acquistati dal mandatario si trasferiscono immediatamente in capo al mandante, ope legis e che, pertanto, l'art. 1707 c.c. è un'applicazione dell'art. 2914, n. 4, c.c. secondo il quale "non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante le alienazioni di beni mobili di cui non sia stato trasmesso il possesso anteriormente al pignoramento, salvo che risultino da atti aventi data certa".
Altra opinione sostiene che la norma limita le conseguenze, lesive per il mandante, derivanti, in base al disposto degli articoli 2740 e 2741 c.c., dall'appartenenza al mandatario dei crediti e dei mobili, che "se si acquistassero direttamente dal mandante, dovrebbero essere in ogni caso imperseguibili dai creditori del mandatario" (così Tilocca).
Da ultimo va ricordata la tesi di chi (Xxxxxxxxx) ritiene che l'art. 7070 c.c., assegnando al contratto di mandato l'effetto di limitare la disponibilità dei beni, sia un'applicazione dell'art. 2915, 1° comma, c.c..
Tesi di Sacco e Bianca. Seppur brevemente vanno ricordate le tesi di due illustri studiosi del diritto civile. Per il Bianca il dibattito tra tesi sostanziale e tesi formale giustifica l'intendimento di un'ampia nozione di rappresentanza, quale legittimazione ad agire per conto altrui. Per l'Autore, pur ritenendo valide le due idee di rappresentanza, ciò che conta è il momento della responsabilità: "ciò che per il nostro ordinamento deve essere tenuto fermo è che l'agire in nome proprio non comporta gli stessi effetti dell'agire in nome altrui: l'agire in nome proprio,
infatti, preclude al terzo contraente di esercitare la sua pretesa contrattuale nei diretti confronti dell'interessato. Affinché l'interessato divenga parte sostanziale del rapporto contrattuale occorre che il rappresentante agisca in suo nome: la spendita del nome del rappresentato è quindi il dato caratterizzante e distintivo della rappresentanza diretta".
Il Sacco, invece, si segnala per un'originale interpretazione degli effetti derivanti dalla rappresentanza indiretta. Egli, infatti, ritiene che il trasferimento degli effetti in capo al mandante può essere giustificato, per i soli beni mobili, in virtù del disposto dell'art. 1376 c.c.. Lo stesso non si potrebbe, però, sostenere per gli immobili, atteso che l'art. 1706, 2° comma, che esclude, relativamente a tali beni, l'operatività del principio consensualistico. L'Autore continua la propria disamina degli effetti, affermando che il potere di sostituzione del mandante, di cui all'art. 1705 c.c., va interpretato "come equivalente stretto della notifica di cui all'art.
1264, c.c.", e sostiene che quanto statuito dal 1° comma della norma in discorso, si riferisca soltanto alle azioni a tutela del buon fine contrattuale attribuita al mandatario. Ne consegue che nel contratto di mandato saremmo in presenza di un'azione ex contractu per l'adempimento di spettanza del mandatario e di un'azione per il soddisfacimento del credito di spettanza del mandante.
Mandato ad alienare. Connessa con le problematiche affrontate è la figura giuridica del mandato ad alienare. Questa ipotesi di mandato, a differenza del mandato ad acquistare, non è espressamente disciplinata dal codice civile. In tal caso la difficoltà che si pone all'interprete è data dal tipo di giustificazione, coerente con il sistema, da dare ad un'operazione contrattuale in cui l'alienante non è titolare del bene.
Secondo una prima ricostruzione (Mengoni) il trasferimento del bene avverrebbe direttamente dal mandante al terzo e ciò grazie ad una legittimazione a disporre in nome proprio del diritto altrui, che competerebbe al mandatario. Si sarebbe in presenza di una legittimazione indiretta di persona non titolare del diritto. In tal caso il mandatario farebbe acquistare il bene direttamente al terzo, senza la necessità di un preventivo trasferimento da parte del mandante.
Altra tesi sostenuta in dottrina (Carraro) ritiene, invece, che il mandato ad alienare sia una fattispecie complessa data dal mandato e dall'esecuzione dello stesso. In particolare, si è detto, che l'esecuzione del contratto di mandato comporterebbe il trasferimento della titolarità del bene dal mandante al mandatario, grazie all'efficacia traslativa del contratto stesso.
Una terza opinione (Xxxxxxxxx) ritiene che nell'ipotesi di mandato ad alienare si assisterebbe ad un duplice trasferimento: dal mandante al mandatario e da questi al terzo. Il primo trasferimento si attua, a seconda degli Autori, o in virtù di un negozio traslativo avente causa esterna, si applicherebbe in tal caso l'art. 1706, 2° co, c.c., e quindi l'atto sarebbe solvendi causa (Xxxxxxxxx); ovvero automaticamente, anche in caso di alienazioni immobiliari, al momento del trasferimento al terzo ad opera del mandatario (Xxxxxxxxx). Quest'ultima ricostruzione è stata ulteriormente perfezionata da chi (Luminoso) ritiene che l'effetto traslativo in favore del mandatario sarebbe subordinato alla condicio iuris sospensiva, rappresentata dall'alienazione del mandatario al terzo.
La stessa Corte di Cassazione, pur non volendo prendere posizione, ha opportunamente considerato che se nella figura in discorso fosse sempre necessario il trasferimento del bene dal mandante al mandatario, il mandato perderebbe la propria funzione. Senza considerare che, comunque, identico risultato potrebbe raggiungersi mediante un negozio fiduciario, in cui il fiduciante trasferisce il bene al fiduciario che, successivamente lo trasferirà a determinate
condizioni; ovvero attraverso un'intestazione simulata in forza della quale il mandatario figura come proprietario del bene. In particolare la Suprema Corte, in una delle poche pronunce sull'argomento, ha affermato che "se fosse sempre necessario - quanto meno nel mandato a vendere beni immobili o mobili registrati (i quali ultimi, peraltro, si trasferiscono con il solo consenso) - un previo negozio formale di trasferimento dal mandante al mandatario per legittimare la successiva alienazione formale del bene da parte di quest'ultimo, il contratto di commissione e l'istituto del mandato a vendere perderebbero gran parte della loro funzione ed utilità. L'incondizionato trasferimento del bene al mandatario potrebbe, inoltre, essere causa di inconvenienti ed abusi da parte del medesimo, come la dottrina ha sottolineato. Si deve allora ritenere, in adesione dei più recenti studi sull'argomento, che nel mandato ad alienare (e nella commissione, quando abbia ad oggetto questo tipo di mandato) sia ravvisabile un contratto nel quale l'effetto traslativo del bene, derivante dal consenso manifestato dalle parti (art. 1376 c.c.), non si verifica immediatamente ma è sospensivamente condizionato al compimento dell'alienazione gestoria del bene medesimo da parte del mandatario o commissionario" (v. in motivazione Cass. 7 dicembre 1994 n. 10522).
I primi commentatori della sentenza, pur evidenziando il carattere innovativo del principio di diritto testé riportato, hanno evidenziato come ciò non valga ad attribuire incondizionatamente al mandato ad alienare efficacia traslativo - reale. È stato sottolineato, infatti, che "quello che caratterizza la fattispecie in esame è la contemporanea presenza di una situazione obbligatoria, derivante dal mandato, e di una situazione reale, derivante dall'alienazione gestoria. Infatti la S.C. parla di effetto traslativo - reale del bene (derivante dal consenso delle parti) e non del mandato. Per legittimare l'atto di disposizione del mandatario, situazione reale e situazione obbligatoria sono tra di loro collegate, operando l'alienazione gestoria come condizione sospensiva legale dell'effetto traslativo dal mandante al mandatario. Tale effetto non si realizza se il mandatario non vende" (Battaglia in Giustizia Civile 1995 pag. 1266 e segg.).
Il problema che residua è dato dall'atteggiarsi del meccanismo ora illustrato nell'ipotesi in cui oggetto del mandato siano beni mobili registrati o beni immobili e dell'armonizzazione dello stesso con i principi dell'istituto della trascrizione e con l'assunto, consolidato in giurisprudenza, secondo cui il mandato ad alienare i suddetti beni deve essere conferito, a pena di nullità, per iscritto, anche nell'ipotesi di mandato senza rappresentanza. In proposito si è sostenuto che il terzo acquirente dovrà trascrivere il proprio atto d'acquisto non nei confronti del mandatario, atteso che questi non risulterà proprietario del bene. Né è da accogliere la tesi della diretta trascrivibilità del mandato in considerazione della mera eventualità che l'alienazione gestoria si concluda. Si è allora affermato che se nel mandato ad alienare il negozio gestorio opera come condicio iuris dell'effetto traslativo dal mandante al mandatario, "non può non circoscriversi l'operatività del mandato senza rappresentanza al caso in cui oggetto del negozio sia un contratto preliminare per persona da nominare, a cui faccia seguito la stipula del definitivo tra mandante e terzo acquirente. Qualora l'alienazione gestoria si sostanzi in un contratto definitivo, il meccanismo rappresentativo può funzionare soltanto in presenza di una procura a vendere, che consenta di individuare chiaramente il dominus - proprietario e di risolvere le problematiche relative alla trascrizione" (così Battaglia ibidem).
Rapporti con i creditori del mandatario. I problemi inerenti i rapporti con i creditori del mandatario sono risolti diversamente dai sostenitori delle tesi su richiamate. I fautori della tesi dell'efficacia traslativa del mandato solo a seguito
dell'alienazione del mandatario, escludono che il bene oggetto del mandato possa essere aggredito dai creditori del mandatario. Il principio, però, non sarebbe applicabile nell'ipotesi di mandato ad alienare beni mobili, poiché in tal caso si potrebbe opporre il mandato al creditore pignorante solo se stipulato in data certa anteriore al pignoramento, ovvero qualora il mandante sia in grado di provare che il proprio titolo di acquisto abbia data anteriore. Coloro che, invece, sostengono la tesi dell'immediata efficacia traslativa del mandato, configurano un vincolo d'indisponibilità a favore del mandante, con la conseguenza che per risolvere i conflitti con i terzi creditori del mandatario troverebbe applicazione l'art. 2915 c.c..
Azione revocatoria. Si discute, altresì, sulla possibilità di esperimento dell'azione revocatoria da parte dei creditori del mandante e del mandatario. Accogliendo la tesi della condicio iuris si nega che i creditori del mandatario possano esercitare l'azione in discorso nei confronti del loro debitore; si ammette, invece, che i creditori del mandante possano esperire tale rimedio, specificando che in primo luogo dovrebbero agire nei confronti del mandatario e, solo successivamente, contro il terzo contraente (v. per tutti Luminoso, in Trattato Xxxxxxxx, 12).
Xxxxxxxx Xxxxxxx magistrato
[1] V. per tutti Pugliatti, Studi sulla rappresentanza, Xxxxxx 0000; Fiducia e rappresentanza indiretta, in Diritto civile. Saggi, Milano 1951.
[2] Cass. 7 gennaio 1993 n. 78, in Repertorio del Foro Italiano, voce Rappresentanza nei contratti, n. 14.
[3] Ferrara jr. Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano 1995 p. 141.
[4] Xxxxxxxxx, Il mandato, p. 106.
[5] Così in motivazione Cass. 5 novembre 1998 n. 11118, in Il Foro Italiano, 1999, I, 94.
[6] Così in motivazione Cass. 5 novembre 1998 n. 11118, cit.
[7] Così in motivazione Cass. SS.UU. 28 gennaio 1994 n. 728, in Il Foro Italiano, 1994, I, 1053.
ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE
TRACCIA
Tizio è sposato da diversi anni con Caia.
Tizio e Caia litigano continuamente, soprattutto perché Tizio è violento e perde facilmente la pazienza; inoltre, Tizio ama uscire la sera con Sempronia, ex fidanzata, lasciando in casa la povera Caia.
Tizio e Caia decidono di non coabitare più insieme e vanno a vivere in città diverse.
Un giorno, Tizio viene a sapere che Caia, in altra città, si è data alla prostituzione; Tizio telefona a Caia, avvertendola che intende chiedere la separazione giudiziale con addebito in capo alla stessa Caia a causa dei suoi comportamenti da meretrice. Caia si reca dal legale Sempronio.
Il candidato, assunte le vesti di Sempronio, rediga motivato parere.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente, era utile accennare al fatto che l’addebito della separazione è collegato, essenzialmente, alla violazione di doveri coniugali (ovvero doveri collegati con la famiglia, comprensivi di quelli verso i figli, anche se maggiorenni).
Tuttavia, secondo la giurisprudenza più recente, ai fini dell’addebito della separazione. non basta la violazione dei doveri coniugali ma è necessario verificare, caso per caso, il momento in cui tali doveri non sono stati rispettati; più in particolare, l’addebito va imputato a colui che pone in essere atti-fatti intollerabili con la prosecuzione della convivenza, ex art. 151 c.c., con la conseguenza che bisogna verificare quale atto-fatto abbia determinato l’impossibilità di prosecuzione della convivenza, indipendentemente dai comportamenti successivi al venir meno dell’affectio.
In altri termini, non assume rilievo giuridico ai fini dell’addebito della separazione il comportamento del coniuge, successivo alla verificazione di una causa di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto.
Pertanto, in questo senso, non rileva ai fini dell’addebito della separazione il comportamento di Caia che si è data alla prostituzione dopo la decisione di non coabitare più con il marito, ma rileverebbe, al più, il comportamento di Tizio che, durante la coabitazione successiva al matrimonio, usciva con la ex fidanzata Sempronia, ponendo in essere un comportamento incompatibile con la vita di coppia; sotto tali profili, allora, l’eventuale addebito della separazione andrà a carico di Tizio.
Si consiglia di leggere le sentenze che seguono.
-L’infedeltà non è da sola sufficiente a giustificare l’addebito della separazione, perché bisogna verificare il momento in cui si è verificata e, se successiva alla venuta meno dell’affectio maritalis, non ci può essere addebito.
CASS. CIV.- SEZ. I- 19 settembre 2006, n. 20256- Pres. Luccioli – est. PanzaniSvolgimento del processoCon atto 5 novembre 1990 Xxxxxxxxxx Xxxxxx chiedeva la separazione giudiziale con addebito dalla moglie Bulagna Paola. il matrimonio era stato contratto il 27 luglio 1974 e ne erano nati i figli Xxxxxxx e Xxxxxx, ora maggiorenni. La Bulagna non si opponeva alla separazione, ma domandava che fosse addebitata al xxxxxx.Xx Tribunale di Perugia respingeva le domande di addebito reciproche, assegnava la casa coniugale al Massinelli e poneva a carico di quest,ultimo l’obbligo di versare alla Bulagna a titolo di contributo di mantenimento la somma mensile di euro 464,81.Proponeva appello principale la Bulagna ed incidentale il Massinelli. La Bulagna insisteva per la pronuncia dell’addebito al Massinelli, per l’assegnazione della casa coniugale e per il riconoscimento del contributo di mantenimento in misura superiore. Il Massinelli domandava l’addebito alla Bulagna e l’esclusione dell’assegno o, in
subordine, il riconoscimento in somma inferiore. La Corte d’appello di Perugia con sentenza 13 giugno 2003 accoglieva parzialmente l’appello della Bulagna revocando l’assegnazione della casa familiare al Massinelli ed elevando l’assegno di mantenimento ad euro 568,10. Rigettava invece la domanda di addebito della separazione al marito e l’appello incidentale del Massinelli.Osservava la Corte territoriale che dalla Ctu esperita era emerso che il fallimento del matrimonioandava ascritto a responsabilità di entrambi i coniugi perché la loro condotta era stata improntata ad «affermazione di responsabilità, egocentrismo, desiderio di sopraffazione, aggressività, conflittualità permanente, reciproche infedeltà, prodigalità». Il fatto che la Bulagna dopo la separazione si fosse dedicata all’esercizio della prostituzione andava collocato nel quadro caratteriale della stessa e Come esplicazione finale degli atteggiamenti di infedeltà già attuati da entrambi i coniugi da prima della separazione. Sia per la Bulagna che per il Massinelli risultavano provati episodi di infedeltà successivi alla separazione e quindi al 1990. il Massinelli aveva avuto varie relazioni extraconiugali successive alla separazione; a carico della Bulagna erano provati episodi di prostituzione risalenti al 1993 ed ad anni successivi.Di qui la reiezione di entrambe le domande di xxxxxxxx.Xx casa coniugale non poteva essere assegnata al Massinelli perché i figli erano ormai maggiorenni ed autosufficienti e non vi erano quindi ragioni di tutela dell’ambiente familiare.Quanto all’assegno di mantenimento, la Bulagna era senz’altro il coniuge più debole, pur avendo lavorato in passato, tenuto conto del fatto che il Massinelli godeva di notevoli risorse immobiliari e di un cospicuo reddito. Di qui l’accoglimento parziale della richiesta di aumento dell’assegno avanzata dalla Bulagna.Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Massinelli articolando due motivi. Resiste con controricorso la Bulagna che ha anche proposto ricorso incidentale con un motivo, contrastato dal Massinelli con controricorso.Entrambe le parti hanno depositato memoria.Motivi della decisioneCon il primo motivo del ricorso principale il Massinelli deduce violazione dell’articolo 6, comma 6, legge 898/70 in ordine alla revoca del 1 assegnazione della casa coniugale disposta dalla Corte d’appello. Premesso che la revoca in questione non fa venir meno i diritti dominicali che spettano al Massinelli in quanto comproprietario dell’immobile, il ricorrente osserva che ai sensi dell’articolo 6 citato l’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza al genitore con cui i figli convivono, anche oltre la maggiore età. Le aziende di cui i figli del Massinelli sono titolari e dalla cui esistenza la Corte territoriale ha dedotto la loro indipendenza economica, prospererebbero soltanto grazie alla presenza del ricorrente ed al suo impegno in favore dei figli. D’altra parte la nozione di famiglia non si ridurrebbe al profilo economico, per cui la Corte d’appello avrebbe trascurato la necessità di assicurare il mantenimento della famiglia quale cellula sociale al cui interno si sviluppa la personalità della prole.Con il secondo motivo il ricorrente principale deduce violazione degli articoli 143 e 146 Cc nonché difetto di motivazione in ordine ad un punto essenziale della controversia.Nel respingere la domanda di addebito la Corte d’appello avrebbe trascurato che nel dedicarsi al meretricio la Bulagna non avrebbe soltanto violato l’obbligo di fedeltà, ma avrebbe tenuto un comportamento incompatibile con il decoro ed il rispetto dell’altro coniuge, obbligo che non viene meno per effetto della separazione.Nel determinare l’assegno di mantenimento la Corte non avrebbe poi tenuto conto che tale assegno non va legato all’attuale reddito dell’onerato,. peraltro erroneamente ritenuto dai giudici d’appello pari a lire 313.352.000 annue, somma che corrisponderebbe invece ai redditi lordi del periodo 1989-97 - ma al reddito all’epoca del
matrimonio, mirando l’assegno a garantire al coniuge ritenuto più debole un tenore di vita pari a quello goduto in costanza di matrimonio. il reddito fiscalmente dichiarato nel 1990 era pari a 13 milioni di lire annui e su di esso gravavano le spese relative al mantenimento dei due figli.Con l’unico motivo del ricorso incidentale la Bulagna deduce violazione dell’articolo 156 Cc nonché contraddittorietà ed illogicità della motivazione. La somma liquidata dalla Corte di merito a titolo di assegno di mantenimento sarebbe del tutto irrisoria rispetto alla reale capacità economica del Massinelli ed al tenore di vita, più che agiato, dei coniugi in costanza di matrimonio ed alla lunga durata del matrimonio stesso.2. Va anzitutto disposta la riunione dei ricorsi, principale ed incidentale, ex articolo 335 Xxx.Xx primo motivo del ricorso principale non è xxxxxxx.Xx ricorrente si duole che la Corte territoriale, nel riformare la sentenza di primo grado e nel respingere la domanda di assegnazione al ricorrente della casa coniugale, abbia ritenuto non sussistere i presupposti per tale assegnazione perché i figli del Massinelli erano ormai maggiorenni ed autosufficienti.L’assegnazione della casa coniugale dovrebbe essere disposta anche in questo caso perché da un lato l’autosufficienza economica dei figli, titolari di autonome attività commerciali, si fonderebbe sulla presenza e guida paterna e dall’altro perché la previsione dell,assegnazione della casa coniugale al genitore con cui convivono i figli sarebbe mirata a garantire il mantenimento dell’unità familiare a prescindere dall’indipendenza economica dei figli, al fine di assicurare la permanenza dell’unità della famiglia, quale valore in sé garantito anche dalla xxxxxxxxxxxx.Xx premesso che il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’articolo 6, comma 6, legge 898/70, ma che nella specie, trattandosi di giudizio di separazione, trova applicazione l’articolo 155, comma 4, Cc, nel testo vigente prima della riforma introdotta dalla legge 54/2006, che dispone che l’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza i e ove sia possibile, al coniuge cui vengono affidati i figli.Nella memoria ex articolo 378 Cpc la controricorrente ha eccepito che nella specie dovrebbe trovare applicazione la nuova disciplina dettata dalla legge 54/2006, ed in particolare l’articolo 155quater Cc, introdotto dalla legge ora citata.L’articolo 155quater, al comma 1 dispone in particolare che «il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio». Ad avviso della controricorrente tale sarebbe la situazione nel caso in esame, perché da anni il Massinelli convivrebbe nella casa coniugale con altra donna da cui avrebbe avuto anche una xxxxxxx.Xx avviso della controricorrente le nuove disposizioni troverebbero immediata applicazione anche nel presente giudizio.L’eccezione è peraltro inammissibile.L’articolo 4, comma 1, della legge 54/2006 stabilisce, infatti, che nei casi in cui il decreto di omologa dei patti di separazione consensuale, la sentenza di separazione giudiziale, di scioglimento, di annullamento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio sia già stata emessa alla data di entrata in vigore della legge, ciascuno dei genitori può richiedere, nei modi previsti dall’articolo 710 del Cpc o dall’articolo 9 della legge 898/70, e successive modificazioni, l’applicazione delle disposizioni della nuova xxxxx.Xx legge 54/2006 non contiene alcuna disposizione che deroghi al principio generale per cui la legge dispone soltanto per l’avvenire, sancito dall’articolo 11 xxxxxxxx.Xx deriva che, qualora sia già stata pronunciata sentenza di separazione, le nuove disposizioni possono trovare applicazione soltanto attraverso un nuovo procedimento nelle forme previste dall’articolo 710 CpcNé può osservarsi che nel caso in esame la sentenza di separazione pronunciata inter partes ed i conseguenti
provvedimenti non sarebbero ancora definitivi, in ragione della pendenza del giudizio di cassazione. in tale giudizio, invero, non può trovare ingresso l’esame di nuove circostanze di fatto, nella specie la convivenza del Xxxxxxxxxx nella casa coniugale con una nuova compagna.3. Tornando ora al primo motivo di ricorso va ricordato che con riferimento all’articolo 155, comma 4, Cc questa Corte ha affermato che in materia di separazione o divorzio, anche nell’ipotesi in cui l’immobile sia di proprietà comune dei coniugi, l’assegnazione della casa familiare resta subordinata all’impresciridibile presupposto dell’affidamento dei figli minori o della convivenza con figli maggiorenni ma economicamente non autosufficienti: diversamente, infatti, dovrebbe porsi in discussione la legittimità costituzionale del provvedimento, il quale, non risultando modificabile a seguito del raggiungimento della maggiore età e dell’indipendenza economica da parte dei figli, si tradurrebbe in una sostanziale espropriazione del diritto di proprietà, tendenzialmente per tutta la vita del coniuge assegnatario, in danno del contitolare (Cassazione 1545/06, est. Di Amato).Il Collegio condivide tale principio, non senza rilevare che l’autosufficienza economica dei figli maggiorenni consente agli stessi, ormai divenuti adulti responsabili, di effettuare le scelte di vita ritenute preferibili, rimanendo nella famiglia di origine ovvero dando vita a famiglie autonome, senza che più occorra intervenire a protezione degli stessi, differentemente da quanto avviene nel caso di prole minorenne o di figli maggiorenni, ma ancora non economicamente autosufficienti.4. Il secondo motivo del ricorso principale è del pari T infondato. Il ricorrente lamenta che la Corte territoriale non abbia considerato che il dedicarsi della Bulagna al meretricio avrebbe leso, al di là dell’infedeltà commessa, il dovere al reciproco rispetto tra i coniugi che permane anche nel caso di separazione, si che avrebbe dovuto essere accolta la domanda di xxxxxxxx.Xx realtà la Corte territoriale ha compiuto, sulla scorta della Ctu esperita, una complessa disamina dei rapporti intercorsi tra i coniugi, ben al di là della mera circostanza dell’infedeltà. Ed è pervenuta, con adeguata motivazione, alla conclusione che la comunione morale e materiale tra i coniugi era venuta meno per fatto riferibile alla condotta di entrambi, sottolineando che sia il Xxxxxxxxxx che la Bulagna si erano resi responsabili di “egocentrismo, desiderio di sopraffazione, aggressività, conflittualità permanente, reciproche infedeltà, prodigalità”. In questo quadro il prostituirsi della Bulagna rappresenta soltanto un episodio, successivo alla separazione, di una situazione di conflittualità e di tensione esasperata, che si spiega, osserva la Corte territoriale, non per motivi di mancanza di reddito, avendo anzi la controricorrente sempre goduto di “un notevole tenore di vita e di varie occasioni di lavoro”.Questa Corte ha ancora di recente affermato che in tema di separazione tra coniugi. l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale ed a maggior ragione un comportamento átremo quale l’abbandonarsi al meretricio) rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, mediante un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale. Pertanto, la riferita infedeltà può essere causa (anche esclusiva) dell’addebito della separazione solo quando risulti accertato che ad essa sia, in fatto, riconducibile la crisi dell’unione, mentre il relativo comportamento (infedele), se successivo al verificarsi di una situazione di
intollerabilità della convivenza, non è, di per sé solo, rilevante e non può, conseguentemente, giustificare una pronuncia di addebito (Cassazione 8512/06, est. Giuliani).Nel caso di specie la Corte territoriale ha dato conto, con adeguata motivazione,che l’unione dei coniugi era entrata in crisi già anteriormente al comportamento censurato che ne rappresentava anzi una xxxxxxxxxxx.Xx poi aggiunto che, come affermato da questa Corte (Cassazione 17710/05, est.
Panzani), il comportamento tenuto dal coniuge successivamente al venir meno della convivenza, ma in tempi immediatamente prossimi a detta cessazione, è privo, in sé, di efficacia autonoma nel determinare l’intollerabilità della convivenza stessa, anche se può rilevare ai fini della dichiarazione di addebito della separazione allorché costituisca una conferma del passato e concorra ad illuminare sulla condotta pregressa, ipotesi quest’ultima che nel caso in esame non ricorre.5. Con ulteriore profilo del medesimo secondo motivo il ricorrente principale censura la sentenza impugnata per aver determinato l’assegno di mantenimento commisurandolo al reddito attualmente percepito dal ricorrente e non a quello goduto, in costanza di matrimonio, vale a dire nel 1990.Tale censura va esaminata insieme all’unico motivo del ricorso incidentale con cui la Bulagna lamenta che la Corte d’appello abbia determinato l’assegno di mantenimento in euro 568,10 disattendendo la domanda di maggior somma. Per pervenire a tale risultato la Corte territoriale ha osservato che il Massinelli gode “di notevoli risorse immobiliari e di un cospicuo reddito”. Ad avviso della ricorrente incidentale la Corte non avrebbe tenuto conto del reddito complessivo percepito dal Massinelli, pur dando atto che dalle indagini compiute erano emersi conti miliardari di cui questi poteva disporre per 11 tramite delle società di cui era titolare.Entrambe le censure vanno disattese, anche se per quanto concerne il ricorso incidentale è pregiudiziale la pronuncia d’inammissibilità.Questa Corte ha affermato che in tema di assegno di mantenimento a favore del coniuge separato privo di adeguati redditi propri, ai sensi dell’articolo 156 Cc, il tenore di vita al quale va rapportato il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente è quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi durante il matrimonio, quale elemento condizionante la qualità delle esigenze e l’entità delle aspettative del richiedente; sicché, ai fini dell’imposizione (e della determinazione) dell’assegno, occorre tener conto dell’incremento dei redditi di uno di essi anche se verificatosi nelle more del giudizio di separazione, in quanto durante la separazione personale non viene meno la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matrimonio e che comporta la condivisione delle reciproche fortune nel xxxxx xxxxx xxxxxxxxxx (Xxxxxxxxxx 00000/00, est. V. Proto; Cassazione 2626/06, est. Giusti) . Di conseguenza correttamente la Corte territoriale ha tenuto conto del reddito attuale del Massinelli, non essendo venuta meno in costanza di separazione,, la solidarietà economica che lega i coniugi.Per altro verso ai fini del riconoscimento del diritto al mantenimento, in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, è necessario che quest~ sia privo di redditi che gli consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio e che sussista una disparità economica fra i due coniugi. Al fine del relativo apprezzamento, da un lato vanno prese in considerazione le complessive situazioni patrimoniali dei soggetti comprensive non solo dei redditi in senso stretto, ma anche dei cespiti di cui essi abbiano il diretto godimento e di ogni altra utilità suscettibile di valutazione economica e dall’altro lato, non è necessaria la determinazione dell’esatto importo dei redditi percepiti, attraverso l’acquisizione di dati numerici, ma è sufficiente un’attendibile ricostruzione delle suddette situazioni complessive, nel rapporto
delle quali risulti consentita l’erogazione, dall’uno all’altro coniuge, di una somma corrispondente alle sue esigenze (Cassazione 3.10.2005, est. Del Core).Nel caso in esame la Corte d’appello ha tenuto conto del cospicuo reddito percepito dal Massinelli e della disponibilità di proprietà immobiliari, pur non potendo quantificare esattamente tale reddito, e sulla base di tali circostanze ha determinato il contributo di xxxxxxxxxxxx.Xx controricorrente, nell’affermare che la Corte d’appello ha fatto corretto riferimento ai risultati delle indagini espletate dalla Guardia di Finanza, ma ha poi determinato l’assegno in una somma non in linea con quanto emerso e valutato, propone, denunciando il vizio di motivazione, una valutazione delle risultanze processuali diversa da quella cui è pervenuta la Corte territoriale e formula, di conseguenza, una censura di’ merito inammissibile in questa sede.6. Il ricorso principale va conseguentemente rigettato, mentre il ricorso incidentale deve essere dichiarato inammissibile.Sussistono giusti motivi, avuto riguardo alla reciproca soccombenza, per dichiarare integralmente compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.PQMLa Corte, riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile l’incidentale.Spese compensate.
-Al fine dell'assegnazione ad uno dei coniugi separati o divorziati della casa familiare, non basta la mera constatazione della convivenza con figli maggiorenni, ma occorre che si tratti della stessa abitazione in cui si svolgeva la vita della famiglia finchè era unita e che i figli maggiorenni conviventi versino, senza loro colpa, in condizione di non autosufficienza economica.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE
(Presidente M. G. Luccioli, Relatore G. V. A. Magno ) SENTENZA 20-01-2006, n. 1198
Svolgimento del processo
1.- Con sentenza depositata il giorno 11/10/2001, il Tribunale di Rimini dichiarò cessati gli effetti civili del matrimonio concordatario fra i signori C.C. e P.I. e, per quanto ancora interessa, riconobbe a quest'ultima un assegno di divorzio di L.
250.000 mensili, rivalutabili, condannando l'ex coniuge anche al pagamento di un quarto delle spese di lite.
2.- Propose appello C.C. per chiedere, in riforma della sentenza impugnata, la revoca della condanna al pagamento dell'assegno di divorzio e di quella sulle spese.
La signora P., costituendosi in giudizio, chiese il rigetto dell'impugnazione proposta ex adverso e spiegò appello incidentale per domandare l'assegnazione della casa coniugale.
3.- Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d'Appello di Bologna, accogliendo entrambi i gravami, revocò la disposizione relativa all'assegno di
divorzio, ma attribuì a P.I., convivente con figlia maggiorenne, l'abitazione nella casa familiare; e compensò integralmente fra le parti le spese di giudizio.
4.- Per la cassazione di tale sentenza C.C. propone ricorso, con un solo motivo, illustrato da memoria, cui resiste P.I. mediante controricorso e proponendo altresì ricorso incidentale, pure con un solo motivo.
Motivi della decisione
5.- Devesi disporre preliminarmente la riunione, ai sensi dell'articolo 335 c.p.c., del ricorso principale e dell'incidentale, siccome proposti contro la stessa sentenza.
6.- Con l'unico motivo del ricorso principale, C.C. censura la sentenza impugnata per violazione della L. 1 dicembre 1970, n. 898, articolo 6, comma 6, come
sostituito dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, articolo 11, nonchè per omessa, insufficiente ed errata motivazione su un punto decisivo della controversia ed omesso esame di documenti e circostanze decisive per la soluzione della lite, con riferimento all'attribuzione della casa coniugale alla ex moglie.
6.1.- Afferma, in particolare, che non sussisterebbe alcun diritto della donna all'assegnazione della casa di proprietà comune di esse parti, sia perchè tale immobile è diverso da quello, tolto in locazione, in cui la famiglia abitò finchè rimase unita sia perchè la figlia ultraventenne convivente con la madre devesi considerare autosufficiente sotto il profilo economico, tanto da non essere destinataria di alcun assegno di mantenimento a carico del padre, come già motivatamente disposto dal Tribunale con decisione coperta dal giudicato.
6.2.- Il motivo di censura suesposto è fondato, sotto entrambi i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione.
6.2.1.- La sentenza impugnala, premesso che l'abitazione nella casa familiare "spetta di preferenza al genitore cui vengono affidati i figli o con il quale i figli convivono oltre la maggiore età", e rilevato che, nel caso di specie, la P. e la figlia maggiorenne Simona - cui il Tribunale non ha riconosciuto alcun diritto al mantenimento da parte del padre - convivono nell'appartamento di proprietà comune degli ex coniugi, ha ritenuto sussistente il presupposto giuridico per l'assegnazione di detta abitazione all'appellata.
6.2.2.- La premessa da cui muove l'argomentazione del Giudice a quo, e la surriferita conclusione, non sono giuridicamente esatte.
Per costante giurisprudenza di questa suprema corte, condivisa dal collegio, sono requisiti imprescindibili, per l'assegnazione della casa "familiare" ad uno dei genitori separati o divorziati, la sussistenza di tale requisito - nel senso (indicato da Cass. nn. 13065/2002, 6706/2000, 12083/1995) di habitat domestico, ossia di luogo degli affetti, degli interessi e delle consuetudini della famiglia durante la convivenza dei suoi membri - e l'affidamento a questo di figli minorenni o la convivenza con figli maggiorenni, incolpevolmente privi di adeguati mezzi autonomi di sostentamento (Cass. nn. 12309/2004, 13736/2003, 4753/2003, 661/2003, 2070/2000, 11030/1997 ed altre).
6.2.3.- La corte bolognese non fornisce alcuna motivazione in ordine alla necessaria sussistenza del primo requisito (carattere di casa "familiare" dell'abitazione assegnata) e, pur notando che il Tribunale aveva respinto la domanda proposta dalla P., diretta ad ottenere dall'ex coniuge un contributo per il mantenimento della figlia maggiorenne convivente, omette di motivare il suo convincimento circa l'esistenza dell'altro presupposto (mancanza incolpevole di autosufficienza economica) per l'assegnazione dell'abitazione.
6.2.4.- Si deve pertanto riaffermare che, al fine dell'assegnazione ad uno dei coniugi separati o divorziati della casa familiare, non basta la mera constatazione
della convivenza con figli maggiorenni, ma occorre che si tratti della stessa abitazione in cui si svolgeva la vita della famiglia finchè era unita e che i figli maggiorenni conviventi versino, senza loro colpa, in condizione di non autosufficienza economica.
7.- Con l'unico motivo del ricorso incidentale, l'impugnata sentenza è censurata per violazione e falsa applicazione della L. 1 dicembre 1970, n. 898, articolo 5, comma 6, (e successive modificazioni), nonchè per omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, consistente nella revoca dell'assegno di divorzio, già stabilito dal Tribunale a favore della P. nella misura di L. 250.000 (pari ad Euro 129,11) mensili.
Sostiene, in definitiva, la ricorrente incidentale che l'applicazione corretta dei criteri legali avrebbe dovuto indurre la Corte d'Appello a confermare il modesto assegno di divorzio riconosciutole dal Tribunale.
7.1.- La corte d'appello asserisce, in merito alla (non) spettanza di detto assegno, che la posizione economica di entrambe le parti era peggiorata in epoca posteriore al divorzio; che, comunque, il diritto ad un pur modesto assegno, astrattamente riconoscibile a favore della P., verrebbe meno in considerazione della condizione economica e patrimoniale dell'obbligato, prossima alla soglia minima di sopravvivenza.
7.2.- Osserva il collegio che l'accoglimento del ricorso principale, relativo all'assegnazione della casa, influisce sulla sentenza impugnata, ai sensi dell'articolo 336 c.p.c., comma 1, nella parte in cui questa esclude la spettanza dell'assegno di divorzio, dovendo il Giudice del rinvio, nel decidere anche a questo proposito, rivalutare l'intera situazione economica e patrimoniale delle parti alla luce della decisione sulla casa.
7.3.- Il ricorso incidentale è, pertanto, assorbito.
8.- Per le ragioni esposte, il ricorso principale deve essere accolto e l'incidentale resta assorbito.
La sentenza impugnata deve essere quindi cassata e la causa deve essere rinviata ad altra sezione della Corte d'Appello di Bologna, che giudicherà uniformandosi ai principi di diritto suespressi (par. 6.2.4, 7.2) e vorrà anche provvedere al regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE
Riunisce i ricorsi. Accoglie il ricorso principale e dichiara assorbito l'incidentale. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Corte d'Appello di Bologna.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 28 novembre 2005.
Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2006.
-Il rifiuto di avere rapporti sessuali per ben sette anni è motivo di addebito della separazione.
Cassazione
Sezione prima civile
Sentenza 23 marzo 2005 n. 6276
Svolgimento del processo
Con sentenza del 30 maggio 2000, il tribunale di Trapani pronunciò la separazione personale dei coniugi Piera N. e Xxxxxxxxx G., addebitandola a quest’ultimo e adottando conseguenti statuizioni in ordine all’affidamento dei figli minori e agli aspetti economici.
Avverso tale sentenza il G. propose appello chiedendo, tra l’altro, nuovamente che la separazione, a lui precedentemente imputata, fosse invece addebitata alla moglie.
Il gravame fu respinto dalla Corte d’appello di Palermo, la quale osservò che, contrariamente a quanto sostenuto con l’atto impugnatorio, il primo giudice aveva tenuto presenti tutte le dichiarazioni rese dall’appellante in sede di interrogatorio formale, ivi compreso il riferimento al comportamento, non certo conforme ai doveri di solidarietà verso il marito, assunto dalla N. quando si era schierata col fratello che aveva accusato il G. di essersi appropriato di somme appartenenti alla Cooperativa edilizia da cui era stato realizzato l’appartamento coniugale e della quale era divenuto presidente. Il tribunale aveva infatti valutato l’atteggiamento della N., ritenendo tuttavia del tutto sproporzionata la reazione del G., rifiutatosi per ben sette anni di intrattenere normali rapporti effettivi e sessuali con la moglie. Adottando tale conclusione, il primo giudice aveva fatto retta applicazione dei consolidati principi, invocati dallo stesso appellante, in materia di addebitabilità della separazione, che impongono di valutare comparativamente i comportamenti dei coniugi al fine di accertare quale dei due sia o se entrambi siano causa efficiente dell’avvenuta separazione. Sempre al contrario di quanto affermato con l’atto di appello, il G., in sede di interrogatorio formale, aveva sostenuto di avere interrotto i rapporti con la moglie proprio in reazione alla condotta di questa, così implicitamente affermando che l’interruzione era stata frutto di una sua precisa determinazione. Pienamente da condividere era l’argomento utilizzato dai primi giudici in ordine alla sproporzione tra il comportamento del marito e la risalente condotta della N., improntata si a mancanza di fiducia, e quindi di solidarietà, nei confronti del coniuge, ma certamente non integrante di per sé una trasgressione grave dei doveri coniugali, tale da sorreggere la pronuncia di addebito.
Contro tale sentenza Xxxxxxxxx G. ha proposto ricorso per Cassazione, sostenuto da un valido motivo. Piera N. resiste con controricorso in seguito illustrato con memoria.
Motivi della decisione
La controricorrente ha dedotto la inammissibilità del ricorso, risultandovi indicato un codice fiscale non corrispondente a quello di parte ricorrente.
Oltre che speciosa, l’eccezione è del tutto inconsistente.
L’errata indicazione del codice fiscale nell’atto introduttivo del giudizio, peraltro non prevista da alcuna disposizione del codice di rito, non può non avere alcun effetto invalidante l’atto medesimo sotto il profilo della identificazione del suo autore. Del resto, anche l’omessa o erronea indicazione dei requisiti di cui all’articolo 143 comma 1 Cpc produce nullità (e non certo inammissibilità) soltanto se comporti l’impossibilità di identificare con sicura certezza il postulante (Cassazione 3745/94, 2895/97). Senza considerare, poi, che qualunque ipotetica nullità dell’atto ricorso, riconducibile a quelle previste e regolate dall’articolo 164 Cpc, comma 1, sarebbe stata nella specie sanata per effetto del raggiungimento dello scopo, identificabile nello svolgimento, da parte della N., di compiute difese nel merito della controversia, per mezzo del tempestivo controricorso.
Con l’unico motivo del ricorso, denunziando la violazione degli articoli 143 e 151 Cpc, il G. lamenta che la corte palermitana, al pari del tribunale, ha omesso di valutare comparativamente i comportamenti dei coniugi aifini della dichiarazione di addebito e valorizzato soltanto alcune delle affermazioni da lui fatte in sede di interrogatorio formale. Da quelle pretermesse si sarebbe potuto evincere che la decisione di interrompere ogni rapporto, anche di natura sessuale, con la moglie, pur continuando i coniugi a vivere sotto lo stesso tetto, era stata determinata dalla condotta di quest’ultima. Facendo venire sono l’affectio maritalis, la consorte aveva, infatti, preso le difese del fratello, che, per difendersi dalle proprie responsabilità gestionali, lo aveva ingiustamente accusato di essersi appropriato di somme appartenenti alla cooperativa edilizia che aveva costruito la casa coniugale. Da nessun atto del giudizio, soggiunge il G., era lecito inferire che l’interruzione dei rapporti sessuali fosse stata frutto di una determinazione unilaterale, e ancor meno da ricollegare a una intrapresa relazione adulterina. Il ricorrente imputa, infine, alla corte territoriale di avere ritenuto offensivo per la moglie l’atteggiamento affettuoso da lui tenuto verso una collega d’ufficio, laddove null’altro era emerso in corso di causa se non che egli era solito viaggiare con la donna per recarsi al posto di lavoro e che in un’occasione aveva ritirato presso l’ufficio postale una raccomandata a lei diretta.
Il motivo appare inammissibile nella sua formulazione, in quanto, nonostante il richiamo formale a vizi di violazione di legge, si risolve in una serie di censure di mero fatto, diretta a contrastare la valutazioni compiute nella sentenza impugnata e a proporre una diversa ricostruzione dei fatti, ed una diversa lettura del materiale probatorio acquisito, del quale si sostiene la idoneità a dimostrare la responsabilità del G. nel fallimento dell’unione coniugale.
In particolare, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, la corte di merito non ha affatto disatteso il consolidato orientamento di questa Corte secondo il quale l’indagine sull’intollerabilità della convivenza deve essere svolta sulla base della valutazione globale e comparativa dei comportamenti di entrambi i coniugi, dacchè la condotta dell’uno non può essere giudicata senza un raffronto con quella dell’altro, e solo tale comparazione consente di riscontrare se e quale incidenza esse abbiano rivestito, nel loro reciproco interferire, nel verificarsi della crsi matrimoniale (vedi, tra le altre, Cassazione 14162/01, 279/00, 2444/99, 7817/97, 3511/94, 961/92). Per vero, il giudice a quo ha avviato e condotto la sua indagine proprio seguendo questa prospettiva. Sennonché egli è arrivato alla ineccepibile conclusione che il comportamento provatamente mantenuto dal G., costituendo lesione alla dignità, di donna e di moglie, della N., e non potendo giustificarsi per l’evidente sproporzione, come atto di ritorsione alla dedotta provocazione dell’altro coniuge, era tale da rendere di per se addebitabile la separazione, sottraendosi, quindi, al giudizio comparativo.
Ciò in applicazione di altro principio su cui questa Suprema Corte è uniformante orientata. E’ stato infatti più volte affermato che nell’ipotesi in cui i fatti accertati a carico di un coniuge integrino violazione di norme di condotta imperative ed inderogabili, in quanto si traducano nell’aggressione a beni e diritti fondamentali della persona, quali l’incolumità e l’integrità fisica, morale e sociale e la dignità dell’altro coniuge, così superando la soglia minima di solidarietà e di rispetto per la personalità del partner, essi sfuggono ad ogni giudizio di comparazione, non potendo in alcun modo essere giustificati come atti di reazione o ritorsione rispetto al comportamento dell’altro (Cassazione 15101/04, 5397/89, 6256/87, 2809/78).
Quindi, la valutazione dei comportamenti dei coniugi effettuata dal giudice a quo
è conforme a diritto non potendosi dubitare che il rifiuto, protattosi per ben sette anni, di intrattenere normali rapporti affettivi e sessuali con il coniuge costituisca gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner e situazione che oggettivamente provoca senso di frustrazione e disagio, spesso causa, per come è notorio, di irreversibili danni sul piano dell’equilibrio psicofisico. Consimile contegno, pertanto, configura e integra violazione del dovere di assistenza morale e materiale sancito dall’articolo143 Cc, nella cui nozione sono da ricomprendere tutti gli aspetti di sostegno nei quali, con riferimento anche alla sfera effettiva, si estrinseca il concetto di comunione; si tratta, peraltro, di un dovere che non può non essere il riflesso precettivo di quel legame sentimentale sul quale realmente può reggersi e prosperare il rapporto di coppia. Ove volontariamente posto in essere, il rifiuto alla assistenza affettiva ovvero alla prestazione sessuale non può che costituire addebitamento della separazione, rendendo impossibile all’altro il soddisfacimento delle proprie esigenze di vita dal punto di vista affettivo e l’esplicarsi della comunione di vita nel suo profondo significato.
Oltre che condotto secondo corretti criteri giuridici, l’iter arqomentativo espresso dal giudice del merito è privo di mende logiche e sorretto da stringente e esaustiva motivazione. Esso sfugge, pertanto, alle censure mosse dal ricorrente che, come anticipato, pretende di sottoporre al sindacato di questa Corte la valutazione della prova istituzionalmente riservata al giudice del merito.
Inammissibile anche sotto altri profili è infine la doglianza riguardante la valenza offensiva asseritamene attribuita dalla corte palermitana all’atteggiamento del G. verso una collega d’ufficio. In proposito, la Corte territoriale, premesso, con argomentazione chiaramente ad abundantiam, che la corrispondente valutazione del primo giudice era sintonica con giurisprudenza di questa Suprema Corte – per la quale la separazione è addebitabile allorquando, in considerazione dei suoi aspetti esteriori, la relazione del coniuge con estranei dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà e comporti quindi offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge – ha solo osservato , in rito, che tale ratio decidendi della pronuncia di prime cure non era stata censurata in modo specifico dal G., limitatosi a rimarcare, con l’atto di gravame, la emersa falsità della circostanza addotta dalla moglie a comprova della relazione extraconiugale (la ricezione a casa della collega di una raccomandata a lei dirett).
In più, la corte palermitana ha ritenuto del tutto in conducente la doglianza formulata dall’appellante dacchè, per la stessa sentenza del tribunale, non era stata raggiunta la prova dell’adulterio.
Ora tale punto della decisione, come detto essenzialmente attinente al rito, e in particolare alla individuazione del devolutum, non è stato censurato con il ricorso dal G., il quale non può riproporre in questa sede la questione relativa alla (presunta) valutazione anche di quell’aspetto dell’atteggiamento tenuto nei confronti del coniuge. Inoltre, la corte territoriale ha posto a base della statuizione di addebitabilità della separazione, quale causa determinante dell’intollerabilità dell’ulteriore convivenza, esclusivamente il comportamento del G., tradottosi nel prolungato rifiuto di avere rapporti sessuali con la moglie, e non certo il contrastante atteggiamento premuroso da costui mantenuto nei confronti di una collega.
Il ricorso va in definitiva dichiarato inammissibile. Le spese del presente grado seguono la soccombenza. P.Q.M.
La Corte, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, liquidate in euro 3.100,00, di cui euro 3.000,00 per onorari
d’avvocato, oltre alla spese generali e agli accessori di legge. Così deciso in Roma il 24 gennaio 2005.
Depositata in cancelleria il 23 marzo 2005.
CONTRATTO DI APERTURA DI CREDITO
TRACCIA
Il costruttore Tizio intende realizzare, su di un suolo di sua proprietà, un complesso immobiliare composto di sei fabbricati, ognuno di cinque piani.
Si reca, quindi, presso la banca Alfa e le comunica che intende assicurarsi l’erogazione della somma di dieci milioni di euro; offre in garanzia il credito di pari somma che egli vanta nei confronti del comune di Roma per lavori precedentemente eseguiti.
La banca è d’accordo a mettere a disposizione la suddetta somma, ma pretende interessi e provvigione, oltre al patto di utilizzare il credito alla scopo di realizzare la predetta costruzione.
Il contratto viene firmato il giorno 20 agosto 2003, con termine previsto il 20 agosto 2005.
Tizio nel 2004 chiede l’erogazione della somma di cinque milioni di euro.
Il 25 agosto 2005, Tizio si vede recapitare una raccomandata con ricevuta di ritorno dalla banca Alfa, in cui gli viene chiesta la restituzione di dieci milioni di euro più gli interessi sul prestito e per la provvigione.
Tizio si reca da un legale.
Il candidato rediga motivato parere sulla questione giuridica proposta
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente era necessario inquadrare giuridicamente il fatto narrato nell’ambito del contratto di apertura di credito, ex art. 1842 c.c., in quanto si tratta di una “messa a disposizione”.
La banca Alfa si obbliga a pagare verso Tizio qualsiasi somma di denaro richiesta, nei limiti dei dieci milioni di euro; dal contratto di apertura di credito, nasce un vero obbligo imposto sulla banca ed il cliente (Tizio) vanta un diritto di credito (in senso tecnico).
La somma per cui si conviene l’apertura di credito può essere usata liberamente (ad esempio per assumere un’obbligazione verso terzi, realizzando, ad esempio, una fideiussione) ovvero entro determinati limiti (e forme), come nel caso di specie (sulla falsariga del mutuo di scopo, da cui l’apertura di credito diverge perché non vi è un trasferimento patrimoniale immediato, ma una messa a disposizione).
Generalmente, si dice che gli atti di utilizzazione non sono atti di esecuzione del contratto di apertura di credito, ma atti autonomi ancorchè collegati al predetto contratto; i prelevamenti da parte del cliente, danno luogo ad un rapporto sostanzialmente di mutuo, per cui il cliente dovrà corrispondere non gli interessi di fido, ma quelli tipici dei prestiti; id est, per il denaro prestato effettivamente vi
saranno interessi come quelli del mutuo, mentre per la restante somma messa a disposizione, ma non effettivamente erogata vi saranno interessi più bassi (detti di fido).
Nel caso di specie, allora, Tizio sarà tenuto a restituire la somma prelevata pari a cinque milioni, con l’aggiunta degli interessi sulla somma prelevata (interessi corrispondenti a quelli del mutuo classico, perché con il prelievo il cliente realizza sostanzialmente un mutuo, collegato con l’apertura di credito); la provvigione, invece, andrà applicata alla sola somma restante (cinque milioni di euro) a titolo di corrispettivo per il servizio della “messa a disposizione”.
Alcune differenze tra apertura di credito e figure molto simili andrebbero ricordate:
-l’apertura di credito differisce dal mutuo, come visto, in quanto il secondo non comporta una messa a disposizione di una somma di denaro, ma un effettivo pagamento al momento della conclusione del contratto, tanto che si tratta di un contratto reale (mentre l’apertura di credito è contratto obbligatorio);
-l’apertura di credito differisce dalla promessa di mutuo, in quanto il primo è un contratto definitivo e non preliminare e, inoltre, ha come scopo finale non il trasferimento di una somma di denaro o di altro bene fungibile, ma solo la creazione a favore dell’accreditato di una disponibilità che quest’ultimo può anche non utilizzare, senza che il contratto venga meno;
-l’apertura di credito differisce dal mutuo consensuale, perché questo contratto, autonomo rispetto al mutuo, obbliga il mutuatario a prendere la somma stabilita, mentre l’accreditato non ha alcun obbligo di prelevamento.
Si consiglia di leggere la sentenza che segue, seppur non attinente al caso preso in esame per la redazione del parere.
-Il contratto di apertura di credito, qualora risulti già previsto e disciplinato da un contratto di conto corrente stipulato per iscritto, non richiede la stipula per iscritto a pena di nullità.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA
SENTENZA 09-07-2005, n. 14470
(Presidente U. R. Panebianco, Relatore X. Xxxxxxx)
Svolgimento del processo
Il Fallimento della s.p.a. (omissis) conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Napoli il Monte dei Paschi di Siena s.p.a. proponendo azione revocatoria delle rimesse di conto corrente effettuate dalla società fallita sul conto corrente
intrattenuto presso la banca convenuta nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento per il complessivo importo di lire 1.704.575.482.
Radicatosi il contraddittorio il Tribunale di Napoli con sentenza 3.3.2000 accoglieva la domanda, condannando la banca convenuta al pagamento della somma predetta a favore della curatela, oltre interessi e spese.
Su appello del Monte dei Paschi di Siena la Corte d'appello di Napoli con sentenza 8.3.2002 confermava la sentenza di primo grado.
Osservava la Corte che la banca appellata non aveva provato che il conto corrente fosse affidato e che pertanto le rimesse effettuate non fossero revocabili perchè effettuate nei limiti dell'affidamento. Ciò perchè la scheda degli affidamenti e l'estratto notarile dei libri contabili, prodotti dalla banca, non sostituivano la forma scritta richiesta ad substantiam per il contratto di apertura di credito nè il contratto poteva ritenersi provato per facta concludentia. Le scritture contabili prodotte dalla banca, inoltre, non avevano efficacia probatoria privilegiata ai sensi dell'art. 2710 c.c. essendo il curatore terzo rispetto al contratto stipulato dalla società fallita.
Le rimesse effettuate da terzi sul conto, nella specie dalle U.S.L., non potevano essere considerate pagamenti del terzo, perchè si trattava di terzi debitori della fallita, che avevano provveduto al pagamento di un loro debito nei confronti di quest'ultima e non della banca. Sussisteva infine la prova della scientia decoctionis del Monte dei Paschi di Siena, perchè la banca, quale operatore qualificato, non poteva non essere consapevole dello stato d'insolvenza in presenza di elementi sintomatici quali l'iscrizione d'ipoteca sui beni della società fallita da parte di un creditore in forza di decreto ingiuntivo, l'iscrizione sui beni stessi di sequestro conservativo, la presenza di perdite superiori al terzo del capitale sociale, il notevole sbilancio tra crediti e debiti, la relazione ad uso interno della banca in cui si dava atto della crisi di liquidità della società a fronte della mera "speranza" di ottenere un'inversione di tendenza in futuro, lo stesso irregolare andamento del conto corrente, sintomatico della carenza di liquidità. Ha proposto ricorso per cassazione il Monte dei Paschi di Siena che ha formulato sei motivi di ricorso. Resiste con controricorso la curatela del Fallimento che ha proposto ricorso incidentale con unico motivo, illustrato da memoria,
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso (motivo 1.1.) la ricorrente lamenta violazione dell'art. 11 disp. prel. c.c. Ritenendo che il contratto di apertura di credito in virtù del quale era stato concesso affidamento a favore della società fallita fosse regolato dagli artt. 3 legge 154/92 e 117 t.u.b., la Corte d'appello non avrebbe considerato che i rapporti tra banca e cliente risalivano almeno al 1990 e quindi a data anteriore all'entrata in vigore delle disposizioni citate, che non potevano avere efficacia retroattiva in ragione del generale principio d'irretroattività della legge sancito dall'art. 11 disp. prel. c.c..
Con il secondo motivo (motivo 1.2) la banca ricorrente lamenta violazione degli artt. 3, comma 3, legge 154/92 e 117 t.u.b. nonchè difetto di motivazione ed omessa e falsa interpretazione delle prove acquisite su punti decisivi della controversia, perchè la sentenza impugnata avrebbe trascurato che, in forza del terzo comma dell'art. 3 legge 154/92 e del decreto 24.4, 1992 del Ministro del Tesoro, oltre che della circolare del maggio 1992 della Banca d'Italia, la forma scritta non era obbligatoria per le operazioni e servizi giàprevisti in contratti redatti per iscritto. Nella specie il contratto di apertura di credito era previsto dal contratto di conto corrente stipulato tra le parti in forma scritta, sì che il contratto di apertura di credito non richiedeva la forma scritta.
Con il terzo motivo di ricorso (motivo 2.1) la banca ricorrente deduce violazione degli artt. 2698 e 2710 c.c. Contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello il libro fidi, da cui risultava un affidamento sino a concorrenza di 400 milioni a favore della società fallita, avrebbe efficacia probatoria privilegiata. Inoltre ai sensi dell'art. 8 delle n.b.u. che regolano il contratto di conto corrente, i libri e le scritture contabili della banca fanno piena prova nei confronti del correntista.
Deduce ancora (motivo 2.2)violazione degli artt. 2727, 2729, 2733 c.c. in relazione agli artt. 1326 e 1327 nonchè 1842 e 1843 c.c. Se era vero guanto affermato dalla Corte d'appello, che il libro fidi provava soltanto una deliberazione interna della banca in ordine alla concessione di fido, non ancora tradottasi in volontà negoziale con l'accettazione del correntista accreditato, i giudici d'appello avrebbero dovuto ricercare la prova dell'intervenuta pattuizione, rinvenendola nell'andamento del conto, documentato dagli estratti conto che costituirebbero prova diretta del contratto di apertura di credito, conclusosi nei modi di cui all'art. 1327 c.c., in ragione del dimostrato utilizzo della provvista messa a disposizione della banca tramite il fido concesso.
Con il quarto motivo di ricorso (motivo 3) la ricorrente deduce violazione dell'art. 67 l. fall. perchè in ragione del fido accordato le rimesse sul conto dovevano considerarsi meri atti di ripristino della provvista, privi di efficacia solutoria. I versamenti inoltre non erano revocabili perchè effettuati da terzi senza alcuna lesione della par condicio creditorum.
Con il quinto motivo di ricorso la banca ricorrente lamenta contraddittorietà di motivazione su un punto decisivo della controversia perchè, volendo qualificare i versamenti dei terzi come pagamenti effettuati a favore del fallito e non della banca, e quindi come atti revocabili, la revocatoria andava esperita nei confronti del terzo e non della banca che si era limitata ad espletare il servizio di cassa a favore della società fallita, sua correntista.
Con il sesto motivo la ricorrente lamenta insufficienza e contraddittorietà di motivazione su un punto decisivo della controversia. Nel ritenere sussistente la prova della scientia decoctionis in capo alla banca, la Corte d'appello avrebbe ignorato l'andamento del conto, da cui risultava che la banca aveva continuato ad erogare credito, anche dopo che il saldo passivo si era sensibilmente ridotto, in una situazione che avrebbe giustificato la revoca dell'affidamento se effettivamente vi fosse stata consapevolezza dello stato di dissesto in atto. Anche l'annotazione per uso interno di un funzionario della banca non poteva essere letta come dimostrazione di tale consapevolezza. Con l'unico motivo del ricorso incidentale la curatela lamenta violazione dell'art. 92 e dell'art. 360 n. 5 c.p.c. La Corte d'appello nel condannare la banca appellante al pagamento delle spese di lite ha sensibilmente ridotto l'importo dei diritti ed onorari, oltre che delle spese liquidate, distaccandosi senza alcuna motivazione dagli importi indicati nella nota spese della parte, redatta ai sensi dell'art. 75 disp.att. c.p.c..
Il primo motivo di ricorso (motivo 1.1.) è inammissibile. Esso si fonda infatti sull'eccezione che il rapporto tra le parti risalirebbe almeno al 1990, che è eccezione nuova, mai formulata nei precedenti gradi di giudizio. Va anzi sottolineato che le rimesse oggetto di revoca risalgono al periodo 21 marzo 1994 - 30 settembre 1994, mentre le delibere di concessione di fido invocate da parte ricorrente si riferiscono, secondo le allegazioni di parte ricorrente non contestate dalla controricorrente curatela, al 19.4.1994 ed all'11.5.1994.
Il secondo (1.2), terzo (2.1 e 2.2.) e quarto motivo (3) di ricorso possono essere esaminati congiuntamente in quanto trattano questioni connesse. Afferma la ricorrente che la Corte territoriale nel ritenere che il contratto di apertura di
credito debba essere stipulato per iscritto a pena di nullità, così come richiesto prima dall'art. 3 della legge 154/92 e successivamente dall'art. 117 t.u.b., avrebbe trascurato che in forza del terzo comma dell'art. 3 legge 154/92 e del decreto 24.4.1992 del Ministro del Tesoro, oltre che della circolare del maggio 1992 della Banca d'Italia, la forma scritta non era obbligatoria per le operazioni e servizi già previsti in contratti redatti per iscritto. Nella specie il contratto di apertura di credito era regolato nel suo contenuto normativo dal contratto di conto corrente stipulato tra le parti in forma scritta, si che tale ultima forma non era richiesta anche per la sua stipulazione. Aggiunge poi che nel caso in esame, pur se si doveva concordare con la Corte d'appello nel rilevare che il libro fidi prodotto in atti dimostrava soltanto l'esistenza di una deliberazione interna della banca con cui questa aveva deliberato di concedere un affidamento alla società fallita, dal libro fidi e dalle scritture contabili della banca, oltre che dagli estratti conto comprovanti le movimentazioni del conto corrente, si sarebbe ricavata la prova, per facta concludentia e dunque ex art. 1327 c.c., dell'avvenuta stipulazione del contratto di apertura di credito, in ragione del dimostrato utilizzo della provvista messa a disposizione della banca tramite il fido concesso, l'art. 117 t.u.b. stabilisce al primo comma, con riferimento ai contratti bancari, che i contratti sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti, prevedendo al terzo comma, la nullità del contratto in caso d'inosservanza della forma prescritta. Tuttavia il secondo commadella norma dispone che il CICR (Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio) può prevedere che, per motivate ragioni tecniche, particolari contratti possano essere stipulati in altra forma. L'art. 3, comma 3, legge 154/92 prevedeva analogamente che "su conforme delibera del CICR, la Banca d'Italia può dettare, per motivate ragioni tecniche, particolari modalità per la forma dei contratti relativi a determinate categorie di operazioni e di servizi".
Parte ricorrente afferma che in ragione del decreto 24.4, 1992 del Ministro del Tesoro, oltre che della circolare del 24 maggio 1992 della Banca d'Italia (in G.U. 30 maggio 1992, n. 126), emessa in attuazione di detto decreto, la forma scritta non era obbligatoria per le operazioni e servizi già previsti in contratti redatti per iscritto. La Banca d'Italia era facoltizzata dal decreto del Ministro del Tesoro, che si era sostituito per ragioni d'urgenza al CICR a mente dell'art. 6 D.L. 691/47, ad individuare "modalità particolari per i contratti relativi a operazioni e servizi che si innestano su rapporti preesistenti originati dai contratti redatti per iscritto".
La circolare precisava che la forma scritta non era obbligatoria "... per operazioni e servizi già previsti in contratti redatti per iscritto". Nel caso di specie, ha osservato la ricorrente, il contratto di conto corrente disciplinava compiutamente il contratto di apertura di credito, sì che tale ultimo contratto non doveva essere necessariamente stipulato per iscritto a pena di nullità.
Va osservato che il decreto 24.4.1992 del Ministro del Tesoro e la circolare 24 maggio 1992 della Banca d'Italia erano state emanate in forza del terzo comma dell'art. 3 legge 154/1992. Anche dopo l'entrata in vigore del t.u. bancario, tuttavia, tali norme erano rimaste in vigore ai sensi dell'art. 161 del testo unico, che nell'abrogare insieme ad altre disposizioni la legge 154/1992 (ad eccezione dell'art. 10 che qui non interessa) stabiliva che "Le disposizioni emanate dalle autorità creditizie ai sensi di norme abrogate o sostituite continuano a essere applicate fino alla data di entrata in vigore dei provvedimenti emanati ai sensi del presente decreto legislativo".
In seguito la Banca d'Italia provvide ad emanare, sempre in esecuzione del decreto del Ministro del Tesoro del 24.4.1992, nell'ambito delle Istruzioni di vigilanza, nuove disposizioni che nel ribadire la regola generale secondo la quale "I contratti
relativi alle operazioni e ai servizi sono redatti per iscritto ed un loro esemplare deve essere consegnato ai clienti", prevedevano che: "La forma scritta non è tuttavia obbligatoria b) per operazioni e servizi già previsti in contratti redatti
per iscritto", regolando poi ulteriori ipotesi di esenzione che qui non interessano (cfr. Banca d'Italia, Istruzioni di vigilanza, - Parte 2^ - cap. 5^ - Trasparenza delle condizioni e dei servizi finanziari - agosto 1996).
La delibera 4.3.2003 del C.I.C.R., nel dettare la nuova disciplina della trasparenza delle condizioni contrattuali delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, abrogando ai sensi dell'articolo 161, comma 5, del testo unico bancario, il decreto del Ministro del tesoro 24 aprile 1992 già citato, ha poi successivamente stabilito, per quanto attiene alla forma dei contratti, che "La Banca d'Italia può individuare forme diverse da quella scritta per le operazioni e i servizi effettuati sulla base di contratti redatti per iscritto, nonchè per le operazioni e i servizi, oggetto di pubblicità ai sensi della presente delibera, che hanno carattere occasionale ovvero comportano oneri di importo contenuto per il cliente".
In virtù di tale disciplina le istruzioni di vigilanza della Banca d'Italia, nel testo attualmente in vigore (risalente al luglio 2003) al Titolo 10^, capo 1^, n. 2, stabiliscono che:
2. Forma dei contratti.
I contratti sono redatti per iscritto e un esemplare, comprensivo delle condizioni generali di contratto, è consegnato al cliente. La consegna è attestata mediante apposita sottoscrizione del cliente sull'esemplare del contratto conservato dalla banca.
Nel caso di inosservanza della forma prescritta il contratto è nullo; la nullità può essere fatta valere solo dal cliente.
La forma scritta non è obbligatoria:
a) per le operazioni e i servizi effettuati in esecuzione di previsioni contenute in contratti redatti per iscritto; ".
La sentenza impugnata ha affermato che sulla base della disciplina di legge (art. 3 legge 154/1992 e art. 117 t.u.b.) il contratto di apertura di credito deve essere redatto per iscritto a pena di nullità e che a nulla rilevano eventuali disposizioni meno restrittive emanate in via amministrativa dalla Banca d'Italia. Tale affermazione non può essere condivisa. Le norme emanate dal CICR (nel 1992 in xxx x'xxxxxxx, xx xxx xxxxxxxxxxxx, xxx Xxxxxxxx xxx Xxxxxx) e dalla Banca d'Italia completano ed integrano la norma di legge, in virtù di una facoltà espressamente prevista dalla legge stessa. Non si tratta pertanto di atti amministrativi illegittimi perchè contra legem, ma di atti a contenuto ed efficacia normativi, emanati dal CICR e dall'Autorità di vigilanza nell'esercizio di unpotere espressamente loro attribuito dal legislatore. Tali norme integrano il precetto legislativo e, nei limiti consentiti dalla legge stessa, vi derogano, con la conseguenza che hanno natura di atti normativi, sia pur non di rango primario e debbono pertanto essere conosciute d'ufficio dal giudice, secondo il principio iura novit curia. E' quindi irrilevante che la Circolare 24.5.1992 della Banca d'Italia e il decreto del Ministro del Tesoro non siano stati prodotti in giudizio da parte della Banca ricorrente, come ha eccepito la curatela.
E' stato osservato in dottrina che, ai sensi dell'art. 3, primo comma, legge n. 154/92 la deroga alla forma scritta poteva avvenire solo per motivate ragioni tecniche, mentre la Banca d'Italia nella già ricordata circolare non aveva tenuto conto di tale limite. Si era aggiunto che la lettera della legge consentiva alla Banca d'Italia di stabilire "particolari modalità per la forma dei contratti relativi a determinate categorie di operazioni e di servizi". Anche il decreto 24.4.1992 del
Ministro del Tesoro prevedeva che la Banca d'Italia potesse individuare "modalità particolari" per i contratti relativi ad operazioni e servizi che si innestano su rapporti preesistenti originati da contratti redatti per iscritto. Tali modalità, si era detto, non potevano giungere sino alla totale soppressione della forma scritta, perchè in tal modo, di fatto, il contenuto della legge veniva svuotato. Tali rilievi, che già apparivano non convincenti alla luce della ratio legis, rappresentata dalla necessità di assicurare la regolarità dei traffici in situazioni in cui, per le particolari modalità della contrattazione, non poteva esigersi il rispetto della forma scritta, possono considerarsi sostanzialmente superati alla luce del disposto dell'art. 117, comma 2, t.u.b., già in vigore all'epoca in cui sarebbero stati posti in essere i contratti di apertura di credito per cui è causa. La norma, infatti, dispone, come già si è ricordato che "il CICR può prevedere che, per motivate ragioni tecniche, particolari contratti possano essere stipulati in altra forma", chiarendo quindi, in armonia con la ratio legislativa, che la deroga consentita al CICR ed all'Autorità di vigilanza permette di derogare all'obbligo della forma scritta.
Anche l'omessa menzione nel provvedimento del Ministro del Tesoro e nella circolare della Banca d'Italia, come nei provvedimenti che si sono susseguiti successivamente, dell'indicazione delle "motivate ragioni tecniche" che giustificano la deroga alla forma scritta, sia ai sensi dell'art. 3 della legge 154/92 che dell'art. 117 t.u.b., non può essere considerata fonte d'illegittimità dei provvedimenti in parola, perchè l'onere di motivazione può ritenersi assolto con l'individuazione del tipo di contratto e la precisazione che esso deve riferirsi ad operazioni e servizi già individuati in contratti stipulati per iscritto.
Dal 1992 a tutt'oggi le disposizioni della Banca d'Italia, a tanto autorizzata dal CICR, hanno sempre previsto, pur nel variare dei testi normativi, che non fosse richiesta la forma scritta per i contratti relativi ad operazioni e servizi già previsti in contratti redatti per iscritto, tra cui il contratto di conto corrente, in base alla considerazione che costituisce sufficiente garanzia per il cliente che il contenuto normativo del contratto sia redatto per iscritto, mentre poi la sua concreta stipulazione, alle condizioni riportate nel contratto scritto, potrà avvenire in altra forma nel rispetto delle esigenze di celerità ed operatività che taluni tipi di contratti esigono. Venendo al caso di specie, è pacifico in causa che il contratto di apertura di credito era disciplinato dal contratto scritto di conto corrente in essere tra le parti, si che non può in nessun modo condividersi l'affermazione della sentenza impugnata che ha ritenuto che i contratti di apertura di credito che la banca ricorrente pretende che sarebbero stati stipulati tra le parti, sarebbero nulli per difetto di forma scritta. La sentenza impugnata ha peraltro escluso che parte ricorrente abbia provato la sussistenza di un contratto orale di apertura di credito. Nel venire ai rilievi con cui parte ricorrente censura le conclusioni cui è pervenuta la Corte d'appello, occorre osservare che questa Corte ha più volte affermato che le rimesse sul conto corrente dell'imprenditore poi fallito sono suscettibili di revocatoria fallimentare soltanto nell'ipotesi in cui il conto, all'atto della rimessa, risulti "scoperto" (intendendosi tale sia il conto nonassistito da apertura di credito che presenti un saldo a debito del cliente, sia il conto scoperto a seguito di sconfinamento dal fido convenzionalmente accordato al correntista). In siffatta situazione, secondo la distribuzione dell'onere probatorio prefigurata dall'art. 67 legge fall., alla curatela spetta la dimostrazione della sussistenza della rimessa, della sua effettuazione nel periodo "sospetto" e della "scientia decoctionis" del correntista, da parte della banca; mentre questa ha l'onere di provare, per escludere la natura "solutoria" del versamento, sia l'esistenza, alla data di questo, di un contratto di apertura di credito, sia l'esatto ammontare dell'affidamento accordato
al correntista alla medesima data, non essendo sufficiente, a tali ultimi fini, la produzione della "scheda degli affidamenti" e dell'estratto notarile del "libro fidi" della banca, qualora il contenuto di detti documenti sia contestato dalla curatela e, comunque, gli stessi non abbiano un significato congruo rispetto al fatto da dimostrare (Sez. 1^, 23.6.1994, n. 6031, rv. 487167). Nel caso di specie la Corte di merito ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte, osservando che per provare l'esistenza del contratto di apertura di credito non costituivano prova sufficiente la disponibilità della banca a concedere il fido, comprovata dalla deliberazione interna relativa alla concessione del fido registrata sul libro fidi. Ha poi escluso che la tolleranza di fatto all'uso dell'affidamento costituisse prova sufficiente dell'avvenuta stipulazione del contratto, osservando che la ricorrente aveva dedotto l'esistenza del contratto di apertura di credito soltanto con la comparsa conclusionale nel giudizio di primo grado ed aveva inizialmente affermato, davanti al giudice di primo grado, che l'importo dell'affidamento era di 200 milioni di lire, per poi sostenere in appello, senza alcuna spiegazione, che tale importoera invece di 400 milioni.
In conclusione la Corte ha valutato tutte le circostanze indicate dalla ricorrente come prova dell'avvenuta stipulazione del contratto di apertura di credito per facta concludentia, giusta la regola dettata dall'art. 1327 c.c., ed in particolare la tolleranza di fatto nell'utilizzo dell'affidamento risultante dalla movimentazione del conto comprovata dagli estratti conto prodotti in giudizio. Ha peraltro ritenuto con valutazione ampiamente argomentata, alla luce del comportamento processuale della ricorrente, e come tale incensurabile in questa sede, che la banca non avesse fornito la prova richiesta della sussistenza del contratto di apertura di credito ed in particolare dell'ammontare del fido accordato, circostanza questa sufficiente ad escludere il carattere ripristinatorio delle rimesse.
I tre motivi vanno pertanto rigettati.
Il quinto motivo del ricorso principale è manifestamente infondato e dunque inammissibile. La Corte d'appello ha qualificato le rimesse provenienti da terzi (USL) affluite sul conto corrente come pagamenti effettuati dai terzi in favore del fallito e non della banca, escludendo che vi fosse stato il pagamento da parte del terzo di un debito della società fallita verso la banca stessa. Ha conseguentemente affermato la natura solutoria della rimessa, che era valsa a ridurre il saldo passivo del conto scoperto. Afferma la ricorrente che avendo essa espletato il servizio di cassa in ragione della convenzione di conto corrente, i versamenti del terzo dovrebbero essere oggetto di revoca nei confronti di chi ha eseguito il pagamento. E' peraltro evidente da un lato che nessuna azione revocatoria può configurarsi nei confronti del terzo in ragione della sua qualità di solvens, che ha provveduto al pagamento di un debito del fallito, e dall'altro che l'espletamento del servizio di cassa non esclude, per le considerazioni in precedenza svolte, il carattere solutorio della rimessa, effettuata su conto scoperto, e dunque la sua revocabilità. Il sesto motivo è inammissibile.
La sentenza impugnata ha argomentato la sussistenza della scientia decoctionis da un complesso di elementi atti a fornire la prova presuntiva della consapevolezza da parte della banca della sussistenza dello stato d'insolvenza della società fallita. In sintesi i giudici d'appello hanno considerato l'iscrizione d'ipoteca sui beni della società fallita in forza di decreto ingiuntivo da parte di un creditore, l'iscrizione sui beni stessi di sequestro conservativo per opera di altro creditore, la presenza di perdite superiori al terzo del capitale sociale, il notevole sbilancio tra crediti e debiti, la relazione ad uso interno della banca in cui si dava atto della crisi di liquidità della società a fronte della mera "speranza" di ottenere un'inversione di
tendenza in futuro, lo stesso irregolare andamento del conto corrente, sintomatico della carenza di liquidità. Nel lamentare il vizio di motivazione in ordine alla scientia decoctionis la ricorrente da un lato non considera il complesso di elementi probatori valutati dalla Corte di merito, accentrando le sue censure su alcuni di essi soltanto (la portata dell'annotazione del funzionario proponente la concessione di fido, redatta a fini interni della banca, l'andamento del saldo debitore del conto e la mancanza di un rientro della banca nonostante il ridursi di tale saldo). Dall'altro lungi dal mettere in rilievo la presunta contraddittorietà ed insufficienza di motivazione della sentenza impugnata, pretende di sostituire alla valutazione delle risultanze probatorie compiute dalla sentenza una diversa valutazione, formulando quindi una censura inammissibile in questa sede.
Il ricorso incidentale della curatela è inammissibile. Nel dolersi che la Corte di merito abbia disatteso le risultanze della nota spese, la curatela si è limitata ad indicare il totale degli onorari, dei diritti di procuratore e degli esposti riportati in nota spese ed a lamentare che la sentenza impugnata si sia discostata da tali importi senza motivare in proposito. Questa Corte ha più volte affermato che il giudice non può discostarsi nella liquidazione delle spese dalle somme indicate nella nota spese depositata in atti, allo scopo di consentire, l'accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti ed alle tariffe, in relazione alla inderogabilità dei relativi minimi, a norma dell'art. 24 della legge n. 794 del 1942 (Cass., sez. Lavoro, 1.8.2003, n. 11483).
E' pertanto indispensabile che il ricorrente indichi le varie voci che compongono la nota spese e non soltanto i totali, con la conseguenza che in difetto il ricorso incorre nel vizio di genericità e va pertanto dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la prevalente soccombenza e vanno pertanto poste a carico della ricorrente principale, liquidate in euro 15.000 per onorari ed euro 100 per spese, oltre spese generali ed accessorie come per legge.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale. Condanna la ricorrente principale alle spese, che liquida in euro 15.100, di cui euro 15.000 per onorari, oltre spese generali ed accessorie come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 19 aprile 2005.
Depositato in Cancelleria il 9 luglio 2005.
DOLO OMISSIVO
TRACCIA:
Tizio è un imprenditore che gode di una discreta fama presso vari istituti di credito.
Tizio, un giorno, avendo bisogno di un prestito particolarmente cospicuo, si reca presso la banca Truffield, diretta da Xxxxxxx.
Xxxxxxx, dopo una breve chiacchierata con Tizio, decide di concedergli il prestito richiesto, soprattutto alla luce della buona fama di cui gode.
Dopo un mese dal prestito, Xxxxxxx viene a sapere che Tizio, al momento del prestito, era già in fase di fallimento.
Xxxxxxx, a causa della reticenza di Tizio sul proprio stato patrimoniale, ritiene di aver perso diversa liquidità che, laddove avesse avuta la disponibilità, di certo l’avrebbe investita in altri affari ovvero l’avrebbe prestata ad altre persone.
Xxxxxxx si reca da un legale.
Il candidato individui gli strumenti di tutela favorevoli al proprio assistito.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE
In premessa poteva essere utile riassumere sinteticamente il fatto. Successivamente, poteva essere affrontato il cuore del problema: Xxxxxxx che strumenti di tutela può vantare contro Tizio?
E’ possibile ipotizzare un dolo omissivo da parte di Tizio, causativo di danno? Invero, il dolo, xx xxx. 0000 x.x., xxx xxxxxx xxx xxxxxxxx (xx dice qualcosa di falso o, comunque, diverso dalla realtà) che tacito-omissivo (realizzato attraverso reticenze); in questo caso, le reticenze (secondo la giurisprudenza recente e parte della dottrina più accreditata sul punto) devono essere gravi, fraudolentemente sottaciute dall’agente, tali che, ove sapute, il contraente debole non avrebbe, di certo, concluso il contratto, ovvero lo avrebbe concluso a condizioni diverse.
Tizio, nel caso di specie, ha sottaciuto il suo fallimento al solo scopo di avere un prestito da Xxxxxxx, consapevole di sottacere un aspetto importantissimo ai fini della conclusione del contratto, violando anche principi generali di correttezza e buona fede nell’ambito della trattativa che precede la conclusione di ogni contratto; inoltre, Tizio sapeva, verosimilmente, di godere di una discreta fama verso i vari istituti di credito, così che ben sapeva che la comunicazione del suo fallimento avrebbe reso più complicata la conclusione dell’affare.
Tizio, in sostanza, ha volontariamente sottaciuto il proprio fallimento fraudolentemente al fine di riuscire agevolmente a concludere il contratto, avente ad oggetto il prestito, con Xxxxxxx.
Si tratta, quindi, di un dolo omissivo, idoneo a giustificare l’annullamento del contratto intercorso tra Xxxxxxx e Tizio.
Inoltre, Xxxxxxx ha subito dei danni, in quanto ha dovuto rinunciare ad una certa liquidità (che avrebbe potuto investire in altri affari ovvero prestare a terzi), con la conseguenza che ben potrà agire anche con un’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c., oltre che con l’azione di annullamento.
In questo senso, pertanto, Xxxxxxx potrà vantare come strumento di tutela della sua posizone giuridica illecitamente lesa, sia l’azione di annullamento che la collegata azione aquiliana.
Si consiglia di leggere le sentenze che seguono.
-Il contraente il cui consenso risulti viziato da dolo può bene richiedere giudizialmente il risarcimento del danno conseguente all’illecito della controparte lesivo della libertà negoziale, sulla base della generalissima
previsione in tema di responsabilità aquilana di cui all’articolo 2043 Cc (discutendosi di condotta anteriore e prodromica alla formazione dell’in idem placitum consensum), a prescindere dalla contemporanea proposizione della domanda di annullamento del contratto ai sensi del citato articolo 1439 Cc
CASS. CIV.- SEZ. I- 19 settembre 2006, n. 20260 – Pres. Proto – est. Napoleoni
Svolgimento del processo
Il Banco di Sicilia Spa - sulla premessa che i coniugi Xxxxxxxx Xxxxxxxxxxx e Xxxxx Xxxxxxx avevano
chiesto ed ottenuto, negli anni 1988 e 1989, due concessioni di credito (qualificate come “prestiti fiduciari”), tacendo che il Ronsisvalle era stato dichiarato fallito con sentenza del Tribunale di Siracusa del 7 luglio 1981; e che successivamente la banca istante era stata convenuta in giudizio dalla curatela fallimentare per la dichiarazione di inefficacia, ex articolo 44 legge fallimentare, dei pagamenti eseguiti dal Ronsisvalle in relazione ai predetti prestiti – otteneva dal Presidente del Tribunale di Catania un sequestro conservativo in danno dalla Colombo fino alla concorrenza della somma di lire 12.000.000. La misura cautelare, disposta con decreto del 14 gennaio 1991, veniva eseguita lo stesso giorno mediante trascrizione su un immobile sito in Paternò.
Il Banco di Sicilia instaurava quindi il giudizio per la convalida del sequestro e la condanna della Colombo al risarcimento dei danni per quanto la banca attrice avesse dovuto eventualmente restituire alla curatela fallimentare; giudizio nel quale la convenuta si costituiva, contestando la fondatezza della domanda.
In corso di causa, il Banco di Sicilia veniva condannato dal Tribunale di Siracusa, con sentenza dell’8 novembre 1993, passata poi in giudicato, al pagamento in favore del fallimento Ronsisvalle della somma di lire 5.000.000, oltre interesse della domanda, nonché al rimborso delle spese giudiziali, liquidate in lire 2.000.000.
Il Tribunale di Catania, con sentenza del 5 maggio 1998, rigettava tuttavia la domanda risarcitoria della banca, revocando conseguentemente il sequestro conservativo. I primi giudici ritenevano insussistente, nel caso di specie, la violazione dell’articolo 95 della legge bancaria del 1938 (Dl 75/1936, convertito in legge 141/38, e successive modificazioni), denunciata dal Banco di Sicilia, rilevando come detta disposizione, nel sottoporre a pena i fatti cosiddetti mendacio bancario, facesse riferimento a comportamenti di tipi esclusivamente commissivo e attenesse, altresì, alle sole concessioni di credito a favore di aziende. Osservava inoltre il Tribunale che non v’era neppure prova che la Colombo, all’atto della richiesta, fosse stata a conoscenza dell’avvenuta dichiarazione di fallimento del marito.
Avverso la decisione proponeva appello il Banco di Sicilia.
Nel giudizio di appello si costituivano, chiedendo il rigetto del gravame, Xxxxxxxx e Rosa Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx, quali figli ed eredi legittimi della Colombo, deceduta già nel corso del giudizio di primo grado (il 18 settembre 1997), senza peraltro
che tale vento interruttivo fosse stato dichiarato dal suo difensore.
A seguito di ordine di integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri figli ed eredi legittimi della Colombo, la banca appellante chiamava nel processo anche Rosario ed Xxxxx Xxxxxxxxxxx, i quali rimanevano contumaci.
Con sentenza del 6 aprile 2002, in parziale accoglimento del gravame, la Corte d’appello di Catania condannava i Ronsisvalle, ciascuno pro quota ereditaria, al pagamento in favore del Banco di Sicilia della somma di euro 6.861,13, oltre interessi legali.
La Corte territoriale rilevava che la banca appellante aveva bensì dedotto, in prime cure, che la condotta della Colombo – consistita nell’aver dolosamente taciuto l’avvenuto fallimento del marito al fine di ottenere concessioni di credito – comportava, “tra l’altro”, la violazione dell’articolo 95 della legge bancaria del 1938, ma che da ciò non poteva affatto desumersi che essa avesse inteso fondare unicamente su detta norma penale la propria pretesa risarcitoria. Quest’ultima poteva essere, di contro, agevolmente ricondotta – così come sostenuto nell’atto di appello – alla generale previsione in tema di illecito civile di cui all’articolo 2043 Cc, con operazione di semplice qualificazione giuridica della domanda che escludeva la configurabilità della preclusione ex articolo 345 Cpc, eccepita dagli appellati.
A prescindere, pertanto, dal rilievo che gli argomenti in base ai quali il Tribunale aveva escluso la violazione del citato articolo 95 della legge bancaria del 1938 non potevano essere condivisi – dato che,per un verso, la denunciata omissione della Colombo si era inserita in una condotta sostanzialmente commissiva, consistente nell’esporre alla banca una situazione personale e familiare non rispondente al vero; e, per altro verso, la norma incriminatrice in parola non riguarderebbe la sola concessione di credito ad azienda (come potrebbe desumersi dalla formula alternativa “per sé o per le aziende che amministra”, ivi contenuta) – la domanda risarcitoria risultava comunque meritevole di accoglimento in base al citato generale precetto dell’articolo 2043 Cc, essendosi in presenza di una condotta dolosa causativa di ingiusto pregiudizio. Al riguardo, la Corte di merito rilevava, infatti, come la conoscenza da parte della Colombo dell’avvenuta dichiarazione di fallimento del marito – che il Tribunale aveva ritenuto non provata – non fosse stata, in realtà, mai contestata dalla convenuta, risultando quindi sostanzialmente incontroversa, e comunque desumibile in via presuntiva a fronte della quotidiana comunanza di vita tra i coniugi.
La Corte d’appello escludeva, per contro, che potesse trovare accoglimento la domanda di convalida dell’eseguito sequestro conservativo, trattandosi di misura cautelare che, in quanto autorizzata anteriormente all’entrata in vigore del Dl 571/94 convertito in legge 673/94, aveva perduto efficacia in forza dell’articolo 4 comma 5 del citato Dl stante la dichiarata inesistenza, ad opera della sentenza impugnata, del diritto a cautela del quale essa era stata concessa, senza che a diversa conclusione potesse pervenirsi in ragione del fatto che l’efficacia esecutiva di tale sentenza era stata sospesa in limine del giudizio di appello con ordinanza presidenziale del 15 giugno 1988.
Dichiarata, quindi, l’inefficacia del sequestro, la Corte territoriale condannava comunque i Ronsisvalle alle spese del doppio grado del giudizio “per la parte concernente il merito”, escludendo – stante la marginalità della statuizione concernente la mancata convalida del sequestro e tenuto conto delle relative motivazioni – che sussistessero ragioni per un diverso regolamento delle spese stesse, al di là dell’esclusione del rimborso di quelle correlabili alla predetta misura cautelare.
Avverso la decisione proponeva ricorso per cassazione Xxxxxxxx Xxxxxxxxxxx, sulla base di quattro motivi.
Resisteva il Banco di Sicilia con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale condizionato sulla base di un unico motivo, illustrato da successiva memoria.
Con ordinanza dell’11 gennaio 2006, questa Corte ordinava, ai sensi dell’articolo 331 Cpc, l’integrazione del contraddittorio nei confronti di Rosa Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx ed Xxxxx Xxxxxxxxxxx – che erano stati parti del giudizio di appello ed ai quali non risultavano tuttavia notificati né il ricorso principale né quello incidentale – stante la loro qualità di litisconsorti necessari per ragioni processuali in quanto eredi della parte originaria deceduta nel corso del giudizio di primo grado.
Provvedeva all’incombente il solo ricorrente principale, mentre il Banco di Sicilia depositava memoria illustrativa aggiuntiva.
Motivi della decisione
1. Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell’articolo 335 Cpc, in quanto proposti contro la medesima sentenza.
2. Con il primo motivo del ricorso principale il Ronsisvalle denuncia violazione, falsa ed erronea applicazione dell’articolo 102 Cpc, rilevando come, a seguito dell’ordinanza della Corte d’appello di Catania del 9 giugno 2000 – con la quale era stata ordinata l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri eredi della Colombo, diversi dai già costituiti Xxxxxxxx e Rosa Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx – l’appellante Banco di Sicilia avesse notificato l’atto di integrazione ai soli Rosario ed Xxxxx Xxxxxxxxxxx, e non pure ai xxxxxxx Xxxxxxxx e Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxxx, anch’essi figli ed eredi legittimi della Colombo, secondo quanto poteva desumesi dal relativo stato di famiglia.
3. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione, falsa ed erronea applicazione dell’articolo 345 Cpc, assumendo che la Corte d’appello di Catania non avrebbe potuto accogliere la domanda risarcitoria del Banco di Sicilia basata sull’articolo 2043 Cc, trattandosi di titolo pretensivo fatto valere per la prima volta in appello, in violazione del principio di immutabilità della domanda, secondo quanto peraltro già formalmente eccepito nel detto grado di giudizio.
4. Con il terzo motivo il Ronsisvalle lamenta violazione, falsa ed erronea applicazione dell’articolo 2043 Cc, nonché omessa ed insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, censurando che la Corte territoriale abbia basato l’accoglimento della domanda risarcitoria unicamente sulla citata disposizione del Cc, del tutto diversa da quella invocata in prime cure dal Banco di Sicilia – che aveva fatto riferimento, in tale sede, esclusivamente all’articolo 95 della legge bancaria del 1938 – trasformando, inoltre, sulla base di semplici presunzioni, il comportamento della Colombo, da meramente omissivo, qual era, in sostanzialmente commissivo, senza compiere ulteriori valutazioni sulle risultanze istruttorie al fine di verificare la concreta riconducibilità di detto comportamento all’ambito di operatività dell’articolo 2043 Cc.
5. Con il quarto motivo il Ronsisvalle denuncia violazione, falsa ed erronea applicazione dell’articolo 91 Cpc, censurando che la Corte di merito abbia posto a carico degli appellati le spese dei due gradi di giudizio, ancorché la domanda della banca appellante fosse stata accolta solo in parte, con il rigetto del capo riguardante la convalida del sequestro conservativo.
6. Il primo motivo del ricorso principale è inammissibile.
Il difetto del contraddittorio per violazione del litisconsorzio necessario, non costituendo un’eccezione in senso proprio, può essere rilevato d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio e dedotto per la prima volta anche nel giudizio di legittimità. In quest’ultimo caso, tuttavia, la relativa eccezione può essere formulata soltanto alla duplice condizione che gli elementi di fatto posti a fondamento della stessa emergano, con ogni evidenza, dagli atti già ritualmente acquisiti nel giudizio di merito, senza quindi la necessità di nuove prove e dello svolgimento di ulteriore attività istruttoria, non consentite in sede di legittimità, e che sulla questione non si sia formato il giudicato (ex plurimis Cassazione 10649/04, 12462/03, 11415/03, 593/01). In particolare, non è ammessa nel giudizio di cassazione la produzione di un nuovo documento per dimostrare la necessità di integrazione del contraddittorio nei precedenti gradi del processo, poiché tale documento non riguarda l’ammissibilità del ricorso o del controricorso e neppure la nullità della sentenza impugnata (articolo 372 Cpc) (Cassazione 2478/87).
Nella specie, non può tenersi dunque alcun conto dello “stato di famiglia” di Xxxxxxxx Xxxxxxxxxxx rilasciato dal Comune di Catania il 27 luglio 2002 – posteriormente, dunque, al deposito della sentenza impugnata – prodotto dal ricorrente Xxxxxxxx Xxxxxxxxxxx a sostegno dell’assunto della necessità di integrare il contraddittorio, in grado di appello, anche nei confronti di Xxxxxxxx e Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxxx, quali figli ed ulteriori eredi legittimi della defunta Xxxxx Xxxxxxx, originaria convenuta.
Né, d’altra parte, l’esistenza di tali ulteriori eredi emerge con ogni evidenza dagli atti ritualmente acquisiti nel giudizio di merito – cui questa Corte ha accesso, a fronte della deduzione di un error in procedendo – giacché, al contrario, nel certificato anagrafico del luglio 1998, prodotto in grado di appello, sulla cui base la Corte d’appello di Catania dispose l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli eredi della Colombo non volontariamente intervenuti, i predetti Xxxxxxxx e Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxxx non figuravano.
7. Il secondo motivo è infondato.
Come correttamente rilevato dalla Corte territoriale il Banco di Sicilia aveva allegato, a fondamento della propria domanda risarcitoria, la mancata comunicazione ad opera della Colombo – in occasione della duplice richiesta di concessione di credito presentata assieme al marito – dell’avvenuta dichiarazione di fallimento di costui: circostanza che, ove conosciuta dalla banca, l’avrebbe senz’altro indotta a respingere la richiesta stessa.
Nell’atto di citazione in primo grado – cui questa Corte ha nuovamente accesso diretto, stante la natura del vizio denunciato – la banca aveva bensì dedotto che il denunciato comportamento implicava “anche” una violazione dell’articolo 95 della legge bancaria del 1938, in tema di mendacio bancario: formula che rendeva peraltro palese come l’attrice non intendesse affatto basare solo su tale disposizione, di natura penale, la propria istanza risarcitoria.
Il motivo di appello – poi accolto, in parte qua, della Corte territoriale – con cui la banca, a fronte della pronuncia a sé sfavorevole del Tribunale (motivata con l’asserita non configurabilità, nella specie, dell’anzidetta ipotesi criminosa), aveva sottolineato che le “responsabilità civilstiche” che essa appellante aveva inteso far valere “nascono genericamente dalle norme sui principi di buona fede contrattuale e dal disposto dell’articolo 2043 Cc in materia di risarcimento per fatto illecito”, non implicava dunque affatto la proposizione di una domanda nuova, ma si limitava ad esplicitare la qualificazione giuridica della domanda, già trasmessa al
giudice in prime cure tramite la prospettazione dei relativi fatti costitutivi.
8. Anche il terzo motivo è infondato.
L’istanza risarcitoria della banca poggia, in effetti, sulla deduzione di una fattispecie riconducibile al paradigma del dolo omissivo causam dans: il consenso alla stipulazione dei contratti di mutuo per cui è causa sarebbe stato infatti carpito dall’originaria convenuta grazie alla dolosa reticenza su una circostanza decisiva (articolo 1439 Cc).
In tali termini, la domanda è pienamente ammissibile: il contraente il cui consenso risulti viziato da dolo può bene richiedere giudizialmente il risarcimento del danno conseguente all’illecito della controparte lesivo della libertà negoziale, sulla base della generalissima previsione in tema di responsabilità aquilana di cui all’articolo 2043 Cc (discutendosi di condotta anteriore e prodromica alla formazione dell’in idem placitum consensum), a prescindere dalla contemporanea proposizione della domanda di annullamento del contratto ai sensi del citato articolo 1439 Cc (Cassazione 921/80, 2445/68).
Quanto, poi, alla effettiva configurabilità del denunciato vizio del consenso, è principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che la reticenza o il silenzio possano integrare il dolo omissivo, ma solo qualora il comportamento passivo si inserisca in una condotta che si configuri, in rapporto alle circostanze e al complesso del contegno che determina l’errore del deceptus, quale malizia o astuzia volta a realizzare l’inganno perseguito (ex plurimis, Cassazione 9253/06, 2104/03, 6757/01, 8295/94).
Tanto premesso, si deve osservare come il motivo di ricorso in esame risulti, nella sua prima articolazione, meramente ripetitivo del precedente, tornando il ricorrente a dolersi della pretesa estraneità della disposizione di cui all’articolo 2043 Cc al titolo giuridico invocato dalla banca in prime cure a fondamento della domanda: allegazione della quale si è già acclarata l’infondatezza.
Con la seconda parte del motivo, si censura invece che la Corte territoriale abbia “trasformato” la condotta della Colombo da meramente omissiva in commissiva “sulla base di semplici presunzioni”, “omettendo ogni altra valutazione sulle risultanze istruttorie al fine di fare rientrare” la condotta stessa “nell’ambito di operatività dell’articolo 2043 Cc”.
La doglianza non ha peraltro pregio, giacché la Corte d’appello ha motivato la propria conclusione con la considerazione che il silenzio serbato dalla convenuta in ordine alla circostanza de qua si era maliziosamente inserito in una condotta complessivamente commissiva volta a conseguire un risultato che sarebbe stato altrimenti negato ai richiedenti, consistente segnatamente nel rappresentare una situazione personale e patrimoniale dei medesimi non rispondente al vero. A fronte di tale assorbente rilievo, non interessa dunque in questa sede verificare se sia condivisibile o meno l’ulteriore affermazione della Corte territoriale – che integra una mera argomentazione ad abundantiam – stando alla quale la condotta in parola, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, integrerebbe comunque anche una violazione dell’articolo 95 della legge bancaria.
Per il resto, la censura si palesa affatto generica, dato che il ricorrente non indica – in violazione dei principi di specificità ed autosufficienza del ricorso per cassazione – di quali altre “risultanze istruttorie” la Corte territoriale avrebbe omesso di tenere conto nel formulare il giudizio dianzi ricordato.
Giova solo aggiungere, per completezza, come il Ronsisvalle non abbia formulato censure sul punto relativo alla mancata valutazione, da parte della Corte territoriale, della eventuale colpa della banca (anche in riferimento alla previsione dell’articolo 1338 Cc) nel non essersi avveduta, a mezzo dei propri canali
informativi, dello status di fallito del Ronsisvalle (al riguardo, nel seno che nell’ipotesi di dolo, tanto commissivo che omissivo, gli artifici, i raggiri, la reticenza o il silenzio debbono essere valutati in relazione alle particolari circostanze di fatto e alle qualità e condizioni soggettive dell’altra parte, onde stabilire se fossero idonei a sorprendere una persona di normale diligenza, per tutte, Cassazione, 20792/04). Con la conseguenza che tale profilo resta estraneo all’odierno thema decidendum.
9. Il quarto motivo è parimenti infondato.
La Corte territoriale ha motivato, infatti, in modo del tutto logico e congruente la statuizione sulla spese, rilevando come, a fronte dell’integrale accoglimento della domanda risarcitoria, la domanda di convalida del sequestro, oltre a risultare “marginale”, non fosse stata comunque accolta solo per factum principis (la sopravvenienza del Dl 571/94).
10. Il ricorso principale va quindi conclusivamente rigettato.
11. Il ricorso incidentale condizionato inammissibile, non avendo il Banco di Sicilia provveduto alla sua notificazione a Xxxx Xxxxxxx, Rosario ed Xxxxx Xxxxxxxxxxx, specificamente richiesta da questa Corte, a fini di integrazione del contraddittorio, con l’ordinanza interlocutoria dell’11 gennaio 2006 (ex plurimis Cassazione 5125/00).
12. Le spese processuali relative al contraddittorio ed alle successive difese del Banco di Sicilia, liquidate come in dispositivo, vanno poste a carico del Ronsisvalle in base al principio della soccombenza, senza che possa assumere rilievo – ai fini di una eventuale compensazione, totale o parziale – la declaratoria di inammissibilità del ricorso incidentale, il quale, per il suo carattere condizionato, sarebbe rimasto comunque assorbito dal rigetto del ricorso principale.
PQM
La Corte riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso principale; dichiara inammissibile il ricorso incidentale, condanna Xxxxxxxx Xxxxxxxxxxx al rimborso delle spese processuali in favore del Banco di Sicilia Spa, liquidate in euro 2600 (di cui euro 100 per esborsi ed euro 2500 per onorari) oltre spese generali ed accessori di legge.
-Il dolo omissivo può essere causa di annullamento del contratto solo quando l’inerzia di uno dei contraenti si inserisca in un complesso comportamento, adeguatamente preordinato con malizia o astuzia a realizzare l’inganno a danno dell’altro contraente
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE II CIVILE
Sentenza 20 aprile 2006, n. 9253
(Presidente M. Spadone, Relatore X. Xxxxxxxxx) Svolgimento del processo
Il 10.12.1991 L.A.M. in proprio e quale procuratrice di L.M. e C.M.A. vendeva ad
D.A. l'appartamento al piano seminterrato sito in (OMISSIS), Via (OMISSIS), avente autonomo accesso dalla strada, contraddistinto con il civico (OMISSIS). A seguito di contestazioni insorte con i venditori l'acquirente proponeva nei confronti di questi ultimi dinanzi al Tribunale di Roma tre distinti giudizi successivamente riuniti.
Con il primo il D. deduceva l'esistenza di numerosi vizi dell'immobile, consistenti in particolare nella assoluta mancanza di manutenzione della rete fognaria che aveva provocato, nell'agosto 1993, il crollo del muro di contenimento ed il conseguente smottamento nel proprio giardino di diversi metri cubi di terreno; aggiungeva che le precarie condizioni statiche del manufatto erano state oggetto di un precedente giudizio, risalente al 1987, tra il Condominio confinante di (OMISSIS) e quello di (OMISSIS), e che quest'ultimo, a seguito del crollo, aveva provveduto ai relativi lavori di ripristino per una spesa complessiva di L.
117.850.000.
Il D. asseriva che le gravi carenze dell'immobile lo avevano reso inidoneo all'uso cui il bene era destinato e comunque avevano pregiudicato il godimento di esso, che i venditori gli avevano dolosamente taciuto la reale situazione del bene e che tale comportamento si configurava da un lato come violazione del dovere di buona fede nello svolgimento delle trattative e dall'altro integrava gli artifici ed i raggiri di cui all'art. 1439 c.c.; sulla base di tali premesse chiedeva la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni subiti, l'annullamento per dolo del Contratto di compravendita o la sua risoluzione ai sensi dell'art. 1492 c.c., o ai sensi dell'art. 1453 c.c..
Con il secondo giudizio il D. proponeva opposizione avverso il decreto emesso il 6.5.1994 con il quale il Presidente del Tribunale di Roma gli aveva ingiunto il pagamento dell'importo di L. 68.765.000 corrispondente al residuo prezzo che l'acquirente si era obbligato a versare ai venditori mediante accollo del mutuo che essi avevano stipulato con la Banca Popolare di Milano; il D. adduceva a sostegno della opposizione le stesse circostanze esposte nel precedente giudizio.
Infine con atto di citazione notificato il 27/29.12.1994 il D. conveniva in giudizio i L. e la C. chiedendone la Condanna al pagamento della somma di L. 18.524.960 versata a titolo di oblazione per sanare gli abusi edili perpetrati dai venditori e chiedendo la declaratoria di nullità del Contratto per incommerciabilità del bene ai sensi della L. n. 47 del 1985 o comunque la sua risoluzione per inadempimento dei venditori.
Si costituivano in tutti i suddetti giudizi i convenuti chiedendo il rigetto delle domande attrici.
Con sentenza del 16.3.1999 l'adito Tribunale respingeva le domande proposte dal D..
Proposto gravame da parte del D. cui resistevano L. A.M., L.M. e C.M.A. la Corte di Appello di Roma con sentenza del 18.9.2001 ha respinto l'impugnazione.
La Corte Territoriale ha rilevato anzitutto che dalla documentazione in atti era risultato che in data 16.2.1961 anche in relazione all'unità immobiliare sita al piano seminterrato dell'edificio, all'epoca destinata ad uso ufficio, era stato rilasciato il certificato di abitabilità; tale circostanza, secondo l'assunto del Giudice di Appello comportava l'irrilevanza della diversa destinazione (deposito) prevista nel progetto approvato, cosicchè ad essa doveva farsi riferimento al fine di valutare le conseguenze derivanti dalla intervenuta utilizzazione del bene ad uso abitativo; orbene, poichè il mutamento in questione non era stato accompagnato dalla esecuzione di specifiche opere, doveva concludersi per
l'inesistenza sotto questo profilo, della nullità L. n. 47 del 1985, ex articoli 17 e 40.
La Corte Territoriale ha poi aggiunto che l'incommerciabilità del bene ai sensi della L. n. 47 del 1985 doveva essere esclusa anche per quanto concerneva l'intervenuto frazionamento, posto che non era emerso che la realizzazione di due distinte unità immobiliari fosse stata eseguita in epoca successiva al 2.9.1967, considerato che solo in tale evenienza ai sensi dell'art. 40 della legge menzionata l'atto avrebbe dovuto richiamare gli estremi del provvedimento amministrativo. La sentenza impugnata inoltre ha confermato altresì il rigetto della domanda di annullamento della compravendita stipulata tra le parti sia sotto il profilo di cui all'art. 1439 c.c. sia come dolo incidente, osservando da un lato che non poteva ritenersi che il silenzio tenuto dai venditori in merito alla denuncia di danno temuto proposta nei confronti del Condominio di (OMISSIS) dal confinante Condominio di (OMISSIS) svariati anni prima della conclusione del Contratto di compravendita fosse stato intenzionalmente diretto a trarre in inganno l'acquirente in ordine alle condizioni dell'immobile, e dall'altro che l'appellante non aveva indicato alcuno specifico elemento dal quale potesse desumersi che l'eventuale conoscenza della circostanza avrebbe influito sulla determinazione volitiva del D.. Per la cassazione di tale sentenza il D. ha proposto un ricorso affidato a sette motivi cui L.A.M. ed C.A. hanno resistito con controricorso; L.M. non ha svolto attività difensiva in questa sede; le parti hanno successivamente depositato delle memorie.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione degli articoli 1453 - 1460 1476 - 1477 c.c.; L. n. 47 del 1985, artt. 17 e 40 nonchè vizio di motivazione. Con il secondo motivo il D.deduce violazione dell'art. 116 c.p.c. e vizio di motivazione.
Con le enunciate censure il ricorrente sostiene che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che, premessa la destinazione ad uso ufficio dell'immobile per cui è causa, la sua effettiva utilizzazione ad uso abitativo non era stata accompagnata dall'esecuzione di specifiche opere rilevanti ai fini di una declaratoria di nullità L. n. 47 del 1985, ex articoli 17 e 40 ed aggiunge che neppure può essere condiviso l'assunto in ordine alla commerciabilità del bene suddetto nonostante l'avvenuto frazionamento.
Il D. rileva in senso contrario che dalla espletata Consulenza Tecnica di Ufficio erano emersi abusi edilizi consistenti nel frazionamento, nel cambio di destinazione d'uso con esecuzione di opere e nell'aumento di superficie utile e di cubatura; inoltre il Giudice di Appello non ha valutato le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio formale dalle convenute C.M.A. ed L.A., le quali avevano ammesso che l'immobile per cui è causa e l'appartamento soprastante erano stati uniti negli anni 70 con una scala interna successivamente eliminata, cosicchè i due appartamenti erano stati divisi ed abitati separatamente con la costruzione di una scala esterna.
Le enunciate censure, da esaminare contestualmente, sono infondate. Anzitutto la sentenza impugnata, pur dando atto dell'intervenuto mutamento di destinazione dell'immobile in questione rispetto a quella prevista nel progetto
approvato (deposito) e della effettiva utilizzazione dello stesso ad abitazione, ha rilevato che tale mutamento non era stato accompagnato dalla esecuzione di opere specifiche, ed ha aggiunto, sulla scia di quanto già affermato dal Giudice di primo grado, che non poteva escludersi che l'aumento di cubatura riscontrato dal Consulente Tecnico d'Ufficio fosse riconducibile allo stesso D., che aveva
realizzato cospicui lavori di ristrutturazione del bene; contrariamente all'assunto del ricorrente, quindi, il Giudice di Appello ha preso in esame gli elementi emergenti dalla Consulenza Tecnica d'Ufficio, ma li ha diversamente valutati offrendo una logica motivazione di tale convincimento.
La Corte Territoriale ha inoltre escluso una incommerciabilità dell'immobile L. n. 47 del 1985, ex art. 40, per effetto dell'intervenuto frazionamento, rilevando in proposito l'assenso di una prova in ordine alla realizzazione di due distinte unità immobiliari in epoca successiva al 2.9.1967, ed evidenziando invece la circostanza che alla data del 6.5.1970 l'appartamento al piano internato e quello sovrastante già costituivano due distinte unità immobiliari, come tali indicate nell'atto di acquisto concluso dai L. con la venditrice R.; pertanto tale ultima considerazione, non oggetto di specifica censura in questa sede, ha implicitamente indotto la Corte Territoriale a ritenere irrilevanti altri elementi di eventuale segno contrario, in conformità del principio secondo cui spetta al Giudice di merito attingere il proprio convincimento da quelle risultanze probatorie che ritenga più attendibili ed idonee alla formazione dello stesso; al riguardo è sufficiente, al fine della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, che da questa risulti che il convincimento si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti considerati nel loro complesso, pur senza una esplicita confutazione degli altri elementi non menzionati o non accolti anche se allegati, perchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, a quelli utilizzati, come appunto nella fattispecie.
Con il terzo motivo il ricorrente, denunciando violazione dell'art. 1460 c.c. nonchè vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto, sulla base dell'avvenuto rilascio nel 1961 di un certificato per la destinazione ad uso ufficio dell'immobile per cui è causa, che in realtà tale certificato consentisse l'uso del bene come casa di abitazione.
Il ricorrente assume invece che si era in presenza della avvenuta vendita di un bene destinato ad uso ufficio e non ad abitazione, come pattuito, circostanza che integrava la vendita di aliud pro alio o, in ogni caso, legittimava una eccezione ex art. 1460 c.c., invero regolarmente sollevata dall'esponente a seguito della opposizione a decreto ingiuntivo di cui al secondo dei tre giudizi sopra menzionati e successivamente riuniti.
La censura è fondata.
Il Giudice di Appello, nell'aderire al convincimento del Tribunale di Roma, che aveva rigettato la domanda proposta dal D. di risoluzione della compravendita stipulata tra le parti per la mancata consegna della licenza di abitabilità, ha ritenuto che la accertata destinazione ad uso ufficio a far data dal 16.2.1961 dell'immobile in questione costituiva la prova dell'avvenuto rilascio del certificato di abitabilità.
Orbene tale affermazione non può essere condivisa in quanto la ritenuta equivalenza tra destinazione di un immobile ad uso ufficio e destinazione ad uso abitativo contrasta con lo scopo peculiare della licenza di abitabilità nella vendita di immobili destinati ad abitazione, costituendo un elemento che caratterizza il bene in relazione alla sua capacità di assolvere una determinata funzione economico - sociale e, quindi, di soddisfare i concreti bisogni che hanno indotto l'acquirente ad effettuare l'acquisto (Cass. 20.1.1996 n. 442), non vi è dubbio quindi che il certificato di abitabilità, in relazione alla sua evidenziata funzione, assicura il legittimo godimento e la commerciabilità del bene destinato ad abitazione (e non quindi ad uso ufficio), cosicchè la sua mancata consegna, determinando l'acquisto di un bene che presenta problemi di commerciabilità,
implica un inadempimento che, sebbene non sia tale da dare necessariamente luogo alla risoluzione del contratto, può comunque essere fonte di un danno risarcibile (Cass. 19.7.1999 n. 7681); nè a diverse conclusioni può giungersi sulla base del rilievo del Giudice di primo grado, cui la Corte Territoriale sembra aver aderito, della concreta utilizzazione del bene ad uso abitativo da parte dei precedenti proprietari e dello stesso D., posto che tale circostanza è irrilevante (vedi in tal senso Cass. 3.7.2000 n. 8880), non incidendo sulla ridotta commerciabilità dell'immobile.
Con il quarto motivo il ricorrente, deducendo violazione degli articoli 1439 e 1440 c.c., nonchè vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver respinto la domanda di annullamento del Contratto di vendita stipulato tra le parti per dolo.
Il D. afferma che tale domanda era basata su tre diverse circostanze, poichè i venditori avevano taciuto l'esistenza di un contenzioso sorto prima del 1981 con il Condominio confinante riguardante la pericolosità del muro di confine successivamente crollato, l'esecuzione di opere abusive e l'avvenuto rilascio della licenza di abitabilità solo per uso ufficio, si era quindi in presenza di un illecito comportamento dei venditori diretto a trarre in inganno l'acquirente, determinandolo a porre in essere una attività negoziale che, senza il dolo, non avrebbe compiuto o avrebbe compiuto a condizioni diverse.
La censura è infondata.
Il Giudice di Appello, nel disattendere la domanda proposta dal D. ex articoli 1439 e 1440 c.c., ha escluso che il silenzio tenuto dai venditori in merito alla denuncia di danno temuto proposta nei confronti del Condominio di Via (OMISSIS) dal confinante Condominio di (OMISSIS) diversi anni prima della conclusione del Contratto di compravendita stipulato tra le parti fosse stato intenzionalmente diretto a trarre in inganno l'acquirente in ordine alle condizioni dell'immobile, ed inoltre ha aggiunto che l'appellante non aveva indicato alcun elemento specifico dal quale potesse desumersi che l'eventuale conoscenza della menzionata circostanza avrebbe influito sulla determinazione volitiva del D.; a tale riguardo la sentenza impugnata ha anzi evidenziato che una simile conseguenza appariva in contrasto con il cospicuo valore attribuito all'immobile nel Contratto, destinato ad essere limitatamente inciso da eventuali lavori che fossero stati eseguiti sul muro condominiale al fine di assicurarne la stabilità.
Orbene tali rilievi, non oggetto di specifiche censure da parte del ricorrente, sono decisivi soprattutto per quanto attiene alla mancata deduzione da parte dell'appellante di alcun elemento concreto dal quale potersi evincere che, qualora egli avesse conosciuto le sopra evidenziate circostanze, non avrebbe concluso il Contratto o avrebbe comunque preteso di stipulare a condizioni diverse.
In linea di diritto deve invero assumersi che, pur potendo il dolo omissivo viziare la volontà e determinare l'annullamento del Contratto, tuttavia esso rileva a tal fine solo quando l'inerzia della parte contraente si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia od astuzia, a realizzare l'inganno perseguito;
pertanto il semplice silenzio, anche su situazioni di interesse della controparte, e la reticenza, non immutando la rappresentazione della realtà, ma limitandosi a non contrastare la percezione di essa alla quale sia pervenuto l'altro contraente, non costituiscono causa invalidante del Contratto (Cass., 18.10.1991 n. 11038; Cass.
11.10.1994 n. 8295); la reticenza ed il silenzio quindi non sono sufficienti a costituire il dolo se non in rapporto alle circostanze ed al complesso del contegno che determina l'errore del "deceptus", che devono essere tali da configurarsi quali
malizia o astuzia volte a realizzare l'inganno perseguito (Cass. 12.2.2003 n. 2104). Orbene nella fattispecie il D., cui incombeva il relativo onere probatorio, non ha dedotto tutti gli elementi necessari ad integrare il preteso dolo omissivo dei venditori con riferimento sia al contesto sopra evidenziato nel quale il silenzio da essi tenuto avrebbe dovuto inserirsi per essere rilevante, sia alla idoneità del silenzio stesso sulle circostanze sopra dedotte dal ricorrente ad incidere sulla determinazione volitiva dell'acquirente.
Con il quinto motivo il ricorrente, denunciando violazione degli articoli 1490 - 1492 - 1494 e 1495 c.c. nonchè vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver rigettato la domanda di garanzia per i vizi che caratterizzavano l'immobile, non avendo considerato che la denuncia di tali vizi, essendo essi occulti, non era necessaria, e che l'azione relativa era stata tempestivamente esercitata il 17.2.1994.
La censura è infondata.
La Corte Territoriale ha rigettato il motivo di appello al riguardo proposto dal D. sulla base del rilievo dell'avvenuta maturazione del termine annuale di prescrizione, decorrente dalla consegna della casa, entro il quale deve essere esercitata l'azione di garanzia per i vizi, posto che la consegna dell'immobile era avvenuta il 10.12.1991 contestualmente alla stipula dell'atto di compravendita, e la suddetta azione era stata proposta allorchè il suddetto termine era ampiamente trascorso.
Orbene tale "ratio decidendi" sufficiente a sorreggere il convincimento espresso dal giudice di Appello, non è stata specificatamente censurata in questa sede, cosicchè il motivo in esame deve essere disatteso.
Con il sesto motivo il ricorrente, deducendo violazione degli articoli 1490 - 1492 - 1494 c.c. e L. n. 47 del 1985, art. 31, comma 3, nonchè vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver inspiegabilmente rigettato la domanda di rimborso delle spese sostenute per ottenere la sanatoria di alcune opere abusive eseguite dai venditori sull'immobile per cui è causa.
La censura è inammissibile.
Come emerge dalla sentenza impugnata, il Giudice di primo grado aveva rigettato la domanda suddetta per la mancanza di prove in ordine alla realizzazione di opere abusive da parte dei venditori nell'appartamento in questione; orbene, pur avendo il D. con l'atto di appello chiesto la condanna delle controparti al rimborso per la evidenziata causale della somma di L. 13.507.200 (vedi conclusioni riportate nella epigrafe della sentenza impugnata), la Corte Territoriale non si è pronunciata al riguardo; tuttavia il ricorrente con il motivo in esame non denuncia in proposito la violazione dell'art. 112 c.p.c., ma deduce inammissibilmente l'omessa motivazione sul mancato accoglimento della domanda, in realtà non esaminata dal Giudice di Appello.
Con il settimo motivo il ricorrente, deducendo violazione dell'art. 96 c.p.c. e vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver condannato l'esponente al pagamento delle spese di giudizio in misura eccessiva e punitiva.
Il motivo resta ambito per effetto dell'accoglimento del terzo motivo di ricorso. In definitiva, quindi, all'esito dell'accoglimento del terzo motivo di ricorso la sentenza impugnata deve essere cassata, e la causa deve esser rinviata per un nuovo esame ad altra Sezione della Corte di Appello di Roma che provvederà anche alla pronuncia sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, dichiara assorbito il settimo e rigetta tutti gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e
rinvia anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di Roma.
Così deciso in Roma, il 2 marzo 2005. Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2006
SUCCESSIONE TESTAMENTARIA
TRACCIA
Tizio, vedovo, aveva due figlie, Prima e Seconda.
Alla prima donava, in data 30 dicembre 1996, la somma di 300.000,oo euro affinché comprasse l’appartamento Alfa, sito in Xxxxxx xxxx xxx Xxxxxxxxxx x. 00. Prima, poi, aveva comprato il suddetto appartamento.
Accadeva che, l’appartamento acquistato da Prima, dopo pochi mesi dall’acquisto, aumentava di valore in modo esponenziale, per merito del progetto, inaspettato, della costruzione di una fermata della metropolitana.
Seconda, indispettita per il comportamento del padre Tizio, scappava di casa. Seconda acquistava, poi, l’appartamento Tuscolano in Xxxxxx xxx Xxxxxxx x. 0, contraendo con la banca Beta un mutuo di euro 500.000,oo; Seconda riusciva a pagare solo euro 200.000.oo e, non sapendo come fare, si rivolgeva al padre, che le perdonava la fuga di casa.
Tizio, padre di Seconda, si obbligava, per iscritto, nei confronti della figlia a tenerla indenne dal debito della residua quota di euro 300.000,oo, senza assumerlo nei confronti della banca.
Tizio decedeva, lasciando un testamento in cui disponeva in parti eguali verso le figlie del patrimonio residuo, decurtato dei 300.000,oo euro promessi a Seconda. Tuttavia, Seconda riteneva di essere stata danneggiata dalla ripartizione operata dal padre, assicurando un’azione di riduzione, anche in considerazione del fatto che l’immobile Alfa valeva molto più di 300.000,oo euro.
Prima, infastidita, si recava da un legale.
Il candidato affronti la questione giuridica posta alla sua attenzione.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE
In premessa poteva essere utile ricostruire (molto) sinteticamente il fatto; successivamente era utile chiedersi se il de cuius, in qualche modo, in vita, aveva avvantaggiato Prima in danno di Seconda.
La somma di 300.000,oo euro data dal de cuius a Prima serviva per acquistare l’immobile, così che si realizza una donazione indiretta dell’appartamento Alfa, secondo la giurisprudenza prevalente (che pone l’accento sullo scopo e sulla causa dell’emolumento economico).
E’ stata violata la par condicio tra i legittimari, tale da giustificare un’impugnazione del testamento? Al quesito bisognerebbe dare risposta negativa, in quanto anche Seconda, nella sostanza, ha avuto una donazione del valore di 300.000,oo euro volta all’acquisto di un immobile, e il valore di quest’ultimo va calcolato al momento dell’acquisto (al pari dell’immobile Alfa di proprietà di Prima).
Più in particolare, Tizio ha effettuato in vita una donazione di immobile alla figlia Prima e si è accollato, mediante un accollo interno, il debito dell’altra figlia Seconda.
Nella figura dell’accollo si può ritrovare il fenomeno del negozio indiretto: l’accollo stesso, di conseguenza, rappresenta il negozio – mezzo per raggiungere un ulteriore scopo, nel caso di specie quello di liberalità (negozio – fine); lo stesso principio vale, de plano, anche per l’accollo interno che può integrare una donazione obbligatoria, anche se indiretta.
Nel caso in esame mediante accollo interno, Tizio è accollante – donante che assume la posizione del debitore nei confronti della figlia Seconda, che viene arricchita dall’acquisto di un diritto di credito, senza alcun sacrificio.
Anche verso Seconda, pertanto, si è realizzata una donazione indiretta del valore di 300.000,oo euro relativamente all’appartamento Tuscolano.
In altri termini, Caio ha donato l’appartamento Alfa, del valore di 300.000,oo euro, a Prima e parte dell’appartamento Tuscolano, del pari valore di 300.000,oo euro, a Seconda, con la conseguenza applicativa che non è stata violata la par condicio tra legittimari, e non si giustificherebbe alcuna azione da parte di Seconda rivolta ad impugnare il testamento.
Se, tuttavia, vi è stato un apprezzabile aumento del valore dell’immobile Alfa, per cui, nella sostanza, l’immobile donato a Prima vale molto di più della parte di immobile donata a Seconda, allora, in considerazione del fatto che la donazione indiretta riguarda l’immobile e non il denaro, Prima dovrà corrispondere a Seconda una somma pari all’eccedenza del valore dell’appartamento oggetto della donazione (giustificandosi eventuali azioni volte ad impugnare il testamento).
Si consiglia di leggere le sentenze che seguono.
-Ai fini dell’ individuazione della quota di riserva spettante alle singole categorie di legittimari e ai singoli legittimari nell'ambito della stessa categoria occorre fare riferimento alla situazione esistente al momento dell'apertura della successione e non a quella che si viene a determinare per effetto del mancato esperimento (per rinunzia o prescrizione) dell'azione di riduzione da parte di qualcuno dei legittimari.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE - SENTENZA 12 giugno 2006 n. 13524
Svolgimento del processoCon atto notificato l'1-4 luglio 1987 Xxxxx Xxxxxxx conveniva davanti al Tribunale di Torino il fratello Xxxxxxxx Xxxxxxx, nonché i nipoti Xxxxxx, Xxxxxxx e Xxxxx Xxxx Kiss, ed esponeva:· che in data 17 gennaio 1987 era deceduta Xxxxx Xxxxxxxxx, madre di essa attrice e di Xxxxxxxx Xxxxxxx e
di Xxxx Xxxxxxx, quest'ultima premorta lasciando a succederle per rappresentazione alla madre i figli Xxxxxx, Xxxxxxx e Xxxxx Xxxx Kiss; · che con atto in data 6 agosto 1980 Xxxxx Xxxxxxxxx aveva venduto a Xxxxxxxx Xxxxxxx la nuda proprietà su un immobile costituente il suo intero patrimonio; · che tale atto dissimulava una donazione nulla per difetto di forma o comunque una donazione lesiva della propria quota di legittima; · sulla base di tali premesse l'attrice chiedeva che venisse dichiarata la nullità della donazione, con conseguente apertura anche in suo favore della successione legittima o che, nell'ipotesi di validità dell'atto in questione, ne venisse disposta la riduzione nella misura necessaria ad assicurarle la quota di legittima cui aveva diritto.Xxxxxxxx Xxxxxxx, costituitosi, contestava il fondamento delle domande.Xxxxxx, Xxxxxxx e Xxxxx Xxxx Kiss rimanevano contumaci.Con sentenza non definitiva in data 3 novembre 1992 il Tribunale di Torino rigettava le domande proposte dall'attrice, che proponeva appello, che veniva rigettato dalla Corte di appello di Torino con sentenza in data 8 febbraio 1995.Xxxxx Xxxxxxx proponeva ricorso per cassazione, che questa S.C. accoglieva con sentenza in data 18 marzo 1997 n. 2885, ritenendo insufficiente la motivazione con la quale era stata esclusa la simulazione dell'atto in data 6 agosto 1980 ed insussistente in ordine alla subordinata ipotesi della configurabilità di un negotium mixtum cum donatione.Xxxxx Xxxxxxx provvedeva alla riassunzione del giudizio davanti alla Corte di appello di Torino, che con sentenza non definitiva in data 6 agosto 2001 escludeva la sussistenza della simulazione dell'atto in data 6 agosto 1980 e disponeva l'ulteriore corso del giudizio al fine di accertare la sussistenza o meno di un negotium mixtum cum donatione.Contro tale decisione Xxxxx Xxxxxxx, dopo avere fatto riserva di impugnazione, proponeva ricorso immediato e tale ricorso è stato dichiarato inammissibile da questa S.C. con sentenza in data 30 marzo 2006 n. 7502.Con sentenza in data 15 novembre 2002 la Corte di appello di Torino, frattanto, aveva ritenuto, sulla base della C.T.U. all'uopo disposta, che con l'atto in data 6 agosto 1980 era stato realizzato un negotium mixtum cum donatione, che, costituendo donazione indiretta, non era soggetto ai requisiti di forma previsti per le donazioni dirette.A questo punto si poneva il problema di individuare la quota di riserva spettante a Xxxxx Xxxxxxx in una situazione caratterizzata dal fatto che la legittima nel suo complesso era pari
ai due terzi dell'asse ereditario, avendo Xxxxx Xxxxxxxxx lasciato due figli superstiti e tre nipoti destinati a subentrare per rappresentazione alla terza figlia, ma questi ultimi non erano venuti alla xxxxxxxxxxx.Xx sostanza, si trattava di stabilire se la quota pari ai 2/9 in teoria spettante a Xxxxxx, Xxxxxxx e Xxxxx Xxxx Kiss si doveva accrescere in favore delle altre due quote pari a 2/9 ciascuna spettanti a Xxxxx Xxxxxxx e Vincenzo Xxxxxxx.Xx Corte di appello di Torino dava risposta negativa a tale quesito in base alla seguente motivazione.È vero che la mancata accettazione dell'eredità dei nipoti Kiss è venuta ad equivalere ad una rinuncia, ma la quota di legittima che è riservata dalla legge non può essere modificata dalla rinuncia di altri eredi. E questo per una serie di ragioni tra loro xxxxxxxx.Xx primo luogo il dato letterale della disposizione normativa.L'art. 537 cc che dispone la riserva a favore dei legittimari parla di figli e non di eredi xxxxxxxxxx.Xx secondo luogo vale la «ratio» della disposizione normativa.Riservando ai figli una parte del patrimonio la legge ha, per così dire, posto un limite inderogabile alla volontà del testatore, nel senso che gli ha impedito di escludere totalmente il passaggio dei suoi beni ai figli col predeterminare a favore di questi ultimi delle quote minime di riserva.Peraltro la mancata accettazione di un erede non può costituire un ulteriore elemento di coartazione della volontà del xxxxxxxxx.Xx terzo luogo, se è vero che la mancata accettazione dei nipoti Kiss ha comportato la prescrizione