Obbligazioni e contratti
Obbligazioni e contratti
Mutuo di scopo e mancato raggiungimento dell’obiettivo: nullità o risoluzione del contratto?
di Xxxxx Xxxxxxxx
Cass. civ., sez. I, 25 gennaio 2021, n. 1517 – Pres. Genovese – Rel. Dolmetta
Parole chiave: Mutuo – Di scopo – Interesse del mutuante – Sussistenza – Necessità – Mancato raggiungimento dello scopo – Nullità – Insussistenza – Risoluzione per inadempimento –
Sussistenza
[1] Massima: La mera enunciazione, nel testo contrattuale, che il mutuatario utilizzerà la somma erogatagli per lo svolgimento di una data attività o per il perseguimento di un dato risultato non è, di per sé, idonea a integrare gli estremi del mutuo di scopo convenzionale, per il cui inveramento occorre, di contro, che lo svolgimento dell’attività dedotta o il risultato perseguito siano, nel concreto, rispondenti a uno specifico e diretto interesse anche proprio della persona del mutuante, che vincoli l’utilizzo delle somme erogate alla relativa destinazione. Nel caso di mutuo di scopo convenzionale, il punto del necessario rispetto della destinazione delle somme erogate all’effettivo conseguimento dello scopo prefissato è assicurato sul piano dello svolgimento del sinallagma funzionale del rapporto, con la conseguenza che all’inadempimento del mutuatario seguirà la risoluzione del relativo contratto.
Disposizioni applicate: cod. civ., artt. 1418, 1453, 1455, 1813
CASO
Una società otteneva un finanziamento dichiaratamente destinato a consentire l’esecuzione di investimenti immobiliari, ma che, in realtà, veniva utilizzato per ripianare l’esposizione debitoria nei confronti del medesimo istituto di credito mutuante.
Intervenuto il fallimento della società mutuataria, il credito restitutorio della banca non veniva ammesso al passivo, in ragione della ritenuta nullità del contratto di mutuo, in quanto stipulato in frode alle ragioni dei creditori, cioè nella consapevolezza di entrambe le parti che non si trattava di finanziamento finalizzato a investimenti immobiliari, ma a estinguere debiti pregressi di natura chirografaria.
L’opposizione della banca avverso il provvedimento di esclusione veniva parzialmente accolta: il tribunale, infatti, rilevava come il mutuo, sebbene non concesso per le finalità dichiarate, era stato, nondimeno, accordato e fruito dalla società mutuataria, che, grazie a esso, aveva
effettivamente ripianato lo scoperto di conto corrente, trasformandolo in debito a lungo termine.
Avverso tale pronuncia, proponevano ricorso per cassazione sia la banca (che lamentava il mancato riconoscimento del rango ipotecario al proprio credito), sia – in via incidentale – il curatore fallimentare (che insisteva, tra l’altro, per la declaratoria di nullità del contratto di mutuo, sul presupposto che il mancato assolvimento dell’impegno a realizzare lo scopo sotteso all’erogazione, che viene a formare parte integrante del sinallagma contrattuale, è causa di invalidità del negozio, per mancanza originaria della causa).
SOLUZIONE
[1] La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso incidentale proposto dalla curatela, affermando, da un lato, che il mancato raggiungimento dello scopo cui è finalizzato il mutuo non determina la nullità o l’invalidità del contratto, ma la possibilità di dichiararlo risolto per inadempimento del mutuatario e rilevando, dall’altro lato, che l’operazione concretamente posta in essere dalla banca e dalla società fallita non poteva nemmeno qualificarsi quale mutuo, integrando un mero riscadenziamento del debito, ossia una semplice modifica accessoria dell’obbligazione.
QUESTIONI
Nella fattispecie esaminata nella sentenza che si annota, veniva in considerazione una particolare declinazione del contratto di mutuo, ossia quello cosiddetto di scopo, nella particolare variante in cui la finalità sottesa all’erogazione delle somme non è imposta o prevista dalla legge, ma deriva dalle pattuizioni convenute dalle parti e consacrate nell’accordo negoziale.
Si parla di mutuo di scopo quando nell’erogazione del credito acquista rilievo, accanto alla causa creditizia, il motivo specifico per il quale viene concesso il finanziamento, venendo la clausola di destinazione a inserirsi nel contratto e a conformarlo alle esigenze che si intendono raggiungere: il mutuante, cioè, pone un vincolo all’utilizzo delle somme concesse, in modo tale che l’impiego del capitale, da motivo esterno alla struttura negoziale, entra a fare parte del regolamento contrattuale e a carico del mutuatario sorge una vera e propria obbligazione – consistente nell’impiego del denaro erogato nel modo previsto, ossia per raggiungere la specifica e determinata finalità inserita nel sinallagma contrattuale – che si pone in termini di corrispettività rispetto all'ottenimento della somma erogata. Tale obbligazione di destinazione è ciò che contraddistingue propriamente il mutuo di scopo, in quanto la sua funzione economica e sociale non si esaurisce nel godimento del danaro e nel conseguente obbligo di restituzione, ma implica la realizzazione del risultato economico esplicitamente individuato.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, perché si possa parlare di mutuo di scopo occorre che lo svolgimento dell’attività dedotta o il risultato da raggiungere risponda a
uno specifico interesse pubblico (quando si tratta di mutuo di scopo legale) o coinvolga un diretto interesse comune al mutuatario e al mutuante (quando si tratta di mutuo di scopo convenzionale);
Occorre, altresì, che il testo contrattuale contenga un patto o una clausola (cosiddetta di destinazione), da cui risulti in modo chiaro che l’erogazione è vincolata a una determinata e specifica utilizzazione.
Di conseguenza, qualora venga prevista nel contratto di finanziamento una destinazione delle somme volta a soddisfare un interesse esclusivo del mutuatario, si tratta di una mera esteriorizzazione dei motivi del negozio, non incidente sulla sua causa e, dunque, sul tipo contrattuale, sicché si esula dal mutuo di scopo; d’altro canto, la mera enunciazione, nel testo contrattuale, di una determinata destinazione delle somme oggetto di erogazione non è, di per sé, sufficiente per ritenere che essa abbia carattere vincolante ovvero esclusiva, com’è richiesto nel caso in cui si tratti di mutuo di scopo.
Sebbene sia stato affermato, con riguardo al mutuo di scopo legale, che l’accordo con cui le parti orientino l’operazione di finanziamento verso un fine diverso da quello stabilito in via imperativa dalla legge provoca la nullità del contratto per illiceità della causa, non altrettanto può dirsi quando si sia in presenza di un mutuo di scopo convenzionale.
La precisazione è indubbiamente importante, perché – spesso in virtù di una riproduzione tralaticia di principi di diritto affermati in relazione al mutuo di scopo legale (caratterizzato dalla pregnante presenza di un interesse pubblico, che trascende quello privato del mutuante e del mutuatario) – alcune pronunce hanno ritenuto estensibile anche al mutuo di scopo convenzionale la sanzione della nullità.
Nel mutuo di scopo convenzionale, invece, fatto salvo il caso in cui sia la finalità stessa individuata dalle parti a risultare intrinsecamente illecita o impossibile da perseguire, il mancato raggiungimento dello scopo per inadempimento del mutuatario o per la sopravvenuta impossibilità di raggiungerlo attiene non tanto alla fase genetica del rapporto (interferendo con la sua validità), quanto a quella esecutiva, facendo emergere un suo difetto funzionale.
Il soggetto finanziato, infatti, si obbliga non solo a restituire la somma mutuata e a corrispondere gli interessi, ma anche a realizzare lo scopo previsto, giacché – come detto – caratteristica essenziale della figura negoziale in parola è rappresentata dalla compartecipazione del mutuante all’interesse verso cui è diretta la destinazione della somma erogata; in altre parole, nel sinallagma contrattuale, la prestazione che il mutuatario si impegna a eseguire assume rilievo essenziale in corrispettività dell’attribuzione del finanziamento, sicché, quando è mancata la realizzazione della finalità prevista, il contratto può essere risolto per inadempimento del mutuatario.
È da ricondurre alla fondamentale pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n.
26724 del 19 dicembre 2007, la distinzione tra norme che riguardano, rispettivamente, la validità del contratto (attinenti a elementi intrinseci della fattispecie negoziale, ossia alla struttura o al contenuto essenziale del contratto) e il comportamento dei contraenti (cioè il modo in cui viene data, di volta in volta, attuazione agli obblighi gravanti sulle parti), nonché l’affermazione per cui solo l’inosservanza delle prime può generare la nullità del contratto, mentre la violazione delle seconde – salvo che non sia diversamente previsto dalla legge – è fonte di responsabilità e può essere causa di risoluzione del contratto, senza incidere sulla genesi dell’atto negoziale (quanto meno nel senso di provocarne la nullità).
Sulla scorta di tali principi, l’affermazione – contenuta nella sentenza che si annota – per cui il mancato perseguimento dello scopo da parte del mutuatario non è destinato a incidere sulla validità del contratto, ma esclusivamente sull’esplicazione del sinallagma funzionale, con la conseguenza che non si potrà discutere di invalidità negoziale, ma di risolubilità, è pienamente condivisibile.
Nella pronuncia viene, peraltro, precisato che l’operazione conclusa dalle parti nemmeno poteva farsi rientrare nell’alveo di un ordinario contratto di mutuo, che, per la sua natura di contratto reale, implica la consegna del denaro che ne costituisce oggetto; consegna che, per quanto possa avvenire anche in forme assai rarefatte, deve comunque realizzare il passaggio delle somme dal patrimonio del mutuante a quello del mutuatario e il correlativo trasferimento della loro proprietà e disponibilità.
Quando, al contrario, si effettui il ripianamento di un debito a mezzo di nuovo credito, mediante l’accredito della somma asseritamente mutuata su un conto corrente gravato da un’esposizione debitoria, non si verifica alcun effettivo trasferimento di denaro, ma una mera operazione contabile (qualificabile in termini di mero differimento del tempo di esecuzione della prestazione dovuta, secondo la figura del pactum de non petendo, che determina una semplice modificazione accessoria dell’obbligazione e non comporta novazione), alla quale non è sotteso un accordo comportante l’attribuzione della proprietà o della disponibilità delle corrispondenti somme: l’accredito, infatti, comporta, ai sensi e per gli effetti previsti dall’art. 1852 c.c., un’automatica e immediata modifica del saldo, precludendo ogni possibile ed eventuale utilizzabilità della somma da parte del correntista e senza eliminare la sostanza del debito (che viene semplicemente traslato, peraltro senza che ciò possa tradursi in un evento naturalisticamente e giuridicamente apprezzabile, attesa la natura fungibile del denaro).
L’unica eccezione a tale regola si ha quando l’accredito risulta di importo superiore all’esposizione debitoria: in questo caso, infatti, l’eccedenza entra nell’effettiva disponibilità del correntista, che la può concretamente impiegare, rientrandosi, dunque, nel contesto tipologico del mutuo.