Contract
i Quaderni di
Guida al
Jobs Act
2
A cura di Xxxxx Xxxxx e Xxxxxx Xxxxxxxxx
Dove tutti i tuoi diritti hanno una voce
IL DECRETO SUL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI: COSA DICE, A CHI SI APPLICA,
CHE EFFETTI PRODUCE
Studi “Legalilavoro”
IL DISEGNO DEL JOBS ACT
Il Governo Xxxxx ha definitivamente approvato il più atteso tra i decreti attuativi della legge 183 del 2014, ovvero quello sul c.d. contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti (d’ora innanzi per brevità lo chiameremo CTC).
Provando a sintetizzare il senso della disciplina, secondo le intenzioni del Governo che l’ha forte- mente voluta, essa dovrebbe rendere più conveniente e appetibile per le imprese l’assunzione dei lavoratori a tempo indeterminato, così contribuendo a dirottare una maggior quota della domanda di lavoro dai contratti di lavoro atipici (contratti a termine, lavoro accessorio, rapporti di collabora- zione autonoma, ecc.) al contratto, appunto, a tempo indeterminato.
Sotto questo profilo, il decreto va messo in collegamento anche con le disposizioni contenute nella legge di stabilità, che ha previsto alcuni significativi sgravi contributivi proprio per le assunzioni a tempo indeterminato. D’altro canto, bisognerà attendere di vedere come saranno modificate le discipline dei rapporti di lavoro atipici (soprattutto quella del contratto a termine), per capire se davvero il CTC possa essere un loro adeguato “competitore” (al momento di definitiva appro- vazione del decreto pare tuttavia che il Governo non intenda rendere più restrittivo l’accesso al contratto a termine).
Se l’intenzione è certamente apprezzabile, qual è però il modo in cui essa viene realizzata? Qual è cioè la convenienza offerta alle imprese con il nuovo contratto a tempo indeterminato?
Ebbene, tale convenienza sta tutta e soltanto nella forte attenuazione delle regole protettive in caso di licenziamento ingiusto – solo per i nuovi assunti, come si vedrà tra breve – secondo una linea che tende a limitare a pochissimi casi la reintegrazione nel posto di lavoro (cioè l’effetto san- zionatorio voluto dal legislatore del 1970 con il famoso art. 18 dello Statuto dei Lavoratori), mentre nella maggioranza dei casi un lavoratore che sia licenziato senza il rispetto dei limiti legali riceverà soltanto un indennizzo economico (ed anche, come vedremo, piuttosto modesto...).
In buona sostanza, assumere a tempo indeterminato dovrebbe essere più facile e conveniente perché … sarà più facile e poco costoso licenziare lo stesso lavoratore!
È evidente a chiunque che con la nuova disciplina vengono modificati gli assetti di fondo del siste- ma di regole del lavoro (almeno per le imprese di maggiore dimensione, dove opera tradizional- mente un regime protettivo intenso per i licenziamenti ingiusti), spostando in misura significativa gli equilibri del conflitto di interessi nei rapporti di lavoro, a favore dei datori di lavoro.
Le tutele dei licenziamenti hanno infatti una rilevanza che va ben oltre la specifica vicenda del recesso e la tutela della stabilità di reddito e occupazione, poiché sostengono la forza contrattuale del lavoratore nella relazione quotidiana sul luogo di lavoro.
Di più: una tutela efficace nei confronti di un licenziamento ipoteticamente ingiustificato – diritto non a caso espressamente sancito dalla Carta europea dei diritti fondamentali e dalla Carta sociale europea – protegge le libertà fondamentali di lavoratrici e lavoratori, nei luoghi di lavoro: la libertà di espressione e di dissenso, la difesa della dignità quando questa sia minacciata da superiori o colleghi, la difesa e pretesa dei propri diritti, la possibilità di attivarsi sindacalmente se lo si desidera, ecc.
14
GUIDA AL JOBS ACT
Non c’è bisogno di spiegazioni per intuire che un lavoratore che sa che può essere licenziato a basso costo sarà un lavoratore più debole, meno pronto a far valere i propri diritti o interessi. Si pensi alla condizione di una lavoratrice che, per difficoltà legate agli impegni di cura familiare, ha la necessità di resistere a pressanti richieste di fare straordinari, modificare turni, ecc., magari nascenti da un’organizzazione del lavoro a organico ridotto: quanto potrà sottrarsi a tali pressioni e, se lo farà, quanti datori di lavoro resisteranno alla tentazione di allontanarla a basso costo per sostituirla con un dipendente più disponibile e “flessibile”?
Dunque la domanda è: anche ammesso che la riforma produca una crescita nel futuro di assunzio- ni a tempo indeterminato, non c’è il rischio che le stesse diano luogo di fatto a rapporti di lavoro precari, tanto quanto i contratti a termine?
PER CHI VALE LA NUOVA DISCIPLINA?
Il decreto che illustriamo non ha valenza generale, in quanto si applica soltanto ai lavoratori assun- ti successivamente alla sua entrata in vigore. Anzi la legge specifica che vale solo per i lavoratori assunti come operai, impiegati e quadri: per i dirigenti – che da sempre hanno un regime legale dei licenziamenti distinto – rimangono le vecchie regole (sul punto, e sulle possibili intersezioni tra la nuova disciplina e la condizione dei dirigenti torneremo più avanti con apposito approfon- dimento).
Il decreto ha dovuto rispettare il limite posto dalla legge delega, la quale appunto parlava di intro- durre nuove regole sul licenziamento soltanto “per le nuove assunzioni”.
Ciò significa, dunque, che per i lavoratori già in forza nell’immediato non cambia nulla, ed essi continueranno a godere delle tutele applicabili sino ad oggi. In particolare, se si tratta di dipendenti che operano in strutture che raggiungono le soglie previste dalla legge (unità produttiva con più di 15 lavoratori, datori di lavoro con più di 60 dipendenti nel loro complesso) continueranno a vedersi applicare, ove subiscano un licenziamento non giustificato, l’art. 18.
In sostanza a partire da oggi si crea una significativa differenza e frattura tra tutti i lavoratori già in forza, da un lato, ed i nuovi assunti: i quali ultimi, pur lavorando per gli stessi datori di lavoro, avranno un regime protettivo contro il licenziamento molto meno intenso.
È evidente che tale situazione apre un problema di diseguaglianza, della quale andrà valutata la compatibilità con la Costituzione (in termini nuovi rispetto alle differenze di regimi di tutele già esistenti in passato, perché qui si tratta di differenze di trattamento tra lavoratori della stessa im- presa, e non connesse né a condizioni oggettive né a un differente inquadramento contrattuale). Ma così è. Secondo i sostenitori delle novità, si tratta tuttavia di una situazione solo temporanea, transitoria, perché a mano a mano che i “vecchi” dipendenti saranno sostituiti, con le nuove assunzioni, una platea crescente di lavoratori sarà assoggettata al nuovo regime legale sui licen- ziamenti (fino al futuro esaurimento del bacino dei lavoratori che godono del regime sino ad oggi vigente).
Tale osservazione ci segnala subito un aspetto molto importante: i lavoratori già in forza a tempo indeterminato non sono toccati immediatamente dalle novità normative, ma potranno esserlo quan- do cambieranno lavoro, transitando nella condizione di “nuovi assunti” presso una diversa impresa!
15
IL DECRETO SUL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI: COSA DICE, A CHI SI APPLICA, CHE EFFETTI PRODUCE
Sulla questione, e sulla possibilità di evitare tale effetto negoziando con il nuovo datore di lavoro un diverso regime, torneremo con apposito approfondimento.
Si può però osservare, intanto, che questa netta frattura tra vecchi e nuovi assunti rischia di creare, nel mercato del lavoro italiano dei prossimi mesi ed anni, alcune spinte negative: da un lato una maggiore rigidità, derivante dalla fondata remora dei diversi milioni di lavoratori già in servizio a cambiare lavoro (per evitare appunto di trovarsi esposti ad un regime legale molto meno protettivo); dall’altro lato, la tentazione delle imprese di accelerare la sostituzione dei vecchi di- pendenti con i nuovi, ritenuti per il loro nuovo statuto giuridico più convenienti (e probabilmente più malleabili); ancora, probabili pratiche distorsive della concorrenza (soprattutto nel settore dei servizi) da parte di imprese costituite ad hoc per avvalersi dei vantaggi (normativi e di minor costo contributivo) riservati ai nuovi assunti.
Veniamo da anni che, per effetto della crisi economica, hanno visto crescere esponenzialmente i casi in cui le imprese – talvolta con strumenti traumatici, talaltra con strumenti negoziali – hanno “espulso” centinaia o migliaia di lavoratori dal proprio contesto. Tali casi saranno, dopo il decreto in commento, forse ancora più numerosi e complicati da gestire, perché d’ora innanzi la valutazione di un processo di transizione ad altro datore di lavoro dovrà tenere conto anche del tipo di contrat- to, pur formalmente a tempo indeterminato, che si otterrà. È dunque ancora più importante che i lavoratori coinvolti in simili processi si procurino un’assistenza legale di qualità.
RIENTRANO NELLE NUOVE REGOLE I CASI DI CONVERSIONE DEL CONTRATTO A TERMINE E DI CONFERMA DEGLI APPRENDISTI
La versione inziale del decreto, precedente all’esame del Parlamento, lasciava dubbi sull’applica- bilità della nuova disciplina ad alcune categorie di lavoratori. Se è certa l’esclusione dei lavoratori domestici (da sempre soggetti a un regime diverso del recesso, soggetto al solo obbligo del pre- avviso), era difficile pronunciarsi sull’applicabilità agli apprendisti e ai lavoratori marittimi (assunti sulla base del contratto di arruolamento disciplinato dal codice della navigazione).
Nella versione finale, approvata dal Consiglio dei ministri il 20 febbraio 2015, è stata introdotta una specificazione riguardante i rapporti di lavoro a termine e, appunto, gli apprendisti. Si prevede infatti che la nuova disciplina venga applicata anche ai casi di conversione (successiva all’entrata in vigore del decreto) di contratto a tempo determinato: i lavoratori così stabilizzati vengono perciò considerati nuovi assunti, anche se l’avvio del rapporto di lavoro è avvenuto prima dell’ap- provazione della legge. Riteniamo però che la norma riguardi la sola conversione volontaria di un contratto a termine (legittimo), mentre in caso di accertamento giudiziale della illegittimità del termine in un contratto di lavoro stipulato prima dell’entrata in vigore del decreto, il rapporto di lavoro dovrà essere assoggettato alla disciplina del licenziamento vigente alla data della prima assunzione.
Lo stesso vale per la conferma in servizio degli apprendisti: tale disposizione ha certamente il valore positivo di evitare che, nel primo periodo di attuazione, le imprese siano indotte a recedere dai rapporti di apprendistato, equiparandoli alle (più convenienti) nuove assunzioni. Essa però pone un rilevante dubbio di compatibilità con i limiti posti al decreto dalla legge delega, la quale
16
GUIDA AL JOBS ACT
limitava la disciplina del CTC alle “nuove assunzioni”: concetto nel quale pare difficile far rientrare la conferma di un apprendista, che si considera lavoratore a tempo indeterminato fin dall’avvio del rapporto.
IL DECRETO RIGUARDA ANCHE I LAVORATORI PUBBLICI?
Su questo interrogativo si è subito aperta una discussione. Da più voci governative è venuta una netta risposta negativa: la disciplina varrebbe solo per i lavoratori privati (dipendenti di imprese e datori di lavoro non imprenditori), per i pubblici si interverrà in un momento successivo. Secondo altri, invece, le nuove regole valgono subito per tutti. La versione finale del decreto non ha chiarito lo snodo, nonostante le attese in tal senso.
Tecnicamente la questione non è di facile soluzione. Se è vero che la disciplina appare formulata pensando con evidenza al solo rapporto di lavoro privato, è d’altro canto vero che il Testo unico dei dipendenti pubblici (d.lgs. 165 del 2001) prevede che i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche siano disciplinati “dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’im- presa”, salve le eventuali regole speciali relative a singole materie.
La questione rimane dunque dubbia. Per i licenziamenti economici (individuali per giustificato motivo oggettivo, e collettivi) sembra si possa affermare la specialità del regime pubblico, e dunque la non applicabilità dell’istituto (né nella versione del CTC né in quella precedente); più incerta la questione del licenziamento per motivi disciplinari, anche se pare possano trovarsi buoni motivi (tra cui la forte rilevanza dei principi di legalità e di pari trattamento nella condotta della pubblica amministrazione) per continuare a sostenere, anche per i futuri dipendenti, il diritto alla reintegrazione in caso di licenziamento privo di fondamento di legittimità.
E I LAVORATORI DELLE PICCOLE IMPRESE?
Un discorso a parte va fatto per i dipendenti delle piccole imprese (sotto la soglia di applicazione dell’art. 18), i quali avevano già un regime di tutela minore, con esclusione della reintegrazione (salvo il caso di licenziamento discriminatorio o nullo) e l’applicazione al licenziamento illegittimo di un regime risarcitorio debole (la c.d. tutela obbligatoria prevista dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966).
Come si vedrà nell’apposito approfondimento, per tali lavoratori nell’immediato nulla cambia, mentre ai nuovi assunti di tali imprese si applica il nuovo regime del CTC (ma con indennizzi di entità ridotta). Nel momento in cui, per effetto delle nuove assunzioni, l’impresa dovesse supera- re la classica soglia dei 15 dipendenti nell’unità produttiva (o 60 nell’impresa), a tutti i lavoratori (vecchi e nuovi assunti) si applicherà integralmente la disciplina del CTC. Si tratta, come si dirà innanzi, di una scelta molto discutibile e probabilmente sospetta di illegittimità costituzionale.
COSA PREVEDE IL DECRETO?
In estrema sintesi, la disciplina del CTC è così ordinata:
- per i licenziamenti discriminatori, o nulli per altri motivi (ad esempio per contrasto con specifici divieti di legge, come quello a tutela della maternità) i lavoratori con CTC godono di un regime di
17
IL DECRETO SUL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI: COSA DICE, A CHI SI APPLICA, CHE EFFETTI PRODUCE
tutela sostanzialmente identico a quello dei vecchi dipendenti (reintegrazione nel posto di lavoro e piena tutela risarcitoria); ai licenziamenti nulli sono equiparati anche quelli per motivi relativi alla salute e disabilità fisica o psichica del lavoratore;
- per tutti gli altri licenziamenti – per motivi disciplinari, per motivi economici individuali, per licen- ziamento collettivo per riduzione del personale – il regime ordinario di tutela prevede una tutela meramente economica, con un indennizzo che cresce progressivamente con il maturare di una maggiore anzianità di servizio (in proporzione di due mensilità per ogni anno di servizio), e con la fissazione di un minimo (quattro mensilità) e un massimo (ventiquattro mensilità);
- solo per il licenziamento disciplinare (giustificato motivo soggettivo o giusta causa) è prevista un’ipotesi di sanzione con reintegrazione nel posto di lavoro, quando risulti insussistente il “fatto materiale” contestato al lavoratore;
- per i vizi meramente procedurali del licenziamento è previsto un regime indennitario ancora più attenuato;
- viene poi introdotta una specifica procedura conciliativa, mirante a favorire un accordo economi- co tra datore di lavoro e lavoratore licenziato (accordo favorito, nelle intenzioni del legislatore, da un regime fiscale agevolato).
Ogni analisi dell’istituto del licenziamento va fatta tenendo conto anche del contesto relativo agli ammortizzatori sociali di cui può godere il lavoratore, a seguito del recesso. In merito, il decreto sul CTC va collegato a un altro decreto emanato contemporaneamente, relativo al ridisegno della disciplina delle indennità collegate alla disoccupazione involontaria (la c.d. Naspi, nuova assicura- zione sociale per l’impiego).
Su tale tema (che riguarda tutti i lavoratori, e non solo quelli assunti con CTC) non possiamo soffermarci, per motivi di sintesi. Qui ci limitiamo dunque ad alcune schede di lettura del nuovo regime del CTC, e ad iniziare ad individuare le migliori strategie di tutela, in tale nuovo contesto, di vecchi e nuovi dipendenti.
Gli argomenti che tratteremo qui di seguito sono:
• i lavoratori già assunti presso datori di lavoro ai quali si applica l’art. 18: cosa accade se si cambia lavoro?
• il licenziamento per i lavoratori assunti con CTC: il licenziamento per motivi disciplinari
• il licenziamento economico individuale
• il licenziamento per inidoneità sopravvenuta e per malattia
• il licenziamento collettivo
• il regime di maggiore tutela: il licenziamento discriminatorio e nullo
• come si calcola l’indennizzo per il licenziamento senza reintegrazione?
• i dirigenti e il licenziamento nel nuovo contesto legale
• la condizione dei lavoratori (già in forza e con CTC) nelle piccole imprese
• i dipendenti (già in forza e con CTC) delle organizzazioni di tendenza
• le transazioni sul licenziamento: una procedura specifica per il CTC
LA CONDIZIONE DEI LAVORATORI ATTUALMENTE DIPENDENTI DI DATORI DI LAVORO AI QUALI SI APPLICA L’ART. 18: COSA CAMBIA E COSA NO,
NELL’IMMEDIATO E IN PROSPETTIVA Studi “Legalilavoro”
IL LAVORATORE GIÀ IN SERVIZIO (DOVE SI APPLICA L’ART. 18): NELL’IMMEDIATO NULLA CAMBIA...
L’entrata in vigore del primo e più importante (dal punto di vista dell’impatto sulle tutele) decreto previsto dalla legge delega n. 183 del 2014 comporta l’immediata applicabilità del cd. “contratto di lavoro a tutele crescenti” ai lavoratori d’ora in poi assunti a tempo indeterminato.
L’art. 1 del decreto, infatti, prevede che il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo si applichi ai lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data della sua entrata in vigore. Lo stesso art. 1 prevede, altresì, che, nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto, raggiunga il requisito dimensionale di cui all’articolo 18 (più di 15 lavoratori nell’unità produttiva, o più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo, o ancora più di 60 dipendenti in totale), il licenziamento dei lavoratori, anche se assunti precedentemente a tale data, sia disciplinato dalle nuove disposizioni. Dunque è chiaro che le novità della legge che prevedono minori tutele per i licenziamenti non si applicano a quei lavoratori che, da prima dell’entrata in vigore del decreto, siano dipendenti di datori di lavoro cui già si applicava l’art. 18 (peraltro, secondo la formulazione depotenziata dalla legge “Fornero”). Nell’immediato, dunque, per questi lavoratori non cambia nulla.
Proprio questo doppio regime (“tutele crescenti” per i neo assunti e tradizionali tutele per i lavora- tori già dipendenti), però, ha indotto molti interpreti ad evidenziare la disparità di trattamento tra lavoratori all’interno della stessa azienda, i quali, di fronte a un medesimo provvedimento datoria- le potranno ottenere differenti rimedi. Una disparità di trattamento non già tra diverse categorie di lavoratori, indotta da ragioni oggettive, bensì tra colleghi di lavoro della stessa azienda, indotta da ragioni puramente soggettive (la data di assunzione). Con l’evidente possibilità che i Giudici investiti di tali situazioni possano, a richiesta della parte ricorrente o meno, sollevare questione di incostituzionalità per violazione dell’art. 3 della Costituzione.
... MA SE SI DEVE CAMBIARE LAVORO?
Ora, abbiamo visto che il nuovo decreto non cambia immediatamente (e direttamente) la condi- zione dei lavoratori già dipendenti di datori di lavoro delle medie e grandi imprese. Ma che suc- cede se questo lavoratore intende cambiare lavoro? E se è invece il datore di lavoro a cambiare la propria organizzazione o la propria struttura aziendale? Oppure, cosa accade se il nostro lavoratore tutelato viene licenziato ed intende negoziare con il datore di lavoro? E comunque, cosa potrà accadere nel futuro a questi lavoratori?
È evidente come le importanti novità legislative pongano delicati problemi per gli stessi lavoratori, oltre che per gli interpreti e soprattutto per i professionisti che si trovino a tutelare in giudizio (o in una fase stragiudiziale) lavoratori che siano stati licenziati o che abbiano perso il lavoro.
Infatti, rispetto al passato, mentre il lavoratore licenziato poteva trattare il suo rientro in servizio (rinunziando a parte delle retribuzioni maturate) senza particolari condizionamenti circa il tipo di
20
GUIDA AL JOBS ACT
riassunzione, oggi non sarà indifferente contrattare il ripristino del rapporto o l’assunzione ex novo, poiché in questo secondo caso egli perderà le tutele dell’art. 18.
Ed ancora, certamente dovrà avere diverso peso (in termini di cd. incentivo all’esodo) la rinunzia ad un posto di lavoro tutelato, che non sarà più possibile reperire nel nuovo mercato del lavoro. Inoltre, dovrà verificarsi caso per caso l’opportunità e la convenienza della soluzione, spesso oggi praticata, di “sanare” un rapporto di lavoro irregolare (“in nero”, oppure avviato con un contratto a tempo determinato nullo, ecc.) con il pagamento di una somma di denaro e l’assunzione a tempo indeterminato (che, quindi, riceverà le tutele del CTC e non quelle derivanti dal riconoscimento a ritroso del rapporto di lavoro irregolare).
Così come è evidente che chi tutela i lavoratori dovrà sforzarsi di cercare di individuare strumenti di tipo negoziale volti all’introduzione, in condizioni di particolare “forza” del lavoratore, di clau- sole che gli garantiscano, attraverso il nuovo contratto, di conservare le tutele “ordinarie” in caso di licenziamento.
Inoltre, non è difficile immaginare che l’introduzione del doppio regime di tutele, unitamente ai previsti (dalla Legge di Stabilità) forti e generalizzati incentivi fiscali e contributivi per le nuove assunzioni a tempo indeterminato (rientranti, quindi, nel regime delle tutele crescenti), spingerà i datori di lavoro a percorrere scelte gestionali e organizzative e forme giuridiche che facilitino o anticipino il passaggio dei lavoratori occupati dal vecchio al nuovo regime.
Particolare attenzione, quindi, dovrà essere rivolta a tutti questi processi di modificazione, trasfor- mazione o cessione dell’azienda o di rami di essa, che comportino il passaggio dei lavoratori alle dipendenze di diverse o di nuovi (ad es. le cd. newco) soggetti imprenditoriali. È evidente, infatti, che con la normale cessione di azienda o di ramo di azienda, il lavoratore conserverà il rapporto di lavoro e la sua anzianità, e con essi le tutele di cui all’art. 18. Mentre un’eventuale novazione del rapporto di lavoro (con la stipula di un nuovo contratto di lavoro) o una soluzione di continuità tra vecchio e nuovo impiego (con l’interruzione del rapporto ed il pagamento del TFR) comporterà la perdita delle tutele “ordinarie”, sostituite dalle nuove tutele crescenti.
Infine, non è facile prevedere le conseguenze che, in tema di struttura retributiva e di condizioni di lavoro, potrà avere nel tempo la contrapposizione in azienda tra lavoratori diversamente tutelati. Già autorevoli economisti hanno profetizzato una rimodulazione (ovviamente verso il basso) di salari e contrattazione man mano che il turn over aziendale porterà ad una inversione nella pro- porzione tra vecchi e nuovi assunti, poiché si è evidenziato che i nuovi lavoratori a tempo indeter- minato saranno più inclini (in ragione della minor tutela) ad accettare peggiori condizioni econo- miche, minori garanzie e maggiore intensità nella prestazione di lavoro, pur di rimanere occupati.
LE REGOLE DEL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE PER I NUOVI ASSUNTI.
IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE Studi “Legalilavoro”
REGOLE E SANZIONI DEL LICENZIAMENTO: IL LICENZIAMENTO PER MOTIVI SOGGETTIVI
Per i lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del decreto 23/2015, e dunque soggetti al regime del CTC, cambiano le regole del licenziamento. Invero, si deve subito precisare che ciò che viene modificato non sono le regole sostanziali del recesso (potremmo dire: le condizioni giuridiche alle quali il datore di lavoro può licenziare un proprio dipendente) ma solo quel relative al regime sanzionatorio, ovvero alle conseguenze del licenziamento quando questo sia ritenuto illegittimo dal Giudice.
Dunque sul piano teorico le ipotesi di licenziamento legittimo (cioè: in quali casi e per quali motivi il datore di lavoro può licenziare) rimangono le medesime per i vecchi e nuovi assunti: ma si trat- ta appunto di un’affermazione teorica, poiché in pratica le condizioni degli stessi lavoratori sono molto diverse, in quanto i primi potranno godere di un regime sanzionatorio assai più efficace, idoneo come tale a costituire un più effettivo deterrente verso un licenziamento superficiale o addirittura arbitrario.
Andando con ordine, è bene ricordare a quali condizioni è possibile il licenziamento, iniziando dal licenziamento per motivi soggettivi, o disciplinare (del licenziamento per motivo oggettivo parleremo successivamente).
Tale tipologia di recesso si ripartisce ulteriormente nel licenziamento, con preavviso, per giustifica- to motivo soggettivo (art. 3 l. 604/1966), causato da un “notevole inadempimento” del prestatore di lavoro ai suoi obblighi contrattuali, e in quello, senza preavviso, per giusta causa (art. 2119 c.c.), consistente in una causa che non consenta la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro.
Per entrambe tale ipotesi, peraltro, il licenziamento deve avvenire nel rispetto della c.d. procedura disciplinare (art. 7 l. 300/1970), con la preventiva contestazione degli addebiti rivolti al lavoratore e la possibilità per lo stesso di presentare ogni giustificazione.
È poi importante rammentare che il datore di lavoro è tenuto al rispetto del “codice disciplinare”, normalmente contenuto nel contratto collettivo applicabile ai rapporti di lavoro, il quale distingue tra le condotte del dipendente passibili di sanzioni conservative del rapporto di lavoro (ammoni- zione, multa, sospensione temporanea dal lavoro e dalla retribuzione) e quelle suscettibili di licen- ziamento, con o senza preavviso. Nel tempo, poi, la giurisprudenza ha sviluppato alcune ipotesi di licenziamento disciplinare anche per fatti o condotte non comprese nei codici disciplinari, quando il lavoratore abbia comunque violato regole etiche o giuridiche di carattere generale (ad esempio commettendo illeciti di rilevanza penale a danno del datore di lavoro, di colleghi, di clienti, ecc.).
QUALI SANZIONI (SINO AD OGGI) PER IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE INGIUSTIFICATO?
Il lavoratore che subisce un licenziamento per motivo soggettivo ha ovviamente il diritto di impu- gnarlo (nel rispetto dei termini di decadenza, oggi modificati dopo la legge 183/2010), chiedendo al Giudice di valutarne la legittimità.
I vizi che possono riguardare un licenziamento disciplinare (e salva la diversa ipotesi in cui ne sia dimostrato addirittura il carattere discriminatorio o nullo) sono i più vari.
22
GUIDA AL JOBS ACT
Citando solo i più frequenti, si pensi a: - la violazione della procedura ex art. 7 dello statuto dei lavoratori; - il difetto di tempestività e immediatezza (cioè: il datore di lavoro era da tempo a cono- scenza della condotta del lavoratore, senza reagire, e l’ha contestata solo a una notevole distanza di tempo); - l’infondatezza delle accuse rivolte al dipendente (il lavoratore non ha commesso il fatto che gli è stato contestato, oppure quel fatto si è svolto in modo significativamente diverso, o quella condotta era giustificata da circostanze tali da renderlo non colpevole, o comunque scusa- bile); - il difetto di proporzionalità (la condotta del lavoratore non era di gravità tale da giustificare il licenziamento, anche considerando la scala delle sanzioni disciplinari previste dal contratto col- lettivo); - il difetto di rilevanza disciplinare della condotta contestata (la condotta del lavoratore è sussistente, ma non costituisce un inadempimento).
Sino al 2012 tutti questi vizi davano luogo – per i rapporti di lavoro soggetti all’art. 18 dello statuto dei lavoratori – ad un unico regime sanzionatorio, consistente nel diritto del lavoratore alla rein- tegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento integrale del danno retributivo (e al versamento dei contributi previdenziali) per il periodo tra il momento del licenziamento alla reintegrazione. Dunque era sempre garantita – se il Giudice riteneva ingiustificato il recesso, per uno o più dei vizi sopra esemplificati – la stabilità del posto di lavoro (salvo il diritto del lavoratore, una volta inter- venuta la sentenza di reintegrazione, di rinunciare al rientro in servizio optando per una indennità alternativa, di quindici mensilità di retribuzione globale di fatto, aggiuntiva rispetto al risarcimento ottenuto per il periodo di illegittimo allontanamento).
Con la legge 92/2012 l’art. 18, come è noto, è stato modificato prevedendo regimi sanzionatori distinti (che sono poi quelli ancora applicabili ai lavoratori non interessati al CTC).
Per quel che riguarda il licenziamento disciplinare, i regimi sanzionatori possibili sono tre:
- il regime che prevede ancora la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno per il periodo di allontanamento (ma con un tetto massimo equivalente a dodici mensilità di retribu- zione globale di fatto), il quale si applica quando il Giudice accerta che non ricorrono il giustificato motivo soggettivo o la giusta causa addotti dal datore di lavoro “per insussistenza del fatto con- testato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”;
- il regime che prevede una tutela esclusivamente economica (senza ricostituzione del rapporto di lavoro), applicabile “nelle altre ipotesi in cui (il Giudice) accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro”; in questo caso, il Giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva, variabile tra dodici e ventiquattro mensilità della retribuzione globale di fatto;
- il regime che prevede nuovamente una tutela esclusivamente economica ma ridotta, riguar- xxxxx l’ipotesi in cui si sia verificata soltanto una violazione dell’obbligo di specifica motivazione del licenziamento, e, soprattutto, della procedura disciplinare di cui all’art. 7 stat. lav. (e sempre che non sussista uno dei vizi sostanziali più gravi di cui ai precedenti regimi); anche in questo caso il Giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria, variabile però tra sei e dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
23
LE REGOLE DEL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE PER I NUOVI ASSUNTI. IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE
Se non si dà luogo alla reintegrazione, il lavoratore avrà anche diritto al pagamento dell’indennità di preavviso, nell’ipotesi in cui sia stato licenziato per giusta causa (dunque in tronco) e questa non sia stata confermata in sede di giudizio.
I DUBBI INTERPRETATIVI SUL REGIME SANZIONATORIO DELL’ART. 18 POST-LEGGE FORNERO
Le modifiche del 2012, ora sintetizzate, hanno sollevato una serie di dubbi applicativi, riguardanti soprattutto l’esatta individuazione del confine tra i casi di licenziamento ingiustificato che merita- no la sanzione della reintegrazione e quelli destinatari della sola sanzione economica.
La questione si è concentrata soprattutto sul significato da attribuire al concetto di “insussistenza del fatto contestato” (presupposto della reintegrazione).
In sintesi, può dirsi che a fronte di una tesi rimasta minoritaria, che tendeva a identificare nel fatto la sola condotta “materiale” del dipendente (ponendosi cioè la questione se il fatto storico - ad esempio il danneggiamento di un impianto - si sia verificato o meno, e da parte di quel lavorato- re), la prevalente giurisprudenza si è orientata nel senso di considerare il fatto contestato come comprensivo anche delle sue connotazioni giuridiche, quali l’imputabilità, l’elemento soggettivo, ecc. (dunque verificando se la condotta sia non solo materialmente esistente ma anche imputabi- le soggettivamente al lavoratore, priva di rilevanti scusanti ecc.: ad esempio se il danneggiamento non sia stato prodotto incolpevolmente, o quale effetto di uno stato di necessità).
Bisognerebbe, per una migliore comprensione del problema, approfondire la ricca casistica, cosa che non può qui farsi per ragioni di sintesi. Si può però osservare come i giudici siano ragione- volmente preoccupati che dalla nuova disciplina non derivino esiti irrazionali: ciò che ad esempio avverrebbe se un licenziamento per un fatto materialmente verificatosi, ma privo di colpevolezza, fosse sanzionato con il solo indennizzo mentre il licenziamento per una condotta grave, verificata- si e colpevole, fosse sanzionato con la reintegrazione per il fatto che per quella condotta il codice disciplinare preveda la massima sanzione conservativa.
La reintegrazione è poi sempre dovuta, come si è visto, quando il codice disciplinare preveda che la condotta contestata, e posta a base del recesso, sia riconducibile alle sanzioni conservative.
Qui è però sorto il problema dei contratti collettivi che contengono talvolta previsioni generiche, o che distinguono i fatti passibili di sanzione conservativa da quelli passibili di licenziamento (per lo stesso genere di condotta) secondo una valutazione di minore o maggiore gravità, non meglio de- finita (ad es. la distinzione tra insubordinazione lieve o grave). Ancora una volta la giurisprudenza sembra orientarsi nel senso di ricondurre alla violazione del principio di proporzionalità (sulla base delle previsioni del codice disciplinare, non solo come ipotesi esplicite ma anche come parametri generali di gravità) un difetto del licenziamento che merita la reintegrazione.
Si può dire che attualmente, per i dipendenti ai quali si applica (e continuerà ad applicarsi) l’art. 18 stat. lav., laddove il licenziamento non venga ritenuto giustificato dal giudice, e salvo verificare caratteristiche specifiche dei singoli casi, accadrà quanto segue:
- se l’annullamento del recesso avviene perché il datore di lavoro non prova che la condotta con- testata al lavoratore si è verificata, o non prova che la stessa è materialmente attribuibile a quel lavoratore, il dipendente sarà reintegrato;
24
GUIDA AL JOBS ACT
- se il giudice ritiene che la condotta, pur verificatasi e attribuibile al lavoratore, non costituisce un inadempimento o è priva dell’elemento soggettivo (non era voluta dal lavoratore, nemmeno colpevolmente), il dipendente sarà reintegrato;
- il dipendente sarà egualmente reintegrato se il giudice ritiene che la condotta contestata sia ri- conducibile ad una ipotesi per la quale il codice disciplinare prevedeva una sanzione conservativa;
- nel caso in cui l’illegittimità del licenziamento derivi da una valutazione di proporzionalità tra condotta e reazione del datore di lavoro, ma in assenza di previsioni specifiche del codice disci- plinare, la conseguenza sarà la reintegrazione o il mero indennizzo, a seconda dell’orientamento interpretativo del singolo giudice;
- se la condotta contestata sia riconducibile a un’ipotesi per la quale il codice disciplinare preve- deva il licenziamento, ma il giudice ritenga egualmente ingiustificato il recesso per via di altre circostanze (ad esempio perché il lavoratore, pur colpevole di una grave insubordinazione, aveva subito una provocazione o era in stato di acuta tensione per problemi di lavoro), verrà probabil- mente riconosciuta la sola tutela economica.
Infine, deve ricordarsi che se il giudice rileva l’esistenza di un vizio solo procedurale (violazione della procedura ex art. 7 stat. lav.), pur sussistendo sul piano dei fatti la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo, la conseguenza sanzionatoria sarà di carattere solo economico, con riconosci- mento di una indennità dimezzata (da sei a dodici mensilità di retribuzione globale di fatto).
IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE NEL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI
La questione della sanzione del licenziamento disciplinare ingiustificato è stata al centro della discussione sulla nuova disciplina, contrapponendosi diverse tesi di politica del diritto.
Da un lato vi erano coloro che spingevano per il superamento generalizzato della tutela reinte- gratoria, invocando soprattutto le esigenze di certezza del datore di lavoro sui rischi e costi del recesso, e paventando le incertezze e il carattere non uniforme della valutazione giudiziaria sulle condotte dei lavoratori. Tale ultimo argomento viene speso richiamando talvolta qualche caso (ri- tenuto) clamoroso, ma quasi sempre senza adeguata verifica di cosa fosse accaduto davvero, o con ricostruzioni di comodo. È quasi una “leggenda” il caso della presunta reintegrazione in servizio, da parte di un giudice, del garzone di una macelleria licenziato per una “tresca” con la moglie del titolare; ma si tratta appunto di una leggenda, perché in quella nota sentenza (risalente agli anni ‘70 dello scorso secolo) il licenziamento era stato in effetti ritenuto viziato per motivi procedurali, ma si trattava di una piccola impresa e la sanzione era stata solo un modesto risarcimento...
D’altro canto, vi sono coloro che, con ragione, ritengono che se un dipendente viene licenziato perché accusato di una condotta scorretta, ma tale accusa risulti infondata o la sanzione risulti del tutto sproporzionata rispetto al fatto commesso, ha diritto a riprendere il lavoro, essendo in gioco esigenze di carattere sociale (la tutela del suo reddito e delle sue esigenze familiari), e dovendosi soprattutto evitare abusi che trasformino il luogo di lavoro in un luogo di arbitrio. D’altro canto, si osserva, la pluralità e varietà delle decisioni giudiziarie è un elemento (e ricchezza) del siste- ma e dello stato di diritto, esistendo comunque rimedi e garanzie nei confronti di una decisione eventualmente errata.
25
LE REGOLE DEL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE PER I NUOVI ASSUNTI. IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE
La soluzione adottata dal decreto sul CTC rappresenta chiaramente un compromesso tra le due tendenze, realizzando comunque, per i nuovi assunti, una tutela meno estesa rispetto al licenzia- mento ingiustificato: tale soluzione, peraltro, appare realizzata in evidente violazione dei criteri che la legge delega aveva indicato al legislatore delegato, secondo i quali la reintegrazione avreb- be dovuto essere limitata ad alcune “specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustifi- cato”: fattispecie che perciò avrebbero dovuto essere individuate dal legislatore delegato, il quale al contrario ha tradito la delega.
L’art. 3 del decreto prevede che, in linea generale, all’accertamento dell’assenza degli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa consegua una sanzione meramente economica: il giudice deve dichiarare estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento, e condannare il datore di lavoro al pagamento di un’indennità pari a due mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a quattro mensilità e non superiore a ventiquattro. Dunque una misura solo economica che, almeno per i rapporti di lavoro di non elevata anzianità, si colloca decisamente al di sotto anche del regime indennitario previsto dall’art. 18 stat. lav..
Sulle modalità di computo dell’indennizzo, e sulla nozione di “retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto” (utilizzata dal decreto come base per l’indennizzo, in al- ternativa a quella tradizione di “retribuzione globale di fatto”) vedi più avanti lo specifico capitolo. Il comma 2 dell’art. 3 prevede poi la possibilità di dar luogo alla reintegrazione del lavoratore, utilizzando la seguente espressione: “Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”, il giudice annullerà il licenziamento e condannerà il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno (regime in questo caso analogo a quello previsto dall’art. 18, comma quarto, stat. lav.).
Tra i commentatori si è subito aperta la discussione sul significato del riferimento alla “insussisten- za del fatto materiale contestato al lavoratore”, che appare ispirato alla volontà di limitare l’apprez- zamento da parte del giudice di elementi di carattere giuridico. È difficile spendere sul punto tesi interpretative certe, per le quali dovrà attendersi il pronunciamento della giurisprudenza.
Si è però subito osservato, a ragione, che il riferimento al fatto “contestato” impedisce di limitare la verifica di sussistenza alla “materia” intesa in senso fisico, almeno tutte le volte in cui la conte- stazione inglobi un elemento di carattere soggettivo.
Per fare degli esempi, laddove al lavoratore venga contestato di avere tirato un pugno ad un collega la verifica del fatto materiale appare abbastanza semplice (il pugno o vi è stato, o non vi è stato); laddove invece venga contestato il danneggiamento volontario degli impianti, la verifica del fatto materiale non può limitarsi all’effettiva sussistenza del danno e della sua riconducibilità al lavoratore, ma dovrà estendersi all’elemento soggettivo della coscienza e volontà del danneg- giamento (al dolo).
Nel primo caso, laddove il giudice verifichi che il pugno vi è stato, sembra che non possa aversi la reintegrazione nemmeno se per altri motivi (ad esempio le circostanze del fatto, la provocazione del collega, la carriera specchiata del colpevole, ecc.) il giudice debba ritenere non giustificato il
26
GUIDA AL JOBS ACT
licenziamento (e in tal caso condannerà il datore di lavoro al solo indennizzo). Nel secondo caso, la mancanza di prova della volontà del danneggiamento, che risulti solo colposo, dovrebbe neces- sariamente condurre alla reintegrazione per insussistenza del fatto contestato.
Tali valutazioni potranno essere fatte soltanto di volta in volta, in relazione alle caratteristiche del caso concreto. La novità più evidente e rilevante, e di notevole riduzione della tutela del lavoratore, consiste nella dichiarata esclusione dall’area della reintegrazione dei casi di censura del licenziamento per difetto di proporzionalità, alla quale deve accostarsi l’esclusione implicita dei casi di licenziamento illegittimo perché in contrasto con le disposizioni del codice disciplinare (quando questo preveda, per il fatto contestato, una sanzione conservativa).
In entrambe le ipotesi, infatti, il licenziamento potrebbe essere considerato ingiustificato nono- stante la conferma della sussistenza della condotta contestata, ma con una sanzione (solo) eco- nomica.
È evidente l’assurdità che ne deriverà in molti casi: pensiamo all’ipotesi del licenziamento motivato per l’assenza ingiustificata di un giorno, o per la violazione del divieto di fumo, in un’impresa il cui codice disciplinare riconduca a tali condotte una mera multa. Se il datore di lavoro, pur sapendo bene di non potere farlo, licenzia egualmente il lavoratore, la regola introdotta dal decreto sembra consentire soltanto la tutela economica, e con un indennizzo di entità per lungo tempo modesta. Nei casi di più evidente irragionevolezza della sanzione, dovranno dunque valutarsi possibilità diverse di tutela del lavoratore.
È il caso in cui il datore di lavoro licenzia il dipendente contestandogli una condotta effettivamente verificatasi, ma priva di qualsiasi rilevanza disciplinare (ad esempio il fatto che non abbia risposto al saluto di un collega). In casi simili (si spera estremi e improbabili) dovrà ritenersi insussistente il fatto contestato in quanto privo, appunto, della consistenza minima dell’inadempimento (potrem- mo dire: insussistenza di un fatto contestabile).
Un’ipotesi a sé è quella, invece frequente, del licenziamento per giusta causa fondato su un fatto estraneo alla sfera lavorativa e riguardante la vita privata del lavoratore, ma ritenuto da parte del datore di lavoro lesivo del c.d. vincolo fiduciario. Si tratta della c.d. “giusta causa esterna”, spesso ricollegata alla commissione da parte del lavoratori di un illecito penale – ad es. il reato di spaccio di stupefacenti – in una dimensione del tutto estranea a quella del lavoro. Anche in questa ipotesi
– e tenendo conto del consolidato orientamento per cui il licenziamento per vicende estranee al rapporto è ammissibile solo ove ne sia dimostrata l’incidenza sull’idoneità del lavoratore a svol- xxxx le sue mansioni, o la concreta lesione dell’immagine aziendale – per ritenere sussistente il “fatto materiale contestato” non basterà che il lavoratore abbia effettivamente tenuto la condotta illecita, ma ne andrà altresì dimostrata la concreta incidenza sul vincolo fiduciario (essendo questo l’elemento centrale della giusta causa, in tale tipologia di recesso).
Resta poi la possibilità, nei casi di più evidente abuso (il licenziamento basato su un comporta- mento del tutto irrilevante o risibile, al fine di disfarsi del dipendente mettendo in conto di pagare un modesto costo indennitario), di fare ricorso all’istituto civilistico della frode alla legge, idoneo a rendere radicalmente nullo il recesso.
Infine, nel caso di evidente violazione da parte del datore di lavoro del codice disciplinare (come
27
LE REGOLE DEL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE PER I NUOVI ASSUNTI. IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE
negli esempi sopra formulati dell’assenza per un solo giorno, o della violazione del divieto di fumo in ambienti non pericolosi) potrà valutarsi la possibilità di affiancare, alla modesta tutela legale, le conseguenze risarcitorie della violazione di un impegno di carattere negoziale.
Per concludere appare ancora più evidente, per i lavoratori soggetti al nuovo e più debole regime di tutela, la necessità di procurarsi, fin dallo svolgimento delle difese nella procedura disciplinare, e poi nell’impugnazione del licenziamento, un’adeguata assistenza tecnica.
IL VIZIO ESCLUSIVAMENTE PROCEDURALE
La nuova disciplina ribadisce (come già aveva fatto la Legge Fornero nell’ambito del nuovo art. 18) la previsione di una sanzione diversa, di carattere solo economico e di importo ridotto, per le mere violazioni di carattere procedurale, ovvero (oltre che per la carenza di motivazione del licenziamento) per l’inosservanza delle disposizioni dell’art. 7 stat. lav.
Anche in questo caso il rapporto di lavoro viene dichiarato estinto dal giudice, il quale condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità pari a una mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità.
La tutela è veramente modestissima, a maggior ragione considerando che la procedura dell’art. 7 non rappresenta un mero orpello burocratico, ma realizza, nell’ambito dell’esercizio del potere disciplinare eccezionalmente concesso al privato datore di lavoro, i principi di legalità e di tutela del contraddittorio.
Ma tale tutela ha carattere residuale, nel senso che si applicherà soltanto ove non vengano invo- cate le tutele più elevate per i vizi sostanziali di giustificazione del recesso, di cui abbiamo discusso sopra (e che il lavoratore, potendo, dovrà sempre invocare in prima battuta).
Va poi affermato che la violazione della procedura riguarda, appunto, la non corretta applicazione degli aspetti procedurali (termini, forma, audizione ecc.), e non si estende invece ad aspetti di carattere sostanziale (quali sono la completa omissione della procedura stessa, la non tempesti- vità e la genericità delle contestazioni), aspetti per i quali dovranno di volta in volta invocarsi le sanzioni più rilevanti.
IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE
PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO
Studi “Legalilavoro”
I LICENZIAMENTI ECONOMICI: UNA POLEMICA CHE DURA DA ANNI
Fin dall’inizio della discussione sul Jobs Act è apparso chiaro che sul tema del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sarebbero state assunte le soluzioni più radicali. Da molti anni, infatti, assistiamo a una vera e propria offensiva contro la verifica giudiziale sulla decisione dell’impren- ditore di licenziare un lavoratore per motivi organizzativi o economici, fino a proporre di eliminare del tutto la possibilità di tale verifica stabilendo un costo fisso (un’indennità) per ogni licenziamen- to basato su motivi diversi da quelli soggettivi.
Si sono spesi argomenti retorici di ogni genere: la necessità di una maggiore flessibilità “in uscita” (anche come condizione che induca ad una maggiore propensione ad assumere), la certezza delle scelte organizzative dell’impresa, la costruzione di condizioni per attrarre investimenti, la sfiducia nella capacità di un giudice di valutare questioni attinenti alla vita dell’impresa, ecc.
A quelle proposte si è sempre opposta l’impossibilità e inaccettabilità di regole che escludessero il controllo giudiziario sul licenziamento: esso è infatti imposto dalle fonti internazionali, e costitui- sce una essenziale garanzia e tutela per le libertà fondamentali del lavoratore il quale, in assenza di tale controllo, rimarrebbe esposto al possibile arbitrio.
Come si vedrà, la disciplina ora introdotta per i nuovi assunti conferma la possibilità per il lavo- ratore di impugnare il licenziamento, intimato per ragioni oggettive, e di chiedere sullo stesso una verifica giudiziale. Tuttavia, il regime sanzionatorio è talmente indebolito (soprattutto per i lavoratori di non elevata anzianità di servizio) da poter ritenere che, di fatto, si è giunti ad un si- stema che consente al datore di lavoro di assumere la decisione del recesso in modo assai libero, limitandosi a mettere in conto di poter essere soltanto chiamato a pagare un costo aggiuntivo, spesso modesto.
La legge delega, n. 183/2014, all’art. 1, comma settimo, lett. c), ha stabilito chiaramente che il regime del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti dovesse “esclude(re) per i licenzia- menti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio” (laddove invece, come si è visto, per i licenziamenti “non economici” la reintegrazione doveva essere limitata a “specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare non giustificato”).
Il concetto di licenziamento economico non era invero mai stato utilizzato dal legislatore, appar- tenendo semmai alla discussione teorica dei giuristi. Esso può leggersi come concetto riassuntivo delle ipotesi legali di licenziamento per motivi oggettivi, cioè non legati alla persona del lavora- tore, e in particolare del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo e dei licenzia- menti collettivi per riduzione del personale (dei quali parleremo più avanti). Il decreto adempie dunque al compito indicato dalla legge delega, escludendo radicalmente, per entrambe le ipotesi, la possibilità della reintegrazione.
COS’È IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO?
L’art. 3 della l. 604/1966 prevede che il lavoratore, oltre che per motivi disciplinari, possa essere licenziato per “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”: è il c.d. giustificato motivo oggettivo.
30
GUIDA AL JOBS ACT
Nel corso dei decenni la giurisprudenza ha riempito di contenuti tale disposizione di carattere generale, elaborando criteri per la verifica della legittimità del licenziamento. Non ogni ragione economica affermata dal datore di lavoro, infatti, rende giuridicamente giustificato (e quindi le- gittimo) il recesso. In primo luogo, il datore di lavoro ha l’onere di provare le circostanze addotte a giustificazione, le quali dunque devono essere veritiere ed effettive. In secondo luogo, dovrà altresì essere dimostrato che tra quelle ragioni e il licenziamento di quel lavoratore vi è un chiaro legame oggettivo (il c.d. nesso di causalità).
Ma non basta, perché la giurisprudenza richiede normalmente che le ragioni economiche addot- te siano di serietà e consistenza tale da giustificare effettivamente il sacrificio della stabilità e del reddito imposto al lavoratore: talvolta si richiede che la modifica organizzativa che conduce al licenziamento sia imposta da uno stato di difficoltà economica, o almeno dalla necessità di prevenire un peggioramento dell’andamento dell’impresa. La ragione può essere anche legata a modifiche tecnologiche (le quali, ad esempio, non rendano più necessaria una certa professio- nalità), ma spesso si chiede che il datore di lavoro verifichi, prima di licenziare, la possibilità di adattamento professionale del lavoratore alla nuova condizione.
Ancora, la giurisprudenza ha elaborato nel tempo il c.d. “obbligo di ricollocamento”, secondo il quale la prova delle ragioni organizzative che conducono a sopprimere una certa posizione di lavoro non basta per giustificare il recesso, quando il lavoratore poteva essere ricollocato su altra posizione libera nell’ambito aziendale (eventualmente anche di livello professionalmente inferio- re, se il lavoratore è d’accordo).
Nei casi in cui il licenziamento nasca dalla necessità di eliminare una funzione coperta da più la- voratori, la giurisprudenza verifica che il datore di lavoro abbia compiuto la scelta di chi licenziare nel rispetto di criteri di correttezza e buona fede, tenendo conto anche della diversa gravità del licenziamento in relazione alle condizioni personali o familiari dei lavoratori.
QUALI SANZIONI VI ERANO (SINO AD OGGI) PER IL LICENZIAMENTO PER MOTIVO OGGETTIVO INGIUSTIFICATO?
Tutti tali temi, da valutare ovviamente di volta in volta, possono portare il giudice a ritenere il licenziamento ingiustificato. Con quali conseguenze?
Sino al 2012, la valutazione di illegittimità del licenziamento per motivo oggettivo aveva sempre come conseguenza – per i rapporti di lavoro soggetti all’art. 18 dello statuto dei lavoratori – la con- danna alla reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al risarcimento integrale del danno retributivo e al versamento dei contributi previdenziali per il periodo tra il momento del licenziamento alla reintegrazione (il regime era il medesimo dei licenziamenti per motivi soggettivi).
Con il nuovo art. 18, modificato dalla legge 92/2012, il giustificato motivo oggettivo ha un regime sanzionatorio distinto da quello del licenziamento disciplinare, pur se giocato anche qui sulla di- stinzione tra i casi che meritano ancora la reintegrazione e quelli suscettibili solo di un indennizzo economico. Inoltre, la legge 92 ha introdotto una specifica procedura obbligatoria preventiva al recesso (ne parleremo più avanti).
Tale regime è quello che continuerà ad applicarsi ai lavoratori non interessati al CTC.
31
IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO
Se all’interno della procedura prevista dalla legge n. 92/2012- che si svolge presso la DTL - non si dovesse raggiungere alcun accordo sul recesso, e questo venisse definitivamente intimato, il lavoratore potrà impugnarlo (sempre nei termini di decadenza previsti dall’art. 6 della legge n. 604/1966, e successive modifiche). Ove ottenga una pronuncia di invalidità, i regimi sanzionatori possibili sono tre:
- il regime che prevede ancora la possibilità della reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimen- to del danno per il periodo di allontanamento (sempre col tetto massimo equivalente a dodici mensilità di retribuzione globale di fatto), il quale si applica quando il Giudice accerta “la mani- festa insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”;
- il regime che prevede una tutela esclusivamente economica (senza ricostituzione del rapporto di lavoro), applicabile “nelle altre ipotesi in cui (il giudice) accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo”; in questo caso, il Giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’inden- nità risarcitoria onnicomprensiva, variabile tra dodici e ventiquattro mensilità della retribuzione globale di fatto;
- il regime che prevede nuovamente una tutela esclusivamente economica, ma ridotta, riguardan- te l’ipotesi in cui si sia verificata soltanto una violazione dell’obbligo di specifica motivazione del licenziamento o della procedura avanti la Direzione territoriale del lavoro sopra richiamata; anche in questo caso il Giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria, variabile però tra sei e dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Il lavoratore ha comunque sempre diritto, in caso di licenziamento economico, al pagamento dell’indennità di preavviso se questo non si è svolto in servizio (indennità eventualmente da com- pensare successivamente con il risarcimento del danno, ove venga reintegrato).
Il nuovo testo dell’art. 18 ha sollevato molti dubbi interpretativi, ancora non risolti, in particolare concentrati su cosa rientri esattamente nel concetto di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”. La soluzione più ragionevole sembra essere quella per cui il giudizio sulla sussistenza del fatto debba qui intendersi riferito alla verità ed effettività dei motivi economici e organizzativi invocati dal datore di lavoro a giustificazione del licenziamento, così come alla sus- sistenza in concreto del nesso causale tra tali motivi ed il licenziamento di quel lavoratore (nesso causale che implica anche la valutazione della consistenza e rilevanza dei motivi, dunque della loro idoneità a giustificare la necessità del recesso).
Vi è invece incertezza su cosa esattamente si intenda per “manifesta” insussistenza, la quale pro- voca la reintegrazione del lavoratore (mentre l’insussistenza “non manifesta” del fatto dà luogo alla sola sanzione indennitaria). Ancora, vi è incertezza tra gli interpreti sulle conseguenze della violazione dell’obbligo datoriale di ricollocare il lavoratore, ove ciò sia possibile, invece di licen- ziarlo (violazione che per alcuni dà luogo di nuovo alla reintegrazione, per altri alla sola indennità). Invece, pare diffusa l’opinione che l’invalidità che emerga quando il datore di lavoro non abbia seguito criteri corretti nello scegliere tra più lavoratori licenziabili, in presenza di ragioni comunque sussistenti, dia luogo alla sola sanzione indennitaria.
32
GUIDA AL JOBS ACT
Tali dubbi continueranno a sussistere per il licenziamento dei dipendenti già in servizio: per i lavo- ratori nuovi assunti, come si vedrà tra un attimo, la questione è ormai molto semplificata, con un peggioramento drastico della tutela.
IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE PER MOTIVO OGGETTIVO NEL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI: QUALI POSSIBILITÀ DI TUTELA?
La legge delega n. 183/2014 ha dunque dato mandato al Governo di escludere per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione, prevedendo solo un indennizzo economico, in misura predeterminata in relazione all’anzianità di servizio.
Come si è detto, non è stata accolta la proposta di inserire un meccanismo che prevedesse un costo automatico per il licenziamento ed escludendo la sindacabilità giudiziaria delle ragioni or- ganizzative addotte dal datore di lavoro. Dal lato del datore di lavoro, ciò significa mantenere la possibilità di dimostrare in giudizio le buone ragioni del licenziamento e dunque ottenere che lo stesso non sia in alcun modo sanzionato, rimanendo esposto in tal caso ai soli costi ordinari della cessazione di un rapporto di lavoro (il preavviso e il trattamento di fine rapporto).
Se la scelta di avere conservato la possibilità di contestare in sede giudiziale la validità del licen- ziamento per g.m.o. deve considerarsi positiva, oltre che dovuta, si è già osservato che i costi relativamente modesti del nuovo regime sanzionatorio consentono al datore di lavoro, quando pure sia cosciente di non avere un serio motivo per licenziare, di farlo egualmente, costruendo a tavolino o enfatizzando una certa scelta organizzativa (e mettendo in conto il costo aggiuntivo dell’indennizzo economico).
Infatti, l’art. 3, comma primo, del decreto prevede per i nuovi assunti che quando il giudice accerti che non sussistono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve dichiarare estinto il rapporto e condannare il datore di lavoro al pagamento di un’indennità pari a due men- silità di retribuzione per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a quattro mensilità e non superiore a ventiquattro.
Sulla nozione di retribuzione utile a tal fine e sul modo di calcolare in concreto l’indennizzo si rinvia di nuovo allo specifico approfondimento (vedi capitolo più innanzi).
Abbiamo dunque qui soltanto una sanzione economica, fissata in un’entità (almeno per i rapporti di lavoro di non elevata anzianità) decisamente al di sotto dell’analogo regime indennitario pre- visto dall’art. 18 stat. lav.
Tale sanzione sarà dunque destinata a operare in tutti quei casi in cui il datore di lavoro non riesca a dimostrare l’effettività o la rilevanza delle ragioni economiche ed organizzative sulla base delle quali ha deciso il recesso, così come nei casi in cui il lavoratore avrebbe potuto essere ricollocato in azienda, o la sua scelta rispetto ad altri colleghi non sia stata guidata da criteri di correttezza e ragionevolezza.
COME CONTRASTARE L’ABUSO DEL LICENZIAMENTO PER G.M.O.?
È evidente, come si è detto, che un simile sistema si presta a nascondere veri e propri abusi e indebolisce significativamente la condizione contrattuale del lavoratore (e la sua propensione a far
33
IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO
valere proprie ragioni e propri diritti), per il timore di essere destinatari di un licenziamento troppo facile (e a basso costo per il datore di lavoro).
Di fronte a simili licenziamenti sarà necessario mettere in campo una diversa tecnica di tutela, ovvero provare a dimostrare che la vera ragione del recesso (quando ciò accade) non è quella indicata, e risultata insussistente, ma un motivo di carattere illecito o discriminatorio: invocando così la migliore tutela dell’art. 2 del decreto (reintegrazione e pieno risarcimento del danno: vedi più avanti lo specifico approfondimento).
Non si tratta di una via semplice, perché in questo caso l’onere della dimostrazione del carattere invalido del licenziamento incombe sul lavoratore. Tuttavia, sarà possibile chiedere al giudice di avvalersi della tecnica delle presunzioni, ovvero quelle “conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato” (art. 2727 cod. civ.), che in questo caso, non es- sendovi sul punto previsioni legali, sono affidate alla valutazione del giudice il quale può utilizzare le “presunzioni gravi, precise e concordanti” (art. 2729).
Tale tecnica è già entrata da tempo nel contenzioso sui licenziamenti, ma in casi relativamente limitati. E ciò perché, semplicemente, non ve ne era bisogno: un recesso di scarsa consistenza trovava infatti la propria sanzione, con la reintegrazione, nella disciplina generale, senza necessità di far ricorso alla sanzione del licenziamento nullo o discriminatorio. Ci si augura che, nel nuovo contesto di disciplina e con i rischi sopra richiamati, la giurisprudenza si dimostrerà più disponibile a farne uso (sempre che le azioni vengano proposte dai lavoratori interessati con adeguata assi- stenza tecnica, e facendo un uso appropriato e non superficiale della tecnica qui in discussione). La stessa inconsistenza o addirittura la totale inesistenza delle ragioni di licenziamento addotte dal datore di lavoro dovrebbero essere considerati elementi idonei a farne presumere il carattere illecito. Sarà onere del lavoratore allegare e supportare, ad esempio, ulteriori circostanze relative alle relazioni con il datore di lavoro, o con singoli dirigenti, tali da far ritenere che le vere ragio- ni dell’allontanamento siano altre e non dichiarate, quali ad esempio una condotta sgradita ai superiori, il fatto di essere stati in rapporti di stretta collaborazione con un precedente manager (fattore che purtroppo talvolta induce nuovi dirigenti a ‘disfarsì di collaboratori ritenuti per ciò solo meno affidabili), il fatto di avere utilizzato diritti di legge o contrattuali (ad es. congedi genitoriali, permessi per assistenza a familiari invalidi, ecc.) o di avere avuto periodi di malattia (senza rag- giungere il comporto), ecc.
Valgono poi, ovviamente, i fattori discriminatori indicati dal legislatore, da interpretare peraltro come elenco aperto (potendo ad esempio contestare come discriminatorio, o comunque ritorsivo, il caso del licenziamento economico intimato dopo che il dipendente ha avviato una azione stra- giudiziale o giudiziaria a tutela dei propri diritti).
L’ideale, ovviamente, è poter dimostrare in tali casi l’esistenza di un altro vero motivo (non lecito e comunque non dichiarato) per il quale il datore di lavoro ha deciso il licenziamento, se questi lo ha in qualche occasione manifestato (ciò che potrà in qualche caso essere provato con testimo- nianze di xxxxxxxx, od anche con registrazioni effettuate direttamente dal lavoratore: registrazioni che la giurisprudenza ritiene lecite e ammissibili come prove, purché effettuate dallo stesso lavo- ratore in sua presenza).
34
GUIDA AL JOBS ACT
QUANDO IL DATORE DI LAVORO OFFRE UN ACCORDO ECONOMICO INVECE DEL LICENZIAMENTO: LA RISOLUZIONE CONSENSUALE
La nuova disciplina è destinata ad avere un impatto rilevante anche su una prassi molto frequente, ovvero quella degli accordi “in uscita” tra datore di lavoro e lavoratore, nascenti dalla volon- tà dell’impresa di modificare l’organizzazione del lavoro (o di sostituire il dipendente con altro lavoratore). Molte imprese, infatti, piuttosto che affrontare un licenziamento e i relativi rischi di contenzioso, cercano un accordo per una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.
Da ultimo, come già accennato, tale prassi è stata di fatto formalizzata con la procedura preventiva al licenziamento da svolgersi in sede di Direzione territoriale del lavoro, prevista dall’art. 7 della l. 604/1966 (come modificato nel 2012).
Il datore di lavoro, rientrante nel campo di applicazione dell’art. 18 stat. lav., che intende porre in essere un licenziamento per giustificato motivo oggettivo (che interessi i dipendenti cui si applichi ancora il vecchio regime), deve promuovere una procedura avanti una commissione di conciliazio- ne presso la Direzione territoriale del lavoro, esplicitando i motivi del programmato licenziamento. Scopo principale della procedura è quello di favorire un accordo tra le parti sull’adozione di soluzio- ni alternative al licenziamento o, più spesso, sull’erogazione di un incentivo economico in cambio dell’accettazione del licenziamento stesso. Talvolta, poi, il prospettato licenziamento viene con- vertito in un accordo di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro (soluzione che consente di “monetizzare” a favore del lavoratore il costo del preavviso che altrimenti il datore di lavoro avrebbe dovuto necessariamente riconoscere): ciò avviene anche grazie al fatto che la legge prevede che in tale ipotesi il lavoratore conservi il diritto di accedere nel periodo successivo alle prestazioni previdenziali per la disoccupazione involontaria (oggi la c.d. Aspi, in futuro la Naspi). Infatti, il trattamento di disoccupazione è previsto in generale solo per i casi di disoccupazione involontaria (ed è dunque negato in caso di dimissioni, salvo che siano per giusta causa): ma a tale stato la legge equipara la risoluzione consensuale (solo se) avvenuta nella procedura ora ricordata.
La disciplina prevista per i nuovi assunti ha invece escluso l’applicazione di tale procedura (vedi art. 3, comma quarto). Tale ulteriore deviazione dalla disciplina generale si traduce di nuovo in un pregiudizio per i lavoratori interessati. Infatti, come si è appena visto, nell’ipotesi in cui in occasio- ne di tale procedura sia raggiunto un accordo che preveda la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, invece del licenziamento, la legge garantisce comunque l’accesso alle prestazioni pre- videnziali per la disoccupazione involontaria. Ciò, salvo modifiche allo stato non previste, non si applicherebbe invece agli accordi raggiunti dai nuovi assunti, i quali possono accedere all’Aspi (e poi alla nuova Aspi di prossima introduzione) solo se perdono il lavoro per licenziamento.
Ciò significa che il lavoratore (salvo che abbia concrete prospettive di avviare subito una nuova attività di lavoro) dovrà fare attenzione a non stipulare accordi che prevedano la risoluzione con- sensuale del rapporto, mentre potranno stipularsi eventuali accordi di rinuncia all’impugnazione del licenziamento a fronte del pagamento di un incentivo economico, ove ritenuto conveniente (accordi che lasciano la possibilità di accedere alle prestazioni per la disoccupazione, al termine del periodo di preavviso).
35
IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO
È comunque evidente che per i lavoratore in CTC le possibilità di ottenere un incentivo economica- mente interessante sono molto minori. Nella gran parte dei casi, infatti, il datore di lavoro formula un’offerta parametrata sui rischi dell’eventuale contenzioso sul recesso: l’appiattimento del regime sanzionatorio del licenziamento economico sul solo indennizzo, e la forte riduzione della sua entità (almeno per i lavoratori di non elevata anzianità, che saranno la totalità nei primi anni di applicazione della legge) spingerà le imprese a formulare offerte molto più basse che in passato. Nell’ipotesi di invito del datore di lavoro ad una trattativa sull’uscita del dipendente, è fondamen- tale dunque che questi si procuri un’assistenza tecnicamente adeguata, anche al fine di valutare se nel caso concreto possa ipotizzarsi un’azione diretta a sostenere la nullità del licenziamento, ciò che di per sé potrebbe modificare anche i valori economici della trattativa.
Non va poi dimenticato che in occasione degli accordi sulla cessazione del rapporto di lavoro le imprese chiedono che vi siano inserite rinunce a far valere ogni eventuale diritto e pretesa relativi al rapporto di lavoro che va a chiudersi: ipotesi che va egualmente valutata attentamente, sia me- diante un’accurata “anamnesi” della storia del rapporto di lavoro (per comprendere la rilevanza concreta delle richieste rinunce), sia con riguardo alla formulazione tecnica delle rinunce, che ove inserite devono essere equilibrate.
In ogni caso, per i dipendenti soggetti alla nuova disciplina il decreto ha introdotto una nuova e specifica procedura conciliativa post-licenziamento, sostenuta anche da un regime fiscale agevo- lato. Su di essa, e sulle cautele da adottare nel percorrerla, si tornerà nel capitolo finale di questo commento.
I LICENZIAMENTI PER SOPRAVVENUTA INIDONEITÀ E PER SUPERAMENTO DEL COMPORTO
Studi “Legalilavoro”
IL REGIME DELLA LEGGE FORNERO…
La Legge 92/2012, modificando l’art. 18 dello statuto dei lavoratori, aveva stabilito che il regime della reintegrazione e del risarcimento del danno (pur con tetto massimo di dodici mensilità) si applicasse anche nel caso in cui il giudice “accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del codice civile”. Il primo caso è quello della sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni, ad esempio per l’insorgere di una malattia invalidante o per lo sviluppo di un “tecnopatia” dovuta allo stesso lavoro svolto per lungo tempo (casi frequenti sono quelli dei sopravvenuti problemi muscolari o articolari che rendono non più possibile lo svolgimento di compiti che comportano sforzi, solleva- mento di pesi, ecc.).
In tali casi, tuttavia, il licenziamento è possibile solo ove l’inidoneità sia effettiva e definitiva (e il lavoratore ha diritto di contestare il giudizio di inidoneità formulato dal medico competente incaricato dal datore di lavoro) e a condizione che non sia possibile adibire il lavoratore a man- sioni diverse e compatibili con la sua salute, anche eventualmente di carattere inferiore (principi elaborati anche sulla base di quanto previsto dalle citate disposizioni della legge 68/1999, che è la disciplina generale sul diritto al lavoro dei soggetti disabili).
Di fronte alla diminuita idoneità fisica o psichica, alcune imprese tendono ad affermare comunque l’impossibilità di prosecuzione del rapporto di lavoro e dunque ad allontanare il lavoratore, ritenuto ormai meno produttivo e perciò più costoso. È perciò frequente il contenzioso diretto a verificare se tale impossibilità sia reale, motivato anche e chiaramente da motivi di solidarietà sociale, così come dalla necessità di non trasferire a carico della collettività costi di assistenza per cittadini che possano ancora impiegare la propria capacità, sia pure modificata o ridotta.
Parte della giurisprudenza afferma poi che il licenziamento non sia possibile, o richieda prima un accentuato sforzo di ricollocamento interno da parte dell’impresa, ove la sopravvenuta inidoneità sia imputabile a colpa dello stesso datore di lavoro (quando non abbia adottato misure preventive del carattere patogeno delle lavorazioni o dell’ambiente di lavoro). Resta ferma, per il caso in cui la prosecuzione del rapporto sia davvero impossibile, per effetto di inidoneità imputabile al datore di lavoro, la possibilità del lavoratore di avviare un’autonoma azione risarcitoria.
Proprio la rilevanza degli interessi in gioco giustifica il mantenimento, in caso di giudizio negativo del giudice sulla legittimità del recesso, del più forte regime sanzionatorio della reintegrazione del lavoratore.
La stessa cosa vale, nell’art. 18, per il licenziamento per superamento del comporto di malattia adottato dal datore di lavoro ai sensi dell’art. 2110 cod. civ. Ove il giudice ne ritenga l’illegittimità
– di solito per un calcolo non corretto dei periodi di malattia rilevanti ai fini della maturazione del comporto, oppure perché nel comporto non devono computarsi le malattie imputabili a colpa della stessa impresa – il lavoratore avrà diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Così dunque nell’art. 18 stat. lav, destinato a continuare ad operare per i lavoratori già in servizio.
38
GUIDA AL JOBS ACT
… E QUELLO DEL DECRETO SUL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI
Per i lavoratori assoggettati alla disciplina del nuovo decreto, l’art. 2, comma quarto, ribadisce ed anzi rafforza il regime ora sintetizzato, ma con una formula che solleva un interrogativo. La norma fa infatti riferimento al caso in cui il giudice accerti il difetto di giustificazione del licenziamento “per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68”. Tale ipotesi viene ora ricondotta al regime sanzionatorio più severo previsto dallo stesso art. 2 per il licenziamento discriminatorio o comunque nullo (reintegrazione nel posto di lavoro e pieno risarcimento del danno).
Il riferimento alla disabilità fisica o psichica sembra dover qui intendersi non in senso tecnico (cioè le condizioni di disabilità indicate dall’art. 1 della legge 68/1999, accertate da apposite commis- sioni amministrative) ma come sinonimo di inidoneità, ovvero relativo a tutte le volte in cui il licenziamento è stato motivato per una (presunta) sopravvenuta “non abilità” per lo svolgimento del lavoro.
A differenza di quanto fa l’art. 18, però, non compare più un riferimento espresso ai casi di licen- ziamento per superamento del comporto di malattia.
Non mancheranno tesi dirette a sostenere che, per i nuovi assunti, il superamento del comporto sia un caso di giustificato motivo oggettivo da sanzionare, ove emerga un difetto del recesso, con la debole disciplina indennitaria sopra esaminata. Ma si tratterebbe di una tesi molto discutibile, anche in considerazione del fatto che la disciplina della conservazione del posto di lavoro durante la malattia è direttamente connessa alla tutela della salute del lavoratore, che è un bene di rile- vanza costituzionale (art. 32 Cost.).
La nostra opinione è che anche per i nuovi assunti un licenziamento per superamento del com- porto, ma viziato, dovrà essere sanzionato con la reintegrazione. A tale risultato può condurre sia la stessa disposizione ora riportata la quale, pur non citando più l’art. 2110 cod. civ., fa comunque un generale riferimento ai casi di inidoneità fisica o psichica del lavoratore, tra i quali rientra, come forma di “disabilità” temporanea, la malattia, sia il richiamo alla stessa disciplina imperativa di tutela della salute del lavoratore che, in assenza di specifica sanzione, dovrebbe condurre semmai a ritenere il licenziamento, adottato in contrasto con tale disciplina, radicalmente nullo.
LE POSSIBILITÀ DI MAGGIOR TUTELA: L’AZIONE PER IL CASO DI LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO E NULLO
Studi “Legalilavoro”
PREMESSA: LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO E IPOTESI DI TUTELA
Il lavoratore che ritiene di essere stato ingiustamente licenziato sa di poter contare sui meccanismi di difesa e tutela del diritto al lavoro, costituzionalmente garantito (v. Art. 4 co. 1 Cost., art 30 Carta di Nizza). Ciò che risulta assai meno immediato, per il singolo lavoratore, è individuare quale sia la tutela in concreto applicabile al proprio caso non essendo per nulla facile districarsi nel variegato panorama normativo nazionale sul tema.
Oggi più che mai alla luce dell’ennesimo intervento in materia è necessario chiarire che a fronte di un licenziamento ingiusto non sempre la tutela possibile è il ripristino del rapporto lavorativo, essendo questa ipotesi, definita di “maggior tutela”, limitata a casi specifici e circoscritti.
Rientrano in questo limitato ambito i licenziamenti discriminatori, quelli nulli, quelli inefficaci in quanto intimati in forma orale nonché, come già si è visto quelli intimati per giusta causa e giu- stificato motivo soggettivo in cui venga dimostrata l’insussistenza del fatto materiale contestato. È, quindi, fondamentale comprendere bene quando il lavoratore può dire di aver subito un licen- ziamento di natura discriminatoria o nullo per accedere al regime di maggior tutela.
QUANDO UN LICENZIAMENTO PUÒ DEFINIRSI DISCRIMINATORIO?
Premesso il principio fondamentale di eguaglianza in dignità e diritti sancito dall’art. 1 della Dichia- razione Universale dei diritti umani occorre richiamare il ben noto art. 3 della Costituzione italiana che sancisce il principio di eguaglianza e non discriminazione specificandone le ragioni di: sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.
L’Unione Europea con le direttive comunitarie sul divieto di discriminazioni dirette e indirette (di- rettive 2000/43/CE e 2000/78/CE) individua i fatti che possono dare origine alle discriminazioni basate sulla razza o sull’origine etnica, sulla religione o sulle convinvzioni, sull’handicap, sull’età e sull’orientamento sessuale.
La legislazione nazionale ha nel tempo codificato varie ipotesi (si badi bene non tassative) di licenziamento discriminatorio, che è utile ricordare con un breve excursus storico-normativo.
Occorre risalire al 1966 per avere una prima individuazione di ipotesi di licenziamento di natura discriminatoria, l’art. 4 della legge n. 604/66, infatti, sanziona con la nullità i licenziamenti de- terminati da “ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali”.
Un passo in avanti è stato poi fatto con lo Statuto dei Lavoratori (art. 15 L.n.300/70), ampliato da interventi normativi successivi (L. n. 903/77 art 13; D.lgs. n. 216/2003 art 4) che sancisce la nullità dei patti o degli atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.
In sintesi, estrapolando dalle norme su indicate il concetto di atto discriminatorio ai fini dell’ap- plicazione della tutela reintegrativa piena, ne ricaviamo un elenco che, per quanto non tassativo, possiamo considerare abbastanza esaustivo circa le ipotesi di discriminazioni, che spazia da quelle di genere a quelle basate sull’età, sull’orientamento sessuale, sulla razza sulla religione professata nonché sulle idee politiche e/o sindacali, sulle caratteristiche fisiche, sullo stato di salute e più in
40
GUIDA AL JOBS ACT
generale sulle convinzioni personali.
IN QUALI CASI, FUORI DALLE DISCRIMINAZIONI, IL LICENZIAMENTO È NULLO?
Tali sono i licenziamenti comminati in concomitanza di matrimonio (ossia nel periodo intercorrente dal giorno delle pubblicazioni, in quanto segua il matrimonio, e fino a un anno dalla celebrazione) ai sensi dell’art. 35 del D.Lgs. 198/2006. Analogamente, ai sensi dell’art. 54 D.Lgs. n° 151/2001, è vietato e nullo il licenziamento in concomitanza di gravidanza della lavoratrice (dal momento del concepimento all’anno di vita del bambino), e quello comminato al padre e alla madre in concomi- tanza della richiesta di congedo e per la malattia del bambino nonché in caso di fruizione del con- gedo per adozione o affidamento, fino ad un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare. Ulteriore fattispecie riconducibile all’area dei licenziamenti nulli è il licenziamento ritorsivo ovvero fondato su motivo illecito determinante ai sensi dell’art 1345 c.c. Si tratta di tutti quei casi in cui il licenziamento costituisce una ingiusta ed arbitraria reazione datoriale conseguente all’esercizio di un diritto, di una prerogativa o di un dovere da parte del lavoratore.
A titolo esemplificativo, l’aver svolto un’azione stragiudiziale o giudiziale, o aver reso una testi- monianza in tribunale, aver denunciato condotte illecite o aver reclamato un diritto ovvero aver posto in essere una qualsiasi attività diretta ad ottenere il rispetto di norme e principi (quali ad es. rivendicazioni per la parità di trattamento, la legalità, l’osservanza delle norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, ecc.) (vedi anche le disposizioni dell’art. 54bis del D.lgs. 165/2001, per il settore pubblico, miranti alla tutela del lavoratore pubblico che segnala illeciti e secondo le quali il pub- blico dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in virtù della propria attività lavorativa, al proprio superiore gerarchico o che denuncia condotte illecite all’autorità giudiziaria o alla Corte dei Conti, non può essere sanzionato, licenziato o direttamente o indirettamente discri- minato in conseguenza della denuncia fatta).
Ai sensi dell’art 2 del decreto: “il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ovvero riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, …”.
La tutela reintegratoria, quindi, oltre che nei casi di licenziamento discriminatorio (indicati nel paragrafo precedente) si applica anche ad altre ipotesi di cui la nuova disciplina (diversamente da quella ex art 18 L. 300/70) non fornisce un preciso elenco ma un’indicazione generale da cui possiamo trarre il principio che devono ritenersi nulli tutti i licenziamenti comminati in contrasto con norme imperative (anche diverse da quelle sopra citate).
QUAL È LA TUTELA POSSIBILE?
Il licenziamento discriminatorio rimane l’unica ipotesi - assieme al licenziamento nullo, a quello basato su motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c. e alle ipotesi di licenziamento orale – in cui il lavoratore assunto dopo l’entrata in vigore del decreto in commento ha diritto alla cosiddetta “tutela reintegratoria piena”.
L’art. 2 del decreto ripropone le disposizioni previste dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ri-
41
LE POSSIBILITÀ DI MAGGIOR TUTELA: L’AZIONE PER IL CASO DI LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO E NULLO
chiamate dalla L. n. 92/2012 (riforma Fornero) ossia prevede che il lavoratore licenziato per discriminazione abbia diritto:
- alla reintegrazione nel posto di lavoro;
- al risarcimento del danno commisurato all’ultima retribuzione utile per il trattamento di fine rap- porto (v. cap. VIII), dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegra e comunque non inferiore a 5 mensilità;
- al versamento dei contributi previdenziali per lo stesso periodo.
Il legislatore della riforma introduce alcune regole – in linea con quelle già previste dall’art. 18 stat. lav. – che, in qualche modo, realizzano l’intenzione del legislatore di dare certezza alle situazioni giuridiche evitando ulteriori controversie:
1) dopo aver ricevuto l’ordine di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro il datore di lavoro deve invitarlo a riprendere servizio,
2) dalla comunicazione dell’invito discende l’obbligo del lavoratore, se vuole evitare l’estinzione del rapporto (e salva l’opzione di cui tra breve), di riprendere servizio entro trenta giorni.
Sembra, quindi, evidente che fintanto che il datore di lavoro non inoltri l’invito al lavoratore dovrà comunque corrispondere le retribuzioni “fino all’effettiva reintegra”.
È del pari evidente che ove il lavoratore non intenda riprendere servizio, entro il medesimo termi- ne di trenta giorni dall’invito dovrà esercitare il diritto di opzione.
Infatti, il lavoratore, in via alternativa alla reintegra, può optare per l’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione utile per il t.f.r.
L’opzione andrà esercitata nel termine massimo di trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia giudiziale o se anteriore ad essa, dall’invito del datore di lavoro a riprendere l’or- dinario servizio lavorativo.
Come già prevede l’art. 18 stat. lav., l’indennità sostitutiva delle 15 mensilità sarà corrisposta con esclusione dei contributi previdenziali. La norma prevede poi che la richiesta formulata dal lavo- ratore di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegra “determina la risoluzione del rapporto di lavoro”, ma non prevede il termine entro cui il datore di lavoro dovrà erogare detta indennità. Sarà, pertanto, opportuno che il lavoratore chieda l’assistenza di un legale prima di operare questa scelta, anche al fine di concordare ove possibile le modalità di adempimento prevedendo le ne- cessarie cautele per evitare che il datore di lavoro ritardi nel pagamento (ciò che potrebbe creare difficoltà per l’effettivo soddisfacimento del credito).
Dalla somma dovuta al lavoratore a titolo di risarcimento del danno andrà dedotto il c.d. aliunde perceptum, ossia quanto il lavoratore ha percepito nello svolgimento di altre attività durante il periodo di illegittima estromissione dal posto di lavoro.
QUALI SONO LE REGOLE PROCESSUALI APPLICABILI?
La tutela reintegratoria è garantita al lavoratore sul presupposto del riconoscimento giudiziale della nullità del licenziamento perché giudicato discriminatorio o nullo, ma come si arriva a una siffatta pronuncia?
È bene che il lavoratore che ritenga di subire degli atti discriminatori che potrebbero portare al
42
GUIDA AL JOBS ACT
licenziamento si adoperi immediatamente per conservare gli atti e/o annotare i fatti (circostanze e persone presenti) che accadono.
È bene, quindi, che il lavoratore si rivolga subito a un legale esperto che sarà in grado di indicare, anche prima del licenziamento, quali elementi utili andranno raccolti per essere utilizzati ai fini di causa nel caso in cui intervenga l’atto di risoluzione del rapporto di lavoro.
Per quel che riguarda lo strumento processuale utilizzabile, va detto che l’art 12 del decreto dispone che per i licenziamenti comminati dalla data di entrata in vigore del decreto non si ap- plichi la riforma del processo introdotta con la legge Fornero (la quale ha introdotto un rito che, nelle intenzioni del legislatore, doveva essere informale e celere, il quale ha inizio con una fase sommaria non cautelare, e si conclude con un’ordinanza immediatamente esecutiva, opponibile nelle forme del processo del lavoro e non sospendibile o revocabile, se non con il provvedimento che definisce il giudizio. L’opposizione, poi, viene decisa con sentenza - la cui motivazione va depositata entro dieci giorni - ed è reclamabile davanti alla Corte d’Xxxxxxx che emette sentenza ricorribile in cassazione).
Xxxxxx, a prescindere dalle opinioni discordi sul rito Fornero, la norma introdotta nel decreto potrà creare fonti di nuove disparità di trattamento posto che a due lavoratori, con le medesime condizioni personali, è riservata una diversa tutela giudiziaria a seconda della data di assunzione.
IL RITO SOMMARIO DI COGNIZIONE
Il decreto legislativo n. 150/2011 aveva previsto che alle varie controversie in materia di discri- minazione si può applicare il c.d. rito sommario di cognizione.
Tale particolare procedimento è alternativo al processo ordinario ed è caratterizzato da un’istrut- toria particolarmente semplificata avendo il giudice ampia discrezionalità nella trattazione e nelle modalità di assunzione delle prove.
È opportuno, quindi, che gli atti delle parti siano quanto più completi possibili per consentire al giudice di decidere anche solo alla luce del materiale probatorio presentato. A titolo d’esempio potranno essere utili le dichiarazioni scritte dei colleghi di lavoro che attestino quanto accaduto in un determinato momento, i documenti scritti, le mail, le immagini e quanto utile a documen- tare i fatti accaduti di natura discriminatoria, le consulenze mediche, i certificati e le prescrizioni attestanti il disagio e/o il danno alla salute subito in conseguenza delle azioni di discriminazione. Nelle controversie in materia di discriminazione la sommarietà del rito ha rilevanti risvolti sul piano probatorio. Nel caso di licenziamento discriminatorio, infatti, non opera la “inversione” dell’onere della prova prevista per le ipotesi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo (art. 5
L. n. 604/66), incombendo dunque sul lavoratore l’onere di allegare e provare l’esistenza della discriminazione invocata.
Ciò non di meno, con il rito sommario ex art 28 D.lgs 150/2011, l’onere probatorio a carico del lavoratore risulta notevolmente alleggerito, posto che è sufficiente per il lavoratore allegare “ele- menti di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori” cosicché spetta al convenuto, datore di lavoro, l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione (così si è orientata la giurisprudenza sul tema negli
43
LE POSSIBILITÀ DI MAGGIOR TUTELA: L’AZIONE PER IL CASO DI LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO E NULLO
anni più recenti).
IL GIUDIZIO CAUTELARE
Perché si possa ricorrere alla tutela cautelare (detta anche d’urgenza) è necessario che siano presenti due requisiti:
a) il periculum in mora, vale a dire il pericolo del danno irreparabile che potrebbe verificarsi per il ritardo del provvedimento definitivo a causa della lentezza del procedimento ordinario;
b) la probabile esistenza del diritto reclamato, o fumus boni iuris.
Anche il giudizio cautelare è un procedimento a cognizione sommaria, il giudice convoca le parti e dopo averle sentite procede agli atti di istruzione indispensabili, determinando anche d’ufficio i mezzi istruttori, nei limiti della loro pertinenza ai fatti già allegati dalle parti e della loro indispen- sabilità, in relazione ai requisiti di legge su indicati.
Il giudizio è definito con ordinanza verso la quale è ammesso reclamo, nel termine di quindici giorni dalla notificazione.
IL RITO “ORDINARIO” DEL LAVORO
Il lavoratore può proporre la sua azione di impugnazione del licenziamento anche con una nor- male causa di lavoro.
Questo accade, in genere, quanto il Legale reputi che il ricorso ai riti sommari non dia adeguate garanzie di accoglimento della domanda, perché non ne esistono i presupposti o perché è difficol- tosa la prova o comunque non se ne ritiene vantaggioso l’utilizzo.
Il processo del lavoro, nel nostro sistema processuale, segue un rito speciale introdotto nel 1973, e si differenzia da quello ordinario civile per una maggiore celerità, per i più ampi poteri istruttori riconosciuti al giudice e per essere ispirato a principi di oralità, concentrazione e immediatezza.
Il giudizio si instaura con ricorso al giudice unico presso il tribunale del lavoro che ha competenza esclusiva per materia e che all’esito del processo emetterà una sentenza immediatamente ese- cutiva.
LE NOVITÀ IN MATERIA
DI LICENZIAMENTI COLLETTIVI
Studi “Legalilavoro”
LE SANZIONI DEI LICENZIAMENTI COLLETTIVI DOPO LA LEGGE FORNERO
Le norme del decreto delegato sulle cd. tutele crescenti che, forse, evidenziano maggiormente il passo indietro nelle tutele del lavoratore licenziato e la illogicità di introdurre tutele differenziate per i lavoratori neo assunti, sono proprio quelle che riguardano i licenziamenti collettivi.
L’articolo 10 del decreto in esame, infatti, apporta modifiche significative al regime dei licenzia- menti collettivi di lavoratori assunti dopo la sua entrata in vigore, ferma restando la disciplina prevista dalla legge n. 223/1991, così come modificata dalla legge n. 92/2012.
Difatti, già la c.d. legge Fornero aveva introdotto importanti novità in tema di licenziamenti col- lettivi sia nella procedura che nel regime sanzionatorio, con l’evidente intento di attenuare il rigore formalistico e differenziare il livello di tutela per i lavoratori coinvolti. In particolare, l’art. 1, comma 44, prevedeva che la comunicazione agli uffici competenti e alle associazioni sindacali ex art. 4, co. 9, legge n. 223/1991 non fosse più contestuale, ma avvenisse entro sette giorni dalla comunicazione dei recessi. L’articolo 1, comma 45, disponeva che eventuali vizi di comunicazione potessero essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della stessa procedura. Infine, l’articolo 1, comma 46, modificava il regime sanzionatorio solo nel caso del licenziamento intimato in violazione delle procedure di mobilità previste dalla legge n. 223/91. Pertanto, rimaneva invariata la sanzione reintegratoria in caso di licenziamento intimato senza la forma scritta e in violazione dei criteri di scelta (in quest’ultimo caso, però, con l’introduzione di un tetto massimo all’indennità risarcitoria pari a 12 mensilità di retribuzione), mentre la norma apportava modifiche nel caso del licenziamento intimato in violazione delle procedure previste dalla legge: per tali ipotesi veniva esclusa la tutela reintegratoria e prevista solo un’indennità a titolo risarcitorio compresa tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità (determinata tenendo conto dell’anzianità dei lavoratori, del numero di dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica e del comportamento e dalle condizioni delle parti).
A fine 2014, poi, tale disciplina (tradizionalmente applicata solo ai lavoratori inquadrati come ope- rai, impiegati o quadri) era stata parzialmente estesa ai dirigenti, prevedendo tuttavia un unico regime sanzionatorio (sia per la violazione delle procedure, sia per quella dei criteri di scelta) con- sistente nel pagamento di un’indennità tra dodici e ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo alla natura e alla gravità della violazione (fatte salve le diverse previsioni sulla misura dell’indennità contenute nei contratti e negli accordi collettivi applicati al rapporto di lavoro) (vedi più avanti lo specifico paragrafo dedicato ai dirigenti).
LE MODIFICHE DEL DECRETO SUL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI
Il decreto che stiamo commentando interviene pesantemente sul già ridotto regime sanzionatorio previsto dalla precedente normativa prevedendo, per i lavoratori assunti con CTC, anche nel caso dei licenziamenti collettivi, la sola indennità risarcitoria compresa tra le 4 e le 24 mensilità (ad eccezione dei casi in cui il provvedimento sia intimato senza la forma scritta o per motivi discri- minatori, per i quali persiste la tutela reintegratoria, così come disciplinata dall’articolo 3, co. 1, del decreto).
Pertanto, cosa cambia per i lavoratori neo assunti?
46
GUIDA AL JOBS ACT
Con l’entrata in vigore del decreto per i lavoratori assunti con CTC che siano licenziati all’interno di una procedura collettiva, nel caso in cui venga accertata la violazione della procedura e dei criteri di scelta, il Xxxxxxx potrà riconoscere la sola indennità risarcitoria commisurata a due mensilità per ogni anno di anzianità aziendale del lavoratore, comunque compresa tra un minimo di quattro ed un massimo di 24 mensilità della retribuzione (secondo la nozione, diversa da quella tradizionale, precisata al cap. VIII). E non più, come in passato (e come nei confronti dei lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore del decreto) la reintegrazione nel posto di lavoro nel caso di violazione dei criteri di scelta.
Peraltro, l’indennità risarcitoria per i CTC viene ora determinata in maniera automatica unicamen- te con riferimento all’anzianità aziendale del lavoratore e non più parametrata, così come era previsto nella previgente disciplina, anche tenendo conto di altri elementi quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’azienda ecc.
È evidente, che applicandosi il nuovo regime sanzionatorio ai soli assunti con i CTC, licenziare con una procedura collettiva (l. n. 223/1991) sarà più semplice per il datore di lavoro e porrà assai più problemi alle organizzazione sindacali (che si troveranno ad assistere lavoratori con interessi diversi, se non contrapposti).
Dal punto di vista del datore di lavoro, è evidente il vantaggio in caso di accertata violazione della procedura di mobilità o dei criteri di scelta, poiché per i CTC si rischia solo la condanna al paga- mento di una modesta somma di denaro.
Quanto ai casi in cui vige ancora la tutela reintegratoria, se appare altamente improbabile (se non materialmente impossibile) un licenziamento collettivo intimato senza la forma scritta, al contra- rio non sarà difficile immaginare come la violazione dei criteri di scelta potrà (e dovrà) essere in futuro maggiormente indagata al fine di individuarne eventuali aspetti discriminatori.
Infatti, sinora e per i lavoratori già assunti, a parità di conseguenze (reintegrazione sia nel caso di violazione dei criteri di scelta che nel caso di licenziamento discriminatorio) chi difendeva i lavo- ratori preferiva evidenziare la violazione dei criteri di scelta (la cui prova è più agevole) invece di affrontare lo scivoloso terreno della prova dell’intento discriminatorio (anche qualora tale intento fosse effettivamente esistente). È del tutto evidente che, d’ora in poi, il tema dell’indagine sulla natura discriminatoria di un provvedimento (o della scelta di un lavoratore da licenziare) assumerà un rilievo notevole, con la necessità che la giurisprudenza affini ed adegui la propria “cassetta degli attrezzi” per distinguere con sufficiente certezza le due fattispecie, e quindi riconoscere la violazione dei criteri di scelta tout court, con la sola corresponsione dell’indennità risarcitoria; e invece comprendere quando tale scelta sia determinata da ragioni di tipo discriminatorio, con la conseguenza della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
Non va poi dimenticato che la disciplina dei licenziamenti collettivi prevede alcuni limiti indero- gabili nella selezione dei lavoratori da allontanare, riguardanti le lavoratrici (divieto di licenziare una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di lavoratrici occupate con riguardo alle mansioni interessate) e i lavoratori disabili (divieto di licenziare un numero di invalidi superiore alle percentuali di assunzioni obbligatorie previste dalla legge 68/1999). Il mancato rispetto di tali limiti determina certamente la nullità del recesso con applicazione, anche per i CTC,
47
LE NOVITÀ IN MATERIA DI LICENZIAMENTI COLLETTIVI
del regime di reintegrazione previsto dall’art. 2 del decreto.
Infine, di fronte alle violazioni della disciplina procedurale delle riduzioni del personale che coin- volgano il ruolo delle associazioni e rappresentanze sindacali, dovrà essere valorizzato lo strumen- to dell’azione in giudizio per repressione della condotta antisindacale (utilizzabile non dal singolo lavoratore ma dalle associazioni sindacali nazionali interessate), il quale consente di ottenere dal giudice un ordine di rimozione della condotta illecita che può consistere nella reintegrazione dei lavoratori licenziati, senza distinzione tra vecchi e nuovi assunti.
In ogni caso, non si può non evidenziare come il legislatore, con la norma in questione, sia andato in totale controtendenza rispetto al più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, che ha ridisegnato e ristretto i margini di discrezionalità del datore di lavoro nella determinazione ed applicazione dei criteri di scelta previsti dalla legge. Ci si riferisce, in particolare, a quelle recenti pronunzie della Cassazione con le quali si è sanzionato il datore di lavoro ogni volta che abbia ten- tato di restringere esageratamente la platea dei lavoratori destinatari della procedura di mobilità, sia con riferimento all’ambito territoriale che alla professionalità, ponendo a carico del datore di lavoro l’onere de “la dimostrazione delle specifiche professionalità e comunque delle situazioni oggettive che rendano impraticabile qualunque comparazione”.
Infine, si segnala che la nuova normativa pone problemi applicativi pratici di non poco conto se si pensa che inevitabilmente essa determinerà una disparità di trattamento tra lavoratori licenziati con la medesima procedura collettiva, a seconda che essi siano assunti prima e dopo l’entrata in vigore del decreto attuativo: infatti, qualora il Giudice dovesse ritenere violati i criteri di scelta ex art. 5, co. 2, legge n. 223/91, dovrà ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro, più il risarci- mento del danno e il versamento dei contributi previdenziali per i lavoratori ante Jobs Act; mentre, si limiterà ad un indennizzo economico per i lavoratori post Jobs Act. Una disparità di trattamento relativa, tuttavia, non a diverse categorie di lavoratori ma a lavoratori dipendenti di un medesimo datore di lavoro, basata su ragioni di carattere puramente soggettivo (la data di assunzione). Il che, come si è già detto, pone certamente problemi di conformità della norma (e dell’intero impianto della legge) ai principi costituzionali di uguaglianza.
COME SI CALCOLA L’INDENNIZZO PER IL LICENZIAMENTO SENZA REINTEGRAZIONE
Studi “Legalilavoro”
LA MISURA DELL’INDENNIZZO “CRESCENTE” CON L’ANZIANITÀ
Come si è visto, per i lavoratori assunti con il CTC la tutela base contro il licenziamento ingiustifi- cato consiste in un indennizzo predeterminato, che varia solo in funzione dell’anzianità di servizio del lavoratore: si tratta della vera innovazione della riforma e che le dà il nome. La cosiddetta “tutela crescente” sta infatti proprio e solo nel fatto che, appunto, l’indennizzo cresce con l’au- mentare dell’anzianità di servizio e solo con esso.
Il sistema è semplice, ma occorre prestare attenzione ad alcuni criteri di calcolo e casi specifici. Partiamo dal calcolo da utilizzare per gli indennizzi relativi ai licenziamenti illegittimi attuati a dan- no dei nuovi assunti nelle imprese di maggiori dimensioni. La definizione di queste ultime resta quella già prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori ovvero quelle in cui sono occupati oltre 15 dipendenti nell’unità produttiva o in unità comprese nello stesso comune, o 5 dipendenti nel caso di imprese agricole, o comunque quelle con oltre 60 dipendenti complessivamente a livello nazionale, anche se occupati in unità produttive piccole e sparse sul territorio.
Per le imprese minori, ovvero con una consistenza occupazionale inferiore alle misure or ora dette, la disciplina dell’indennizzo – come vedremo in apposito paragrafo tra breve – varia solo per la quantità. Il calcolo base, applicabile ad ogni caso in cui il licenziamento, intimato per giusta causa, per giustificato motivo disciplinare o per motivo economico (e, vedremo, nel caso di licenziamento collettivo per riduzione di personale), sia illegittimo è il seguente:
- quattro mensilità dell’”ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto” (per la cui determinazione diremo tra breve), per il lavoratore con anzianità di servizio fino a due anni compiuti;
- poi, incremento di due mensilità della retribuzione predetta per ogni anno compiuto di anzianità ulteriore, con un limite massimo di ventiquattro mensilità, che scatterà al maturare di dodici anni compiuti di servizio.
L’INDENNIZZO (DOPO I PRIMI DUE ANNI) CRESCE DI MESE IN MESE
Per le anzianità intermedie a ciascun anno compiuto, vale la proporzione tra i mesi maturati e le due mensilità di indennizzo che la legge attribuisce per ogni anno intero (considerando maturati i singoli mesi quando il rapporto cessi oltre il quindicesimo giorno del mese).
In sostanza, per le anzianità intermedie, ogni mese di servizio, o frazione di esso superiore a 15 giorni, comporta un indennizzo di 0,1666 mensilità ulteriore (= 2:12).
Qualche esempio aiuterà a chiarire il metodo di calcolo.
- lavoratore assunto il 1.1.2016 e licenziato il 10.10.2016: indennizzo spettante di 4 mensilità (= minimo legale inderogabile);
- lavoratore assunto il 10.6.2015 e licenziato il 30 dicembre 2020: indennizzo spettante di 11,1662 mensilità [= 10 mesi (ovvero i 4 minimi + 2 ad anno intero dal terzo anno, per i 5 anni compiu- ti) + 0,9996 mensilità per i 6 mesi interi dal 10.6 al 10.12.2020 + 0,1666 mensilità il mese di dicembre da considerare intero perché il licenziamento cade oltre i 15 giorni dal 10.12.2020];
- lavoratore assunto il 15.5.2015 e licenziato il 20.12.2030: indennizzo spettante 24 mensilità (= massimo legale per anzianità oltre i 12 anni compiuti).
50
GUIDA AL JOBS ACT
COME SI CALCOLA?
L’unità di misura del calcolo, che la legge indica nell’”ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto”, richiede attenzione.
Va anzitutto sottolineato che, in via di principio, la ”retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto” è determinata dalla legge in modo onnicomprensivo: non solo con riferimento alla retribuzione fissa quindi, ma computandovi “tutte le somme, compreso l’equi- valente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese” (art. 2120 cc).
Al riguardo, una copiosissima giurisprudenza ha chiarito che rientrano nella predetta nozione tutti gli emolumenti e i benefits, i premi ed ogni altro compenso, diretto o indiretto, corrisposto entro il rapporto di lavoro con esclusione solo dei compensi “occasionali” – intendendosi per tali quelli “collegati a ragioni aziendali del tutto imprevedibili e fortuite” – e dei rimborsi di effettive spese incontrate dal lavoratore per servizio ed anticipate per conto del datore di lavoro. Per tale motivo, si ritiene che anche l’indennità sostitutiva del preavviso, che ha natura retributiva e non occasio- nale, nel senso predetto, debba incidere sul TFR e quindi, per rinvio, sulla retribuzione base per il calcolo dell’indennità qui in esame.
Tuttavia, se quella or ora descritta è la nozione di base della ”retribuzione di riferimento per il cal- colo del trattamento di fine rapporto”, occorre tener presente che la norma di legge che disciplina l’istituto del TFR consente alla contrattazione collettiva - ma solo a questa e non alle pattuizioni individuali - di limitare l’onnicomprensività, escludendo, dalla relativa base di calcolo, voci speci- fiche oppure indicando a priori quali elementi retributivi debbano incidervi.
Ne deriva la necessità, per effettuare il corretto calcolo dell’indennità conseguente al licenzia- mento, di verificare in primo luogo se la specifica contrattazione collettiva applicata al rapporto di lavoro si sia avvalsa della predetta facoltà, adottando in tal caso la nozione di retribuzione utile al calcolo ivi individuata.
Qualche dubbio interpretativo può nascere poi dal riferimento all’”ultima” retribuzione, pure con- tenuto nella norma sull’indennità per ingiustificato licenziamento.
Il sistema del TFR, che trae la retribuzione utile dalla media annuale dei compensi e non dall’ulti- ma busta paga, suggerisce di far riferimento non tanto all’ultima retribuzione unitaria antecedente al recesso (che potrebbe non contenere compensi variabili e che sicuramente del resto esclude l’incidenza della 13^), quanto ad una retribuzione media, relativa all’ultimo anno (più opportuna- mente da calcolare non tanto dal 1.1. al 31.12. dell’anno precedente il recesso, ma in relazione ai 12 mesi anteriori alla data dello stesso) anteriore al licenziamento. Computandovi quindi la media dei compensi variabili o non occasionali, comprensivi di mensilità aggiuntive e eventuali premi o bonus cadenti nell’anno, salva naturalmente la diversa base di calcolo eventualmente prevista dal contratto collettivo.
La data finale per il calcolo dell’anzianità di servizio, sulla quale va parametrato l’indennizzo, coincide con quella in cui il lavoratore riceve la lettera di licenziamento, se essa prevede l’esonero dalla prestazione del preavviso (con il separato obbligo del datore di lavoro di pagare comunque l’indennità sostitutiva), ovvero con quella di cessazione del preavviso lavorato, che costituisce la
51
COME SI CALCOLA L’INDENNIZZO PER IL LICENZIAMENTO SENZA REINTEGRAZIONE
normale fine del rapporto di lavoro (e data di riferimento per il calcolo delle competenze finali del rapporto e del TFR).
Un esempio rende più comprensibile il sistema di calcolo da adottare.
Se il licenziamento cade il 20 marzo 2018, ed è intimato con esonero dalla prestazione del pre- avviso e con la conseguente offerta della relativa indennità sostitutiva (poniamo di due mesi) l’”ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto” potrà essere determinata, se non vi sia una nozione limitativa di retribuzione utile al TFR nel contratto collet- tivo, sommando i compensi lordi (senza considerare né le ritenute fiscali, né previdenziali o di altra natura) risultanti dalle buste paga delle 13 o più mensilità corrispettive dell’anno che va dal 1.3.2017 al 28.2.2018 (comprensive quindi di 13^ e, se esistente, 14^, premi, bonus ecc.), l’indennità sostitutiva del preavviso dovuta (e considerando che anche su questa devono incidere i compensi variabili medi, stavolta degli ultimi tre anni del rapporto, secondo l’art. 2121 cc) e dividendo il totale per 12.
Naturalmente, il divisore 12 potrà variare in meno ove il numero di mesi di servizio effettiva- mente prestato, dall’inizio del rapporto al licenziamento, sia di fatto minore (es. divisore 8 ove il rapporto sia durato solo 8 mesi).
Questa cifra sarà dunque l’unità di misura dell’indennità conseguente a qualunque vizio del licen- ziamento.
Se invece il contratto collettivo determini una nozione limitata di retribuzione utile per il TFR, per determinare l’indennità occorrerà togliere dalle buste paga (sempre da sommare su base annua e da dividere per 12 o per il minor divisore rapportato ai mesi di effettiva durata del rapporto) le voci escluse o non computabili secondo il contratto stesso.
L’indennità così determinata non è assoggettabile a contribuzione previdenziale e sconta invece la ritenuta fiscale, che il datore dovrà applicare utilizzando, in via di acconto di imposta, ma con il sistema “a tassazione separata” (ovvero che non comporta cumulo tra l’indennità erogata e i redditi correnti del lavoratore), l’aliquota fiscale del TFR. Il Fisco ricalcolerà poi l’aliquota effettiva, che il lavoratore dovrà eventualmente conguagliare direttamente, sulla base di quella media degli ultimi 5 anni del rapporto di lavoro o frazione più breve. Di solito c’è dunque una piccola differenza che il lavoratore deve pagare in seguito alla richiesta del Fisco (normalmente a distanza di qual- che anno), ma che si limita (per il sistema della media predetto) a 2-3 punti di maggior imposta. Il sistema dell’indennizzo esclude la possibilità di reintegrazione, ma non, come accennato, il dirit- to al preavviso (soprattutto nel caso in cui il recesso fosse per giusta causa, poi ritenuta illegittima) e non sembra esaurire le eventuali concorrenti ragioni di risarcimento del danno che il recesso illegittimo possa eventualmente aver causato.
La possibilità concreta di invocare un risarcimento ulteriore va attentamente esaminata con un legale esperto.
L’INDENNIZZO RIDOTTO PER IL LICENZIAMENTO VIZIATO (SOLO) SUL PIANO PROCEDURALE.
Il calcolo ridotto dell’indennità spetta quando il licenziamento presenti vizi formali o procedurali, ovvero non rispetti l’obbligo di motivazione contestuale o quando, essendo di natura disciplinare,
52
GUIDA AL JOBS ACT
sia stato intimato in violazione della procedura prevista dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori e/o dai Contratti collettivi di lavoro (es. licenziamento disciplinare la cui contestazione abbia assegnato un termine a difesa inferiore a quello minimo di 5 giorni; mancata audizione del dipendente che ne abbia fatto tempestiva richiesta dopo la contestazione ecc.). Si ritiene invece che ove manchi del tutto la contestazione o questa sia totalmente generica ed inidonea a individuare il fatto addebitato, il licenziamento sia viziato dall’insussistenza del fatto materiale contestato, di cui c’è prova documentale, con conseguente diritto del lavoratore ad ottenere la tutela reintegratoria ed il risarcimento di cui diamo separato conto in altro paragrafo. Nei casi predetti (vizio solo formale o procedurale), ove il lavoratore non possa o non voglia invocare le sanzioni maggiori previste per il licenziamento discriminatorio o nullo oppure per quello carente di giusta causa o giustificato motivo, sia economico che disciplinare, l’indennità spettante per il solo vizio formale o procedurale è pari alla metà di quella ordinaria.
Il calcolo dunque sarà il seguente:
- due mensilità, per il lavoratore con anzianità di servizio fino a due anni compiuti;
- poi, incremento di una mensilità per ogni anno compiuto di anzianità ulteriore, con un limite massimo di dodici mensilità, che scatterà al maturare di dodici anni compiuti di servizio.
Anche in questo caso, per le anzianità intermedie a ciascun anno compiuto vale la proporzione, ma ovviamente solo tra mesi maturati e la mensilità che incrementa ogni anno intero, fermo restando che si considerano maturati i singoli mesi quando il rapporto cessi oltre il quindicesimo giorno del mese.
In sostanza, per le anzianità intermedie, ogni mese di servizio, o frazione di esso superiore a 15 giorni, comporta un indennizzo di 0,0833 mensilità ulteriore (= 1:12).
Resta valido tutto quant’altro dianzi illustrato per il calcolo base.
Si rinvia al paragrafo relativo alla procedura relativa all’offerta di conciliazione per la determina- zione dell’indennità, anche in tal caso ridotta (ma esente da imposte) che compete in tale ipotesi.
IL CTC: QUALI EFFETTI PER I DIRIGENTI?
Studi “Legalilavoro”
IL DIRIGENTE È FUORI … MA LO “PSEUDO-DIRIGENTE”?
L’art. 1 del decreto in commento prevede che il nuovo regime dei licenziamenti illegittimi trovi applicazione esclusivamente “per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”. I dirigenti sono stati così indirettamente esclusi dall’ambito di applicazione della nuova disciplina in materia di licenziamento.
L’area di esclusione deve, però, esser individuata in base alla nozione “legale” della qualifica di dirigente di cui all’art. 2095 c.c., e non già in base a quella meramente “convenzionale” utilizzata dalle parti. Secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, infatti, non è di per sé suffi- ciente che il datore di lavoro abbia convenuto di qualificare un lavoratore come dirigente, di appli- cargli il contratto collettivo di categoria dei dirigenti o la corrispondente retribuzione, per ricondurre quest’ultimo nella categoria legale dei dirigenti. Occorre piuttosto che questo lavoratore sia stato effettivamente assegnato allo svolgimento di mansioni propriamente “dirigenziali”.
Seppur nelle attuali organizzazioni imprenditoriali complesse risulti un po’ anacronistico continua- re a definire il dirigente l’alter ego dell’imprenditore, ben potendo il dirigente a sua volta essere soggetto gerarchicamente al potere direttivo di un altro dirigente, tuttavia, per ritenere esclusa l’applicabilità della disciplina legale di tutela avverso i licenziamenti illegittimi applicabile alle altre categorie di lavoratori, la giurisprudenza richiede che il dirigente licenziato abbia avuto la piena ed autonoma responsabilità gestionale di un ramo o di un settore aziendale, di rilevanza tale da incidere sull’andamento dell’intera azienda; non deve trattarsi cioè di un dirigente soltanto “no- minale” o, come si usa dire in gergo tecnico, uno “pseudo-dirigente”, che è invece soggetto alla stessa tutela apprestata dalla legge per la generalità dei lavoratori.
Va anche detto che, dal punto di vista del lavoratore cui è stata attribuita la qualifica di dirigente, difficilmente sarà conveniente contestarla se l’esito fosse (se si tratta di nuovi assunti) l’applica- zione della disciplina del CTC, meno conveniente rispetto alla generalità dei regimi indennitari del licenziamento previsti dai diversi contratti collettivi della dirigenza (e ciò nonostante il recentissi- mo rinnovo del contratto collettivo dei dirigenti di industria, a fine 2014, che pure è decisamente meno favorevole dei precedenti).
REGIME LEGALE E TUTELA CONTRATTUALE PER IL LICENZIAMENTO DEL DIRIGENTE
I dirigenti, non essendo investiti dall’attuale riforma della disciplina dei licenziamenti illegittimi, rimangono soggetti al regime di disciplina legale previgente. In ragione dell’esclusione dall’am- bito di applicazione della legge n. 604/1966, dettata dall’art. 10 della stessa legge, i dirigenti rientrano nell’ambito residuale in cui è legittimo per il datore di lavoro adottare il licenziamento discrezionalmente, ad nutum, senza cioè dover comprovare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo. Questo trattamento differenziato è stato ritenuto giustificato dalla natura fiduciaria del rapporto che deve intercorrere tra l’imprenditore e il dirigente.
Alla carenza di una tutela legale ha supplito la contrattazione collettiva di categoria, che ha previ- sto in pressoché tutti i settori in cui è intervenuto un contratto collettivo dei dirigenti un’indennità supplementare per ingiustificato licenziamento, da quantificarsi entro un minimo corrispondente
54
GUIDA AL JOBS ACT
all’importo dell’indennità di preavviso e un massimo determinato in base all’anzianità anagrafica e di servizio del dirigente, dalla gravità dell’inadempimento datoriale e dalle dimensioni azien- dali: ad esempio, per i dirigenti di industria, il massimo dell’indennizzo era fissato in 20 mensilità di retribuzione – calcolata secondo gli stessi criteri dell’indennità sostitutiva del preavviso – ma è stato appena ridotto a 18 mensilità (vedi tra breve); sono poi previsti aumenti per i dirigenti appartenenti ad alcune fasce di età.
L’indennità deve essere corrisposta al dirigente qualora il licenziamento sia ritenuto “ingiustificato” dal collegio arbitrale previsto dallo stesso contratto collettivo o dal giudice del lavoro, ai quali si può indifferentemente ricorrere ed è rimessa anche la precisa quantificazione dell’indennità nel rispetto dei parametri dettati dal contratto collettivo applicabile. Tale tutela “contrattuale” opera, però, soltanto se al rapporto di lavoro del singolo dirigente trovi applicazione il contratto collettivo di categoria, o perché il datore di lavoro è iscritto all’associazione datoriale che ha sottoscritto il contratto o perché il datore ne ha dato spontanea applicazione, o ancora perché è stato così espressamente convenuto nel contratto individuale del dirigente. È pertanto consigliabile ricorrere all’assistenza di un legale al momento della stipula del contratto individuale di lavoro al fine di aver certezza di quale sarà il regime regolativo che governerà il rapporto al momento della sua risoluzione.
La riforma, comprimendo il livello di protezione garantita alle altre categorie di lavoratori, ha subito esercitato indirettamente un condizionamento “al ribasso” sulla contrattazione collettiva: l’ultimo contratto collettivo dei dirigenti delle aziende industriali sottoscritto il 30 dicembre 2014, dopo l’entrata in vigore della legge delega n. 183/2014 e quando erano ormai noti i contenuti sostanziali del decreto attuativo decisi dal Governo, ha rideterminato in termini meno favorevoli per i dirigenti del settore i criteri di quantificazione dell’indennità supplementare loro spettante in caso di licenziamento ingiustificato.
IL LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO O NULLO DEL DIRIGENTE…
In caso di licenziamento adottato per motivi discriminatori, illeciti o fraudolenti o adottato in forma orale, invece, è prestato ai dirigenti il medesimo tipo di tutela garantita a tutti gli altri lavoratori rimasti soggetti alla disciplina dettata dalla Riforma Fornero (cfr. art. 18 comma 1 della legge
n. 300/70, come modificato dall’art. 1 comma 42 della legge n. 92/2012, che ad ogni modo è sostanzialmente coincidente con la tutela applicabile ai lavoratori neoassunti in virtù del decreto legislativo qui esaminato): la reintegrazione nel medesimo posto di lavoro e il risarcimento del danno quantificato in misura pari a tutte le retribuzioni non percepite dal momento del licen- ziamento sino a quello della effettiva reintegra, decurtate di quanto percepito per il medesimo periodo in altre attività di lavoro. L’onere della prova della sussistenza di tali motivi di illegittimità del licenziamento per godere della tutela reintegratoria grava, però, sul dirigente.
… E QUELLO VIZIATO PER MOTIVI PROCEDURALI
Sempre dall’esclusione dei dirigenti dal campo di applicazione del decreto consegue la permanen- za dell’applicazione in loro favore, anche se assunti dopo l’entrata in vigore di detto decreto, della
55
IL CTC: QUALI EFFETTI PER I DIRIGENTI?
tutela prevista dalla Riforma Fornero in caso di mancata osservanza delle garanzie del procedi- mento disciplinare di cui all’art. 7 della legge n. 300/70 (contestazione preventiva dell’addebito, possibilità di giustificazione e contraddittorio), che la giurisprudenza più recente ha ritenuto appli- cabile anche al licenziamento dei dirigenti. In tal caso la tutela offerta ai dirigenti che dipendono da datori di lavoro che rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 18 della legge n. 300/70 è di natura esclusivamente economica: il pagamento di una indennità risarcitoria da quantificarsi tra un minimo di sei mensilità di retribuzione globale sino ad un massimo di dodici (cfr. art. 18 comma 6 della legge n. 300/70, come modificato dall’art. 1 comma 42 della legge n. 92/2012), salvo che trovi applicazione la tutela più favorevole prevista dal contratto collettivo applicato al rapporto.
IL (PARADOSSALE) REGIME LEGALE DI MAGGIOR TUTELA DEL DIRIGENTE NEI LICENZIAMENTI COLLETTIVI
I dirigenti, anche neoassunti, continuano a godere della specifica tutela recentemente dettata dalla legge n. 161/2014 in caso di vizi della procedura di licenziamento collettivo o dei criteri di scelta. La Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 13.2.2014, C-596/12, infatti, aveva ritenuto la legge n. 223/91 irrispettosa della direttiva 98/59/ CE, nella parte in cui esclu- deva i dirigenti dall’ambito di applicazione della stessa direttiva. Il legislatore italiano è subito intervenuto a sanare tale violazione del diritto europeo appunto adottando la legge n. 161/2014, che ha aggiunto il comma 1 quinquies all’art. 24 della l. 223/91 prevedendo che in caso di viola- zione delle procedure di licenziamento collettivo (comunicazione preventiva ai sindacati, obbligo di confronti in sede aziendale e ammnistrativa) e dei criteri di scelta del personale da licenziare (dettati dall’accordo aziendale o, in mancanza, in base all’anzianità anagrafica, carichi di famiglia ed esigenze tecnico-produttive) “… l’impresa o il datore di lavoro non imprenditore è tenuto al pagamento in favore del dirigente di un’indennità in misura compresa tra 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo alla natura e alla gravità della violazione, fatte salve le diverse previsioni sulla misura dell’indennità contenute nei contratti e negli accordi collettivi applicati al rapporto di lavoro”.
I dirigenti assunti dopo l’entrata in vigore del decreto, quindi, finiscono così per godere di una tutela di legge più elevata rispetto a quella approntata per i lavoratori neoassunti nelle altre categorie di operai, impiegati e quadri. Per quest’ultimi, infatti, la nuova disciplina prevede in tutte le ipotesi di violazione della legge n. 223/91 il medesimo regime generale dell’indennizzo monetario (minimo 4, massimo 24 mensilità), che vale per i licenziamenti individuali ingiustificati, anche nel caso di violazione dei criteri di scelta per i quali la Riforma Fornero prevedeva la tutela della reintegrazione nel posto di lavoro (v. il capitolo 7).
IL DIRIGENTE PUBBLICO
La nuova disciplina chiaramente non trova applicazione neppure al licenziamento dei dirigenti alle dipendenze delle Pubbliche amministrazioni. Al riguardo si registrano due diversi orientamenti sia in dottrina sia in giurisprudenza: uno per cui i dirigenti pubblici sarebbero automaticamente assog- gettati alle tutele avverso i licenziamenti illegittimi previsti dalla Riforma Fornero, in virtù del rinvio
56
GUIDA AL JOBS ACT
operato in via generale dal d.lgs. n. 165/2001 alla disciplina dettata per i lavoratori del settore privato laddove non vi siano disposizioni speciali per il pubblico impiego; a questo si contrappone un orientamento antitetico, secondo cui l’esigenza di tutelare l’imparzialità e il buon andamento della Pubblica Amministrazione, dettata dall’art. 97 Cost., imporrebbe necessariamente che i di- pendenti pubblici, anche dirigenti, godano della tutela della reintegrazione nel posto del lavoro qualora siano illegittimamente licenziati. Il Governo si è proposto di intervenire a breve per fare chiarezza sul problema inserendo una disposizione specifica dell’istituto nel d.d.l. Madia di riforma della Pubblica Amministrazione, ora in fase di discussione.
LA CONDIZIONE DEI LAVORATORI (GIÀ IN FORZA E CTC)
NELLE PICCOLE IMPRESE Studi “Legalilavoro”
L’INDENNIZZO DIMEZZATO PER I DATORI DI LAVORO MINORI
Come si anticipava nel paragrafo I, la disciplina del CTC riguarda anche i nuovi assunti dalle “im- prese minori”, sia pur con un sistema di tutele differenziato.
L’espressione, riferita dalla legge alle “imprese”, non deve anzitutto trarre in errore: la disciplina infatti si applica ai nuovi assunti da qualsiasi datore di lavoro (esclusi solo i datori di lavoro dome- stico) cui, per la consistenza occupazionale che si colloca al di sotto dei limiti già esaminati (oltre 15 dipendenti nell’unità produttiva o in unità site nello stesso comune, o 5 dipendenti nel caso di imprese agricole, o oltre 60 dipendenti a livello nazionale), non si applichi la disciplina base, già illustrata. Quest’ultima, in altri termini, si applica alle imprese maggiori; a tutti gli altri rapporti si applica quella ora in esame.
Il sistema di tutela contro il licenziamento illegittimo, nei rapporti che qui interessano, esclude la tutela reintegratoria, salvo il caso, di generale applicazione, del licenziamento discriminatorio o attuato di fatto, senza atto scritto.
La tutela dunque contro l’estromissione, motivata tanto su ragioni disciplinari quanto economiche che risultino ingiustificate, è unica e solo indennitaria. Ed anche in questo caso è modulata in forma predeterminata e crescente solo in ragione dell’anzianità di servizio. Ma anche qui con sistemi di calcolo che variano negli stessi casi che comportano variazioni in quello base e, salvo il tetto massimo, quantificano l’indennizzo e le progressioni per anzianità nella metà di quello base. Vediamoli ancora una volta in concreto.
Il calcolo base, applicabile ad ogni caso in cui il licenziamento, intimato per giusta causa, per giu- stificato motivo disciplinare o per motivo economico, sia illegittimo è il seguente:
- due mensilità per anzianità di servizio fino a due anni compiuti;
- poi, incremento di una mensilità per ogni anno compiuto di anzianità ulteriore, con un limite massimo di sei mensilità, che scatterà al maturare di sei anni compiuti di servizio.
Per le anzianità intermedie a ciascun anno compiuto vale, anche in questo caso, la proporzione tra mesi maturati e la mensilità che incrementa ogni anno intero, considerando maturati i singoli mesi quando il rapporto cessi oltre il quindicesimo giorno del mese.
In sostanza, per le anzianità intermedie, ogni mese di servizio, o frazione di esso superiore a 15 giorni, comporta un indennizzo di 0,0833 mensilità ulteriore (= 1:12).
Qualche esempio aiuterà a chiarire il metodo di calcolo.
- lavoratore assunto il 1.1.2016 e licenziato il 10.10.2016: indennizzo spettante di 2 mensilità (= minimo legale inderogabile).
- lavoratore assunto il 10.6.2015 e licenziato il 30 dicembre 2020: indennizzo spettante di 6 mensilità (il massimo legale, dato che le anzianità superiori ai 6 anni non incrementano il tetto stabilito);
- lavoratore assunto il 15.5.2015 e licenziato il 20.12.2019: indennizzo spettante 3,5833 mensilità [= 3 mesi (ovvero i 2 minimi + 1 per l’anno intero ulteriore ai primi due, per i 3 anni compiuti) + 0,5833 mensilità per i 7 mesi interi dal 15.5 al 15.12.2019, trascurando la frazione di mese fino al 20.12.2019 in quanto inferiore ai 15 gg].
L’unità di misura del calcolo, come per il caso base, resta l’”ultima retribuzione di riferimento per
58
GUIDA AL JOBS ACT
il calcolo del trattamento di fine rapporto” e valgono le stesse modalità di determinazione già illustrate. Parimenti, vale quanto già detto al paragrafo relativo alla indennità base circa la data finale del calcolo dell’anzianità, la non imponibilità previdenziale ed il sistema di tassazione.
Anche nel caso qui in esame peraltro il sistema dell’indennizzo non sembra esaurire le eventuali concorrenti ragioni di risarcimento del danno che il recesso illegittimo possa eventualmente aver causato.
La possibilità concreta di invocare un risarcimento ulteriore va attentamente esaminata con un legale esperto.
L’INDENNIZZO MINIMO PER I VIZI PROCEDURALI
Anche per i datori di lavoro di minore dimensione il calcolo dell’indennità è ulteriormente ridotto quando il licenziamento presenti vizi formali o procedurali, ovvero non rispetti l’obbligo di motiva- zione contestuale o quando, essendo di natura disciplinare, sia stato intimato in violazione della procedura prevista dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori e/o dai Contratti collettivi di lavoro (i casi sono gli stessi esemplificati nel paragrafo relativo all’indennità base).
In tali casi, ove il lavoratore non possa o non voglia invocare la sanzione maggiore prevista per il licenziamento discriminatorio o nullo, l’indennità spettante per il solo vizio formale o procedurale è pari alla metà di quella ordinaria, diventando perciò davvero minima.
Il calcolo sarà il seguente:
- una mensilità per anzianità di servizio fino a due anni compiuti;
- poi, incremento di mezza mensilità per ogni anno compiuto di anzianità ulteriore, con un limite massimo di sei mensilità, che scatterà al maturare di dodici anni compiuti di servizio.
Anche in questo caso, per le anzianità intermedie a ciascun anno compiuto vale la proporzione, ma ovviamente solo tra mesi maturati e la mezza mensilità che incrementa ogni anno intero di anzianità (fermo restando che si considerano maturati i singoli mesi quando il rapporto cessi oltre il quindicesimo giorno del mese).
In sostanza, per le anzianità intermedie, ogni mese di servizio, o frazione di esso superiore a 15 giorni, comporta un indennizzo di 0,0416 mensilità ulteriore (= 0,5:12).
Resta valido tutto quant’altro dianzi illustrato per il calcolo base.
Si rinvia al paragrafo relativo alla procedura relativa all’offerta di conciliazione per la determina- zione dell’indennità ulteriormente ridotta (ma esente da imposte) che compete in tale ipotesi.
PER I DATORI DI LAVORO MINORI, LE NOVITÀ DEL CTC POSSONO RIGUARDARE ANCHE I LAVORATORI GIÀ IN SERVIZIO!
Fin qui la disciplina applicabile ai nuovi assunti con il CTC.
Per i dipendenti già occupati le novità non sono in alcun modo applicabili, salvo che cessino il rapporto in corso e ne stipulino uno nuovo – anche “novando” quello in corso, ovvero ridefinendo nuovi termini e contenuti del rapporto, spezzando così la continuità con quello in atto con il me- desimo datore di lavoro, come è probabile che questi provi a proporre -.
Dunque (e salvo quanto si dirà tra un attimo) per i lavoratori già in servizio in un’impresa minore
59
LA CONDIZIONE DEI LAVORATORI (GIÀ IN FORZA E CTC) NELLE PICCOLE IMPRESE
continua a valere il regime di c.d. “tutela obbligatoria” previsto dall’art. 8 della legge 604 del 1966 che assicura, in caso di licenziamento illegittimo per carenza di giusta causa o giustificato motivo, un risarcimento forfettario da 2,5 a 6 mensilità della retribuzione (salvo aumento fino a 14 mensilità ove abbia anzianità superiore a 20 anni e l’impresa abbia, sia pur non in unica unità produttiva, oltre 15 dipendenti).
La legge però prevede un’ipotesi, peraltro di dubbia legittimità rispetto alla delega (che autorizza il Governo a dettare la nuova disciplina del CTC solo per le nuove assunzioni), in cui anche un lavoratore già in servizio possa entrare nel nuovo regime: il caso ricorre quando il datore di lavoro, attraverso nuove assunzioni di CTC, superi le soglie numeriche che fanno scattare la tutela prevista per i rapporti con imprese maggiori.
In tal caso, secondo il decreto delegato, il lavoratore non acquisisce le tutele attualmente previste dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (tutele che invero sopravvivranno, sia pur solo per chi sia già in servizio ad oggi), ma quelle rimodulate per i CTC. Tutele che potrebbero essere maggiori di quel- le di cui, fino a tale momento, godrà il lavoratore già in servizio, ma che in ogni caso nascondono il rischio di “trasportare” il lavoratore nel nuovo regime qui illustrato, relativo alle piccole imprese, ove il datore, in seguito, perda il requisito numerico necessario a far scattare le tutele maggiori. Un esempio rende intuitivo il problema.
Come si è detto, il lavoratore oggi in servizio in un’impresa non tenuta all’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori ha una tutela risarcitoria di base compresa tra 2,5 e 6 mensilità, aumentabile fino a 14 mensilità in favore di lavoratori con anzianità ultraventennale e che operino in imprese on oltre 15 dipendenti, ancorché non concentrati entro lo stesso comune. Tale indennità peraltro non varia solo in rapporto all’anzianità di servizio, ma è determinata dal giudice in ragio- ne di vari fattori (dimensioni dell’impresa, anzianità di servizio del lavoratore, comportamento e qualità delle parti).
Ove il datore, assumendo CTC, superi le soglie numeriche già illustrate per rendere operativa la tutela maggiore, secondo il decreto delegato, il lavoratore non acquisirà quelle dell’art. 18 Statuto, ma solo quella nuova destinata ai CTC.
Entro queste, considerando le variabili già illustrate (comprensive delle riduzioni a metà o a un quarto collegate alla tipologia del vizio del recesso o alla procedura di offerta scelta dal datore di lavoro), l’indennizzo già di per sé potrebbe essere minore.
Se poi, comunque, il datore perda il requisito numerico predetto e torni ad applicare la tutela propria delle piccole imprese, non ridarà affatto, al dipendente già in forza ad oggi, quella che il dipendente stesso aveva prima di passare alla nuova, ma applicherà, a lui come a tutti, la tutela per i CTC addetti alle “piccole imprese”. Tutela che, per quanto evidente a colpo d’occhio, è infe- riore a quella “obbligatoria” oggi in atto per i già assunti.
Il caso, di dubbia legittimità rispetto alla delega, richiederà attento esame con il legale per veri- ficare la possibilità, per il dipendente già in servizio ad oggi, sia di invocare l’art. 18 dello Statuto, al superamento della soglia numerica, sia pur integrata con l’assunzione dei CTC, sia di invocare, quando il datore torni eventualmente sotto la soglia, la tutela obbligatoria migliore ad oggi in atto.
QUALI NOVITÀ PER I DIPENDENTI DELLE ORGANIZZAZIONI DI TENDENZA?
Studi “Legalilavoro”
IL REGIME DI TUTELA DIFFERENZIATO DI CUI ALLA LEGGE N. 108/90
Per “organizzazioni di tendenza” si intendono – secondo la definizione dettata dall’art. 4 della legge n. 108/90 ed ora testualmente riproposta dall’art. 9 comma 2 del decreto che stiamo commentando – quei “datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto”. Ci si riferisce, quin- di, ai partiti politici, ai sindacati, alle associazioni culturali, alle congregazioni ed enti religiosi che conducono attività esclusivamente volte a perseguire finalità ideali o ideologiche, prive di carattere economico, inidonee - anche solo potenzialmente - a produrre profitto a seguito della produzione o dello scambio di beni e servizi.
La legge n. 108/90, nell’estendere l’ambito di applicazione della tutela della reintegrazione di cui all’art. 18 della legge n. 300/70 anche ai datori di lavoro “non imprenditori”, aveva espressamente escluso dall’applicazione di tale tipo di tutela avverso i licenziamenti illegittimi i lavoratori alle dipendenze, appunto, delle organizzazioni di tendenza.
L’art. 4 della legge n. 108/90, infatti, prevedeva che questi lavoratori, anche nel caso in cui l’orga- nizzazione di tendenza datrice di lavoro superasse le soglie numeriche di dipendenti previste per l’applicazione dell’art. 18 della legge n. 300/70, godessero esclusivamente della tutela obbliga- toria dettata dall’art. 8 della legge n. 604/66 (così come modificato dalla legge del 1990), e cioè di una indennità risarcitoria quantificata tra un minimo di 2,5 e 6 mensilità di retribuzione globale (maggiorata sino a 10 mensilità per i lavoratori di anzianità di servizio superiore a 10 anni e sino a 14 per quelli con anzianità superiore a 20, per i datori di lavoro con più di 15 dipendenti, pur non nella stessa unità produttiva).
Successivamente il d.lgs. n. 110/2004 ha esteso l’applicazione degli oneri procedimentali del licenziamento collettivo di cui agli artt. 4 e 24 della legge n. 223/1991 ai datori di lavoro non imprenditori, ma precisando anche in questo caso che, qualora si trattasse di organizzazioni di tendenza, l’illegittimità del licenziamento potesse comportare soltanto l’applicazione della tutela economica di cui all’art. 8 della legge n. 604/66 e mai di quella reintegratoria di cui all’art. 18 della legge n. 300/70.
Il legislatore aveva evidentemente ritenuto che gli scopi ideali o ideologici perseguiti da queste organizzazioni e la loro natura non imprenditoriale giustificassero l’esclusione in ogni caso di una tutela giudiziale avverso il licenziamento illegittimo che giungesse a reinserire d’imperio in quel contesto il lavoratore licenziato. In coerenza con tale giustificazione una parte della giurisprudenza aveva sostenuto che l’inapplicabilità della tutela reale potesse operare soltanto nei confronti di quei lavoratori che alle dipendenze di queste organizzazioni svolgessero mansioni che contribu- ivano in via diretta al perseguimento dei loro scopi istituzionali (ad es. un docente in un ente di formazione religiosa), e non anche ai lavoratori che svolgessero mansioni cc.dd. “neutre” rispetto a detti scopi (ad es. un giardiniere incaricato di curare il parco di una casa generalizia). La giuri- sprudenza maggioritaria ha invece aderito ad un diverso orientamento, secondo cui l’art. 4 della legge n. 108/90 comportasse l’esclusione della tutela reintegratoria in ragione della natura stessa del datore di lavoro, non rilevando a tal fine il tipo di mansioni svolte dal lavoratore.
62
GUIDA AL JOBS ACT
LA PARIFICAZIONE DELLA TUTELA DETTATA DALLA RIFORMA SUL CTC
Le difficoltà nel discernere in concreto i soggetti datoriali rispondenti realmente ai caratteri delle organizzazioni di tendenza (in particolare per quanto attiene all’assenza della natura imprendito- riale e dello scopo di lucro) e i frequenti abusi cui queste incertezze esponevano i lavoratori, hanno ora indotto il legislatore, con l’art. 9 del decreto che stiamo commentando, a superare questa differenziazione del regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi (sia individuali sia collettivi) applicabile ai dipendenti delle organizzazioni di tendenza: infatti, si prevede ora che tali lavoratori siano assoggettati alla medesima disciplina dettata dal decreto per i lavoratori nuovi assunti di ogni altro datore di lavoro, imprenditore e non. Pertanto anche i dipendenti delle organizzazioni di tendenza possono ora godere non solo della tutela risarcitoria, ma anche della tutela della reinte- grazione di cui all’art. 18 legge n. 300/70 nelle ipotesi (residue) in cui il decreto ne prevede ancora l’applicazione (vedi sopra il paragrafo sul licenziamento disciplinare e quello sui licenziamenti nulli e discriminatori).
L’equivoca formulazione della norma fa sorgere il dubbio se detta parificazione operi esclusiva- mente per coloro che sono assunti da dette organizzazioni successivamente alla data di entrata in vigore del decreto o per tutti i dipendenti delle stesse organizzazioni, anche se assunti prima di questa data. Secondo la prima ipotesi i lavoratori assunti in precedenza rimarrebbero soggetti al vecchio regime di tutela, cioè godrebbero della tutela risarcitoria quantificata secondo i criteri det- tati dall’art. 8 della legge n. 604/66, nel testo modificato dalla legge n. 108/90, e continuerebbero ad esser esclusi in ogni caso dalla tutela reintegratoria, indipendentemente dal numero di dipen- denti del loro datore di lavoro. Appare da preferire a questa una diversa interpretazione secondo cui, al contrario, i dipendenti delle organizzazioni di tendenza siano tutti soggetti alla nuova disci- plina di tutela avverso il licenziamento illegittimo dettato dal decreto, indipendentemente dalla loro data di assunzione. Conforta tale conclusione il dato testuale dell’art. 9, che prevede che alle organizzazioni di tendenza “si applica la disciplina di cui al presente decreto”, senza distinguere in alcun modo tra vecchi e nuovi assunti, a differenza dell’art. 1 che, con riguardo ai lavoratori dipen- denti dalla generalità dei datori di lavoro, specifica che il nuovo regime di tutela si applica soltanto agli “... assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”. Ulteriore supporto a tale tesi va rinvenuto nella necessità di salvaguardare la compatibilità di tale previsione del decreto legislativo con i principi di parità di trattamento e di ragionevolezza delle differenziazioni, garantiti dall’art. 3 Cost.. La norma, infatti, finirebbe per confliggere con questi principi se comportasse una differenziazione di trattamento che penalizza i “vecchi” assunti delle organizzazioni di tendenza, destinandoli a conservare un re- gime giuridico di tutela avverso il licenziamento meno favorevole di quello ora garantito ai nuovi, in confronto a quanto disposto per i “vecchi” assunti delle altre tipologie di datori di lavoro, per i quali invece il mantenimento del previgente regime giuridico è giustificato - sul piano della ragio- nevolezza – dal livello di tutela più elevato in confronto a quello garantito dalla nuova disciplina. D’altro canto, l’applicazione della nuova disciplina anche ai lavoratori già in servizio presso le organizzazioni di tendenza potrebbe sollevare un dubbio di compatibilità con la delega legislativa
63
QUALI NOVITÀ PER I DIPENDENTI DELLE ORGANIZZAZIONI DI TENDENZA?
contenuta nella legge 183/2014: sulla questione, dunque, dovranno attendersi gli orientamenti della giurisprudenza, ed eventualmente un intervento chiarificatore della Corte costituzionale.
LA PERDURANTE RILEVANZA DELLA “TENDENZA”
AI FINI DELLA GIUSTIFICAZIONE DEL LICENZIAMENTO
Già prima dell’intervento del decreto, non vi era dubbio che in caso di licenziamenti adottati dalle organizzazioni di tendenza per motivi discriminatori o illeciti, o viziati per altre cause di nullità, anche i lavoratori dipendenti di organizzazioni di tendenza godessero (e continuino ora a godere) della tutela reintegratoria.
Permane al riguardo il complesso problema di attribuire in modo corretto rilevanza alla “tenden- za” dell’organizzazione al fine di valutare la giustificatezza del licenziamento sul piano disciplinare e su quello “oggettivo” della idoneità professionale. Tale valutazione, infatti, va condotta in modo diverso rispetto ai lavoratori alle dipendenze di datori di lavoro imprenditori che perseguono scopi di lucro, per i quali credi e/o opinioni politiche, sindacali e religiose dei propri dipendenti debbono esser considerati irrilevanti ai fini dell’adempimento dell’obbligazione di lavoro. Al contrario la mancanza di sintonia ideale o ideologica tra il lavoratore e l’organizzazione di tendenza da cui dipende può minare il rapporto fiduciario che deve intercorrere tra i due o precludere la stessa idoneità professionale del lavoratore e giustificare così il licenziamento.
Al riguardo è chiarificatore il disposto dell’art. 3 comma 5 del d.lgs. n. 216/2003 che, in conformità alla direttiva 2000/78/CE, precisa che “non costituiscono atti di discriminazione … le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell’ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività”. Tale rilevanza della “tendenza” ai fini della giustificatezza del licenziamento adottato da un’organizzazione di tendenza, però, può ricorrere soltanto se il lavoratore licenziato non sia addetto a mansioni “neu- tre”, nel senso sopra chiarito, e cioè non sia addetto a mansioni per lo svolgimento delle quali le sue convinzioni personali risultino del tutto irrilevanti.
LE TUTELE PROCESSUALI E LA NUOVA PROCEDURA CONCILIATIVA PER I LAVORATORI
CON CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI
Studi “Legalilavoro”
Come si è visto, dunque, per i lavoratori “nuovi assunti”, con contratto a tutele crescenti, la reinte- grazione nel posto di lavoro è prevista per i casi di licenziamento discriminatorio, nullo o verbale. La nullità e/o la mancanza di forma scritta rendono infatti inesistente l’atto di licenziamento, e il giudice dovrà dunque ordinare la reintegra nel posto di lavoro.
Ancora, sarà reintegrato il lavoratore licenziato (scorrettamente) per motivi attinenti all’inidoneità sopravvenuta e quello licenziato per motivo disciplinare, quando la condotta che gli è stata con- testata risulti insussistente.
Negli altri casi (licenziamenti senza giustificato motivo o giusta causa, oggettivi e soggettivi, indi- viduali o collettivi), invece, l’obbligo del reintegro è stato sostituito dal pagamento di un’indennità (non imponibile ai fini dei contributi previdenziali).
La nuova disciplina, si è detto, potrà essere applicata anche ai lavoratori già alle dipendenze di quei datori di lavoro che, successivamente all’emanazione del decreto, superino il requisito dimen- sionale che sino ad oggi avrebbe comportato l’accesso all’applicazione dell’art. 18 stat. lav. (unità produttive con più di 15 dipendenti o datori di lavoro che occupino complessivamente più di 60 dipendenti).
In tutti questi casi, destinati a crescere proporzionalmente con il passare degli anni per il naturale venir meno dei contratti di vecchia formulazione, il contenzioso non sarà regolato dal rito speciale introdotto dalla Legge Fornero del 2012, ma dal normale processo del lavoro.
COSA FARE SE SI VIENE LICENZIATI
Il lavoratore che ha subito il recesso dovrà, nel termine di 60 giorni dalla comunicazione scritta, impugnare il licenziamento in via stragiudiziale, ossia con una lettera avente data certa. Nei successivi 180 giorni dovrà proporre ricorso al giudice competente, in via ordinaria o cautelare. Il rispetto di entrambi i termini impedisce il verificarsi della decadenza dall’azione di impugnazione, che renderebbe non più contestabile la validità del licenziamento.
Il rito cautelare o d’urgenza è più rapido e informale. Per essere proposto è necessario che ricor- rano due presupposti: il pericolo che il ritardo nell’adozione del provvedimento definitivo, a causa della lentezza del procedimento ordinario, produca un pregiudizio irreparabile (c.d. periculum in mora); un’alta probabilità di esistenza del diritto che si assume come leso (c.d. fumus boni iuris). In merito va osservato che la nuova disciplina, nel prevedere a fronte del licenziamento illegittimo il solo indennizzo monetario, lascia poco spazio al lavoratore per agire d’urgenza; infatti, si ritiene normalmente che l’incasso di una somma di denaro possa attendere la fine del normale processo di cognizione, senza danno ulteriore rispetto a quello compreso nella maggiorazione di interessi e rivalutazione monetaria. L’azione cautelare, di fatto, potrà essere utilizzata in quei casi in cui è ancora prevista la tutela reintegratoria, ovvero nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio e in quelle di licenziamento disciplinare quando si ritenga del tutto insussistente la condotta conte- stata.
Nei casi di licenziamento discriminatorio, infatti, il lavoratore ricorrente in giudizio cautelare potrà dedurre non solo il venir meno del reddito, naturale conseguenza di un licenziamento, ma anche
66
GUIDA AL JOBS ACT
la presenza di elementi di rilevanza extra-patrimoniale collegati alla (richiesta) ricostituzione del rapporto di lavoro, quali la tutela della dignità e della professionalità, la necessità di garantire la prosecuzione di una vita dignitosa per sé e per il nucleo familiare, ecc. (ad esempio essere l’unico percettore di reddito della famiglia, avere figli a carico, avere obblighi alimentari, essere gravato da un mutuo, le difficoltà di ricollocazione lavorativa dovute ad età o collocazione geografica ecc.). Chiaramente, l’azione d’urgenza sarà proponibile solo quando vi siano elementi che rendano, già nell’immediato, plausibile l’esistenza del diritto che si assume leso (ad esempio un licenziamento comminato in concomitanza con la comunicazione dello stato di gravidanza della dipendente). La scelta se proporre un’azione d’urgenza o ordinaria, pertanto, andrà valutata attentamente col proprio legale, tenendo conto anche dei rischi connessi alle regole in materia di distribuzione delle spese legali.
SE IL DATORE DI LAVORO PROPONE LA CONCILIAZIONE SUL LICENZIAMENTO
Tra le novità introdotte dal decreto vi è una nuova procedura diretta a rendere più rapida la defini- zione del contenzioso sul licenziamento, con l’immediato pagamento di un indennizzo.
L’art. 6 introduce infatti un’ulteriore possibilità di evitare la lite, ponendola esclusivamente nelle mani del datore di lavoro. Questi, entro i termini concessi al lavoratore per l’impugnazione stragiu- diziale del licenziamento (60 giorni), può convocare il lavoratore presso una delle sedi conciliative previste dall’art. 2113 cod. civ. (tra cui spiccano le commissioni di conciliazione presso le direzioni provinciali del lavoro) e offrire un assegno circolare di importo pari a tante mensilità dell’ultima retribuzione quanti sono gli anni di servizio prestato, con un minimo di 2 mensilità a un massimo di 18 (sulla nozione di retribuzione utilizzata a tale fine vedi, sopra, lo specifico capitolo).
Per incoraggiare la scelta di questa opzione, la legge prevede che la somma così determinata non è assoggettata a contribuzione previdenziale e, soprattutto, non costituisce reddito imponibile per il lavoratore. Tale esenzione rende di fatto interessante l’adesione all’accordo, per il lavoratore, almeno nei casi in cui l’esito probabile dell’impugnazione, ove venga avviato il contenzioso sul licenziamento, sia il solo indennizzo previsto dall’art. 3 del decreto.
Per comprendere ciò basta un rapido confronto: se è vero che il successo della causa di impugna- zione può dar luogo a un indennizzo calcolato sul doppio delle mensilità di retribuzione rispetto a quello offerto nella conciliazione (due mensilità per ogni anno di anzianità per l’indennizzo, rispetto ad una mensilità nel caso dell’offerta conciliativa), tale distanza si riduce in considerazione del fatto che l’indennizzo ottenibile all’esito del contenzioso è soggetto a tassazione (secondo il regime della c.d. tassazione separata), mentre la somma erogata a titolo conciliativo non è imponibile. Tale distanza tenderà ad accorciarsi quanto più elevata è la base retributiva per il cal- colo dell’indennizzo e dell’offerta conciliativa, in virtù del progressivo innalzamento dell’aliquota fiscale.
Se poi si tiene conto che, ove il datore di lavoro formuli l’offerta conciliativa, la relativa somma è incassabile con certezza, mentre la maggior somma derivante dall’impugnazione è incerta e soggetta alla valutazione giudiziaria del recesso (valutazione che potrebbe anche concludersi con il rigetto del ricorso del lavoratore), è evidente che l’accettazione o il rifiuto dell’offerta devono
67
LE TUTELE PROCESSUALI E LA NUOVA PROCEDURA CONCILIATIVA PER I LAVORATORI CON CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI
essere valutati con grande cautela.
Ben diversa valutazione dovrà farsi, ovviamente, quando si possa prefigurare la proponibilità della domanda di reintegrazione nel posto di lavoro (facendo valere un’ipotesi di nullità del licenzia- mento, o l’insussistenza della condotta per il licenziamento disciplinare): qui la prospettiva del contenzioso giudiziario, anche in termini di valore economico della causa, si fa decisamente più interessante e tale da poter giustificare l’assunzione del rischio del contenzioso.
È del tutto evidente che, di fronte all’offerta conciliativa del datore di lavoro, è dunque opportuno procurarsi un’assistenza legale di qualità, diretta in primo luogo a valutare i profili di possibile im- pugnazione del recesso e, per quanto possibile, le opportunità di successo dell’azione giudiziaria.
MA ATTENZIONE AI CONTENUTI DELLA CONCILIAZIONE SUL LICENZIAMENTO
Una buona assistenza nell’occasione della procedura conciliativa è poi fondamentale al fine di controllare i contenuti della transazione offerta dal datore di lavoro. Sul punto è bene sottolineare che l’art. 6 del decreto prevede la conciliazione con riferimento ad un unico oggetto: la rinuncia del lavoratore all’impugnazione del licenziamento, anche quando la stessa sia già stata proposta, a fronte del versamento della somma prefissata dalla legge e non imponibile fiscalmente (somma che il datore di lavoro deve addirittura offrire contestualmente alla proposta conciliativa, a mezzo di assegno circolare).
Ciò ha, a nostro parere, una prima conseguenza. È molto probabile che il datore di lavoro vorrà nell’occasione transigere con il lavoratore ogni altra questione o controversia (già annunciata o anche solo ipotetica) relativa al rapporto di lavoro, cosa che in astratto pare possibile. Tuttavia, deve ritenersi che il lavoratore che non intenda aderire a questa ulteriore richiesta avrà comun- que diritto, ove il datore abbia formulato l’offerta conciliativa, di concludere l’accordo rinunciando all’impugnazione del licenziamento e incassando l’assegno circolare.
Una seconda conseguenza riguarda il regime fiscale e contributivo delle eventuali ulteriori somme che il datore di lavoro offra al lavoratore per “chiudere” pendenze diverse da quella relativa al licenziamento. In merito, la norma di legge precisa che il regime fiscale agevolato è riservato alla sola somma offerta in relazione al licenziamento, e nei limiti di una mensilità per ogni anno di anzianità. Ogni altra somma versata in sede transattiva seguirà dunque le regole generali, e sarà perciò probabilmente imponibile dal punto di vista fiscale (salva l’ipotesi di somme versate in relazione ad un titolo transattivo – purché effettivo – per danno emergente, quale ad esempio il danno alla salute), ed eventualmente a fini previdenziali (quando, ad esempio, sia versata una somma transattiva relativa a pretese di carattere retributivo).
Se dunque, in sede di conciliazione, il datore di lavoro voglia stipulare un accordo che contenga una transazione non solo sul licenziamento ma anche su altre questioni, ed anzi di solito una transazione generale su tutte le ipotetiche controversie relative al rapporto di lavoro, il lavoratore dovrà prestare particolare attenzione alla propria condotta.
Il consiglio migliore per una simile situazione è quello di procurarsi, ove già il lavoratore non l‘ab- bia fatto, una buona assistenza al fine di valutare in modo approfondito – attraverso una attenta “anamnesi” del rapporto di lavoro – quali pretese potrebbero in ipotesi essere avanzate nei con-
68
GUIDA AL JOBS ACT
fronti del datore di lavoro (ad es. differenze retributive, lavoro straordinario, diversa qualificazione di periodi di rapporto precedenti alla assunzione con contratto di lavoro subordinato, eventuali aspetti risarcitori, ecc.). Una volta individuate, dovrà valutarsi se sia opportuno transigere su di esse (cosa che, ad esempio, è sconsigliabile quando si siano manifestati o si tema possano ma- nifestarsi problemi di salute o di infortuni, connessi alla prestazione di lavoro) e, in ogni caso, su quali ragionevoli valori.
Ove si proceda ad una simile transazione è poi importante la formulazione dell’accordo transat- tivo, che deve essere attento (in particolare nelle clausole relative alle rinunce delle parti) non solo agli interessi del datore di lavoro ma anche a quelli del lavoratore (per fare un esempio, per un lavoratore che abbia avuto responsabilità amministrative è importante prevedere specifiche rinunce del datore di lavoro a future eventuali contestazioni della prestazione svolta).
PROFILI DI INCOSTITUZIONALITÀ
Studi “Legalilavoro”
E quindi? Che si può fare? Iniziando da dove?
Le distorsioni contenute in questo ultimo atto governativo deliberato dal CdM il 20 febbraio 2015 sono troppe e troppo gravi per poter formare oggetto soltanto di dissensi o consensi politici.
Essendo avvenute nell’ambito del nostro ordinamento giuridico complessivamente considerato, in tale medesimo ambito esse vanno esaminate, partendo dalle regole costituzionali sulla “for- mazione delle leggi” (artt. 70 e seguenti Cost.) e in particolare di quella dettata dall’art. 76 Cost. secondo cui “l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi ... e per oggetti definiti”.
Per il chiarissimo tenore della regola costituzionale appena vista, una normativa che venga ec- cezionalmente delegata al Governo non si giudica soltanto con i normali criteri di merito (è una buona soluzione; no, è una soluzione ancora insoddisfacente; etc.), ma si giudica soprattutto con i criteri di metodo (è rispettosa o non è rispettosa dei principi, dei criteri direttivi e per gli oggetti definiti come precisati dal Parlamento con la sua legge delega).
Principi, criteri direttivi, oggetti definiti.
E allora cominciamo col vedere punto per punto cosa voleva il Parlamento (delegante), ricavan- dolo ovviamente dal testo della legge delega, e cosa invece ha fatto il Governo (delegato) nella nostra delicata materia.
1°) Il delegante (Parlamento) voleva rendere per il futuro più conveniente il contratto a tempo indeterminato rispetto agli altri tipi contrattuali, e invece il delegato (Governo) lo ha fatto solo indirettamente (nella Legge Finanziaria) e solo per il primo anno, il 2015, peraltro in una misura così sconsideratamente elevata (l’intera contribuzione a carico del datore di lavoro) da segnarne inesorabilmente anche la sua limitatissima durata, quasi che la partita si debba gio- care tutta e solo nel 2015, lasso di tempo in cui si giocheranno forse le fortune del Premier. Ma il Parlamento non voleva un effetto propagandistico per l’anno 2015 soltanto; vole- va risolvere per il futuro, una volta per tutte, il seguente problema: rendere il contratto a tempo indeterminato più conveniente rispetto agli altri tipi contrattuali concorrenti.
Se il Governo avesse detto “dal 2015 in avanti il contratto a tempo indeterminato costerà il 30% in meno” avrebbe certamente centrato la delega e la discussione sarebbe potuta passare a quel punto anche al merito (va bene; no, non è ancora sufficiente; etc.).
Così invece la delega data dal Parlamento al Governo non è stata correttamente attuata.
2°) Il delegante (Parlamento) voleva, inoltre, sempre per favorirne la diffusione, nuo- ve assunzioni a tempo indeterminato “a tutele crescenti in relazione all’anzianità”.
Quindi voleva anche un secondo incentivo per gli imprenditori, consistente nel minor peso dei vari trattamenti dovuti al lavoratore neo-assunto, e ciò però solo per tutto il tempo destinato alla “crescita”, fino cioè all’acquisizione delle tutele piene, quelle di tutti gli altri. E invece il delegato (Governo) si è concentrato solo sul regime di un suo licenziamento “speciale”, destinato soltanto ai neo-assunti e senza mai consentire ad essi l’acquisizione delle tutele piene del licenziamento ordinario. Nessuno, e quindi neppure il Parlamento italiano delegante, conosceva una stranez- za come questa, perché mai nessuno lo aveva neppure ipotizzato in astratto, e ciò perché tutti pensavano, nel rispetto delle parole usate (“tutele crescenti”) e dell’idea primigenia battezza-
70
GUIDA AL JOBS ACT
ta a Bruxelles anni addietro, che si trattasse di scambiare un primo periodo di minori tutele (i primi tre anni) per poi ritrovarsi a regime una maggiore quantità di buona occupazione.
La delega quindi è stata in questo caso stravolta.
3°) Il delegante (Parlamento) voleva, e lo voleva solo per il limitato tempo della “cresci- ta”, che i licenziamenti disciplinari ingiustificati non dessero tutti luogo alla reintegrazione, ma solo quelli riconducibili a “specifiche fattispecie” (a mero titolo di esempio potremmo provare a dire: i licenziamenti disciplinari non preceduti da apposita contestazione e quel- li non rispettosi dei codici disciplinari obbligatori ex art. 7 L. 300/70 danno luogo a rein- tegrazione; tutte le altre fattispecie danno luogo invece alla sola tutela risarcitoria).
E invece il delegato (Governo) ha escogitato la categoria generale della “insussistenza del fatto materiale” posto a base del licenziamento disciplinare, che creerà l’assurdo risultato che potranno essere contestati fatti materiali magari sussistenti ma non antigiuridici e che comunque vanifica il dovere di sporcarsi le mani con una plausibile casistica specifica.
E questo è ancora violazione della delega.
4°) Il delegante (Parlamento) non voleva che il delegato (Governo) si occupasse anche della materia, storicamente diversa e del tutto autonoma dei “licenziamenti collettivi” e invece quest’ultimo ci ha messo pesantemente le mani ugualmente, come se fosse stato autoriz- zato, senza neppure fermarsi davanti al successivo parere delle commissioni parlamentari che gli chiedevano di tornare indietro almeno su quest’ultimo delicatissimo punto.
E questo si chiama eccesso di delega.
E quindi?
Quindi ci sarà lavoro per i giudici ordinari e per quelli della Corte Costituzionale per vagliare tutti questi profili di non conformità rispetto alla legge delega nonché tutti gli altri che fanno capo agli altri doveri costituzionali di razionalità del sistema e di contrasto delle diseguaglianze senza giusti- ficazioni di cui abbiamo via via fatto cenno nelle varie parti di questo nostro commento, tra i quali: 1°) colleghi di lavoro, magari addetti alle medesime mansioni, e magari coinvolti in egual misura nei fatti posti a fondamento di una futura vicenda di licenziamento, potranno ricevere tutele macroscopicamente diverse, per causali identiche, e quindi in violazione dell’art. 3 della Costi- tuzione, per il solo fatto di essere stati rispettivamente assunti alcuni prima e altri dopo la data
di entrata in vigore del c.d. Jobs Act;
2°) una sanzione meramente economica contro i futuri licenziamenti ingiusti dei “nuovi assunti”, concepita per operare anche con minimi di quattro mensilità soltanto, riducibili anzi a due mensilità in caso di vizi formali e procedurali (v. art. 4), e resa possibile anche per datori di lavoro di grosse dimensioni, con consistenti capacità economiche, va considerata totalmente inefficace e non dissuasiva, e quindi in violazione dell’art. 30 Carta di Nizza e 24 Carta soc. Europea;
3°) non aver realizzato il compito che gli era stato assegnato, di individuare le “specifiche fatti- specie” di licenziamenti disciplinari ancora meritevoli di tutela reintegratoria non rappresenta soltanto violazione della delega ricevuta, con violazione dell’art. 76 Cost., ma dà luogo anche
71
PROFILI DI INCOSTITUZIONALITÀ
ad un profilo aggiuntivo e autonomo di incostituzionalità. Ed infatti se per dimostrare l’insussi- stenza del “fatto materiale” il lavoratore licenziato dovesse essere costretto a fornire davvero una prova diretta, allora si tramuterebbe nel dovere di fornire una prova negativa, vietata in generale perché impossibile, con conseguente violazione dell’art. 24 Cost.;
4°) il divieto per il giudice, sempre in tema di licenziamento disciplinare, di valutare la proporzio- nalità tra condotta effettivamente tenuta dal lavoratore incolpato e pena espulsiva inflittagli dal datore di lavoro, contrasta con l’esistenza stessa di una funzione giurisdizionale autonoma e indipendente dal potere legislativo/esecutivo, garante del principio di legalità (“Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”; principio contenuto nell’art. 25 Cost., che a sua volta è contenuto nella Parte Prima, “Diritti e doveri dei cittadini”, e più esattamente nel relativo Titolo I, “Rapporti civili”) e si pone anche in violazione dell’art. 39 Cost. laddove smentisce tutto il lavoro svolto dalla contrattazione collettiva in tema di individuazione delle singole mancanze e delle singole sanzioni corrispon- dentemente applicabili.
Uno Stato di Diritto che si rispetti ha le sue possibilità di correzioni interne, la più importante delle quali risiede nel fatto che l’ordinamento giuridico va rispettato sempre nel suo complesso, ordina- mento con cui la vita stessa delle nuove leggi deve perciò fare i conti.
Ma perché ciò accada c’è bisogno di cittadini, mai sudditi, che, non rassegnandosi di fronte alle singole tessere del mosaico che stonano con il resto, continuino ad invocare la GIUSTIZIA GIUSTA, secondo l’insuperabile “sentire comune” delle persone perbene.
RIENTRANO NELLE NUOVE REGOLE I CASI DI CONVERSIONE DEL CONTRATTO A TERMINE E DI CONFERMA DEGLI APPRENDISTI?
Xxxxxx Xxxxxxxxx
La versione inziale del decreto, precedente all’esame del Parlamento, lasciava dubbi sull’applica- bilità della nuova disciplina ad alcune categorie di lavoratori. Se è certa l’esclusione dei lavoratori domestici (da sempre soggetti a un regime diverso del recesso, soggetto al solo obbligo del pre- avviso), era difficile pronunciarsi sull’applicabilità agli apprendisti e ai lavoratori marittimi (assunti sulla base del contratto di arruolamento disciplinato dal codice della navigazione).
Nella versione finale, approvata dal Consiglio dei ministri il 20 febbraio 2015 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 54 del 6/3/2015, è stata introdotta una specificazione riguardante i rapporti di lavoro a termine e gli apprendisti.
Il secondo comma dell’art. 1 del D.Lgs 23/2015 precisa infatti che le nuove sanzioni in caso di licenziamento illegittimo (nell’accezione più ampia del termine, comprensiva dunque dei casi di nullità, annullabilità e inefficacia) “si applicano anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato”.
La regola che deve guidare l’interprete nell’applicazione della legge è scritta a chiare lettere nel codice civile: “Nell’interpretare una norma di legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dall’inten- zione del legislatore” (art. 12 disp. sulla legge in generale).
Provando ad applicare la regola appena citata, al 2° comma dell’art. 1 del D.Lgs 23/2015 emerge fin da subito un problema: che significato ha inteso assegnare il legislatore al termine “conver- sione”?
Sulla tecnicità/atecnicità dell’espressione semantica dottrina e giurisprudenza si sono espresse innumerevoli volte negli ultimi anni. Non è questa la sede per ripercorrere il dibattito sul punto, ma delle conclusioni dello stesso occorre tener conto per poter fornire un’interpretazione della norma prima di tutto coerente con il sistema giuridico complessivo all’interno del quale essa si va a inserire e, in secondo luogo, per verificare la sua tenuta nell’ambito di un giudizio di costituzionalità in relazione agli artt. 3 e 76 della Costituzione.
A seconda del modo nel quale si intende il termine “conversione”, infatti, la platea dei destinatari delle nuove sanzioni in caso di licenziamento illegittimo potrebbe essere più o meno ampia e, a seconda della preferenza per una o l’altra ipotesi, la norma potrebbe reggere o meno a un giudizio di costituzionalità.
Ma andiamo con ordine, seguendo le istruzioni del legislatore del 1942.
La parola conversione deriva dal latino cum vertere che significa modificare.
Sostituendo tale locuzione al termine utilizzato dal legislatore delegato, si potrebbe sostenere che i lavoratori destinatari delle - impropriamente dette - tutele crescenti sarebbero anche coloro i quali in costanza di rapporto di lavoro a termine o di apprendistato alla data del 7 marzo 2015, succes- sivamente a tale data concordano con il proprio datore di lavoro una modifica delle condizioni del contratto. Se per i lavoratori a termine si tratterebbe della trasformazione del rapporto a tempo indeterminato, per gli apprendisti, che già lo sono fin dalla costituzione del rapporto, potrebbe trat- tarsi dell’acquisizione prima del tempo della qualifica raggiungibile al termine della formazione.
74
GUIDA AL JOBS ACT
In questi casi ci troveremmo di fronte a lavoratori per così dire “stabilizzati”, che potrebbero perciò essere considerati nuovi assunti anche se l’avvio del rapporto di lavoro è avvenuto prima dell’ap- provazione della legge.
Per quanto riguarda la conversione volontaria di un contratto a termine (legittimo) la disposizione in commento potrebbe avere il valore positivo di favorire le assunzioni di lavoratori precari.
In relazione ai rapporti di apprendistato, se lo scopo del legislatore è quello di evitare che, nel primo periodo di attuazione, le imprese siano indotte a recedere da tali rapporti, equiparandoli in questo modo alle (più convenienti) nuove assunzioni, la norma pone un rilevante dubbio di com- patibilità con i limiti posti al decreto dalla legge delega. La stessa, infatti limitava la disciplina del contratto a tutele crescenti alle “nuove assunzioni”: concetto nel quale pare difficile far rientrare la conferma di un apprendista, che si considera lavoratore a tempo indeterminato fin dall’avvio del rapporto.
L’utilizzo atecnico del termine conversione porterebbe a queste conclusioni.
Il problema però che pone la norma riguarda, come si diceva all’inizio, il fatto che il legislatore de- legato ha utilizzato al comma 2 in commento un’espressione del tutto simile a quella del comma 5 dell’art. 32 del collegato lavoro che, con riferimento ai contratti a termine così dispone: “(n)ei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro….” La conversione è prevista, in questo caso, come sanzione tipica per il caso in cui venga accertata giudizialmente l’illegittima apposizione del termine a un contratto. Sul piano giuridico si tratta di una applicazione della regola generale di cui all’art. 1424 c.c. (conversione del contratto nullo) con conseguente produzione dell’effetto giuridico della modifica del tipo contrattuale: da tempo determinato a indeterminato.
Per comprendere la portata della questione è utile un esempio.
Poniamo che alla data del 7 marzo 2015 un lavoratore abbia in corso un rapporto di lavoro a termine (o di somministrazione a termine) illegittimo e che faccia valere tali profili di illegittimità proponendo una causa avanti il giudice del lavoro.
Accertata l’illegittimità del contratto a termine, il giudice, in applicazione dell’art. 32, comma 5 della legge 183/2010, pronuncia una sentenza con la quale “converte” il “contratto a tempo indeterminato e condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno in favore del lavoratore stabilendo un indennizzo forfettario nella misura compresa tra 2,5 e 12 mensilità.
È questo un caso di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, “di contratto a tempo determinato (…) in contratto a tempo indeterminato”?
A parere di chi scrive, la risposta non può che essere negativa.
Questo tipo di sentenza ha infatti natura dichiarativa della nullità parziale del contratto a termine con sostituzione automatica della clausola appositiva del termine (art. 1419 c.c), con effetto ex tunc.
In altre parole il giudice, accertata l’illegittima apposizione del termine, dichiara che il rapporto di lavoro tra le parti è di natura subordinata a tempo indeterminato sin dall’inizio e condanna al risarcimento del danno. Logica conseguenza che se ne ricava è che, se il rapporto di lavoro si è instaurato prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 23/2015, la conversione giudiziale
75
NUOVE REGOLE E CONVERSIONE DI CONTRATTI A TERMINE E APPRENDISTATO
non può in alcun modo determinare una nuova assunzione.
Discorso analogo, a maggior ragione, deve essere fatto per i contratti di apprendistato sorti pre- cedentemente al 7 marzo 2015 per i quali si sia chiesto (o si chiederà) al giudice l’accertamento giudiziale della loro corretta qualificazione: non tanto per i profili di durata, essendo questa tipo- logia contrattuale già a tempo indeterminato sin dall’inizio, quanto per la loro corretta qualifica- zione e per le conseguenze che ne derivano in termini di differenze retributive e regolarizzazione contributiva.
Anche in questi casi il giudice, accertata la violazione di legge (ad esempio per omessa formazio- ne), dichiara che tra le parti è in corso un contratto di lavoro a tempo indeterminato con inqua- dramento a un determinato livello del CCNL applicato, con effetto dalla sua instaurazione, ossia ancora una volta ex tunc.
In altre parole non sarebbero, queste, “nuove assunzioni” e la conversione giudiziale non potrebbe assurgere a strumento di promozione dell’occupazione e, dunque, rientrare tra i principi sanciti dalla legge delega n. 183/2014, ai quali il legislatore delegato ha l’obbligo di attenersi.
Una simile interpretazione della norma sarebbe tacciabile di incostituzionalità per eccesso di de- lega.
Un altro aspetto che potrebbe far sorgere dubbi interpretativi è l’omessa indicazione dei contratti di somministrazione a termine tra quelli rientranti nella casistica del secondo comma dell’art. 1 del decreto delegato in commento.
In ragione del dibattito dottrinale e giurisprudenziale cui si faceva cenno all’inizio in merito all’in- terpretazione dell’espressione “casi di conversione del contratto a tempo determinato” contenuta nel comma 5 dell’art. 32 del Collegato Lavoro, la Giurisprudenza di Legittimità si è orientata nel ritenere che l’indennità risarcitoria di cui all’art. 32, comma 5 della legge 183/2010 trova appli- cazione “ogni qualvolta vi sia un contratto di lavoro a tempo determinato per il quale operi la conversione in contratto a tempo indeterminato e, dunque, anche in caso di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore che abbia chiesto ed ottenuto dal giudice l’accertamento della nullità di un contratto di somministrazione, convertito (…) in un contratto di lavoro a tempo indeterminato tra lavoratore e utilizzatore della prestazione” (così Cass., Sez. Lav., 6/10/2014, n. 21001 e, in senso conforme, Cass. Se. Lav. 17/1/2013, n. 1148; Cass. Sez. Lav. 29/5/2013, n. 13404).
La Cassazione arriva a tale conclusione sulla base, fondamentalmente, di due argomentazioni: una di stampo più strettamente letterale, l’altra sistematica.
La valorizzazione dell’interpretazione letterale prende le mosse proprio dall’espressione conver- sione che, secondo la Corte, il legislatore usa per riferirsi in generale al meccanismo in virtù del quale, una volta dichiarata la nullità della clausola di apposizione del termine, non viene travolto l’intero contratto ma, in virtù dell’art. 1419 c.c. si verifica il mantenimento del contratto (di lavoro) e la sua trasformazione da tempo determinato a tempo indeterminato.
Secondo la Cassazione, a una simile conclusione si può giungere tenendo in debito conto l’am- piezza della formulazione del comma 5 dell’art. 32 della legge 183/2000 che non distingue tra conversione oggettiva del contratto (da tempo determinato a tempo indeterminato) e conversione
76
GUIDA AL JOBS ACT
soggettiva (mutamento di una delle parti del contratto).
Ad analoghe conclusioni, peraltro, la Corte di legittimità giunge valorizzando l’art. 1, comma 13 della legge 92/2012 che così recita: “la disposizione di cui al comma 5 dell’articolo 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”.
Purtroppo, stando così le cose, il rischio è che anche le conversioni giudiziali dei contratti di sommi- nistrazione a tempo determinato possano essere fatte ricadere nell’ambito di applicazione dell’art. 1, comma 2, del d.lgs 23/2015.
Tuttavia, un simile tentativo subirebbe la stessa sorte pronosticata per le conversioni giudiziali dei contratti a termine, per tutti i motivi già evidenziati.
Riassumendo, si ritiene che una lettura sistematica e costituzionalmente orientata dell’art. 1, com- ma 2 del D.lgs 23/2015, potrebbe essere quella di limitare il suo ambito di applicazione alle
c.d stabilizzazioni volontarie di contratti a termine o contratti di somministrazione a termine in essere al momento dell’entrata in vigore della norma o stipulati successivamente al 7/3/2015, in un’ottica di promozione del “contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto” (art. 1, comma 7, lett. b) della legge 183/2014).
JOBS ACT E SISTEMA DEGLI APPALTI
Xxxxxxxx Xxxxxxxx
L’introduzione per i nuovi assunti di un nuovo regime di tutela contro i licenziamenti illegittimi, a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tutele crescenti (di seguito CTC), pone particolari e delicati problemi nel settore degli appalti, nel quale la continuità occupazionale dei lavoratori è fisiologicamente a rischio a causa del continuo avvicendarsi di diversi datori di lavoro nella titolarità degli appalti. Il CTC, ormai divenuto legge, prevede infatti per i lavoratori assunti dopo la sua entrata in vigore l’applicazione di un diverso regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo, nel quale ha assoluta prevalenza la tutela indennitaria – pagamento di un indennizzo da 4 a 24 mensilità in base all’anzianità del lavoratore – e una funzione del tutto residuale per la tutela reintegratoria, che è invece prevista solo per i licenziamenti discriminatori o nulli (e in una sola ipotesi per i licenziamenti disciplinari gravemente ingiustificati).
Con il Jobs act il Governo, anziché portare a termine “la normativa in materia di tutela dei lavo- ratori impiegati in imprese che svolgono attività di servizi in appalto al fine di favorire la piena occupazione e di garantire l’invarianza del trattamento economico complessivo dei lavoratori”(art. 7 comma 4bis legge 31/2008), con una scarna e non perspicua disposizione ha tenuto conto dell’anzianità maturata dal lavoratore occupato sull’appalto oggetto di successione ma solo ai fini del computo dell’indennizzo dovuto in caso di dichiarata illegittimità del licenziamento, disponen- do, a tal fine, che “l’anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze dell’impresa subentrante nell’appalto si computa tenendosi conto di tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell’attività appaltata”(art. 7 decreto CTC).
Il “vecchio” assunto, ovvero colui che ha già prestato la propria opera nell’ambito dello stesso appalto oggetto di cessione ad altro imprenditore, sarebbe destinato dunque, anche qualora riesca a conservare il suo posto di lavoro, ad essere equiparato a un “nuovo” assunto ai fini della tutela applicabile in caso di licenziamento illegittimo, con conseguente pregiudizio del regime di stabilità precedentemente goduto. Per ironia della “sorte” il lavoratore in questione, pur potendo rivendi- care nei confronti del nuovo datore di lavoro – nelle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva
– un diritto all’assunzione con un contratto definito “a tutele crescenti”, verrebbe a trovarsi in un rapporto di lavoro nel quale la legge non solo non gli attribuisce alcuna tutela ulteriore rispetto a quella precedentemente goduta, ma ne certifica un complessivo ed effettivo arretramento.
Il dualismo di tutele introdotto con il CTC tra vecchi e nuovi assunti sarebbe quindi destinato ad essere rapidamente superato in questo particolare settore, proprio in ragione della frequenza con la quale si verificano i cambi di appalto, ma con pregiudizio della stabilità dei rapporti di lavoro del personale già occupato nell’appalto e conseguentemente anche, sia pure in via potenziale, della continuità occupazionale nel settore, fino ad oggi principalmente assicurata dalla contrattazione collettiva di categoria (tra i vari si richiamano l’art. 4 CCNL Multiservizi, l’art 332 del CCNL Turismo, l’art. 6 del CCNL Igiene Ambientale, l’art. 1 CCNL Credito).
LE CLAUSOLE SOCIALI PREVISTE DALLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
Con la suddetta specifica finalità le diverse clausole sociali contenute nei CCNL di categoria, tendo- no ad assicurare “il mantenimento dei livelli occupazionali” dei dipendenti coinvolti nel cambio di
78
GUIDA AL JOBS ACT
appalto, attraverso la previsione di un obbligo di assunzione a carico dell’imprenditore subentran- te, e, in alcuni casi, l’invarianza economico-normativa del trattamento riconosciuto, stabilendo a suo carico l’obbligo di applicazione del CCNL di categoria, giungendo inoltre (CCNL Turismo) a pre- vedere per l’impresa subentrante l’obbligo di farsi carico delle medesime condizioni economiche precedenti, compresi eventuali trattamenti individuali ad personam. Le stesse clausole prevedono poi differenti procedure di confronto sindacale sulle conseguenze di carattere economico e sociale sul personale coinvolto, specie in caso di modifica delle condizioni contrattuali dell’appalto rispetto a quelle precedentemente applicate.
Gli effetti delle citate clausole si possono pertanto sintetizzare nell’obbligo di assunzione a carico del nuovo appaltatore, con impegno ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dal CCNL di categoria, e/o più semplicemente nello svolgimento di procedure informative con il coin- volgimento delle organizzazioni sindacali firmatarie dei rispettivi CCNL.
LA TUTELA DELLA CONTINUITÀ OCCUPAZIONALE: LA DISCIPLINA LEGISLATIVA
Diversamente sul piano legislativo è ancora assente nel nostro ordinamento un’organica disciplina a tutela del personale coinvolto nei cambi di appalto, avendo il legislatore stabilito:
- nel 2003, che l’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto non costituisce trasferi- mento di azienda o di parte di essa (art. 29, 3° comma d.lgs. 276), norma “più che sospetta di incompatibilità con le Direttive europee sul trasferimento di azienda” (Xxxxx Xxxxxxx 2014; ma vedi anche Xxxxxxx Xxxxxxxx 2006) ;
- nel 2008, che “l’acquisizione del personale già impiegato nel medesimo appalto, a seguito del subentro di un nuovo appaltatore, non comporta l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni, in materia di licenziamenti colletti- vi, nei confronti dei lavoratori riassunti dall’azienda subentrante a parità di condizioni economiche e normative previste dai contratti collettivi nazionali e di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative” (art. 7 comma 4bis della legge 31/2008);
- nel 2013, l’inapplicabilità delle procedure previste dall’art. 7 della legge 604/1966, come mo- dificato dalla legge 92/2012, “ai licenziamenti effettuati in conseguenza di cambi di appalto, ai quali siano succeduti assunzioni presso altri datori di lavoro, in attuazione di clausole sociali che garantiscano la continuità occupazionale prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro stipu- lati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rap- presentative sul piano nazionale” (art. 6, comma 4, d.l.76/2013, convertito in legge 99/2013), in coerenza con quanto disposto in materia di licenziamenti collettivi.
A parte i dubbi di legittimità e le difficoltà interpretative e di coordinamento delle norme in que- stione, sul piano applicativo è possibile comunque ricostruire il seguente quadro di riferimento:
- il passaggio dei lavoratori occupati nell’appalto alle dipendenze del nuovo appaltatore, esclusa l’applicabilità della disciplina dettata per il trasferimento di azienda ai sensi dell’art. 29, 3° com- ma, può avvenire previa risoluzione del rapporto di lavoro in corso e la stipulazione di un nuovo contratto di lavoro con il nuovo appaltatore, in forza delle clausole sociali previste dalla contratta- zione collettiva (ove applicabili) e alle condizioni economiche e normative da questa stabilite (ciò
79
JOBS ACT E SISTEMA DEGLI APPALTI
non toglie che, qualora il cambio di appalto presenti gli elementi integrativi di un trasferimento di azienda, configurandosi nel caso un vero e proprio mutamento della titolarità di un’attività economica – ad esempio quando l’imprenditore che subentra nella gestione dell’appalto utilizzi l’organizzazione del lavoro già predisposta dal cedente – possa, o forse debba, a seguito dell’en- trata in vigore del CTC, essere valutata l’opportunità di rivendicare l’applicabilità della disciplina predisposta dall’art. 2112 cod. civ.);
- al fine precipuo di “favorire la piena occupazione e di garantire l’invarianza del trattamento economico complessivo dei lavoratori”, l’art. 7 comma 4bis della legge 31/2008 esclude l’ap- plicabilità della disciplina relativa ai licenziamenti collettivi (art. 24 legge 223/1991) in alcune ipotesi espressamente definite: 1) applicazione ai lavoratori riassunti dello stesso trattamento economico e normativo previsto dai contratti collettivi di settore stipulati dalle organizzazioni sin- dacali comparativamente più rappresentative, o 2) in forza di accordi stipulati da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative;
- nelle altre ipotesi, ovvero in caso di mancata assunzione alle dipendenze del nuovo appaltatore o di assunzione a condizioni deteriori rispetto a quelle precedentemente godute, risulta applicabile la disciplina di cui all’art. 24 legge 223/1991, ovviamente in presenza dei relativi presupposti, mancando i quali il recesso deve qualificarsi come licenziamento per giustificato motivo oggetti- vo, con conseguente applicazione della disciplina stabilita dalla legge 604/1966.
L’IMPATTO DEL JOBS ACT SUL SISTEMA DEGLI APPALTI
Riassunto sia pure in termini sintetici il quadro legale di riferimento, si possono individuare sia le finalità perseguite dal legislatore e dalla contrattazione collettiva sia gli strumenti predisposti dall’ordinamento per prevenire e/o reprimere eventuali abusi.
L’art. 7 comma 4bis della legge 31/2008 individua testualmente la duplice finalità perseguita dal legislatore nel “favorire la piena occupazione” e nel garantire “l’invarianza del trattamento econo- mico complessivo dei lavoratori”, con l’applicazione ai lavoratori riassunti dello stesso trattamento economico normativo previsto dai contratti collettivi di settore. Come si è giustamente affermato “il fine cui tende la norma e che assurge a presupposto stesso della sua applicazione è infatti rappresentato congiuntamente dalla piena occupazione “e” dall’invarianza del trattamento econo- mico complessivo dei lavoratori. Questi due requisiti devono essere presenti entrambi per giustifi- care l’esclusione della procedura di licenziamento collettivo; mancando anche uno solo di essi, la procedura è inevitabile” (Tribunale Catania, sent. 2151 del 12.7.2013 in xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xxx). D’altro canto la garanzia dell’invarianza del trattamento economico e normativo appare riferibile sia alle condizioni del contratto individuale sia a quelle previste dalla contrattazione collettiva, come si ricava dall’espresso richiamo al “trattamento economico complessivo”, con ciò intenden- do il legislatore contrastare sia l’applicazione da parte del cessionario di un CCNL che contempli condizioni deteriori rispetto a quello precedentemente applicato, sia una modifica in peius delle condizioni del contratto individuale. In tal senso si è affermato che “la norma, interpretata alla stre- gua della finalità espressa dalla disposizione di assicurare l’invarianza del trattamento economico complessivo, impone di verificare se le condizioni offerte dall’impresa subentrante siano equiva-
80
GUIDA AL JOBS ACT
lenti a quelle godute in precedenza dai lavoratori addetti all’appalto cessato. Tale verifica non può limitarsi all’applicazione astratta delle condizioni previste dal contratto collettivo ma presuppone necessariamente un giudizio di equivalenza in concreto del trattamento economico complessivo in godimento presso l’impresa uscente e quello offerto dall’impresa subentrante” (Tribunale Catania, ordinanza 8/9/2011).
Se questi sono i principi di portata generale applicabili nel settore dei servizi gestiti in appalto, non è difficile comprendere come il Jobs act, con il decreto attuativo del CTC, possa entrare in aperto contrasto con gli stessi e costituire potenzialmente un ostacolo alla circolazione dei rapporti di lavoro e conseguentemente alla stesso svolgimento dei servizi in appalto. Nei lavori preparatori della legge 31/2008 il legislatore aveva ben chiarito che “in un settore, quale quello delle pu- lizie caratterizzato dalla produzione di servizi tramite contratti di appalto con frequenti cambi di gestione fra le imprese con conseguente risoluzione dei contratti di lavoro da parte delle imprese cedenti e assunzioni ex novo da parte delle imprese subentranti, la norma in esame consente una procedura più snella, un più rapido riassorbimento del personale, un’invarianza del trattamento economico e normativo, e dunque maggiori tutele, con conseguente garanzia di maggiore traspa- renza negli appalti a vantaggio delle imprese corrette”.
L’assunzione con il CTC, conseguente al passaggio di appalto, non offrendo in realtà maggiori tutele e sufficienti garanzie di stabilità a fronte di un licenziamento illegittimo – o comunque offrendone sicuramente di minori, specie per i lavoratori con minore anzianità, rispetto al precedente contratto di lavoro – potrebbe ritenersi incompatibile con le finalità individuate dalla vigente legislazione, ovvero quelle di favorire, sul piano normativo, la piena occupazione e di garantire l’invarianza del trattamento precedentemente goduto. Se a ciò si aggiunge che la legge di stabilità per il 2015 ha previsto, come incentivo alla stabilità occupazionale, l’esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro per un periodo massimo di 36 mesi, ma con espressa esclusione delle assunzioni relative a lavoratori che nei sei mesi precedenti siano risultati occupati a tempo indeterminato presso qualsiasi datore di lavoro, emerge un ulteriore motivo di contrasto alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro in questo settore.
In altre parole, la modifica in peius del trattamento complessivamente goduto che si verrebbe così a determinare con il CTC – con particolare riguardo alla stabilità occupazionale - potrebbe risultare in contrasto con i presupposti richiesti dalla legge 31/2008 per escludere le procedure di licenziamento collettivo, e pertanto essere invocata dai lavoratori – e/o sul piano collettivo, dalle organizzazioni sindacali a fronte di passaggi di appalto nei quali non siano garantiti piena occupa- zione e/o invarianza del trattamento economico normativo - al fine di essere reintegrati, qualora ne ricorrano i presupposti, alle dipendenze del precedente datore di lavoro. Si pensi, ad esempio, a un lavoratore occupato in un’azienda di grosse dimensioni che gestisca più servizi in appalto e che, a seguito della cessione del servizio nella quale è occupato, venga assunto con un CTC da un nuovo appaltatore che, magari, offra meno garanzie anche sul piano economico. Il lavoratore in questione potrebbe avere l’interesse, e forse anche il diritto, a impugnare il licenziamento, se intimato dall’imprenditore uscente in violazione delle procedure di licenziamento collettivo, per essere reintegrato nel suo vecchio posto di lavoro, contestando la modifica intervenuta nel suo
81
JOBS ACT E SISTEMA DEGLI APPALTI
contratto di lavoro e nel trattamento normativo precedentemente goduto. Ciò a maggior ragione se si pensa che l’art. 7 del decreto attuativo del CTC, per il computo dell’anzianità, si riferisce al pe- riodo di impiego del lavoratore “nell’attività appaltata”, che potrebbe anche non corrispondere con l’anzianità maturata alle dipendenze dell’appaltatore titolare dell’attività ceduta. Nel caso dovesse risultare un’anzianità di impiego inferiore, il lavoratore in questione avrebbe un maggior pregiu- dizio in termini di stabilità occupazionale ed avere dunque un maggior interesse a rivendicare il diritto alla reintegrazione nel suo precedente posto di lavoro. In alternativa, il lavoratore potrebbe comunque, in applicazione del principio dell’invarianza del trattamento economico e normativo, contestare in giudizio l’assunzione con il CTC da parte dell’imprenditore subentrante e rivendicare l’applicazione della medesima tutela precedentemente goduta in caso di licenziamento illegitti- mo, sempre che, ovviamente, non sia stato assunto e occupato sull’appalto oggetto di cessione in epoca successiva all’entrata in vigore del CTC.
In conclusione il dualismo di tutele tra “vecchi” e “nuovi assunti”, in materia di tutela contro i licenziamenti illegittimi, introdotto dalla nuova disciplina relativa al CTC, è destinato a trovare una replica con analoghe modalità anche nel settore degli appalti, alla luce delle vigenti disposizioni che disciplinano i cambi di appalto, che garantiscono ai “vecchi assunti” – ovvero a coloro i quali erano già stati assunti e occupati sull’appalto in epoca precedente all’entrata in vigore del nuovo contratto – il mantenimento delle stesse condizioni precedentemente agli stessi applicabili, e ciò nonostante il passaggio, conseguente all’assunzione, alle dipendenze del nuovo datore di lavoro titolare dell’attività gestita in appalto.