Edizione di martedì 16 aprile 2019
Edizione di martedì 16 aprile 2019
Obbligazioni e contratti
L’adempimento indiretto dell’obbligazione naturale
di Xxxxxxx Xxxxxx
Procedimenti di cognizione e ADR
Overruling in senso estensivo dei poteri processuali di parte e inammissibilità della rimessione in termini
di Xxxxxxx Xxxxxxxxx
Procedimenti cautelari e monitori
Inopponibilità al fallimento del decreto ingiuntivo opposto, quando manca una declaratoria di estinzione definitiva del giudizio di opposizione prima dell’apertura del fallimento
di Xxxxxx Xxxxxx
Responsabilità civile
Omessa informativa del medico e danno da lesione del diritto di autodeterminazione del paziente: la Cassazione ammette il risarcimento automatico
di Xxxxxxxxxx Xxxxxxxxxx
Comunione – Condominio - Locazione
Ruolo e funzioni del Consiglio di condominio: ognuno al suo posto!
di Xxxxxxx Xxxxxxx
Diritto successorio e donazioni
Donazione di terreno e mutamento della destinazione urbanistica: un regalo che non sempre comporta vantaggi
di Xxxxxx Xxxxxxx
Diritto e reati societari
L’immedesimazione organica degli amministratori di società di capitali: disponibilità del diritto al compenso e legittimità della clausola statutaria che preveda la gratuità dell’incarico
di Xxxx Xxxx Xxxxxx - Studio Pirola Pennuto Zei & Associati, Xxxxxxxx Xxxxxxxx - Studio Pirola Pennuto Zei & Associati
Diritto Bancario
Orientamenti del Tribunale di Roma su usura e anatocismo
di Xxxxx Xxxxxxxx
Diritto del Lavoro
No alla ripetizione delle somme percepite dal dipendente
di Xxxxxxxxxxx Xxxxxx
Privacy
Misure di sicurezza per la protezione dei dati personali
di Xxxxxxx Xxxxxx
L’adempimento indiretto dell’obbligazione naturale
di Xxxxxxx Xxxxxx
Abstract
Con la locuzione adempimento indiretto dell’obbligazione naturale si intende quel meccanismo che consente l’assunzione di un’obbligazione giuridica su fondamento di una naturale tale per cui, adempiendo direttamente l’obbligazione giuridica, indirettamente si adempierà l’obbligazione naturale.
Sebbene la questione sia ancora dibattuta, attualmente l’orientamento maggioritario della giurisprudenza e della dottrina non ammette l’adempimento indiretto dell’obbligazione naturale basandosi sulla lettera dell’art 2034 c.c. che esclude espressamente che dalle obbligazioni naturali possano scaturire altri effetti se non quello della soluti retentio.
***
Gli obblighi morali e sociali assumono rilevanza per il diritto solo quando siano giuridicizzati, ossia quando, a prescindere dalla loro natura, vengano ad essere considerati veri e propri obblighi giuridici. Tuttavia, in alcuni casi e in via eccezionale, il dovere morale o sociale, pur rimanendo tale, può acquistare rilevanza per il diritto: è ciò che accade per le c.d. obbligazioni naturali tanto che si afferma che «l’obbligazione naturale rappresenta il punto d’incontro tra diritto e morale, tra mondo giuridico e mondo extra-giuridico» (così FRATINI, Le obbligazioni. Il sistema del diritto civile, vol. I, Roma, 2018, p. 22).
Nel nostro ordinamento le obbligazioni naturali sono disciplinate dall’art. 2034 c.c. il quale stabilisce che: «non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace. I doveri indicati dal comma precedente e ogni altro per cui la legge non accorda azione ma esclude la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato non producono altri effetti.»
Per obbligazione naturale si intende, quindi, un obbligo – morale o sociale – non vincolante, che, derogando alla regola generale per la quale il soggetto che abbia effettuato un pagamento senza che vi fosse un debito può richiedere la restituzione, non ammette la ripetizione della prestazione.
Secondo un’opinione pacificamente condivisa dalla dottrina (x. XXXXXXXXX, Obbligazioni naturali, in Riv. dir. civ., 1962, II, p. 45 ss.; PERLINGIERI, Le vicende dell’obbligazione naturale, in Riv. dir. civ., 1969, I, p. 362 ss.; BARNINI, voce Obbligazione naturale, in Enc. giur. Treccani, XXX, x. 0 xx) x
xxxxx xxxxxxxxxxxxxx (x. ex multis Cass., 5 maggio 1982, n. 888 e Cass., 12 febbraio 1980, n. 1007) l’art. 2034 c.c. distingue le obbligazioni naturali in due categorie: le obbligazioni naturali tipiche e quelle atipiche.
Il secondo comma della disposizione menzionata prevede, infatti, fattispecie tipiche di obbligazioni naturali, ossia casi di atti socialmente e moralmente leciti esplicitamente contemplati dalla legge, che non assurgono, tuttavia, a vincoli giuridici e sono, quindi, sprovvisti di azione.
Si tratta della disposizione fiduciaria testamentaria (art. 627 c.c.), dei casi classici di pagamento del debito prescritto (art. 2940 c.c.) e del pagamento del debito di gioco (art. 1933 c.c).
La norma del primo comma, invece, è molto più ampia bastando, per la stessa, che vi sia un dovere morale o di coscienza e l’esecuzione spontanea di esso.
Si tratta di una disposizione di carattere generico che non richiama fattispecie tipiche e nominate e in base alla quale, dunque, qualsiasi dovere che sia tale secondo la coscienza individuale e sociale o secondo la morale corrente, può costituire obbligazione naturale (sempre che rimanga nell’alveo della patrimonialità).
Da ciò consegue che il fatto che un determinato caso non rientri in una delle fattispecie tipiche da cui scaturisce obbligazione naturale, non significa che lo stesso non possa integrare uno dei doveri morali cui si riferisce genericamente il primo comma dell’art. 2034 c.c.
Si ha, in questo modo, una coesistenza tra fattispecie tipiche e fattispecie atipiche di obbligazione naturale.
Ed è proprio il carattere dell’atipicità che consente alle obbligazioni naturali di fungere da vera e propria «valvola di sicurezza dell’ordinamento giuridico» o come è stato detto da autorevole dottrina da «organo respiratore dell’intero ordinamento». Esse, infatti, «garantiscono il trapasso nel mondo del diritto di valori, sempre mutevoli, della collettività espressi da doveri non giuridici» (così FRATINI, Le obbligazioni. Il sistema del diritto civile, vol. I, Roma, 2018, p. 22).
L’obbligazione naturale, sia essa tipica o atipica, sebbene non sia una valida causa obligandi – in quanto non è un’obbligazione giuridica – è una valida causa solvendi. La legge, infatti, considera i doveri morali o sociali come valori meritevoli a tal punto da giustificare un trasferimento patrimoniale.
Il trasferimento attuato in esecuzione di un dovere morale e sociale è, quindi, assistito da un valido riferimento causale per cui la prestazione risulta giustificata da una causa riconosciuta idonea dall’ordinamento giuridico nel rispetto dell’art. 2033 c.c.
Si può affermare, quindi, che seppure non sia ammessa la ripetizione di quanto eseguito in
forza di un’obbligazione naturale ciò non significa che non ci sia una giustificazione causale per lo spostamento patrimoniale sotteso alla stessa.
Come già accennato, il codice civile prevede all’art. 2034 c.c., che le obbligazioni naturali non possano produrre effetti diversi dalla soluti retentio. Tale disposizione, in altre parole, rende inapplicabili all’obbligazione naturale le norme deputate alla tutela del credito (artt.
2740-2910 c.c.) e alla tutela dell’inadempimento (art. 1218 c.c.).
Nelle obbligazioni naturali, infatti, la causa solvendi – secondo quanto stabilito espressamente dall’art. 2043 co. 2 c.c. – sussiste ai soli fini della soluti rententio.
Ed è per questa ragione per cui, secondo l’orientamento prevalente (in giurisprudenza cfr. Cass., 29 novembre 1986, n. 7064; Cass., 8 maggio 1984, n. 2800; Cass., 7 aprile 1978, n. 1607; Cass., 25 ottobre 1974, n. 3120; e in dottrina cfr. in generale XXXXXX, Esecuzione indiretta di obbligazioni naturali, in Foro it., 1939, I, c. 39 ss.; MONTEL, Obbligazione naturale come causa di obbligazione civile, in Riv. dir. comm., 1941, II, p. 332; GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2009, p. 573 ss, ROCCHIO, Le obbligazioni naturali, in Contr. e impr., 2/2011) non è possibile adempiere indirettamente l’obbligazione naturale attraverso un’obbligazione giuridica.
L’adempimento indiretto dell’obbligazione naturale si configura quando il contenuto della stessa diventa oggetto di un’obbligazione giuridica. Infatti se si assume giuridicamente lo stesso debito che si era già assunto naturalmente adempiendo l’obbligazione giuridica in senso diretto e tecnico, indirettamente, si adempie l’obbligazione naturale.
La giurisprudenza, in più occasioni, ha affermato che «poiché il 2° comma dell’art. 2034 c. c. sancisce che i doveri del tipo considerato non producono altri effetti all’infuori dell’irrepetibilità prevista nel comma precedente, l’autonomia negoziale non può estrinsecarsi con una promessa di pagamento produttiva di un nuovo e diverso vincolo giuridico, né può trasformare la natura di quel dovere mediante novazione.» (cfr. ex multis Cass., 29 novembre 1986, n. 7064).
Secondo questo orientamento la promessa unilaterale di pagamento, la ricognizione di debito ex art. 1988 c.c. o la novazione ex art. 1230 c.c, seppur espressione dell’autonomia negoziale delle parti, non possono essere utilizzati quali strumenti per adempiere indirettamente l’obbligazione naturale.
Tali negozi, in realtà, o confermano un rapporto preesistente o lo estinguono. Si tratta, in altre parole, di negozi ricognitivi di un debito giuridicamente esistente o di negozi novativi che presuppongono la validità del titolo costitutivo dell’originaria obbligazione.
La loro struttura non consente di adempiere indirettamente un’obbligazione naturale in quanto gli stessi presuppongono un’obbligazione giuridica e, come già detto, l’obbligazione naturale non è un’obbligazione giuridica.
Nello specifico la promessa unilaterale di pagamento, e lo stesso discorso vale per la ricognizione di debito, è un negozio giuridico unilaterale attraverso il quale si realizza un’astrazione processuale.
Infatti, come afferma la Corte, la norma «non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha soltanto effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, venendo ad operarsi, in forza dell’ art. 1988 cod. civ., un’astrazione meramente processuale della “causa debendi”, comportante una semplice “relevatio ab onere probandi” per la quale il destinatario della promessa è dispensato dall’onere di provare l’esistenza del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria, a meno che egli non rinunci, anche implicitamente, al vantaggio dell’inversione dell’onere della prova.» (cfr. ex pluribus Cass., 31 marzo 2010, n. 7787; Cass. 15 maggio 2009, n. 11332; Cass. 8 agosto 2007, n. 17423; Cass. 20 gennaio 2006, n. 1101)
Tale astrazione processuale implica che la promessa unilaterale – così come la ricognizione di debito – dipende indissolubilmente dal rapporto sottostante in modo tale che se quest’ultimo non è valido, efficace ed esistente, non lo sarà neanche la promessa di pagamento.
Di conseguenza, sebbene in astratto tale negozio potrebbe rappresentare uno strumento valido per assumere giuridicamente il debito già assunto naturalmente, tuttavia, in concreto, questa soluzione non può essere adottata in quanto la promessa di pagamento fa sorgere un’obbligazione giuridica che non astrae dal rapporto sottostante. Tale rapporto viene, infatti, postulato e presunto fino a prova contraria in modo tale che se non sussiste quest’ultimo non esisterà neanche la promessa.
Se, infatti, si promettesse il pagamento di un debito che forma oggetto di un’obbligazione naturale si avrebbe una promessa inammissibile a livello ontologico in quanto postulerebbe un rapporto non giuridico sottostante.
Lo stesso discorso può essere fatto per la novazione ex art. 1230 c.c. La novazione è un negozio giuridico bilaterale attraverso il quale si estingue un’obbligazione attraverso la sua sostituzione con una nuova obbligazione che abbia un oggetto o un titolo diverso.
Il presupposto necessario per aversi novazione è la sussistenza di un’obbligazione da estinguere. Si tratta, infatti, di un negozio a doppio effetto che, da un lato, determina l’estinzione di un’obbligazione e, dall’altro, la nascita di una nuova.
La novazione si configura, infatti, come un «un contratto estintivo e costitutivo di obbligazioni, caratterizzato dalla volontà di far sorgere un nuovo rapporto obbligatorio in sostituzione di quello precedente con nuove ed autonome situazioni giuridiche, di tale contratto sono elementi essenziali, oltre ai soggetti e alla causa, l’”animus novandi”, consistente nella inequivoca, comune intenzione di entrambe le parti di estinguere l’originaria obbligazione, sostituendola con una nuova, e l’”aliquid novi”, inteso come mutamento sostanziale dell’oggetto della prestazione o del titolo del rapporto».
Se, quindi, si assumesse un’obbligazione naturale (che per definizione non è un’obbligazione
giuridica) alla base della novazione mancherebbe l’obbligazione da estinguere e, quindi, il negozio novativo non sarebbe ammissibile.
Sulla base di queste argomentazioni dottrina e giurisprudenza maggioritaria non ritengono ammissibile l’adempimento indiretto dell’obbligazione naturale.
L’adempimento dell’obbligazione naturale può configurarsi, infatti, solo come un atto a titolo gratuito e, precisamente un negozio unilaterale, con il quale un soggetto attribuisce ad un altro un beneficio patrimoniale moralmente o socialmente doveroso.
L’adempimento per determinare l’unico effetto possibile – ossia quello della soluti retentio così come previsto espressamente dall’art. 2034 c.c. – deve essere eseguito spontaneamente da un soggetto capace (intendendosi per capacità quella di intendere e di volere) e deve presentare i requisiti della proporzionalità non potendo avvenire attraverso l’assunzione di un’obbligazione giuridica.
Procedimenti di cognizione e ADR
Overruling in senso estensivo dei poteri processuali di parte e inammissibilità della rimessione in termini
di Xxxxxxx Xxxxxxxxx
Cass., Sez. Un., sent., 12 febbraio 2019, n. 4135 Pres. Mammone – Rel. Lamorgese
Procedimento civile – Interpretazione giurisprudenziale delle norme processuali – Sopravvenuto mutamento (c.d. overruling) in senso estensivo dei poteri di parte – Rimessione in termini – Inammissibilità (C.p.c. artt. 153, 829; d. lgs. 2 febbraio 2016, n. 40, art. 27)
[1] La rimessione in termini per causa non imputabile, in entrambe le formulazioni che si sono succedute nel tempo (artt. 184-bis e 153 c.p.c.9), non è invocabile in caso di errori di diritto nell’interpretazione della legge processuale, pur se determinati da difficoltà interpretative di norme nuove o di complessa decifrazione, in quanto imputabili a scelte difensive rivelatesi sbagliate, come quella di non impugnare il lodo per errori di diritto, in presenza di convenzione arbitrale anteriore alla riforma del d. lgs. n. 40 del 2006.
CASO
[1] Devoluta al giudizio di arbitri rituali la controversia insorta in merito all’asserita nullità della risoluzione consensuale di un contratto di realizzazione e fornitura di macchine distributrici alimentari, parte soccombente, con citazione notificata in data 19 novembre 2008, ha proposto impugnazione di nullità, contro il lodo che ne era scaturito, davanti alla competente Corte d’appello di Bologna, adducendo al riguardo una nutrita serie di violazioni d’ordine processuale. In via incidentale al medesimo giudizio d’impugnazione ma a distanza di oltre cinque anni – e, precisamente, in data 4 febbraio 2014 -, la stessa parte ha depositato istanza di rimessione in termini ai fini dello svolgimento di motivi aggiunti di nullità del lodo, attinenti alla violazione delle norme di diritto sostanziale che presiedevano al merito della controversia: istanza motivata facendo riferimento alla sopravvenuta Cass., 19 aprile 2012, n. 6148, la quale, assumendo l’ammissibilità di quella tipologia di censure nel caso di stipula della clausola compromissoria in data precedente l’entrata in vigore del d. lgs. 2 febbraio
2006, n. 40 – che, in via di riscrittura dell’art. 829 c.p.c., aveva per contro sancito l’immunità del lodo da quelle censure, salva diversa volontà delle parti -, aveva finito, detta Cass. n.
6148/2012, per sconfessare le risultanze letterali della disciplina di diritto transitorio di cui all’art. 27, 4° comma, dello stesso d. lgs. n. 40/2006, in tal modo disattendendo l’affidamento posto dalla parte impugnante su un testo normativo che, ai fini dell’applicazione della sopradetta, novellata, disciplina dei motivi di nullità del lodo arbitrale, attribuiva rilievo, formalmente, alla sola data di proposizione della domanda introduttiva del procedimento
arbitrale (nel caso successiva a quella dell’entrata in vigore di detto d. lgs. n. 40/2006).
La Corte di merito ha respinto tanto quell’istanza come, più in generale, l’impugnazione di nullità in cui la stessa figurava inserita. Al che, la parte che vanamente aveva promosso il gravame non ha potuto che rivolgersi alla Corte di cassazione, con ricorso articolato su quattro motivi, il primo dei quali, con ordinanza interlocutoria della Sezione Prima recante data 2 agosto 2018, è stato rimesso all’attenzione delle Sezioni Unite per la soluzione della questione di massima (ritenuta di particolare importanza ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 374, 2° comma, c.p.c.) se la vicenda ermeneutica che ha avuto ad oggetto gli artt. 829, 3° comma, c.p.c. e 27, 4° comma, d. lgs. n. 40/2006 si presti all’applicazione dell’istituto del prospective overruling nonché se tale istituto sia estensibile anche alla legge sostanziale e, al di là di ciò, se siano ravvisabili gli estremi della rimessione in termini per causa «non imputabile», olim ex art. 184-bis e oggi ex art. 153, 2° comma, c.p.c., anche nel caso in cui la parte, facendo leva su un’interpretazione suffragata dalla lettera della legge e dalla giurisprudenza di merito, abbia rinunciato ad avvalersi, incorrendo nella relativa decadenza, di una facoltà processuale che una successiva giurisprudenza di legittimità avrebbe riconosciuto come ad essa, per contro, spettante.
SOLUZIONE
[1] Il Supremo Xxxxxxxx ha respinto il motivo di ricorso sottoposto al suo sindacato sotto entrambi i profili considerati.
Il primo era quello riguardante l’ammissibilità, nelle vicenda concretamente esaminata, della rimessione in termini da overruling, ossia motivata in relazione a un sopravvenuto revirement dell’interpretazione giurisprudenziale di legge che sia idoneo a pregiudicare la parte che abbia conformato il proprio agire all’orientamento ermeneutico precedentemente invalso. Sulla base di un excursus sulla pregressa elaborazione in materia, le Sezioni unite pervengono a identificare le condizioni congiuntamente, a quel fine, richieste: a) in un mutamento della giurisprudenza di legittimità relativo all’interpretazione di norme processuali; b) nella connotazione come obiettivamente imprevedibile di quella svolta; c) negli effetti preclusivi dell’intercorso overruling, quale, cioè, causa diretta di una situazione di inammissibilità, improcedibilità o decadenza connessa alla diversità delle forme o dei termini che avrebbero dovuto osservarsi sulla base dell’orientamento sopravvenuto.
Di tali condizioni, però, soltanto la prima poteva dirsi integrata, stante l’indiscutibile natura, se non solo, certo anche processuale della disposizione di cui all’art. 829, 3° comma, c.p.c. Non, al contrario, la seconda, visto che, alla data della cit. Cass. n. 6148/2012, la Suprema Corte mai si era pronunciata sulla disciplina di diritto intertemporale di cui all’art. 27 d. lgs. n. 40/2006 e, dunque, mancava un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità che potesse alimentare un ragionevole affidamento della parte. E non, soprattutto, la terza, visto che l’innovativo orientamento inaugurato da detta Cass. n. 6048/2012 (e poi definitivamente consacrato da Cass., Sez. un., 9 maggio 2016, n. 9284, 9285 e 9341) aveva portata ampliativa, e non restrittiva, dei poteri processuali spettanti alla parte, sì che la decadenza in cui la
xxxxxxxx era incorsa non era certo ad esso addebitabile, bensì all’interpretazione di legge dianzi recepita: ciò che esclude, nella fattispecie, l’ammissibilità della rimessione in termini
da overruling anche a voler ammettere – ma la Corte, in ogni caso, lo nega – che un affidamento meritevole di tutela della parte potrebbe essere generato, in mancanza di un dictum del
giudice di legittimità, da una compatta e incontrastata interpretazione della giurisprudenza di merito.
[2] Il secondo profilo del motivo rimesso all’esame delle Sezioni unite atteneva all’applicabilità, nella specie, di una rimessione in termini “ordinaria”, ovverosia svincolata dai presupposti messi a punto dalla giurisprudenza per poter invocare il prospective overruling: ma neppure su questo versante esse hanno lasciato aperto un qualche margine alla discussione.
A prescindere da quella che sarebbe stata, nell’occasione, la vistosa intempestività dell’iniziativa spiegata dalla parte al fine di vedersi restituita nei poteri processuali rimasti preclusi, essendosi la stessa attivata a distanza di quasi due anni dal momento in cui, con la pronuncia della S.C. n. 6148/2012, si sarebbe palesata l’astratta possibilità di recuperare quei poteri medesimi: ciò che alle Sezioni unite preme porre in risalto è che, se a concretare la nozione di «causa non imputabile» di cui al predetto art. 153, 2° comma, c.p.c. (ed al previgente art. 184-bis c.p.c.), dev’essere un fatto impeditivo che presenti il carattere dell’assolutezza, nel senso di porsi del tutto al di fuori della sfera di controllo della parte, questo, evidentemente, non può dirsi dell’errore di diritto che quella abbia commesso nell’uniformarsi a una lettura del testo di legge che la Cassazione sia poi venuta a smentire. Né, prosegue il supremo giudice, può opporsi alla presente considerazione il fatto che quella di cui, nella circostanza, si discuteva fosse norma di significato assolutamente univoco, sì da non potersi imputare a colpa della parte la scelta di conformare la propria condotta processuale a quel significato medesimo. L’interpretazione di un testo normativo, infatti, non è mai un dato acquisito a priori, bensì il precipitato di molteplici fattori e varianti, che sovente trascendono il mero elemento della littera legis, tanto da doversi imputare a responsabilità della parte, ovvero, il che è lo stesso, del suo difensore, la scelta di confidare esclusivamente in quest’ultimo, trascurando ogni altra, anche soltanto astratta, possibilità alternativa: come, peraltro, dimostra la vicenda quivi in rassegna, dove la Cassazione si è discostata dalla lettera dell’art. 27, 4° comma, d. lgs. n. 40/2006 in nome di un’interpretazione costituzionalmente orientata che ha poi ricevuto l’avallo dello stesso giudice delle leggi (Corte cost., 30 gennaio 2018, n. 13, Foro it., 2018, I, 707).
QUESTIONI
[1] La presente decisione si inserisce nel solco del filone giurisprudenziale inaugurato dalle ordinanze-gemelle della Cassazione, 17 giugno 2010, n. 14627, e 2 luglio 2010, n. 15811, Corr. giur., 2010, 1473, con nota di X. X’Xxxxxxxxxx, che alle decadenze in cui la parte sia incolpevolmente incorsa per aver confidato su una consolidata giurisprudenza di legittimità successivamente travolta da un mutamento di indirizzo interpretativo, hanno ritenuto si possa apportare rimedio per il tramite dello strumento della rimessione in termini, in grado così di assolvere, nel nostro ordinamento, alle medesime funzioni cui tipicamente è preposto, nel
sistema nordamericano, l’istituto del prospective ovverruling (scettico sull’applicabilità, nella specie, della rimessione in termini e per la necessità di inquadrare il mutamento giurisprudenziale come ius superveniens a efficacia non retroattiva, cfr. X. Xxxxxx, Retroattività del mutamento di giurisprudenza: limiti, Foro it., 2011, I, 3344 ss.).
A quelle pronunce molte altre ne sono seguite, che hanno compiutamente definito condizioni e limiti dell’utilizzazione di siffatto prospective ovverruling “all’italiana” (ex plurimis, Cass., Sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144; Cass., 27 novembre 2011, n. 28967; Cass., 11 marzo 2013, n.
5962; Cass. 28 ottobre 2015, n. 22008, Giur. it., 2016, 663, con nota di X. Xxxxxxxx; Cass., 14 marzo 2018, n. 6159). E a completare, o arricchire ulteriormente, il quadro così delineatosi, è giunta la decisione in commento, svolgendo ad consequentias il principio per cui gli effetti preclusivi di cui la parte si duole devono trovare la loro causa diretta nell’ovverruling sopravvenuto: il che è palesemente da escludere allorché, come è stato nella fattispecie decisa, tali effetti siano il prodotto della scelta di parte di astenersi dall’esercizio di poteri che, a mente della nuova interpretazione di legge patrocinata dalla giurisprudenza, ben sarebbero stati dalla stessa attivabili (in tal senso v. già Cass., 16 giugno 2014, n. 13676, in motiv.; nonché, in dottrina, X. Xxxxxxxxxx, Il principio di affidamento tra fluidità delle regole e certezza del diritto, Riv. dir. proc., 2011, 1089 s.; ma contra F. Cavalla, X. Xxxxxxx, X. Xx Xxxxxxxxxx, Le S.U. aprono (ma non troppo) all’errore scusabile: funzione dichiarativa della giurisprudenza, tutela dell’affidamento, tipi di overruling, Corr. giur., 2011, 1408).
[2] La sentenza in rassegna condivide appieno anche l’impostazione rigorista che tipicamente connota l’approccio giurisprudenziale alla disciplina “ordinaria” della rimessione in termini, come istituto suscettibile d’impiego soltanto in situazioni eccezionali, ove la decadenza in cui sia incappata la parte sia dipesa da fattori del tutto indipendenti dalla sua volontà e sottratti alla sua sfera di controllo (cfr. Cass., 6 luglio 2018, n. 17729; Cass., 27 ottobre 2015, n. 21794; Cass., 16 ottobre 2015, n. 20992). Vero è che, se, al lume di questa impostazione, mai potrebbe beneficiare di quel rimedio una decadenza in cui la parte sia caduta per aver confidato in un’interpretazione di legge che la giurisprudenza abbia successivamente sconfessato, lo stesso dovrebbe, a rigore, valere anche nei casi, dianzi illustrati, in cui, ad un sopravvenuto mutamento giurisprudenziale, si attribuiscono gli effetti restitutòri de quibus. Ma quella da overruling è rimessione in termini, se così può dirsi, “di diritto speciale”: e dove manchino i presupposti, enucleati dalla stessa giurisprudenza, per l’applicazione di quel regime speciale, non può certo sopperire la disciplina di diritto comune dell’istituto.
Procedimenti cautelari e monitori
Inopponibilità al fallimento del decreto ingiuntivo opposto, quando manca una declaratoria di estinzione definitiva del giudizio di opposizione prima dell’apertura del fallimento
di Xxxxxx Xxxxxx
Cassazione civile, Sez. I, Sentenza 26 febbraio 2019, n. 5657. Pres. Xxxxxx, Xxxxxxxxx Xxxxx
Fallimento ed altre procedure concorsuali – Formazione dello stato passivo – Opposizione allo stato passivo – Credito fondato su decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo opposto – Cancellazione dal ruolo della causa di opposizione per inattività delle parti – Mancata riassunzione – Xxxxxxxxxx – Definitività del decreto ingiuntivo – Non sussiste – Mancata dichiarazione dell’estinzione dell’opposizione prima del fallimento – Inopponibilità al fallimento.
CASO
Il ricorrente, già dipendente di Alfa s.r.l., otteneva dal Tribunale del Lavoro di Oristano decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo ex art. 642 c.p.c. per il pagamento delle competenze vantate nei confronti della società. Il decreto ingiuntivo era stato opposto dalla società, ma la causa di opposizione era stata cancellata dal ruolo per inattività delle parti.
Il ricorrente pertanto chiedeva, con il predetto titolo monitorio, al Tribunale di Oristano l’ammissione in via privilegiata al fallimento di Alfa s.r.l., proponendo opposizione allo stato passivo avverso il decreto di rigetto emesso dal giudice delegato del fallimento.
Il Tribunale aveva infatti ritenuto che la mancanza di un’espressa dichiarazione di estinzione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo sarebbe stata impeditiva del giudicato, con conseguente difetto di un valido titolo per l’insinuazione al passivo fallimentare, in mancanza di altre prove del credito vantato verso la società fallita. Infatti e nel merito il Tribunale aveva ritenuto mancante la prova del credito vantato dal ricorrente, che aveva allegato unicamente le scritture contabili della società fallita, esplicanti i loro effetti, ai sensi dell’art. 2709 c.c., solo inter partes, ma non anche nei confronti dei terzi, tra cui rientrava il curatore fallimentare, quale rappresentante della massa dei creditori, pur subentrato nella gestione del patrimonio della fallita.
Il creditore impugnava il decreto di rigetto dell’opposizione allo stato passivo.
SOLUZIONE
La Corte di cassazione rigetta il ricorso proposto, stabilendo che il decreto ingiuntivo, quand’anche provvisoriamente esecutivo ai sensi dell’art. 642 c.p.c., che sia stato opposto con giudizio di opposizione successivamente cancellato dal ruolo per inattività delle parti e non riassunto tempestivamente, non è opponibile alla massa fallimentare, quando manchi una declaratoria di estinzione che abbia acquisito definitività prima della declaratoria di fallimento.
Infatti, il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà per intervenuta estinzione o per mancata proposizione del giudizio di opposizione, non può considerarsi passato in cosa giudicata né formale né sostanziale, risolvendosi in mera proposizione di una domanda in giudizio e, pertanto, non essendo opponibile al fallimento.
QUESTIONI
La questione principale verte sull’assimilabilità o meno del decreto ingiuntivo non opposto od opposto con opposizione estintasi ad una sentenza passata in giudicato e sulla sua conseguente idoneità a rappresentare un titolo sufficiente per l’ammissione al passivo fallimentare.
Il creditore ricorrente affermava che, nel caso in esame, il decreto ingiuntivo dovesse considerarsi pienamente assimilabile ad una pronuncia passata in giudicato, dal momento che non poteva più essere proseguito il giudizio di opposizione, non riassunto tempestivamente dopo la cancellazione dal ruolo per inattività delle parti. Ciò senza necessità di alcun provvedimento dichiarativo dell’esecutorietà per mancata opposizione o per estinzione del giudizio di opposizione, essendo il decreto già munito della provvisoria esecutività, ai sensi dell’art. 642 c.p.c.
La Corte di cassazione, come detto, ha rigettato le doglianze del ricorrente, rilevando il difetto di una pronuncia dell’estinzione dell’opposizione anteriore all’apertura del fallimento, a fronte oltretutto del pregresso regime di cui agli artt. 181, co. 1, e 307, co. 4, c.p.c., che prevedevano che l’estinzione fosse rilevata soltanto su tempestiva eccezione di parte, non già anche d’ufficio, come prevedono le suddette disposizioni nel testo attuale.
Xxxxxxxx, non risultava dagli atti del procedimento che l’opponente avesse presentato neppure istanza di esecutorietà ex art. 654, co. 1, c.p.c., con la conseguenza che il titolo dallo stesso azionato per l’insinuazione al passivo dovesse considerarsi nulla più che un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, inopponibile come tale al fallimento, secondo giurisprudenza ormai consolidata (Cass., 23 maggio 1986, n. 3465; Cass., 29 febbraio 2016, n. 3987; Cass., 20 aprile 2018, n. 9933), in base alla quale il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato sostanziale, idoneo a costituire titolo inoppugnabile per l’ammissione al passivo, solo nel momento in cui il giudice, dopo averne controllato la ritualità della notificazione, lo dichiari, in mancanza di opposizione o di costituzione dell’opponente, esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c., ovvero, in caso di opposizione, come si evince dal coordinato disposto degli art. 653 e
308 c.p.c., basta che il relativo giudizio si sia estinto e che, al momento della sentenza di fallimento, sia decorso il termine di dieci giorni per proporre reclamo avverso l’ordinanza di estinzione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 307 e 178 c.p.c., ovvero – conviene aggiungere – in caso di giudizio dinanzi a giudice monocratico, sia trascorso il termine per proporre appello avverso il provvedimento dichiarativo dell’estinzione.
Occorre, insomma, che l’irrevocabilità del decreto ingiuntivo sia fatta constare, in modo definitivo, in data anteriore all’apertura del fallimento: in difetto, il decreto ingiuntivo opposto o non ancora munito di esecutorietà per mancata opposizione, resolvitur in vim simplicis citationis e non è né più né meno che una domanda giudiziale pendente alla data del fallimento, che non può essere proseguita e che va sostituita con il ricorso per l’ammissione al passivo.
Responsabilità civile
Omessa informativa del medico e danno da lesione del diritto di autodeterminazione del paziente: la Cassazione ammette il risarcimento automatico
di Xxxxxxxxxx Xxxxxxxxxx
Cass. civ., Sez. III, 15 maggio 0000, x. 00000, xxx. – Pres. Armano – Rel. Xxxxxxxx
Responsabilità Civile – Professionisti – Attività medico-chirurgica – Responsabilità medica – Obbligo di acquisire il consenso informato – Violazione – Lesione del diritto all’autodeterminazione – Autonoma risarcibilità – Sussistenza – Necessità di prova specifica –
Esclusione
[1] In caso di violazione, da parte del medico chirurgo, dell’obbligo di acquisire il consenso informato, se si allega un danno alla salute, il paziente deve dimostrare, anche tramite presunzioni, che, ove debitamente informato, avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento, mentre una siffatta prova specifica non è necessaria ai fini dell’autonoma risarcibilità del danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, che corrisponde allo sviluppo di circostanze connotate da normalità e all’id quod plerumque accidit, salve la possibilità di contestazione della controparte e quella del paziente di allegare e provare fatti a sé ancor più favorevoli, di cui intenda giovarsi a fini risarcitori.
CASO
[1] L’attore citava in giudizio la struttura sanitaria ed il chirurgo, a cui si era rivolto per essere sottoposto ad un intervento di chirurgia oftalmica (“cataratta sottocapsulare all’occhio sinistro, sfociata in un trapianto di cornea”), onde ottenerne la condanna al risarcimento dei danni patiti, in conseguenza della violazione, da parte del medico, dell’obbligo di renderlo edotto, tramite il consenso informato, del tipo di intervento, dei rischi e delle possibili complicanze dello stesso, cui sarebbe conseguita la perdita della possibilità di esercitare consapevolmente una serie di scelte personali, come quella di non sottoporsi all’intervento o di farsi operare in un momento successivo o di scegliere un’altra struttura ritenuta più idonea.
La domanda del paziente veniva respinta in entrambi i primi gradi di giudizio: in particolare, veniva escluso il risarcimento del danno derivante dalla lesione del diritto alla salute, per non aver provato il paziente che, se fosse stato informato dei rischi e delle complicazioni del trattamento sanitario, non vi si sarebbe sottoposto, ed altresì veniva esclusa la risarcibilità del danno derivante dalla lesione del diritto di autodeterminazione, giacché il paziente non aveva provato, in concreto, i pregiudizi non patrimoniali, diversi da quello alla salute, subìti a causa
della mancanza di informazione.
Proposto dal paziente ricorso in cassazione, i giudici di legittimità hanno confermato la pronuncia impugnata, in ordine alla non risarcibilità del danno alla salute lamentato, per difetto di prova della sussistenza del nesso eziologico tra tale danno e la violazione imputabile al medico, mentre in relazione alla risarcibilità del danno derivante dalla lesione del diritto di autodeterminazione hanno cassato con rinvio l’impugnata sentenza.
SOLUZIONE
[1] La Suprema Corte con l’ordinanza in commento ha affermato il principio secondo cui “dalla lesione del diritto fondamentale all’autodeterminazione determinata dalla violazione, da parte del sanitario, dell’obbligo di acquisire il consenso informato deriva, secondo il principio dell”id quod plerumque accidit”, un danno-conseguenza autonomamente risarcibile – costituito dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di se stesso psichicamente e fisicamente – che non necessita di una specifica prova, salva la possibilità di contestazione della controparte e di allegazione e prova, da parte del paziente, di fatti a sé ancora più favorevoli di cui intenda giovarsi
a fini risarcitori”.
QUESTIONI
[1] Con l’ordinanza in commento, la Suprema Corte, dopo aver richiamato i fondamenti normativi del consenso informato ed averne definito, sia pure sinteticamente, la nozione e la funzione, ha chiarito che l’inadempimento del sanitario, rispetto al dovere di informazione dei prevedibili rischi connessi al trattamento prospettato e della probabilità del loro verificarsi, nonché al dovere di acquisizione di un valido consenso da parte del paziente, determina l’illegittimità del trattamento sanitario eventualmente posto in essere dal medico. In particolare, l’omissione dell’informazione, da parte del sanitario, è idonea a determinare il verificarsi di due tipologie di danno: il danno alla salute, che si configura quando è ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, ove fosse stato correttamente informato, avrebbe rifiutato il trattamento sanitario; il danno da lesione del diritto di autodeterminazione, che si verifica quando il deficit informativo abbia cagionato un pregiudizio, patrimoniale o non (in quest’ultimo caso, il danno deve essere connotato da apprezzabile gravità), diverso dal danno della salute, subìto in conseguenza della mancata informativa.
Xxxxxx, l’omissione dell’informazione da parte del medico è astrattamente idonea a prospettare diverse situazioni, differentemente risarcibili secondo che la condotta del medico sia stata oppure no diligente, ovvero che l’intervento sia stato correttamente eseguito oppure non e che sia stato o non determinato un danno alla salute.
Nell’ordinanza che si annota, la Suprema Corte prende in considerazione l’ipotesi in cui il trattamento sanitario sia stato correttamente eseguito dal medico, ma cionondimeno abbia causato un danno alla salute del paziente. In tale ipotesi, afferma la Corte, la violazione del
dovere di informazione non determina soltanto il danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in sé considerato, ma anche il danno alla salute, che “non è causalmente riconducibile all’inesatta esecuzione della prestazione sanitaria ma alla mancata corretta informazione, allorché debba ragionevolmente ritenersi che, se questa fosse stata data, il paziente avrebbe deciso di non sottoporsi all’intervento e di non subirne le conseguenze invalidanti” (Cass.
16.05.2013, n. 11950).
Ora, ci sembra ardito sostenere che il danno alla salute, conseguente a un intervento correttamente eseguito, possa essere causato dall’omessa informativa al paziente. Infatti, l’evento generatore della serie causale determinativa di una lesione alla salute va riconnessa al momento esecutivo della prestazione sanitaria e non a quello informativo cronologicamente precedente. Al riguardo, correttamente è stato affermato in dottrina (Xxxxxxx, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, 2010, p. 178) che il danno lamentato dal paziente non può e non deve essere la condizione patologica in cui si è concretato il rischio, di cui il medico avrebbe dovuto previamente informare il paziente, ma il pregiudizio, da questi subìto, derivante dalla impossibilità di esercitare consapevolmente una serie di scelte personali, come quella di non sottoporsi all’intervento o di farsi operare in un momento successivo o di scegliere un’altra struttura ritenuta più adeguata.
Così ragionando, si comprende il consolidato orientamento giurisprudenziale, cui aderisce l’ordinanza in commento, secondo cui il paziente può ottenere il risarcimento del danno alla salute, derivato dall’omessa informativa e quindi da un viziato consenso informato, solo se ed a condizione che egli provi che, ove correttamente informato dei rischi e delle complicanze del trattamento sanitario, non vi si sarebbe sottoposto ovvero avrebbe scelto un trattamento alternativo. Occorre, cioè, che il paziente provi l’esistenza del nesso causale tra il danno alla salute e la violazione, da parte del medico, dell’obbligo di fornire al paziente l’informativa al trattamento sanitario e per ravvisare tale nesso causale occorre appunto che il paziente provi che, se fosse stato esaurientemente informato, non si sarebbe sottoposto al trattamento.
In mancanza di tale prova, non può ricondursi all’inadempimento dell’obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute (Cass. civ., 13.10.2017, n. 24074), giacché solo fornendo la prova anzidetta è legittimo ritenere che l’esito infausto del trattamento medico non si sarebbe verificato se fosse stata fornita l’informativa, in quanto a seguito di essa il paziente avrebbe evitato l’intervento o avrebbe scelto un diverso trattamento terapeutico.
L’onere della prova relativa alla sussistenza del nesso di causalità tra il deficit informativo ed il danno alla salute è generalmente assolto tramite presunzioni, volte a ricostruire la volontà ipotetica di un individuo ragionevole, anche in considerazione delle finalità del trattamento sanitario (es. intervento estetico o necessario, ed in quest’ultimo caso intervento con finalità conservative o migliorative della condizione di salute del paziente).
In applicazione di tali principi, pertanto, la Suprema Corte ha confermato l’impugnata sentenza nella parte in cui ha escluso la risarcibilità del danno alla salute, derivante dall’omessa informazione del medico, non avendo l’attore provato, neppure per il tramite di presunzioni,
che, se esaustivamente informato delle complicanze e dei rischi dell’intervento, non vi si sarebbe sottoposto.
Per quanto concerne il secondo tipo di danno derivante dal deficit informativo, ossia il danno da lesione del diritto di autodeterminazione, l’ordinanza che si annota assume un significativo rilievo con riferimento al thema probandum.
Infatti, l’orientamento giurisprudenziale precedente all’ordinanza che si annota riteneva che il pregiudizio derivante al paziente dall’omessa informativa non fosse automaticamente risarcibile ma dovesse essere provato dal paziente, il quale doveva allegare e provare di aver subìto concretamente delle conseguenze dannose (patrimoniali o non), derivanti dal fatto di non essere stato informato dal medico dei rischi del trattamento sanitario.
Con l’ordinanza in commento, i Giudici di legittimità, con un’inversione di rotta, hanno affermato che la prova della sussistenza del nesso causale tra la condotta omissiva del medico (omessa informativa) ed il danno da lesione del diritto di autodeterminazione non è invece necessaria.
Al riguardo, la Suprema Corte muove dalla distinzione che sussiste, nella struttura dell’illecito da lesione del diritto all’autodeterminazione, tra il danno-evento ed il danno-conseguenza:
il danno-evento è rappresentato, nella specie, dall’esecuzione da parte del medico dell’intervento sulla persona del paziente, senza la preventiva acquisizione del consenso;
il danno-conseguenza è rappresentato dall’effetto pregiudizievole che la mancata acquisizione del consenso ha determinato nella sfera personale del paziente.
Tra le voci del danno-conseguenza, la Corte di Cassazione, richiamando dei precedenti sul punto, distingue quelle rappresentate:
dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente, patite dal paziente durante l’esecuzione del trattamento e nella relativa fase di convalescenza;
dalla diminuzione che lo stato del paziente subisce a livello fisico per effetto dell’attività demolitoria, che abbia eliminato, sebbene a fini terapeutici, parti del corpo o la funzionalità di esse: si tratta di una conseguenza oggettivamente dannosa, che si deve apprezzare come danno-conseguenza indipendentemente dalla sua utilità rispetto al bene della salute del paziente, che è bene diverso dal diritto di autodeterminarsi rispetto alla propria persona;
dalle “perdite” relative ad aspetti della salute: espressione con cui la Corte allude alla possibilità per il paziente, una volta messo al corrente del tipo di trattamento cui sarebbe stato sottoposto, di determinarsi a rivolgersi ad altra struttura o ad altro medico per realizzare l’esecuzione di altro intervento meno demolitorio o causativo di minore sofferenza.
La Cassazione afferma che la prima delle voci suddette è quella che si risolve in una sequenza causale normale secondo l’id quod plerumque accidit e che, rispetto alle altre due voci, non necessita di una specifica prova del pregiudizio costituito dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di sé. Secondo la Corte, la mancanza di informazione causa normalmente (cioè sulla base della normale frequenza statistica) in capo al paziente la perdita della possibilità di esercitare consapevolmente una serie di scelte (tra cui quella di non sottoporsi all’intervento, anche nell’ipotesi in cui lo stesso fosse indifferibile e necessario; quella di non sottoporvisi immediatamente; o quella di indirizzarsi presso altra struttura); tale perdita concreta, da un lato, la privazione della libertà del paziente di determinarsi circa la sua persona fisica e, dall’altro, una sofferenza psichica connessa a tale privazione, giacché se il paziente fosse stato correttamente informato dei rischi del trattamento, e quindi se il consenso fosse stato correttamente acquisito, egli si sarebbe preparato con consapevolezza e predisposizione psichica ad affrontare l’intervento e le sue conseguenze.
Mentre, le altre due conseguenze dannose, allontanandosi dalla sequenza causale normale, richiedono una rigorosa e puntuale prova da parte del paziente, fermo restando la possibilità di contestazione della controparte e quella del paziente di allegare e provare fatti a sé ancora più favorevoli di cui intenda giovarsi.
L’ordinanza in commento ricostruisce la lesione all’autodeterminazione in termini di danno in re ipsa, con riferimento al quale non solo non è necessario che il paziente provi che — ove
correttamente informato — non avrebbe acconsentito a sottoporsi al trattamento, ma addirittura tale danno prescinde da ogni accertamento circa l’effettività del pregiudizio lamentato e la
sua gravità, ammettendo la Corte un automatismo risarcitorio, che non sembra condivisibile, stante l’inconciliabilità con quanto affermato dalle Sezioni Unite con le note sentenze nn.
26972, 26973, 26974, 26975 dell’11.11.2008, secondo cui il danno non patrimoniale “anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno- conseguenza…che deve essere allegato e provato. …. Da respingere è la variante costituita dall’affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa….”.
Inoltre, nelle predette sentenze, la Cassazione ha fissato un ulteriore requisito per la risarcibilità dei danni-conseguenza, derivanti dalla lesione di diritti della persona costituzionalmente garantiti: che gli stessi siano “di una certa gravità”.
Questi ultimi principi sono stati ripresi anche dalla sentenza della Cassazione 04.05.2018, n. 10608 – precedente di soli alcuni giorni l’ordinanza in commento – con cui i giudici di legittimità hanno espressamente escluso che il danno da lesione del diritto di autodeterminazione sia in re ipsa, affermando che la lesione del diritto all’autodeterminazione si configura come autonomamente risarcibile in via equitativa, purché ne ricorrano le seguenti condizioni: l’incisione oltre un certo livello minimo di tollerabilità e l’allegazione, da parte del paziente, del concreto pregiudizio subìto, la cui prova può essere fornita anche mediante presunzioni (sul punto anche Cass. civ., 23.05.2018, n. 12855 emanata pochi giorni dopo l’annotata ordinanza).
L’automatismo del risarcimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione è stato
poi escluso dalla Suprema Corte ancora una volta, con sentenza del 22.08.2018, n. 20885: se ne deve concludere che la pronuncia in commento è destinata a rimanere isolata?
Comunione – Condominio - Locazione
Ruolo e funzioni del Consiglio di condominio: ognuno al suo posto!
di Xxxxxxx Xxxxxxx
Cass. Civ., VI-2 Sez. Civ., Ordinanza n. 7484 del 15 Marzo 2019. Pres. Xxxxxxxx X’Xxxxxx, Rel. Consigliere Xxxxxxx Xxxxxx
Art. 1130-bis c.c. – Art. 1135 c.c. – Art. 1136 c.c. – Art. 1137 c.c. – Art. 2697 c.c. Legge 11 Dicembre 2012 n. 220
Art. 100 c.p.c. – Art. 366 c.p.c. – Art. 369 c.p.c.
“ Il comma 2 dell’art. 1130- bis, introdotto dalla legge 11 dicembre del 2012, n. 220, consente all’assemblea di nominare, oltre all’amministratore, un consiglio di condominio composto da almeno tre condomini negli edifici di almeno dodici unità immobiliari. La stessa norma precisa che il consiglio di condominio ha “unicamente funzioni consultive e di controllo”, essendo l’organo votato a garantire una più efficiente e trasparente tutela degli interessi dei condomini nei grandi complessi immobiliari dotati di molteplici strutture comuni. Già, tuttavia, prima della riforma del 2012, o comunque in fattispecie sottratte ratione temporis alla vigenza del nuovo art. 1130 bis c.c., questa Corte aveva affermato, con principio che va qui ribadito, che l’assemblea condominiale – atteso il carattere meramente esemplificativo delle attribuzioni riconosciute dell’art. 1135 c.c.- può certamente deliberare la nomina di una commissione di condomini ( cui ora equivale il “ consiglio di condominio”) con l’incarico di esaminare i preventivi di spesa per l’esecuzione di lavori, ma le decisioni di tale più ristretto consenso condominiale sono vincolanti per tutti i condomini- anche dissenzienti- solamente in quanto rimesse alla successiva approvazione, con le maggioranze prescritte, dell’assemblea, le cui funzioni ( quale, nella specie, l’attribuzione dell’approvazione delle opere di manutenzione straordinaria, ex art. 1135, comma 1, n.4, c.c.) non sono derogabili ad un gruppo di condomini[1]”
FATTO
La vicenda trae origine da una delibera condominiale c.d. “ristretta”, ossia assunta dal Consiglio di Condominio, senza la successiva ratifica dell’assemblea, nè tantomeno preceduta da una corretta e formale delibera di approvazione dell’opera e della spesa. In tale decisione il Consiglio di condominio esulando da una funzione meramente “consultiva” attribuita dalla legge, esaminava differenti preventivi di appaltatori inerenti lavori di rifacimento del terrazzo/ lastrico solare, approvando uno di tali preventivi e suddividendo il relativo pagamento del
costo dell’opera tra i condomini.
Uno dei condomini rifiutava pagare le rate ed impugnava la delibera del Consiglio di condominio, in quanto esorbitante dai poteri ed in ogni caso collegata ad un opera mai approvata dall’assemblea, quale orano sovrano e deliberante, né compresa nei precedenti verbali di condominio.
Il Tribunale adito accoglieva l’opposizione e affermava che il Consiglio di Condominio, composto da cinque condomini, non si era limitato a svolgere funzione consultiva, come disciplinato nell’art. 1130-bis c.c., ma aveva espresso una decisione vincolante per l’intero condominio approvando i lavori di rifacimento ed il preventivo ritenuto più economico, ripartendo in tal modo le spese tra i condomini.
Successivamente il Condominio soccombente impugnava tale decisione dinanzi alla Corte d’Xxxxxxx, la quale però confermava il disposto del giudice di prime cure, rilevando inoltre l’interesse legittimo del condomino di proporre azione ex art. 1137 c.c., anche nei confronti di una delibera “ristretta”
La Corte rilevava che sebbene la riunione dei consiglieri avrebbe dovuto avere carattere consultivo, nella pratica esprimeva una decisione sui lavori di manutenzione del lastrico. Inoltre si rilevava che nel verbale di assemblea, precedente a quello impugnato, prodotto in giudizio, non risultavano approvate le opere in oggetto alla delibera oggetto di opposizione, né era stata adottata successivamente alcuna successiva approvazione o ratifica assembleare.
Il Condominio proponeva ricorso in Cassazione adducendo due motivi di ricorso e rimarcando, MA SOLO IN CASSAZIONE, che una successiva assemblea condominiale, avesse ratificato la decisione del consiglio di condominio, approvando a “larghissima maggioranza” i lavori e la scelta dell’impresa esecutrice. Il condomino controricorrente, in ragione del principio di autosufficienza del ricorso, deduceva che il verbale di quell’assemblea, posto a fondamento del ricorso non era mai stato acquisito agli atti del giudizio, nei precedenti gradi di merito.
SOLUZIONE
La Corte rigetta il ricorso del condominio, conferma le decisioni precedenti delle corti di merito e condanna il ricorrente a rimborsare al condomino le spese sostenute nel giudizio.
QUESTIONE
La questione in esame presenta diversi punti interessanti di riflessione e si colloca all’interno di una pratica purtroppo diffusa in ambito condominiale, inerente una generica approvazione di lavori straordinari da parte dell’assemblea condominiale, non accompagnata dalla corretta presentazione di un preventivo di spesa in assemblea, cui segue poi una successiva approvazione del preventivo di spesa, da parte del Consiglio di condominio; rimettendo sostanzialmente al vaglio di questo organo una decisione di non corretta pertinenza.
Tale prassi, oggetto del presente caso è da censurare, in quanto, così come ribadito dalle decisioni uniformi delle corti di merito e poi dalla Cassazione, i poteri del Consiglio di condominio solo consultivi e non deliberativi, non potendo prescindere le decisioni dalla volontà dell’assemblea, quale organo sovrano delle delibere di condominio.
Il Consiglio di Condominio rappresenta una novità introdotta con la legge n. 220 del 2012. Viene disciplinato all’interno dell’art. 1130-bis c c, il quale all’ultimo comma attribuisce la possibilità all’assemblea di costituire un Consiglio di Condominio composto da almeno tre condomini negli edifici di almeno dodici unità immobiliari, questo avrà funzioni consultive e di controllo. Questa compagine di consiglieri riveste un ruolo di ausilio per l’amministratore, delimitato con il regolamento condominiale o con la sua deliberazione. Di fatto però non sostituisce e non può sostituire nè il ruolo dell’assemblea né il ruolo dell’amministratore, semmai ne agevola i compiti nei Condomini “complessi e numerosi”, favorendo una migliore interlocuzione tra i vari organi: Assemblea ed amministratore.
Come “organo” era stato già vagliato in precedenza dalla Corte, prima della riforma del 2012, la quale affermava: “ che l’assemblea condominiale – atteso il carattere meramente esemplificativo delle attribuzioni riconosciutele dall’art. 1135 c.c.- può certamente deliberare la nomina di una commissione di condomini ( cui ora equivale il “ consiglio di condominio” ) con l’incarico di esaminare i preventivi di spesa per l’esecuzione di lavori; ma le decisioni di tale più ristretto consenso condominiale sono vincolanti per tutti i condomini – anche dissenzienti – solamente in quanto rimesse alla successiva approvazione, con le maggioranze prescritte, dell’assemblea, le cui funzioni (quale, nella specie, l’attribuzione di approvazione delle opere di manutenzione straordinaria ex art. 1135 , comma 1, n.4, c.c.) non sono derogabili ad un gruppo di condomini[2].
Il consiglio non può prendere una decisione arbitraria che risulti vincolante per tutta la compagine condominiale, poiché non verrebbe rispettato l’art. 1135 c.c. inerente le attribuzioni dell’assemblea dei condomini.
Più volte la Corte si è trovata ad esprimersi, risultando unanime proprio riguardo alla determinazione dell’oggetto delle opere di manutenzione straordinaria, nella loro consistenza qualitativa e quantitativa, rientrando tali lavori nel contenuto essenziale della deliberazione assembleare imposta dall’art. 1135, comma 1, n.4, c.c.[3]
Infatti, dopo che il Consiglio si esprime su una determinata questione si deve passare al vaglio dell’assemblea condominiale e dell’amministratore per approvare la decisione con le relative maggioranze; nel caso di specie invece, i consiglieri hanno ecceduto la loro funzione meramente consultiva, poiché hanno arbitrariamente scelto l’impresa esecutrice ed addirittura ripartito le spese tra i condomini.
Proprio per questo motivo che il condomino proponeva opposizione ex art. 1137 c.c., dopo che il consiglio si era autonomamente annoverato il diritto di scegliere l’impresa a cui affidare i lavori di manutenzione e di suddividere le spese fra i condomini. Queste decisioni secondo il
Tribunale e successivamente secondo la Corte non vennero più poste al vaglio dell’assemblea condominiale e secondo le maggioranze del 1136 c.c., organo a cui il Consiglio dovrebbe far capo.
La Corte a questo punto si è domandata se effettivamente il condomino avesse o meno interesse ad agire nel proporre opposizione ex art. 1137 c.c.
Partendo da una sentenza della Cassazione n. 4501 del 28 febbraio 2006 le determinazioni prese dai condomini, in assemblea o come nel caso di specie nell’ambito del consiglio di condominio, devono valutarsi come veri e propri atti negoziali, quindi l’interpretazione del loro contenuto è frutto di apprezzamento d fatto spettante al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità unicamente per la violazione dei canoni stabiliti dagli artt. 1362 c.c. e seguenti. Per questo il condomino, nel caso in questione, aveva un interesse sostanziale ad impugnare la delibera in questione, in quanto titolare di una posizione qualificata diretta ad eliminare la situazione di obiettiva incertezza che la delibera del consiglio di condominio, si ripete arbitraria, generava quanto al contenuto dell’assetto organizzativo della materia regolante le opere di manutenzione straordinaria.
Inoltre l’interesse sostanziale si compenetrava con l’interesse ad agire dell’art. 100 cpc, per l’impugnazione di tale delibera; il Consiglio si esprimeva anche sulle spese da sostenere, ripartendole poi tra i condomini, avendo a questo punto il condomino rilevato una lesione patrimoniale, in quanto tale delibera non veniva vagliata dall’assemblea, impugnava rilevando il vantaggio e utilità economica che poteva derivare dall’accettazione della sua domanda.
In ultimo gli ermellini vagliano una questione meramente procedurale.
Il condominio ricorrente in Cassazione portava due motivi a fondamento del ricorso: entrambi i quali si basavano sulla delibera assembleare condominiale successiva alla delibera del Consiglio, la quale avrebbe ratificato il contenuto della decisione dei consiglieri.
In realtà, la Suprema Corte ribadisce che nessun cenno di tale successiva delibera ratificatrice è stato mai fatto all’interno della sentenza impugnata; anche il controricorrente oppone che tale verbale di assemblea non risulta essere stato prodotto.
Tale allegazione risulta essere inammissibile ora in Cassazione, ove è pacifico ritenere che: “il ricorrente che proponga una determinata questione di fatto di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, ha l’onere, imposto dall’art. 366, co.1, n.6, cp c e dall’art. 369, co.2, n.4 cpc, di indicare precisamente in quale atto ed in quale fase processuale venne svolta la relativa allegazione e in quale fascicolo di parte si trovi il documento inerente a detta questione, nonché di specificarne il contenuto.[4]”
Per questi motivi gli ermellini rigettavano il ricorso, ritendendo i due motivi non fondati e confermano il noto principio che in base all’articolo 1137, comma 8 c.c. , una nuova delibera del condominio non ha effetto sanante della delibera precedente se viziata.
[1] Cass. Sez., 2, 6 marzo 2007, n. 5130; Cass. Sez. 2, 23 Novembre 2016, n. 23903; Cass. Sez. 2,
25 maggio 2016, n. 10865
[2] Cass. Sez.2, 6 marzo 2007, n.5130; Cass. Sez. 2,23 novembre 2016, n. 23903; Cass. Sez. 2,
25 maggio 2016, n. 10865.
[3] Cass. Sez. 2, 26 gennaio 1982, n. 517; Cass. Sez. 2, 21 febbraio 2017, n. 4430; Cass. Sez. 6-2, 17 agosto 2017, n. 20136; Cass. Sez. 2, 20 aprile 2001, n.5889
[4] Cass. Sez. 3, 21/11/2017, n.27568; Xxxx. Sez. 1 , 18/10/2013, n.23675
Diritto successorio e donazioni
Donazione di terreno e mutamento della destinazione urbanistica: un regalo che non sempre comporta vantaggi
di Xxxxxx Xxxxxxx
Cassazione Civile, Sezione 2, Sentenza n. 20041 del 06/10/2016
DIVISIONE – DIVISIONE EREDITARIA – OPERAZIONI DIVISIONALI – FORMAZIONE DELLO STATO ATTIVO DELL’EREDITA’ – COLLAZIONE ED IMPUTAZIONE – RESA DEI CONTI – COLLAZIONE
D’IMMOBILI – MIGLIORAMENTI, SPESE, DETERIORAMENTI Nozione – Mutamento della destinazione urbanistica successivamente all’alienazione del fondo da parte del donatario – Esclusione – Fondamento.
In tema di scioglimento della comunione ereditaria, la collazione per imputazione di un immobile che, successivamente alla sua alienazione da parte del donatario, ma anteriormente all’apertura della successione, abbia subito un incremento di valore per effetto di una destinazione edificatoria insussistente all’atto dell’alienazione suddetta, va eseguita stimando il valore del bene al momento dell’apertura della successione e, dunque, tenendo conto anche di tale sopravvenuta attitudine urbanistica la quale, non dipendendo da un’attività del donatario o del terzo diretta ad incrementare il valore del bene, né essendo correlativa ad un esborso del donatario o all’arricchimento, corrispondente al valore delle opere realizzate, che il terzo abbia voluto porre in essere in favore di quello, non corrisponde alla finalità che sottende il regime dei miglioramenti della res “donata” e, pertanto, non ne condivide la disciplina.
Disposizioni applicate
Codice Civile, articoli 746, 747, 748, 749, 769
[1] Dopo la morte di Xxxxxxx, due dei di lei figli, Xxxxx e Xxxx, citavano in giudizio la sorella Xxxxx e il padre Xxxxxxx deducendo che la successione era regolata dalla legge e, ai fini della divisione, precisavano che nell’asse ereditario, a seguito dell’obbligo di collazione, doveva confluire anche un terreno, donato da Tiziona alla figlia Mevia con atto pubblico del 1983. Chiedevano, dunque, di procedersi alla divisione previa imputazione del fondo oggetto di donazione alla massa ereditaria. Mevia, nel costituirsi, deduceva, tra altro, che il terreno era stato da lei venduto, già nel lontano 1984, al prezzo di Lire 15.000.000 e che il valore dello stesso andava calcolato considerandone la destinazione agricola, per come esistente al momento della donazione. Nel corso degli anni successivi all’alienazione a terzi, infatti, il terreno aveva visto mutare la propria destinazione urbanistica, divenendo edificabile, con incremento considerevole del valore (determinato a seguito di CTU in Euro 108.000,00).
Il Tribunale di primo grado dichiarava aperta la successione legittima di Tiziona e rigettava la domanda di divisione sul presupposto che uno degli immobili caduti in successione era da considerarsi abusivo e che gli attori non avevano prodotto la certificazione di cui all’art. 35 della Legge n. 47/1985.
La sentenza veniva impugnata da Xxxx e Xxxxx i quali producevano nuovi documenti e chiedevano procedersi alla divisione ereditaria. L’appellata resisteva eccependo l’inammissibilità della produzione documentale; chiedeva accertarsi l’impossibilità di procedere alla divisione e rilevava che, anche per una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 745 c.c., il valore del fondo oggetto di collazione andava determinato con riferimento al tempo della donazione, senza tener conto della diversa destinazione urbanistica che lo stesso presentava al momento dell’apertura alla successione.
La Corte di appello, in riforma della sentenza impugnata, disponeva lo scioglimento della comunione ereditaria e, tra l’altro, condannava l’appellata a versare a Caio e Tizio una somma di denaro.
Mevia presentava ricorso in Cassazione, verso il quale resistevano con xxxxxxxxxxxxx Xxxxx e Xxxx.
[2] Sei sono i motivi di doglianza sollevati dalla ricorrente, ma nel corso della presente analisi l’attenzione merita di esser focalizzata sulle considerazioni svolte dalla Suprema Corte relativamente alla valutazione del bene oggetto di donazione.
La ricorrente, difatti, impugnava la sentenza di secondo grado nella parte in cui si era ritenuto che il valore del bene donato dovesse essere determinato in ragione dello stato giuridico che lo stesso aveva all’apertura della successione. Osservava, in particolare, la difesa di Mevia che, “affinché possa correttamente essere ristabilita la proporzione delle quote ereditarie proprie di ciascuno dei condividenti, il coerede donatario sarebbe tenuto a conferire alla massa ereditaria solo il valore rappresentato dall’effettivo arricchimento di cui egli ha goduto a seguito della liberalità.
Per effetto dell’accoglimento del criterio adottato dalla Corte di appello, invece, gli eredi non donatari verrebbero a giovarsi, nella determinazione delle loro quote ereditarie, di un aumento del valore del cespite, connesso alla sopravvenuta acquisizione della sua natura edificatoria, di cui la ricorrente non aveva mai beneficiato, sicché la collazione avrebbe finito per produrre, in maniera irragionevole e contrariamente al suo scopo, una ingiusta locupletazione dei controricorrenti a discapito dell’istante.
Sul coerede donatario verrebbero in definitiva a gravare quegli incrementi di valore del bene intervenuti successivamente alla sua alienazione e legati ad evenienze imprevedibili o fortuite: il che confliggerebbe, oltretutto, con la volontà espressa dal de cuius. Del resto, se le migliorie, quali incrementi di valore del fondo, devono essere scomputate dal valore dell’immobile donato anche se apportare da un terzo rispetto al donatario, poteva ragionevolmente concludersi che la sopravvenuta edificabilità del terreno e il conseguente incremento del valore che in esso si esprime, rappresentasse proprio una miglioria.”
Sul punto, la ricorrente sollevava anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 747
c.c. per contrasto con l’art. 3 Cost.. Veniva, in punto, contestata l’interpretazione della citata norma che porrebbe, in ogni caso, a carico del coerede donatario il rischio delle variazioni di valore del bene donato intervenute sino alla morte del donatario. La ricorrente riteneva che una simile interpretazione porterebbe ad “un trattamento omogeneo di situazioni differenziate, riguardanti, da un lato, il caso in cui il donatario non alieni l’immobile, optando per la conservazione dello stesso fino al momento dell’apertura della successione e, dall’altro, l’ipotesi in cui quel soggetto decida, invece, di trasferire quello stesso bene a terzi”.
La Cassazione ha analizzato, respingendole, le considerazioni sopra riportate.
[3] La sentenza de qua fornisce lo spunto per una più generale riflessione in ordine alla valutazione dei beni donati ai fini della collazione (nonché, per espresso richiamo legislativo, dell’imputazione ai fini dell’esperimento dell’azione di riduzione).
L’art. 747 cod. civ. stabilisce testualmente che “la collazione per imputazione si fa avuto riguardo al valore dell’immobile al tempo della aperta successione”; e, nel caso in analisi, non essendo il bene donato più presente nel patrimonio del donatario, tale modalità di collazione era l’unica possibile.
Se non fosse previsto alcun correttivo, il donatario potrebbe subire svantaggi considerevoli anche allorché il valore si fosse incrementato in ragione di opere e miglioramenti da lui apportati. Per tale ragione, il legislatore, all’articolo 748 cod. civ., ha previsto che “si deve dedurre a favore del donatario il valore delle migliorie apportate al fondo nei limiti del loro valore al tempo dell’aperta successione. Xxxxxx anche computarsi a favore del donatario le spese straordinarie da lui sostenute per la conservazione della cosa, non cagionate da sua colpa”. Nel caso, poi, in cui il bene sia stato alienato a terzi, la norma successiva dispone che si debba tenere conto anche dei miglioramenti e deterioramenti fatti dall’acquirente.
La ratio di tali norme viene individuata nella considerazione che “non sarebbe ragionevole imporre al donatario di conferire un valore che non è riferito all’originaria consistenza della res donata, ma che dipende, piuttosto, da iniziative da lui assunte (nel caso di miglioramenti eseguiti a sua cura e spese) o da interventi di terzi che abbiano inteso favorirlo”.
Il dettato normativo non brilla certo per chiarezza e non sono ben delineati i confini interpretativi del concetto di “miglioramenti”. A giudizio della Suprema Corte, “deve riconoscersi natura di miglioria a quell’opera che si incorpori nel fondo ed aumenti le opere esistenti, ovvero ne migliori l’inefficienza; non può invece riconoscersi natura di miglioria a quell’opera che valga solo a conservare le opere esistenti, minacciate di deperimento o di crollo, giacché in tal caso si tratta piuttosto di spese di straordinaria manutenzione. La miglioria finisce quindi necessariamente per ripercuotersi in un miglioramento della cosa, in un suo aumento, e, quindi, in un aumento del suo valore.” [1] Il classico esempio di miglioramento è, pertanto, quello del rudere donato dal padre al proprio figlio che, con proprie risorse, lo ristruttura ricavandone un’abitazione di notevole valore economico.
Ma cosa è a dirsi relativamente ad incrementi di valore che derivano da fattori che non possono essere ricondotti ad alcuna attività materiale compiuta dal donatario o da un terzo?
Quando, come nel caso di specie, al bene donato, al momento di apertura della successione debba essere attribuita una valutazione elevata in ragione di una modifica del piano regolatore che ha reso edificabile un terreno originariamente agricolo, chi deve assumersi l’alea di tale aumento?
La Corte d’appello, con ragionamento non contestato dalla Cassazione, aveva osservato che il coerede donatario aliena a proprio rischio ove ceda il bene oggetto della collazione prima dell’apertura della successione ed aveva precisato che “il conferimento in natura o per imputazione integra un’ipotesi di obbligazione alternativa fondata sul presupposto della sostanziale equivalenza delle prestazioni: equivalenza che verrebbe ad essere alterata ove a fronte dell’impossibilità della prima per preventiva scelta dell’obbligato, alla seconda consegua un’utilità minore per gli altri legittimari, quando invece la finalità della collazione è quella di assicurare, tendenzialmente, una parità di trattamento nei reciproci rapporti dei coeredi.”
La giurisprudenza appare unanimemente orientata nel senso di escludere che possano ricondursi al concetto di miglioria tutti quegli eventi che non dipendano da un’attività, del donatario o del terzo, diretta a incrementare il valore del bene.
Tale interpretazione, da un punto di vista squisitamente logico ha ragione d’essere accolta ogniqualvolta il mutamento “esterno” si realizzi prima della alienazione a terzi da parte del donatario. Se vendo un terreno che ho ricevuto in donazione dopo che già la modifica del piano regolatore l’ha reso edificabile, avrò avuto la possibilità di “lucrare” in sede di determinazione del prezzo di vendita; ed è comprensibile che debba in qualche modo renderne conto in sede di collazione. Non altrettanto facile è per chi si trova a dover imputare l’equivalente di un terreno edificabile divenuto tale magari a distanza di anni da quando lo si è venduto ad un prezzo irrisorio. Effettivamente, questioni di “giustizia” sembrerebbero avallare un ragionamento quale quello condotto dalla ricorrente, che riconosca in capo al coerede donatario l’obbligo di conferire alla massa ereditaria solo il valore rappresentato dall’effettivo arricchimento di cui egli ha goduto a seguito della liberalità.
La Cassazione giustifica la propria posizione affermando che “la soluzione indicata da parte ricorrente conduce alla inaccettabile conseguenza per cui, a fronte di un medesimo fatto (il mutamento della destinazione urbanistica del fondo), la collazione avrebbe ad oggetto il valore di mercato del bene, nel caso in cui questo sia rimasto nella disponibilità del donatario, e il valore del bene al netto dell’incremento determinato dalla sopraggiunta vocazione edificatoria del fondo, nel caso in cui questo sia stato invece alienato. Rimane quindi confermato che, anche nell’ipotesi di alienazione del bene – il quale abbia subito un incremento di valore per effetto di una destinazione edificatoria insussistente al momento del trasferimento il bene debba essere stimato, ai fini della collazione, facendo riferimento al momento in cui si apre la successione”.
E, per meglio comprendere, si ipotizzi il caso diametralmente opposto: un bene, che al tempo
della donazione aveva un valore anche ingente, alla morte del donante non ha più il medesimo appeal economico a seguito di eventi naturali. Non si dubita, in tal caso e con buona pace dei coeredi non donatari, che debba essere imputato il valore che il fondo ha al momento di apertura della successione.
O, ancora, si pensi alle normali oscillazioni del mercato immobiliare: nessuno pretende mai di poter portare in detrazione eventuali aumenti del prezzo al metro quadro (anche quando tali incrementi siano notevoli, come può avvenire in zone dove vengano realizzate opere che nemmeno vanno ad interessare direttamente il bene donato. Si pensi, ad esempio, all’apertura, in prossimità dell’immobile oggetto di collazione, di una fermata della metropolitana o di un impianto di risalita ad un comprensorio sciistico).
E di quanto tale orientamento sia radicato in giurisprudenza, ne è riprova un ulteriore pronunciato in cui addirittura si afferma che “l’inizio di un procedimento di trasformazione urbanistica è di per sé sufficiente ad incidere sul valore di mercato di un immobile compreso nell’area oggetto dello strumento urbanistico, risultando invece irrilevanti le vicende successive quali la mancata approvazione o la modificazione dello strumento stesso da parte del Comune”.[2]
Come, pertanto, già evidenziato dal Giudice di merito il donatario effettivamente, al momento in cui aliena il bene ricevuto, lo fa a proprio rischio, dovendo avere consapevolezza che futuri obblighi di collazione potrebbero, per lui, addirittura comportare una perdita economica.
[1] Così, Cass. Civ., Sezione 2, sentenza n. 2621 del 05/10/1974
[2] Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 24711 del 24/11/2009
Diritto e reati societari
L’immedesimazione organica degli amministratori di società di capitali: disponibilità del diritto al compenso e legittimità della clausola statutaria che preveda la gratuità dell’incarico
di Xxxx Xxxx Xxxxxx - Studio Pirola Pennuto Zei & Associati, Xxxxxxxx Xxxxxxxx - Studio Pirola Pennuto Zei & Associati
Corte di Cassazione Civile, Sez. I, Ordinanza 10 ottobre 2018 n. 285 (pubblicata il 9 gennaio 2019)
Parole chiave: società – società di capitali – amministratori – rapporto di immedesimazione organica – diritto al compenso – disponibilità – clausola statutaria di gratuità dell’incarico.
Xxxxxxx: “Il rapporto intercorrente tra la società di capitali ed il suo amministratore è di immedesimazione organica e ad esso non si applicano né l’art. 36 Cost. né l’art. 409, comma 1, n. 3) c.p.c.. Ne consegue che è legittima la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni.”.
Disposizioni applicate: artt. 112, 346 e 409 c.p.c. – artt. 2389 e 2475 c.c. – art. 36 Cost.
L’Ordinanza emessa dalla Prima Sezione civile della Corte di Cassazione, affronta l’annoso tema della qualificazione giuridica del rapporto che intercorre tra società e amministratore, con particolare riferimento al diritto all’emolumento e alla legittimità di una clausola statutaria che preveda la gratuità dell’incarico.
Nella fattispecie l’attore agiva in giudizio nei confronti della società per aver ricoperto la carica di amministratore per circa tre decenni (dal 1978 al 2004). Disattesa la richiesta in primo grado, quest’ultimo proponeva appello dinanzi alla Corte territoriale la quale, a conferma della decisione del Giudice di prime cure, avrebbe osservato come la clausola di cui all’art 12 dello Statuto sociale prevedeva solo un rimborso spese, salva diversa deliberazione assembleare che, come eccepito tempestivamente già in primo grado dalla società resistente, non era mai stata assunta nel caso di specie.
Il ricorrente impugnava pertanto la sentenza in Cassazione sulla base essenzialmente di due motivi: i) la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) e la decadenza dalle domande e dalle eccezioni non riproposte in grado di appello (art. 346 c.p.c), per non avere la controparte sollevato l’eccezione di gratuità nei due primi gradi di giudizio limitandosi a sostenere la spettanza di un mero rimborso spese; ii) la violazione degli artt. 2389 (compensi degli amministratori) e 2475 c.c. (amministrazione della società), avendo provato la propria attività gestoria e la mancata percezione degli emolumenti, conseguendone
il diritto al compenso sulla base della presunzione di onerosità dell’incarico e del rapporto di parasubordinazione. Resisteva la società con controricorso.
La Prima Sezione, con l’ordinanza in commento, ha subito rilevato la “manifesta infondatezza” del primo motivo specificando che dagli atti “risulta che l’eccezione fu ritualmente sollevata: la negazione di ogni diritto al compenso, invero, non può che equivalere, secondo la connessione propria delle parole, proprio a sostenerne la gratuità”.
La Suprema Corte ha così analizzato il secondo motivo ritenendolo anch’esso “infondato e in parte inammissibile”, in quanto come già chiarito dalle Sezioni Unite (cfr. Cassazione, Sezioni Unite, 20 gennaio 2017 n. 1545) “L’amministratore unico o il consigliere di amministrazione di una società per azioni sono legati da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica che si verifica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso nell’ambito dei rapporti parasubordinati previsti dal n. 3 dell’art. 409 c.p.c.”.
E’ appena il caso di notare che l’espressione del citato principio da parte della Corte comporta il rigetto di tutti gli altri inquadramenti giuridici proposti, soprattutto in passato, dalla dottrina e dalla giurisprudenza sulla natura del rapporto amministrativo (in estrema sintesi: teoria del mandato; teoria del lavoro subordinato ovvero parasubordinato; teoria della prestazione d’opera intellettuale). La Prima Sezione ha infatti ulteriormente precisato che “il rapporto che intercorre tra amministratore e società non può essere equiparato, in ragione del rapporto di immedesimazione organica, a quello derivante dal contratto d’opera, intellettuale o non intellettuale” (in tal senso anche Cassazione 17 ottobre 2014 n. 22046).
Stante la specialità del rapporto né di natura subordinata o parasubordinata né tantomeno d’opera intellettuale ne consegue, afferma la Prima Sezione, “l’inapplicabilità dell’art. 36 Cost. e la legittimità della previsione statutaria di gratuità delle funzioni di amministratore di società” (cfr. in tal senso anche Cassazione 21 giugno 2017 n. 15382, Cassazione 13 novembre 2012 n.
19714 e Cassazione 1 aprile 2009 n. 7961). Invero la disposizione costituzionale citata – che com’è noto sancisce il diritto del lavoratore a percepire una retribuzione proporzionata e sufficiente alla quantità e qualità del lavoro prestato – risulta applicabile al solo lavoro subordinato o parasubordinato (cfr. ex multis Trib. Milano, n. 9762/2017, Cassazione 13 novembre 2012, n. 19714).
Per converso, osserva la Cassazione, il diritto all’emolumento amministrativo, avendo natura disponibile, può essere oggetto di rinunzia da parte del suo titolare, infatti “l’amministratore di una società, con l’accettazione della carica, acquisisce il diritto ad essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico affidatogli. Tale diritto, peraltro, è disponibile e può anche essere derogato da una clausola dello statuto della società, che condizioni lo stesso al conseguimento di utili, ovvero sancisca la gratuità dell’incarico” (cfr. anche Cassazione 21 giugno 2017, n.15382).
Nel caso di specie, conclude la Prima Sezione, “la sentenza impugnata … ha accertato come l’art. 12 dello statuto prevedesse detta clausola di gratuità per la prestazione dell’attività di
amministrazione”, pertanto ha rigettato il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese di lite.
Diritto Bancario
Orientamenti del Tribunale di Roma su usura e anatocismo
di Xxxxx Xxxxxxxx
Si indicano di seguito alcuni indirizzi giurisprudenziali elaborati dal Tribunale di Roma in materia di usura e anatocismo (ex multis Trib. Xxxx 00.0.0000; Trib. Roma 21.2.2018; Trib. Roma 1.2.2017; Trib. Roma 15.6.2016; Trib. Roma 10.11.2016; Trib. Roma 16.6.2016; Trib.
Roma 25.5.2016; Trib. Roma 16.11.2016):
– la sentenza n. 350/2013 non contiene alcuna affermazione nel senso della necessità di cumulare il tasso moratorio al tasso corrispettivo, avendo invece semplicemente affermato, nel solco della costante giurisprudenza, che sono soggetti al tasso soglia anche gli interessi moratori (risultanti nel caso sottoposto all’esame della corte dal tasso corrispettivo più la maggiorazione per la mora); in tal senso si è espressa la più recente e maggioritaria giurisprudenza di merito. A sostegno della propria tesi parte attrice richiama la clausola del contratto che prevede espressamente, nell’ipotesi di ritardato pagamento, l’applicazione del tasso moratorio sull’intero importo delle rate scadute, quindi sia sulla quota capitale sia sulla quota interessi. Tale meccanismo in verità non comporta alcuna sommatoria di tassi in quanto la base di calcolo, alla quale si applica il solo interesse moratorio, rimane cristallizzata nell’importo della singola rata. Non sussiste però alcuna violazione dell’art. 1283 c.c., trattandosi di mutuo stipulato in data successiva al 1 luglio 2000 nel quale tale forma di anatocismo è legittimata dall’art. 120 TUB, come modificato dal D.lgs. n. 349/1999, purché sia conforme a quanto disposto dalla Delibera CICR del 9 febbraio 2000, in particolare dall’art. 3;
– l’applicazione degli interessi moratori sull’importo delle rate scadute, essendo conforme all’art. 3 della delibera CICR del 9.2.2000, legittimata dall’art. 120 TUB a disciplinare l’anatocismo nei rapporti bancari, non solo non può essere reputata illegittima ma nemmeno può influire sulla determinazione dei tasso effettivo, essendo anatocismo ed usura fenomeni distinti ed autonomamente disciplinati;
– parte attrice deduce genericamente la rilevanza ai fini della determinazione del TEG della penale dì estinzione anticipata prevista dal contratto di mutuo. Ma si deve ritenere che ai fini della verifica dell’usurarietà del tasso non vadano calcolate le remunerazioni, le commissioni e le spese meramente potenziali, perché, non dovute per effetto della mera conclusione del contratto, ma subordinate al verificarsi di eventi futuri concretamente non verificatisi. In particolare, non vanno prese in considerazione remunerazioni, commissioni e spese del tutto virtuali, perché non dovute per effetto della mera conclusione del contratto e subordinate al verificarsi di eventi che non si sono verificati, né potranno in seguito verificarsi;
– per quanto riguarda la penale di estinzione anticipata, si deve rilevare che si tratta di una
voce di applicazione meramente eventuale, costituente il corrispettivo per l’esercizio del recesso, cosicché si deve ritenere la sua inclusione fra i costi del finanziamento e la sua valutazione sul tasso effettivo, che dipende dal momento in cui il recesso è esercitato, presuppongano logicamente la sua effettiva applicazione, che non è stata allegata;
– in caso di usurarietà del tasso di mora, è stabilita la declaratoria di nullità della sola clausola che prevede il tasso di mora e l’operatività, limitatamente alla sola previsione contrattuale relativa al tasso di mora, della sanzione di cui all’art. 1815, comma 2, c.c. La tesi di parte attrice, secondo cui la pattuizione di un tasso usurario determinerebbe la gratuità del mutuo, estendendosi la nullità della pattuizione degli interessi all’intero rapporto, non ha fondamento. Infatti l’art. 1815 comma 2 non commina in assoluto la gratuità del rapporto ma esclude in questa ipotesi di nullità l’applicazione della disciplina generale della nullità parziale, in base al quale potrebbe essere ipotizzabile la nullità dell’intero contratto con obbligo immediato di restituzione (art. 1419 c.c.), così come l’applicazione del tasso legale di interesse, stanti l’assenza di una valida pattuizione del tasso ultralegale e la naturale onerosità del mutuo. L’indubbio carattere sanzionatorio e preventivo della disposizione non impone di escludere, andando al di là del suo tenore letterale, l’efficacia anche di clausole che non sono colpite dalla sanzione di nullità. La considerazione autonoma della clausola relativa al tasso corrispettivo e della clausola relativa al tasso moratorio discende dalla loro distinzione sotto il profilo logico e funzionale e si impone indipendentemente dalle modalità della loro formulazione, quindi sia nell’ipotesi che ciascuna di esse determini autonomamente il tasso sia nell’ipotesi che il tasso moratorio sia determinato sulla base di una maggiorazione rispetto al tasso corrispettivo, essendo la diversità fra tali ipotesi meramente formale;
– l’opzione per l’ammortamento alla francese non comporta l’applicazione di interessi anatocistici se gli interessi che vanno a comporre la rata da pagare sono calcolati sulla sola quota di capitale. Infatti nel caso di ammortamento alla francese come quello previsto nel caso di specie, a fronte di un capitale preso a prestito all’epoca iniziale, il debitore deve corrispondere N rate di importo costante R comprensive di interessi, calcolati al tasso I e la costruzione del piano di ammortamento avviene secondo i seguenti criteri: 1.ciascuna rata costante è costituita da una quota-interessi decrescente e da una quota capitale crescente; 0.xx quota-interessi si ottiene moltiplicando per il tasso I il debito residuo del periodo precedente, tenendo presente che al tempo zero il debito residuo coincide con quello iniziale e, pertanto applicando la formula dell’interesse semplice (Interessi = Capitale x tasso x tempo); 0.xx quota- capitale è la differenza fra la rata del prestito e la quota-interessi dello stesso periodo; 0.xx debito estinto alla fine del periodo è dato dalla somma del debito estinto alla fine del periodo precedente e della quota-capitale versata; 0.xx debito residuo, che al tempo zero coincide con il debito iniziale si calcola per differenza fra il debito iniziale e quello estinto. Ne consegue che anche nel metodo di capitalizzazione alla francese gli interessi vengono calcolati sulla quota capitale via via decrescente e per il periodo corrispondente a ciascuna rata, sicché non vi è alcuna discordanza tra il tasso pattuito e quello applicato e non vi è alcuna applicazione di interessi su interessi atteso che gli interessi conglobati nella rata successiva sono a loro volta calcolati unicamente sulla residua quota di capitale, ovverosia sul capitale originario detratto l’importo già pagato con la rata o le rate precedenti;
– una volta raggiunto l’accordo sulla somma mutuata, sul tasso, sulla durata del prestito e sul rimborso mediante un numero predefinito dì rate costanti, la misura della rata discende matematicamente dagli indicati elementi contrattuali; il rimborso di un mutuo acceso per una certa somma, ad un certo xxxxx e con un prefissato numero di rate costanti, può avvenire solo mediante il pagamento di rate costanti di quel determinato importo. La dedotta nullità per indeterminatezza delle clausole relative agli interessi pertanto è insussistente.
Diritto del Lavoro
No alla ripetizione delle somme percepite dal dipendente
di Xxxxxxxxxxx Xxxxxx
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 11 gennaio 2019, n. 517
Riforma della sentenza di condanna – Ripetizione delle somme percepite dal lavoratore – A lordo delle ritenute fiscali – Esclusione – Indebito contributivo – Legittimazione esclusiva del datore di lavoro – Sussistenza.
MASSIMA
In caso di riforma della sentenza di condanna l’impresa non può pretendere di ripetere dal dipendente le somme al lordo delle ritenute fiscali. Per quanto riguarda invece l’indebito contributivo, l’azienda è l’unica legittimata a chiedere all’istituto di previdenza il rimborso comprensivo anche per la parte a carico dei lavoratori.
COMMENTO
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del datore di lavoro proposto contro una dipendente nei confronti della quale aveva inizialmente ottenuto un decreto ingiuntivo per la restituzione delle somme corrisposte in virtù di una pronuncia di primo grado successivamente riformata. Il giudice di primo grado, in parziale accoglimento dell’opposizione della dipendente, revocava il decreto ingiuntivo e condannava la stessa al solo pagamento delle somme effettivamente percepite, con esclusione dunque delle ritenute fiscali e contributive operate dal datore di lavoro. Successivamente, la Corte d’Appello, investita della questione relativa alla ripetibilità delle somme percepite a lordo delle ritenute IRPEF, confermava la decisione del giudice di prime cure e rigettava il gravame della società. Nel rigettare il ricorso presentato dalla società, la Suprema Corte – dopo aver confermato che, in tema di rimborso delle imposte sui redditi, ai sensi dell’art. 38 d.p.r. n. 602/1973, sono legittimati a richiedere all’amministrazione finanziaria il rimborso delle somme non dovute e ad impugnare l’eventuale rifiuto dinanzi al giudice tributario sia il soggetto che ha effettuato il versamento (cd. “Sostituto d’imposta”), sia il percipiente delle somme assoggettate a ritenuta (cd. “Sostituito”) – ha dato continuità al principio in virtù del quale il datore di lavoro non può pretendere di ripetere somme al lordo delle ritenute fiscali, allorché le stesse non siano mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente. Secondo il giudice di legittimità lo stesso principio vale anche in tema di obbligazione contributiva nelle assicurazioni obbligatorie. In quest’ultima ipotesi però, essendo il datore di lavoro direttamente obbligato verso l’ente previdenziale anche per la parte a carico dei lavoratori, egli è anche, in ipotesi di indebito contributivo, l’unico legittimato all’azione di ripetizione nei confronti dell’ente anche con
riguardo alle quote predette.
Privacy
Misure di sicurezza per la protezione dei dati personali
di Xxxxxxx Xxxxxx
Una delle sfide che l’Italia si trova a dover affrontare con celerità ed efficacia è quella di alzare il livello di sicurezza dei servizi ICT offerti. È una sfida preoccupante, reale, sentita in primis dal Garante della Privacy che nella giornata del 27/03/2019 ha emesso un comunicato sul proprio sito per spiegare quanto sia importante e centrale il ruolo della Cyber Security oggi più di ieri. Per poter soddisfare questa crescente esigenza di sicurezza non servono solo i tecnici, né tantomeno i “semplici” giuristi; è invece necessario che la figura del giurista, essenziale in questa sfida, si evolva e si apra ad un mondo per lui certamente nuovo ma carico di prospettive e sfide. In questa direzione e su queste basi è stata sviluppata la lezione del corso organizzato da Euroconference in collaborazione con il Digital & Law Department (Data Protection Officer: ruolo e compiti della nuova figura prevista dal Regolamento
2016/679/UE: xxxxx://xxx.xxxxxxxxxxxxxx.xx/xxxxxx_xxxxx_xxxxxxx/xxxx_xxxxxxxxxx_xxxxxxx_0),
intitolata “Le misure di sicurezza per la protezione dei dati personali”. L’obiettivo è stato quello di dare la possibilità a figure giovani e dinamiche di crescere in un mondo in cui la giurisprudenza domina la tecnologia e la guida in un’evoluzione più responsabile e sicura. Capire la dinamica di un cyber attacco, conoscerne le modalità di esecuzione, le motivazioni che spesso sono alla base, comprendere “cosa” cercare e “dove” cercare sono ormai informazioni essenziali, tanto quanto comprendere le strutture tecnologiche che spesso sono oggetto di data-breach. Allora forse è giusto fermarsi un attimo e domandarsi chi sarà il giurista di domani e su quali reali basi dovrà poggiare la sua conoscenza.