TITOLO
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BERGAMO
Scuola di Alta formazione Dottorale
Corso di Dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro Ciclo XXXI
Settore scientifico disciplinare: IUS/07 – DIRITTO DEL LAVORO
TITOLO
Contrato di lavoro, tutela della professionalità e formazione
Supervisore:
Xxxxx.xx Xxxx. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx
Tesi di Dottorato Xxxxxxxx X’XXXXX Matricola n.
Anno Accademico 2017/2018
INDICE
INTRODUZIONE
A) POSIZIONE DEL PROBLEMA: DIRITTO, CONTRATTO, FORMAZIONE E PROFESSIONALITÀ NELL’ERA DEI POST… 1
B) METODOLOGIA E PIANO DELLA RICERCA 14
C) APPORTO ORIGINALE DELLA RICERCA 16.
CAPITOLO I
CONOSCENZA, PROFESSIONALITÀ, COMPETENZE E ATTITUDINI NELLA SOCIETÀ POST-MODERNA
1.1 Un terreno fertile sul quale “dialogare”: la condivisione dei fini ed il contributo del sindacato 17
1.2 L’analisi sociologica ed economica del fenomeno 20
1.3 L’analisi filosofica del fenomeno: la teoria (anche economica) delle capability 23
1.4 L’analisi giuslavoristica del fenomeno 25
1.4.1 La professionalità 26
1.4.2 Competenze, conoscenze, abilità e attitudini professionali 30
1.4.3 La formazione 33
CAPITOLO II
I PRINCIPI FONDAMENTALI DEL NOSTRO ORDINAMENTO (MULTILIVELLO) IN MATERIA DI LAVORO, TUTELA DELLA PROFESSIONALITÀ E FORMAZIONE
2.1. Principio lavorista (art. 1), principio personalistico (art. 2) e principio di eguaglianza, formale e sostanziale, e partecipazione dei lavoratori alla vita del Paese (art. 3) nella Costituzione italiana 39
2.2. Il diritto al lavoro e il dovere di lavorare (art. 4 Cost.) 42
2.3 L’art. 35 Cost 47
2.3.1 La tutela del lavoro tout court (art. 35, comma 1 Cost.) 47
2.3.2. La “cura” della formazione e dell’elevazione professionale (art. 35, comma 2 Cost.) 48
2.4 Il diritto al lavoro e alla formazione nelle fonti sovranazionali 57
CAPITOLO III
CONTRATTO DI LAVORO, TUTELA DELLA PROFESSIONALITÀ E FORMAZIONE NELL’ORDINAMENTO POSITIVO
PARTE I
GENESI, FUNZIONI, CAUSA E OGGETTO DEL CONTRATTO DI LAVORO
3.1.1. Introduzione: il contratto di lavoro come conquista o finzione di libertà? 56
3.1.2. La genesi e le ragioni della creazione del contratto di lavoro come negozio autonomo. 56
3.1.3. La nozione di contratto di lavoro subordinato e le sue “funzioni” 61
3.1.4 Il contratto di lavoro come contratto di organizzazione 64
3.1.4.1 (segue) La tesi del contratto di lavoro come contratto di organizzazione nella dottrina successiva 67
3.1.5. Rapporto e contratto di lavoro: le ricostruzioni tradizionali e quelle “alternative” 70
3.1.5.1 La causa del contratto di lavoro subordinato 71
3.1.5.2 L’oggetto del contratto di lavoro subordinato 72
3.1.5.3 Potere direttivo e oggetto del contratto di lavoro 74
3.1.5.4 La ricostruzione della professionalità come oggetto del contratto di lavoro 76
3.1.6. Esiste un (generale) diritto alla formazione del lavoratore e un corrispondente obbligo formativo per il datore di lavoro? 80
PARTE. II
LE DISPOSIZIONI DI LEGGE IN MATERIA DI TUTELA DELLA PROFESSIONALITÀ E FORMAZIONE
3.2.1. Introduzione: l’art. 2103 c.c., fondamento normativo (dell’ordinamento positivo) della tutela della professionalità, e le altre disposizioni di legge a tutela della formazione del lavoratore 83
3.2.2. L’originario art. 2103 c.c 84
3.2.3. L’art. 2103 c.c. come modificato dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori 86
3.2.4. L’art. 2103 c.c. come modificato dal c.d. Jobs Act 96
3.2.4.1. (segue) Il mutamento delle mansioni orizzontale e verticale (verso l’alto): il criterio della categoria legale e del livello di inquadramento 99
3.2.4.2. (segue) Il demansionamento: fattispecie legale e contrattuale 105
3.2.4.3. (segue) L’obbligo formativo in caso di mutamento di mansioni 105.
3.2.4.4 (segue) La possibilità di stipulare accordi individuali nell’interesse del lavoratore («miglioramento delle condizioni di vita», «conservazione dell’occupazione» oppure «acquisizione di una diversa professionalità») 111
3.2.4.5. (segue) L’assegnazione (temporanea e definitiva) di mansioni superiori e la rilevanza della volontà del lavoratore 112
3.2.5. Eventuali ricadute del novellato art. 2103 c.c. su altri istituti: in particolare sull’obbligo di repechage in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo 113
3.2.6 La tutela (prevalentemente risarcitoria) della professionalità lesa 117
3.2.7 Diritti e obblighi formativi all’interno del rapporto di lavoro (congedi, salute e sicurezza, apprendistato) e non (tirocini)… 125
3.2.8. La certificazione delle competenze 133
CAPITOLO IV
LA TUTELA DELLA PROFESSIONALITÀ E DELLE FORMAZIONE NELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA: MANSIONI, QUALIFICHE, CATEGORIE E
SISTEMI DI INQUADRAMENTO DEL PERSONALE
4.1. Introduzione: la (insopprimibile) rilevanza della “fonte” collettiva nella disciplina della inerente alla classificazione, professionalità e formazione del lavoratore 141
4.2. La necessaria soluzione delle questioni definitorie 146
4.3. L’evoluzione dei sistemi di inquadramento del personale in Italia e la loro perdurante inadeguatezza 156
4.4. Le soluzioni adottate in materia di classificazione e inquadramento del personale, mansioni, tutela della professionalità e formazione nella più recente contrattazione collettiva 172
4.5.1. La contrattazione collettiva nazionale di settore (2017-2018) 173
4.5.1.1. (segue) Classificazione e inquadramento del personale 173
4.5.1.2. (segue) Mansioni e jus variandi 175
4.5.1.3. (segue) Formazione professionale 176
4.5.2 La contrattazione collettiva aziendale (2017-2018): classificazione e inquadramento del personale, mansioni e jus variandi, formazione ed altre misure 180
4.5.3 Considerazioni conclusive: non è tutto oro quel che luccica, e pur qualcosa si muove…..183
CONCLUSIONI
A. Natura, radici, funzioni ed evoluzione del diritto del lavoro 186
B. La professionalità e la formazione come nuovi “beni” da tutelare in un’impresa flessibile e in un mercato del lavoro imprevedibile, frammentato e polarizzato 194
A Xxxxxx Xxxxxxxx e Xxxxxxx Xxxxxxxxxx,
Maestri diversi accomunati dall’inesauribile passione per la materia
“Se la conoscenza (nel senso moderno di know-how, di competenze tecnica) si separasse irreparabilmente dal pensiero,
allora diventeremmo esseri senza speranza, schiavi non tanto delle nostre macchine quanto della nostra competenza, creature prive di pensiero alla mercé di ogni dispositivo tecnicamente possibile, per quanto micidiale”
Xxxxxx Xxxxxx, The Human Condition (1958)
“Un tempo non avevo sulle labbra che libertà. […]
Assestavo questa parola maiuscola a chiunque mi contraddiceva, l’avevo messa al servizio dei miei desideri e della mia potenza. […]
Non sapevo che la libertà non è una ricompensa, né una decorazione che si festeggi con lo spumante;
e neppure un regalo, una scatola di leccornie. Oh! no, anzi è un lavoro ingrato, una corsa di resistenza molto solitaria, molto estenuante. […] Alla fine di ogni atto di libertà, c’è una sentenza: per questo la libertà pesa troppo,
specie quando si ha la febbre, o si è inquieti, o non si ama nessuno.”
Xxxxxx Xxxxx, La chute (1956)
“L’homme qui sait è l’uomo, che non ignora la logica del capitalismo,
che rifiuta l’equazione tra liberismo e liberalismo, che vede nel mercato globale non la necessità di un destino,
ma il risultato di una scelta.
Alla quale non oppone inermi nostalgie o estetizzanti fastidi,
ma la fermezza di un’altra scelta. Nulla è incontestabile; tutto può essere rimesso in questione.
Non ci siamo liberati dai monismi del passato per cadere nei monismi dell’oggi ”
Xxxxxxxx Xxxx, Nichilismo giuridico (2004)
«Xxxx Xxxxxxx, sono Xxxxxx, sono cattolico, siamo tutti cattolici e ti vogliamo conoscere tutti. Tu la pensi come noi, siamo molto simili. Tu come ti definiresti?»
«Mi ricordo…ateo e materialista.»
«Me l’aspettavo…ma c’è il tuo lavoro, tu lo fai bene, con interesse, con passione, con molta professionalità. Tu credi nel tuo lavoro, tu sei credente. Noi abbiamo capito molte cose di te e tu ci hai molto insegnato.
C’è qualcosa in me dentro di te che mi commuove. Siamo uguali.»
«Io sono comunista!»
«Xxxxxxx, io sono contento che tu esisti. Tu sei contento che io esista?»
«NO!»
“Noi dobbiamo essere insensibili, noi dobbiamo essere indifferenti alle parole di oggi […]
Chi parla male, pensa male, e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!
Per inventare un linguaggio nuovo, bisogna inventare una vita nuova. […]
In testa ci stanno troppi pensieri. Però troppi pensieri fanno bene, perché bisogna pensare a tutto, prevedere tutto.”
Da Palombella rossa (1989) di Xxxxx Xxxxxxx
INTRODUZIONE
A) POSIZIONE DEL PROBLEMA: DIRITTO, CONTRATTO, FORMAZIONE E PROFESSIONALITÀ NELL’ERA DEI POST-.
1. L’ambizione non è certo quella di essere additati – o, più umilmente, indicati tra i “seguaci” dei
– c.d. intellettuali del sospetto (tra i più noti Xxxx, Xxxxxxxxx e Xxxxx). Tuttavia, occorre fissare, sin da ora, un punto di partenza che pare a chi scrive sicuro e, forse, anche ovvio: nessuna tecnica1, sia essa una disposizione di legge, una tecnologia, una modalità formativa o pedagogica, è neutrale rispetto ai problemi che intende risolvere e agli scopi che intende perseguire, ma è, anzi, una scelta, una risposta, un modo di organizzare (o eludere) tali problemi riproponendoli spesso sotto altre vesti2.
Chiarita così la natura (anche tecnica) del diritto, è necessario altresì considerare che la “produzione” di norme giuridiche è un processo sociale, se si vuole anche umano, travagliato e delicato perché conflittuale e ingannevole.
Ed infatti, la “volontà” del legislatore – o di qualunque altro soggetto dotato del potere di “porre” e, quindi, im-porre norme valide ed efficaci su un determinato territorio e/o per una generalità (sempre predeterminata, seppur in astratto) di soggetti terzi – nasce dal conflitto3. Si tratta, ovviamente, di un conflitto tra ipotesi di soluzione di questioni e problemi, pretese e interessi di vario tipo (economici, religiosi, valoriali, ecc.) che si svolge, si consuma e si ricompone in sedi più o meno istituzionalizzate (i moderni parlamenti democratici, i tavoli sindacali, ecc.).
Da qui anche il suo carattere “ingannevole”. Quel procedimento, più o meno istituzionalizzato, che porta alla produzione di norme e, quindi, alla composizione del conflitto, “inganna” la violenza
1 Qui intesa nell’accezione più ampia di τέχνη (téchne) nel greco antico “arte”, poi anche nel senso di “perizia”, “saper fare”, “saper operare”: insieme di conoscenze, acquisizioni e norme applicate e seguite in una determinata attività, che presuppone, a monte, l’adozione di un metodo e di una strategia nell’identificazione precisa degli obiettivi e dei mezzi più efficaci per raggiungerli. In altri termini, la tecnica indica l’“attitudine ad utilizzare il mondo” per perseguire “infiniti scopi”, cfr. X. XXXX, L’essenza tecnica del diritto (terzo dialogo con Xxxxxxxx Xxxxxxxx), in Id., Nichilismo giuridico, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 31. Ed infatti, il codice della tecnica è quello del «poter fare»: “questa è la xxx xxxxxxxxxxx xxx xxxxxxx x xxxxx xxx xxxxxxxxx, cioè la via più breve tra il problema e la sua soluzione, ormai del tutto dimentica di quella che all’origine era la pensosità (Nachdenklichkeit) del racconto che induceva perplessità, indugi, dubbi e che, per questo, modificava mondi e non li lasciava mai come li aveva trovati”, cfr. X. XXXXX, Diritto vivente, Laterza, Roma, 2008, p. 88, dove riporta testualmente il pensiero di X. XXXXXXXXXX, Xxxxxx xx Xxxxxx, Xxxxxxxxx, Xxxxxxxxx xx Xxxx, 0000.
2 Si pensi, ad esempio, alla scrittura come tecnica che, nata per sostituire l’oralità e aumentare le possibilità di ricordo, nel fare ciò produce anche dimenticanza e disabitua alla phoné , in tal senso E. RESTA, Diritto vivente, cit., pp. 86-87. Per l’Autore è proprio l’ambivalenza, il gioco infinito della “complicità dei contrari” (“per cui è una cosa mentre è anche l’altra, è una cosa perché o quando è anche l’altra, fa qualcosa, perché o quando fa il suo opposto”), il punto di contatto tra la tecnica e il diritto: quest’ultimo, infatti, libera vincolando, vincola liberando, pacifica usando la violenza, usa la violenza pacificando, ci dice cosa non dobbiamo fare, ma ce lo sta dicendo proprio perché lo possiamo fare.
È stato da altri osservato che anche il diritto appartiene al mondo della tecnica: esso, infatti, sarebbe “artificiale, procedurale, meccanici sito, manipolatore di volontà altrui”, anzi “la tecnica è l’intrinseco modo d’essere del diritto”, cfr. X. XXXX, L’essenza tecnica del diritto, cit., pp. 38-39.
3 Cfr. sempre N. IRTI, L’essenza tecnica del diritto, cit., p. 35.
nel senso che sostituisce a questa le parole. Ma vi riesce a condizione che e fintantoché i soggetti coinvolti e interessati da quel procedimento “prendano sul serio”, rispettandoli, il voto, la decisione, l’accordo, le regole procedurali o di grado superiore già poste nonché le norme scaturenti da quell’atto di “volontà”4.
Certo, il calcolo quantitativo nelle democrazie (parlamentari e/o “industriali”) può essere anche considerato una forma di violenza, in quanto im-pone le posizioni “dei più”5. Però è anche vero che se di violenza si tratta è, di sicuro, una forma diversa e preferibile rispetto alla violenza (materiale) che ha portato l’Europa ai più nefasti esiti nella prima parte del Novecento, che ha flagellato, sotto altre forme (terrorismo di vario tipo), l’Italia sino ai primi anni del 2000 e che continua a prevaricare, tutt’oggi, in altre parti del Mondo.
2. Fissati questi (imprescindibili) dati di partenza, si può ora iniziare a trattare i temi più strettamente connessi all’oggetto della presente ricerca tenendo, però, sempre bene a mente quei punti.
L’importanza della conoscenza nell’attuale contesto socio-economico e produttivo è stata, ormai da tempo, sottolineata tanto dalla letteratura (di diversi ambiti disciplinari) quanto dalle istituzioni nazionali e sovranazionali6. Ed infatti, l’attuale modello economico-produttivo, come anche le esigenze avvertite nel tessuto sociale, sembrano richiedere, per competere, sempre più lo sviluppo, la diffusione e la condivisione di conoscenze, saperi, informazioni e know how.
Strettamente connesso alla conoscenza, come anche alle questioni della competitività e produttività, è il tema della qualità (del lavoro e della produzione, prima ancora che del prodotto e del servizio), anch’esso ormai da tempo diventato oggetto di attenzione e interesse da parte degli operatori economici, della politica e della dottrina7.
E proprio la ricerca della qualità del prodotto, il suo carattere variabile indissolubilmente legato alla diversificazione continua di consumi e gusti e l’affermarsi della concorrenza quale principio economico e normativo (assoluto o quasi) hanno fatto sì che si sviluppassero nuovi modelli organizzativi e produttivi (total quality, just in time, lean production, management by objectives,
4 È questo a grandi linee il modello di “inganno” della violenza realizzato dai parlamenti democratici, i quali hanno sostituito le armi con le parole e il voto, mirabilmente definito da Xxxxx Xxxxxxx in Massa e potere (1960) richiamato in
X. XXXXX, Il diritto fraterno, Laterza, Roma-Bari, p. 46.
5 È questa la conclusione non del tutto condivisibile di X. XXXX, L’essenza tecnica del diritto, cit., p. 35.
6 Senza pretesa di esaustività, si rinvia a: L.C. XXXXXX, La costruzione della ricchezza. Le nuove regole per gli individui, la società e le nazioni nell’economia della conoscenza, trad. it., Il Sole 24 ore, Milano, 2000; X. XXXXXXX, Lavoro a elevato livello qualitativo e sistemi economici/sociali fondati sulla conoscenza, Xxxxxx Xxxxxx, Milano, 2004;
D. FORAY, L’economia della conoscenza, Il Mulino, Bologna, 2006. Quanto ai testi istituzionali basti richiamare la Comunicazione della Commissione “Europea 2020. Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” (COM(2010) 2020 definitivo del del 3 marzo 2010) nella quale uno dei tre obiettivi (crescita intelligente) consiste proprio nello «sviluppare un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione».
7 Le istituzioni dell’Unione europea hanno iniziato a parlare di “qualità” del lavoro a partire dalla Comunicazione della Commissione, Politiche sociali e del mercato del lavoro: una strategia di investimento nella qualità, COM (2001) 313 del 20 giugno 2001, sul punto cfr. X. XXXXXXX, La qualità del lavoro nelle politiche per l’impiego e nella contrattazione decentrata, WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx” .IT-313/2016, 2016. Per le connessioni tra qualità del prodotto e qualità del lavoro, cfr. X. XXXXXX, Della produttività. Discorso sulla qualità del lavoro, Ediesse, Roma, 2007, in particolare p. 54, dove si legge che “la qualità è in gran parte intelligenza delle persone nel lavoro e gli standard di qualità dipendono dagli investimenti in intelligenza della singola impresa, dalle competenze professionali e da un sapere (esperienza e autonomia) che guida l’attività dei lavoratori nel processo”. Interessante anche evidenziare l’apertura di senso del concetto operato da parte della dottrina: il lavoro di qualità attiene senza dubbio alla produttività perseguita dall’impresa ma anche al suo carattere inclusivo, non discriminatorio, conciliabile e soddisfacente nel senso di funzionale alla realizzazione degli interessi e progetti personali del lavoratore, cfr. X. XXXXXX, Occupabilità, formazione e «capability» nei modelli giuridici di regolazione dei mercati del lavoro, in DLRI, 2007, n. 113, p. 32.
world class manufacturing, ecc.) che, secondo molti, tenderebbero a sovvertire l’idea del lavoratore-tipo sottesa al taylorismo e fordismo (l’uomo-bue) per sostituirla con quella di un lavoratore maggiormente pro-attivo e cognitivo ma anche partecipe al miglioramento e alle sorti dell’impresa.
3. In tale contesto, studi e rapporti di diverso tipo (economici, manageriali, istituzionali, ecc.) hanno sostenuto, già a partire dalla seconda metà del Novecento e ancor di più negli anni 2000, l’importanza dello sviluppo del capitale umano di un’impresa e, più in generale, di una comunità, territorio o Stato anche attraverso lo strumento della formazione8.
Al riguardo, è appena il caso di ricordare che a livello europeo ed internazionale il tema è stato trattato sin dagli anni ’90 in vari documenti programmatici9. Di riflesso, anche nel contesto italiano, la tematica è stata affrontata a diversi livelli, tanto che, ormai, può considerarsi un leit motiv più enfatico che reale, visti i risultati prodotti sul piano positivo ma anche nei contesti produttivi e nel mercato del lavoro10.
Anche la dottrina giuslavoristica italiana, pur non trascurando sin dalle origini temi contigui11, ha iniziato a trattare queste problematiche con rinnovato interesse già a cavallo tra anni ’80 e ’9012.
8 Cfr., fra gli altri, X. XXXXXXXXX, X. XXXXXXX, Il capitale umano, Il Mulino, Bologna, 2010; X. XXXXXX, Capitale umano e nuova economia. Riorganizzazione dei sistemi formativi e sviluppo dei mercati delle conoscenze, in Dir. merc. lav., 2003, I, pp. 53 ss.
9 Tra gli altri, meritano una particolare menzione il Libro Bianco della Commissione Europea “Crescita, Competitività, Occupazione. Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo” del 5 dicembre 1993 (COM (93) 700), il Rapporto Unesco “Nell’educazione un tesoro” (1996), il Libro Bianco sull’istruzione e formazione “Insegnare ed apprendere: verso la società conoscitiva” del 29 novembre 1995 (COM (95) 590), il Rapporto dell’OCSE “Apprendere a tutte le età” (1997). In tutti i documenti citati sono contenuti, con varie declinazioni, riflessioni sulla centralità della persona nel processo dell’apprendimento e sull’importanza dello sviluppo della conoscenza nella società.
10 Si segnala, da ultimo, la Relazione annuale del Governatore della Banca d’Italia, Xxxxxxx Xxxxx, secondo il quale “La bassa produttività e l’insufficiente capacità di innovare riflettono anche il ritardo in termini di conoscenza e di competenze degli studenti e degli adulti italiani nel confronto internazionale, concorrendo allo stesso tempo a determinarlo”, si tratterebbe infatti di un “circolo vizioso che contribuisce a mantenere i tassi di occupazione e di partecipazione su livelli inferiori a quelli prevalenti negli altri paesi europei”. D’altro canto, “la questione della qualità del capitale umano assume particolare rilevanza nella prospettiva di una crescente diffusione delle nuove tecnologie e della conseguente minore domanda di lavoro per attività standardizzate e ripetitive”. La conclusione è che “senza adeguati investimenti in formazione, pubblici e privati, gli effetti negativi sull’occupazione saranno forti, le disuguaglianze di reddito si accentueranno. Per contrastare questi rischi bisogna intervenire con decisione: comprendere tutti l’importanza di una formazione che abbracci, oltre agli anni dell’istruzione, l’intera vita lavorativa costituisce una sfida cruciale per il nostro paese”, cfr. Considerazioni finali del Governatore. Relazione annuale anno 2017, Roma, 29 maggio 2018, pp. 8-9, disponibile online sul sito xxx.xxxxxxxxxxxx.xx. In termini ancora più netti le Considerazioni finali relative all’anno 2016: “è soprattutto al capitale umano che deve rivolgersi la politica economica”, nella consapevolezza del fatto che “in molti suoi comparti il sistema produttivo è poco propenso a investire nella formazione sul posto di lavoro e, più in generale, a offrire opportunità alla manodopera qualificata”. Tuttavia, “investire in cultura, in conoscenza crea cittadini più consapevoli e lavoratori capaci di affrontare compiti e funzioni in rapido mutamento”, questa è allora considerata anche una questione di equità e giustizia sociale in quanto gli investimenti di questo tipo renderebbero “più equa la distribuzione del lavoro e della sua remunerazione”.
11 Non può non rinviarsi a X. XXXXXXXXXXX, Il problema sociale dell’istruzione professionale, in Riv. inf. mal. prof., 1956, n. 4, pp. 1 e ss.
12 Cfr., fra gli altri, X. XXXXX, Recessione e mercato del lavoro: la formazione alla flessibilità, in DRI, 1993, n. 1, pp. 261 e ss., dove la formazione è definita “investimento in risorsa umana come fattore critico per determinare un vantaggio competitivo”, dal momento che ciò che farebbe realmente la differenza in contesti produttivi sempre più sofisticati sarebbe il lavoro umano e la qualità della prestazione lavorativa. Allo stesso tempo, però, la formazione non è solo investimento in capitale umano e promozione sociale ma anche – come vedremo – strumento di organizzazione produttiva dell’impresa, ossia parte integrante della gestione dell’impresa volta a favorire i processi di innovazione
4. Negli ultimi tempi, peraltro, sono state avanzate varie teorie del benessere e della giustizia sociale del tutto alternative e nuove rispetto a quelle in voga in passato. In particolare, si è fatta largo un’idea di ricchezza non più confinata in una semplice crescita del prodotto interno lordo dello Stato nazione (PIL) o del reddito individuale ma estesa al benessere, alla qualità della vita (non in astratto, ma riferita a condizioni reali di esistenza delle persona), ad un’idea di libertà effettiva della persona situata collegata ad un’idea di uguaglianza sostanziale di risultato in cui ognuno è nelle condizioni di scegliersi una vita a cui si dà un valore13.
È qui che entrerebbe in gioco la c.d. capability for valuable work, ossia la capacità di scegliere ed ottenere un lavoro adeguato al proprio progetto di vita. In quest’ottica la formazione professionale assurgerebbe a diritto sociale di libertà avente una funzione plurima: configurazione “strumentale” (formazione “per” il lavoro, la carriera, ecc.) e “finale” (formazione “come” conoscenza, competenza, istruzione, cultura)14.
5. Affianco a queste tendenze che valorizzano, in vari modi e a diversi livelli, la formazione e la persona del lavoratore, vi sono statistiche e dati riferiti al mercato del lavoro ed un diffuso “sentore” delle imprese da cui emergerebbe un problema legato all’incontro tra domanda e offerta di lavoro, più nel dettaglio la mancanza di un allineamento efficiente tra domanda e offerta di competenze (di base o connesse ad un determinato lavoro) e professionalità nei vari mercati del lavoro (sia interni che esterni alle imprese).
Fenomeni quali gap (“scarto”, “divario”), mismatch (“mancata corrispondenza”, “disallineamento”), shortage (“carenza”) di competenze sarebbero dovuti, secondo la ricostruzione maggiormente diffusa, ad una serie (complessa) di (diversi) fattori quali: sistema educativo e formativo lontano dal mondo del lavoro, rapida evoluzione tecnologica, affermarsi di nuovi mestieri e nuovi modelli produttivi, ecc.15.
6. Ciò che appare certo è che il mondo produttivo e, più in generale, la società sono attraversati da una evoluzione tecnologica senza precedenti per portata e velocità che sembra investire tanto l’organizzazione del lavoro quanto la professionalità degli stessi lavoratori. Si tratta del fenomeno della c.d. Quarta Rivoluzione industriale, per i più Industry 4.016.
tecnologica ed organizzativa (anche sul piano della motivazione ed iniziativa creativa dei singoli lavoratori). Dal punto di vista del cittadino-lavoratore, invece, la formazione svolgerebbe un ruolo fondamentale nella costruzione della professionalità e identità del lavoratore, cfr. X. XXXXXXXX, Considerazioni su diritto alla formazione e contratto di lavoro, in X. XXXXXXXX, (a cura di), Problemi giuridici del mercato del lavoro, Xxxxxx, Napoli, 2004, p. 128.
13 Sono queste, per sommi capi, le tesi di X. XXX, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano, 2000 e X. XXXXXXXX, Creating Capabilities. The Human development Approach, Cambridge (Mass.) - London, The Xxxxxxx Press of Harvard University Press, 2011 (trad. it: Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil, Il Mulino, Bologna 2012).
14 In tal senso, cfr. X. XXXXXX, Occupabilità, formazione e «capability» nei modelli giuridici di regolazione dei mercati del lavoro, in DLRI, n. 113/2007, pp. 1 e ss.
15 Cfr. i vari Report pubblicati dalle più disparate istituzioni sovranazionali, tra cui, a titolo esemplificativo, Cedefop, Skill shortages and gaps in European enterprises, Xxxxxxxxxx, 0000. Per una lettura critica delle tesi e ricostruzioni “dominanti” ed un’analisi del mercato del lavoro statunitense, cfr. P.H. CAPELLI, Skill Gaps, Skill Shortages, and Skill Mismatches: Evidence and Arguments for the United States, in ILR Review, 68 (2), March 2015, pp. 251 e ss.
16 Sul tema Industry 4.0 e sugli impatti della stessa sul mondo del lavoro cfr. X. XXXXXXXX, X. XXXXXXXXX, X. XXXX (a cura di), Il lavoro 4.0. La Quarta Rivoluzione industriale e le trasformazioni delle attività lavorative, Firenze University
Non è certo questa la sede per trattare la (invero fondamentale) questione se questa evoluzione crei o distrugga, ed eventualmente in che modo, il lavoro umano17, quello che qui preme ribadire è, invece, l’esigenza sempre più impellente da parte delle imprese di flessibilità, mobilità, adattabilità e partecipazione, ma anche di nuove e diverse professionalità e competenze “abilitanti”18.
Va anche detto, però, che l’influsso della Quarta rivoluzione industriale su tali dimensioni sembra essere, se non identico, quantomeno simile a quello esercitato sin dagli anni ’8019 dalla Terza Rivoluzione industriale che ha segnato la graduale scomparsa della produzione di massa di inizio secolo e l’avvento della c.d. fabbrica “post-tayloristica” e “post-fordista” nella quale la divisione del lavoro è parzialmente ricomposta e collegata ad una automazione flessibile, versatile e convertibile volta a soddisfare una domanda personalizzata ed oscillante20. Ed infatti, alcuni fenomeni di cui oggi tanto si parla come “nuovi” sembravano già presenti a quell’epoca magari sotto forme parzialmente diverse (si veda, ad es., il fenomeno dell’imponente espulsione di manodopera dalle imprese e la crescente mobilità aziendale, interaziendale, intersettoriale, professionale e territoriale).
E proprio la mobilità, nelle sue varie dimensioni, assurge a carattere precipuo di quella fase e di quelle successive, facendo sì che cambiamenti nella vita professionale e non dei lavoratori (attività lavorativa, professionalità, sede di lavoro, ecc.) avvengano con molta frequenza21, e non senza problemi e tensioni (esistenziali, economiche e sociali) se non adeguatamente accompagnati.
Press, 2018 nonché X. XXXXXXXX, La nuova grande trasformazione. Lavoro e persona nella quarta rivoluzione industriale, Adapt Univesity Press, 2017. Da quello che si evince dal dibattito in corso e dalla realtà è che la differenza principale tra la Terza Rivoluzione Industriale (avvento dell’informatica, anni’ 70) e la Quarta (espressione utilizzata nella prima volta nel 2011) risiede nella sempre più spiccata interconnessione e comunicazione tra macchine, lavoratori e consumatori nonché l’utilizzo di tecnologia in grado di apprendere e migliorare i processi produttivi.
17 Sono innumerevoli gli studi di carattere scientifico (economico e statistico) che hanno trattato il tema con risultati, inevitabilmente, differenti e spesso contrastanti: su tutti, cfr. l’ultimo rapporto (ottimistico) del World Economic Forum (The Future of Jobs Report 2018, disponibile sul sito dell’istituzione) dove si prevede che nel 2022, a fronte di 75 milioni di lavori “scomparsi” a causa della divisione del lavoro e l’automazione, si avranno 133 milioni di nuovi lavori, con un saldo positivo, quindi, di ben 58 milioni di lavori (p. VII). Secondo studi meno rosei, invece, entro il 2030 tra i 75 e i 375 milioni di persone saranno costrette a cambiare il loro vecchio lavoro con uno nuovo e, pertanto, dovranno acquisire nuove competenze al fine di scongiurare la disoccupazione, cfr. McKinsey Global Institute, Jobs Lost, Jobs Gained: Workforce Transistions in a time of Automation, dicembre 2017, pp. 1-2.
18 Tanto che è stato predisposto un apposito programma governativo (il Piano nazionale nazionale Industria 4.0, c.d. Piano Xxxxxxx) in cui sono previsti rilevanti stanziamenti pubblici in favore dei c.d. Competence Center, ossia centri di eccellenza con la missione di aiutare le imprese ad introdurre tecnologie, strumenti di lavoro e modelli organizzativi innovativi, per un primo commento cfr. Adapt-Fim Cisl, Libro Verde Industria 4.0. Ruolo e funzione dei Competence Center, 2017.
19 Anche studiosi di altre discipline, in particolare di processi produttivi ed organizzativi, hanno osservato che il cambiamento intervenuto nel mondo dell’organizzazione della produzione fordista era già iniziato negli anni ‘80, ma non era stato percepito così importante come le innovazioni attuali denominate Industria 4.0, cfr. L. PERO, Organizzazione, lavoro e tecnologie 4.0, in Professionalità Studi, 2017, n. 1, p. 4, secondo il quale sono numerosi gli elementi di continuità tra il c.d. post fordismo degli anni ’90 e i cambiamenti attuali noti come network del valore globale, i quali sono pertanto il frutto di un lungo processo di evoluzione dei sistemi industriali iniziato oltre 30 anni fa.
20 Cfr. X. XXXXXXX, Rivoluzione tecnologica e diritto del lavoro, in Rivoluzione tecnologica e diritto del lavoro. Atti dell’VIII Congresso nazionale di diritto del lavoro. Napoli, 12-14 aprile 1985, AIDLASS Annuario di diritto del lavoro
n. 19, Xxxxxxx, Milano, 1986, pp. 6-7.
21 In tal senso, tra i primi, cfr. X. XXXXXX, Professioni e mestieri nel 2000: come prepararsi ai cambiamenti, in Nuovo Riformismo, 1983, nn. 5-6, p. 71. Per una lettura critica di questi fenomeni e, in particolare, della flessibilità, mobilità adattabilità e maggiore partecipazione richiesta alla forza lavoro, cfr. X. XXXXXXX, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Bari, 2007.
7. Se non bastasse, altri eventi stanno mettendo a dura prova, ormai da tempo, gli attuali assetti giuridici, economici e politici (democratici e sociali) dei Paesi “occidentali”: alti tassi di disoccupazione (soprattutto tra i giovani), invecchiamento della popolazione, flussi migratori, globalizzazione dei mercati e processi di integrazione economico-monetaria ma anche politica (si pensi all’Unione europea e all’indebolimento dello Stato nazione), disintermediazione dei corpi intermedi (partiti politici e sindacati), con effetti inevitabili anche sul diritto del lavoro22.
Ed infatti, la globalizzazione ha portato con sé una sempre maggiore interconnessione tra sistemi economici e giuridici (soprattutto, se non esclusivamente, di regolamentazione del mercato e della concorrenza)23 che si accompagna ad un processo di disarticolazione dello Stato nazione verso l’alto (si veda, ad es., l’Unione europea) e verso il basso (governi territoriali). La conseguenza di tutto ciò è la perdita di potere e la crescente difficoltà a ricorrere alle tradizionali “leve” in materia economica e di occupazione da parte dei governi nazionali, i quali sono pertanto spinti ad intervenire più sul lato della domanda (collocamento e formazione, appunto) che sul lato dell’offerta (investimenti, incentivi, ecc.)24.
8. Tutti i fattori sopra analizzati hanno causato o comunque contribuito all’insorgere di cambiamenti radicali anche nei costumi e nello stile di vita delle persone. La società odierna, invero, rispetto a quella della prima parte del Novecento, sembra essere più: benestante, consumista, edonista, acculturata, esigente e in cerca soprattutto di una libertà di, piuttosto che di una libertà da25.
Lo stesso lavoro, inteso come concetto storico che muta contenuti a seconda dell’epoca e del luogo, potrebbe aver subito un mutamento di senso: secondo alcuni, infatti, non sarebbe più “la dimensione prevalente per la formazione dell’identità degli individui”26. Tuttavia, benché la storia abbia fornito anche esempi di “società senza lavoro”, nella nostra epoca esso risulta, al momnento, ancora xxxxxx xxx xxxxx xxxxxx x xxxxxx xx xxxxx xxxxx xxxxxxxxx sociali, da qui la sua “onnipervadenza”27.
Il progresso tecnologico sembra, inoltre, incidere sull’assetto dei mezzi di produzione tipico del sistema capitalistico, assumendo, unitamente alla diffusa disoccupazione, una specifica rilevanza sotto il profilo del conflitto. Si avrebbe così, da un lato, l’affievolimento, se non la crisi, del tradizionale conflitto industriale tra “capitale”, ossia chi detiene i mezzi di produzione, e “lavoro”,
22 Alcuni dei fenomeni sinora descritti sono quelli che hanno costituito i “pilastri” del diritto del lavoro del Novecento: lo Stato-nazione, la grande fabbrica, la piena occupazione e il sindacato, cfr. X. X’XXXXXX, Diritto del lavoro di fine secolo: una crisi d’identità?, in X. XXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), Xxxxxxx X’Xxxxxx. Opere, cit., vol. I, p. 223 (già in Riv. giur. lav. prev. soc., 1998, I, pp. 311 e ss.).
23 Si pensi, ad es., alle c.d. professioni regolamentate, dove “l’Europa” sottolinea ancora la necessità di riforme per aumentare la concorrenza in questo settore del mercato, cfr. Raccomandazione del Consiglio sul programma nazionale di riforma 2017 dell’Italia, COM (2017), 511 final, punto 18.
24 Cfr., fra i primi, M. D’ANTONA, Il diritto al lavoro nella Costituzione e nell’ordinamento comunitario, in Riv. giur. lav., 1999, suppl. n. 3, pp. 15 e ss.
25 In tal senso X. XXXXXXXXX, Radici storiche e nuovi scenari del diritto del lavoro, in in AA.VV., Interessi e tecniche nella disciplina del lavoro flessibile. Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro, Pesaro-Urbino 24-25 maggio 2002, AIDLASS Annuario di diritto del lavoro n. 37, Xxxxxxx, Milano, 2003, p. 658.
00 X. XXX, Xx xxxxxxx x xx xxxxx, Xxxxxxx, Xxxxxx, 1991, p. 163.
27 Cfr. X. XXXXXXXXXX, Assiologia del lavoro e fondamento lavoristico della Repubblica, in Studi in onore a Xxxxxxx Xxxx. Lavoro, Istituzione e cambiamento sociale, Jovene, Napoli, 2011, Tomo I, p. 188.
ossia chi si guadagna da vivere soltanto grazie al proprio lavoro28, dall’altro lato, l’emersione di nuovi conflitti tra lavoratori e non, e cioè tra chi è occupato (c.d. insiders) e chi non lo è (disoccupati/inoccupati, i c.d. outsiders)29.
9. Se questo è il macro-contesto (anche internazionale) di riferimento, in Italia ma un discorso in parte analogo può essere fatto per altri Stati membri dell’Unione Europea30, il diritto del lavoro è stato protagonista, già a partire dalla seconda metà degli anni ’70, prima di estemporanei o marginali ritocchi e poi di importanti e spesso osteggiate riforme, che hanno avuto una portata tale da incidere sulla denominazione, se non addirittura sull’“identità”, della stessa disciplina31.
Nel nostro Paese, in particolare, già a partire dagli anni ’90 e, ancor di più, all’inizio degli anni 2000, è stata sostenuta in dottrina (e non solo) la necessità di una profonda riforma, se non un vero e proprio “ripensamento”, della disciplina in materia di lavoro a fronte dell’asserito passaggio definitivo dalla “vecchia” economia (a base industrialista) alla “nuova” economia fondata sulle “conoscenze” ma anche in ragione della maggiore importanza assunta dal mercato del lavoro”32.
Ed infatti, secondo uno dei maggiori protagonisti (nonché tristi vittime) delle riforme avviate in Italia a cavallo tra gli anni ’90 e 2000, era necessario, da un lato, ridurre la protezione accordata al lavoratore occupato nel rapporto di lavoro, dall’altro lato, assicurare una più alta tutela sul mercato, ciò anche attraverso una nuova e radicale riflessione sul sistema delle fonti con valorizzazione
28 In tal senso, cfr. X. XXXXXXXX, Le grandi trasformazioni del lavoro, un tentativo di periodizzazione, in X. XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, La nuova grande trasformazione del lavoro. Lavoro futuro: analisi e proposte dei ricercatori di ADAPT, ADAPT Labour Studies e-Book series n. 62, 2017, p. 53.
29 Il contesto attuale del diritto del lavoro sembra, infatti, caratterizzarsi da almeno due conflitti: “uno è quello tra l’interesse di chi lavora e la razionalità della produzione e l’altro è quello, determinato dalla scarsità di occupazione, tra l’interesse di chi lavora e l’interesse di chi cerca lavoro e non lo trova”, cfr. X. XXXXXXXX, Diritto del lavoro, Cedam, Padova, 2004, p. 98. Tuttavia, nel mondo del lavoro sembra emergere un nuovo drammatico conflitto, quello generazionale, “tra presente e futuro”, “tra la generazione, cioè, di chi ha avuto e quella di chi non può avere”, cfr. X. XXXXXXXX, Conflitto industriale e conflitto generazionale (cinquant’anni di giurisprudenza costituzionale), in AA.VV. Diritto e libertà. Studi in memoria di Xxxxxx Xxxx’Xxxx. Xxxx XX, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2008, pp. 1216-1218. Ma anche un ulteriore conflitto legato al fenomeno migratorio tra lavoratori di diversa nazionalità, cfr. X. X’XXXXXX, Diritto del lavoro di fine secolo: una crisi d’identità?, cit., p. 242.
30 Si pensi, ad esempio, alla Francia e alle recenti riforme del mercato del lavoro: sulla “penultima” riforma, cfr. X. XXXXXX, G. IMPERATORI, X. XXXXXXX (a cura di), Loi Travail: prima analisi e lettura. Una tappa verso lo “Statuto dei lavori” di Xxxxx Xxxxx?, Adapt Labour Studies e-Book series n. 56, 2016, al cui interno vi è un mio contributo sulle modifiche apportate in materia di licenziamento (F. X’XXXXX, Loi Travail: quello che poteva essere e quello che probabilmente sarà la riforma dei licenziamenti, pp. 52 e ss.). Da ultimo, è intervenuto anche l’insediato governo Xxxxxx, cfr. X. XXXXXX, X. XXXXXXXXXX, Cosa cambia nella regolazione del lavoro in Francia: spunti di riflessione per il caso italiano, in Bollettino Adapt n. 28 del 4 settembre 2017. Per un’analisi dettagliata di un apparentemente innovativo strumento del mercato del lavoro francese, il compte personnel d’activité, cfr. il volume n. 10 dell’Ottobre 2016 di Droit Social.
31 La legislazione degli anni ’80 è stata denominata, per evidenziarne la transitorietà del fenomeno, “diritto del lavoro dell'emergenza”, cfr. X. XX XXXX XXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), Il diritto del lavoro nell'emergenza, Jovene, Napoli, 1979. Ma che non si trattasse di un fenomeno transeunte ma destinato a cambiare per sempre i connotati del diritto del lavoro da quel momento orientato alla flessibilità invece che alla rigidità, cfr. X. XXXXXXX, Il contratto individuale di lavoro, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 0000, x. 00, 0, x. 000. Xx Xxxxxxx, ormai da decenni, si parla di droit de l’emploi (diritto dell’occupazione) piuttosto che di droit du travail (diritto del lavoro), in Italia di riflesso si è andata diffondendo una nuova branca del diritto del lavoro: il diritto del mercato del lavoro molto legata alla disciplina (anche di tipo pubblicistico) del mercato, dei soggetti che in esso vi operano a vario titolo e dei servizi ad esso connessi. Ha parlato di “crisi” d’identità del diritto del lavoro di fine XX secolo M. D’XXXXXX, Diritto del lavoro di fine secolo: una crisi d’identità?, cit., p. 242, il quale però riteneva che il diritto del lavoro, pur presentando caratteri diversi, conservi comunque la natura di “diritto del lavoro”.
32 Cfr., fra gli altri, X. XXXXX, Competitività e risorse umane: modernizzare la regolazione dei rapporti di lavoro, in X.
XXXXXXXXX, X. XXXXXXXXXX, X. XXXX, (a cura di), Un giurista progettuale, Xxxxxxx, Milano, 2003, p. 149 e ss., già pubblicato in RIDL, 2001, n. 3, pp. 257 e ss.
dell’autonomia collettiva e finanche individuale33. In altri termini, l’obiettivo conclamato è, sul piano del rapporto di lavoro, quello di “ingenerare” l’adattabilità dei lavoratori occupati (attraverso la flessibilità e la formazione), mentre sul piano del mercato quello di realizzare un sistema pubblico di servizi per l’impiego che garantisse la c.d. occupabilità. Sono queste, in estrema sintesi, le politiche, di matrice europea, volte a realizzare la c.d. flexicurity: flessibilità nel rapporto e sicurezza nel mercato34.
Le riforme che poi sarebbero state effettivamente realizzate, secondo alcuni, avrebbero ridisegnato l’impostazione tradizionalmente assunta dal legislatore rispetto ai temi del lavoro: il passaggio delle tutele dal rapporto di lavoro (destinatario il lavoratore subordinato) a quelle offerte nel mercato del lavoro (destinatario non più soltanto il lavoratore ma la “persona attiva”)35. In altri termini, ciò che meriterebbe tutela e rinnovata attenzione sarebbe la persona (del lavoratore o di chi è in cerca di lavoro) e non il lavoro (nelle sue varie declinazioni tipologiche) né, ancor meno, il posto di lavoro36.
10. Al di là della questione, pur estremamente interessante, relativa alle funzioni ed evoluzioni del diritto del lavoro37, è un dato di fatto che oggi il nostro ordinamento giuridico non prevede più alcune tutele in passato riconosciute al lavoratore (subordinato)38.
Ferma restando la tendenza “ablativa”, va anche considerato, però, che l’attuale diritto del lavoro sembra aver introdotto via via nuove o, comunque, diverse tutele. D’altro canto, che l’istanza protettiva del lavoratore non fosse l’unica ed unificante ratio ispiratrice del diritto del lavoro del Novecento è stato già evidenziato da un’attenta e disincantata dottrina39.
Ed invero, anche in ragione dei fenomeni sopra brevemente evocati (cfr. in particolare nn. 6-8), si è andata sviluppando la tendenza a ripensare la relazione lavoro e cittadinanza attraverso nuove e riequilibrate regole: è stato, difatti, suggerito di ricercare soluzioni e strumenti capaci di seguire e proteggere il lavoratore a prescindere dal suo stato occupazionale, ciò perché vi sono dei diritti
33 Secondo questa opinione, il ruolo della legge dovrebbe essere limitato alla definizione dei diritti fondamentali; la contrattazione collettiva dovrebbe avere invece un diffuso ruolo regolatorio sulla base del principio di sussidiarietà; il ruolo del contratto individuale dovrebbe essere valorizzato con possibilità di derogare alla legge ma anche al contratto collettivo, cfr. X. XXXXX, Competitività e risorse umane, cit., p. …
34 Sul tema cfr., da ultimo, X. XXXX, Flexicurity e oltre, WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx” ”.INT – 135/2017, p. 3.
35 Sul punto e senza pretese di esaustività cfr., fra gli altri, X. XXXXXXX, C. ARUP, Dal diritto del lavoro al diritto del mercato del lavoro, in Gior. dir. lav. rel. ind., 2008, pp. 293 ss. Per una riflessione sul grado di “autonomia” o “dipendenza” della disciplina del diritto del lavoro rispetto ai temi economici e degli attori del giuslavorismo, e cioè dottrina, giurisprudenza e soggetti sociali, rispetto al pensiero economico, sociale e politico dominante nelle diverse fasi storiche cfr. il fascicolo n. 4/2016 della Rivista Lavoro e diritto, dal titolo “Autonomia e subordinazione DEL diritto del lavoro. Per i 30 anni di Lavoro e diritto, in particolare i saggi di X. XXXXXXXX, Culture e dottrine del giuslavorismo, e
R. DEL PUNTA, X. XXXXXX, Il diritto del lavoro e l’autonomia perduta.
36 Anche nella letteratura straniera si è fatta ormai largo l’idea che “workers should be protected and not job”, cfr. X. XXXXXXX, The Great Convergence, Xxxxxxx, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts, 2016, p. ….
37 Tema che verrà comunque ripreso nel xxxxx xxxxx xxxxxxxxxxx, xx. in particolare le Conclusioni.
38 In tal senso X. XXXXXXXX, Radici storiche e nuovi scenari del diritto del lavoro, in AA.VV., Interessi e tecniche nella disciplina del lavoro flessibile. Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro, Pesaro-Urbino 24-25 maggio 2002, AIDLASS Annuario di diritto del lavoro n. 37, Xxxxxxx, Milano, 2003, pp. 630 e ss.
39 Cfr. M.G. XXXXXXXX, Un profilo ideologico del diritto del lavoro, in AA.VV., Studi in onore di Xxxx Xxxxxx, Xxxxxxx, Bari, 1999, Tomo I, pp. 453 e ss.. Sullo stato di “disincantamento” del diritto del lavoro, ormai uscito dalla fase “metafisica” caratterizzata dall’assolutizzazione delle proprie premesse di valore e scelte di tutela, e sulla riscoperta della sua convenzionalità nonché del suo confrontarsi con molteplici formanti diversi tra loro, cfr. X. XXX XXXXX, Epistemologia breve del diritto del lavoro, in LD, 2013, n. 1, pp. 37 e ss.
fondamentali che non riguarderebbero il lavoratore in quanto tale bensì il cittadino e, prima ancora, la persona40.
In definitiva, sarebbe necessario imprimere all’asse centrale della ri-regolazione del lavoro una torsione radicale: dal terreno dei rapporti contrattuali a quello delle garanzie della qualità della vita, valorizzando interessi post-materiali e post-occupazionali che è possibile individuare attraverso le lenti della cittadinanza non più industriale ma “industriosa”41.
E così se è vero che il diritto del lavoro del Novecento si è sviluppato su quattro pilastri (lo Stato-nazione; la grande fabbrica; la piena occupazione; la rappresentanza generale del lavoro attraverso le grandi centrali sindacali)42 e attorno a tre assi (il rapporto stabile, a tempo pieno ed esclusivo), riflesso di un sistema di organizzazione del lavoro prevalentemente industriale e di tipo fordista43, il diritto del lavoro del nuovo secolo dovrebbe, allora, cercare soluzioni nuove che siano maggiormente confacenti al nuovo contesto economico-produttivo e sociale di riferimento (sistema produttivo snello, orizzontale, flessibile, mobile, interdipendente ed interconnesso).
Sul punto, è stato, infatti, osservato che l’impresa ha subito una progressiva smaterializzazione risultato di un’evoluzione ormai realizzata in molte realtà: da semplice organizzazione di beni materiali a insieme strutturato e complesso di conoscenze, competenze, relazioni e procedure da cui scaturirebbe una immateriale “capacità di stare sul mercato”44. Proprio la capacità di competere delle imprese sembra oggi più che mai incentrata soprattutto sulle loro competenze, sul loro sapere (tecnologico-organizzativo-relazionale) e sulla loro capacità di percepire i cambiamenti45.
Ebbene, il diritto del lavoro che ne esce (o ne dovrebbe uscire) è un diritto del lavoro denazionalizzato (stante la perdita di centralità, competenza e autonomia decisionale dello Stato- nazione), post-occupazionale (in quanto il rapporto di lavoro non è più esclusivo oggetto di attenzione) e post-materiale (giacché il lavoratore non viene più visto nella sua astrazione ma nella sua concretezza valorizzandone i bisogni non materiali legati alla sua identità, al benessere e ai suoi progetti di vita)46.
11. In Italia, tali istanze (vd. supra nn. 6-8) sono state in parte perseguite (talvolta con strumenti non appropriati), in parte trascurate.
Sul punto, basterebbe prendere in considerazione due aspetti, strettamente connessi tra loro e nevralgici per il diritto del lavoro italiano del Novecento cristallizzatosi nella ormai risalente legge
n. 300 del 1970 (c.d. Statuto dei lavoratori), e cioè la stabilità del rapporto di lavoro subordinato e la limitata (almeno secondo i più) mobilità interna ed esterna (all’impresa) del lavoratore, per poter osservare che le tutele in passato legate al contratto di lavoro subordinato (art. 2103 c.c., come
40 In tal senso cfr. X. X’XXXXXX, La grande sfida delle trasformazioni del lavoro, in X. XXXXXXX, X. XXXXXX (a cura di), Xxxxxxx X’Xxxxxx. Opere, Xxxxxxx, Milano, 2000, pp. 251 e 258.
41 Cfr. X. XXXXXXXXX, Radici storiche, cit., p. 670.
42 È questa la lungimirante ricostruzione di ampio respiro di M. X’XXXXXX, Diritto del lavoro di fine secolo: una crisi d’identità, cit., pp. 221 e ss.
43 Cfr. anche X. XXXXXX, Il diritto del lavoro alla svolta del secolo, in DLRI, pp. 177 e ss.
44 Cfr. X. XXXXX, Cessione di ramo d’azienda e appalti, in AA.VV., Diritto del lavoro e nuove forme di decentramento produttivo, Atti delle giornate di studio Aidlass di Trento, 3-4 giugno 1999, Milano, Xxxxxxx, 2000, p. 175.
45 Cfr. X. XXXXXXXXXX, X. XXXX, Nuove strategie delle imprese italiane, Donzelli, Roma, 2013, p. 10, come riportati da
X. XXXXXXX, «Noi siamo quello che facciamo». Prassi ed etica dell’impresa post-fordista, in DLRI, 2014, n. 144, p. 633.
46 Cfr. X. X’XXXXXX, Diritto del lavoro di fine secolo: una crisi d’identità, cit., p. 231.
modificato dall’art. 13 St. lav.) e a tempo indeterminato (art. 18 St. lav.) sono parzialmente venute meno o, comunque, sono state oggetto di rilevanti modifiche47.
Ed infatti, con la modifica dell’art. 2103 c.c. da parte del Jobs Act (art. 3 del d.lgs. n. 81/2015), il tema della formazione ha fatto definitivamente irruzione nel rapporto di lavoro (si pensi all’espresso riconoscimento, al terzo comma, di un “obbligo formativo” che dovrebbe tutelare la professionalità in modo dinamico e non statico ma allo stesso tempo realizzare l’ampliamento dell’area di mobilità consentita48), con conseguente emersione di una serie innumerevoli questioni di tipo giuridico ma anche di teoria generale del contratto di lavoro (vd. infra n. 13).
L’altra grande novità, anche di tecnica legislativa49, introdotta nell’art. 2103 c.c. è data dalla sostituzione50 del precedente criterio dell’“equivalenza” tra mansioni di provenienza e di destinazione con il riferimento al livello di inquadramento e, quindi, (ma non solo) ai sistemi di classificazione e inquadramento del personale contenuti nei contratti collettivi.
Pertanto, ad oggi i sistemi di inquadramento del personale giocano o potrebbero giocare un ruolo fondamentale non solo sotto il profilo economico, quale misura e riconoscimento del valore della professionalità51 e nella determinazione delle prestazioni esigibili all’interno del rapporto di lavoro52 o meglio all’interno dell’organizzazione del lavoro53, ma anche nella costruzione di percorsi di carriera endoaziendale e nel mercato del lavoro nonché nella predisposizione di parametri di riferimento per altri istituti (si pensi, ad esempio, all’apprendistato professionalizzante ma anche alla formazione e alla certificazione delle competenze, vd. paragrafo seguente).
Proprio con riferimento alle politiche formative, ormai da tempo la più attenta dottrina ha rilevato che esse hanno una “doppia valenza”: da un lato, si tratta di un investimento in capitale umano, in promozione sociale e politica del lavoratore, dall’altro lato rappresenta uno strumento di organizzazione produttiva dell’impresa in quanto la formazione tende ad assurgere a parte e
47 Cfr. sul punto, e senza pretesa di esaustività, X. XXXX, Xxxxx osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta nel decreto legislativo n. 81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx” .IT- 257/2015, 2015; X. XXXXXX, La disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, in Arg. Dir. Lav., 2015, fasc. 6, pp. 1156 e ss.
48 In letteratura, già negli anni ’80 era affermato che la formazione, in particolare quella permanente, è “il principale fattore di vera elasticità e dinamicità” in materia di mansioni e mobilità endo-aziendale, cfr. M. DELL’OLIO, Nuove forme di lavoro dipendente, in Mass. Giur. Lav., 1984, p. 676, come anche X. XXXXXX, Dall’equivalenza all’inquadramento, cit., p. 156.
49 Cfr. X. XXXXXX, Dall’equivalenza all’inquadramento: i nuovi limiti ai mutamenti “orizzontali” delle mansioni, in
GDLRI, 2016, n. 149, p. 149.
50 Cfr., sul punto, X. XXXXXX, I nostalgici dell’equivalenza delle mansioni, WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx” .IT – 310/2016, 2016.
51 Sarebbe questo, l’ambito naturale della contrattazione collettiva dove le Parti sono chiamate ad analizzare e misurare le competenze dei lavoratori ed il loro valore di mercato, in tal senso, anche in una prospettiva di modernizzazione della struttura retributiva, cfr. X. XXXXXXXXXX, Xxxxxx e professionalità: cosa dicono i contratti collettivi?, in Guida al lavoro, Sole 24Ore, 2016, n. 5, p. 4.
52 Sul nuovo art. 2103 c.c. e sulla valorizzazione del ruolo della contrattazione collettiva, cfr., tra gli altri, X. XXXXXXX, Mansioni e inquadramenti: il ruolo della contrattazione collettiva prima e dopo il Jobs Act, in Arg. Dir. Lav., 2015, fasc. 6, pp. 1356 e ss.
53 Cfr. sul punto, X. X’XXXXXX, Della produttività e diritto del lavoro. Un itinerario sulla qualità del lavoro, in Riv. giur. lav. e pr. soc., 2009, 2, I, pp. 257 e ss.. Per la nota tesi del contratto di lavoro come contratto di organizzazione, cfr. X. XXXXXXXX, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, Padova, 1966; per i rilievi critici di tale tesi cfr., tra gli altri, X. XXXXXXXXX, Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su contratto di lavoro e post- taylorismo, WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx” .IT-5/2003, 2003.
funzione integrante della gestione manageriale dell’impresa per favorire processi di innovazione tecnologica ed organizzativa54.
12. Allo stesso tempo, il legislatore ha introdotto negli ultimi anni, anche su input delle istituzioni dell’Unione europea, strumenti innovativi volti a rispondere alle esigenze esistenti nell’attuale tessuto socio-economico e a contemperare interessi contrapposti: le istanze di mobilità, produttività e professionalità provenienti dal mondo economico e quelle di tutela e di “realizzazione” della persona lungo tutto l’arco della vita lavorativa (e non) e nelle c.d. transizioni occupazionali55.
Uno di questi strumenti è la certificazione delle competenze56. Istituto che, come avremo modo di vedere, si presta ad una pluralità di funzioni e fini tra cui: la tutela della persona “attiva” a vedersi riconoscere, portare con sé e spendere nel mercato del lavoro tutto il bagaglio di conoscenze e abilità conseguite e sviluppate in qualsiasi ambito della propria esistenza; la regolamentazione della concorrenza nel mercato di riferimento e la garanzia per gli utenti/consumatori e per le imprese della “qualità” della prestazione lavorativa offerta; la realizzazione di un mercato del lavoro più efficiente perché reso più trasparente ed intellegibile, quantomeno sul piano delle informazioni, dal lato dell’offerta ma anche dal lato della domanda al ricorrere di determinate condizioni57.
Non a caso, negli ultimi interventi normativi in materia di lavoro (si fa riferimento alla legge n.
81 del 2017 in materia di lavoro autonomo e lavoro agile)58 sono richiamati la nozione di “competenze” e il relativo strumento della certificazione, ciò ad ulteriore riprova di come l’istituto sia trasversale ed utilizzabile tanto all’interno dei rapporti di lavoro subordinato quanto in quelli di lavoro autonomo “standard”, tanto nel lavoro “agile” quanto in quello “ibrido”59.
54 Cfr. X. XXXXX, La formazione alla flessibilità, in DRI, 1993, fasc. 1, p. 262 ma anche la nota n. 12.
55 Per una maggiore comprensione del concetto cfr. X. XXXXXX, Il lavoro non standard. Riflessioni nell’ottica dei mercati transizionali del lavoro, in Dir. rel. ind., 2011, n. 1, pp. 1 e ss.; X. XXXXXX, La strategia europea per l’occupazione nella tempesta: il ripristino di una prospettiva a lungo termine, in Dir. rel. ind., 2011, n. 1, pp. 59 e ss. nonché X. XXXXXX, La riforma del mercato del lavoro nel contesto della “nuova geografia del lavoro”, in Dir. rel. ind,
n. 3, 2017, pp. 634 e ss., in particolare il par. 2.
56 Per un’analisi dell’istituto e della normativa di riferimento cfr. X. XXXXXXXX, X. XXXXXX, X. XXXXXXXXXX, Apprendimento permanente e certificazione delle competenze, in X. XXXXXXX, X. XXXXXXXXXX (a cura di), La nuova riforma del lavoro, Xxxxxxx, Milano, 2012, pp. 392 e ss.; X. XXXXXXX, La certificazione delle competenze nel decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13, in AA. VV., Studi in memoria di Xxxxxxxx Xxxxxxxx, Xxxxxxx, Bari, 2015, vol. II, pp. 995 e ss.; X. XX XXXXXXX, Apprendimento permanente, in X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX, Il nuovo diritto del mercato del lavoro. La legge n. 92 del 2012 (c.d. “Riforma Fornero”) dopo le modifiche introdotte dalla Legge n. 99 del 2013, Utet, Torino, 2013, pp. 719 e ss.; S. VERDE, Apprendimento permanente e certificazione delle competenze, in X. XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, Il nuovo mercato del lavoro. Dalla Riforma Fornero alla Legge di stabilità 2013, Giappichelli, Torino, 2013, pp. 739 e ss.
57 Ad esempio, può realizzare questo obiettivo un’efficiente mappatura, previsione ed anticipazione dei fabbisogni professionali di una determinata impresa, settore o territorio. Per un’analisi dei testi istituzionali dell’Unione europea che hanno incentivato negli ultimi anni tale policy si consenta di rinviare a F. D’ADDIO, Le politiche europee per l’anticipazione dei fabbisogni formativi e professionali, in Nuova Secondaria, 2017, n. 10, pp. 58 e ss.
58 Sul tema cfr., tra gli altri, X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, Xxxxxx eterorgnizzato, coordinato, agile e il telelavoro: un puzzle non facile da comporre in un’impresa in via di trasformazione, WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT – 327/2017, in via di pubblicazione su DRI, 2017, n. 3; X. XXXXXXXXXX, Il lavoro agile tra legge e contrattazione collettiva: la tortuosa via italiana verso la modernizzazione del diritto del lavoro, WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT – 335/2017 (anche in DRI, 2017, n. 4, pp. 921 e ss.).
59 Per una peculiare proposta di lavoratore “ibrido” avanzata dall’autonomia collettiva – non a caso nella parte dedicata alla “politica attiva” – nel settore bancario, cfr. X. XXXXXXX, Il bancario “ibrido” nell’economia liquida (nuove proposte dall’autonomia collettiva), in via di pubblicazione su DRI, 2017, n. 3.
13. Tuttavia, salvo un orientamento dottrinale allo stato minoritario che ha tentato di valorizzare la professionalità del lavoratore elevandola a vero oggetto del contratto di lavoro60, con conseguente riconoscimento di un diritto (e quindi di un obbligo) di formazione come “effetto naturale” del contratto che opera quindi a prescindere da un’espressa previsione di legge61, in letteratura è del tutto prevalente la tesi opposta.
Ed infatti, benché si stia facendo largo un’istanza di revisione della tradizionale opinione62, la ricostruzione classica, risalente a Xxxx Xxxxxx, non solo rinviene nelle mansioni pattuite, ossia l’attività lavorativa convenuta ai sensi dell’art. 2103 c.c., l’oggetto del contratto di lavoro63, ma ritiene anche che nel rapporto di lavoro non sussista, in via generale, un diritto alla formazione del lavoratore né un obbligo di “formare” in capo al datore di lavoro, a meno che esso non sia espressamente affermato in una disposizione di legge o in una clausola del contratto collettivo o individuale di lavoro64.
Ciò che è certo è che anche la dottrina giuslavoristica ha iniziato ad ammettere che nel rapporto, come nel mercato del lavoro inizia ad assumere una rilevanza cruciale – sia in termini di “bene” prezioso difficilmente reperibile nel mercato che in termini di “nuova tutela” della parte negoziale tradizionalmente considerata debole – la professionalità65, le competenze66 in concreto possedute dalla persona attiva (lavoratore, disoccupato/inoccupato in cerca di occupazione, migrante, e così via) e la formazione nelle sue molteplici varianti (professionale, continua, permanente, iniziale, alternata, integrata, ecc.)67.
14. Se il contesto economico-sociale (vd. nn. 2-8), legislativo (vd. nn. 9-12) e dottrinale (vd. n. 13) è quello sopra descritto, pare di grande interesse interrogarsi su una serie di questioni: la professionalità e la formazione professionale dei lavoratori sono tutelate dal diritto del lavoro e in che modo? Che valore esse assumono all’interno e al di fuori dal rapporto di lavoro e, più in generale, nel nostro ordinamento giuridico? La crescente rilevanza di questi fattori nell’economia e nella società ha inciso anche sulla struttura e sul contenuto (scambio, obblighi e diritti delle parti, ecc.) del contratto di lavoro?
A queste domande di carattere generale, unitamente a numerose altre di carattere più specifico (che cosa si intende per obbligo formativo? come si adempie a questo obbligo? quale impatto ha l’obbligo formativo di cui al nuovo art. 2103, comma 3 c.c. su altri istituti quali il licenziamento collettivo o l’obbligo di repechage? ecc.) si intende tentare di dare o, meglio, impostare una risposta (delle possibili tante).
60 Cfr. X. XXXXXX, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, in AA.VV., Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Xxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxx, Milano, 1995, Tomo II, pp. 1082 e ss., in particolare p. 1122.
61 Cfr. anche X. XXXXXX, Professionalità e contratto di lavoro, Xxxxxxx, Milano, 2004, p. 12.
62 Cfr. X. XXXXXXX, Saggio sull’organizzazione del lavoro, Cedam, Padova, 2002, p. … nonché, da ultimo, X. XXXXX,
La modifica unilaterale delle mansioni, in RIDL, 2018, I, pp. 233 e ss.
63 Cfr. X. XXXXXX, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Xxxxxx, Napoli, 1963, pp. 7-8, in particolare nota n. 9.
64 Cfr., fra gli altri, X. XXXXXXX, Organizzazione del lavoro e professionalità tra rapporti e mercato del lavoro, in
GDLRI, 2004, p. 165 e ss.
65 Per un’analisi multidisciplinare del tema cfr. X. XXXXXX, (a cura di), La professionalità, V&P Università, Milano, 2004.
66 Per una delle prime analisi giuridiche della nozione e delle sue ricaduta sul rapporto di lavoro cfr. X. XXXXXXXXXX,
Per un approccio giuridico al tema delle competenze, in Osservatorio Isfol, 20, n. 5-6, 1999, pp. 113 e ss.
67 In materia di apprendimento permanente, c.d. lifelong learning, per un’analisi giuridica del concetto di “apprendimento” e della sua tutela cfr. X. XXXXXXXXXXX, Apprendimento e tutela del lavoro, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2013.
Risposta che, per essere attendibile, non può prescindere da:
a) un esame dettagliato e sistematico del dato positivo, ossia delle disposizioni, di vario livello e tipo, del nostro ordinamento giuridico che toccano le materie oggetto di indagine;
b) una disamina delle ricostruzioni dottrinali in materia di professionalità e formazione professionale del lavoratore ma anche in ordine all’oggetto e alla causa del contratto di lavoro;
c) fugaci ma indispensabili analisi degli orientamenti giurisprudenziali sulle questioni giuridiche più delicate, atteso che, da sempre, questo “formante” ha avuto un ruolo centrale nella costruzione delle regole lavoristiche in concreto applicate nella realtà quotidiana;
d) da una ricostruzione, anche in termini storico-evolutivi, delle soluzioni approntate dalla contrattazione collettiva, in quanto in materia di professionalità e formazione, ma anche di mansioni e sistemi di classificazione e inquadramento del personale, pare fisiologico e anzi necessario – come avremo modo di vedere – un intervento delle parti sociali.
In conclusione, la macro-questione che si intende affrontare è quella della rilevanza e delle ricadute, in termini di situazioni giuridiche soggettive (obblighi, oneri, diritti, interessi, ecc.), ma anche delle opportunità, individuali e collettive, del tema (trasversale) della professionalità e delle formazione professionale all’interno del rapporto di lavoro e dei vari strumenti previsti dal legislatore e dalla contrattazione collettiva per tutelare e valorizzare, oltre che rendere trasparenti e misurare, tali “beni della vita”.
Consapevoli del fatto che qualsiasi discorso sul diritto “non è soltanto interpretazione” ma anche “critica del diritto”68, ci si ripropone di sviluppare la presente ricerca prevalentemente in una prospettiva di de jure condito (analisi e ragionamento sul dato normativo attuale), non trascurando, però, la più impegnativa prospettiva di de jure condendo (sulle possibili tendenze future del diritto del lavoro o sulle azioni da intraprendere o modifiche da introdurre a livello legislativo e sul piano delle relazioni industriali). Ciò perché il diritto del lavoro sembra avere anzitutto bisogno di una procedura di riflessione (collettiva), tanto sul piano dell’interpretazione del diritto esistente quanto su quello del policy-making, all’interna della quale è necessario optare per soluzioni ermeneutiche rigorose sul piano scientifico ma che tengano anche conto e ponderino le molteplici ed eterogenee informazioni rilevanti ai nostri fini (analisi economiche, sociologiche, considerazioni valoriali, ecc.)69.
Nel fare tutto questo si ripone anche molta fiducia sul fatto che, se il diritto del lavoro del Novecento è stato probabilmente il “diritto del secolo”70, questa branca dell’ordinamento, chiamata ormai da tempo a fare i conti con “il nuovo che avanza” e quindi a rinnovare se stessa, non avrebbe ancora dato il meglio di sé71.
Nondimeno, bisogna essere anche consapevoli e, quindi, ammonire il lettore sui limiti del diritto (e, in particolare, del diritto del lavoro) di oggi e sui rischi insiti nel riporre una cieca speranza nelle (illusorie) doti salvifiche del “legislatore”, sia esso statale, sovranazionale o collettivo, “salvatore” e “risolutore” di tutti i problemi della persona.
68 Ossia “descrizione dei ritardi e delle inadeguatezze normativi rispetto al cambiamento sociale e individuazione dei problemi per la cui soluzione occorre l’intervento del legislatore”, cfr. X. Xxxxxxx, Il contratto individuale di lavoro, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2000, n. 86, 2, p. 196.
00 Xxx. X. XXX XXXXX, Xxxxxxxxxxxxx xxxxx, cit., pp. 44-47.
70 X. XXXXXXXXXXXX, …, in AA.VV., Nuove forme di lavoro tra subordinazione, coordinazione, autonomia, Cacucci, Bari, p. 25.
71 Cfr. X. XXXXXXXXX, Radici storiche, cit., p. 659.
Ed infatti, in primo luogo, vi sono dei limiti (attuali) evidenti e intrinseci al nostro ordinamento giuridico: il diritto, e in particolar modo la disciplina inerente al lavoro, è prevalentemente, di matrice statuale72, mentre il sistema economico e il mercato – che il diritto avrebbe intenzione di regolare in qualche modo – hanno una natura o, comunque, una tensione globale73. Peraltro, il diritto del lavoro affiderebbe la propria efficacia e “forza” alla tecnica normativa della inderogabilità della legge o del contratto collettivo, con la conseguenza che le norma inderogabile, di fonte statuale, “serve a poco se non copre l’intero mercato” 74 che – come è noto – è ormai globale o, almeno, europeo.
Da ultimo, sarebbe vano, se non dannoso, rimettere le proprie speranze di “salvezza”, individuale e collettiva, alla introduzione di nuove norme giuridiche, di qualsiasi fonte, ciò perché il diritto costruisce un mondo proprio e arriva sempre dopo la vita, la quale è, per dirla con Xxxxxxxxx, “un movimento ineguale, irregolare e multiforme”75.
B) METODOLOGIA E PIANO DELLA RICERCA
Al fine di affrontare il “problema” come sopra delineato (vd. n. 14), è parso utile – prima di procedere all’analisi della normativa, della letteratura e della giurisprudenza relative alle tre macro- aree, tra loro interdipendenti, oggetto della presente ricerca (contratto di lavoro, professionalità e formazione) – premettere brevi cenni di contesto ed aperture ad altre discipline scientifiche, segnatamente sociologia, pedagogia, economia e finanche filosofia.
72 Basti pensare che le competenze legislative (di tipo esclusivamente “integrativo/di sostegno”) dell’Unione europea in materia di lavoro sono limitate ad una serie di materie che non ricomprendono istituti e strumenti centrali della nostra disciplina (quali, ad es., la retribuzione, la contrattazione collettiva e lo sciopero). Più nel dettaglio, l’art. 153 Tfue (vecchio art. 137 TCE) stabilisce, al fine di conseguire i fini sociali ma anche di competitività ed efficienza economica dell’intero sistema di cui all’art. 151 Tfue (segnatamente, la «promozione dell’occupazione», il «miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro», una «protezione sociale adeguata», il «dialogo sociale», uno «sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo» e la «lotta contro l’emarginazione») che:
«l’Unione sostiene e completa l’azione degli Stati membri nei seguenti settori: a) miglioramento, in particolare, dell'ambiente di lavoro, per proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori; b) condizioni di lavoro; c) sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori; d) protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro; e) informazione e consultazione dei lavoratori; f) rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro, compresa la cogestione, fatto salvo il paragrafo 5; g) condizioni di impiego dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio dell'Unione; h) integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro, fatto salvo l'articolo 166; i) parità tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro ed il trattamento sul lavoro; j) lotta contro l'esclusione sociale; k) modernizzazione dei regimi di protezione sociale, fatto salvo il disposto della lettera c)» (art. 153, par. 1 Tfue). Si segnala, infine, l’eccentrico paragrafo che chiude l’articolo in commento: «Le disposizioni del presente articolo non si applicano alle retribuzioni, al diritto di associazione, al diritto di sciopero né al diritto di serrata» (art. 153, par. 5 TFUE). Per un’analisi delle competenze dell’Unione in materia sociale si rinvia a X. XXXXXXXX, Il modello sociale europeo, in F. XXXXXXXXX, X. XXXXXX (a cura di), Le nuove istituzioni europee. Commento al Trattato di Lisbona, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 119 e ss.
73 Nell’epoca della globalizzazione l’ordinamento mondiale sembra declinarsi, infatti, al plurale, dal momento che le regole che lo costituiscono paiono afferire a due piani distinti: le regole economiche, a carattere aterritoriale, sembrano essere di fatto imposte dai mercati finanziari all’intero pianeta; le regole giuridiche, emanate dal singolo ordinamento, sono, invece, confinate nei ristretti confini nazionali, cfr. X.XXXXX CUGIA, Il diritto dei contratti nel mercato e la crisi globale. Spunti per una glocalizzazione giuridica, in Mercato Concorrenza Regole, fasc. 3, 2017, pp. 495 e ss. che riprende la domanda di fondo posta da M.R. FERRARESE, Le istituzioni della globalizzazione, Il Mulino, Bologna, 2000. 74Cfr. X. XXXXXXXXX, Fini e tecniche del diritto del lavoro, in Id., Xxxxxx e spirito, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2011, p.
16 (già in X. XXXXXXXXX (a cura di), I contratti di lavoro, in X. XXXXXXXX, X. XXXXXXXXX (diretto da), Trattato dei
contratti, Tomo I, Utet, Torino, 2009, pp. 3 e ss.).
75 Cfr. sul tema X. XXXXXX, La vita e le regole, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 9.
In particolare, nel Capitolo I si è tentato di inquadrare e definire i concetti di professionalità e competenze, come intesi dalla letteratura (anche diversa da quella giuridica) e come recepiti dall’ordinamento giuridico, tenendo comunque presente la realtà economica, sociale e produttiva/organizzativa per evitare di cadere in disamine ed argomentazioni autoreferenziali o, comunque, non al passo “coi tempi”76.
Fatta questa debita introduzione, si analizzerà nel dettaglio tutti quei principi fondamentali del nostro ordinamento in materia di lavoro e formazione contenuti nella Costituzione ma anche in fonti sovranazionali (Capitolo II).
Nel Capitolo III, invece, si esamineranno, dapprima, le funzioni, la natura e la struttura del contratto di lavoro subordinato, ripercorrendo, anche attraverso le ricostruzioni dottrinali “classiche”, quella che è stata la sua evoluzione nel tempo; poi si prenderanno in considerazione tutte quelle disposizioni di legge che trattano le tematiche della professionalità e della formazione sia con riferimento al rapporto di lavoro subordinato tout court (vd., ad es., art. 2103 c.c. come novellato dal Jobs Act e art. 37 del d.lgs. n. 81/2015) o a specifiche tipologie contrattuali o particolari fattispecie (vd., ad es., art. 6, comma 2 del d.lgs. n. 81/2015, art. 20 della legge n. 81/2017, artt. 5 e 6 della legge n. 53/2000, ecc.), sia quelle afferenti (prevalentemente ma non soltanto) al mercato del lavoro (vd. il d.lgs. n. 13/2013 che istituisce il sistema pubblicistico della certificazione delle competenze già delineato dalla legge n. 92/2012).
Tale analisi, di tipo sistematico del dato positivo si è ritenuta necessaria per cogliere, a fondo, la portata e l’estensione della lenta ma inesorabile affermazione, all’interno del rapporto di lavoro, della professionalità e, in particolare, della formazione. Nel Terzo Capitolo si è anche cercato di valutare l’impatto di questi fenomeni e delle più recenti novità legislative su altri istituti (ad es., la causa e l’oggetto del contratto di lavoro, l’esistenza o no di un diritto all’esecuzione effettiva della prestazione lavorativa, l’obbligo di repechage nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo o collettivo, ecc.).
Il Capitolo IV ha invece, trattato le tematiche concernenti la professionalità e la formazione dal punto di vista delle relazioni industriali. In particolare, dopo aver definito alcuni concetti chiave (mansioni, qualifiche, categorie, ecc.), si è deciso di passare in rassegna l’evoluzione delle relazioni industriali in materia di sistemi di classificazione e inquadramento del personale, per poi analizzare, da un punto di vista qualitativo e quantitativo, le soluzioni adottate dalla più recente contrattazione collettiva (di livello nazionale e aziendale) per comprendere e valutare – anche tenendo conto dei nuovi modelli produttivi ed organizzativi del lavoro – se questa abbia preso in considerazione ed eventualmente in che modo il tema della professionalità e delle competenze dei lavoratori, anche con riferimento alla novellata disciplina in materia di mansioni (art. 2103 c.c. come modificato dall’art. 3 del d.lgs. n. 81/2015).
All’esito di queste analisi, per così dire, de jure condito, nel capitolo conclusivo si riprende il discorso lasciato in sospeso nella Introduzione tirando le fila del discorso e provando a rispondere alle domande di ricerca poste. Più nello specifico, in quella sede si è tentato di delineare con maggiore precisione l’evoluzione compiuta e le tendenze (future) della disciplina individuando possibili interventi normativi (di riforma) in materia, best practices (anche contrattuali) e/o
76 La “lezione metodologica” a cui si fa riferimento è quella indicata da Xxxxxx nella nota monografia del 1963,
Xxxxxxxx e qualifica nel rapporto di lavoro, poi accolta e ripresa da più studiosi della materia e giuslavoristi.
ipotizzare modelli di sistemi di inquadramento del personale che siano non solo più aderenti all’attuale mercato del lavoro, ma che tutelino in modo effettivo la professionalità dei lavoratori (dentro e fuori dall’impresa, ad es. in caso di mutamento delle mansioni ai sensi del nuovo art. 2103
c.c. o in caso di operazioni di ristrutturazione e adattamento tecnologico dell’impresa) e che rendano certe, trasparenti e sicure le c.d. transizioni occupazionali (riflessione de jure condendo).
C) APPORTO ORIGINALE DELLA RICERCA
L’originalità della presente ricerca dovrebbe emergere da una serie di elementi.
In primo luogo, occorre evidenziare che, salvo rare eccezioni, la dottrina giuslavoristica si è occupata poco, e prevalentemente a partire da fine anni ’90 - inizio anni 2000, di professionalità, formazione e apprendimento permanente del lavoratore mostrando una certa diffidenza nel trattare questi argomenti con riferimento al rapporto di lavoro77. Peraltro, l’impressione che si ha è che le monografie e gli articoli specialistici che hanno trattato queste tematiche non sembrano aver sondato e valorizzato appieno la dimensione collettiva78, dimensione che, invece, viene trattata approfonditamente in questa sede (vd. Capitolo IV).
Un ulteriore elemento distintivo ed originale della presente ricerca consiste nel fatto che essa non ha ad oggetto un istituto specifico del diritto del lavoro ma piuttosto macro-tematiche strettamente connesse tra loro che ruotano attorno al concetto di professionalità e, quindi, al lavoro, alla formazione e all’apprendimento del lavoratore all’interno del rapporto di lavoro.
E questo macro-tema composito (contratto di lavoro, professionalità e formazione) risulta essere tanto più affascinante quanto più si considera il suo carattere trasversale79 e, allo stesso tempo, “evanescente”, avendo a che fare con concetti che, seppur in parte declinati in termini giuridici in vari testi di legge, sono mutuati da altre discipline scientifiche (pedagogia in primis) e hanno un’innegabile natura immateriale.
L’originalità della ricerca è poi, in un certo qual modo, fisiologica e connaturata al campo di indagine se consideriamo le novità introdotte in materia dalle più recenti riforme del lavoro che hanno valorizzato i temi della professionalità e della formazione dei lavoratori (vd. legge n. 92/2012 e d.lgs. n. 13/2013, riforma dell’art. 2103 x.x. xx xxxxx xxx x.xxx. x. 00/0000, legge n. 81/2017).
77 Risultano poche le monografie integralmente dedicate a queste tematiche: X. XXX, Formazione e rapporti di lavoro, Xxxxxx Xxxxxx, Milano, 1988; X. XXXXXX, Professionalità e contratto di lavoro, Xxxxxxx, Milano, 2004; X. XXXXXXXXXXX, Apprendimento e tutela del lavoro, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2013. Tra le monografie e contributi più datati in materia di apprendistato si segnalano: X. XXXXX, Il contratto di tirocinio, Xxxxxxx, Milano, 1963; X. XXXXXXX, voce Apprendista, in Enc. dir., II, 1958, pp. 814 e ss.; .
78 Con l’unica e rilevante eccezione dello studio di Xxxxxx Xxxxxxxxxx realizzato nel 1999 (e richiamato alla nota 66).
79 Queste tematiche possono essere trattate da diversi punti di vista avendo queste un impatto su più ambiti: dal profilo dell’organizzazione del lavoro (inquadramento, mansioni, jus variandi, ecc.) a quello dell’area dell’obbligazione (lavorativa e formativa), dalla dimensione contrattuale individuale a quella collettiva, ecc.
CAPITOLO I
CONOSCENZA, PROFESSIONALITÀ, COMPETENZE, ATTITUDINI E FORMAZIONE NELLA SOCIETÀ POST-MODERNA
“Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante.
La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale,
cosicché ad essa […] sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale.
Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti,
sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante,
e dunque sono le idee del suo dominio.”
X. XXXX, X. XXXXXX (manoscritto del 1845-1846 ca.) in L’Ideologia tedesca (1932), Editori Riuniti, Roma, 1972, pp. 12-14
1.1 Un terreno fertile sul quale “dialogare”: la condivisione dei fini ed il contributo del sindacato.
Come già anticipato nella Introduzione, l’importanza della conoscenza80 nell’attuale contesto socio-economico e produttivo è stata, da tempo, sottolineata da più parti e da numerosi autori, anche di ambiti disciplinari e provenienza culturale-politica molto diversi81. In tale contesto, è stato osservato che la formazione e la tutela della professionalità dei lavoratori ricopre un ruolo fondamentale nelle politiche (europee e nazionali) di contrasto alla disoccupazione, rappresentando altresì un “terreno ideale” per il dialogo sociale e relazioni sindacali di tipo partecipativo82.
Al riguardo, giova menzionare, a titolo meramente esemplificativo, alcuni accordi interconfederali o concertativi che, a partire dagli anni ’90, hanno enfatizzato, all’interno di più ampi impegni di tipo programmatico-politico, il ruolo della formazione continua e della
80 È stato evidenziato nella letteratura di stampo economico e sociologico, che la conoscenza è intrinsecamente dinamica, in quanto il suo valore è contingente a determinati contesti, e relazionale, in quanto la sua produzione nasce da un lavoro di interpretazione, cfr. G.C. XXXXXXXX, X. XXXXXX, Lo sviluppo delle competenze e l’organizzazione del lavoro, in Economia politica, 1998, n. 1, p. 38 che richiamano il pensiero di X. XXXXXXX, Il valore della conoscenza, in Economia e politica industriale, 1994, vol. 21, n. 82, pp. 47 e ss. Gli stesi Autori ritengono che la competizione ormai si gioca sulla creazione di conoscenza che diventa pertanto una risorsa producibile (prima ancora che distribuibile). Essa, infatti, viene generata dagli individui e dall’agire sociale delle organizzazioni attraverso un processo di knowledge conversion che si compone di varie tappe (socializzazione , esternalizzazione, combinazione e internalizzazione), cfr. I NONAKA, The Knowledge-Creating Company, in Harvard Business Review, vol. 71, n. 6, pp. 14 e ss. Si è parlato, a tal riguardo, di learning organization, cioè di un’organizzazione che fa della creazione di conoscenza il suo principale fattore competitivo.
81 A titolo esemplificativo, si rinvia a L.C. XXXXXX, La costruzione della ricchezza. Le nuove regole per gli individui, la società e le nazioni nell’economia della conoscenza, trad. it., Il Sole 24 ore, Milano, 2000; X. XXXXXXX, Lavoro a elevato livello qualitativo e sistemi economici/sociali fondati sulla conoscenza, Angeli, Milano 2004; D. FORAY, L’economia della conoscenza, Il Mulino, Bologna, 2006. Per quanto riguarda i testi istituzionali basti richiamare la Comunicazione della Commissione “Europea 2020. Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” del 2010.
82 Cfr. X. XXXXXX, Disciplina del mercato del lavoro ed esigenze formative, in Riv. giur. lav. prev. soc., 1997, fasc. 3-4,
p. 265, il quale ricorda i grandi accordi interconfederali in tema di formazione (Accordo sul costo del lavoro del luglio 1993, Patto per il lavoro del settembre 1996), la creazione di enti bilaterali in tema di formazione, .
professionalità nell’attuale sistema socio-economico: tra i primi si ricordano il Protocollo del 23 luglio 199383 e il c.d. Patto per il lavoro del 24 settembre 199684, da ultimo merita di essere richiamato l’Accordo interconfederale Confidustria - Cgil, Cisl, Uil del 9 marzo 201885.
D’altra parte, illustri sindacalisti, anche appartenenti alla confederazione tradizionalmente considerata come quella maggiormente “massimalista”, hanno mostrato interesse per tali tematiche. Una particolare attenzione, anche per originalità e spessore culturale delle argomentazioni, merita la posizione espressa in vari scritti da Xxxxx Xxxxxxx.
In una relazione tenuta in occasione di una lectio doctoralis all’Università di Venezia nel 2002, Xxxxxxx ha sostenuto che la più grande sfida del XXI secolo è far diventare il lavoro “conoscenza”, e quindi capacità di scelta, libertà e creatività86.
Ad avviso di Xxxxxxx, infatti, sarebbe ormai tramontato il concetto di “lavoro astratto”, senza qualità (di marxiana memoria): oggi si avrebbe a che fare con un lavoro concreto, pensato, in cui la persona che lavora diventa il punto di riferimento di una nuova organizzazione del lavoro87. Allo stesso tempo, il celebre sindacalista non negava l’ineludibile esigenza di flessibilità espressa dal mondo produttivo, ma evidenziava altresì l’intrecciarsi della stessa con processi di socializzazione delle conoscenze e con un continuo arricchimento delle competenze dei lavoratori88.
83 Si tratta di un accordo “concertativo” nel quale le parti firmatarie (governo e maggiori confederazioni sindacali) hanno condiviso “l'obiettivo di una modernizzazione e riqualificazione dell'istruzione e dei sistemi formativi, finalizzati all'arricchimento delle competenze di base e professionali e al miglioramento della competitività del sistema produttivo e della qualità dei servizi”, prevedendo una serie di azioni da porre in essere con particolare riferimento al “miglioramento e sviluppo delle diverse tipologie di offerte formative” nonché all’“evoluzione delle relazioni industriali e delle politiche aziendali per la realizzazione della formazione per l'inserimento, della riqualificazione professionale, della formazione continua”.
84 Anche questo è un accordo “concertativo” nel quale, all’interno dell’apposito capitolo dedicato alla Formazione, il governo e le parti sociali hanno espressamente riconosciuto che “La formazione continua costituisce la nuova prospettiva strategica della formazione e l'affermazione del diritto del cittadino alla qualificazione e all'arricchimento della propria professionalità”, anticipando altresì alcuni interventi legislativi (“occorrerà riaffermare il diritto all'istruzione ed alla formazione anche attraverso l'ottimizzazione degli istituti contrattuali vigenti e l'uso di congedi di formazione e periodi sabatici, attraverso uno specifico provvedimento legislativo di sostegno alla contrattazione”), sul punto cfr. X. XXXXXXXXX, La formazione dei lavoratori dalla concertazione triangolare al “pacchetto Treu”, in Lav. Giur., 1998, pp. 5 e ss. e X. XXXXXX, Professionalità e rapporto di lavoro, cit., p. 189.
85 Accordo denominato “Contenuti e indirizzi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva” dove un grande rilievo è riconosciuto alla formazione, la quale è posta a fondamento della strategia di sviluppo condivisa dalle parti “volta a dare all’economia del Paese una crescita sostenibile e inclusiva, capace di affrontare e ridurre i dualismi produttivi, occupazionali e territoriali”. In particolare, per le parti firmatarie “occorre consolidare le filiere dell'istruzione e della formazione professionale, anche attraverso gli Istituti Tecnici Superiori e percorsi universitari orientati alle materie STEM e un forte impegno per una formazione continua di qualità che deve poter coinvolgere tutte le lavoratrici e i lavoratori. È necessario, in altre parole, favorire l’incontro domanda offerta nel mercato del lavoro, i percorsi di formazione e riqualificazione professionale, le politiche attive e il sostegno alle transizioni”.
86 Ciò in quanto questa rappresenterebbe l’unica strada che può portare a sconfiggere vecchie e nuove disuguaglianze e la miseria nelle sue varie forme, cfr. X. XXXXXXX, Xxxxxx e conoscenza, lectio doctoralis Università Ca’ Foscari, 2002, ripubblicato in X. Xxxxxxxxx (a cura di), Lavoro e conoscenza dieci anni dopo, Edizioni Ca’ Foscari-Firenze University Press, Venezia-Firenze, 2014. Per una ricostruzione più esaustiva del pensiero del noto segretario generale della CGIL e della FIOM si rinvia a X. XXXXXXXXX, X. XXXX (a cura di), Xxxxx Xxxxxxx: lavoro, libertà, conoscenza, Firenze University Press, Firenze, 2010.
87 Il lavoro concreto, con i suoi spazi di autonomia e di creatività e con la sua incessante capacità di apprendere, diventerebbe così, nelle imprese tecnologicamente avanzate, anche il metro di misura della propria competitività, cfr. sempre X. XXXXXXX, Xxxxxx e conoscenza, cit., p. …
88 Secondo Trentin, proprio la forte attenzione verso il tema della flessibilità avrebbe contribuito a consolidare le resistenze nei confronti del lavoro che cambia e a nascondere la fondamentale questione che emerge nell’era delle trasformazioni tecnologiche: quella della socializzazione della conoscenza quale fattore diretto ad impedire l’acuirsi della divisione fra chi è incluso in un processo di apprendimento continuo e chi, invece, ne è escluso. Il rischio sotteso a questi fenomeni sarebbe, infatti, quello di creare un secondo mercato del lavoro composto dai c.d. poor works, ossia da forme di occupazione precaria a cui corrisponde una regressione delle competenze dei lavoratori coinvolti.
Xxxxxxx proponeva, allora, di riflettere sui contenuti di un nuovo contratto sociale89, di un nuovo statuto di base per tutte le forme di lavoro (subordinato, parasubordinato o autonomo)90. Ciò in quanto il vecchio contratto sociale, come costruito dal Codice Civile (scambio “equo” tra un salario ed una quantità – tempo – di lavoro astratto, senza qualità, fondato su due presupposti non formalmente parte del patto: la disponibilità passiva della persona che lavora e la durata indeterminata del rapporto di lavoro), sembrava ormai superato per un numero sempre più crescente di lavoratori91.
Sempre secondo il noto sindacalista, il nuovo scambio potrebbe essere, dunque, costituito da una retribuzione (correlata ad un’occupazione flessibile) e l’acquisizione da parte della persona del lavoratore di una condizione di impiegabilità (c.d. occupabilità) a cui si perviene attraverso un investimento da parte ell’impresa, del lavoratore e della collettività in formazione permanente e politiche di riqualificazione, capaci di garantire, in luogo di un posto fisso, in prima battuta un’occasione di mobilità professionale all’interno dell’impresa e, in ogni caso, una nuova sicurezza che accompagni il lavoratore nelle transizioni occupazionali e, più in generale, nel mercato del lavoro92.
Tuttavia, Xxxxxxx era anche consapevole del fatto che l’obiettivo dell’Ue di costruire una società della conoscenza non poteva essere ridotto ad una mera questione economica od organizzativa, ma presupponeva la necessità di avviare una vera e propria rivoluzione “culturale”, anche all’interno del sindacato.
Sembra, pertanto, diffusa l’opinione secondo cui lo sviluppo dell’economia della conoscenza comporta anche un cambiamento delle forme e dei contenuti dell’azione sindacale93.
89 Anche la migliore dottrina giuslavoristica d’oltralpe ha rilevato che “i termini dello scambio fondante il modello del lavoro subordinato – subordinazione in cambio di sicurezza – si trovano sconvolti senza che siano stati ridefiniti i termini di un nuovo scambio”, cfr. X. XXXXXX, Il futuro del lavoro, Xxxxxxx, Roma, 2003, p. 40.
90 Anche nella riflessione giuslavoristica sono state avanzate da tempo varie proposte, cfr., fra gli altri, X. XXXXXXXXXX,
Lavoro sans phrase e ordinamento dei lavori. Ipotesi sul lavoro autonomo, in Riv. It. Dir. Lav., n. 1, 1998, pp. 49 e ss.;
X. XXXXX, X. XXXXXXXXXX, Le proposte legislative in materia di lavoro parasubordinato: tipizzazione di un tertium genus o codificazione di uno “Statuto dei lavori”?, in LD, 1999, n. 4, pp. 571 e ss.; X. XXXX, Statuto dei lavori e Carta dei diritti, in DRI, 2004, n. 2, pp. 193 e ss.
91 Ed infatti, ad avviso di Xxxxxxx, il tempo sembrava essere sempre meno il criterio per determinare la retribuzione. Questi fenomeni rappresenterebbero la fine del lavoro astratto: crescente importanza della qualità e dell’autonomia del lavoro (il lavoratore acquisice capacità di selezionare le informazioni e, quindi, di decidere), anche i lavoratori esecutivi acquisiscono una responsabilità del risultato, non più solo una mera messa a disposizione delle proprie energie psico- fisiche per otto ore al giorno.
92 In definitiva, la questione era di trovare il modo per riconoscere alla persona concreta, che diventa finalmente soggetto responsabile, e quindi attivo, del rapporto di lavoro, un diritto allo sguardo, cioè all’informazione, alla consultazione e al controllo sull’oggetto del lavoro (il prodotto, l’organizzazione del lavoro, il tempo di lavoro, il tempo di formazione e il tempo disponibile per la vita privata).
93 Cfr. Libro Bianco su lavoro e competenze 4.0 (2017) elaborato dalla Fim Cisl insieme ad Adapt (disponibile on line sul sito delle due associazioni) dove si evidenziano i “nuovi contenuti della contrattazione collettiva che non si potranno limitare alle tutele storiche proprie dei contratti ma che dovranno riguardare anche istituti come la retribuzione flessibile, la formazione, il welfare aziendale e la gestione di tempi e luoghi di lavoro”, con conseguente “potenziamento della contrattazione aziendale e territoriale”. In definitiva, nel contesto di Indutry 4.0 “la formazione e le competenze diventano […] una nuova forma di tutela e di valorizzazione della persona e, allo stesso tempo, un elemento centrale nella dinamica della contrattazione”, intravedendo in esse “un processo di scambio e di complementarietà tra interessi” dei lavoratori e delle imprese. Cfr. sul tema anche X. XXXXXXX, Il riconoscimento delle competenze come strategia per valorizzare il lavoro, in M. G. XXXXXXXX, X. XXXXXX (a cura di), Certificazione delle competenze e apprendimento permanente. Una pluralità di discorsi, Xxxxxxx Editore, Roma, 2014, secondo il quale la nuova economia, e le sue ricadute in termini di sapere, creatività, innovazione accentuerebbe le diseguaglianze tra individui a livello di reddito, occupazione, salute e mobilità. Sarebbe, pertanto, opportuna per l’Autore una strategia di
Ne consegue che il sindacato è chiamato, allora, ad operare su nuovi terreni e a tutela di nuovi interessi, anche al fine di fronteggiare tutte le possibili forme di esclusione sociale e dall’apprendimento permanente, ciò al fine di proteggere, responsabilizzare e rafforzare il lavoratore anche nel mercato del lavoro. Nel Capitolo IV, al quale si rinvia, si analizzeranno le soluzioni che la più recente contrattazione collettiva ha inteso adottare per fronteggiare tali questioni.
1.2 L’analisi sociologica ed economica del fenomeno.
Anche in sociologia ed economia è stato sostenuto che la nostra piuttosto che una società dell’informazione sia una società della conoscenza. La peculiarità della società in cui viviamo, infatti, non si rintraccerebbe tanto nella (grande) quantità di informazioni che circolano – fenomeno, questo, già presente nella società industriale – quanto nella necessità sempre più ineludibile di produrre nuova conoscenza94. Ciò comporta che la conoscenza, da un lato, deve essere acquisita, interpretata e metabolizzata, dall’altro lato, essa diventa un processo di tipo sociale: per produrre conoscenza sarebbero, infatti, necessarie cooperazione e condivisione di senso95.
Al riguardo, occorre evidenziare che in campo sociologico è stata elaborata una definizione di professionalità come “reflection-in-action” (riflessione in azione), e cioè attività di conoscenza nell’azione96. Tale tesi, però, è stata originariamente elaborata con esclusivo riferimento alle professioni liberali classiche (medici, architetti, avvocati, ecc.) poiché tali lavoratori tradizionalmente si contraddistinguono per una serie di elementi: professionalità ben distinta frutto di uno specifico percorso di studi; ordini professionali con loro codici etici o, meglio, deontologici nonché una legittimazione sociale, ossia un ruolo rilevante nella società e nel mercato97.
La fondamentale questione che si è posta con insistenza in letteratura consiste, allora, nel verificare se sia possibile utilizzare il concetto di professionalità anche per il lavoro subordinato nell’ambito dell’impresa.
A tale domanda, la letteratura ha dato innumerevoli risposte che possono essere ricondotte a tre posizioni differenti:
a) alcuni hanno sostenuto che la società post-moderna è caratterizzata da una comunità di professionisti: tutti divengono professionisti, nascono ordini più o meno definiti e legittimati giuridicamente (ma definiti in termini sociali).
innalzamento dei livelli delle competenze della popolazione al fine di contrastare le diseguaglianze ma anche per promuovere coesione sociale e crescita economica sostenibile.
94 In tal senso X. XXXXXXX, Professionalità e società della conoscenza, in M. NAPOLI (a cura di), La professionalità, V&P Università, Milano, 2004.
95 Ibidem. Per tale ragione, Xxxxxxx ritiene che la società verso cui andiamo sarà sempre più caratterizzata da reflective practitioners: non solo, dunque, knowledge workers (i lavoratori della conoscenza), ma anche relational workers, e cioè lavoratori che devono possedere delle capacità relazionali.
96 Cfr. D. SCHON, Il professionista riflessivo, Xxxxxx, Xxxx, 0000.
97 In tal senso X. XXXXXXXXX, Professionalità e organizzazione, in M. NAPOLI (a cura di), La professionalità, cit., p. …. In altri termini, il concetto di professione sarebbe legato ad un qualcosa non facilmente misurato o misurabile, quindi per l’Autore quello che rileva sarebbe molto il passaparola, la reputazione.
b) secondo un orientamento più pessimista, si ha un impoverimento del sistema in termini professionali98;
c) una terza posizione, per così dire intermedia, ritiene che stia emergendo una situazione nuova e differente dal passato. Nello specifico, una recente dottrina, muovendo dalla constatazione che il contesto economico e produttivo è in parte cambiato rispetto agli anni ’90 – periodo in cui è stata enucleata la teoria della professionalità come “reflection-in-action” –, giunge alla conclusione che il contesto sopra descritto tende ad estendersi anche a tutte le altre occupazioni99. Onde, secondo questa tesi, la distinzione, coniata nell’età moderno-industriale, tra professioni e occupazioni sarebbe destinata a scomparire, come anche quella tra lavoro autonomo e subordinato, atteso che il lavoro subordinato, da un lato, acquisirà sempre più caratteri di flessibilità, dall’altro lato, perderà quelle peculiarità routinarie proprie di una specifica organizzazione del xxxxxx000.
Secondo una contrapposta opinione, invece, ancora oggi vi sarebbero alcuni lavoratori che non possono essere considerati “professionisti”101. Il problema fondamentale nonché discrimine fondamentale tra knowledge workers e lavoratori “diversi” da questi è, allora, la “proprietà”, la “portabilità” e “disponibilità” del know how acquisito: i primi possono spendere nel mercato dl lavoro le competenze sviluppate; i secondi, invece, usciti dall’azienda non riuscirebbero a riutilizzare e, quindi, a far valere sul mercato del lavoro il loro sapere in quanto intimamente collegato all’organizzazione di provenienza.
In definitiva, secondo questa contrastante opinione, nell’attuale contesto produttivo vi sono delle novità ma anche alcuni aspetti del passato: emergono nuovi temi, quali l’intelligenza, la relazionalità, ma continuano a permanere alcuni aspetti di esecuzione e non di professionalità.
Vi sono anche posizioni discordanti che mettono in guardia sul fatto che attorno a questi temi e, in particolare, attorno al termine “professionalità” si sia creata “una delle più tenaci illusioni ottiche generate dal postfordismo”102. Tuttavia, come già anticipato nell’Introduzione, gran parte della dottrina afferente a discipline economiche o di management ha sostenuto che la professionalità
98 Cfr., fra gli altri, X. XXXXXX, La fine del lavoro: il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Xxxxxxx & Castoldi, Milano, 1996.
99 Cfr. X. XXXXXXX, Professionalità e società della conoscenza, cit., p. …
100 Ibidem. Ad avviso di Xxxxxxx, invero, il mondo del lavoro del futuro sarà caratterizzato da lavori di qualità con maggiori contenuti professionali.
101 In tal senso X. XXXXXXXXX, Professionalità e organizzazione, cit., p. …. A tal fine, l’Autore ha coniato la categoria dei c.d. esecutori intelligenti, ossia lavoratori che non si limitano ad eseguire prestazioni routinarie e semplici per le quali è possibile anche non pensare (modello del taylorismo) ma sono chiamati a sviluppare ed utilizzare competenze (soprattutto quelle relazionali) sempre maggiori ma sono anche tenuti ad impiegare una forte dose di attenzione e di possedere una conoscenza tecnica delle macchine. Il rilevante limite di questa tipologia di lavoratori è, però, quello di non riuscire a spendere nel mercato del lavoro il know how acquisito, essendo esso fortemente legato all’organizzazione del lavoro dell’azienda di provenienza. Ad esempio, è stato evidenziato che gli operai – i quali oggi sono, senza dubbio, chiamati ad essere più veloci ed attenti alla qualità del lavoro nonché a possedere capacità in passato non richieste (come, ad es., multitasking e team working) – continuano ad essere “operai” (seppur in modo diverso rispetto al passato).
102 X. XXXXX, Apparenze postfordiste, in La rivista del Manifesto, n. 16, aprile 2001. In particolare, l’Autore poggia la sua tesi sulla distinzione tra la “specializzazione” e la “professionalità”, dove la prima consiste in un “insieme di mansioni predefinite che esigono un certo xxxxx, più o meno alto, di conoscenze tecniche” (qualcosa di impersonale, “una prerogativa oggettiva” suscettibile di essere valutata in base a parametri socialmente condivisi), mentre la seconda non indicherebbe una competenza particolare ma costituirebbe “il termine pudico con cui si designa la messa al lavoro dei tratti più generici della persona”, ossia “l’arte di stare al mondo”. Conferma di ciò si ritroverebbe nella prevalente manualistica sulla gestione delle risorse umane che, a detta dell’Autore, darebbe maggior rilievo, nei colloqui di assunzione, alle propensioni, alle abitudini ed ai valori del candidato invece che alle sue conoscenze tecniche.
rappresenta la chiave per il successo dell’impresa e per il rilancio dell’intero sistema economico nonché il criterio che deve ispirare l’organizzazione aziendale103.
Quanto all’esigenza di pervenire ad un nuovo contratto di lavoro ridefinendo i contenuti dello stesso, essa è stata espressa da alcuni sociologici del lavoro ed economisti.
Nel dettaglio, è stato anzitutto osservato come sia venuto meno il contratto sociale fondato sullo scambio tra sicurezza sociale, garantita da rapporti di lavoro stabili, e fedeltà all’azienda104. Da qui la necessità di costruire un diritto alla professionalità (o meglio, un diritto alla formazione) come diritto di cittadinanza funzionale all’elaborazione di un nuovo contratto sociale all’altezza delle sfide attuali. Il “nuovo” scambio dovrebbe allora essere tra la flessibilità del rapporto di lavoro e l’opportunità di sviluppare competenze e conoscenze pratiche sempre rinnovate e adeguate alle esigenze di reflection-in-action.
Anche autorevoli economisti, prendendo le mosse dall’analisi del mutato contesto economico- produttivo, hanno sottolineato che l’oggetto dello scambio tra datore di lavoro e lavoratore subordinato non può più consistere in una mera messa a disposizione delle energie psicofisiche (“fate di me quello che volete nelle otto ore di tempo”)105. Le attuali esigenze della produzione sembrano richiedere, infatti, professionalità ed impegno: i datori di lavoro cercano un lavoratore partecipe e motivato, oltre che “fidelizzato”. Da qui anche la difficoltà per gli operatori del diritto e le parti sociali a trascrivere tutti questi elementi all’interno di un contratto di lavoro (sia esso collettivo o individuale).
Secondo questa tesi, infatti, il contratto di lavoro diventerà sempre più “incompleto” dal punto di vista dello scambio effettivo106. In definitiva, il capitale umano107 sembra assumere una rilevanza sempre più importante, ma risulta anche difficilmente misurabile e definibile108.
103 Cfr. sul punto X. XXX, La professionalità, cit., p. 763.
104 Cfr. X. XXXXXXX, Professionalità e società della conoscenza, cit., p. …
105 Cfr. C. DELL’ARINGA, Professionalità e approccio economico, in M. NAPOLI (a cura di), La professionalità, V&P Università, Milano, 2004, p. … In particolare, l’Autore rileva come il datore di lavoro non esiga più la quantità ma la qualità del lavoro, ciò in quanto, grazie al progresso tecnico, la produttività aumenta solo se aumenta anche la qualità della prestazione (che non consiste più in attività meramente esecutive, come l’avvitare un bullone, bensì nella capacità di intervento nelle situazioni impreviste).
106 Ibidem. Ad avviso di Xxxx’Xxxxxx, esistono numerosi metodi per rendere il contratto sempre più incompleto (gli economisti li stanno studiando già da tempo), in particolare giova ricordarne due: il primo fa leva sul comportamento dei singoli lavoratori che può essere influenzato da incentivi, premi, carriere e promozioni ed è interamente gestito dal datore di lavoro (le regole vengono definite in anticipo in modo tale che i lavoratori ne siano a conoscenza); il secondo, invece, ricorre ad incentivi collettivi quali il team working, la partecipazione, le relazioni industriali, una new organization, ecc. (tutto quello che fa sentire il lavoratore partecipe di un’avventura comune).
107 Per “capitale umano” gli economisti intendono quella variabile che determina il numero di ore di lavoro prestate (quantità) e la qualità di queste. Esso è distinto in: specifico, quando riguarda quella capacità professionale che ha un suo valore all’interno della singola organizzazione produttiva e non può essere trasferito in un’altra impresa; generale, quando può essere trasferito all’esterno ed ha un valore indipendente dall’impresa in cui viene utilizzato, cfr. sempre C. DELL’ARINGA, Professionalità e approccio economico, cit., p. …., il quale sostiene che la retribuzione del lavoratore rifletterebbe il capitale umano posseduto dal lavoratore di tipo generale, mentre non sempre accade lo stesso con il capitale di tipo specifico. Secondo l’Autore, infatti, tradizionalmente si è sempre remunerato il posto di lavoro attribuendo un valore economico alle competenze richieste dalle attività da svolgere, e non a quelle comunque possedute dal lavoratore. Ciò sarebbe avvenuto perché la valutazione del job, della mansione, dell’attività è quantificabile, quindi misurabile. Xxx Xxxx’Xxxxxx, però, si dovrebbe remunerare tanto la quantità quanto la qualità del lavoro (che sono pur sempre dimensioni individuali).
108 Le caratteristiche dell’individuo cadono in un campo difficilmente misurabile, per cui, essendo complicato quantificare la professionalità, essa non può essere facilmente inserita in un contratto, cfr. sempre C. DELL’ARINGA, Professionalità e approccio economico, cit., p L’Autore propone allora di adottare un approccio broad banding,
ossia poche qualifiche, pochi livelli di inquadramento al cui interno sono specificate le attività, le mansioni che possono
Tuttavia, ed è qui il profilo più problematico dal punto di vista giuridico, è stato osservato che anche la capacità di “misurare” il posto di lavoro, con il passare del tempo, sarebbe diventata sempre meno efficace, con la conseguenza che meriterebbe di essere accolto un concetto di professionalità che riguarderebbe non solo le caratteristiche “professionali” richieste dallo specifico posto di lavoro, ma anche le caratteristiche “professionali” personali del lavoratore, come persona distinta dal posto di lavoro. Da qui la rilevanza che può assumere, anche sotto il profilo retributivo, il complesso delle competenze possedute dal lavoratore o – come direbbero gli economisti – la “qualità” della prestazione.
1.3 L’analisi filosofica del fenomeno: la teoria (anche economica) delle capability
I temi della professionalità e della formazione del lavoratore suggeriscono preliminarmente di (ri)considerare i nessi tra diritto, mercato e occupazione109.
Ed infatti, come già accennato nell’Introduzione, negli ultimi tre decenni la riflessione dei giuslavoristi sembra essersi, infatti, spostata o, quantomeno, allargata al mercato del lavoro e al “suo” diritto110.
Peraltro, già da tempo, è stata sottolineata la necessità di affrontare i problemi del lavoratore come persona, ossia come “soggetto” e non solo come mero “oggetto” di sfruttamento del datore di lavoro o di protezione da parte dell’ordinamento giuridico111.
Adottando tali prospettive, la formazione assurge allora a concetto ambivalente, perché duplice, ma anche potenzialmente unificante. La formazione, infatti, costituisce, da un lato, un diritto sociale della persona che permette di reperire e svolgere un determinato lavoro nel quale si realizza ed eleva la personalità umana e professionale del lavoratore, dall’altro lato, essa è funzionale alle esigenze dell’impresa in quanto volta a dotare il capitale umano della “competenza oggettiva” necessaria112.
essere richieste al lavoratore, ma anche delle posizioni diverse che possono riflettere tanti fattori, tra cui anche le competenze. Ogni lavoratore potrebbe essere spostato da una posizione all’altra vedendo così incrementata la propria retribuzione che dovrebbe riflettere non tanto la tipologia del posto di lavoro, quanto la qualità della prestazione. Tuttavia, ciò potrebbe creare problemi e malumori perché legare la retribuzione alla qualità presuppone una valutazione, una misura del capitale umano. Al tal fine è, dunque, necessario introdurre strumenti di valutazione non solo il più possibile oggettivi e raffinati ma anche socialmente accettati e condivisi.
109 Cfr. X. XXXXXX, Occupabilità, formazione e «capability» nei modelli giuridici di regolazione dei mercati del lavoro, in DLRI, 2007, n. 113, pp. 4-5. L’Autore rinviene la ragione di questo cambiamento di prospettiva nel fatto che le tre principali forze che minano il compromesso sociale incorporato nel diritto del lavoro post-costituzionale (offerta mondiale di forza lavoro, prolungamento delle aspettative di vita e innovazioni tecnologiche) fanno sì che le nuove minacce si spostano dai luoghi dove si svolge la prestazione in altri luoghi (mercati del lavoro e territori).
110 Il diritto del mercato del lavoro non è un diritto che guarda soltanto al micro, al privato (come il diritto del rapporto di lavoro), ma anche al pubblico in quanto regola, in primo luogo, uno spazio spesso fisico talvolta immateriale (il mercato del lavoro), con particolare riguardo ai soggetti, pubblici o privati, che vi operano (centri per l’impiego, agenzie di somministrazione, Anpal, ecc.) e ai servizi (da ritenersi di carattere “pubblico” ed “essenziale”) e strumenti offerti per rendere ottimale l’incontro tra domanda e offerta di lavoro (servizi per il lavoro, politiche attive, assegno di ricollocamento, certificazione delle competenze, ecc.). Inoltre, è un diritto che instaura e disciplina rapporti interindividuali di tipo complesso perché involgono più soggetti (lavoratori, disoccupati, agenzie per il lavoro, centri per l’impiego, Inps, ecc.).
111 In tal senso X. XXXXXXX, Tecnica, tecnologia e ideologia della tecnica nel diritto del lavoro, in PD, 1, pp. 75 e ss.
112 Cfr. X. XXXXXX, Occupabilità, formazione e «capability», cit., p. 8.
È qui che entra in gioco il concetto di capability113, utilizzato da diversi giuslavoristi al fine di pervenire ad aperture cognitive inedite che permettano di comprendere, orientarsi e regolare al meglio la nostra materia114.
Al riguardo, occorre ricordare che il concetto in commento scaturisce dalla teoria economica utilitarista, in particolare dalla originale e alternativa (rispetto a quelle precedenti) teoria del benessere e della giustizia sociale dell’economista e filosofo indiano Xxxxxxx Xxx e della filosofa americana Xxxxxx Xxxxxxxx000. Tale termine-chiave è posto a fondamento di una teoria dello sviluppo in cui l’idea di ricchezza non è confinata ad una semplice crescita del PIL o del reddito individuale ma si estende al benessere, alla qualità della vita (non in astratto) ma riferita a condizioni reali di esistenza delle persone116.
Un’idea di giustizia, quindi, collegata al necessario riposizionamento della idea di libertà effettiva della persona situata collegata, a sua volta, ad un’idea di uguaglianza sostanziale di risultato, ossia di reali capacità e possibilità delle persone di raggiungere obiettivi consapevolmente scelti: in definitiva, si tratta non di una libertà intesa come assenza di vincoli o mera eguaglianza di opportunità o parità di chance di partenza, ma libertà di scegliersi una vita cui si dà un valore117.
Però, un’autorevole dottrina ha avvisato che una cosa è fondare le politiche del lavoro sulla capability for employment, che mira ad ampliare le capacità della persona di ottenere un lavoro funzionale ad un reddito vitale, altra cosa è fondarle sulla capability for valuable work, ossia la capacità di ottenere un lavoro adeguato al proprio progetto di vita che è anche capacità di scegliere liberamente il proprio lavoro, di poter perseguire un personale progetto di apprendimento o di vita, ecc.118.
In definitiva, la teoria delle capabiliy è una teoria economica interrelata ad una teoria filosofica della giustizia e dell’uguaglianza che presuppone una governance e una regolazione diffusa, decentrata e multilivello ma anche un approccio del giurista diverso (rispetto a quello neopositivista
113 La capability è, in primo luogo, combinazione, pertanto, ottimale di “funzionamenti”, ossia “stati di essere e di fare” dell’esistenza (stare in buona salute, cibarsi, curarsi, studiare, lavorare, partecipare alla vita della comunità, ecc.), cfr. X. XXXXXX, Occupabilità, formazione e «capability», cit., pp. 12-13. L’Autore per far comprendere la differenza tra funzionamento e capability fa un esempio: lo stato di digiuno attiene al funzionamento alimentare, ma una cosa è digiunare per indigenza (mancanza di capability) altra digiunare per scelta.
114 Cfr., oltre al saggio di Xxxxxx già citato, anche R. DEL PUNTA, Brevi divagazioni sulle “capabilities”, in AA.VV., Formazione e mercato del lavoro in Italia e in Europa. Atti del XV Congresso nazionale di diritto del lavoro, S. Margherita di Pula (Cagliari), 1-3 giugno 2006, Aidlass Annuario di diritto del lavoro n. 41, Xxxxxxx, Milano, 2007, pp. 277 e ss.; Id., Labour Law and the Capability Approach, in Intern. Journ. Comp. Lab. Law Ind. Rel., 2016, n. 4, pp. 383 e ss.;; X. XXXXX, Persona e impresa nel diritto del lavoro, in AA.VV., Diritto e libertà. Studi in memoria di Xxxxxx Xxxx’Xxxx, Xxxx XX, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2008, p. 1246.
115 Cfr. X. XXXXXXXX, X. XXX (a cura di), The quality of life, Oxford University Press, 1993.
116 Cfr. X. XXXXXX, Occupabilità, formazione e «capability», cit., pp. 10-11.
117 In tal senso A. SEN, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano, 2000, pp. 93 e 124 come richiamato da X. XXXXXX, Occupabilità, formazione e «capability», cit., p. 11, note 40-41 e 44, il quale osserva che il concetto di capability contiene una concezione liberale (non libertaria né liberista) di “individualismo responsabile”: ognuno ha la responsabilità di scegliere consapevolmente il proprio stile e progetto di vita.
118 Cfr. sempre X. XXXXXX, Occupabilità, formazione e «capability», cit., pp. 13-14. In quest’ottica, la disoccupazione, pertanto, non è soltanto una condizione di povertà dovuta alla mancanza di redditi ma anche una condizione di povertà nel senso di “mancanza delle basilari capabilities” e, quindi, causa di “effetti debilitativi di larga portata sulla libertà del singolo, sulla sua capacità di iniziativa e sulla sua professionalità” (indebolisce la capacità di cavarsela, la sicurezza e la fiducia in sé, la salute psico-fisica) ma anche ha un impatto sulla “esclusione sociale”, cfr. X. XXX, Lo sviluppo è libertà, cit., p. 20 e ss. Per Xxxxxx, pertanto, le politiche di contrasto alla disoccupazione devono allora essere non solo passive (trasferimenti monetari) ma soprattutto attive, ossia responsabilizzazione e attivazione della persona al fine di un’occupazione di qualità.
e neomonista) improntato al c.d. “diritto riflessivo”: i diritti e le norme non vanno considerati in assoluto ma anche per le conseguenze che producono nella realtà119.
In questo quadro, la formazione può assurgere certamente a strumento di sviluppo delle capability ed essere quindi funzionale all’accrescimento delle libertà (anche di scelta) della persona, però dipende sempre come viene pensata e regolamentata.
Di certo, le politiche in materia di lavoro degli ultimi decenni hanno tentato di valorizzare e incentivare la formazione dei lavoratori, però – è stato osservato – con atteggiamento e intento politico non univoco. Ed infatti, da un lato, è senza dubbio presente nelle politiche europee (ma anche nazionali) una concezione della formazione come “bene pubblico” riferito alle capability della persona120, dall’altro lato, spesso l’enfasi delle istituzioni è stata posta su concetti quali occupabilità e adattabilità nelle loro accezioni esclusivamente strumentali all’efficienza del mercato e alle esigenze di produttività e concorrenza delle imprese, e cioè come valorizzazione della (sola) competenza professionale del lavoratore funzionale ai richiamati interessi121.
1.4 L’analisi giuslavoristica del fenomeno
I temi della professionalità e della formazione, affrontati nei paragrafi precedenti (in modo inevitabilmente conciso e sommario) da un punto di vista sociologico, economico e finanche filosofico, sono stati già da tempo presi in considerazione dai giuslavoristi.
In questa sede, pare opportuno ricostruire alcuni dibattiti che si sono svolti nella letteratura giuridica, anzitutto, attorno alla specificazione dei principali concetti già ampiamente evocati ed utilizzati nella presente ricerca: professionalità, competenze (ma anche conoscenze, abilità e attitudini professionali) e formazione (nelle sue numerose varianti). Nel far ciò si terrà altresì conto delle definizioni proposte dalla giurisprudenza e, ancor di più, di quelle recepite dal legislatore e, quindi, ormai parte integrante del diritto positivo.
119 Cfr. ancora X. XXXXXX, Occupabilità, formazione e «capability», cit., p. 17. Per l’Autore il rapporto tra diritti e capability è di complementarietà: lo sviluppo delle capacità ha spesso bisogno dei diritti; viceversa, le capability completano i diritti nel senso che assicurano la loro effettività sul piano pratico. In altri termini, non sarebbe sufficiente affermare un diritto se poi questo non ha in sé lo strumento della sua realizzazione (diritto come fine ma anche mezzo, diritto come tutela sostanziale ma anche procedurale). Per Xxxxxx e Sen, anche il mercato e il diritto della concorrenza possono promuovere le capability (attivando la responsabilità individuale, il dinamismo, la capacità di adattamento alla realtà economico-sociale-tecnologica), però per gli Autori è anche necessario un intervento di correzione delle sue asimmetrie, altrimenti alcune capability verrebbero inevitabilmente trascurate (istruzione, salute, formazione generale, lavoro di qualità, ecc.).
120 Tale imprinting può essere individuato in una serie di politiche e innovazioni normative: previsione di congedi formativi all’interno del rapporto di lavoro; politiche sociali inclusive ed antidiscriminatorie; interconnessione tra sistemi di educazione e formazione e loro centralità quale servizio pubblico; importanza del lifelong learning non solo in funzione del mercato del lavoro ma anche per il soddisfacimento di sé, di personali aspirazioni e progetti; valorizzazione della formazione nel mercato del lavoro mirata alla persona e ai suoi bisogni, quindi la predisposizione di strumenti che rendano trasparente, certificata e “portabile” la formazione accumulata, ecc.
121 E, quindi, la prospettiva, adottata è soltanto quella della “razionalità economica” che non tiene conto di “altre” dimensioni (quali quella delle capability e della libertà individuale di scelta e realizzazione di un progetto personale) cfr. in tal senso X. XXXXXX, Occupabilità, formazione e «capability», cit., p. 22.
1.4.1 La professionalità
Con riferimento al tema della professionalità, è stato osservato che tale termine rappresenta certamente una di quelle parole che ricorrono con più frequenza nel dibattito economico, sociologico, organizzativo e produttivo nonché giuridico degli ultimi decenni122. Ed infatti, se quelli descritti nei paragrafi precedenti sono stati i risultati, ovviamente non univoci e anzi spesso discordanti, a cui sono pervenuti gli altri settori del sapere, i giuslavoristi hanno ritenuto di dover tenere in considerazione quei risultati, seppure con la debita cautela, nello svolgimento dei loro discorsi.
Al riguardo, occorre far presente che già a livello semantico alcuni dei termini giuridici “classici” inerenti alla prestazione lavorativa (qualifica, mansioni e categoria) hanno lasciato in campo ad una definizione più sintetica e più generica del patrimonio che il lavoratore offre al datore di lavoro in cambio di una retribuzione, la professionalità appunto123.
Quanto alla sua definizione, è, senza dubbio, arduo dare una definizione univoca, condivisa e chiara di un concetto che, peraltro, nel linguaggio comune e quotidiano viene spesso utilizzato senza catturarne le sue varie e molteplici dimensioni. La professionalità sembra, pertanto, essere una categoria polisemica124.
Lo stesso Xxxxxx, probabilmente il principale studioso in Italia di queste tematiche, piuttosto che ricercare “astratte definizioni” preferiva rifarsi alla contrattazione collettiva, in particolare quella aziendale, dove la professionalità veniva definita puntualmente con apposite formule oppure attraverso gli strumenti predisposti per la tutela e l’acquisizione/accrescimento della xxxxxx000.
Tuttavia, sulla base del dato normativo (legge ma anche contrattazione collettiva), della ricostruzione dottrinale e degli orientamenti espressi dalla giurisprudenza, è possibile provare a dare una definizione (giuridicamente rilevante) di professionalità.
Parte della dottrina giuslavorista nel definire la nozione ha ritenuto di rifarsi al significato suggerito dall’etimologia. In particolare, per “professionalità” si intende la capacità di svolgere la propria attività con competenza ed efficienza.
Con specifico riferimento al rapporto di lavoro, pertanto, essa costituisce l’insieme di “attitudini professionali richieste dalla natura delle mansioni da svolgere”126. In altri termini, la
122 Cfr., fra i primi, X. XXX, La professionalità, in Riv.giur.dir. del lav.prev.soc., 2003, n. 4, pp. …
123 Cfr. X. XXX, La professionalità, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2003, fasc. 4, p. 764. La giurisprudenza inizia ad utilizzare l’espressione “professionalità” già a fine anni ’60 (vd. Corte cost., sent. n. 11/1968 che ha deciso varie questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento alla legge 3 febbraio 1963, n. 69 avente ad oggetto l’ordinamento della professione di giornalista: in questa pronuncia la parola “professionalità” è utilizzata prevalentemente nella sua accezione di esercizio continuativo/abituale dell’attività lavorativa, anche se non mancano collegamenti con altri elementi (ad es., la dignità del giornalista).
124 Cfr. X. XXXXXXXXX, Dimensioni e trasformazioni della professionalità, in X. XXXXXXXX, X. XXXXXXXXX, X. XXXX, (a cura di), Il lavoro 4.0. La Quarta Rivoluzione industriale e le trasformazioni delle attività lavorative, Firenze University Press, 2018, p. 159.
125 Cfr. X. XXXXXX, Qualifica, mansioni e tutela della professionalità, cit., p. 4, in particolare nota 4, dove è riportato, a titolo esemplificativo, la definizione di professionalità contenuta nell’accordo Xxxxxxx («insieme di conoscenze e capacità derivanti dalla formazione di base (titolo di studio, o livello culturale equivalente), delle conoscenze professionali specifiche, dall’esperienza acquisita e concretamente utilizzabile»).
126 Cfr. X. XXXXXX, Contratto e rapporti di lavoro oggi, in Le ragioni del diritto, Scritti in onore di Xxxxx Xxxxxxx, II, Xxxxxxx, Milano, 1995, p. 1121. In dottrina, non è mancato però chi ha inteso la professionalità in un senso più ristretto, limitato alle “competenze trasversali e comportamentali” richieste per l’esecuzione della prestazione lavorativa, cfr. D. MOSCA, X. XXXXXXXXXX, La valorizzazione economica della professionalità nella contrattazione collettiva, in DRI, n. 3,
p. 799. Nel citato contributo vengono, infatti, analizzati tre accordi aziendali che hanno introdotto sistemi retributivi
professionalità del lavoratore è il “patrimonio di conoscenze teoriche, di capacità pratiche, di abilità operative specifiche, di esperienze, attitudini e idoneità”127.
Pertanto, la professionalità può riferirsi – come appena visto – tanto al bagaglio “immateriale” di conoscenze e capacità posseduto dal lavoratore (professionalità soggettiva) quanto ai compiti, al lavoro, al mestiere o alla professione da svolgere (professionalità oggettiva)128.
Oltre alle accezioni della professionalità sopra descritte vi è anche una nozione (o accezione) di professionalità più “ristretta” o, se si vuole, “neutra” che guarda alle modalità di svolgimento del lavoro (quomodo) nel senso di esercizio a scopo di lucro, abituale e continuativo, unico o prevalente di una determinata attività lavorativa129.
Un’autorevole dottrina, muovendo da studi sulla formazione e qualificazione del personale, ha rinvenuto nella professionalità ulteriori due configurazioni: quella – già descritta – di “capacità di esecuzione di prestazioni più o meno complesse” (professionalità che potremmo definire attuale, acquisita), l’altra da intendersi come “possesso di risorse cognitive e tecniche atte a consentire, previa breve formazione, l’esecuzione di altre prestazioni” (professionalità che potremmo definire auto-generativa, potenziale)130.
In ogni caso, sembra anche parzialmente condivisibile la precisazione secondo cui il termine “professionalità” altro non è che un predicato che, in quanto tale, per potere avere una certa rilevanza necessita sempre di un complemento131. La professionalità presenta, pertanto, una certa
incentivanti (premi individuali) di valutazione e riconoscimento economico delle performances. Tali sistemi vengono però definiti come “sistemi retributivi legati alla professionalità”, benché si tratti, in realtà, e per stessa ammissione degli Autori, di sistemi che premiano le “competenze che un lavoratore esprime nell’adempimento della prestazione lavorativa”, ossia la singola prestazione o il risultato conseguito dal lavoratore, in altri termini il rendimento, più qualitativo che quantitativo, del lavoratore. Al riguardo, è appena il caso di rilevare che la professionalità prescinde dalla prestazione (o performance) nel senso che il lavoratore potrà anche svolgere (volontariamente o no) la propria prestazione senza impiegare la professionalità che possiede.
127 Cfr. X. XXXXXX, La mobilità interna del lavoratore, Xxxxxxx, Milano, 1997, p. 138.
128 La professionalità oggettiva si può riassumere come la capacità tecnica-professionale del lavoratore a svolgere una determinata attività. Tendenzialmente la professionalità soggettiva è sempre, e salvo rari casi (ad es. apprendistato o percorso di crescita professionale individuale pattuito con l’azienda, più ampia della professionalità oggettiva perché il lavoratore nell’espletamento della sua attività lavorativa impiega generalmente meno “competenze” di quelle che ha conseguito nell’arco della sua intera vita (professionale o no). Gli esempi che si possono fare sono infiniti: basti pensare, a titolo esemplificativo, alla segretaria che sa parlare 3 lingue straniere ma ne utilizza solo una, all’insegnante avvocato o musicista.
129 Cfr. X. XXXXXX, Xxxxxxxx e qualifica nel rapporto di lavoro, cit., pp. 58-59 e la bibliografia ivi contenuta. L’autore individua infatti nella qualifica soggettiva del lavoratore due accezioni: la professionalità in senso stretto sopra descritta e la capacità tecnica di lavoro (ossia l’idoneità concreta all’esplicazione di un’attività lavorativa) che prescinde dall’attualità dell’esercizio dell’attività lavorativa. Senonché, l’ordinamento positivo è stato, di norma, indifferente rispetto a questo tipo di professionalità nell’ambito del rapporto di lavoro, in particolare al fatto che il lavoratore abbia svolto in passato la suddetta attività. Una qualche rilevanza alla qualifica soggettiva era data con riferimento al sistema (pubblico) di collocamento. In realtà, oggi, il discorso da fare è un po’ diverso in quanto la professionalità (soggettiva) rileva, se non nel rapporto, quantomeno nel mercato del lavoro: basti pensare al concetto di offerta di lavoro congrua, rilevante ai fini della conservazione dell’assegno di ricollocazione a sostegno dello stato di disoccupazione, che è valutata, in primis, in termini di «coerenza con le esperienze e le competenze maturate» (d.lgs. n. 150/2015, art. 25, comma 1, lett. a); vd. anche il d.m. 10 aprile 2018, Definizione dell’offerta di lavoro congrua ai sensi degli art. 3 e 25 del d.lgs. n. 150/2015). Per un’analisi più approfondita del principio di condizionalità e, più in generale, delle tecniche adottate dal legislatore italiano (e non) volte alla responsabilizzazione del disoccupato, cfr. X. XXXXXX, X. XXXXXXX, Verso il diritto del lavoro della responsabilità: il contratto di ricollocazione tra Europa, Stato e Regioni, WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT – 283/2015.
130 Cfr. X. XXXXXXX, La cornice legale, cit., p. 46, il quale proponeva di abbracciare entrambe le configurazioni nella valutazione dell’equivalenza delle mansioni ai sensi dell’art. 2103 c.c. al fine di evitare una rapida obsolescenza delle competenze del lavoratore e, quindi, una limitata possibilità di riqualificazione (cfr. cap. III, parte I, par. n. …).
000 Xxx. X. XXX, Xx professionalità, cit., pp. 764-765. Anche se non si condivide del tutto la conclusione dell’Autore secondo cui la professionalità non potrebbe essere definita in sé ma deve essere necessariamente posta in relazione al relativo rapporto di lavoro.
ambiguità132 tra il suo profilo soggettivo, cioè le competenze professionali possedute dal lavoratore (che – come avremo modo di dimostrare – trovano sempre più rilevo anche nel rapporto di lavoro), e quello oggettivo relativo alla natura delle prestazioni lavorative alle quali il lavoratore è tenuto in ragione della stipulazione del contratto di lavoro.
È stata, infatti, evidenziata la tensione, sempre presente nello svolgimento dell’attività lavorativa, tra c.d. professionalità “soggettiva” (attitudine professionale talvolta certificata da attestati) e professionalità “oggettiva” (la sintesi descrittiva delle mansioni da svolgere)133.
E così, una dottrina risalente ha definito la professionalità rilevante all’interno del rapporto di lavoro soltanto come “espressione riassuntiva” della qualifica o dell’“area ad essa ricollegabile in base ad elementi di giudizio ricavabili dall’esperienza (nonché dalla contrattazione collettiva)”134.
Non stupisce, allora, che parte della dottrina successiva, in ragione dei cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro e, di riflesso, nei sistemi di inquadramento del personale, abbia ricostruito la nozione di professionalità in termini diversi sostenendo che essa “non si identifica più con un determinato e specifico profilo” bensì con un“insieme di conoscenze tecnico-pratiche in ordine al ciclo produttivo” che consentono al lavoratore di svolgere “una serie dinamicamente variabile di funzioni caratterizzate da un certo grado di complessità”135. In altri termini, secondo questa tesi, la professionalità si identifica con l’“idoneità a rivestire un ruolo all’interno dell’organizzazione del datore di lavoro”136. È evidente in questi Autori l’intento di valorizzare la professionalità in concreto posseduta dal lavoratore subordinato e, allo stesso tempo, di farla aderire maggiormente alle nuove forme di organizzazione aziendale, appagando così anche le esigenze imprenditoriali di una maggiore flessibilità nell’utilizzo della prestazione lavorativa e delle risorse umane.
In dottrina è stato allora sostenuto che il contratto di lavoro realizzerebbe uno scambio tra professionalità e retribuzione137. In particolare, la professionalità dovrebbe essere utilizzata non soltanto come criterio delimitativo dei poteri del datore di lavoro ma contrassegnare ab origine l’oggetto stesso del contratto di lavoro138.
Tuttavia, è stato osservato che il mercato del lavoro richiede sempre più spesso una professionalità costituita anche (se non soprattutto) da caratteristiche personali dell’individuo (e non solo qualificazioni professionali derivanti dal sistema formativo o dall’esperienza lavorativa). Pertanto, accogliendo la tesi della professionalità come oggetto del contratto di lavoro, la conseguenza ultima sarebbe affermare che nel rapporto di lavoro lo scambio avverrebbe tra una retribuzione e le caratteristiche personali dell’individuo, conclusione che anziché attenuare la soggezione personale del lavoratore nei confronti del datore di lavoro finirebbe per accentuarla139.
132 In tal senso, anche se con riferimento alla qualification professionnelle (termine assimilabile a quello italiano di “professionalità”), X. XXXXXX, Critique xx xxxxx xx xxxxxxx, XXX, Xxxxx, 0000, pp. 121-122.
133 Cfr. X. XXXXXX, Contratto e rapporti di lavoro, cit., pp. 1121-1122). Secondo quest’ultimo Autore, è proprio l’attitudine professionale (soggettiva) a costituire l’interesse tipico del datore di lavoro, come si evince a contrario dall’art. 8 della legge n. 300 del 1970.
134 Cfr. X. XXXX, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, cit., p. 175.
135 Cfr. X. XXXXXXXXX, Lavoro atipico, formazione professionale e tutela dinamica della professionalità del lavoratore, in DRI, 1998, n. 3, p. 319.
136 X. XXXXXX, Professionalità e contratto di lavoro, cit., p. 107.
137 In tal senso X. XXXXXXXXX, Il diritto del secolo. E poi?, in Il diritto del mercato del lavoro, n. 2, 1999, pp. ….; in termini analoghi, anche con riferimento alla dottrina francese, X. XXXX, Capacità, valutazione e insufficienza professionale nell’ordinamento francese, in Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, 2016, 149.
138 Cfr. X. XXXXXX, Contratto e rapporti di lavoro oggi, cit., p. 1122.
139 Cfr. X. XXX, La professionalità, cit., pp….
In definitiva, se si separa la professionalità da una concreta “professione” non rimangono che delle caratteristiche personali dell’individuo che non potrebbero costituire, da sole, l’oggetto dello scambio140.
Questa ricostruzione (invero tradizionale) muove da una lettura sistematica del diritto positivo141, in particolare degli artt. 2094 e 2103 c.c.: se la prima disposizione traccia gli incerti confini della subordinazione, è l’art. 2103 a delineare l’oggetto del contratto di lavoro quando, nel determinare i confini della pretesa datoriale all’adempimento, li ancora saldamente alle mansioni originariamente contrattate o ad altre cui il lavoratore potrà essere successivamente adibito142.
In definitiva, la professionalità non costituirebbe l’oggetto diretto del contratto di lavoro subordinato, anche se essa non è irrilevante in quanto il patrimonio professionale soggettivo del lavoratore è presupposto dell’adempimento nonché oggetto di apposita disciplina e tutela sia dentro che fuori dal rapporto di lavoro143.
La peculiarità di questo bene della vita è che esso, oltre ad essere immateriale e strettamente inerente alla persona del lavoratore, è per sua natura in continua evoluzione e, al contempo, mutevole e cedevole. Per tale ragione la giurisprudenza (che verrà analizzata ne dettaglio nel Cap. III, par. n. …) ha avuto modo di enfatizzare la dimensione “esterna” al rapporto di lavoro della professionalità, affermando che l’art. 2103 c.c. appresta una protezione del lavoratore, anche per il tramite della contrattazione collettiva144, volta a preservarlo dai danni a quel “complesso di capacità
140 Cfr. X. XXX, La professionalità, cit., pp. 765-768. Onde, secondo questa opinione, il lavoratore non cede (e non potrebbe farlo), in cambio di una retribuzione, la sua personalità o la sua intelligenza ma piuttosto scambia la sua capacità di svolgere una attività predefinita. Le prerogative personali, pertanto, non possono essere oggetto dello scambio, ma costituiscono il presupposto di qualsiasi lavoro (sia subordinato che autonomo) e della regolare esecuzione dello stesso. Ed infatti, non ha alcuna rilevanza il fatto che la prestazione sia resa nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato o autonomo: la professionalità richiesta per un corretto adempimento non varia in ragione del rapporto instaurato, ma a seconda di come venga descritta la prestazione stessa.
141 Interessante osservare che un primo riferimento normativo al concetto di professionalità è contenuto nella legge sull’impiego privato nella disposizione – peraltro richiamata dall’art. 95 disp. att. c.c. – volta a descrivere gli elementi di caratterizzazione del rapporto stesso (R.D.L. n. 1825/1924, convertito in legge n. …, art. 1, comma 1: «Il contratto d’impiego privato […] è quello per il quale una società o un privato […] assumono al servizio dell’azienda stessa […] l’attività professionale dell’altro contraente, con funzioni di collaborazione tanto di concetto che di ordine, eccettuata pertanto ogni prestazione che sia semplicemente di manodopera»), in tal senso X. XXXXXX, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, cit., p. 59, il quale conclude nel senso che tale requisito non andrebbe sopravvalutato sia perché nella casistica giurisprudenziale dell’epoca la rilevanza della professionalità si riferiva prevalentemente alla distinzione lavoro autonomo/subordinato e non anche alla distinzione tra prestazioni di lavoro subordinato sia perché l’idea sottesa al quel testo legislativo era di dedurre all’interno del contratto di lavoro una professione ipostatizzata, ossia preesistente al rapporto. Peraltro, la stessa figura dell’impiegato, a seguito dell’evoluzione dei modelli produttivi, aveva perso quelle peculiarità tali da farne uno status sociale/professionale tipico: in altri termini, secondo Giugni la professionalità dell’impiegato (prescritta nella legge sull’impiego privato) non corrispondeva più alla realtà economico-sociale dell’epoca.
142 Cfr., fra gli altri, sempre X. XXX, La professionalità, cit., p. 765.
143 La professionalità, pertanto, risulterebbe una sorta di presupposto o prerequisito: essa consentirebbe l’adempimento di quanto convenuto con il contratto di lavoro, ma ciò che viene dedotto nel contratto sarebbe pur sempre una prestazione (che il lavoratore sarà in grado di adempiere solamente se possiede la relativa professionalità), cfr. X. XXX, La professionalità, cit., p. 766, il quale ricorda anche che alcuni diritti connessi con la professionalità spettano a tutti i cittadini, altri soltanto ad alcuni lavoratori, altri ancora ai soli lavoratori subordinati.
144 Ed infatti, “nella determinazione delle mansioni e dei conseguenti livelli retributivi, l’autonomia del datore di lavoro, cui spetta l'organizzazione dell’azienda, è fortemente limitata dal potere collettivo”, è cioè sia dai “contratti collettivi” (nazionali) che dai “contratti aziendali”, cfr. Xxxxx xxxx., xxxx. 00 marzo 1989, n. 103. Peraltro, per la Corte costituzionale i contratti collettivi rappresentano “estrinsecazioni del potere delle associazioni sindacali” nonché “frutto e risultato di trattative e patteggiamenti”, di conseguenza costituiscono una “regolamentazione che, in una determinata situazione di mercato, è il punto di incontro, di contemperamento e di coordinamento dei confliggenti interessi dei lavoratori e degli imprenditori”. Allo stesso tempo, però, in quell’occasione è stata anche affermata l’esistenza di limiti anche per le parti sociali, segnatamente i principi costituzionali (fra gli altri artt. 3, 35, 36, 37 Cost.).
e di attitudini che viene definito con il termine professionalità, con conseguente compromissione delle aspettative di miglioramenti all’interno o all’esterno dell’azienda”145.
Anche nella dottrina è da tempo sostenuto che, benché non possa assurgere ad “oggetto” del contratto di lavoro, la professionalità del lavoratore (e non il suo corpo) costituirebbe pur sempre il “bene” offerto sul mercato del lavoro146. La professionalità, pertanto, rappresenterebbe anche il bene che il lavoratore “spende” nel mercato del lavoro, anche se, allo stesso tempo, l’identità professionale risulta anche (se non soprattutto) dalla posizione, anche in termini di posizioni giuridiche soggettive, conferita e scaturente dal contratto di lavoro147.
In ogni caso, anche i giuslavoristi sono concordi nell’accordare una certa importanza al tema della professionalità, rilevando altresì la necessità di approntare meccanismi e strumenti di tutela e riconoscimento della stessa quale diritto personale di cittadinanza.
Al riguardo, è stato rilevato che la circostanza per cui la professionalità costituirebbe un elemento strumentale rispetto a ciò che tecnicamente qualifica il rapporto di lavoro, non impedirebbe di considerarla oggetto di tutela, atteso che esistono nel nostro ordinamento due diritti di derivazione costituzionale: il diritto alla formazione ed all’elevazione professionale dei lavoratori ed il diritto alla tutela della professionalità posseduta (il primo avrebbe la sua rilevanza prevalentemente nell’ambito del diritto pubblico, il secondo nel rapporto di lavoro)148.
Secondo altri, il bene giuridico professionalità – sicuramente tutelato dall’art. 2103 c.c. come modificato dall’art. 13 della legge n. 300 del 1970 ma anche, seppur in termini diversi, dalla versione risultante dall’entrata in vigore dell’art. 3 del d.lgs. n. 81 del 2015 – sarebbe una specificazione nell’ambito del rapporto di lavoro del più ampio bene, avente rango costituzionale (art. 41, comma 2 Cost.), della dignità (professionale)149 della persona umana di fronte al quale ogni potere del datore di lavoro si dovrebbe arrestare150.
145 Cfr. Xxxxx xxxx., xxxx. 0 aprile 2004, n. 113, pur trattandosi di un obiter dictum.
146 Cfr. X. XXXXXXX, Tre commenti alla Critique du droit du travail di Xxxxxx, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1995, n. 67, pp. …
147 In tal senso X. XXXXXX, Critique du droit du travail, Presses Xxxxxxxxxxxxxx xx Xxxxxx, Xxxxx, 0000, p. 86.
148 In tal senso X. XXX, La professionalità,cit., pp….
149 Anche la giurisprudenza sembra aver accolto la nozione di dignità professionale, cfr. Cass. Civ., Sez. lav., sent. n. 11430/2006 su un caso di un lavoratore che rientrato in azienda dalla cassa integrazione non si è visto assegnare dal datore di lavoro alcuna mansione. In particolare, in quell’occasione la Corte di Cassazione ha affermato che la situazione di totale inattività costituisce non solo un inadempimento contrattuale in quanto “viola la norma di cui all'art. 2103 c.c.” ma anche violazione del “fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonchè dell'immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza”, onde tale comportamento lede “ un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore)”.
150 Cfr. X. XXXXXX, La mobilità interna del lavoratore, Xxxxxxx, Milano, 1997, p. 138 come richiamata da X. XXXXXXX, La tutela della dignità professionale del lavoratore, in Gior. Dir. lav. rel. ind., 2017, n. 156, 4, p. 668, secondo la quale la dignità umana e la dignità professionale starebbero in un rapporto di genus a species pur avendo la medesima matrice costituzionale (art. 41, comma 2 Cost.).
1.4.2 Competenze, conoscenze, abilità e attitudini professionali
Nozione distinta, anche se legata in qualche modo e, per questa ragione, spesso confusa nel linguaggio comune con quella di professionalità, è quella relativa alle competenze (anche utilizzata al singolare: competenza).
Anche qui è difficile rinvenire nella letteratura diversa da quella giuridica (scienze pedagogiche, psicologia, sociologia, scienze relative all’organizzazione e alle risorse umane, ecc.), una nozione unanimemente accolta di competenze151.
È più facile imbattersi in numerose definizioni152, il cui comun denominatore sembra però consistere in un “saper fare”, ossia un “sapere in azione”, un “bagaglio di conoscenze, attitudini, esperienze concretamente agite o agibili in un determinato contesto lavorativo”153.
Tuttavia, occorre far presente che la nozione ormai definitivamente accolta nel nostro ordinamento e, quindi, “positivizzata” è quella di cui all’art. 2, comma 1, lett. e) del d.lgs. n. 13/2013 a mente del quale per competenza deve intendersi la «comprovata capacità di utilizzare, in situazioni di lavoro, di studio o nello sviluppo professionale e personale, un insieme strutturato di conoscenze e di abilità acquisite nei contesti di apprendimento formale, non formale o informale»154.
151 Tant’è che il dibattito in dottrina sembra ancora aperto sul punto, cfr. F.D.L. XXXXX, X. XXXXXXXXX, What Is Competence?, in Human Res. Dev. Int., 2005, n. 8, pp. 27-46.
152 Una prima definizione – molto legata e funzionale alla qualità e produttività della prestazione lavorativa – è stata data, già negli anni ’70, da XxXxxxxxxx secondo il quale per competenza bisogna intendere “a personal trait or set of habits that leads to more effective or superior job performance”, cfr. D. XXXXXXXXXX, Testing for Competence Rather Than for "Intelligence" in America Psychologyst, 1973, n. 28, pp. 1-28. Anche le definizioni successive ponevano l’attenzione sul tratto “personale”, “lavoristico” e “qualitativo” della competenza (“an underlying characteristic of a person, which results in effective and/or superior performance on the job”, cfr. X. XXXXX, The assessment of occupational competence, in Report. Nat. Inst. of Edu, 1980). Tuttavia, col passare degli anni, la dottrina ha proposto una nozione più ampia di competenze, pensate semplicemente come un generico “saper fare” adattabile a qualsiasi cosa e dimensione della vita umana, e concentrando l’attenzione anche sul momento (e contesto) di acquisizione e apprendimento delle stesse (“competencies are skills and abilities; things you can do; acquired through work experience, life experience, study or training”, cfr., fra gli altri, X XXXXXXX, X. XXXXXXX, Competence at Work: Model for Superior Performance, Xxxx Xxxxx & Sons, New York, 1993), tutti gli Autori citati sono stati richiamati in X. XXXXXX, X. XXXXXX, X. XXXXXXXXX, X. XXXXXX, A Competency Model for "Industrie 4.0" Employees, in J.M. XXXXXXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), Proceedings der 13. Internationalen Tagung Wirtschaftsinformatik (WI 2017), St. Xxxxxx, 2017, p. 48.
153 Cfr. X. XXXXXXXXXX, Per un approccio giudico al tema delle competenze, cit., p. 115. Altri Autori hanno evidenziato gli elementi in comune e le somiglianze tra i concetti di know-how (l’“insieme di informazioni tecniche, descrizioni di processi produttivi, composizioni, formlule, progetti, disegni e dimostrazioni pratiche per la produzione di prodotti” ovvero “conoscenze pratiche derivanti da esperienze e prove, anche di carattere organizzativo, amministrativo e gestionale riguardante i servizi”, cfr. X. XXXXXXXX, voce Know-how, in Enc. giur. Treccani, vol. XVIII, 1990, p. 1 dell’estratto) e professionalità che ha molto in comune con l’accezione di know-how come “saper come fare” (“the know-how to do it”), cfr. X. XXXXXX, Professionalità e contratto di lavoro, cit., p. 100, nota 73.
154 Definizione, questa, per lo più mutuata da quella contenuta nella Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008 (2008/C 111/01) istitutiva del Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente (EQF) dove la competenza è espressamente definita come «comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale», con la peculiarità che, nel contesto del Quadro europeo delle qualifiche, le competenze sono descritte «in termini di responsabilità e autonomia» (Allegato I, Definizioni, lett. i). Bisogna anche ricordare che altre nozioni di competenza – in parte simili in parte sensibilmente diverse sotto alcuni aspetti – erano già presenti nell’art. 15 del regolamento di attuazione dei principi e dei criteri in materia di riordino del sistema di formazione ex art. 17 della legge
n. 197/1996 («patrimonio conoscitivo ed operativo degli individui il cui insieme organico costituisce una qualifica o figura professionale») e nel successivo art. 2 del d.m. n. 174/2001 («insieme strutturato di conoscenze e di abilità, di norma riferibili a specifiche figure professionali, acquisibili attraverso percorsi di formazione professionale, e/o esperienze lavorative, e/o autoformazione, valutabili anche come crediti formativi»). Il dato da evidenziare è che nelle varie nozioni che si sono succedute nel tempo si è andato progressivamente attenuando, se non azzerando, (prima) l’identificazione con e (poi) il riferimento alla qualifica o figura professionale: nel d.lgs. n. 13/2013, infatti, le competenze certificabili sono quelle riferibili a «qualificazioni» (ossia titoli di istruzione e di formazione, compresi
Ciò posto, le competenze possono ritenersi una sorta di sineddoche, una parte del tutto, o, se si preferisce dare rilievo alla dimensione qualitativa, una metonimia della professionalità, termine che
– come visto al par. n. …. – è più ampio in quanto raccoglie al suo interno significati e aspetti diversi dal “saper fare” (come, ad esempio, l’abitualità dell’esercizio dell’attività lavorativa o la sua onerosità).
Il legislatore italiano non ha però elaborato una definizione di conoscenza e abilità, circostanza questa che potrebbe far sorgere dei dubbi su ciò che può assurgere a oggetto concreto di certificazione155.
Tuttavia, un referente normativo (seppur di soft law) che può risultare utile ed attendibile è quello offerto dalla Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008, istitutiva del Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente (EQF).
Ai sensi della citata Raccomandazione per conoscenze deve intendersi il «risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento», in particolare esse costituiscono
«un insieme di fatti, principi, teorie e pratiche relative ad un settore di lavoro o di studio» che possono essere descritte (come avviene nel contesto del Quadro europeo delle qualifiche) come
«teoriche e/o pratiche» (cfr. Allegato 1, Definizioni, lett. g).
Di contro, le abilità indicherebbero «le capacità di applicare conoscenze e di utilizzare know- how per portare a termine compiti e risolvere problemi» che possono essere «cognitive (comprendenti l’uso del pensiero logico, intuitivo e creativo)» o «pratiche (comprendenti l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti)» (cfr. Allegato 1, Definizioni, della citata Raccomandazione, lett. h).
Interessante anche rilevare che la legge n. 300 del 1970 (c.d. Statuto dei lavoratori) ha fatto riferimento e dato rilevanza, all’interno del rapporto di lavoro e nel mercato del lavoro (e cioè nella fase di selezione e assunzione del personale, quando non è stato ancora instaurato il rapporto), alla nozione – anche qui non meglio specificata – di «attitudine professionale» del lavoratore, la cui valutazione (meritevole di tutela per l’ordinamento) funge da limite al divieto di indagini sulle opinioni politiche, religiose e/o sindacali del lavoratore e su qualsiasi altro fatto non rilevante (art. 8 St. lav.) 156.
Una volta chiarite tali nozioni, preme, sin da subito, evidenziare che il tema delle competenze, venuto alla ribalta nelle pratiche manageriali e oggetto di attenzioni da parte delle istituzioni sin dai primi anni ’90, è stato per lo più ignorato dalla prevalente dottrina giuslavoristica, salvo rari e rilevanti eccezioni. In particolare, quella dottrina che si è occupata dell’argomento già in tempi non sospetti ha posto la fondamentale questione se la nozione di “competenza” rileva soltanto sul terreno della formazione professionale o anche in campo giuridico incidendo sulla disciplina del
quelli di istruzione e formazione professionale, o di qualificazione professionale rilasciati da un ente pubblico titolato) contenute nel Repertorio nazionale di cui all’art. 8 del medesimo decreto legislativo.
155 Va però precisato che il legislatore si è preoccupato di specificare quali siano le “competenze” certificabili (cfr. sul punto cap. III, par. n. …).
156 La giurisprudenza, però, ha avuto modo di chiarire la locuzione affermando che per «attitudine professionale» bisogna intendere l’“obiettiva capacità, intellettiva o manuale, di svolgere un’attività lavorativa” (cfr., fra le altre, Cons. St., Sez. IV, n. 1671/1999). Tuttavia, tale nozione è da intendere elasticamente – estendendosi talvolta anche a fatti inerenti alla sfera privata del lavoratore, assumendo così più i tratti di una “idoneità” (piuttosto che “capacità”) – a seconda del tipo di mansioni che il lavoratore è chiamato a svolgere (cfr., ad es., Corte Cost., sent. n. 218/1994, che ha ritenuto legittimi le indagini sulla sieropositività del lavoratore nei casi in cui tale stato di salute sia rilevante ai fini dell’attività lavorativa a causa del rischio di contagio).
rapporto di lavoro per affiancarsi o sostituirsi alla nozione di “mansione” ai fini della determinazione dell’oggetto del contratto di lavoro157.
1.4.3 La formazione
Quanto alla formazione, occorre anzitutto precisare che essa può consistere in varie tipologie (professionale, iniziale, continua, permanente, alternata, integrata, ecc.) e assumere plurimi contenuti (di base, in materia di salute e sicurezza, ecc.) all’interno dell’ordinamento giuridico e, in particolare, nel rapporto di lavoro (ma anche nel mercato del lavoro) 158.
Xx infatti, preme sin da subito mettere in rilievo che la formazione può permeare integralmente e trasversalmente il rapporto di lavoro in tutti i suoi momenti: dalla instaurazione alla cessazione dello stesso, dall’inquadramento iniziale alla mobilità endo-aziendale, dall’esecuzione della prestazione lavorativa all’interpretazione della nozione di diligenza159. Allo stesso tempo, però, il termine formazione viene utilizzato spesso in senso improprio o confuso – talvolta anche consapevolmente mascherato – con altre forme di apprendimento più tenui e limitate, quali l’addestramento160.
Peraltro, è indubbio che la formazione professionale e il sistema costruito attorno ad essa implicano un’integrazione (strategica e profonda) tra diversi livelli di ordinamento (Unione Europea, Stato e Regioni) e sistemi tradizionalmente pensati come separati l’uno dall’altro: istruzione (classica e professionale), università, mondo del lavoro161.
Da queste considerazioni, si evince la difficoltà ad inquadrare e trattare una materia, come quella della formazione, a cavallo tra la disciplina del rapporto di lavoro e quella del mercato del lavoro162 che implica anche necessarie aperture cognitive ad altre discipline scientifiche.
a) La formazione professionale
La nozione di formazione professionale è, senza dubbio, anch’essa polisensa163 in quanto si compone di varie dimensioni, la cui ricostruzione e comprensione è resa problematica dall’assenza,
157 Cfr. X. XXXXXXXXXX, Per un approccio giuridico al tema delle competenze, in Osservatorio ISFOL, 1999, 20, n. 5-6,
p. 117. L’Autrice ha rinvenuto nelle competenze un possibile punto di “svolta” per la modifica della disciplina del rapporto di lavoro, in particolare per il superamento della centralità della nozione di mansioni nella determinazione dell’oggetto del contratto, rectius dell’obbligazione di lavorare.
158 In tal senso cfr., X. XXXXXXXXXX, Per un approccio giuridico al tema delle competenze, cit., p. 151.
159 Cfr. X. XXXXXXXX, Considerazioni su diritto alla formazione e contratto di lavoro, in X. XXXXXXXX, (a cura di), Problemi giuridici del mercato del lavoro, Xxxxxx, Napoli, 2004, p. 128.
160 A tal fine un utile riferimento normativo che può assurgere a criterio di orientamento generale (benché espressamente limitato a quel testo legislativo) è quello contenuto nel d.lgs. n. 81/2008 dove la formazione è definita quale «processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi» (art. 2, comma 1, lett. aa), mentre l’addestramento è definito semplicemente come «complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori l’uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuale, e le procedure di lavoro» (art. 2, comma 1, lett. cc).
161 In tali termini, X. XXXXXXXXX, Lavoro atipico, formazione professionale e tutela dinamica della professionalità del lavoratore, in DRI, 1998, n. 3, p. 317. Vedremo nel Cap. III, Parte II, par. n. … come un simile obiettivo di “integrazione” dei vari sistemi (scuola, formazione, lavoro, relazioni industriali, ecc.) sia particolarmente arduo con riferimento all’istituto della certificazione delle competenze.
162 Cfr. X. XXXXXX, Disciplina del mercato del lavoro ed esigenze formative, cit., p. 266, dove l’Autore sottolinea anche il passaggio epocale del diritto del lavoro: dal diritto del rapporto al diritto del mercato del lavoro, da un orizzonte distributivo ad un orizzonte produttivo.
sul piano normativo, di definizioni univoche della stessa. Tale locuzione, infatti, viene utilizzata da varie fonti di rango costituzionale/primario (anche sovranazionali)164, ma non viene mai esplicitamente definita dalle stesse.
La nozione andrebbe, pertanto, ricostruita prendendo in esame le fonti legislative (il dato positivo), con la insopprimibile difficoltà che in Italia non solo non esiste un quadro normativo organico della materia ma i vari nuclei di disciplina sembrano essere non del tutto comunicanti tra loro165.
In via generale, si ritiene che vadano ricondotti nell’alveo della formazione professionale i percorsi formativi volti al primo inserimento, al perfezionamento, alla riqualificazione e all’orientamento professionale per qualsiasi attività e finalità utili al conseguimento di una qualifica o di un diploma di qualifica superiore (con esclusione dei percorsi volti a conseguire un titolo di studio o diplomi di istruzione secondaria superiore, universitaria o post-universitaria)166.
Questa materia rientra, pertanto, nella competenza legislativa (esclusiva) delle Regioni, a seguito della riforma realizzata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 (art. 117, comma 4 Cost.)167. Ma nel concetto di “formazione professionale” può essere ricompresa anche la formazione erogata dai datori di lavoro ai propri dipendenti: essa, rientrando nel sinallagma contrattuale, è di competenza legislativa dello Stato in quanto afferente alla (macro)materia dell’«ordinamento
civile» (art. 117, comma 2, lett. l Cost.)168.
163 Cfr. X. XXXXXXXXXXX, Apprendimento e tutela del lavoro, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2013, p. 11.
164 Vd., ad es., l’art. 35, comma 2 Cost. (dove si parla della «cura» della «formazione» ed «elevazione» professionale dei lavoratori), l’art. 14 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (dove è sancito il diritto alla «formazione professionale e continua») e il Tfue, in particolare l’art. 6, par. 1, lett. e) (competenza dell’Ue al sostegno, coordinamento o completamento dell’azione degli Stati membri in materia di formazione professionale), l’art. 156 (dove la formazione professionale è oggetto di azioni dell’Ue volte a sostenere la cooperazione e coordinamento degli Stati membri al fine del raggiungimento degli obiettivi economico-sociali di cui all’art. 151, e cioè «la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l'emarginazione») e il Titolo XII (dedicato a Istruzione, formazione professionale, gioventù e sport), segnatamente l’art. 166 (politica dell’Ue volta a rafforzare ed integrare le azioni degli Stati membri in materia di formazione professionale). In particolare, l’Unione europea è attenta a: «facilitare l’adeguamento alle trasformazioni industriali, in particolare attraverso la formazione e la riconversione professionale»;
«migliorare la formazione professionale iniziale e la formazione permanente, per agevolare l'inserimento e il reinserimento professionale sul mercato del lavoro»; «facilitare l’accesso alla formazione professionale ed a favorire la mobilità degli istruttori e delle persone in formazione, in particolare dei giovani»; «stimolare la cooperazione in materia di formazione tra istituti di insegnamento o di formazione professionale e imprese» (art. 166, par. 2, Tfue).
165 Cfr. X. XXXXXXXXXXX, op. cit., p. 10.
166 Cfr. P. A. XXXXXX, voce Formazione professionale, in P. XXXXXXXXXXX (a cura di), Diritto del lavoro, in X. XXXX (promossi da), Dizionari di diritto privato, Xxxxxxx, Milano, 2010, p. 192.
167 In realtà, il riparto della competenza legislativa in materia di istruzione e formazione (spesso i due campi sono strettamente connessi tra loro) è stato reso alquanto complesso dalla riforma del Titolo V della Costituzione ad opera della l. cost. n. 3/2001: la competenza esclusiva delle Regioni in materia di istruzione e formazione professionale “riguarda la istruzione e la formazione professionale pubbliche che possono essere impartite sia negli istituti scolastici a ciò destinati, sia mediante strutture proprie che le singole Regioni possano approntare in relazione alle peculiarità delle realtà locali, sia in organismi privati con i quali vengano stipulati accordi” (Corte cost., sent. n. 50/2005); di contro, la disciplina della formazione “interna” (quella erogata in ambito aziendale dai datori di lavoro ai propri dipendenti) “di per sé non rientra nella menzionata materia, né in altre di competenza regionale; essa, essendo intimamente connessa con il sinallagma contrattuale, attiene all’ordinamento civile, sicché spetta allo Stato stabilire la relativa normativa” (Corte cost., sent. n. 24/2007). Entrambe le sentenze sono richiamate in Corte cost., sent. n. 287/2012 (in materia di tirocini), la quale ricorda altresì che i due titoli di competenza non sempre appaiono “allo stato puro” (cfr. anche Corte cost., sent. n. 176/2010 in materia di apprendistato).
168 Da qui la c.d. bipartizione della materia “formazione professionale”,cfr. P.A. XXXXXX, op. cit., p. 192.
Più nello specifico, il primo riferimento alla formazione professionale è contenuto nell’art. 1 della legge quadro n. 845 del 1978169, dove essa viene espressamente definita, in un’ottica promozionale («in attuazione degli articoli 3, 4, 35 e 38 della Costituzione, al fine di rendere effettivo il diritto al lavoro ed alla sua libera scelta e di favorire la crescita della personalità dei lavoratori attraverso l’acquisizione di una cultura professionale», comma 1), quale «strumento della politica attiva del lavoro» (comma 2).
Una seconda definizione, seppur limitata all’ambito applicativo di riferimento («Agli effetti del presente decreto legislativo…»), è data dall’art. 141 del d.lgs. n. 112 del 1998 dove per formazione professionale si intende «il complesso degli interventi» strumentali e finalizzati:
a) al «primo inserimento» nel mondo del lavoro, tra questi viene espressamente menzionata la
formazione tecnico professionale superiore;
b) al «perfezionamento», alla «riqualificazione» e all’«orientamento» professionali, ossia con una valenza prevalentemente operativa, «per qualsiasi attività di lavoro e per qualsiasi finalità», tra questi interventi vengono espressamente menzionati la formazione impartita dagli istituti professionali («nel cui ambito non funzionano corsi di studio di durata quinquennale per il conseguimento del diploma di istruzione secondaria superiore»), la formazione continua, permanente e ricorrente nonché quella «conseguente a riconversione di attività produttive».
Questi interventi riguardano tutte le attività formative volte al conseguimento di una qualifica, di un diploma di qualifica superiore o di un credito formativo, anche in situazioni di alternanza formazione/lavoro. Rientra nella suddetta nozione anche l’istruzione artigiana e professionale (d.lgs. n. 112/1998, art. 141, comma 3).
È stato anche osservato che la formazione professionale ben può essere svolta all’interno di un’impresa attraverso lo svolgimento di attività lavorativa subordinata (è il caso dell’apprendistato e dell’ormai abrogato contratto di formazione e lavoro) oppure attraverso strumenti e rapporti diversi (è il caso dei tirocini)170.
In conclusione, nel nostro ordinamento giuridico per “formazione professionale” si intende uno strumento della politica attiva del lavoro, il cui accesso è costituzionalmente tutelato e promosso (cfr. art. 35, comma 2 Cost. ed art. 14 Carta dei diritti fondamentali dell’Ue) non solo in chiave occupazionale ma anche in una prospettiva di libertà, uguaglianza, sviluppo della personalità e partecipazione alla vita economica, sociale e politica del Paese (cfr. art. 3 Cost.).
Essa può assumere diverse forme riconducibili essenzialmente a due dimensioni: l’una, strettamente interconnessa con il sistema di istruzione, è funzionale al primo inserimento nel mercato del lavoro e, quindi, destinata prevalentemente (ma non necessariamente) ai giovani (c.d.
169 L’art. 2, comma 1 della legge n. 845/1978 (abrogato dal d.lgs. n. 112/1998) definiva, invece, l’oggetto della formazione professionale: «Le iniziative di formazione professionale costituiscono un servizio di interesse pubblico inteso ad assicurare un sistema di interventi formativi finalizzati alla diffusione delle conoscenze teoriche e pratiche necessarie per svolgere ruoli professionali e rivolti al primo inserimento, alla qualificazione, alla riqualificazione, alla specializzazione, all’aggiornamento ed al perfezionamento dei lavoratori, in un quadro di formazione permanente» (corsivi nostri). La legge in commento, peraltro, aveva anche il fine di promuovere una formazione professionale di base “polivalente”, dato che proprio in quegli anni avvenivano trasformazioni nei processi produttivi e nei modelli di organizzazione del lavoro tali da valorizzare la mobilità e appunto la polivalenza dei lavoratori, cfr. sul punto X. Xxxxxxx, La cornice legale, cit., pp. 46-47.
000 Xxx. X. XXX, Xx professionalità, cit., p. 783. Peraltro, l’Autore evidenzia che l’oggetto del diritto all’acquisizione e all’adeguamento della professionalità non si esaurisce soltanto con lo svolgimento di corsi di formazione o aggiornamento professionale, ben potendo consistere in attività (anche lavorativa) idonea a favorire la crescita professionale della persona (occupata o non).
formazione professionale iniziale); l’altra più generale, in quanto strumentale all’aggiornamento, miglioramento e perfezionamento professionale ma anche alla riqualificazione e all’orientamento, è destinata a tutti i lavoratori (occupati e non) a prescindere dall’età e si può svolgere lungo tutto il corso della vita attiva (c.d. formazione professionale continua).
b) La formazione continua
L’aggettivo “continuo” ha iniziato ad accompagnare il sostantivo “formazione”, a quel che risulta, già a partire da metà anni ’70171. In realtà, però, già nella nostra Costituzione del 1948 è presente un’idea di formazione che accompagna il lavoratore lungo tutto l’arco della sua vita attiva (in questo senso essa può definirsi “continua”). Ed infatti, l’aver posto in stretta correlazione la
«formazione» e l’«elevazione» professionale (art. 35, comma 2 Cost.), secondo la dottrina, starebbe proprio a significare il superamento di un’idea di formazione relegata alla dimensione “iniziale” ed il concepimento di uno strumento utile anche agli adulti a prescindere dal loro status di lavoratori occupati o disoccupati, già qualificati o no, ecc.172.
Nell’ordinamento dell’Unione europea, il diritto all’accesso alla formazione continua è espressamente sancito dall’art. 14 della Carta di Nizza/Strasburgo (vd. Cap. II, par. n. …).
Nell’ordinamento italiano, invece, benché il riferimento a tale tipologia di formazione fosse presente già nel citato art. 141 del d.lgs. n. 112/1998, il diritto alla formazione continua è stato esplicitamente affermato e specificato, a livello di legge ordinaria (e non anche in Costituzione), soltanto dall’art. 6 della legge n. 53/2000173 in materia di “Congedi per la formazione continua”: «I lavoratori, occupati e non occupati, hanno diritto di proseguire i percorsi di formazione per tutto l'arco della vita, per accrescere conoscenze e competenze professionali» (comma 1).
Il medesimo articolo stabilisce altresì che l’offerta formativa – garantita dallo Stato, dalle Regioni e dagli enti locali su tutto il territorio nazionale – deve prevedere e consentire «percorsi personalizzati, certificati e riconosciuti come crediti formativi in ambito nazionale ed europeo» (comma 2).
Ma la disposizione più interessante è quella relativa alla possibilità che la formazione continua sia espressione di una scelta dell’azienda (a cui incombe anche la predisposizione della stessa attraverso i piani formativi aziendali o territoriali concordati tra le parti sociali ai sensi dell’art. 17 della legge n. 196/1997 (ma vd. anche il d.lgs. n. 150/2015) oppure espressione di un’«autonoma scelta del lavoratore» (vd. sempre art. 6, comma 2 della legge n. 53/2000).
Essa può essere finanziata e fornita in vario modo, anche attraverso i Fondi Paritetici Interprofessionali per la formazione continua (legge n. 388/2000, art. 118), i quali fanno parte della rete dei servizi per le politiche del lavoro (d.lgs. n. 150/2015, art. 1, comma 2, lett. f).
171 Cfr. Regolamento (CEE) n. 337/1975 del Consiglio del 10 febbraio 1975 relativo all'istituzione di un Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale (GU L 39 del 13.2.1975, pag. 1), in particolare l’art. 2 dove è stabilito che “il Centro ha il compito di fornire il suo contributo alla Commissione per favorire, a livello comunitario, la promozione e lo sviluppo della formazione professionale e della formazione continua”).
172 Cfr., fra gli altri, P.A. XXXXXX, voce Formazione professionale, in P. XXXXXXXXXXX (a cura di), Diritto del lavoro, Dizionari di diritto privato promossi da Xxxxxxxx Xxxx, Xxxxxxx, Milano, 2010, p. 191.
173 Interessante rilevare che tra le finalità della legge n. 53/2000 rientra altresì quella di realizzare un migliore
«equilibrio tra tempi di lavoro, di cura, di formazione e di relazione» anche mediante «l’istituzione del congedo per la formazione continua e l'estensione dei congedi per la formazione» (art. 1, lett. b).
La formazione continua può costituire anche un obbligo specifico per continuare ad esercitare in modo lecito le c.d. professioni regolamentate, come espressamente stabilito dall’art. 7 del d.p.r. n. 137/2012 (Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali) che applica l’art. 3, comma 5 del d.l. n. 138/2011, convertito con modifiche dalla legge n. 148/2011(vd., ad es., l’art. 11 della legge n. 247/2012 che specifica l’obbligo di formazione continua per gli avvocati).
In conclusione, per formazione continua si intende quel diritto – e talvolta obbligo (come, ad es., nel caso delle professioni regolamentate) – alla formazione a cui possono accedere, in qualsiasi momento della loro vita, sulla base di una scelta autonoma degli stessi ovvero su impulso del datore di lavoro, tutti i lavoratori (sia occupati che non) al fine di sviluppare, completare, perfezionare ed aggiornare le competenze professionali già acquisite o al fine di allargarle o acquisirne di nuove.
c) La formazione (o, meglio, l’apprendimento) permanente
La distinzione (appena abbozzata all’art. 141 del d.lgs. n. 112 del 1998) tra formazione continua e permanente non è netta e, se vogliamo, anche non facilmente intellegibile: in dottrina è stato osservato che soltanto nel nostro ordinamento si può cogliere una (tendenziale) differenza tra una formazione permanente, non immediatamente destinata a riflettersi nel rapporto di lavoro (vd. il congedo di cui all’art. 5 della legge n. 53/2000), e formazione continua, funzionale all’adeguamento delle competenze professionali richieste dal rapporto di lavoro (vd. il congedo di cui all’art. 6 della legge n. 53/2000)174.
Considerate tali difficoltà, si è fatta largo una locuzione differente, quella di apprendimento permanente (in inglese, lifelong learning), concetto, anche questo, spesso confuso con la formazione continua benché si distingua da quest’ultima, anzitutto, sotto il profilo ontologico o, meglio, di metodo/approccio/punto di vista.
Ed infatti, se la formazione continua è – come sopra visto – uno strumento della politica attiva del lavoro (vd. il combinato disposto degli artt. 1 della l. n. 845/1978 e art. 6 della l. n. 53/2000) che si declina in diverse forme/interventi (approccio per processi formativi), la nozione di apprendimento permanente, invece, pone l’accento sul risultato o output dei processi formativi e non solo, e cioè anche al di fuori di contesti formativi strutturati ed intenzionali per abbracciare tutte le dimensioni e fasi della vita (c.d. learning outcomes, approccio per risultato di apprendimento)175.
L’apprendimento permanente trova oggi un primo fondamento normativo nel nostro ordinamento176, oltre che una specifica definizione, nell’art. 4, comma 51 delle legge n. 92/2012
174 Cfr. M. ROCCELLA, Formazione, occupabilità, occupazione nell’Europa comunitaria, in AA.VV., Formazione e mercato del lavoro in Italia e in Europa. Atti del XV Congresso nazionale di diritto del lavoro S. Margherita di Pula (Cagliari) 1-3 giugno 2006, AIDLASS Annuario di diritto del lavoro n. 41, Xxxxxxx, Milano 2007, p. 50, nota 161, dove si evidenzia anche che tale distinzione – invero non immediata e neanche ben determinata (l’art. 6 della l. n. 53/2000, infatti, parla di un diritto alla formazione «lungo tutto l’arco della vita» e si rivolge anche ai disoccupati) – non trova riscontro nel diritto dell’Ue né nella giurisprudenza della Corte di Giustizia.
175 Cfr. X. XXXXXXXXXXX, op. cit., p. 16). In altri termini, la formazione professionale rimanderebbe al processo di trasferimento “intenzionale” di conoscenze, l’apprendimento, invece, volgerebbe lo sguardo al risultato, cioè alle competenze acquisite a prescindere da un preciso percorso formativo. Secondo l’Autrice, inoltre, l’apprendimento è un bene che trova protezione anche a livello costituzionale nell’art. 35, comma 2 Cost., dove la formazione è “mezzo” rispetto al “fine” dell’elevazione professionale, ossia accumulazione di competenze e crescita professionale.
176 Di contro, nella prospettiva dell’Unione Europea l’apprendimento permanente sembra essere ormai da tempo uno dei capisaldi del modello sociale europeo, cfr. G. DI GIORGIO, Apprendimento permanente, in X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), Il nuovo diritto del mercato del lavoro. La legge n. 92 del 2012 (c.d. “Riforma Fornero”) dopo le modifiche introdotte dalla legge n. 99 del 2013, Utet, Torino, 2013, p. 720; X. XXXXX, La costruzione giuridica del modello sociale europeo (con una postilla sul MSE al tempo della crisi globale), WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx” .IT- n. 88/2011; A.
dove è definito, in linea con le indicazioni dell’Unione europea177, come «qualsiasi attività intrapresa dalle persone in modo formale, non formale e informale, nelle varie fasi della vita, al fine di migliorare le conoscenze, le capacità e le competenze, in una prospettiva personale, civica, sociale e occupazionale»178.
L’apprendimento permanente ha poi trovato definitiva consacrazione nel nostro ordinamento nel d.lgs. n. 13/2013, recante la disciplina del sistema nazionale di certificazione delle competenze, dove è definito come «diritto della persona» (d.lgs. n. 13/2013, art. 1, comma 1).
Al riguardo, occorre far presente che tali innovazioni legislative sono state stimolate dalle istituzioni europee. Ed infatti, è da diversi decenni che l’apprendimento permanente è considerato un obiettivo prioritario delle politiche dell’Unione europea in base al fondamentale assunto secondo cui il capitale umano, fattore di crescita e competitività del sistema economico, non si riduce al possesso di titoli e qualificazioni formali ma consiste anche in competenze effettivamente possedute dalla persona a prescindere dal contesto di maturazione delle stesse179.
XXXXXX, Da Lisbona 2000 a Europa 2000, Il modello sociale europeo al tempo della crisi: bilanci e prospettive, in Riv. it. dir. lav., 2012, n. 3, pp. 219 e ss. Per una rassegna dettagliata sulle politiche comunitarie in materia di apprendimento (dal Libro Bianco del 1995 al processo di Lisbona del 2000, sino al processo di Copenaghen avviato nel 2002 e conclusosi nel 2009), cfr. S. Verde, Apprendimento permanente e certificazione delle competenze, cit., pp. 742-745.
177 Cfr., in particolare, la Raccomandazione del Consiglio del 20 dicembre 2012 sulla convalida dell’apprendimento non formale e informale, 2012/C 398/01.
178 Definizione simile è contenuta nel decreto legislativo n. 13/2013, attuativo della citata Legge Fornero (l. n. 92/2012): ed infatti, per apprendimento permanente si intende «qualsiasi attività intrapresa dalla persona in modo formale, non formale e informale, nelle varie fasi della vita, al fine di migliorare le conoscenze, le capacità e le competenze, in una prospettiva di crescita personale, civica, sociale e occupazionale» (art. 2, comma 1, lett. a). Al riguardo, occorre anche ricordare che l’apprendimento si suddivide in tre diverse tipologie a seconda del contesto in cui è avvenuto il processo cognitivo: a) apprendimento formale: «apprendimento che si attua nel sistema di istruzione e formazione e nelle università e istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica, e che si conclude con il conseguimento di un titolo di studio o di una qualifica o diploma professionale, conseguiti anche in apprendistato, o di una certificazione riconosciuta, nel rispetto della legislazione vigente in materia di ordinamenti scolastici e universitari» (d.lgs. n. 13/2013, art. 2, comma 1, lett. b); b) apprendimento non formale: «apprendimento caratterizzato da una scelta intenzionale della persona» che si realizza al di fuori dei sistemi in cui avviene l’apprendimento formale «in ogni organismo che persegua scopi educativi e formativi, anche del volontariato, del servizio civile nazionale e del privato sociale e nelle imprese» (art. 2, comma 1, lett. c); c) apprendimento informale: «apprendimento che, anche a prescindere da una scelta intenzionale, si realizza nello svolgimento, da parte di ogni persona, di attività nelle situazioni di vita quotidiana e nelle interazioni che in essa hanno luogo, nell'ambito del contesto di lavoro, familiare e del tempo libero» (art. 2, comma 1, lett. d). Definizioni analoghe erano contenute all’art. 4, commi 52-54 della legge n. 92/2012.
179 Cfr. G. DI XXXXXXX, Apprendimento permanente, in X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX, Il nuovo diritto del mercato del lavoro, Utet, 2013, p. …
CAPITOLO II
I PRINCIPI FONDAMENTALI DEL NOSTRO ORDINAMENTO (MULTILIVELLO) IN MATERIA DI LAVORO, TUTELA DELLA PROFESSIONALITÀ E FORMAZIONE
“sin dall’antichità si è consapevoli del fatto che la garanzia delle libertà e dei diritti di un popolo sta esclusivamente nelle mani del popolo stesso e che il presidio di quelle libertà e di quei diritti non può essere offerto
solo dalle norme giuridiche. Se è teoricamente errato il ragionamento di chi vede nelle norme costituzionali sul lavoro un vuoto di significato,
è praticamente illusorio l’atteggiamento di chi si accontenta delle norme costituzionali, attendendo da esse un salvifico
automatismo garantista che nessuna norma, in sé, sa dare. Abbiamo una grande Costituzione, insomma, ma per farla vivere e operare occorrerebbe un grande popolo
Lo siamo?”
X. XXXXXXX, Xxxxxx e conseguenze della scelta costituzionale di fondare la Repubblica democratica sul lavoro,
in ADL, 2010, n. 3, p. 652
2.1. Principio lavorista (art. 1), principio personalistico (art. 2) e principio di eguaglianza, formale e sostanziale, e partecipazione dei lavoratori alla vita del Paese (art. 3) nella Costituzione italiana.
La Costituzione italiana180 riserva una grande attenzione al lavoro181. La scelta di fondo dei costituenti – presa all’esito di lunghe ed accese discussioni e mediazioni tra formazioni politiche anche molto distanti tra loro182 – è stata, infatti, quella di fondare la Repubblica democratica proprio sul lavoro inteso come quid multiforme (in quanto a “fattispecie aperta”) composto da una pluralità indefinita di forme di manifestazione, invero, tutte idonee ad essere ricomprese nell’art. 1 Cost.183.
Tuttavia, come ha osservato un’autorevole e datata dottrina, per comprendere l’esatto significato delle disposizioni costituzionali in materia di lavoro ed i nessi tra esse, è necessario individuare il principio fondamentale ed ispiratore delle stesse, e cioè il principio personalistico che consiste nel riconoscere e garantire ad ogni uomo valore di fine in sé e, quindi, dignità umana e titolarità di diritti «inviolabili» (art. 2 Cost.)184.
180 Com’è noto, è stata approvata dall’Assemblea costituente il 22 dicembre 1947 ed è entrata in vigore il 1° gennaio 1948.
181 Il lemma “lavoro” e quelli derivati dallo stesso ricorrono in ben 23 commi diversi della nostra Carta costituzionale, cfr. X. XXXXXXX, Xxxxxx e conseguenze della scelta costituzionale di fondare la Repubblica democratica sul lavoro, in ADL, 2010, n. 3, p. 646. L’Autore sottolinea altresì che tale numero è tanto più impressionante quanto più si considera che non sono stati considerati tutti quei casi in cui il termine non viene utilizzato ma il riferimento allo stesso è implicito e che nello Statuto Xxxxxxxxx la parola “lavoro” non ricorreva mai.
182 Per un’attenta e critica rilettura degli atti dell’Assemblea costituente, cfr. X. XXXXX (a cura di), Prima di tutto il lavoro. La costituzione di un diritto all’Assemblea costituente, Ediesse, Xxxx, 0000.
183 Cfr. X. XXXXXXX, Xxxxxx e conseguenze, cit., p. 629; in senso analogo X. XXXXXXXXX, La Costituzione e i lavori, in RIDL, 2009, n. 2, p. 159 ma, ancor prima, C. MORTATI, Il lavoro nella costituzione, in Dir.lav., 1954, n. 1, p. 154, il quale osserva che il “lavoro” cui fa riferimento l’art. 1 è quello con il significato più comprensivo accolto dall’art. 4 Cost., e cioè l’esercizio di ogni attività ritenuta “utile” per la collettività e, quindi, per Xxxxxxx, assurge addirittura a “fondamento sociologico dello Stato”.
184 È questo il fondamentale insegnamento lasciatoci da C. MORTATI, Il lavoro nella costituzione, in Dir.lav., 1954, n. 1,
p. 149. Secondo questa ricostruzione, pertanto, collegando l’art. 1 con l’art. 2 Cost. si può ricavare l’“esatto” significato
Al riguardo, occorre tenere in considerazione che il concetto di “lavoro” è stato riempito di molteplici accezioni in letteratura (giuridica ma non solo): c’è chi lo ha elevato a “spirito informatore” dell’intera Costituzione, “espressione di una concezione generale della vita” in cui al lavoro va riconosciuta “la più efficace affermazione della personalità sociale dell’uomo”185; chi l’ha inteso come una “sineddoche (pars pro toto), cioè quale espressione della persona umana, portatrice dei valori riconosciuti dall’art. 2”186, e chi, invece, ha criticato tale visione del lavoro (quale espressione più completa della personalità dell’uomo) definendola “concezione un po’ mitica”187.
Prendendo le mosse dall’elaborazione di Xxxxxx Xxxxxx000, è stata avanzata un’interessante ed originale lettura della Costituzione nel senso che essa terrebbe assieme tutte e tre le forme arendtiane di “attività umana”: in primo luogo vi è il richiamo al lavoro nel suo nucleo essenziale di attività lavorativa, come elemento profondamente egalitario e addirittura universalistico, come dato insuperabilmente umano collegato alla sfera della produzione ma anche ad un progetto politico che ha l’obiettivo di far uscire il lavoro dall’ambito produttivo per renderlo fattore di emancipazione sociale (art. 3 Cost.); quanto all’azione, è lo stesso art. 1 Cost. che, scegliendo la forma di Repubblica democratica e, quindi, il principio di libertà, dà spazio all’homo politicus; quanto all’operare, esso sarebbe rintracciabile nella previsione dei limiti giuridici alla sovranità popolare189.
Proprio il citato articolo 3 che, com’è noto, al primo comma, stabilisce il principio di uguaglianza formale (e sociale) e di non discriminazione190, mentre, al secondo comma, afferma il
del valore assegnato al lavoro: “non fine in sé né mero strumento di guadagno ma mezzo necessario per l’affermazione della persona per l’adempimento dei suoi fini spirituali” (p. 152). Sul collegamento di tutti i diritti sociali con gli artt. 2 e 3 Cost., cfr. X. XXXXXXXXXXX, voce Diritti sociali, in Enc. giur. Treccani, vol. XI, 1988, pp. ….
185 E ancora “il suo valore più comprensivo e significativo, perché nel lavoro ciascuno riesce ad esprimere la potenza creativa in lui xxxxxxxxx, ed a trovare, nella disciplina e nello sforzo che esso impone, insieme allo stimolo per l’adempimento del proprio compito terreno di perfezione, il mezzo necessario per soddisfare il suo debito verso la società con la partecipazione all’opera costitutiva della collettività in cui vive”, cfr. C. MORTATI, Il lavoro nella costituzione, in Dir.lav., 1954, n. 1, p. 152, il quale rievoca altresì che nella sintesi scolastica dovuta a Xxxxxxx X’Xxxxxx “il lavoro era posto a base della società e considerato il solo legittimo fondamento della proprietà e del guadagno”.
186 Cfr. X. XXXXXXX, Fondata sul lavoro: la Repubblica tra diritti inviolabili e doveri inderogabili di solidarietà, in Ius, 1998, p. 47.
187 Cfr. X. XXXXXXXXXXX, voce Lavoro (fenomeno giuridico), in Enc. Dir., vol. XXIII, 1973, par. 1.
188 X. XXXXXX, The Human Condition, The University of Chicago, Chicago, 1958, trad. it. di X. Xxxxx, Vita activa. La condizione umana, Milano, 1994.
189 Cfr. X. XXXXXXX, op. cit., pp. 632-637. Secondo l’Autore, la centralità del lavoro nella Costituzione è: antropologica, nel senso che il lavoro è tratto tipico dell’essere umano; etica, nel senso che il lavoro è l’espressione primaria della partecipazione del singolo al vincolo sociale (attraverso il lavoro si restituisce alla società in termini di progresso generale ciò che da essa ha ricevuto e riceve in termini di diritti e di servizi); economica, nel senso che i costituenti hanno inteso innestare gli strumenti dello Stato sociale sull’economia sociale di mercato impegnando la Repubblica in una politica di massima occupazione stante la diffidenza nei confronti di un’asserita mano invisibile del mercato. Pur essendo forte il collegamento tra principio lavorista e principio democratico (art. 1 Cost.), tra lavoro e partecipazione dei lavoratori alla vita economica, politica e sociale del Paese (art. 3, comma 2 Cost.), tra lavoro e cittadinanza (da leggersi in tal senso il dovere a lavorare di cui all’art. 4 Cost.), la centralità riservata a tale elemento dalla nostra Carta costituzionale non è però anche politica in quanto la Repubblica è sì fondata sul lavoro però la sovranità appartiene al popolo, ossia ai cittadini e (non ai lavoratori, come qualcuno aveva peraltro proposto in sede di Assemblea costituente).
190 «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
principio di uguaglianza e libertà sostanziale191, è probabilmente “il più importante di tutta la Costituzione, il più impegnativo”192.
Questa disposizione è stata, infatti, definita come una “polemica contro il presente” 193, contro la società dell’epoca ma si deve ritenere, in parte, valida anche nei confronti della società di oggi. Allo stesso tempo, però, altri autorevoli giuristi hanno evidenziato un ulteriore aspetto innovativo dell’articolo 3: il tentativo di questa disposizione di pervenire ad una sintesi, un compromesso tra principi spesso considerati contrapposti tra loro, quelli di libertà ed uguaglianza194.
Come già anticipato, l’articolo 3 risulta essere diretta conseguenza o, meglio, uno “svolgimento” dell’art. 1 Cost.: il nesso tra lavoro e partecipazione si ricava da ciò che il primo non solo è fondamento della Repubblica (art. 1 Cost.) ma è anche lo strumento concreto attraverso cui è possibile e si realizza la partecipazione politica, sociale ed economica dei cittadini (art. 3, comma 2)195.
Appurata la centralità del lavoro all’interno della nostra Costituzione, si pone il problema dell’efficacia giuridica di alcune disposizioni costituzionali quali, ad es., l’art. 4 (vd., sul punto, anche il par. 2.2) che sembrano essere soltanto “programmatiche” e non “prescrittive”196.
Di contro, la dottrina ha sin da subito riconosciuto a tali disposizioni un preciso valore giuridico, quantomeno “sotto l’aspetto della motivazione autentica di altre disposizioni costituzionali normative”197, per poi giungere alla conclusione che non vi sarebbe alcuna differenza di efficacia tra norme programmatiche e norme prescrittive: entrambe hanno carattere obbligante nei confronti di tutti i soggetti pubblici (e non solo nei confronti del legislatore) nonché efficacia autonoma ed immediata.
191 «È compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
192 X. XXXXXXXXXXX, Discorso sulla Costituzione, pronunciato il 26 gennaio 1955 presso la Società Umanitaria in occasione dell’inaugurazione di un ciclo di sette conferenze sulla Costituzione italiana organizzato da un gruppo di studenti universitari e medi. Come ricordato da F. SIOTTO, L’effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita del Paese, cit., p. 75, Calamandrei si era sempre opposto in sede costituente all’introduzione di norme programmatiche per ragioni tecniche ma anche per evitare di ingenerare nei cittadini “speranze illusorie”.
193 Quando l’articolo 3 parla di “ostacoli” che impediscono il pieno sviluppo della personalità umana riconosce che questi “ostacoli” oggi esistono e che bisogna rimuoverli, onde dà un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso gli strumenti legali, di trasformazione graduale, che la Costituzione ha predisposto, cfr. X. XXXXXXXXXXX, Discorso sulla Costituzione, cit.
194 È questa l’analisi di X. XXXXXX, Eguaglianza e libertà, Einaudi, Torino, 1995, p. 38, il quale, pur consapevole dell’“immenso divario che sussiste tra simili solenni dichiarazioni e la realtà di fatto”, ritiene alquanto significativo che nell’articolo 3, comma 2 Cost. libertà ed eguaglianza siano “congiuntamente nominate come beni indivisibili e solidali tra loro”.
195 Cfr. F. SIOTTO, L’effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita del Paese, cit., p. 83. Non è un caso, infatti, che durante i lavori preparatori le due disposizioni (artt. 1 e 3) erano accomunate in un solo articolo: «Lo Stato italiano è una Repubblica democratica. Essa ha per suo fondamento il lavoro e la partecipazione concreta di tutti i lavoratori all’organizzazione economica, sociale e politica del Paese».
196 Tale tesi è stata accolta parzialmente dalla Corte costituzionale in alcune pronunce: vd. Corte cost., sent. n. 372 del 2004, la quale, pronunciandosi sulla legittimità costituzionale di molteplici statuizioni di principio e dichiarazioni di intenti contenute in uno Statuto regionale, ha affermato che a quelle enunciazioni, “anche se materialmente inserite in un atto-fonte, non può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica, collocandosi esse precipuamente sul piano dei convincimenti espressivi delle diverse sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al momento dell’approvazione dello statuto”, aggiungendo però che “tali proclamazioni di obiettivi e di impegni non possono certo essere assimilate alle c.d. norme programmatiche della Costituzione, alle quali, per il loro valore di principio, sono stati generalmente riconosciuti non solo un valore programmatico nei confronti della futura disciplina legislativa, ma soprattutto una funzione di integrazione e di interpretazione delle norme vigenti”.
197 Cfr., fra tutti, X. XXXXXXXXXX, Sull’efficacia normativa delle disposizioni di principio della Costituzione, in Scritti in onore di Xxxxx Xxxxxxxxx, vol. XVIII, 1948, sez. 1, degli Annuali Triestini, Università degli Studi di Trieste, p. 37.
In dottrina, è stata anche individuata una funzione ulteriore svolta dalla Costituzione in materia di lavoro, in particolare è stato sostenuto che la nostra Carta costituzionale ha svolto un ruolo di “ponte” tra il sistema del diritto del lavoro e il suo ambiente, essendo essa sia “super-norma giuridica” sia “tavola dei valori” scongiurando così il rischio del nichilismo giuridico, ossia di un diritto senza valori o meglio a-valoriale come risultante dei mutevoli rapporti di potere che contraddistinguono una data società in un dato momento storico198.
2.2. Il diritto al lavoro e il dovere di lavorare (art. 4 Cost.)
L’articolo 4 della Costituzione, in prima battuta, riconosce «a tutti i cittadini» il diritto al lavoro imponendo alla Repubblica (e non semplicemente allo Stato), quindi all’“intero sistema normativo, istituzionale, economico”199, di rendere effettivo tale diritto (comma 1), per poi affermare il dovere di svolgere una qualche «attività» o «funzione» che concorra al «progresso materiale o spirituale» della intera società, pur sempre nel rispetto delle proprie possibilità e del principio di libera scelta (comma 2).
Benché non siano mancate discussioni in ordine alla portata del dovere di lavorare200 e sulla definizione giuridica di lavoro201, la dottrina si è accapigliata soprattutto sulla parte della disposizione in commento che ha sancito il diritto sociale per eccellenza202, il diritto al lavoro.
198 È questa la nota posizione di X. XXXX, Diritto senza verità, 2011, Laterza, Bari. Cfr., sul punto, R. DEL PUNTA, Epistemologia breve del diritto del lavoro, in LD, 2013, n. 1, pp. 42-43, il quale osserva anche che il diritto del lavoro è stato “diritto di attuazione costituzionale” riuscendo a “positivizzare” i propri fondamenti valoriali munendosi di una formidabile legittimazione giuridica.
199 M. DELL’OLIO, Mercato del lavoro, decentramento, devoluzione, in ADL, 2002, n. …, p. 171 e ss.
200 In particolare, già all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione in dottrina si sono contrapposte due fazioni: l’una che negava rilievo giuridico al suddetto dovere e l’altra che lo afferma con convinzione desumendolo dalla correlazione generale, che permea l’intera Carta fondamentale, tra diritti individuali e doveri di solidarietà (art. 2 Cost.) e da altri dati: topografici (collocazione dell’art. 4 nella parte dedicata ai principi fondamentali e non in quella dedicata ai rapporti economici), di carattere generale (il fatto che la Repubblica sia “fondata” appunto sul lavoro) e sistematico (l’art. 38 parla di dovere “civico” di votare rendendo così dubbia la sua giuridicità; l’art. 39 distingue le prestazioni previdenziali/assistenziali in base alla abilità o no di lavorare), cfr. C. XXXXXXX, Il lavoro nella costituzione, cit., pp. 156-158, il quale arriva a sostenere che la sanzione nei termini di esclusione dal godimento di alcuni diritti politici sarebbe non solo possibile ma addirittura “imposta” al legislatore. Anche altri hanno evidenziato, comunque, una funzione precettiva dell’art. 4 Cost. laddove il dovere al lavoro produce effetti giuridici attraverso altre disposizioni che ad esso rinviano indirettamente (ad es., l’art. 133 c.p. o il principio di condizionalità prima espresso nel R.D. 2270/1924 che limitava le misure protettive al disoccupato che rifiutasse una «occupazione adeguata»), cfr. X. XXXXXXXXXXX, voce Lavoro (fenomeno giuridico), in Enc. Dir., vol. XXIII, 1973, par. 12.
201 Vi è chi ha tratto dall’art. 4 Cost. l’indicazione tendenziale che il lavoro ha nel nostro ordinamento una “forte accentuazione produttivistica o almeno di utilità sociale”, cfr. X. XXXXXXXXXXX, voce Lavoro (fenomeno giuridico),cit., par. 3.
202 Dare una definizione di “diritto sociale” non è agevole, soprattutto tentando di desumerla dal diritto positivo: l’espressione «diritti sociali», infatti, si rinviene nelle varie Carte costituzionali e dei diritti dell’uomo solo di rado né con significato univoco, cfr. X. XXXXXXXXX DI XXXXX, voce Diritti sociali, in Enc. dir., 1964, par. 1. Tant’è che l’Autore deduce la nozione principalmente da un’indagine sulla funzione sociale dello Stato moderno e sul carattere delle norme in cui questa si estrinseca. In particolare, caratteristica dello Stato di diritto non è tanto la presenza di una funzione sociale (già presente nei regimi di despotismo illuminato) ma che essa sia oggetto di un diritto dei cittadini derivante dalla loro eguaglianza (a godere dei diritti e a partecipare ai vantaggi che lo società offre): compito dello Stato “sociale” è, allora, quello di far sì che tale eguaglianza e quei diritti siano concretamente goduti da tutti i cittadini “evitando che i più forti opprimano i più deboli e che la disuguaglianza di fatto distrugga l’eguaglianza giuridica”. Onde, per l’Autore, per “diritto sociale” si deve intendere “in senso oggettivo, l'insieme delle norme attraverso cui lo Stato attua la sua funzione equilibratrice e moderatrice delle disparità sociali, allo scopo di «assicurare l’eguaglianza delle situazioni [n.d.r.: di partenza], malgrado la differenza delle fortune» (Ripert, Le régime démocratique et le droit civil moderne, Parigi, 1936); in senso soggettivo, il diritto generale di ciascun cittadino a partecipare ai benefici della vita associata, il quale si rifrange in specifici diritti a determinate prestazioni, dirette o indirette, da parte dei poteri pubblici”.
Tale disposizione, infatti, rappresenterebbe un “criterio generale direttivo ed interpretativo”203 o una norma di principio giacché avrebbe avuto la funzione di controllare l’iniziativa economica privata nonché fornire copertura normativa e “significato” ad una serie di istituti e norme introdotte successivamente nel nostro ordinamento204.
Come già anticipato, la questione relativa alla giuridicità dell’articolo 4 ha diviso la dottrina in due grandi fazioni: da un lato, vi è chi ha negato l’idoneità della norma a creare vere e proprie pretese giuridiche in capo ai cittadini, con la conseguenza ultima di svuotarla di contenuto; dall’altro lato, vi è chi, invece, ha ritenuto che l’articolo abbia una propria giuridicità desumibile dal sistema in cui è inserito e dallo spirito da cui è informato, e cioè la realizzazione di un ordine sociale fondato sul lavoro (art. 1 Cost.)205.
Ciò su cui la dottrina conviene unanimemente è il nesso tra art. 4 e artt. 2 e 3 della nostra Costituzione che è stato, sin da subito, evidenziato dalla più attenta dottrina laddove ha rintracciato la derivazione dei diritti sociali dal principio di eguaglianza sostanziale («è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando in fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana», vd. art. 3, comma 2 Cost.), cioè l’“eguale possibilità per tutti i consociati di godere di quei diritti fondamentali che la costituzione considera connessi con il pieno sviluppo della personalità umana (art. 2)”206.
Tuttavia, è stato osservato che nell’interpretazione dell’art. 4 Cost. andrebbe prestata particolare attenzione alle “assenze, a ciò che tace più che a ciò che è stato consegnato alla storia”, e cioè al fatto che, ad esempio, la disposizione approvata in sottocommissione prevedeva una
Tuttavia, è lo stesso Autore ad avvertire che da tale nozione rimarrebbero fuori quei diritti dallo stesso definiti “pubblici soggettivi” (diritto di associazione sindacale e di sciopero) e che non sempre le prestazioni costituenti il contenuto dei diritti sociali incombono direttamente allo Stato: ed infatti, in economie a base privata, come l’Italia, lo Stato adempie al suo obbligo di garantire ai lavoratori certi diritti sociali (diritto alla giusta retribuzione, alle ferie, al riposo, costringendo con le sue leggi i datori di lavoro alle prestazioni o ai comportamenti corrispondenti), con la conseguenza che in questi casi solo impropriamente si può parlare di diritti a un'azione positiva da parte dello Stato, non esistendo in realtà un diritto all'emanazione di leggi aventi un determinato contenuto. Onde, le pretese degli interessati potranno essere azionate verso lo Stato non in caso di inazione, ma solo in caso di azione legislativa contrastante con la costituzione.
203 È questa l’espressione utilizzata da C. MORTATI, Il lavoro nella Costituzione, cit., p. 161, il quale osservava anche che l’art. 4 Cost. si completa con altre disposizioni costituzionali che predispongono strumenti o direttive per rendere effettivo il diritto al lavoro (artt. 35, 38, 41-44 Cost.) e, allo stesso tempo, specifica il contenuto di tali articoli.
204 È questo il pensiero espresso da X. XXXXXX, Il diritto al lavoro e le trasformazioni dello Stato sociale, in M. Napoli (a cura di), Costituzione, lavoro, pluralismo sindacale, Vita e Pensiero, Milano, 1998, p. ….
205 Cfr. C. MORTATI, Il lavoro nella Costituzione, cit., p. 162. Mortati sosteneva, infatti, che l’art. 4 Cost. fa sorgere veri e propri obblighi, di contenuto diverso, in capo ad una serie di soggetti (in primis il legislatore ma anche la PA, il giudice e gli altri privati) a cui sono correlati vere e proprie pretese giuridiche in particolare: nei confronti del legislatore, obblighi di fare (indirizzare gli interventi in materia economica al fine del massimo dell’impiego) e non fare (non abrogare le disposizioni esistenti che abbiano tali finalità); nei confronti dell’amministrazione, obbligo di esercitare i propri poteri senza ostacolare l’occupazione; nei confronti del giudice, obbligo di interpretare secondo il senso più conforme a soddisfare la pretesa al lavoro; nei confronti degli altri privati, obbligo di usare l’autonomia loro riservata in modo non arbitrario rispetto al fine occupazione.
206 Cfr. X. XXXXXXXXX DI XXXXX, voce Diritti sociali, in Enc. dir., 1964, par. 2. Ma già il socialista Xxxxxxx si esprimeva in questi termini durante la discussione in seduta plenaria in seno alla Costituente, cfr. F. SIOTTO, L’effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita del Paese: il desiderio di essere come tutti, in X. XXXXX (a cura di), Prima di tutto il lavoro. La Costituzione di un diritto all’Assemblea costituente, Ediesse, Roma, 2014, p. 83. Meritano di essere riportate anche le parole dell’xx. Xxxxx Xxxxx, membro (socialista) dell’Assemblea costituente: “Certo, non è vero oggi che la democrazia italiana, che la Repubblica italiana sia in grado di garantire a tutti il lavoro, che sia in grado di garantire a tutti un salario adeguato alle proprie esigenze familiari; ma il senso profondo di questi articoli nell’armonia complessa della Costituzione, dove tutto ha un suo significato, e dove ogni parte si integra con le altre parti, sta proprio in questo: che finché questi articoli saranno veri, non sarà vero il resto; finché non sarà garantito a tutti il lavoro, non sarà garantita a tutti la libertà; finché non vi sarà sicurezza sociale, non vi sarà veramente democrazia politica; o noi realizzeremo interamente questa Costituzione, o noi non avremo realizzata la democrazia in Italia”, cfr. X. XXXXXXXX, Il diritto-dovere di lavorare, in X. XXXXX (a cura di), Prima di tutto il lavoro, cit., p. 114.
formula più coraggiosa ed impegnativa di quella attuale («La Repubblica riconosce il diritto al lavoro e predispone i mezzi necessari al suo godimento») e che i vari emendamenti presentati al fine di imporre un intervento dello Stato per rendere effettivo questo diritto, anche attraverso una pianificazione economica, furono tutti respinti207.
Non è mancato, però, chi ha sostenuto che la ratio ispiratrice dell’art. 4 Cost. e del relativo obbligo di “attivazione” sarebbe la consapevolezza della necessità di una politica dell’occupazione, ossia “la constatazione dell’inesistenza di un automatismo di riequilibrazione del mercato del lavoro capace di contenere la disoccupazione nel limite di quella meramente stagionale, o tecnologica, o di frizione, e quindi la convinzione dell’esigenza di interventi statali suscettibili di prevenire, fino a che possibile, le crisi e di circoscriverne gli effetti”208.
Probabilmente la lettura più originale dell’art. 4 Cost. che intendeva andare oltre l’acceso dibattito emerso in seno all’Assemblea costituente209 e poi in dottrina ed animato dalla contrapposizione ideologica tra fautori dell’economia pianificata e sostenitori dell’economia di mercato210, riuscendo a spremere ulteriore “succo normativo” dalla disposizione anche alla luce del contesto sociale di fine XX secolo211, è stata data da Xxxxxxx X’Xxxxxx nel 1999212.
In quell’occasione, D’Xxxxxx evidenziava anzitutto che il diritto al lavoro di cui all’articolo 4 sarebbe quello tra i principi fondamentali della nostra Carta fondamentale ad aver subito maggiormente il “peso della storicità” non assumendo così quella centralità nel sistema giuslavorista che avrebbe invece meritato213. Di contro, l’Autore suggeriva che quella disposizione andrebbe rivalutata e “presa sul serio”214 seppur tenendo conto del mutato contesto storico- giuridico: da un lato, il fenomeno (inquietante) che si andava diffondendo in quegli anni nelle
207 Cfr. X. XXXXXXXX, Il diritto-dovere di lavorare, cit., p. 94 e ss., la quale riporta le parole del liberale Xxxxxxxxx Xxxxxxx, il quale affermò in modo chiaro che il diritto al lavoro è “incompatibile col sistema del profitto capitalistico e della proprietà privata dei mezzi di produzione”. Di contro, Xxxxxxx Xxxxxxxxx si scagliava contro la libertà di scelta del lavoro affermando che doveva piuttosto affermarsi “il principio dell’intervento dello Stato per regolare l’attività economica, secondo un metodo, un corso differente da quello dell’economia capitalistica liberale pura” perché soltanto in questo modo si poteva avere “un minimo di garanzia al diritto ai mezzi di sussistenza, al lavoro, al riposo, all’assicurazione sociale”.
208 Cfr. C. MORTATI, Il lavoro nella Costituzione, cit., pp. 162-163. La c.d. politica dell’occupazione che, secondo Xxxxxxx, deve essere “parte predominante della politica generale dello Stato” dovrebbe non solo assicurare il massimo assorbimento di lavoro ma anche mantenere nel tempo un livello medio sufficiente di occupazione attraverso una serie di interventi statali che devono abbracciare tutte le fasi del ciclo economico (produzione, risparmio, consumo).
209 Per una ricostruzione della vicenda “rocambolesca” della formulazione e successiva approvazione dell’art. 4 Cost., cfr. X. XXXXXXXX, Il diritto-dovere di lavorare: una gloriosa battaglia, in X. XXXXX (a cura di), Prima di tutto il lavoro, cit., pp. 94 e ss. Il dibattito nella prima e terza sottocommissione e poi in Assemblea costituente si trasformò, infatti, in una discussione di teoria generale sul diritto al lavoro e il terreno di un aspro scontro politico tra opzioni economiche contrapposte (economia pianificata in cui interviene lo Stato vs economia di mercato e di libera concorrenza).
210 Come ha rilevato X. XXXXXXX, Art. 4, in AA. VV., Principi fondamentali, in X. XXXXXX (a cura di), Commentario alla Costituzione, Zanichelli, Bologna, 1975, p. …
211 È questo il commento a caldo di Xxxxx Xxxxxx, cfr. X. XXXXXX, Intervento, in Riv. giur. lav., 1999, suppl. n. 3, p. 59.
212 L’occasione era quella offerta dal Convegno per i 50 anni della Rivista giuridica del Lavoro e della Previdenza sociale. Quella relazione e il saggio postumo che ne è scaturito rappresentano un lascito culturale del giuslavorista romano in quanto si tratta dell’ultima apparizione in pubblico di D’Xxxxxx 12 giorni prima del suo tragico assassinio.
213 Cfr. X. X’XXXXXX, Il diritto al lavoro nella Costituzione e nell’ordinamento comunitario, in Diritto al lavoro e politiche per l’occupazione. Atti del Convegno di studio per il 50° anno della Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale. Università degli Sudi di Napoli “Xxxxxxxx XX” Facoltà di giurisprudenza, 8 maggio 1999, in Riv. giur. lav., 1999, suppl. n. 3, p. 15.
214 Sin dal momento della discussione in senso all’Assemblea costituente, infatti, il diritto al lavoro di cui all’articolo 4 era visto da alcuni con pessimismo ciò in quanto “promette delle realtà non reali, promette cose che non possono essere mantenute, stabilisce impegni dello Stato che lo Stato non potrà mantenere né meno in avvenire anche in paesi ben più ricchi” (sono queste, ad esempio, le parole di Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxx riportate in X. XXXXXXXX, Il diritto-dovere di lavorare: una gloriosa battaglia di retroguardia, cit., p. 113).
moderne economie europee della crescita senza occupazione e della dilagante disoccupazione215; dall’altro lato, il processo di disarticolazione dello Stato nazione verso l’alto (Unione europea) e verso il basso (governi territoriali) che ha inciso negativamente tanto sul suo ruolo economico quanto sulla sua funzione normativa.
Ciò posto, D’Xxxxxx sosteneva che il diritto di cui al primo comma dell’art. 4 Cost. si riferirebbe al lavoro nella sua accezione storico-sociale come impiego remunerato della propria attività lavorativa (sfera dell’economia), mentre il dovere di cui al secondo comma riguarderebbe ogni attività utile alla società a prescindere dal carattere e dai fini dell’attività (sfera indifferente all’economia), in altri termini i due commi avrebbero un oggetto diverso216.
Più nello specifico, l’art. 4, comma 1 Cost. conterrebbe:
a) un diritto di libertà: «libertà da» interferenze esterne nella scelta del xxxxxx000;
b) un diritto sociale: «pretesa a» politiche del lavoro e dell’occupazione, e cioè a un’azione da parte dei pubblici poteri volta a promuovere le condizioni per rendere effettivo il diritto in commento che non si identifica con il diritto di ottenere un posto di lavoro;
c) ma anche un diritto della “persona sociale”: «diritto di» lavorare, ossia di accedere al lavoro e mantenerlo senza subire l’interferenza abusiva o discriminatoria da parte di soggetti privati o pubblici (che non vuol dire necessariamente diritto di ottenere un impiego per il tramite dello Stato o regime di stabilità reale del rapporto di lavoro)218.
Secondo questa opinione, pertanto, il diritto al lavoro sarebbe posto a garanzia dell’uguaglianza (formale e sostanziale) rispetto al lavoro disponibile, ossia un’equilibrata concorrenza tra lavoratori ma anche sicurezza rispetto ad abusi connessi a qualità personali tanto nel rapporto di lavoro quanto nel mercato.
Nel nuovo contesto, infatti, la disoccupazione è un fattore di “allarme costituzionale” e dà luogo a una posizione soggettiva di pretesa nei confronti dei pubblici poteri (autonoma rispetto a quella di cui all’art. 38 Cost.), a cui può essere data una risposta anche articolata (non necessariamente diretta alla singola persona) sul lato della domanda (politiche di sviluppo economico) o sul lato dell’offerta (politiche attive ma anche passive), ma comunque una risposta219.
215 Alla cui origine, secondo D’Xxxxxx, vi sarebbero “errori di percorso”, dal lato della domanda, nelle politiche macro- economiche (interpretazione rigidamente finanziaria dei parametri di Maastricht che ha portato un calo significativo degli investimenti nei settori strategici e nelle infrastrutture) e, dal lato dell’offerta, nelle politiche sociali (sistemi di welfare sbilanciati a favore degli occupati, sostegno oneroso ed inefficiente del reddito). Anche Napoli, nel medesimo Convegno, conveniva sul fatto che “l’occupazione si crea con investimenti produttivi […] con lo sviluppo”, anche culturale, pertanto è necessario un mix di interventi sul lato dell’offerta ma soprattutto sul lato della domanda di lavoro. 216 Cfr. X. X’XXXXXX, Il diritto al lavoro, cit., p. 17.
217 Interessante osservare che il rapporto tra diritti sociali e diritti di libertà e le conseguenze che ne scaturiscono in termini di limiti ed efficacia degli uni e degli altri rappresenta uno dei problemi fondamentali di qualsiasi assetto costituzionale ed ordinamento giuridico, cfr. X. XXXXXXXX DI XXXXX, voce Diritti sociali, cit., p. …
218 Ibidem. Contra M. NAPOLI, Intervento, cit., pp. 59-60, il quale rimprovera al primo di aver posto in connessione l’aggettivo “sociale” con la persona: “è più esatto dire che il diritto al lavoro è un diritto sociale della persona. La persona in quanto tale ha uno statuto ontologico di socialità intesa come razionalità. Perciò quell’aggettivo sociale attribuito alla persona mi sembra un po’ riduttivo, soprattutto se colleghiamo l’articolo 4 all’articolo 2, che fissa il principio personalistico ispiratore, con il principio lavoristico,della Carta costituzionale”.
219 L’inattività da parte dei pubblici poteri, secondo D’Xxxxxx, integrerebbe infatti un vero e proprio inadempimento che potrebbe far sorgere finanche un diritto al risarcimento dei danni in capo al disoccupato “abbandonato”, cfr. X. X’XXXXXX, Il diritto al lavoro, cit., p. 18. Tuttavia, occorre rimarcare che è in dottrina è quasi unanimemente accolta l’opinione secondo cui il diritto al lavoro di cui all’art. 4 Cost. non sarebbe azionabile dinanzi all’autorità giudiziaria, cfr., fra gli altri, X. XXXXXX, Il diritto al lavoro e le trasformazioni dello Stato sociale, in M. NAPOLI (a cura di), Costituzione, lavoro, pluralismo sociale, Vita & Pensiero, Milano, 1998, p. 60 richiamato in X. XXX, La professionalità, cit., p. 777, nota 45.
In questo quadro, D’Xxxxxx ricorda anche la presenza di un secondo fattore rilevante: il processo di integrazione economico-monetaria e giuridica a livello europeo che ha di fatto comportato un trasferimento di quote di sovranità in materia economica dallo Stato nazione al livello sovranazionale.
In particolare, a partire dal Trattato di Amsterdam (artt. 125-130), le istituzioni europee iniziano ad occuparsi anche del tema dell’occupazione seppur perseguendo obiettivi parzialmente diversi rispetto a quelli dell’art. 4 Cost., segnatamente la promozione di una «forza lavoro competente, qualificata, adattabile» e di «mercati del lavoro in grado di rispondere ai mutamenti economici» (vd. art. 125 Tce, ora art. 145 Tfue). Le politiche europee, pertanto, sarebbero sbilanciate più sul lato dell’offerta (qualificazione e adattabilità della forza lavoro) che su quello della domanda di lavoro (politiche di sviluppo in grado di “creare” occupazione), l’ideale perseguito sarebbe, infatti, una società più attiva, non necessariamente una società di lavoratori220. Secondo D’Xxxxxx, pertanto, nel progetto europeo il diritto al lavoro perderebbe il forte orientamento all’«avere» (la property in job, ossia la stabilità reale del rapporto e l’identità di status legata alla qualifica) per spostare il suo baricentro sull’«essere», sulla persona e, quindi, sull’employability, l’occupabilità intesa quale uguale punto di partenza ma non di arrivo221.
Xxxxxxxxx, l’art. 4 Cost. legittimerebbe non solo quelle politiche che operano sul lato dell’offerta di lavoro, e cioè sul versante della forza lavoro, attraverso la triade orientamento- formazione-sostegno ma anche – ed è qui il senso più pregnante della disposizione costituzionale in commento – le politiche dello sviluppo e dell’occupazione tese a realizzare l’obiettivo della piena occupazione222.
Secondo un’altra autorevole dottrina, dall’art. 4 Cost. può trarsi un’indicazione del principio della tutela della professionalità: ed infatti, superata la tradizionale concezione del lavoro come mezzo utile soltanto ad assicurare una retribuzione, il diritto al lavoro sarebbe, allora, soddisfatto soltanto quando il lavoro sia adeguato alle capacità della persone ed idoneo a promuoverle sviluppando così la personalità del lavoratore223.
Peraltro, la tutela della professionalità può essere perseguita – come avremo modo di vedere nel Cap. III, Parte II, par. n. … – in diversi modi e quindi ricorrendo a diversi strumenti giuridici (in primis attraverso la formazione professionale, vd. art. 35, comma 2 Cost.). In dottrina è stato così evidenziato il rapporto tra art. 4 e art. 35, comma 2 Cost.: il diritto al lavoro già conterrebbe al suo interno il diritto alla formazione professionale e continua, ciò perché l’esistenza e l’esercizio del
220 Cfr. X. X’XXXXXX, Il diritto al lavoro, cit., p. 21. Tuttavia, occorre osservare che l’attuale art. 3 del Trattato sull’Unione europea (Tue), scaturente dal Trattato di Lisbona (2009), ha sancito l’obiettivo della «piena occupazione» (e, quindi, non più quello di un livello di occupazione semplicemente «elevato»). Nondimeno, bisogna anche aggiungere che tale obiettivo è smentito dagli stessi Trattati laddove, di fatto, fanno riferimento e richiamano il (diverso) obiettivo dell’«elevato livello di occupazione» (vd., a titolo esemplificativo, artt. 9, 147 e 151 Tfue);
221 Cfr. X. X’XXXXXX, Il diritto al lavoro, cit., pp. 22-23, il quale osservava altresì che il nesso tra crescita e occupazione, tipico della società industriale fordista, ora è “terreno di scelte politiche ” che ormai “non sono o, sono solo in parte, nele mani dei poteri costituzionali degli Stati”.
222 Cfr. X. XXXXXX, Intervento, cit., pp. 61-62, secondo il quale le politiche attive e i servizi per l’impiego, da soli, non sono in grado di “creare” occupazione. Non è un caso che anche l’art. 107 Tfue, pur con una formulazione cauta e ambigua, stabilisce che «possono considerarsi compatibili con il mercato interno […] gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione». “Il diritto del lavoro è oggi diritto dei rapporti di lavoro, diritto del mercato del lavoro, diritto orientato all’occupazione”.
223 X. XXXXXX, Qualifica, mansioni e tutela della professionalità, in Riv. giur. lav. e pr. soc., 1973, I, pp. 3 e ss. Tuttavia, lo stesso Xxxxxx evidenziava che l’art. 4 Cost. non sarebbe da solo idoneo a soddisfare direttamente il suddetto interesse, ma fungerebbe soltanto da supporto e legittimazione ad una normativa (di legge o collettiva) di attuazione di tale principio.
primo postulano la contemporanea e strumentale esistenza del secondo inteso quale diritto alla fruizione dei mezzi volti ad acquisire e conservare la professionalità necessaria per lo svolgimento di una attività lavorativa liberamente scelta224.
Interessante anche la posizione di chi ha individuato, all’interno del diritto al lavoro di cui all’art. 4 Cost., una (apparentemente scontata) libertà di lavorare, libertà che, però, acquisirebbe un rilievo del tutto particolare nel nostro ordinamento in quanto fonderebbe e giustificherebbe altresì l’origine contrattuale del rapporto di xxxxxx000.
Una questione intimamente collegata al diritto al lavoro e ancora “aperta” in dottrina e in giurisprudenza è quella relativa all’esistenza, o no, in capo al lavoratore di un diritto all’esecuzione effettiva della prestazione lavorativa226. Diritto, questo, che verrebbe oggi dai più affermato in ragione del riconoscimento, o meglio “riscoperta”227, dell’implicazione della persona nel rapporto di lavoro e, quindi, dell’immissione all’interno del contratto di lavoro di interessi diversi ed autonomi, quali la tutela e l’accrescimento della professionalità (la cui lesione, come vedremo, dà luogo ad un diritto al risarcimento del danno non patrimoniale)228.
Occorre, infine, dar conto del tradizionale orientamento della Corte Costituzionale, la quale ha avuto modo di ribadire in più occasioni che l’art. 4 Cost. non stabilisce un diritto all’assunzione o al mantenimento del posto di lavoro, seppur l’indirizzo di maggiore tutela del lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) ha portato nel tempo il legislatore ad introdurre temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro; tali garanzie, tuttavia, sono affidate alla discrezionalità del legislatore quanto alla scelta dei tempi e dei modi attuazione anche in ragione e in rapporto alla situazione economica generale229.
2.3. L’art. 35 Cost.
2.3.1 La tutela del lavoro tout court (art. 35, comma 1 Cost.)
Se l’art. 1 Cost. fonda la nostra Repubblica democratica sul lavoro, il principio protezionistico, di tutela del lavoro, è espresso in modo esplicito, innovativo e dirompente dall’art. 35, comma 1
000 Xxx. X. XXX, Xx professionalità, cit., pp. 776-777, secondo il quale “non può esservi lavoro senza professionalità”, professionalità che si consegue “oltre che con l’esperienza di lavoro […] mediante l’istruzione e la formazione professionale”, da qui la “coessenzialità” del diritto alla formazione e del diritto al lavoro.
225 Cfr. X. XXXXXXXX, X. XXXXX, Xxxxxxxxx e rapporto di lavoro, Xxxxx, Padova, 2001, p. 21. Sul “problema” dell’origine contrattuale del rapporto di lavoro cfr. Cap. III, par. nn. …
226 In passato un simile diritto era negato con veemenza in ragione della considerazione – secondo alcuni in realtà “pregiudizio” che l’unico interesse del lavoratore dedotto nel contratto di lavoro e, quindi, giuridicamente rilevante sarebbe quello economico legato alla retribuzione, cfr. X. XXXXXX, Professionalità e contratto di lavoro, Xxxxxxx, Milano, 2004, p. 3.
227 Risale a Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxxx il riconoscimento dell’implicazione della persona del lavoratore nel lavoro (cfr.
X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, Spirito del diritto del lavoro, in Il diritto del lavoro, 1948, I, pp. 273 e ss.). L’Autore fa derivare tale implicazione della persona nel lavoro da una serie di circostanze, in particolare: a) dalla subordinazione e dall’immissione del lavoratore nell’impresa; b) dalla dipendenza dalla retribuzione (di regola, il solo mezzo di sostentamento del lavoratore e, talvolta, anche della sua famiglia), cfr. X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, Nozioni di diritto del lavoro, Jovene, Napoli, 1987, 35 ed., p. 17.
228 Nel codice genetico del contratto di lavoro, infatti, comparirebbe anche il diritto allo sviluppo della professionalità che comporterebbe “il riconoscimento del diritto allo svolgimento della prestazione”, cfr. X. XXXXXX, Qualifica, cit., p. 14; cfr. anche X. XXXXXX, Il contratto di lavoro, cit., p. 97 e X. XXXXXX, La professionalità, cit., p. 7.
229 Cfr., fra le altre, Xxxxx Xxxx., xxxx. x. 00 del 1965; n. 194 del 1970; n. 129 del 1976; n. 189 del 1980; n. 2 del 1986; n.
46 del 2000; n. 541 del 2000; n. 303 del 2011.
Cost.: «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni»230.
Tale principio è stato tradizionalmente identificato nella disciplina protettiva del lavoratore quale “contraente debole”, secondo i più, risalente alle origini del diritto del lavoro231. Tuttavia, il disegno costituzionale sembrerebbe andare oltre tale (parziale) ambito di protezione232. Ed infatti, è stato evidenziato che le garanzie riconosciute dalla nostra Costituzione vanno al di là della mera protezione equitativa di interessi deboli a causa dello status economico e sociale dei loro titolari233.
L’art. 35, comma 1 Cost. va, pertanto, letto insieme alle altre disposizioni della Costituzione in materia di lavoro e non, in particolare insieme all’art. 4, comma 1 Cost., che – come sopra visto – riveste una posizione centrale nel sistema, nonché insieme all’art. 3, comma 2 Cost., che impone di individuare la giustificazione della tutela del lavoro nel compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli esistenti nei fatti all’eguaglianza sostanziale dei lavoratori234.
Senonché, questa direttiva di massima sarebbe stata, secondo i più, tradita dalla legislazione in materia di lavoro successiva all’entrata in vigore della Carta costituzionale in quanto essa è parsa, per lo meno sino all’avvento del c.d. diritto dell’emergenza, ispirarsi esclusivamente alla logica protettiva tradizionale235.
Nel corso della seconda metà del Novecento si è imposta, pertanto, l’esigenza di riequilibrare il sistema delle garanzie attivando politiche di tutela e di promozione del lavoro su un piano qualitativamente diverso e più ampio rispetto a quello tradizionale: dopo lo Statuto dei lavoratori le frontiere del diritto del lavoro si sono allargate dal rapporto individuale al mercato del lavoro, dall’azienda all’impresa, dalla organizzazione intra-aziendale alle politiche economiche e occupazionali236. La dottrina ha così espresso il bisogno di cercare nuove forme di garanzia che siano adeguate ai tempi ed effettive, tutto ciò richiederebbe interventi combinati (normativi e di autotutela collettiva) aventi ad oggetto il rapporto individuale del lavoro ma anche aspetti più generali che riguardano la collettività (c.d. diritto dell’economia)237.
2.3.2. La “cura” della formazione e dell’elevazione professionale (art. 35, comma 2 Cost.)
Come già visto, l’art. 35 Cost., che apre il Titolo III dedicato ai rapporti economici, sancisce la tutela del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (comma 1) e, subito dopo, afferma che la
230 È stato, infatti, sottolineato che lo Statuto albertino non solo non sancisce alcun diritto sociale ma non contiene neanche qualsivoglia riferimento ai contenuti propri dell’art. 35 Cost., cfr. X. XXXXXXX, Art. 35, in X. XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Milano, 2006, p. 720, la quale riporta altresì le parole di Xxxxxxx, presidente della III sottocommissione sul lavoro in seno all’Assemblea costituente, che ne evidenziava la “importantissima specificazione” del principio lavorista e la sua autonomia rispetto all’art. 1 Cost.: l’art. 35, comma 1 Cost., infatti, “non costituisce una vana ripetizione” dell’art. 1 ma esprime un “concetto […] indubbiamente diverso” essendo la prima “una disposizione di carattere generale, che consenta al legislatore di domani altre forme di tutela” (cfr. il discorso tenuto dall’on. Xxxxxxx nella seduta dell’8 maggio 1947, in A.C., II, p. 1501).
231 Per un’analisi critica di tale visione, cfr. M.G. XXXXXXXX, Un profilo ideologico del diritto del lavoro, in AA.VV.,
Studi in onore di Xxxx Xxxxxx, Xxxxxxx, Bari, 1999, Tomo I, pp. 453 e ss.
000 Xxx. X. XXXX, Xx I° comma dell’art. 35, in AA.VV., Rapporti economici, Tomo I, in X. XXXXXX (a cura di),
Commentario della Costituzione, Zanichelli, ed. Foro Italiano, 1979, p. 4.
233 Cfr. X. XXXXXXXXX, Art. 3, 2° comma, in Commentario della Costituzione, cit., p. 185.
234 Cfr. C. MORTATI, sub art. 1, in Commentario della Costituzione, cit., n. 11, pp. 17-19.
000 Xxx. X. XXXX, Xx I° comma dell’art. 35, cit., p. 5.
000 Xxx. X. XXXX, Xx I° comma dell’art. 35, p. 9. Per l’Autore sono dunque necessarie politiche del diritto che governino la mobilità e, più in generale, il mercato del lavoro con interventi in materia di politica industriale (investimenti), oltre che in materia di collocamento e formazione professionale.
000 Xxx. X. XXXX, Xx I° comma dell’art. 35, p. 12.
Repubblica «cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori» (comma 2).
La storia della formulazione del secondo comma dell’art. 35 Cost. è del tutto particolare e, per questo, merita di essere brevemente ripercorsa anche per capire meglio il contenuto (esiguo) della disposizione in commento attraverso i lavori dell’Assemblea costituente e il “non detto”, ossia gli emendamenti non approvati238.
Dall’analisi dei lavori preparatori e della discussione in seno all’Assemblea costituente emerge che la formazione professionale era, già all’epoca, sovraccaricata di funzioni ed aspettative239, da taluni finanche vista come uno strumento per superare la lotta di classe240.
In particolare, la scelta del termine “formazione” – benché non meglio definito e specificato dall’art. 35 Cost. – invece che “istruzione” è stata giustificata dal fatto che “quest’ultima ha carattere ristretto, mentre qui si vuole mettere in luce che la Repubblica assume il compito, non solo d’istruire in senso tecnico, ma anche di formare la mentalità e la tecnica per il lavoro professionale”241. La terza sottocommissione (che si occupava della riforma agraria) e poi l’Assemblea costituente, infatti, sembravano aver compreso che per stabilire equi rapporti sociali fosse necessario promuovere la formazione e, quindi, l’elevazione professionale dei lavoratori242.
La genesi e la collocazione topografica non casuale (a completamento ed integrazione degli artt. 33 e 34 Cost. ma all’interno di due diversi titoli243, sebbene prima della parte dedicata ai rapporti economici in senso stretto) dell’art. 35, comma 2 Cost. rendono, invero, palese l’aspetto centrale ed ambivalente della formazione professionale: l’appartenere al mondo dell’istruzione244 e,
238 La genesi del comma 2 dell’art. 35 Cost. è stata una delle più complesse tra le norme lavoristiche: la disposizione iniziò ad assumere i connotati attuali in Assemblea costituente molto tardi (il 13 maggio 1947) soltanto dopo che le lunghe discussioni svolte nella terza sottocommissione in ordine alla riforma agraria che doveva essere abbinata ad una elevazione professionale, morale e sociale dei lavoratori agricoli si incrociarono con le valutazioni fatte in seno alla prima sottocommissione dove si discuteva del futuro dell’istruzione professionale in Italia e si esprimevano esigenze di collegarla al mondo del lavoro, cfr. X. XXXXXXXX, La formazione dei lavoratori: una tutela per caso, in X. XXXXX (a cura di), Prima di tutto il lavoro. La costituzione di un diritto all’Assemblea costituente, Ediesse, Roma, 2014, pp. 133- 135.
239 La più attenta dottrina, infatti, ha evidenziato che “l’istruzione e la formazione non sono panacea capace di risolvere da sola la crisi occupazionale della società postindustriale”, cfr. X. XXX, Formazione e rapporti di lavoro, cit., p. 10.
240 Si rinvia, in particolare, al discorso del repubblicano Della Seta del 7 maggio 1947 e a quello del democristiano Xxxxxxxxxxxx (“La scuola serve l’industria, l’industria serve il lavoro […] C’è solo da desiderare che l’unione del capitale e del lavoro, questa unione che tutti auspichiamo, protesi verso la rinascita della nostra Patria, debba incominciare proprio qui, proprio nella scuola professionale, come un’alba di promesse”) entrambi riportati in X. XXXXXXXX, La formazione dei lavoratori, cit., pp. 139-140. Su posizioni più moderate si attestavano, invece, altri esponenti della DC: “Una repubblica che dichiara suo fondamento il lavoro, non può non affermare nella sua Carta costituzionale il proposito di voler dare alla scuola del lavoro il suo massimo impulso. Alla classe lavoratrice, che chiede di partecipare più intensamente alla vita del Paese dobbiamo guardare con fiducia e dobbiamo preparare nella scuola i mezzi per la sua ascesa” (on. Xxxxx Xxxxxxxxx, DC, intervento del 17 aprile 1947), era evidente la prospettiva di collegare la formazione ad una crescita sociale della classe operaia e non ad un mero ed eventuale sviluppo dell’occupazione, cfr. X. XXXXXXXX, La formazione dei lavoratori, cit., p. 138.
241 Sono queste le parole spese dal Xxxx Xxxx, il quale proponeva all’Assemblea costituente di approvare una norma che impegnasse lo Stato a “preparare dal punto di vista professionale i lavoratori, tanto che il rendimento del loro lavoro sia il massimo possibile” e sancisse, allo stesso tempo, l’elevazione professionale dei lavoratori quale “indicazione sintetica di un complesso di provvedimenti tendenti ad ottenere un livello più alto di vita professionale, culturale e tecnica dei lavoratori”, Ass. cost., seduta pomeridiana di martedì 13 maggio 1947, in Costituzione della Repubblica, II, pp. 1703-1705.
242 Cfr. M. NAPOLI, Il 2° comma dell’art. 35, in AA.VV., Rapporti economici, Tomo I, in X. XXXXXX (a cura di),
Commentario della Costituzione, Zanichelli, ed. Foro Italiano, 1979, pp. 19-22.
243 Sul punto, cfr. X. XXX, Formazione e rapporto di lavoro, cit., pp. 16-17, dove si trova un’analisi congiunta degli artt. 34 e 35, comma 2 Cost. e la relativa bibliografia. L’Autore evidenzia altresì che i costituenti optarono per l’attuale collocazione al fine di sottolineare lo stretto collegamento con la materia del lavoro, ciononostante non sarebbe venuto meno l’altro collegamento, quello con il diritto all’istruzione.
244 Contrariamente a quanto espresso dall’xx. Xxxx, la Corte costituzionale ha avuto modo di definire la formazione professionale individuandone i confini con l’“istruzione”: “Il nucleo essenziale di tale concetto emerge, con sufficiente chiarezza, dal dibattito sviluppatosi in sede dottrinale e nelle varie occasioni di progettazioni normative. In sostanza,
al contempo, il suo essere strumentale allo svolgimento dell’attività lavorativa245. Ed infatti, la formazione professionale risulta essere una materia di confine tra lavoro e impresa (tant’è che è durante la discussione sui limiti del diritto di proprietà che la disposizione in commento viene approvata), presentando questioni e problematiche ancora oggi aperte quali il rapporto tra utenti e operatori, tra domanda e offerta di formazione246.
Seconda alcuni commentatori, la peculiarità dell’art. 35 Cost., che la contraddistingue dalle altre Carte costituzionali (che riconoscono soltanto la libertà di scelta o accesso alla formazione), consisterebbe nell’obbligare la Repubblica a predisporre le misure necessarie affinché i lavoratori possano conseguire i più alti livelli di vita professionale247. Onde, secondo questa ricostruzione, l’art. 35 stabilirebbe un binomio inscindibile tra formazione ed elevazione professionale (vi è elevazione quando vi è formazione, anche se vi possono essere interventi differenziati volti a perseguire separatamente i due obiettivi), che rappresenta la novità della norma nonché una grande meta civile248.
I non molti autori che hanno analizzato la materia hanno ricondotto l’art. 35, comma 2 Cost. tra le norme generatrici di obblighi sociali o tra quelle di attuazione o, meglio, specificazione dei principi e delle direttive contenute negli artt. 1-4 Cost.249.
Più nello specifico, la formazione professionale, secondo parte della dottrina, avrebbe assunto valore di diritto sociale di prestazione (o pretensivo) a cui corrisponderebbe specularmente un obbligo in capo ai pubblici poteri di attivarsi al fine di realizzare gli obiettivi della disposizione in commento, in particolare un sistema o, comunque, delle strutture deputate all’erogazione di formazione professionale250.
Di contro, secondo un’altra opinione che parrebbe “svalutare” la portata della disposizione, l’art. 35, comma 2 Cost. sarebbe una norma meramente programmatica inidonea a far sorgere un diritto soggettivo alla formazione in capo al lavoratore251.
Sebbene non sorga dal nulla252, l’articolo in commento ha un ulteriore carattere innovativo: esso non solo, come sopra visto, abbozzerebbe un disegno di lungo periodo ma darebbe luogo ad un
deve ritenersi che l’istruzione in parola [n.d.r.: istruzione/formazione professionale] superi l'ambito del concetto comunemente accolto in precedenza, in quanto ora si caratterizza per la diretta finalizzazione all'acquisizione di nozioni necessarie sul piano operativo per l'immediato esercizio di attività tecnico-pratiche, anche se non riconducibili ai concetti tradizionali di arti e mestieri”; di contro, l’“istruzione in senso lato, attinente all'ordinamento scolastico e […] di competenza statale […], pur se impartisce conoscenze tecniche utili per l'esercizio di una o più professioni, ha come scopo la complessiva formazione della personalità” (cfr. Corte cost., sent. n. 89/1977).
245 Cfr. M. NAPOLI, Il 2° comma dell’art. 35, cit., p. 20.
246 In tal senso X. XXXXXXX, Art. 35, in X. XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Milano, 2006, p. 721.
247 Cfr. M. NAPOLI, Il 2° comma dell’art. 35, cit. p. 20.
248 Cfr. M. NAPOLI, Il 2° comma dell’art. 35, cit., p. 52.
249 La formazione professionale costituisce uno degli strumenti principali attraverso cui l’ordinamento intende realizzare il diritto al lavoro di cui all’art. 4 Cost., sul punto cfr. X. XXXXXXX, sub art. 4, in op. cit., pp. 220-221. In senso analogo, anche se più incentrato sulla connessione tra istruzione professionale ed intervento dello Stato mediante la politica dell’occupazione, cfr. C. MORTATI, Il lavoro nella Costituzione, p. 165. È stato, tuttavia, osservato che l’art. 35, comma 2 Cost. completa l’art. 4, ma non lo esaurisce, cfr. X. XXX, Formazione e rapporto di lavoro, cit., p. 21.
250 Diritto che sembra azionabile in caso di illegittima esclusione del lavoratore per ragioni discriminatorie, cfr. X. XXXXXXX, Art. 35, cit., pp. 728-729, la quale richiama una pronuncia del Tribunale di Teramo (Trib. Teramo, decreto del 3 dicembre 1999 con cui è stato riconosciuto il diritto di una lavoratrice in stato di gravidanza a partecipare a un corso di formazione professionale.
251 Sul punto, cfr. X. XXXXXX, Professionalità e contratto di lavoro, cit., pp. 8-9. L’Autrice, in particolare, rileva criticamente che la formazione professionale è sia stata vista esclusivamente come uno strumento del mercato del lavoro, volto a favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, non avente alcuna rilevanza all’interno del rapporto di lavoro.
cambiamento d’ottica in quanto i destinatari del precetto sarebbero, sul versante dei beneficiari, tutti i lavoratori, a prescindere dall’età anagrafica (rompendo così il nesso strumentale tra formazione professionale e primo avviamento al lavoro) e secondo alcuni anche indipendentemente dal carattere subordinato o autonomo della prestazione253; sul versante dei soggetti tenuti a prendersi “cura” della formazione, l’intera Repubblica (tra cui le Regioni, gli enti locali, i sindacati, ma anche i privati sulla base del principio di sussidiarietà) anche grazie all’adesione a o al supporto di organismi internazionali ai sensi degli artt. 11, 35, comma 4 e 117 Cost.
Senonché, la disposizione in commento è molto asciutta, per non dire laconica. Essa, infatti, da un lato, non chiarisce la nozione di “formazione professionale”, dall’altro lato, nella sua struttura difetta, diversamente da altri articoli della nostra Carta costituzionale, degli strumenti necessari a realizzare gli obietti posti dalla stessa (la “cura” della formazione e l’elevazione professionale). Tant’è che in letteratura si è parlato di contenuto precettivo limitato al profilo teleologico in quanto l’art. 35, comma 2 Cost. indica soltanto gli obiettivi che devono essere perseguiti a più livelli rimettendo ai destinatari la scelta dei relativi mezzi254. Peraltro, la dimensione teleologica della disposizione in commento condizionerebbe anche i contenuti del diritto: i cittadini, infatti, debbono ricevere una prestazione “formativa” variabile a seconda delle circostanze socio-economiche (innovazione tecnologica, mutamenti organizzativi e produttivi, ecc.) nonché a seconda delle scelte professionali liberamente intraprese dalla singola persona255.
Dall’art. 35, comma 2 Cost. non è possibile ricavare ulteriore contenuto normativo, se non analizzando la norma in una prospettiva diacronica attraverso l’analisi delle modalità e della misura con cui la Repubblica, e quindi anche l’iniziativa dei privati256, ha ottemperato in concreto all’obbligo in questione257.
252 Nel periodo corporativo vi erano stati, infatti, interventi in materia sia da parte dell’attore pubblico che della contrattazione collettiva.
tutti coloro che esercitano una
253 Tale questione si riconnette, in realtà, al più generale problema se le disposizioni costituzionali in materia di lavoro si riferiscano soltanto ai lavoratori subordinati o anche a quelli autonomi, cfr. sul punto X. XXX, Formazione e rapporto di lavoro, cit., pp. 24-25, il quale adotta una posizione intermedia distinguendo i casi in cui l’art. 35, comma 2 Cost. venga utilizzato al fine di realizzare gli obiettivi di cui all’art. 3 Cost. (lavoratori subordinati) e quelli in cui tende a realizzare condizioni generali di progresso (anche autonomi). Lo stesso Autore in un altro saggio ha posto in evidenza che sino all’instaurazione del rapporto di lavoro tutti i cittadini possono beneficiare dello stesso diritto con modalità uguali (ad eccezione delle norme speciali destinati a soggetti svantaggiati), però a seguito dell’instaurazione del rapporto sorgono delle differenze in ordine al contenuto delle prestazioni a seconda dello status del lavoratore (subordinato, autonomo, ecc.), cfr. X. XXX, La professionalità, cit., p. 781. Oltre all’art. 17 della legge n.196/1997, giova richiamare il recente art. 7 del D.P.R. n. 137/2012, recante la riforma degli ordinamenti professionali emanata ai sensi dell’art. 3, comma 5 del d.l. n. 138/2011, conv. in l. n. 148/2011, che impone a
professione “regolamentata” l’«obbligo di curare il continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale» secondo i regolamenti adottati dall’ordine professionale di appartenenza, a pena di commettere un
«illecito disciplinare». Per quanto riguarda le professioni non ordinistiche, vd. l’art. 2, comma 3 della legge n. 4/2013 che prevede soltanto la promozione della formazione permanente dei lavoratori da parte delle associazioni professionali (privatistiche) liberamente costituite dagli stessi.
254 Cfr. M. NAPOLI, Il 2° comma dell’art. 35, cit., p. 23. In altri termini, la formazione professionale costituisce un compito costante per la Repubblica, la quale è chiamata ad individuare in concreto i destinatari, i livelli formativi ed i contenuti della stessa nonché i soggetti, le strutture e i mezzi per la gestione del processo formativo.
255 È questa l’ulteriore specificazione della dimensione teleologica del diritto alla formazione (anche detto “diritto all’adeguamento della propria professionalità”) elaborata da X. XXX, La professionalità, cit., p. 778.
256 Analogamente a quanto avviene per il primo comma dell’art. 35, il richiamo alla «Repubblica» va letto alla luce dell’art. 118, ultimo comma Cost. che afferma il principio di sussidiarietà orizzontale e, quindi, la possibilità di intervento anche dei privati, cfr. tal senso X. XXXXXXX, Art. 35, cit., p. 723.
257 Dall’analisi svolta a fine anni ’70, il dato desumibile dalla legislazione del tempo è che la formazione professionale aveva già allora acquisito il valore di un vero e proprio strumento di politica economico-sociale che si collocava all’interno della più ampio ambito del governo del mercato del lavoro, cfr. M. NAPOLI, Il 2° comma dell’art. 35, cit., p.
39. L’Autore evidenziava, però, la totale assenza nella legislazione italiana dell’epoca della realizzazione della seconda direttiva contenuta nell’art. 35, comma 2 Cost., e cioè la funzionalizzazione della formazione all’elevazione professionale, mancanza, questa, ritenuta “incomprensibile” nonostante fosse prioritario, in un sistema affetto da una
Ciò che è ineludibile, però, è il fatto che l’art. 35, comma 2 Cost. contiene una direttiva di sostegno alle iniziative tese a favorire la mobilità verticale sui luoghi di lavoro e, più in generale, la mobilità sociale anche attraverso attività di formazione professionale di tipo continuo o permanente258. Da qui discenderebbe la visione e la prospettiva “dinamica” dell’art. 35, comma 2 Cost. (l’«elevazione professionale» dei lavoratori) che si affiancherebbe alla prospettiva “statica” sempre presente nella disposizione in commento (l’istruzione e la formazione professionale come strumenti volti al conseguimento di una qualifica professionale per agevolare l’ingresso nel mondo del lavoro)259.
Ed infatti, il nesso tra principio lavorista (art. 1 e 35 Cost.) e quello personalista (art. 2 Cost.) va ricostruito in termini se non di subordinazione quantomeno di consequenzialità del primo rispetto al secondo: la Costituzione ha riconosciuto valore primario alla persona che necessita, per la propria compiuta realizzazione, di un’attività lavorativa. In altri termini, la nostra Carta costituzionale non si ispira ad una visione economicista della vita umana: il lavoro è sì criterio ordinatore dell’assetto economico però esso è posto sempre a tutela e promozione della personalità umana260.
2.4. Il diritto al lavoro e alla formazione nelle fonti sovranazionali
Altre disposizioni, di fonte sovranazionale, talune anche aventi carattere sovraordinato rispetto alla legge italiana, hanno ribadito o affermato in modo peculiare il diritto al lavoro e alla formazione professionale.
In particolare, l’art. 14 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza/Strasburgo)261, rubricato “Diritto all’istruzione”, stabilisce che «ogni persona» ha diritto, oltre che all’istruzione, anche all’«accesso alla formazione professionale e continua» (comma 1).
Sono evidenti le differenze, quantomeno sul piano formale e sistematico, con l’impostazione adottata dalla nostra Costituzione: qui il diritto alla formazione è riferito indistintamente a “ogni persona” ed è unito insieme al diverso (ma evidentemente contiguo) diritto all’istruzione262.
disoccupazione strutturale, il collegamento tra formazione professionale e il tema dell’occupazione (intesa quale ricerca di un posto di lavoro). Pertanto, l’’unica norma garantista dell’elevazione professionale era, secondo Napoli, l’art. 13 St. lav. che regolava e, in un certo qual modo, promuoveva la professionalità e la “mobilità verticale” del lavoratore all’interno dell’impresa, ma non anche la “mobilità sociale”. D’altro canto, anche la contrattazione collettiva dell’epoca si è occupata molto di rado e in misura marginale della formazione professionale dei lavoratori già occupati. Tuttavia, tali considerazioni, certamente valide a fine anni ’70, devono oggi essere riviste alla luce dell’evoluzione della normativa statale (e sovranazionale), ma anche dei più recenti contenuti della contrattazione collettiva, si rinvia sul punto al ….
258 È stata sostenuta in passato la necessità di riconoscere un diritto alla formazione culturale permanente, prima ancora
che un diritto alla formazione professionale ricorrente, anche e soprattutto come mezzo che consenta la possibilità di crescita individuale e collettiva nonché una forte mobilità sociale, Cfr. X. XXXXXX, Il 2° comma dell’art. 35, cit., pp. 51-52. Secondo questa opinione, fin quando la formazione professionale non sarà collegata a tali iniziative di mobilità (verticale e sociale), l’art. 35, comma 2 Cost. esprimerà soltanto un giudizio di condanna del presente e non verrà affrontata la sfida posta da tale disposizione: essa, infatti, letta congiuntamente ai primi quattro articoli della Costituzione, non postula soltanto una eguaglianza dei punti di partenza, ma esprime fiducia nella piena realizzazione della persona e nella capacità di crescita delle classi subalterne.
000 Xxx. X. XXX, Xx professionalità, cit., p. 774.
260 Cfr. X. XXXXXXX, Art. 35, cit., p. 722.
261 Stipulata il 7 dicembre 2000 a Nizza e una seconda volta, in una versione aggiornata, il 12 dicembre 2007 a Strasburgo (da qui il nome: Carta di Nizza/Strasburgo). Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (2009), la Carta ha acquisito il medesimo valore giuridico (vincolante) dei Trattati (art. 6 Tue), ossia una vera e propria fonte del diritto primario dell’Ue.
262Cfr. in tal senso X. XXX, La professionalità, cit., p. 775, il quale evidenzia le differenze con il tradizionale assetto della materia nell’ordinamento italiano dove si tende a separare ciò che non sembra possibile distinguere sul piano
Peraltro, la formazione viene declinata sia nella sua dimensione “professionale” che nella sua dimensione diacronica che deve coprire tutto l’arco della vita lavorativa (c.d. formazione continua). Secondo alcuni, essa pertanto dovrebbe intendersi riferita e connessa al diritto all’adeguamento della professionalità del lavoratore all’evoluzione tecnologica e ai mutamenti organizzativi, come d’altra parte previsto dai Trattati263.
Nel successivo art. 15, rubricato “Libertà professionale e diritto di lavorare” è, invece, affermato il «diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta o accettata» (comma 1). Se il primo comma riconosce una posizione giuridica soggettiva in capo ad «ogni persona», il successivo comma specifica e declina tale diritto di libertà («libertà di cercare un lavoro, di lavorare, di stabilirsi o di prestare servizi in qualunque Stato membro»), però, soltanto con riferimento ai cittadini dell’Unione europea264.
È considerevole la diversa portata di tale diritto rispetto a quello di cui all’art. 4 Cost.: il diritto di lavorare, infatti, consiste essenzialmente in una libertà di ricerca, scelta (o accettazione) di un’attività lavorativa o professionale strettamente connesso ad una libertà fondamentale dell’Unione europea, e cioè la libertà di circolazione delle persone e di stabilimento all’interno del mercato europeo.
Tuttavia, è stato sostenuto in dottrina che, leggendo in combinato disposto gli artt. 14 e 15 della Carta di Xxxxx, la formazione assurge a diritto sociale di libertà avente una funzione composita: configurazione “strumentale” (formazione “per” il lavoro, la carriera, ecc.) e “finale” (formazione “come” conoscenza, competenza, istruzione, cultura) ma comunque “positiva” (la persona viene trattata e considerata come soggetto agente del proprio progetto di vita)265.
Un’ulteriore disposizione della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue che merita, in questa sede, particolare attenzione, giacché intimamente collegata all’art. 15266, è l’art. 29, rubricato “Diritto di accesso ai servizi di collocamento”. Tale disposizione afferma, per la prima volta, in modo esplicito
ontologico: istruzione tout court e istruzione/formazione professionale che – secondo l’Autore – sono “entrambe, sia pure in misura diversa, […] volte sia all’acquisizione di una «professionalità» intesa quale abilitazione formale all’esercizio di una professione o di un mestiere, sia all’acquisizione di competenze e abilità che consentano lo svolgimento di un’attività lavorativa o che consentano di svolgerla nel migliore dei modi”. Quello sancito dalla Carta di Nizza sarebbe, peraltro, un vero e proprio diritto soggettivo (in senso tecnico) all’istruzione e alla formazione professionale.
263 Cfr. X. XXXXXX, La Carta dei diritti (sociali) fondamentali dell’Unione Europea, in RDSS, 2001, n. 6, p. 12 richiamato in X. XXX, La professionalità, cit., p. 775, nota 37. In particolare, l’art. 145 Tfue (vecchio art. 125 Tce) prevede che gli Stati membri e le istituzioni dell’Ue si adoperano per sviluppare una «strategia coordinata a favore dell'occupazione», in particolare a favore della promozione di una «forza lavoro competente, qualificata, adattabile e di mercati del lavoro in grado di rispondere ai mutamenti economici». Gli obiettivi che persegue la politica europea in materia di occupazione sono, infatti, quelli di cui all’art. 3 Tue, tra cui: «crescita economica equilibrata», «stabilità dei prezzi» ed «economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale».
264 In ogni caso, il terzo comma dell’art. 15 sancisce il principio di eguaglianza e non discriminazione nei confronti dei cittadini di Stati terzi che sono autorizzati a lavorare nel territorio degli Stati membri dell’Ue: ad essi è, infatti, riconosciuto il «diritto a condizioni di lavoro equivalenti a quelle di cui godono i cittadini dell’Unione».
265 Cfr. X. XXXXXX, Occupabilità, formazione e «capability», cit., pp. 39-40, il quale evidenzia altresì che l’aver unito istruzione e formazione nello stesso articolo sta a significare che la Carta di Xxxxx garantisce la libertà effettiva della persona attraverso la conoscenza che è un bene in sé ma che può anche essere orientato allo svolgimento di un’attività lavorativa (non a caso nel Progetto di Costituzione europea la formazione era inserita nel titolo II dedicato alla libertà: secondo questa prospettiva, pertanto, la formazione è mezzo per perseguire la libertà effettiva della persona a costruire e realizzare il proprio progetto di vita). Nella Costituzione italiana, invece, il diritto alla formazione è collocato nel Titolo III dedicato ai Rapporti economici.
266 Il diritto al lavoro è, infatti, intrinsecamente connesso al diritto di accedere ai servizi per l’impiego giacché l’effettività del primo dipende anche, ma non esclusivamente, dall’esistenza di un efficace sistema di servizi di collocamento, in tal senso A. XXXXXX, Art. 29, in X. XXXXXXXXXXX e altri (a cura di), La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Xxxxxxx, Milano, 2017, pp. 561 e ss.
un «diritto di accedere a un servizio di collocamento gratuito», diritto che, peraltro, è riconosciuto universalmente a «ogni persona» elevandosi così al rango di diritto primario o essenziale267.
I diritti sopra analizzati, in realtà, erano già affermati (ad eccezione del diritto di accesso ai servizi di collocamento) dalla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori268. In particolare, essa prevede in capo ad «ogni lavoratore della Comunità europea» il diritto all’accesso alla formazione professionale lungo tutto l’«arco della vita attiva» (art. 15).
La medesima disposizione stabilisce anche un principio di non discriminazione in base alla nazionalità nella disciplina di modalità di accesso alla formazione professionale nonché un’indicazione di impegno rivolta alle autorità pubbliche competenti, alle imprese e alle parti sociali avente ad oggetto la predisposizione, per quanto di loro competenza, di «sistemi di formazione continua e permanente» che permettano, anche attraverso la fruizione di congedi, la riqualificazione professionale, il perfezionamento e l’acquisizione di nuove conoscenze «tenuto conto in particolare dell'evoluzione tecnica».
A livello internazionale, si segnala la Carta Sociale Europea269 che afferma in più parti e declina in varie forme il diritto alla formazione professionale collegandolo ad altri diritti fondamentali in materia (orientamento professionale, libertà di scelta di una professione conforme alle attitudini professionali e agli interessi della persona, protezione contro la povertà e l’emarginazione sociale, ecc.).
Più nel dettaglio, i riferimenti alla formazione professionale presenti nella Carta Sociale Europea sono:
a) il diritto a «adeguati mezzi di formazione professionale» riconosciuto universalmente ad «ogni persona» (Parte I, punto 10);
b) l’impegno delle Parti firmatarie «ad assicurare o favorire un orientamento, una formazione ed un riadattamento professionale» che siano «adeguati» al fine di «garantire l’effettivo esercizio del diritto al lavoro» (art. 1, comma 4)270;
c) una serie di impegni delle Parti firmatarie al fine di «assicurare l’effettivo esercizio del diritto alla formazione professionale» (art. 10)271;
267 X. XXXXXX, 2003 in X. XXXXXX, Art. 29, cit.
268 Proclamata dal Consiglio europeo a Strasburgo il 9 dicembre 1989, su impulso dell’allora Commissione Xxxxxx. Tale Carta è priva, di per sé, di valore giuridico vincolante ed è, pertanto, considerata un mero atto di indirizzo politico diretto, oltre che agli stessi Stati membri, alle istituzioni europee. Tuttavia, occorre far presente che l’art. 151, par. 1 Tfue richiama espressamente questa Carta disponendo che l’Unione europea e gli Stati membri devono “tenere presenti” «i diritti sociali fondamentali, quali quelli definiti nellaCarta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989».
269 Adottata a Torino il 18 ottobre 1961 e rivista a Strasburgo il 3 maggio 1996, essa ha natura di trattato internazionale nell’ambito del Consiglio d'Europa e rappresenta l’altra faccia della medaglia della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), la quale si limita ad affermare diritti civili e politici. Anche questa Carta (come visto alla nota precedente) è espressamente richiamata all’art. 151 Tfue entrando così in qualche modo a far parte dell’acquis eurounitario.
270 È stato correttamente sottolineato in letteratura che la Carta Sociale Europea è “meno esplicita” nel riconoscere il diritto alla libera scelta di un lavoro limitandosi ad affermare che il lavoro con cui «guadagnarsi la vita» deve essere
«liberamente intrapreso» (Parte I, punto 1), cfr. X. XXX, La professionalità, cit., p. 779. Occorre aggiungere che l’art. 9 della Carta Sociale Europea, rubricato Diritto all’orientamento professionale, prevede (senza sancirlo espressamente come diritto) la «scelta di una professione» che deve essere effettuata però sempre «in considerazione delle caratteristiche dell’interessato e delle possibilità offerte dal mercato del lavoro».
271 In particolare, le parti si impegnano ad assicurare o favorire: la formazione tecnica e professionale di tutte le persone, ivi comprese quelle inabili o minorate, in consultazione con le organizzazioni professionali di datori di lavoro e di lavoratori, fornendo loro dei mezzi che consentano l’accesso all’insegnamento tecnico superiore ed all’insegnamento universitario, seguendo unicamente il criterio delle attitudini individuali (punto 1); un sistema di apprendistato ed altri sistemi di formazione per i giovani nei differenti posti di lavoro (punto 2); provvedimenti adeguati ed agevolmente
d) l’impegno delle Parti firmatarie a prendere misure per promuovere l’effettivo accesso, tra le altre cose, alla «formazione professionale, all’insegnamento, alla cultura» al fine di assicurare l’effettivo esercizio del «diritto alla protezione contro la povertà e l’emarginazione sociale» (art. 30).
Occorre, infine, far presente che in tutte le Costituzioni europee, a prescindere dalla forma dello Stato (sociale o no), è sancito un diritto di accesso all’istruzione e alla formazione professionale.
accessibili per la formazione professionale dei lavoratori adulti (punto 3, lett. a); provvedimenti speciali per la rieducazione professionale dei lavoratori adulti, resa necessaria dal progresso tecnico o da nuovi orientamenti del mercato del lavoro (punto 3, lett. b); speciali provvedimenti di riciclaggio e di reinserimento per i disoccupati di lunga data (punto 4). Inoltre, le parti si sono impegnate ad incentivare la piena utilizzazione dei mezzi previsti mediante le seguenti norme:a) riduzione o abolizione di tutti i diritti ed oneri; b) concessione di assistenza finanziaria nei casi appropriati; c) inclusione nel normale orario di lavoro del tempo destinato ai corsi supplementari di formazione che il lavoratore frequenta durante il lavoro, su domanda del suo datore di lavoro; d) garanzia, per mezzo di un adeguato controllo ed in consultazione con le organizzazioni professionali di datori di lavoro e di lavoratori, dell’efficacia del sistema di apprendistato e di ogni altro sistema di formazione destinato ai giovani lavoratori, ed in generale di un’adeguata tutela per i giovani lavoratori (punto 5).
CAPITOLO III
CONTRATTO DI LAVORO, TUTELA DELLA PROFESSIONALITÀ E FORMAZIONE NELL’ORDINAMENTO POSITIVO
PARTE I
GENESI, FUNZIONI, CAUSA E OGGETTO DEL CONTRATTO DI LAVORO
“Il giurista positivista – o, se si vuole con qualche tono di dispregio, il positivista – si racchiude “nell’imminenza del volere umano” perché non ha l’anelito al trascendente ed ad un moto ascensionale, che dalle leggi positive sale alle costituzionali, e da esse a dichiarazioni di universali diritti, e poi a principi sempre più ampi, ed ancora ai valori e talvolta qui non si acquieta e riposa perché i valori rimandano a colui che li pone e assicura (Dio, la natura o
le altre entità metafisiche). E così attraverso passaggi intermedi che si allontanano a grado a grado dal divenire storico, si giunge alla professione di fede, alla scelta weberiana del proprio Dio.”
X. XXXX, I “cancelli delle parole”. Intorno a regole, principi, norme, Editoriale scientifica, Napoli, 2015
3.1.1. Introduzione: il contratto di lavoro come conquista o finzione di libertà?
Nell’affrontare temi e problemi di così ampio respiro, l’inquadramento e la soluzione dei quali comporta, inevitabilmente, una serie (inimmaginabile) di ricadute su altri istituti ad essi direttamente o indirettamente connessi, pare necessario partire dal contratto di lavoro, dalla sua genesi, dalle sua nozione, dalla sua struttura e contenuto nonché dalle funzioni che lo stesso ha ricoperto e continua a ricoprire nel nostro ordinamento giuridico.
In particolare, uno degli scopi dell’analisi sarà quello di provare a dare una risposta alla fondamentale questione se l’“invenzione” del contratto di lavoro sia stata, ed eventualmente in che modo, una effettiva “conquista” di libertà ovvero una “maschera”, una “mistificazione” della realtà utile, se non necessaria, a giustificare il sistema economico e produttivo (in continua evoluzione) della nostra società.
Nel far ciò si ritiene imprescindibile rifarsi a e richiamare, seppur fugacemente, quelli che sono considerati gli “studi classici” della materia. Studi, questi, che se devono, senza dubbio, orientare, soprattutto sul piano metodologico, il presente lavoro di ricerca, non ne devono però compromettere aprioristicamente gli esiti, ciò perché quelle analisi, che conservano tuttora grande rigore scientifico e, in taluni casi, anche validità sostanziale ed attualità, sono state svolte in un contesto normativo (e socio-economico) diverso da quello attuale.
3.1.2. La genesi e le ragioni della creazione del contratto di lavoro come negozio autonomo.
Partendo dalla genesi del termine, occorre rilevare che la locuzione contratto di lavoro,
sconosciuta al Codice civile del 1865272, compare per la prima volta nella legislazione e nella dottrina italiana verso la fine dell’Ottocento. Essa, però, diventa soltanto nel XX secolo con la definitiva affermazione della società di massa di tipo industriale273, ed anche grazie all’opera di Lodovico Barassi274, espressione di uso comune, continuando tuttavia a conservare, per lungo tempo, un significato tutto incerto275.
In realtà, la “rottura epocale” con il passato276 si era già consumata nei codici civili liberali ispirati dagli ideali della Rivoluzione francese del 1789 con l’adozione dello schema romano (deformato) della locazione (delle opere) che doveva esaltare e, al contempo, salvaguardare la libertà (più che altro negoziale) del lavoratore in nome del principio di uguaglianza formale (“qui dit contractuel dit juste”)277 nonché l’economia di mercato278.
272 Sulla falsariga del Codice napoleonico, il Codice civile del 1865 riconduce il rapporto di lavoro allo schema della locazione. In particolare, l’art. 1570 distingueva all’interno della «locazione delle opere»: la locatio operarum (antesignano del lavoro subordinato) e la locatio operis (antesignano del lavoro autonomo). L’unica disposizione del Codice civile del 1865 che disciplinava la locazione di opere, oltre alla distinzione in tre specie recata all’art. 1627, era posta a tutela della libertà personale del lavoratore: «nessuno può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo o per una determinata impresa» (art. 1628).
273 È, infatti, opinione condivisa in letteratura che la nascita del contratto di lavoro e, più in generale, del diritto del lavoro sia connessa con la prima rivoluzione industriale e con i fenomeni economico-sociali ad essa connessi, in particolare si tratterebbe di una “fondamentale scelta che gli ordinamenti giuridici dei Paesi europei avevano compiuto di fronte ai problemi posti dalla rivoluzione industriale” cfr. X. XXXXXXX, voce Lavoro (contratto individuale di), in Enc. Dir., vol. XXIII, 1973, par. 1, nota 3, e la letteratura ivi richiamata.
274 Il riferimento è all’opera Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano (la prima versione è, infatti, del 1901, la seconda, invece, completamente rivisitata è del 1915-1917). Il contratto di lavoro (che in Barassi è “unitario”, ossia non si riferisce al lavoro subordinato/autonomo) nasce come categoria a sé stante al fine di fornire al “rapporto giuridico fra capitale e lavoro la sua rigorosa e scientifica costruzione giuridica”, cfr. X. XXXXXXX, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, Milano, 1901, p. 10. Tuttavia, è stato anche evidenziato criticamente che Xxxxxxx non può essere affatto considerato il fondatore del nuovo diritto, in quanto quello del lavoro è un “diritto della quotidianità” elaborato da un numero indefinito di soggetti (all’epoca: probiviri, compilatori di regolamenti aziendali, negoziatori dei concordati di tariffa, ecc.), cfr. X. XXXXXXXXX, voce Diritto del lavoro, in Enc. dir., Xxxxxx XX, 2011, p. 3-4 dell’estratto. Altri hanno, invece, evidenziato il merito di Xxxxxxx di aver individuato la differenza tra contratto di lavoro e locazione nella modalità della prestazione lavorativa, inseparabile dalla persona del lavoratore, che deve necessariamente rientrare nella posizione contrattuale, cfr. X. XXXXXXX, Il contratto di lavoro, cit., p, 468, come richiamato da X. XXXXXXX, Il contratto individuale di lavoro, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2000, n. 86, 2, p. 183.
275 L’Enciclopedia giuridica italiana (1887) conteneva già la voce contratto di lavoro, inoltre l’espressione si ritrova nell’art. 8 della legge n. 215 del 1893 sui probiviri, cfr. X. XXXXXXX, Il contratto di lavoro nel diritto italiano, in AA.VV., Il contratto di lavoro nel diritto dei Paesi membri della C.E.C.A., Lussemburgo, 1965, pp. 413-414. Quanto al significato “incerto”, l’Autore ricordava che la prima legislazione sociale ne faceva un uso molto limitato riferendosi prevalentemente al lavoro manuale («contratto di salariato»), per le prestazioni intellettuali, invece, fu utilizzata successivamente l’espressione «contratto d’impiego privato» (D.L. n. 112/1919, sostituito dal R.D.L. n. 1825/1924, convertito in legge n. 562/1926). Di contro, la dottrina (Xxxxxxx e Xxxxxx) aveva accolto una definizione amplissima in cui era ricompreso qualsiasi contratto che implicasse lo svolgimento di un’attività nell’interesse altrui mediante remunerazione, a prescindere dal carattere subordinato o autonomo.
276 Tale scelta del modello etico-sociale della locazione risulta essere un netto rifiuto della concezione corporativistico- medievale secondo cui la prestazione di lavoro era manifestazione esteriore della sottoposizione del lavoratore ad un ordinamento professionale rigidamente organizzato in strutture gerarchiche nonché l’affermazione di una netta separazione fra vincolo personale e obbligazione di lavoro (concepita come effetto di un atto libero di disposizione delle proprie energie dietro corrispettivo), cfr. X. XXXXXXX, Lavoro (contratto individuale di), cit., par. 1.
277 È questa la ricostruzione storica fatta da X. XXXXXXX, Il contratto di lavoro, cit., p. 416-418.
278 Cfr. X. XXXXXX, Il contratto individuale di lavoro, in Giorn, dir. lav. rel. ind., 2000, n. 86, 2, p. 181. Ed infatti, l’economia di mercato richiedeva che tutti i fattori della produzione fossero trattati come merci, da qui l’astrazione, la descrizione fittizia del lavoro (delle energie lavorative in sé considerate e separate dalla persona del lavoratore) come bene di scambio.
Tuttavia, questa impostazione – seppur in qualche modo espressione di un anelito di libertà279 – presto, con l’evolversi della società e dei nuovi modelli di produzione della grande industria, rivelò tutti i suoi limiti, sul piano tecnico (vivaci critiche sorsero in dottrina per la difficoltà di ammettere che le energie psico-fisiche, separate dalla persona del lavoratore e destinate a consumarsi in modo istantaneo, possano costituire oggetto di disponibilità a mezzo di un contratto e, quindi, assimilabili ad un bene materiale oggetto dell'altrui godimento)280 ma soprattutto su quello sostanziale, giacché “l’uguaglianza formale di fronte alla concorrenza, quando non sia sorretta da una certa uguaglianza di potere economico, non prepara le vie della giustizia, ma apre la strada della vittoria del più forte”, in altri termini “la libertà di scambio diventa un nudo nome, allorché una delle parti non è in grado di resistere al bisogno dello scambio”281.
Sarebbe quella appena descritta, allora, la mistificazione ideologica, la finzione282 del contratto di lavoro come contratto tra eguali, l’apologia della libertà (illusoria) denunciata dalla più disillusa dottrina283.
In ogni caso, in Italia, dopo una prima stagione di (flebile ma comunque non trascurabile) legislazione sociale284 fortemente radicata nel diritto pubblico e durante la seconda stagione impregnata dai valori (secondo alcuni, non così incidenti sulla disciplina del rapporto di lavoro e, comunque, quasi al tramonto285) del fascismo286, in particolare con l’adozione del Codice civile del
279 Lo stesso Xxxxxx ha considerato la “finzione” contrattuale come “una prima, elementarissima garanzia della libertà del lavoratore” che “stava a cuore allo Stato liberale, come sta a cuore allo Stato odierno”, cfr. X. XXXXXX, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, Xxxxxxx, Milano, 1960, p. 89. Altri hanno osservato, invece, che l’autonomia contrattuale sarebbe servita per legittimare con il consenso la limitazione di fatto della libertà individuale nonché il potere di comando del datore di lavoro: “per soddisfare i bisogni primari di sopravvivenza senza infrangere divieti divini e d’ordine pubblico, quegli uomini erano liberi nel senso che avevano la libertà di cessare di esserlo, accettando di lavorare alle dipendenze di altri uomini”, cfr. X. XXXXXXXXX, Diritto del lavoro, cit., p. 1 dell’estratto, il quale richiama anche X. XXXXXX, Homo juridicus. Saggio sulla funzione antropologica del diritto, Milano, 2006, pp. 104 e ss. per descrivere la diffidenza degli hommes de travail della prima modernità verso il contratto di “sudditanza” in cui la libertà si miscela con l’assoggettamento al potere di comando del datore di lavoro.
280 La manifesta fragilità dal punto di vista tecnico dello schema della locazione consisterebbe nel “ricorso alla ipostatizzazione delle energie lavorative, considerate come prodotto definitivamente separato dalla sfera soggettiva del lavoratore”, cfr. X. XXXXXXX, Lavoro (contratto individuale di), cit., par. 1. In altri termini, la difficoltà si annidava nell’ammettere che le energie psico-fisiche potessero essere assimilate ad un bene materiale oggetto dell'altrui godimento e, quindi, costituire un “oggetto” di disponibilità a mezzo di un contratto, cfr. X. XXXXXXXXXXXX, La natura non contrattuale del lavoro subordinato, in RIDL, 2007, n. 4, pp. 379 e ss. (p. 2 dell’estratto).
281 Cfr. X. XXXXXXX, Il contratto di lavoro, cit., p. 417.
282 È lo stesso Redenti a parlare di “finzione contrattuale” quando sosteneva che fosse “una necessità […] considerare («fingere») libero il consenso dell’operaio, come di qualunque altro contraente”, cfr. X. XXXXXXX, Massimario della giurisprudenza dei probiviri, Roma, 1906, p. 21, nota 5.
283 Cfr. X. XXXXXXXXX, Diritto del lavoro, cit., p. 2 e 15 dell’estratto, dove rileva che “mentre è vero che l’autodeterminazione dell’individuo presuppone la libertà contrattuale, non è vero che la libertà contrattuale garantisca l’autodeterminazione dell’individuo”. Xxxxxxxxx critica, inoltre, quella da lui definita “egemonia gius- privatistica” dei primi del Novecento che, esaltando la figura del contratto di lavoro, avrebbe prodotto una “mono- cultura del lavoro” lontana dal reale rapporto di lavoro e riduttiva dei valori incorporati nello stesso in quanto muove da premesse ideologiche proprie di questo ambito disciplinare. In altri termini, il dato di realtà “ignorato” dalla dominante cultura giuridica sarebbe quello che il rapporto di lavoro è regolato da norme dettate non dal contratto di lavoro) e quindi dalla volontà delle parti contraenti) ma dall’esterno, da altre fonti (in primis legge e contrattazione collettiva).
284 Leggi n. 3657/1886, n. 242/1902, n. 489/1907 e n. 818/1907 in materia di lavoro dei fanciulli e delle donne; legge n. 90/1898, in materia di infortuni sul lavoro; legge n. 295/1893 di istituzione del collegio dei probiviri; legge n. 489/1902 sul riposo settimanale obbligatorio; d.lgs. n. 112/1919 e r.d.l. n. 1825/1924 in materia lavoro d’impiego privato.
285 L’ideologia fascista sembra, comunque, aver influenzato parte della dottrina successiva, la quale ritenne di aderire alle teorie istituzionalistiche secondo cui l’inserzione nell’impresa del lavoratore era sufficiente a far sorgere il rapporto di lavoro, ciò indipendententemente dalla stipula di un contratto, cfr. X. XXXXXXXX, Considerazioni sulla nozione e sulla
1942, è avvenuto il definitivo distacco del contratto di lavoro dallo schema della locazione quale conseguenza della rivalutazione della personalità del lavoro ma non anche quale abbandono della valutazione oggettiva del lavoro come bene di scambio287.
Ed è proprio attraverso il principio personalista, affermato con forza anche nella successiva Costituzione del 1947 (cfr. supra Cap. II, par. 2.1) che avrà un’influenza determinante sulle opzioni interpretative delle disposizioni in materia di lavoro del medesimo Codice civile del 1942, che il diritto del lavoro assumerà una propria autonomia e specialità rispetto al diritto delle merci collocandosi in una posizione intermedia tra diritto dei beni e diritto delle persone288.
Questa posizione intermedia di “oscillazione” senza tregua tra diritto dei beni e diritto della persona scaturirebbe, secondo alcuni, dalla “irrisolta contraddizione genetica” del diritto del lavoro, frutto della modernità, e delle sue “invenzioni”: da un lato, il configurare il lavoro come entità economicamente valutabile e distinguibile dal soggetto che ne dispone in base ad un contratto; dall’altro lato, l’invenzione del lavoratore come soggetto astratto289.
Secondo altri, invece, la peculiarità del diritto del lavoro è quella di essere investito del compito di superare l’antitesi tra le due idee che conferiscono al rapporto di lavoro un carattere misto (rapporto patrimoniale e personale): da un lato, l’idea classica del lavoro (“oggettivizzato”) come bene di scambio avente un prezzo di mercato; dall’altro lato, l’idea di lavoro come manifestazione della personalità del lavoratore e vincolo personale di collaborazione290.
Benché sia stato sostenuto che “il diritto del lavoro è nato contro l’imperialismo del contratto”291 e “si è sviluppato da una posizione polemica e protestataria nei confronti del diritto civile”292, la “separazione” del diritto del lavoro rispetto al diritto comune dei contratti e delle obbligazioni è avvenuta proprio in forza dell’enfatizzazione del principio etico della personalità del lavoro, e cioè dell’immanenza della persona del lavoratore nel contenuto del rapporto, contro la concezione patrimoniale ed egualitaria del diritto civile che ricostruisce tutti i rapporti alla stregua di “scambi” tra due proprietari293.
funzione del contratto di lavoro subordinato, in AA.VV., Studi in onore di Xxxxxxx Xxxx, Xxxxxx, Napoli, 2011, Tomo II, p. 712, e i riferimenti bibliografici ivi contenuti.
286 Cfr., sul punto, X. XXXXXXXXX, Diritto de lavoro, cit., par. 5, dove spiega con dovizia di argomentazioni la ragione per cui in materia di lavoro la periodizzazione rigida in pre- e post-corporativismo è approssimativa ed ingannevole, dovendosi preferire l’espressione “microdiscontinuità” per descrivere l’evoluzione del diritto dl lavoro.
287 Cfr. X. XXXXXXX, Il contratto di lavoro, cit., p. 418. In dottrina, si deve a Xxxxxx (Der Arbeitsvertrag nach dem Privatrecht des deutschen Reiches, vol. I, Leipzig, 1902) la costruzione del contratto di lavoro come categoria autonoma rispetto alla locatio operarum che implicava un’astrazione. In realtà, non esiste il lavoro, ma esistono uomini che lavorano che impegnano nel rapporto di lavoro non qualcosa che appartiene al loro patrimonio, e quindi l’avere, ma l’essere, secondo il noto insegnamento di X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, Spirito del diritto del lavoro, in Il diritto del lavoro, 1948, I, pp. 273 e ss.
288 Cfr. X. XXXXXXX, Il contratto di lavoro, cit., p. 418 che richiama il pensiero di Xxxxxx.
289 Cfr. X. XXXXXXXXX, voce Diritto del lavoro, in Enc. Dir., Annali IV, 2011, p. 1 dell’estratto-
290 Da qui anche la difficoltà del giurista a trovare nuovi strumenti di valutazione adeguati per questo ramo del diritto, cfr. X. XXXXXXX, Il contratto di lavoro, cit., pp. 419-420.
291 A. LYON-CAEN, Actualité du contrat de travail, in Droit social, 1988, p. 540.
292 Cfr. X. XXXXXXX, Diritto civile, in X. XXXXXXX, A. PROTO PISANI, X. XXXX XXXXXXXXXX, L’influenza del diritto del lavoro su diritto civile, diritto processuale civile, diritto amministrativo, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1990, n. 45, 1, pp. 5-6.
293 Ibidem. Xxxxxxx sosteneva che il problema del diritto del lavoro è tutto nel “correggere la logica tradizionale del contratto, non di rifiutarla”. Di conseguenza, “il diritto del contratto di lavoro resta e non può non restare una disciplina fortemente deviante dal diritto comune dei contratti: una disciplina che ormai tutti riconoscono autonoma” (p. 8), tuttavia “il diritto del lavoro si è staccato dal diritto civile, ha uno spirito proprio […] ma non è autosufficiente:
E così, anche grazie ai principi affermati nella Costituzione repubblicana, e dopo una breve parentesi in cui sembravano prevalere le c.d. teorie istituzionalistiche che ponevano l’accento su alcune disposizioni del Codice civile (in primis l’art. 2086 c.c.), la dottrina affermò con forza la centralità del contratto di lavoro e il principio di contrattualità per cui il rapporto di lavoro scaturisce ed è regolato dal contratto stesso e dalla volontà delle parti, principio che “significa anzitutto che la nostra civiltà non può e non deve conoscere se non il lavoro liberamente accettato”294.
Senonché, anche nella dottrina successiva alla Costituzione repubblicana è rimasto più di qualche dubbio o, meglio, una certa “insoddisfazione”295 attorno alla tesi della contrattualità (integrale) del rapporto di lavoro e delle relative posizioni giuridiche delle parti296.
Non è possibile ripercorrere in questa sede tutte le riflessioni che si sono assestate attorno a questa idea della natura non (interamente) contrattuale del lavoro subordinato297.
Tuttavia, è possibile rilevare che tutte queste tesi sembrano muovere da due dati di realtà, afferenti al lavoro subordinato, “presunti” (in quanto, nella maggior parte dei casi, validi): l’inserzione nell’impresa o, meglio, nella organizzazione di lavoro298 e la debolezza contrattuale del lavoratore nei confronti del datore di lavoro e, più in generale, nel mercato di lavoro che
infrastrutture e snodi gli sono pur sempre forniti dal diritto civile” (p. 9). Ed infatti, la superiorità del contratto di lavoro come fondamento della subordinazione risiede in ciò che esso “ne fissa i limiti secondo i principi dell’oggetto del contratto, alla stregua dei quali la subordinazione è un modo di essere della prestazione di lavoro, non uno status personale del lavoratore. La razionalità del diritto civile espressa nelle strutture dogmatiche del contratto, configura la subordinazione come un elemento calcolabile”.
000 Xxx. X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, Lineamenti attuali del diritto del lavoro in Italia, in LD, 1953, I, 3, ora in Saggi di diritto civile, I, Napoli, 1961, p. 1081. Lo stesso Xxxxxxx Xxxxxxxxxx – considerato il primo nonché principale esponente della concezione contrattuale del lavoro subordinato nonché della Scuola romana dei giusprivatistici – nel descrivere quell’“amalgama di norme di diritto privato e pubblico” avrà modo di individuare il “solo fine” del diritto del lavoro nella “salvezza della libertà, anzi della stessa personalità umana”.
295 Ad es., la contrattualità delle mansioni è stata definita quale una “pseudo-tutela”, “illusoria” o addirittura “controprudecente” in quanto si limita a proteggere, in modo statico ed esclusivamente patrimoniale (conservazione del trattamento normativo e retributivo), gli interessi del lavoratore inerenti alla prestazione lavorativa, cfr. X. XXXXXXXXXXXX, Mansioni e qualifiche dei lavoratori, cit., p. 160.
296 Vuoi perché la subordinazione coinciderebbe, secondo queste ricostruzioni, con la debolezza economica del lavoratore non potendosi spiegare come essa possa essere inserita sul piano del contratto (cfr. X. XXXXXXXXXXXX, La natura non contrattuale del lavoro subordinato, cit., p. 4 dell’estratto), vuoi perché dal contratto di lavoro non discenderebbero tutte le posizioni (diritti e obblighi) che fanno parte del rapporto di lavoro, in questi termini, cfr. sempre X. XXXXXXXX, Considerazioni sulla nozione e sulla funzione del contratto di lavoro subordinato, cit., p. 713, il quale osserva che tutte queste tesi sono accomunate dal fatto che svalutano, per non dire escludono, la rilevanza della volontà delle parti, in particolare del lavoratore, e, pertanto, sarebbero incoerenti con il diritto positivo, tant’è che non hanno avuto alcuna influenza sulla giurisprudenza.
297 Per una ricostruzione dettagliata delle stesse si rinvia a X. XXXXXXX, Saggio sull’organizzazione del lavoro, cit., pp. 7 e ss. dove distingue tra neo istituzionalismo di prima generazione (X. XXXXXXX, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Xxxxxxx, Milano, 1957 e X. XXXXXXXXXXXX, Lezioni di diritto del lavoro. Parte generale, Bari, 1963) e quello di seconda generazione (X. XXXXXXXXX, Posizioni non contrattuali del rapporto di lavoro, Xxxxx, Padova, 1968, ma anche X. XXXXXXX, Il potere direttivo dell’imprenditore, Milano, 1992, X. XXXXXXX, Il potere disciplinare giurificicato, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1986, n. … e X. XXXXXXXXX, Autorità e democrazia in azienda; teorie giuridico politiche, in Pol. Dir., 1971, n. …), che pur riconducendo il potere di conformazione dell’obbligazione di lavorare al contratto di lavoro ritengono che vi siano poteri di comando in capo al datore di lavoro non scaturenti dall’originario accordo tra le parti del rapporto: l’organizzazione del lavoro sarebbe così una situazione complessa e il potere direttivo, come quello disciplinare, avrebbe una “doppia anima” (contratto di lavoro e impresa, da cui discenderebbe il potere di gestione dell’impresa stessa esterno al contratto).
298 Ed infatti, sarebbe l’impresa e l’organizzazione del lavoro a presiedere la individuazione delle mansioni esigibile: sulla qualifica oggettiva (concordata nel contratto di lavoro) prevarrebbe l’effettiva esecuzione del rapporto di lavoro, le mansioni in concreto svolte dal lavoratore, cfr. X. XXXXXXXXXXXX, Mansioni e qualifiche dei lavoratori, cit., p. 160.
impedirebbe di realizzare l’essenza e la funzione del contratto (artt. 1321 e 1322 c.c.), ossia la possibilità di disporre, in condizioni di libertà e eguaglianza, la regolamentazione dei propri interessi patrimoniali299.
In tale contesto, come avremo modo di vedere (vd. par. 3.1.5), si sviluppano tesi (contrattualistiche) opposte al fine di superare le ricostruzioni sopra brevemente descritte nonché la tradizionale nozione di “contratto” e realizzare la c.d. ricucitura contrattuale300 per tenere insieme il binomio contratto-organizzazione.
Nondimeno, con l’evolvere dei modelli produttivi ed organizzativi, recentemente la dottrina è tornata a trattare problematiche ormai considerate definitivamente risolte sul piano ermeneutico come la causa e l’oggetto del contratto di lavoro ma anche la stessa natura contrattuale del rapporto di lavoro e delle posizioni delle parti (vd. par. 3.1.6).
3.1.3. La nozione di contratto di lavoro subordinato e le sue “funzioni”
Com’è noto, il Codice civile del 1942 non definisce il contratto di lavoro ma soltanto il
«prestatore di lavoro subordinato» (art. 2094 c.c.) e non lo regola all’interno del Libro IV, dedicato alle «obbligazioni», dove sono disciplinati i contratti di scambio, ma nel Libro V («del lavoro»), Titolo II (incentrato sul concetto di «impresa»), Sezione II dedicata, appunto, ai «collaboratori dell’impresa».
L’enfasi del diritto del lavoro, come uscito dal Codice civile, sembra così spostata dal contratto alla posizione del prestatore di lavoro come collaboratore (subordinato) dell’imprenditore all’interno dell’organizzazione produttiva301.
Tuttavia, secondo un’autorevole dottrina, tale impostazione (distacco del rapporto di lavoro dalla categoria dei contratti di scambio) non è da sopravvalutare in quanto per il Codice civile del 1942 il contratto di lavoro è e rimane contratto di scambio nonché fonte (genetica e regolativa di autoregolamentazione degli interessi) del rapporto di lavoro302. Non a caso, potremmo aggiungere,
299 Cfr., per tutti in quanto uno dei primi e più autorevoli autori che hanno sostenuto tale tesi, X. XXXXXXXXXXXX, La natura non contrattuale del lavoro subordinato, cit., p. 10 dell’estratto. In particolare, per Xxxxxxxxxxxx, contrariamente a quanto avviene nel contratto, l’“essenza” e la “funzione” del lavoro subordinato consisterebbero nella possibilità del lavoratore di “soddisfare mediante l'attività lavorativa i bisogni essenziali di vita suoi e della famiglia” (interessi patrimoniali) ma anche di “realizzare la sua professionalità e personalità” (interessi non patrimoniali) a fronte della “facoltà esclusiva del datore di offrire e gestire la prestazione lavorativa e l'assoggettamento del prestatore, per un'insopprimibile esigenza di funzionalità dell'organizzazione aziendale, ai poteri di direzione e controllo del datore”. Ciò porta l’Autore a concludere che il lavoro subordinato “si colloca su un versante ben diverso da quello del contratto” in quanto “non si presta ad essere configurato e disciplinato come un contratto di scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione”, come dimostrerebbe la configurazione della retribuzione contenuta nell’art. 36, comma 1 Cost. Peraltro, “tutto il diritto del lavoro - le norme del codice civile, la legislazione speciale e la contrattazione collettiva - si volge […] all'obiettivo di riscattare il lavoratore dalla condizione di debolezza in cui versa nei confronti del datore e nella realtà socio-economica”. Tale tesi era già elaborata in Id., Lezioni di diritto del lavoro. Parte generale, …, Bari, 1963, pp. 15, 113 e 116, dove comunque non si metteva in discussione l’origine contrattuale del rapporto di lavoro.
300 È questa l’espressione utilizzata in X. XXXXXX, Contratto di lavoro e organizzazione al tempo del post-fordismo, in
ADL, 2014, n. 4-5, pp. 884 e ss. (p. 2 dell’estratto).
301 È la stessa relazione ministeriale (n. 806) a spiegare che questa nuova impostazione è tesa a sviluppare sul piano giuridico un principio che fino a quel momento era rimasto semplice postulato politico «il lavoro non più oggetto, ma soggetto dell'economia», cfr. X. XXXXXXX, Il contratto di lavoro, cit., p. 419.
302 Cfr. X. XXXXXXX, Il contratto di lavoro, cit., p. 419. Lo stesso Xxxxxxx, però, in altro scritto ha ricordato che “nel diritto civile il contratto non solo è atto costitutivo del rapporto, ma è anche fonte preminente del regolamento
la sezione successiva a quella in cui è posto l’art. 2094 (Sezione III del Titolo II del Libro V del Codice civile) è dedicata al «rapporto di lavoro» che, pertanto, sembra inequivocabilmente scaturire dal momento genetico dell’obbligazione di lavorare, la stipula del contratto di lavoro.
Tale conclusione non è pregiudicata dalla circostanza che il lavoro subordinato possa essere prestato, indifferentemente, dentro o fuori dall’impresa. Ed infatti, oltre all’ineludibile dato topografico della collocazione dell’art. 2094 c.c. all’interno del Titolo II del Libro V dedicato al
«lavoro nell’impresa», vi è un ulteriore elemento che dovrebbe far venire meno quella che è stata definita da Giugni una “discutibile limitazione d’orizzonte”303: l’art. 2239 c.c., stabilendo l’applicabilità della disciplina di cui agli artt. 2094-2134 c.c., nei limiti della sua compatibilità, ai
«rapporti di lavoro subordinato che non sono inerenti all’esercizio di un’impresa», elabora una categoria negoziale del contratto di lavoro svincolata dal collegamento con l’impresa (quest’ultima categoria rimane, comunque, anche sul piano economico, la manifestazione di gran lunga più importante) e, perciò, più ampia di quella risultante dall’art. 2094 c.c.304.
Altra successiva dottrina ha sostenuto l’esistenza di una “categoria unificante” del contratto di lavoro subordinato: in altri termini il contratto è unico ma i rapporti che scaturiscono da esso sono tanti e diversi per contenuto ma non per questo “speciali”305.
Chiarito questo aspetto, è stato, però, giustamente fatto notare che, a differenza di quanto avviene nella maggior parte degli altri contratti nominati306, l’individuazione del contratto di lavoro subordinato, in particolare del “bene” giuridico tipico dedotto all’interno dello stesso, non risulta immediata: se la retribuzione costituisce un “bene” analogo, sotto questo profilo, a quello garantito da numerosi altri contratti (obbligazione di pagare un compenso), la prestazione di lavoro sembra risolversi in una generica attività umana non qualificata da determinati caratteri obiettivi307.
In altri termini, il lavoro umano non sarebbe entità per sé giuridicamente definibile308, potendo essere oggetto del contratto di lavoro qualsiasi attività economicamente utile secondo la valutazione delle parti compresa quella che consiste in un’inerzia309.
negoziale […] nel diritto del lavoro, invece,il contratto impegna la prestazione di lavoro, crea l’obbligazione di lavorare, ma non la governa: essa è regolata prevalentemente da fonti eteronome, norme legali e norme di contratto collettivo. Il rapporto di lavoro nasce dal contratto, ma non si identifica col contratto”, da qui la vocazione anticontrattualista a ridurre la funzione del contratto di lavoro a mero fatto costitutivo del rapporto e non riconoscendo alla stessa funzioni regolative, cfr. X. XXXXXXX, L’influenza del diritto del lavoro sul diritto civile, cit., p. 7.
303 Cfr. X. XXXXXX, Mansioni, cit., p. 17.
304 Cfr. X. XXXXXXX, Lavoro (contratto individuale di), cit., par. 2. Non a caso parte della dottrina ha sostenuto che anche il lavoro nell’impresa sia un sottotipo di un genus (lavoro subordinato) non esistente nell’ordinamento positivo ma da costruire in sede di teoria generale del diritto del lavoro: è questa la proposta di XXXXXXXXXX, Democrazia industriale e subordinazione, Xxxxxxx, Milano, 1985, come sintetizzata da X. XXXXXX, Contratto e rapporti di lavoro, cit., p. 1096.
305 La vera peculiarità del Codice civile sarebbe, allora, che per gli altri contratti la nominatività coincide con la tipicità di disciplina (ogni contratto tipico avrebbe una propria disciplina), invece per il lavoro subordinato varrebbe il motto “un contratto per più rapporti”, cfr. X. XXXXXX, Contratto e rapporti di lavoro, in AA.VV., Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Xxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxx, Milano, 1995, Tomo II, pp. 1057 e ss. Lo stesso Xxxxxxx ha aderito a tale ricostruzione, pur evidenziando però che “sul piano dell’esperienza giuridica concreta non si può disconoscere che la tenuta della categoria unificante del contratto di lavoro si è indebolita”, cfr. X. XXXXXXX, Il contratto individuale di lavoro, cit., p. 194, nota 44.
306 Ad esempio, nella locazione il bene giuridico garantito è il godimento di un bene mobile o immobile, nella vendita il trasferimento della proprietà di una cosa o di un altro diritto.
307 Cfr. X. XXXXXXX, Lavoro (contratto individuale di), cit., par. 4.
308 In tal senso, X. XXXXXXXXXXX, La posizione professionale del lavoratore subordinato, Milano, 1958, pp. 58 ss.; X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, Nozioni di diritto del lavoro, Jovene, Napoli, 1972, p. 19. Anche Xxxxxx sosteneva che l’attività
Di conseguenza, ciò che distingue il contratto di lavoro subordinato rispetto ad altri contratti, tra tutti quelli di lavoro autonomo, è la modalità di espletamento dell’attività lavorativa ma anche la “posizione” del lavoratore, che risultano dalla formula – da valorizzare appieno non trattandosi di un’endiadi – «alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore» (art. 2094 c.c.), definizione, seppur tautologica310, della subordinazione311.
Secondo alcuni, infatti, il fattore distintivo del contratto di lavoro subordinato, come delineato dal nuovo Codice civile del 1942, sarebbe quello che “il lavoratore si obbliga (mediante retribuzione) a svolgere un’attività di lavoro genericamente determinata (in relazione a una qualifica professionale o in relazione a un posto di lavoro), rimettendo all’altra parte il potere di specificare l’attività dovuta nel suo contenuto e nelle sue modalità e di indirizzarla verso un risultato sul quale il lavoratore non ha alcun controllo e che rimane estraneo al rapporto obbligatorio derivante dal contratto; in breve il lavoratore promette, nei limiti di una data qualifica professionale o della descrizione di un dato posto di lavoro, di esplicare le sue energie alle dipendenze e sotto la direzione dell’altra parte (datore di lavoro)”312.
Così ricostruita, la subordinazione è il “connotato essenziale” del comportamento dedotto in obbligazione, il “fattore tipizzante” dello stesso contratto di lavoro, la “sintesi dei suoi effetti giuridici essenziali” nonché “dato qualificante” l’assetto di interessi risultante e ritenuto meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico (artt. 1322-1323 c.c.)313.
Non è mancato chi ha ritenuto quale elemento distintivo rispetto al contratto d’opera e ai contratti i lavoro autonomo il potere di etero-organizzazione ed etero-direzione della prestazione da parte del creditore (datore di lavoro)314, riconducibile a quello che è stato definito il potere direttivo volto a dettare le «disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro» (art. 2104, comma 2 c.c.) e, sul piano fattuale, come mancanza di autogestione dell’attività lavorativa315, che, a ben vedere, non è altro che l’altra faccia della stessa medaglia vista dalla prospettiva della situazione
lavorativa non può essere definita come un a priori rispetto al rapporto in cui è dedotta e che i tentativi di definire il lavoro in sé e per sé deducendone la nozione dalle scienze naturali o socio-economiche erano insoddisfacenti, cfr. X. XXXXXX, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, cit., p. 9.
309 Cfr. sempre X. XXXXXXX, Lavoro (contratto individuale di), cit., par. 4
310 X. XXXXXXXXX VIGORITA, Subordinazione e diritto del lavoro, cit., p. 137.
311 In tal senso X. XXXXXXX, Lavoro (contratto individuale di), cit., par. 4, il quale sottolinea che la valutazione non dovrebbe guardare alle modalità di esecuzione dell'obbligazione contrattuale, benché questa operazione è, sul piano pratico, il punto di riferimento nell'esame delle fattispecie concrete da parte della giurisprudenza, ma all’assetto di interessi attuato dalle parti nel momento dell'esercizio della loro autonomia negoziale.
312 Cfr. X. XXXXXXX, Il contratto di lavoro, cit., p. 415.
313 Sono tutte espressioni contenute in X. Xxxxxxx, Lavoro (contratto individuale di), cit., par. 4, secondo il quale l’assetto di interessi risultante dal contratto di lavoro subordinato è soltanto il contemperamento fra l’“interesse alla disponibilità del comportamento altrui” e l'“interesse alla retribuzione”, rimanendo così fuori l'(ulteriore) interesse alla migliore utilizzazione del comportamento in coordinazione con altri analoghi comportamenti lavorativi scaturente dal requisito (ad avviso di Xxxxxxx inesistente nella struttura del contratto di lavoro) dell’inserzione del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa. Più nello specifico, questa tesi ritiene che la struttura organizzativa del datore di lavoro, pur ricoprendo un ruolo di grande rilevanza ai fini della disciplina delle posizioni soggettive delle parti, è estranea allo schema causale del contratto di lavoro che, pertanto, risulta perfetto ed efficace anche senza il collegamento fra prestazione lavorativa e organizzazione aziendale.
314 È questa la posizione di X. XXXXXX, Contratto di lavoro e organizzazione al tempo del post-fordismo, in ADL, 2014,
n. 4-5, pp. 884 e ss. (p. 9 dell’estratto), il quale rileva anche che tale potere, invero fattualmente più rarefatto nell’era del post-fordismo, assume un ruolo “strumentale” rispetto al risultato atteso dal datore di lavoro (realizzazione dell’organizzazione complessiva del lavoro).
315 Cfr. X. XXXXXXX, Il contratto individuale di lavoro, cit., p. 184.
giuridica attiva (potere), a meno che non si voglia aderire a quelle tesi che vedono nella subordinazione una condizione, una posizione economico-sociale piuttosto che “giuridica”316.
È qui che si aprono questioni di fondamentale importanza al fine della ricostruzione teorica dell’intera materia: qual è il rapporto tra singolo lavoratore e impresa, tra contratto e organizzazione?
Le risposte a queste non agevoli domande avranno un inevitabile punto di caduta sulla causa e sull’oggetto stesso del contratto, ma a ben vedere anche sull’idea stessa di contratto di lavoro come strumento di libertà317.
3.1.4 Il contratto di lavoro come contratto di organizzazione
Al fine di superare le tesi istituzionalistiche e non contrattualistiche ma anche la tradizionale nozione di contratto di lavoro e riconoscere rilievo (giuridico) all’inserimento del lavoratore nell’organizzazione, a metà anni ’60 è stata avanzata o, meglio, portata a compimento la tesi del contratto di lavoro come contratto di organizzazione318, la cui funzione tipica sarebbe quella di determinare, da solo o, di norma, insieme ad altri contratti di lavoro, l’esistenza (giuridica) dell’organizzazione di lavoro, oltre a realizzare l’interesse del lavoratore alla retribuzione319.
La nota ricostruzione di Xxxxxx Xxxxxxxx, ben radicata nel contesto normativo e socio- economico di quegli anni, ha avuto il merito320 di individuare e ricondurre nell’alveo del contratto di lavoro non solo la subordinazione ma anche l’interesse specifico (e unitario) del datore di lavoro
316 Non è possibile in questa sede approfondire la relazione tra potere direttivo e subordinazione. Tuttavia, giova ricordare che la dottrina ha fornito tre letture diverse di tale nesso: a) assenza di qualsiasi interferenza tra i due concetti (cfr. X. XXXXXXXXXXXX, Diritto del lavoro, Bari, 1969); b) sostanziale “esaurimento” del potere direttivo nella subordinazione (cfr., fra gli altri, X. XXXXXXXX, Contratto di lavoro e subordinazione, cit.); c) potere direttivo come elemento essenziale ma non da solo sufficiente ad individuare il concetto di subordinazione (cfr. X. XXXXXXX, Lezioni sul contratto di lavoro, Milano, 1971, pp. 42 e ss.), cfr. X. XXXXXXX, Saggio sull’organizzazione del lavoro, cit., p. 32. 317 È stato, infatti, osservato che nell’impostazione del Codice civile l’inserimento del lavoratore nell’impresa “altera la purezza dello schema dello scambio, creando una sfasatura tra la fattispecie contrattuale e gli effetti”, in altri termini l’elemento organizzativo integra le posizioni di comando e soggezione delle parti in nome non di una logica contrattuale paritaria ma della struttura gerarchica dell’impresa, cfr. X. XXXXXXX, Il contratto individuale di lavoro, cit., pp. 186- 187.
318 Cfr. X. XXXXXXXX, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, Padova, 1966, pp. 45 e 285 e ss. È lo stesso Persiani a riconoscere che a una conclusione simile era già pervenuto il suo Maestro che aveva definito il contratto di lavoro, appunto, come contratto di organizzazione (cfr. X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, L’impresa nel sistema di diritto civile, in RDComm,, 1942, I, p. 376, ora in Saggi di diritto civile, II, Napoli, 1961, p. 953; ma cfr. anche X. XXXXX, Profilo dell’impresa economica nel nuovo codice civile, in Giornale degli economisti e annuali di economia, 1942, p. 219. Secondo questi Autori, però, il contratto di lavoro presuppone un’organizzazione e, quindi, ha l’effetto di determinare non l’organizzazione ma l’inserimento del lavoratore in essa, cfr. X. XXXXXXXX, Considerazioni sulla nozione e sulla funzione del contratto di lavoro subordinato, cit., pp. 717-718, in particolare nota 39 e Contratto di lavoro e organizzazione, cit., pp. 45-46, nota 90.
319 L’interesse alla retribuzione era considerato da Persiani “l’unico interesse del lavoratore che assume rilevanza ed è giuridicamente protetto” (p. 64-66). Tuttavia, tale affermazione va contestualizzata: all’epoca in cui scriveva l’Autore, infatti, il quadro normativo era alquanto scarno (Codice Civile e poche altre leggi speciali, vd. ad es. la coeva l. n. 604/1966). Peraltro, lo stesso Persiani evidenziava che l’emersione, sul piano giuridico, di interessi del lavoratore diversi da quello patrimoniale (retribuzione) afferenti al lavoratore come persona era prerogativa della contrattazione collettiva “di grande importanza” in quanto fornisce un utile criterio, anche per il legislatore, per individuare “quali interessi siano considerati meritevoli di tutela” (p. 30).
320 Parla in questi termini, pur evidenziandone i difetti (cfr. infra par. n. …), X. XXXXXX, Contratto e rapporti di lavoro, cit., p. 1112, il quale pone l’accento sulla positiva saldatura in un’unica prospettiva di contratto e subordinazione, contratto e impresa.
che lo distingue da altri tipi contrattuali (in primis lavoro autonomo): l’interesse al coordinamento dell’attività lavorativa e, quindi, a porre in essere un’organizzazione di lavoro321, organizzazione che rappresenta, dunque, il risultato perseguito e atteso dal datore di lavoro e, pertanto, dovuto.
Ed infatti, la particolarità della ricostruzione di Persiani risiede nel fatto che, muovendo sempre dalla prospettiva del rapporto obbligatorio di tipo patrimoniale benché caratterizzato dalla implicazione della persona nel lavoro322, ha individuato l’origine del rapporto nonché dell’organizzazione del lavoro nel contratto stesso, in particolare negli effetti che da esso scaturiscono e dagli interessi da esso soddisfatti323.
Tutta l’elaborazione del contratto di lavoro come contratto di organizzazione ruota, infatti, attorno alla relazione di stretta interdipendenza tra interessi soddisfatti ed effetti determinati dal contratto (l’individuazione dei primi deve avvenire alla stregua dei secondi e viceversa).
Considerato il diritto quale “regolamento di interessi” alla stregua delle valutazioni espresse dalla coscienza sociale, per Persiani la “valutazione comparativa” degli stessi è “momento essenziale del procedimento di interpretazione della norma”, di conseguenza le nozioni di obbligazione, oggetto e contenuto del contratto possono essere individuate “solo considerando il rapporto obbligatorio alla stregua dell’assetto degli interessi che in esso si realizza”324.
E così, sulla base di ampie argomentazioni di teoria generale del diritto che portano l’Autore a considerare impossibile la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato325, Persiani arriva a
321 Per Persiani, l’organizzazione di lavoro – che è, senza dubbio, un’organizzazione di persone (non intesa, però, in senso istituzionalistico o associativo) – si ha quando “l’organizzazione riguardi la stessa attività di un soggetto il quale si sia impegnato a collaborare personalmente al perseguimento di un fine” e si esplica nel “coordinamento dell’attività umana”, più nello specifico dell’attività lavorativa. Coordinamento che, per l’Autore, esprime la stessa “struttura del rapporto giuridico”, e cioè “il contenuto specifico e caratteristico delle posizioni di potere e di dovere”. Pertanto, l’organizzazione di lavoro deve essere ricondotta allo schema del rapporto obbligatorio di cui all’art. 2094 c.c. esaurendosi così “nelle posizioni attive e passive conferite dall’ordinamento statuale […] in vista del soddisfacimento di interessi ritenuti meritevoli di tutela”, cfr. X. XXXXXXXX, Contratto di lavoro e organizzazione, cit., pp. 23-24 e 41. Quanto ai rapporti tra organizzazione di lavoro e organizzazione dell’impresa, per Persiani la prima è elemento della seconda e presuppone sempre l’esistenza di un’organizzazione più ampia e complessa, mentre quest’ultima (l’organizzazione dell’impresa) non costituisce un sistema autonomo di produzione di norme né di rapporti giuridici e potrebbe sussistere – quantomeno in astratto – anche senza una organizzazione di lavoro.
322 Secondo Persiani, infatti, il rapporto di lavoro non può essere ricostruito come un rapporto personale, altrimenti si dovrebbe ammettere che l’oggetto dell’obbligazione di lavorare sarebbe la stessa persona del lavoratore, cfr. X. XXXXXXXX, Contratto di lavoro e organizzazione, cit., p. 27. Onde, il rilievo della personalità del lavoratore deve essere individuato non con riferimento alla posizione passiva, ma esclusivamente in relazione alla posizione attiva oppure in relazione ai limiti posti all’autonomia negoziale o ai poteri datoriali.
323 Persiani prende, infatti, le mosse dalla constatazione che il contratto di lavoro, in quanto contratto tipico, produce effetti idonei a realizzare l’assetto di interessi corrispondente alla “valutazione comparativa che l’ordinamento ha accolto degli interessi del lavoratore in contrapposizione a quelli del datore di lavoro, tenendo conto della situazione di inferiorità” (p. 7), cioè “interessi socialmente tipici, connessi alle esigenze della vita di relazione e del traffico economico” (p. 47). Tuttavia, l’Autore ammonisce sul fatto che all’epoca mancasse un’ “elaborazione secolare” che consentisse di far riferimento “a dati economici e sociali completamente tipizzati”: il contratto di lavoro, infatti, era stato oggetto di una specifica disciplina soltanto da poco tempo e il fenomeno del lavoro subordinavo costituiva una realtà in evoluzione (p. 47).
324 Per Persiani, “non si può prescindere dalla prospettiva costituita dal contesto economico e sociale” che genera e giustifica il rapporto obbligatorio, e cioè “dall’assetto degli interessi che in esso si realizza” (p. 115).
325 Secondo Persiani, il difetto della teoria che distingue tra obbligazioni di mezzo e di risultato è quello di distinguere tra interesse finale e strumentale: essi, in realtà, coinciderebbero, non esisterebbero infatti obbligazioni che soddisfano soltanto un interesse strumentale del creditore. Di contro, ben può accadere che nelle obbligazioni definite “di risultato” l’interesse soddisfatto può essere “strumentale” rispetto ad un ulteriore interesse del creditore (che non assume rilevanza nel contratto). In conclusione, “con la costituzione del rapporto obbligatorio soltanto un interesse del creditore assume rilevanza giuridica e protezione formale, restando irrilevanti gli interessi ulteriori” (p. 136).
concludere che l’oggetto dell’obbligazione è costituito dal “comportamento del debitore qualificato dal risultato” (op. cit., p. 128), di conseguenza tanto il comportamento quanto il risultato rientrano in esso e sono inscindibilmente connessi tra loro nel senso che “l’adempimento dell’obbligazione produce sempre la soddisfazione dell’interesse del creditore” (op. cit., p. 135).
In particolare, Persiani critica la tesi della configurazione dell’obbligazione di lavorare come obbligazione di mezzi o di mera attività destinata a soddisfare soltanto un risultato parziale, strumentale del datore di lavoro e non anche il risultato finale dell’organizzazione326.
Per l’Autore, infatti, l’utilità (utilitas) attesa dal datore di lavoro non si realizza semplicemente con l’esecuzione dell’attività lavorativa ma anche con il coordinamento dei comportamenti dovuti e, quindi, dei risultati327. Coordinamento che avviene per il tramite del potere direttivo del datore di lavoro, volto così a “conformare” l’obbligazione di lavorare “in funzione della realizzazione del risultato perseguito nell’organizzazione di lavoro” (op. cit., p. 145).
La conseguenza è che il lavoratore sarà inadempiente “se non avrà fatto tutto quanto doveva affinché il datore di lavoro consegua tale risultato” (della organizzazione), oltre ad aver eseguito “le disposizioni per l’esecuzione e la disciplina del lavoro”328.
Così ricostruita, l’organizzazione di lavoro non è effetto del contratto di lavoro (come, invece, sarebbe la subordinazione) ma “elemento costitutivo” nel senso che essa coincide con il rapporto di lavoro: “l’esistenza e la struttura dell’organizzazione di lavoro sono determinate dal fatto che un soggetto si obbliga a svolgere l’attività lavorativa per il raggiungimento di un interesse altrui […] e in posizione subordinata”329. D’altra parte, il verbo «collaborare» utilizzato dall’art. 2094 c.c. significherebbe proprio “lavorare per il raggiungimento di un fine che è presente ai soggetti che collaborano” e che è necessariamente “altrui”, il che comporterebbe la “funzionalizzazione dell’attività dovuta al fine del datore di lavoro”, e cioè la soddisfazione dell’interesse di questo al risultato in vista del quale ha posto in essere l’organizzazione di lavoro330.
326 È questa la ricostruzione di Xxxxxxx che rintraccia la funzione del contratto di lavoro nella obbligazione di “mettere a disposizione dell’altra parte una determinata quantità di energie”, cfr. X. XXXXXXX, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Xxxxxxx, Milano, 1957, p. 112. In queste ricostruzioni, il risultato dell’organizzazione di lavoro è, pertanto, estraneo al contratto e si realizza in un momento successivo attraverso il potere del datore di lavoro di indirizzare l’attività lavorativa altrui: l’oggetto dell’obbligazione di lavorare, allora, sarebbe soltanto lo svolgimento dell’attività lavorativa che costituisce, da sola, il risultato atteso dal datore di lavoro, con la conseguenza ultima che la “collaborazione” sarebbe inesistente sul piano giuridico come non sussisterebbe una responsabilità per il mancato raggiungimento del risultato dell’organizzazione di lavoro, cfr. X. XXXXXXXX, Contratto di lavoro e organizzazione, cit., pp. 139-142.
327 Ibidem, p. 145. Di contro, per Persiani l’interesse al profitto non costituisce l’interesse finale del datore di lavoro, per cui non ha rilevanza nel rapporto di lavoro e non è considerato dal nostro ordinamento come meritevole di tutela (pp. 71-73). Da una prospettiva dell’organizzazione di lavoro, l’imprenditore persegue esclusivamente il fine della produzione o dello scambio di beni o servizi che si concreta nell’interesse al risultato dell’apparato produttivo nel suo insieme considerato, c.d. interesse alla produzione (art. 2082 c.c.). Tuttavia, il fine della produzione non rileva nel rapporto di lavoro e ne rimane estraneo: il contratto di lavoro, infatti, realizza l’interesse all’organizzazione del lavoro altrui in vista di quel risultato (pp. 91-92 e 265).
328 Ibidem, p. 143. Per l’Autore il lavoratore subordinato non è e non può essere considerato responsabile della produzione del suo complesso, pur tuttavia “la realizzazione di questa non è nemmeno irrilevante nei suoi confronti”. Sarebbe, infatti, la stessa “realtà del fenomeno sociale” a mostrare che la prestazione lavorativa sia “funzionalizzata al fine dell’impresa” (p. 144).
329 Ibidem, p. 159.
330 Ibidem, pp. 168-169. Ond’è che la realizzazione di quel risultato “qualifica il facere cui il lavoratore è tenuto, essendosi questo obbligato a collaborare per il raggiungimento di esso, e cioè a lavorare in posizione subordinata” (p. 171).
Onde, la subordinazione non descriverebbe soltanto una posizione del lavoratore (art. 2086 c.c.) ma soprattutto il “modo di essere” dell’attività dovuta (artt. 2094 e 2104 c.c.)331.
Tuttavia, la subordinazione non esaurisce il contenuto dell’obbligazione di lavorare in quanto vi è anche un altro elemento che la contraddistingue: la fedeltà che imporrebbe al lavoratore di tenere comportamenti “anche se non richiesti dal datore di lavoro”332.
In conclusione, per Persiani, l’obbligazione di lavorare è un’obbligazione di collaborare, ossia di “lavorare in modo subordinato e fedele” (la “collaborazione”, infatti, sarebbe “sintesi” dei vari profili di tale obbligazione, op. cit., p. 256), il cui oggetto è, quindi, composto tanto dal comportamento dovuto dal debitore individuato sulla base degli interessi del datore di lavoro quanto dal risultato atteso dal creditore (op. cit., p. 260).
Tale ricostruzione è stata, nel tempo, ripresa333 o criticata334 alla luce dell’evoluzione del contesto normativo e socio-economico335.
3.1.4.1 (segue) La tesi del contratto di lavoro come contratto di organizzazione nella dottrina successiva
In una monografia del 2002, Xxxxxxx riprende la tesi di Persiani ribadendo che il potere di organizzazione del lavoro, volto a realizzare l’interesse del datore di lavoro al coordinamento della
331 Ibidem, p. 193. Per tale ragione, Xxxxxxxx ritiene che lo jus variandi (2103 c.c.) e il potere disciplinare (2106 c.c.) rientrino nella nozione di subordinazione: essi, infatti, avrebbero autonomia strutturale e funzionale che danno luogo a posizioni del lavoratore diverse anche se assimilabili soltanto sulla base di un “criterio estrinseco e superficiale”, il fatto che si tratti di “soggezioni”.
332 In questo senso, per Persiani, la fedeltà andrebbe al di là della subordinazione, e cioè della soggezione al potere direttivo del datore di lavoro, in quanto “tende a realizzare la soddisfazione dell’interesse del creditore di lavoro, prescindendo dall’esercizio di tale potere”, cfr. X. XXXXXXXX, Contratto di lavoro e organizzazione, cit., pp. 244-245.
333 Cfr., su tutti, X. XXXXXXX, Saggio sull’organizzazione del lavoro, Cedam, Padova, 2002, che sostanzialmente ricalca, aggiornandola al diverso contesto normativo e socio-economico, la tesi di Persiani, pur presentando talvolta opinioni divergenti.
334 Cfr., fra gli altri, X. XXXXXXXXX, Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su contratto di lavoro e post-taylorismo, WP CSDLE “Massimo D’Antona” .IT – 5/2003, dove in modo esplicito sostiene che “l’ordinamento non ha certamente riconosciuto ad alcun fine un’organizzazione giuridica del lavoro – e cioè un’organizzazione che si componga di contratti (e quindi di rapporti) di lavoro e che abbia rilevanza giuridica in quanto tale – ma soltanto organizzazioni giuridiche di tipo più complesso, di cui può essere elemento componente il contratto (e quindi il rapporto) di lavoro”, onde il contratto di lavoro, al pari degli altri contratti con cui l’imprenditore si procura i fattori della produzione, non è un contratto di organizzazione ma “un elemento negoziale
dell’attività organizzata dell’imprenditore” con cui quest’ultimo “si procaccia il lavoro altrui” (p. 47). Le ricadute di tale posizione sono sulla struttura del contratto di lavoro: “l’obbedienza del prestatore non deve certo confrontarsi con l’interesse organizzativo” (p. 50), in altri termini la prestazione è soggetta soltanto al potere direttivo; di riflesso, l’“interesse organizzativo del lavoro è perseguito dal datore di lavoro attraverso l’esercizio del potere direttivo” (p. 52). Secondo l’Autore, l’organizzazione di lavoro non è “il risultato del contratto di lavoro” ma “un prius rispetto al contratto stesso” (p. 54), essa, infatti, “non sorge dal contratto, ma sul contratto si proietta anche in termini prospettici e dinamici” (p. 55).
335 Lo stesso Xxxxxxx ha posto, in più occasioni, la fondamentale questione se lo Statuto dei lavoratori abbia modificato, o no, lo schema causale del contratto di lavoro, cfr., da ultimo, X. XXXXXXX, Il contratto individuale di lavoro, cit., p. 190. L’Autore, in quella sede, rispondeva in senso negativo: la legge n. 300/19970 ha, senza dubbio, promosso un regime di “democrazia industriale” nei luoghi di lavoro sostenendo la presenza sindacale all’interno delle imprese e, quindi, riconoscendo nel rapporto di lavoro un diritto di coalizione come pendnat dei poteri del datore di lavoro (art. 14 St. lav.) ed ha esteso la tutela contrattuale ai diritti fondamentali della persona, assicurando così un più equilibrato contemperamento degli interessi (“più coerente con una logica egualitaria del contratto”) e un’attenuazione del carattere gerarchico. Tuttavia, da un lato, la coalizione non entrerebbe nel rapporto di lavoro ma opererebbe dall’esterno come fonte (pattizia) di regolazione dello stesso, in particolare dei profili organizzativi e gestionali dell’impresa; dall’altro lato, è stato osservato che il carattere gerarchico non contraddistingue ontologicamente il contratto di lavoro.
prestazione in funzione della produzione, sarebbe da ricondurre al contratto di lavoro subordinato336.
Allo stesso tempo, però, l’Autore sviluppa quella tesi alla luce del mutato quadro normativo ed anche in considerazione delle trasformazioni avvenute nel mondo del lavoro337. Ed infatti, Xxxxxxx aderendo alla tesi secondo cui lo jus variandi orizzontale sarebbe attratto nell’ambito del potere direttivo e, quindi, di fatto verrebbe meno (cfr. par. n. …), condivide la conclusione di quel ragionamento: l’oggetto del contratto di lavoro corrisponderebbe ad un insieme di mansioni “tendenzialmente aperto”, in quanto collegato alla struttura organizzativa dell’impresa, e riconducibile, attraverso il criterio dell’equivalenza, al concetto di professionalità convenuta (nel senso di contrattuale) o, comunque, oggettiva338.
Pertanto, già nell’esercizio del potere di organizzazione esterna (potere direttivo specificativo della prestazione dovuta oppure, nei nuovi modelli organizzativi del lavoro, dell’obiettivo assegnato339) si realizzerebbe l’interesse al coordinamento organizzativo del lavoro altrui alle esigenze produttive dell’impresa, e cioè l’interesse alla variabilità del risultato materiale. Il potere di scelta, interruzione, revoca e sostituzione della mansione nell’ambito della equivalenza avrebbe, infatti, l’effetto di trasferire sul piano del contratto il programma produttivo unilateralmente determinato dal datore di xxxxxx000.
Di contro, tra le varie voci critiche, si segnala quella di Xxxxxxxxx, il quale ritiene non condivisibile la ricostruzione di Persiani sulla base di argomentazioni che muovono sia dal contesto economico-produttivo più o meno attuale sia da una prospettiva di politica del diritto341.
336 Cfr. X. XXXXXXX, Saggio sull’organizzazione del lavoro, cit., p. 265. Senonché l’Autore si distacca parzialmente dalla ricostruzione di Persiani quando sostiene che nel potere di organizzazione rientrerebbe tanto il potere direttivo in senso proprio (o potere conformativo), che consiste nella organizzazione c.d. esterna (individuazione della mansione ovuta) ma anche nell’organizzazione c.d. interna (dettare disposizioni che riguardano la disciplina del lavoro e le modalità di svolgimento della prestazione), quanto il potere modificativo del regolamento contrattuale (potere direttivo attuativo di ciò che viene impropriamente definito jus variandi).
337 È lo stesso Xxxxxxx a reputare necessario riflettere sull’impatto che ha sul potere direttivo (in particolare, su quello che definirà potere di organizzazione esterna, cfr. nota n. …) l’introduzione di nuovi modelli organizzativi quali la distribuzione dei compiti “per competenze” e le nuove tecniche di responsabilizzazione delle risorse umane attraverso l’assegnazione di obiettivi e risultati, cfr. X. XXXXXXX, Saggio sull’organizzazione del lavoro, cit., p. 315. Ed infatti, nel lavoro subordinato caratterizzato dalla organizzazione (esterna) per obiettivi, è massima la valorizzazione dell’apporto professionale e creativo del lavoratore ben potendo mancare del tutto l’indicazione delle modalità di esecuzione (c.d. organizzazione interna), con la conseguenza che la specificazione interna della mansione non rappresenterebbe una peculiarità esclusiva del contratto di lavoro subordinato (anche nelle collaborazioni coordinate e continuative, infatti, vi può essere un esercizio di un potere di “istruzione”).
338 Intendendosi per essa quella oggetto di manifestazione di volontà oppuure assegnata, Cfr. X. XXXXXXX, Saggio sull’organizzazione del lavoro, cit., p. 301.
339 Ed infatti, anche qui vi sarebbe il potere del datore di lavoro di scegliere, modificare e sostituire continuamente gli obiettivi da assegnare al lavoratore subordinato in funzione dell’interesse alla produzione secondo un modello che si ispira al lavoro dirigenziale o del quadro (vd. art. 2 della legge n. 190/1985), cfr. X. XXXXXXX, Saggio sull’organizzazione del lavoro, cit., p. 315-318.
340 Cfr. X. XXXXXXX, Saggio sull’organizzazione del lavoro, cit., p. 314. In definitiva, secondo l’Autore, l’interesse dell’imprenditore al funzionamento dell’impresa non rimarrebbe confinato nella sfera dei motivi individuali (irrilevanti) ma caratterizzerebbe lo stesso schema causale del contratto di lavoro (p. 246).
341 L’Autore ritiene, infatti, che la tesi di Persiani “corrispondeva, al più, ad un assetto di interessi registrabile all’epoca della ricerca” dovendo così essere “oggetto di ripensamento alla luce dell’evoluzione dei rapporti di produzione”, cfr. X. XXXXXXXXX, Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su contratto di lavoro e post-taylorismo, WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx .IT-5/2003, p. 13. Tuttavia, l’opzione ermeneutica espressa da Xxxxxxxxx è espressione di ben precisa politica del diritto e prospettiva: “una prospettiva che privilegia il lavoro subordinato nell’impresa” (p. 31), e non l’aspetto dell’organizzazione dell’impresa.
La principale obiezione mossa alla tesi del contratto di organizzazione è quella di aver di fatto comportato l’allargamento causale e, quindi, dell’area del debito del lavoratore342, in particolare le critiche sono mosse al “valore a dir poco ‘eccedente’” conferito da Persiani all’obbligo di fedeltà343.
Xxxxxxxxx, pertanto, ha avanzato una lettura del contratto di lavoro come contratto di mero “scambio mercantile” tra retribuzione e lavoro “qualificato” dalla subordinazione. Più nello specifico, l’Autore ha proposto di tornare a riconoscere il contratto di lavoro come “puro contratto a prestazioni corrispettive”, la cui funzione economico-sociale sarebbe quella di realizzare ed assicurare “uno scambio ‘secco’ tra retribuzione ed attività lavorativa, qualificata […] dalla subordinazione, e connotata ormai, nei nuovi sistemi organizzativi post-tayloristici, […] da una dilatazione quantitativa e qualitativa della prestazione da erogare”344.
Ciò che, infatti, preoccupa maggiormente Carabelli è l’esigenza di limitare l’area del debito e la “collaborazione” del lavoratore soltanto all’attività lavorativa esigibile, ossia quella determinata dal contratto e dal datore di lavoro per il tramite del potere direttivo, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di riparto delle responsabilità e rischi nonché in termini di controprestazione345.
342 È stato da altri osservato che è proprio l’“allargamento causale” – invero non necessario – oltre il mero scambio lavoro-retribuzione, realizzato attraverso la considerazione dell’organizzazione di lavoro quale fattispecie conformatrice degli obblighi contrattuali, ad instaurare il nesso tra contratto di lavoro e impresa, tra lavoratore e datore di lavoro (anche non imprenditore), cfr. X. XXXXXX, Contratto e rapporti di lavoro, cit., p. 1111-1112, il quale però individua anche un difetto a tale ricostruzione: quello di aver elaborato una nozione di organizzazione completamente diversa da quella utilizzata nel linguaggio comune e nelle scienze dell’organizzazione e, quindi, avente un “carattere sovrastrutturale”. Di contro, per Napoli l’organizzazione del lavoro, nel frattempo positivizzata nell’art. 3 della l. n. 604/19666, costituisce un profilo essenziale dell’organizzazione dell’impresa poiché “riduce ad unità il dato imprescindibile della divisione del lavoro”.Persiani replicherà a Napoli e alla sua “inutile critica terminologica” osservando che “seppure l’organizzazione di lavoro costituisce un fatto […] resta che questa realtà è stata prevista e presa in considerazione dal legislatore che, per essa, ha dettato una disciplina per effetto della quale quella realtà è necessariamente proiettata nella sua «dimensione giuridica»”, d’altronde “l’espressione «organizzazione del lavoro» che si legge nell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 altro non è che l’organizzazione di lavoro costituita dal contratto individuale di lavoro” o, tutt’al più, “descriverebbe il complesso delle varie organizzazioni di lavoro derivanti dai singoli contratti individuali”, cfr. X. XXXXXXXX, Considerazioni sulla nozione e sulla funzione del contratto di lavoro subordinato, cit., p. 719, nota 43.
Anche Xxxxxxx ha osservato che, per il tramite dell’art. 3 della legge n. 604/1966, “la funzione organizzativa del contratto […] attrae nell’orbita della tutela contrattuale anche l’interesse del datore di lavoro alla conservazione e all’ordinato svolgimento dell’organizzazione produttiva”, cfr. X. XXXXXXX, L’influenza del diritto del lavoro sul diritto civile, cit., p. 14.
343 Valore che andrebbe oltre tanto al dato letterale dell’art. 2105 c.c. quanto agli orientamenti giurisprudenziali, cfr. X. XXXXXXXXX, Organizzazione del lavoro e professionalità, cit., p. 12. Inoltre, l’Autore esprime perplessità in ordine al fatto che il compito di assicurare il soddisfacimento dell’interesse tipico del datore di lavoro al coordinamento dell’attività lavorativa sarebbe affidato non all’obbligazione principale, ma ad una accessoria, strumentale ad essa.
344 X. XXXXXXXXX, Organizzazione del lavoro e professionalità, cit., p. 21.
345 Ed infatti, secondo Xxxxxxxxx, “l’integrale responsabilità gestionale e di coordinamento dei fattori produttivi” dovrebbe ricadere sul datore di lavoro “in quanto detentore dei mezzi di produzione”, il quale “se, da un lato, ha la titolarità del potere direttivo, dall’altro, subisce in pieno il rischio dell’utilità o produttività del lavoro”, cfr. X. XXXXXXXXX, Organizzazione del lavoro e professionalità, cit., p. 21. In altri termini, l’attività lavorativa erogata con animus collaborandi deve essere ricondotta non ad “una posizione debitoria del lavoratore in chiave collaborativa (imponendogli un’iniziativa, un impegno volitivo specifico volto a soddisfare il bisogno di aderenza all’organizzazione datoriale, per il tramite di una dilatazione degli obblighi strumentali – obbligo di fedeltà – ovvero dell’obbligazione principale, anche attraverso la dimensione della cooperazione debitoria oppure del criterio di diligenza)” ma ad un’apposita controprestazione (retribuzione o “ad una attribuzione remunerativa”), nella quale possa trovare accoglienza anche il valore di mercato di un siffatto coinvolgimento personale del singolo lavoratore”.
E, alla possibile obiezione di ritorno al “paleo-capitalismo”346, Xxxxxxxxx risponde che “voler ritornare ad una ormai superata concezione del lavoro come merce […] non mi sembra ci sia troppo da scandalizzarsi”, ciò perché “gli stessi nuovi modelli di impiego ed utilizzazione flessibile della forza lavoro, che tendono a standardizzarsi in tutto il mondo economico globalizzato, sono stati più volte ricondotti alle logiche mercificate dell’organizzazione del lavoro delle origini dell’industrializzazione”347.
Altri Autori hanno, invece, criticato la tesi di Persiani con riferimento ad altri profili, segnatamente per aver preso in considerazione il rapporto di lavoro come “rapporto isolato” in quanto l’organizzazione rilevante in esso sarebbe soltanto quella che lega il singolo lavoratore con il datore di lavoro dando così vita ad una sorta di “micro” organizzazione di persone che si instaura per effetto del contratto (e non l’organizzazione complessiva)348. Ad avviso di Xxxxxx, allora, l’integrazione del lavoratore nell’organizzazione del datore di lavoro è sempre il frutto dell’esercizio (eventuale) del potere di etero-organizzazione che è iscritto nel regolamento contrattuale in quanto è lo stesso lavoratore che, stipulando il contratto di lavoro, s’impegna a porre in essere un comportamento che tiene conto del fatto che dovrà collaborare, ossia lavorare insieme, lavorare con altri349.
3.1.5. Rapporto e contratto di lavoro: le ricostruzioni tradizionali e quelle “alternative”
Come già anticipato (cfr. supra par. n. …), la contrattualità del lavoro subordinato e delle sue posizioni (attive e passive) è, tuttora, sostenuta dalla dottrina maggioritaria350.
In particolare, la dottrina tradizionale è solita ricostruire il rapporto di lavoro come un rapporto che trae origine da un contratto (principio della contrattualità) avente ad oggetto lo scambio tra una
346 È questa la felice espressione utilizzata da Xxxxxxx per criticare la ricostruzione del contratto di lavoro come “compravendita di forza-lavoro” in cui l’oggetto dell’obbligazione di lavorare consisterebbe nello “stare a disposizione del datore per il tempo delimitato dall’orario di lavoro”, cfr. X. XXXXXXX, Le modificazioni del rapporto di lavoro alla luce dello statuto dei lavoratori, in Id., Diritto e valori, Il Mulino, Bologna, 1985, p. 373.
347 Cfr. X. XXXXXXXXX, Organizzazione del lavoro e professionalità, cit., pp. 21-22.
348 È questa la critica mossa da X. XXXXXX, Contratto di lavoro e organizzazione al tempo del post-fordismo, cit., p. 3 dell’estratto. Tra l’altro, l’Auotre avanza anche dubbi sulla tenuta di quella ricostruzione alla luce dei modelli produttivi post-fordisti dove emergono problemi legati alla partecipazione positiva ed attiva del lavoratore, il quale si riappropria della sua attività, con conseguenze – da tenerne conto in sede ermeneutica – obbligo di adibizione (incipit art. 2103 c.c.), mentre nel fordismo l’autonomia e il pensiero critico erano prerogative del datore dei lavoro e dei superiori.
349 Tale ricostruzione, presente per la verità anche nella tesi di Persiani, si adatterebbe anche alle organizzazioni produttive post-fordiste: in queste ultime, però, sarebbe diverso il mix tra lavoro etero-organizzato e la quantità di lavoro autonomamente adattato dal lavoratore alle esigenze dell’organizzazione datoriale, cfr. X. XXXXXX, Contratto di lavoro e organizzazione al tempo del post-fordismo, cit., p. 8 dell’estratto. Secondo l’Autore il fatto che l’esecuzione della prestazione lavorativa si svolga nel contesto dell’organizzazione (complessiva) di persone ha diverse ricadute: a) specifica meglio il contenuto dell’obbligazione di lavorare; b) configura in capo al lavoratore un obbligo accessorio di rispettare l’organizzazione stessa.
350 La dottrina “contrattualista” può essere individuata nell’opera di quattro grandi studiosi della materia: Xxxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Xxxxx Xxxxxxx e Xxxxxx Xxxxxxxx, cfr. X. XXXXXXX, Saggio sull’organizzazione del lavoro, Cedam, Padova, 2002, p. 9. Per un’attenta e rigorosa analisi del dato positivo da cui è possibile ricavare il principio della contrattualità del rapporto di lavoro nonché la valorizzazione del contratto non solo come fattispecie costitutiva ma anche come fonte regolativa del rapporto, cfr. X. Xxxxxx, Contratto e rapporti di lavoro, cit., pp. 1088 e ss.
prestazione lavorativa determinata o, meglio, determinabile351 (in quanto attraverso l’istituto dell’inquadramento del lavoratore e delle mansioni il datore di lavoro può, di volta in volta, a seconda delle circostanze ed esigenze, individuare l’attività dovuta dal lavoratore) e la retribuzione352, la funzione economico sociale, pertanto, quella di assicurare uno “scambio ” tra retribuzione ed attività lavorativa qualificata dalla subordinazione e da una dilatazione quantitativa e qualitativa della prestazione da erogare (quantomeno nei nuovi sistemi organizzativi post- tayloristici)353.
Tuttavia, anche recentemente, sono stati avanzati dubbi e perplessità in dottrina in ordine alla perdurante validità di quella tesi nonché elaborazioni alternative che rintracciano in fonti alternative e diverse (dal contratto) l’origine di alcune posizioni giuridiche di cui sono titolari le parti354.
È stato, però, correttamente rilevato che se la nozione di rapporto di lavoro ha l’indubbio pregio di raccogliere in una “sintesi unitaria” tutte le posizioni soggettive riconducibili, direttamente o indirettamente, al contratto di lavoro, svolgendo quindi una “funzione pratica di carattere descrittivo […] probabilmente insostituibile” dei rispettivi obblighi che evolvono nel corso del tempo, allo stesso tempo, essa non ha, nel nostro ordinamento, una “rigorosa autonomia scientifica”355.
Nonostante gli straordinari processi in atto che hanno stravolto e continuano a farlo il mondo della produzione (cfr. supra §§…), la dottrina ha anche di recente ribadito e sostenuto che il contratto di lavoro conserva una funzione centrale essendo ancora lo strumento giuridico che più di altri consente di, da un lato, di garantire la cooperazione durevole del lavoratore al raggiungimento del risultato produttivo, dall’altro lato, di conservare il capitale di conoscenze acculumate356.
3.1.5.1 La causa del contratto di lavoro subordinato
Tradizionalmente la causa del contratto di lavoro subordinato è stata rinvenuta nello scambio tra lavoro, “qualificato” dal carattere subordinato delle modalità di svolgimento dello stesso (vd.. supra par. n. …), e retribuzione, con conseguente irrilevanza – in linea generale e salvo diversa
351 La determinatezza o determinabilità dell’oggetto del contratto di lavoro è un requisito necessario (art. 1346 c.c.) che si riconnette al principio della libertà personale, onde è necessario che la prestazione lavorativa sia individuata almeno nel gendere, cfr. X. Xxxxxxx, Il contratto di lavoro nel diritto italiano, cit., p. 454.
352 Cfr., fra gli altri, X. XXXXXXXX, Considerazioni sulla nozione e sulla funzione del contatto di lavoro subordinato, in AA.VV., Studi in onore di Xxxxxxx Xxxx, 19, vol. II, pp. 711 e ss.
353 Cfr. X. XXXXXXXXX, Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su contratto di lavoro e post- taylorismo, WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT – 5/2003, p. 21. Secondo questa ricostruzione, pertanto, la professionalità e la finalità formativa non costituirebbero l’oggetto dello scambio.
354 È questa la posizione di X. XXXXXX, Contratto di lavoro e organizzazione al tempo del post-fordismo, in Arg. dir. lav., 2014, n. 4-5, pp. 884 e ss., il quale sostiene che l’operazione “contrattualista” realizzata negli anni ’60 avrebbe soltanto spostato la frattura tra contratto e rapporto di lavoro.
355 Ed infatti, il carattere di durata del contratto di lavoro condiziona inevitabilmente i suoi effetti con una intensità che non trova riscontro in alcun altro contratto nominato (basti pensare alle continue modifiche nel corso del tempo delle fonti legislative e collettive che integrano il contenuto del contratto di lavoro ma anche alle pattuizioni individuali che spesso si perfezionano semplicemente attraverso comportamenti concludenti), cfr. X. XXXXXXX, voce Lavoro (contratto individuale di), cit., par. 20.
356 Cfr. X. XXXXXXX, «Noi siamo quello che facciamo». Prassi ed etica dell’impresa post-fordista, in DLRI, 2014, n. 144, p. 633.
previsione delle parti individuali e/o collettive – di altri interessi patrimoniali (diversi da quelli sopra richiamati) e non patrimoniali357.
Senonché, con il passare del tempo e la valorizzazione dei principi costituzionali, questa posizione è stata parzialmente rivista non solo dalla dottrina ma anche dalla giurisprudenza (vd. Cap. III, Parte II, par. n. ….), che hanno fatto emergere nel rapporto di lavoro interessi diversi da quelli patrimoniali che meritano pari (se non superiore) tutela.
D’altronde, che la persona del lavoratore sia inevitabilmente coinvolta nel lavoro è dimostrato da una serie di circostanze (retribuzione come mezzo di sostentamento personale e familiare, ambiente di lavoro come ambiente “esterno” e “sociale”, ecc.).
È questa, insomma, l’anomalia del diritto del lavoro che, da un lato, costruisce il rapporto di lavoro come rapporto contrattuale di scambio e lascia fuori dalla struttura del contratto la persona del lavoratore, dall’altro lato, gli interventi legislativi a tutela del lavoratore integrano dall’esterno il contratto stesso358.
3.1.5.2 L’oggetto del contratto di lavoro subordinato
Tutti i contratti, siano essi tipici o atipici, devono avere un oggetto (art. 1325, comma 1, n. 3 c.c.), il quale deve essere «possibile» e lecito» ma anche «determinato o determinabile» (art. 1346 c.c.).
L’oggetto del contratto di lavoro subordinato359, cioè la cosa e/o il comportamento che costituiscono il punto di riferimento materiale dell’assetto contrattuale, è duplice: da un lato, la prestazione di lavoro, dall’altro la retribuzione, trattandosi appunto del comportamento e della cosa cui tendono gli interessi tipici delle parti360.
Con riguardo alle questioni relative al contenuto e all’oggetto del contratto di lavoro, autorevole dottrina già negli anni ’60 aveva affrontato queste problematiche in un testo che è tuttora una pietra miliare della materia361.
357 È questa la ricostruzione di X. XXXXXXX, voce Lavoro (contratto individuale di), cit., par. 6, con la conseguenza che “l'interesse alla disponibilità del comportamento del lavoratore e l'interesse alla retribuzione esauriscono d'altro canto la sfera degli interessi giuridicamente protetti con il contratto di lavoro, e segnano i limiti dello schema causale di questo, mentre ogni altro interesse perseguito dalle parti non può avere rilevanza giuridica se non come motivo, o come elemento accidentale del negozio concreto”. Per l’Autore sarebbero così estranei a tale schema sia “l'interesse del datore di lavoro imprenditore al coordinamento del comportamento del lavoratore con altri analoghi comportamenti, ai fini di un proficuo svolgimento dell'attività produttiva, o più in generale quello del datore di lavoro al conseguimento dell'opera o del servizio dei quali la prestazione di lavoro costituisce fattore essenziale dal punto di vista tecnologico ed economico; sia l'interesse del prestatore di lavoro alla esecuzione della prestazione, il quale può assumere rilevanza soltanto in quanto sia dedotto come motivo comune determinante del concreto negozio”.
358 Cfr., sul punto, sempre X. XXXXXXX, voce Lavoro (contratto individuale di), cit., par. 8, il quale sostiene, comunque, che l’irriducibile antinomia tra disciplina contrattuale e disciplina legale non contraddice la nozione moderna di contratto nella quale la fonte privata e la fonte legale convergono e partecipano entrambe alla costruzione del regolamento contrattuale.
359 Peraltro, “oggetto del contratto”, “oggetto dell’obbligazione” o “della prestazione” sarebbero tutti concetti che descrivono la medesima realtà, ossia designano il comportamento dovuto dal debitore seguito da un risultato economico (art. 1174 c.c.) seppur da punti di vista differenti, cfr. X. XXXXXXXX, Contratto di lavoro e organizzazione, cit., pp. 133- 134.
360 Cfr. X. XXXXXXX, Lavoro (contratto individuale di), cit., par. 13.
361 Il riferimento è a X. XXXXXX, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Xxxxxx, Napoli, 1963. Successivamente, Xxxxxx ritornerà ad occuparsi della materia per verificare se i risultati della sua prima ricerca fossero ancora validi alla luce dell’evoluzione del sistema normativo, cfr. X. XXXXXX, voce Mansioni e qualifica, in Enc. Dir., vol. XXV, 1975.
Xxxx Xxxxxx partendo dal dato normativo (all’epoca l’art. 2103 c.c. nella sua versione originale) evidenziava che tale disposizione nello stabilire che «il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto» ha acquisito al linguaggio legislativo l’espressione che, nella pratica aziendale e sindacale di quel periodo, valeva a designare la prestazione dedotta nel contratto di lavoro362. In altri termini, per Xxxxxx le mansioni di assunzione di cui fa riferimento il primo comma dell’art. 2103 c.c. altro non sarebbe che una variante terminologica per indicare l’attività convenuta e, quindi, l’oggetto dell’obbligazione di lavorare363.
Peraltro, per Xxxxxx l’attività lavorativa non può essere definita concettualmente come un a priori rispetto al rapporto in cui la stessa è stata dedotta: soltanto quando il facere è dedotto contro retribuzione e sotto vincolo di subordinazione che siamo in presenza di un rapporto di lavoro subordinato, di conseguenza qualsiasi attività di mero facere (purché possibile e lecita) può costituire l’oggetto di un siffatto rapporto364.
Chiarito il contenuto della prestazione di lavoro, l’Autore contrastava parte della dottrina che tendeva a definire il contenuto di tale obbligazione spostando l’accento su altre connotazioni: ora sul dato naturalistico365, ora su un dato socio-economico (la qualifica o la capacità tecnico- professionali), ora infine su un dato attinente all’organizzazione del lavoro (il “posto” di lavoro)366.
Senonché, ad avviso di Giugni la qualifica costituisce la posizione giuridica fondamentale del lavoratore da cui deriva una serie di doveri/diritti inerenti al rapporto di lavoro. Le categorie si determinano sulla base delle mansioni e delle qualifiche e consentono di individuare alcuni aspetti del trattamento c.d. normativo del lavoratore, sia esso stabilito su base legislativa oppure su base contrattuale.
È stato, tuttavia, osservato che la ricostruzione tradizionale (Giugni) secondo cui i modelli di prestazione sono individuati mediante l’utilizzo di archetipi professionali ideali, generalmente ed astrattamente esistenti nel mercato del lavoro, sarebbe ora messa in discussione dal divario sempre
362 X. XXXXXX, Xxxxxxxx e qualifica nel rapporto di lavoro, cit., p. 3. In particolare, secondo la scienza dell’organizzazione dell’epoca:
- la mansione o le mansioni (termini interscambiabili) indicavano il “compito”, unità elementare e indivisibile in cui è scomponibile il “posto” o, meglio, la “posizione” (declinabile anche come “funzione”), o l’insieme di compiti attribuiti al lavoratore nell’ambito dell’organizzazione aziendale. Tale nozione poteva, infine, essere descritta come una combinazione di fasi, di operazioni e, infine, di movimenti elementari;
- la posizione individuava, a sua volta, l’attività da svolgere, data come costante una determinata organizzazione del lavoro e una determinata distribuzione dei singoli prestatori nell’ambito di essa.
363 In tal senso X. XXXXXX, Xxxxxxxx e qualifica nel rapporto di lavoro, cit., p. 7. Tutti gli altri tentativi di ricostruire diversamente l’oggetto dell’obbligazione principale del lavoratore subordinato, secondo Xxxxxx, o erano da respingere in quanto non rigorosi oppure erano “mere varianti descrittive, prive di originali deduzioni positive” in quanto tali potevano anche essere “accettate o respinte, senza che si pongano vere e proprie alternative di conoscenza giuridica, ma solo di mezzi di esposizione del concetto” (op cit., p. 11).
364 I tentativi compiuti dai vari scrittori (in Italia vd. X. Xxxxxxx, Il contratto di lavoro, 1915) di definire il lavoro in sé e per sé deducendone la nozione dalle scienze naturali o dalla fenomenologia economico-sociale sono stati insoddisfacenti o di scarso rilievo per la costruzione giuridica, cfr. ancora X. XXXXXX, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, cit., pp In definitiva, le “mansioni” indicate nell’art. 2103 c.c. non solo possono inerire a qualsiasi lavoro,
ma più genericamente a qualsiasi facere, perché è la deduzione di questo in tale tipo di contratto che lo qualifica come lavoro (subordinato) e non viceversa.
365 Ad esempio, le energie lavorative, X. XXXXXXXXXX, Studi sulle energie come oggetto di rapporti giuridici, in Riv. dir. comm., XI, 1913, pp. 384 e ss.
366 Secondo Giugni, la ragione d’essere di tali teorie risiedeva nella diffusa esitazione a riconoscere che l’attività possa rappresentare esaurientemente il contenuto della obbligazione; aveva un suo peso inoltre lo stato più arretrato della costruzione delle prestazioni di facere rispetto alle prestazioni di dare (posto che queste ultime hanno come solido punto di ancoraggio alla realtà naturale la realtà del bene-cosa), ecco l’esigenza di simmetria e la ricerca dell’oggetto distinto dell’attività.
maggiore tra qualifiche generalmente presenti nel mercato del lavoro e quelle concretamente esistenti nelle organizzazioni produttive367.
Tale tesi sarebbe poi stata corretta da Xxxxxx Xxxx000, il quale ha ricondotto la prospettiva alla posizione di lavoro concretamente occupata dal lavoratore. Ciò perché vi è un intimo legame tra sistemi di organizzazione e gestione del lavoro e materia delle mansioni.
Peraltro, fattori quali la globalizzazione, l’innovazione tecnologica, l’ ingegneria organizzativa (si veda ad es. l’introduzione del WCM negli stabilimenti Fiat), la crisi economico-finanziaria avrebbero rivoluzionato i modelli produttivi e di organizzazione del lavoro, modificando la varietà e densità dei compiti affidati ai lavoratori (innalzamento della polivalenza professionale, capacità di adattamento): al centro dell’organizzazione sempre più il “capitale umano”369.
La dottrina più recente ha così evidenziato che il tema relativo all’oggetto del contratto di lavoro non sarebbe stato approfondito a sufficienza né dal punto di vista teorico né da quello applicativo370.
3.1.5.3 Potere direttivo e oggetto del contratto di lavoro
Secondo una prassi ormai diffusa, quasi sempre il contratto individuale di lavoro prevede non già la specifica attività che il lavoratore si obbliga a prestare bensì un insieme di attività, e cioè di mansioni, complessivamente individuate mediante il riferimento alla qualifica, al profilo professionale o al livello previsti dalla contrattazione collettiva (e ritenute dall’autonomia collettiva tra loro omogenee), l’oggetto del contratto di lavoro, di solito, non è “determinato” ma “determinabile” (art. 1346 c.c.)371.
Il potere direttivo372, allora, non può essere configurato come esercizio di un diritto (e quindi potere) potestativo, e cioè determinare l’esistenza di una prestazione giuridica che non esisteva in
367 Cfr. X. XXXXXX, X. XXXXXXXXX, Le mansioni del lavoratore: inquadramento e jus variandi. Mansioni, qualifiche, jus variandi, in X. XXXXXXX (a cura di), Contratto di lavoro e organizzazione, Xxxx X. Contratto e rapporto di lavoro, in X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, Cedam, Padova, 2011, pp. 512 e ss..
368 X. XXXX, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, Xxxxxx Xxxxxx, Milano, 1982.
369 Allo stesso tempo, è stato osservato come il lavoratore di oggi non vada visto come un semplice titolare di un “rapporto di lavoro”, ma come un collaboratore che opera all’interno di un «ciclo» (che sia un progetto, una missione, un incarico, una fase dell’attività produttiva o della sua vita), di conseguenza, il percorso lavorativo risulta sempre più contraddistinto da cicli in cui si alternano fasi di lavoro (dipendente ed autonomo) e non lavoro intervallati o caratterizzate da forme intermedie e/o da periodi di formazione e riqualificazione professionale (le c.d. transizioni occupazionali), cfr. X. Xxxxx, Competitività e risorse umane, cit., p. 151.
370 Cfr. X. XXXXXX, X. XXXXXXXXX, Le mansioni del lavoratore, cit. pp. 514 e ss. Secondo le Autrici, infatti, gli elementi costitutivi dell’oggetto del contratto sarebbero, oltre alle mansioni (ossia la qualità del lavoro), anche l’orario di lavoro (ossia la quantità del lavoro), ed il luogo della prestazione, in tal senso anche X. Xxxxxxx, Saggio sull’organizzazione del lavoro, Padova, 2001, p. 281 e ss. Per il tentativo di inserire nell’oggetto del contratto anche il tempo di lavoro, cfr. X. Xxxxxx, Il tempo nel contratto di lavoro subordinato. Critica sulla de-oggettivazione del tempo- lavoro, Bari, 2008, p. 140 e ss.
371 Cfr. X. XXXXXXXX, Lineamenti del potere direttivo, in X. XXXXXXX (a cura di), Contratto di lavoro e organizzazione, in X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, Vol. IV, Tomo I, Cedam, Padova, 2012, p. 418. In termini analoghi già X. XXXXXX, Mansioni e qualifica, cit., p. 117, il quale evidenziava come lo stesso rinvio alla qualifica (ad es. gruista, archivista, ecc.) raramente appare circostanziato, da qui la necessaria applicazione dei criteri ermeneutici volti a interpretare il contratto e la volontà delle parti, in questo caso ricorrendo al criterio delle pratiche generali interpretative (art. 1368 c.c.), e cioè agli usi interpretativi che altro non sono che un rinvio a criteri di tipicità ambientale che sono influenzati dal mercato del lavoro. In uno scritto successivo, Xxxxxx si spinge ad individuare, sulla base delle innovazioni introdotte nella contrattazione collettiva degli anni ’70, l’oggetto del contratto di lavoro non dalle prestazioni attuali ma da quelle potenziali, e cioè quelle programmate in partenza (non di attuazione certa).
372 Secondo quella dottrina aperta alle istanze acontrattualistiche, il potere direttivo rappresenterebbe “una figura giuridica dai contorni peculiari, di grande respiro teorico, difficilmente razionalizzabile nei termini rigorosi della relazione intersoggettiva di scambio propria del rapporto obbligatorio” nonché il “principale strumento giuridico per
precedenza, ma si limita ad individuare quale tra le mansioni che il lavoratore si è obbligato a svolgere al momento della stipula del contratto deve essere eseguita per soddisfare le mutevoli esigenze dell’organizzazione del lavoro, e cioè il modo in cui deve essere eseguita incidendo sul momento dell’esecuzione dell’obbligazione di lavorare e non sulla determinazione del suo oggetto. Si è parlato, infatti, di potere direttivo come specificazione “interna” all’oggetto della prestazione373.
Accessorio a tale potere (inteso come potere di conformazione) è, pertanto, il potere di dettare disposizioni per l’esecuzione e la disciplina del lavoro (art. 2104, comma 2 c.c.).
Secondo Persiani, inoltre, il potere direttivo non individuerebbe la specifica attività lavorativa da eseguire quando la posizione del lavoratore (esempio tipico è quello dei dirigenti) si contraddistingue per un elevato livello di autonomia che ricomprende anche il potere di organizzare il proprio lavoro. In tali casi, infatti, si indica soltanto il settore in cui quell’attività deve essere eseguita o l’obiettivo da raggiungere
Sotto il profilo della collocazione nella sistematica civilistica, il potere direttivo, pertanto, ad avviso dell’Autore, ha contenuti e caratteristiche tali da riconoscergli una posizione singolare rispetto a tutti gli altri poteri unilaterali previsti dal Codice Civile o da altre disposizioni di legge rispetto a tutti gli altri poteri unilaterali previsti dal Codice Civile o da altre disposizioni di legge, tanto più se si considera che esso non è un rapporto giuridico avente natura “personale”, come invece sono i rapporti di famiglia in cui si attribuiscono poteri giuridici con effetti sulle persone. Tale singolarità deriverebbe, infatti, proprio dalla circostanza che il rapporto di lavoro, pur avente natura patrimoniale, comporta nel suo svolgimento l’inevitabile implicazione della persona, dato il costante assoggettamento al potere direttivo del datore di lavoro ed ancor più agli altri poteri ad esso accessori.
In ogni caso, sembra possibile individuare una similitudine374 tra potere direttivo e potere di scelta nelle obbligazioni alternative (art. 1285 e ss. c.c.), ciò in quanto anche qui l’oggetto pur essendo già determinato con il contratto, rectius determinabile, non è tuttavia individuato con la stipulazione ma in un momento successivo, con la differenza però che nelle obbligazioni alternative la scelta spetta, di regola, al debitore (mentre nel rapporto di lavoro essa spetta allo stesso datore di lavoro). Inoltre, proprio perché l’obbligazione di lavorare consiste in un’obbligazione ad esecuzione continuata, il potere direttivo, avendo la funzione di soddisfare sempre le mutevoli esigenze dell’organizzazione produttiva, una volta esercitato non si esaurisce ma si rinnova continuamente.
È stato però rilevato che nei moderni modelli produttivi ed organizzativi il datore di lavoro eserciterebbe il potere direttivo non solo (e non tanto) nel senso di specifica indicazione delle mansioni da svolgere ma piuttosto nel senso di individuazione predeterminazione dei risultati
le scelte strategiche di flessibilità del fattore lavoro che riguardano sostanzialmente la facilità con cui le mansioni svolte dai dipendenti possono essere mutate per adattarsi ai mutamenti della domanda”, da ciò deriva la sua “posizione centrale nella complessa rete di interrelazioni giuridiche e fattuali, individuali e collettive, tra zona del contratto e mundus dell’impresa”, cfr. X. XXXXXXX, Il potere direttivo dell’imprenditore, Xxxxxxx, Milano, 1992, pp. 2-3.
373 Cfr. X. XXXXXX, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, cit., p. 109 che richiama X. XXXXXXXXXXX,
Sull’applicazione di un sistema di “job evaluation” nel contratto di lavoro, in Foro it., 1960.
374 Secondo altri, invece, non è possibile neppure richiamare la figura dell’obbligazione alternativa in quanto gli artt. 1286 (irrevocabilità della scelta) e 1288-1290 (impossibilità sopravvenuta) non troverebbero applicazione al rapporto di lavoro, cfr. X. XXXXXX, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, cit., p. 109 che richiama X. XXXXXXX, Job evaluation e ordinamento giuridico italiano, in Dir. econ., 1960, p. 1245.
(qualitativi e quantitativi)” ai quali deve tendere l’attività lavorativa375.
3.1.5.4 La ricostruzione della professionalità come oggetto del contratto di lavoro
Parte della dottrina – invero ancora oggi minoritaria – ha iniziato, a partire dagli anni ’90, a esaltare la rilevanza (giuridica e “valoriale”) della professionalità all’interno del rapporto di lavoro, inserendola nella struttura obbligatoria nonché nell’oggetto del contratto di lavoro376.
In particolare, Xxxxx Xxxxxx, il primo esponente di questo orientamento, a metà anni ’90 ha offerto un’interessante ed originale (ri)lettura della fattispecie lavoro subordinato: partendo da alcune tesi classiche in materia, Napoli ha arricchito i risultati delle analisi con spunti e prospettive di notevole impatto innovativo, quantomeno sul piano di evoluzione futura della materia (prospettiva di politica del diritto o de jure condendo). In particolare, in quello scritto l’Autore ha condiviso l’elaborazione tradizionalmente accolta in letteratura del contratto di lavoro subordinato: tale contratto avrebbe una causa onerosa di scambio il cui oggetto è l’obbligazione di lavorare (schema del facio ut des)377, tuttavia i termini dello scambio non sarebbero semplicemente lavoro contro retribuzione, ma lavoro subordinato (o collaborazione) contro retribuzione378.
Fin qui, come sopra visto (cfr. par. n. …), nulla di nuovo. L’elemento innovativo della tesi di Napoli è, infatti, il tentativo di specificare e declinare – nonché valorizzare con nuovi connotati – il concetto di collaborazione che esprimerebbe e indicherebbe sia la prestazione (oggetto del contratto) che le modalità della stessa: in sintesi, un “lavorare insieme”, un “lavorare con altri” necessariamente in senso verticale (con il datore di lavoro) e, di norma, anche in senso orizzontale (con gli altri lavoratori)379. Più nel dettaglio, secondo questa tesi, nel concetto di collaborazione sarebbero ricomprese le tre connotazioni proprie dell’attività lavorativa: a) la personalità, nel senso di “profondo coinvolgimento personale” nell’esecuzione della prestazione; b) la continuità, e cioè il carattere durevole, la permanenza nel tempo dell’impegno; c) la professionalità, delineata dalle mansioni di assunzione (art. 2103 c.c.)380.
Per cogliere il significato del termine “collaborazione” sarebbe, infatti, necessario per Napoli leggere unitamente l’art. 2094 c.c. e l’art. 2103 c.c.: più che un dispiego di energie fisiche e psichiche, la collaborazione è esplicazione di professionalità, cioè di attitudini professionali richieste dalla natura delle mansioni da svolgere (art. 2103 c.c.) – che hanno, peraltro, rilievo in un
375 Cfr., fra gli altri, X. XXXXX, La modernizzazione promessa. Osservazioni critiche sul Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276, sul sito Dritto del lavoro on line, richiamato in X. XXXXXX, Professionalità e contratto di lavoro, cit., p. 106.
376 Possono essere ricondotti a questo filone dottrinale: X. XXXXXX, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, in AA.VV., Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Xxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxx, Milano, 1995, Tomo II; X. XXXXXXXXXX, Trasformazioni organizzative e contratto di lavoro, Jovene, Napoli, 2000, pp. 191 e ss.; X. XXXXXXXXX, Lavoro atipico, formazione professionale e tutela dinamica della professionalità del lavoratore, in DRI, 1998, n. 3, pp. 317 e ss.; X. XXXXXXX, Saggio sull’organizzazione del lavoro, Cedam, Padova, 2002, pp. 299 e ss.; X. XXXXXXX, Organizzazione del lavoro e professionalità tra rapporti e mercato del lavoro, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2004, n. …, pp. 165 e ss.; X. XXXXXX, Professionalità e contratto di lavoro, Xxxxxxx, Milano, 2004, pp. 81 e ss.
377 Cfr. X. XXXXXX, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, cit., p. 1109.
378 Cfr. X. XXXXXX, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, cit., p. 1115.
379 Cfr. X. XXXXXX, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, cit., p. 1118. L’Autore sottolinea altresì la necessaria valenza di “relazione personale” che il contratto di lavoro creerebbe, tuttavia sull’erroneità di configurare il rapporto di lavoro come rapporto personale e non come rapporto patrimoniale, cfr. X. XXXXXXXX, Contratto di lavoro e organizzazione, cit.,
p. …
380 Cfr. X. XXXXXX, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, cit., p. 1118.
momento precedente all’instaurazione del rapporto, ossia nel mercato del lavoro – e quindi peculiare modalità di espressione della personalità, in tal senso l’obbligazione di lavorare soddisfa un interesse non patrimoniale del lavoratore381, ma anche un interesse tipico del datore di lavoro (determinato dal principio della divisione del lavoro espresso dalla organizzazione stessa). Peraltro, l’art. 8 St. lav. farebbe emergere l’interesse tipico del datore di lavoro: l’attitudine professionale del lavoratore.
È così che l’Autore arriva a sostenere che la professionalità può contrassegnare ab origine l’oggetto del contratto di lavoro: se “collaborare” significa impegno durevole ad esplicare professionalità e il principio dell’equivalenza professionale segna il confine delle mansioni esigibili e dell’allargamento dell’oggetto del contratto, l’art. 2103 c.c. rende compatibile con il programma negoziale la valorizzazione delle risorse umane382. Questa ricostruzione si riconnette anche ai principi costituzionali, in particolare all’art. 4 Cost. che prefigurerebbe anche, unitamente ad altre disposizioni del nostro ordinamento, un diritto a lavorare383.
Pertanto, l’oggetto del contratto di lavoro subordinato (nonché dello scambio) sarebbe la professionalità384 che connoterebbe – come sopra visto – la collaborazione, ossia il lavorare insieme, con altri, in senso verticale necessariamente (con il datore di lavoro) in senso orizzontale normalmente (con gli altri lavoratori). Il contratto di lavoro è, in definitiva, per Napoli strumento e veicolo di espressione ed esplicazione di professionalità e, quindi, di personalità385.
Questa nuova prospettiva sull’oggetto del contratto di lavoro porta altri autori a riconsiderare il concetto di mansioni di cui all’art. 2103 c.c.386.
Un’altra autorevole dottrina ha osservato che il punto di diritto positivo più rilevante consiste nel fatto che l’eliminazione, nel vigente art. 2103 c.c., del criterio limitativo dell’equivalenza non
381 Cfr. X. XXXXXX, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, cit., pp. 1121-1122.
382 Cfr. X. XXXXXX, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, cit., p. 1122. È evidente, da questo punto di vista, l’implicazione della persona e la relazione personale che il contratto di lavoro implica ed incorpora in sé. Tutto ciò, però, non implicherebbe una dilatazione dell’obbligazione del lavoratore in quanto parametro di valutazione dell’adempimento sarebbe soltanto la diligenza qualificata dalla natura della prestazione richiesta in generale dall’art. 1176, comma 2 c.c. per lo svolgimento delle attività professionali. Tale ricostruzione, inoltre, non eliminerebbe la dimensione conflittuale, connaturata nel rapporto di lavoro, in quanto la collaborazione – come visto – implicherebbe solo un lavorare assieme e non anche un’adesione psicologica o culturale ai valori dell’impresa. Anche Nogler aderisce a questa ricostruzione a condizione però che per “professionalità” “si intende esprimere con un unico termine sia l’attività che la capacità del lavoratore di svolgerla interagendo anche con altri lavoratori”, X. XXXXXX, Contratto di lavoro e organizzazione al tempo del post-fordismo, cit., pp. 7-8 dell’estratto.
383 Diritto a lavorare che, peraltro, inizia ad essere affermato anche dalla giurisprudenza: “Che il lavoratore, in base al contratto di lavoro, abbia diritto, non solo a percepire la retribuzione, ma anche a lavorare, è concetto che si fonda sui principi costituzionali [n.d.r.: la sentenza richiama gli artt. 1, 2 e 4] e che trova riscontro nei numerosi filoni giurisprudenziali che tutelano il lavoratore contro comportamenti datoriali in cui, senza giustificazione, al lavoratore viene pagata la retribuzione, ma non viene fatta eseguire la prestazione”, ed infatti “il lavoro non è solo strumento di sostentamento economico, ma è anche strumento di accrescimento della professionalità e di affermazione della propria identità a livello individuale e nel contesto sociale”, cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., sent. n. 9965/2012 in materia di licenziamento, in particolare sul caso di due dirigenti sindacali aziendali illegittimamente licenziati e reintegrati in azienda per svolgere le funzioni sindacali ma non anche l’attività lavorativa, richiamata in X. XXXXXXX, La tutela della dignità professionale del lavoratore, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2017, n. 157, 4, p. 664.
384 In questi termini sempre M. NAPOLI, Disciplina del mercato del lavoro ed esigenze formative, cit., p. 269. Per Napoli, infatti, il lavoro (sia esso subordinato o autonomo) è sempre “estrinsecazione di professionalità, anche il lavoro più umile”.
385 Cfr. X. XXXXXX, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, cit., p. 1119.
386 Alcuni Autori hanno, infatti, sostenuto che “l’oggetto del contratto di lavoro subordinato non coincide, quasi fosse un calcolo aritmetico, con la somma dei compiti che il lavoratori si impegna a svolgere (a+b+c), bensì con la professionalità necessaria al loro svolgimento”, cfr. X. XXXXXXX, Saggio sull’organizzazione del lavoro, cit., p. 303.
sembra incidere sulla perdurante validità della re-concettualizzazione dell’oggetto del contratto operata da Xxxxx Xxxxxx: identificare l’oggetto con la prestazione conforme alla professionalità promessa nel contratto stesso presenta il vantaggio d’esprimere con un unico termine sia l’attività tecnica che la capacità di svolgerla interagendo con altri lavoratori, inoltre tale spostamento d’accento nella direzione della professionalità può dirsi rafforzato dal riconoscimento, da parte del
d. lgs. n. 81 del 2015, dell’obbligo in capo al datore di lavoro di formare il lavoratore in caso di mutamento di mansioni387.
Nel programma negoziale, allora, s’incontrano la volontà del datore di lavoro di avvalersi della professionalità del lavoratore e quella del prestatore a consentire che la sua professionalità si esplichi in un contesto organizzativo predisposto dal primo e preesistente al contratto di lavoro (che invece è strumento per acquisire la professionalità ricercata) (p. 1129), da qui la “tensione” tra professionalità soggettiva (le attitudini del lavoratore) e quella oggettiva (le mansioni da svolgere).
Un’altra dottrina, in adesione alla tesi sopra ricostruita, ha cercato di rinvenire la rilevanza della professionalità nel rapporto di lavoro in una serie di disposizioni di legge388 (legge n. 562/1926, art. 8 St. lav., disciplina in materia di apprendistato, ecc.).
Senonché, sul punto, occorre però richiamare autorevole dottrina privatistica389 che ha avuto modo di chiarire alcune nozioni fondamentali in materia di contratto.
Secondo questo insegnamento, l’oggetto del contratto (art. 1325, n. 3 c.c.)390 sarebbe costituito dalla prestazioni contrattuali che il contratto mette a carico delle parti (ad es., nella compravendita: l’attribuzione della proprietà del bene e il pagamento del prezzo). La legge, pur inserendolo tra i “requisiti” del contratto (art. 1325, n. 3 c.c.) e individuando le caratteristiche che esso deve avere (artt. 1346-1349 c.c.), non dà una definizione dello stesso che però si può ricavare da un’insieme di disposizioni.
La tentazione potrebbe, pertanto, essere quella di identificare (semplicisticamente) l’oggetto con il bene cui si riferiscono le posizioni soggettive, gli effetti contrattuali, tuttavia per Xxxxx tale operazione non funziona con il contratto di lavoro (a meno che non si voglia riconoscere come “bene” l’energia lavorativa o il know-how del lavoratore, invece del doveroso svolgimento dell’attività lavorativa). Allora la nozione di “oggetto” del contratto deve esplicitare le differenze fra contratti differenti (altrimenti l’oggetto sarebbe lo stesso nei casi di una vendita, usufrutto e
387 Cfr. X. XXXXXX, La subordinazione nel d.lgs. n. 81 del 2015: alla ricerca dell’«autorità del punto di vista giuridico», WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx” .IT-267/2015, p.27, novità di cui, secondo l’Autore, in futuro si dovrà necessariamente tener conto anche nel focalizzare la nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
388 In particolare: legge n. 562/1926 (dove, nella definizione di contratto di impiego privato, si enfatizza l’assunzione da parte dell’impresa dell’«attività professionale dell’altro contraente»); art. 8 St. lav. (dove è dato rilievo, ai fini dell’assunzione, alle «attitudini professionali» del lavoratore); art. 1 della legge n. 142/2001 (dove i soci lavoratori delle cooperative sono definiti come coloro che «mettono a disposizione le proprie capacità professionali anche in relazione al tipo e allo stato dell’attività svolta», con conseguente valorizzazione non tanto del concetto di mansioni quanto del concetto di competenze, “sapere in azione”, “saper fare”); legge n. 68/1999 (dove, per l’avviamento al lavoro dei disabili, è prevista l’indicazione nella richiesta di avviamento da parte del datore di lavoro della qualifica professionale richiesta).
389 Cfr. X. XXXXX, Il contratto, in X. XXXXXX, X. XXXXX (a cura di) Trattato di diritto privato, Xxxxxxx, Milano, 2001, pp. 329 e ss.
390 In realtà, è stato rilevato che la categoria dogmatica dell’oggetto del contratto ha avuto “poca fortuna” in quanto frutto di una “vicenda storica […] che non dà garanzie sulla sua fecondità come strumento dommatico”, “circoscritta” ed “equivoca” già nella prima elaborazione formulata da Xxxxxxx nel Traitè des obligations (1971) in cui si faceva riferimento tanto all’oggetto del contratto quanto a quello delle obbligazioni, cfr. C.A. XXXXXXX, voce Oggetto del contratto, in Enc. dir., vol. XXIX, 1979.
locazione di un immobile). Sicché il bene può riguardarsi come oggetto in senso generico del contratto come l’entità che in prima e superficiale approssimazione appare toccata dagli effetti contrattuali, ma occorre andare oltre il nudo bene per afferrare appunto il bene dovuto, il bene come dovuto in base al contratto391.
Nonostante ciò, è diffusa l’impressione che oggi il datore di lavoro, in particolare l’imprenditore, non acquisti semplicemente il “tempo” del lavoratore, ma la sua “professionalità”392. Infine, occorre anche evidenziare, anticipando così tematiche trattate nel prosieguo (cfr. par.
nn. ), che sul finire degli anni ’90 il legislatore e le parti sociali hanno iniziato ad occuparsi del
tema – prima confinato per lo più nell’ambito delle scienze dell’organizzazione, della formazione e sociali – delle “competenze”, della loro codificazione nonché certificazione anche con riferimento alla questione della qualificazione della forza lavoro.
Proprio la dottrina più sensibile a tali innovazioni ha avuto modo di interrogarsi in ordine alle ricadute di tali cambiamenti sulla disciplina del rapporto di lavoro e, in particolare, sui parametri di determinazione dell’oggetto dell’obbligazione di lavorare, stante l’asserita svalutazione, che sarebbe avvenuta nei moderni modelli produttivi e sistemi di classificazione, della funzione euristica/descrittiva del concetto di mansioni393. In particolare, secondo Fausta Guarriello l’emergere delle competenze offre l’opportunità di valorizzare la matrice contrattuale del rapporto di lavoro e imprimere alla disciplina dello stesso una significativa “svolta” sia con riferimento all’oggetto del contratto di lavoro (messa a disposizione non più di tempo ed energie psico-fisiche ma di professionalità)394 che con riguardo alla causa e al contenuto dello stesso (non più solo “scambio” lavoro contro retribuzione, ma riconoscimento del rilievo ed apertura a nuovi obblighi e diritti quali quello alla formazione in costanza di rapporto di lavoro)395.
Un sistema di inquadramento e individuazione dell’obbligazione principale del lavoratore così pensato, però, porrebbe tutta una serie di problematiche in ordine alla necessaria determinazione o determinabilità dell’oggetto del contratto di lavoro (art. 1346 c.c.) nonché in ordine alle ricadute sull’equilibrio sinallagmatico nonché sul potere direttivo del datore di lavoro che risulterebbe potenziato sia in senso quantitativo (ampliamento della sfera di esigibilità delle prestazioni
391 Quanto alla causa del contratto, per Roppo essa sarebbe la ragione giustificativa delle prestazioni contrattuali (la complessiva giustificazione dell’insieme delle prestazioni starebbe nello scambio dell’una con l’altra: ad es., nella compravendita lo scambio è tra proprietà e prezzo). Infine, il contenuto del contratto (artt. 1322, 1419 c.c.) costituisce nozione distinta da quella di “oggetto” in quanto rivela il senso del contratto più di quanto faccia la prestazione contrattuale (l’oggetto), il fattore d’illuminazione aggiuntivo è la causa. Il contenuto, in sostanza, è “l’oggetto del contratto qualificato dalla causa”, è la prestazione contrattuale illuminata dalla ragione che la giustifica (es.: nella vendita e nella donazione l’oggetto è il medesimo, ossia l’attribuzione in proprietà del bene, ma il contenuto è diverso, nel primo caso l’attribuzione in quanto onerosa, nel secondo caso l’attribuzione in quanto gratuita). L’accordo, invece, è il fatto che costituisce il contratto, che genera il regolamento contrattuale (la fonte di produzione esterna e separata dal contratto stesso, definisce il regolamento contrattuale), è il vincolo con cui le parti si obbligano reciprocamente.
392 Cfr. G. PROSPERETTI, Categorie giuridiche, lavoro, welfare: l’evoluzione degli istituti giuridici, in ADL, 2017, n. 2, pp. 301 e ss. (p. 2 dell’estratto), secondo l’Autore andrebbe pertanto ripensata tutta la teoria del lavoro subordinato alla luce dei cambiamenti sostanziali intervenuti nel lavoro, nei modelli produttivi e nella società post-industriale dove l’organizzazione del lavoro misura il risultato in termini di professionalità più che di subordinazione.
393 In tal senso, cfr. F. GUARRIELLO, Per un approccio giuridico al tema delle competenze, cit., pp. 113-116.
394 Senonché, come sopra visto, la dottrina tradizionale rinviene l’oggetto della obbligazione di lavorare non in una “messa a disposizione” ma in un’attività lavorativa qualificata dalla subordinazione (cfr. supra par. nn. ….)
395 L’Autrice prova ad individuare un fondamento costituzionale del diritto alla formazione nel principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost, cfr. F. GUARRIELLO, Per un approccio giuridico al tema delle competenze, cit., pp. 155-156. Peraltro, per l’Autrice la formazione è per il lavoratore “diritto” e, allo stesso tempo, “obbligo” alla “acquisizione, manutenzione, elevazione di competenze spendibili sul mercato del lavoro” (p. 161).
lavorative e, quindi, dell’area del debito del lavoratore) che qualitativo (con conseguenze inquietanti sulla personalità del prestatore)396.
3.1.6. Esiste un (generale) diritto alla formazione del lavoratore e un corrispondente obbligo formativo per il datore di lavoro?
Benché non esista nel nostro ordinamento giuridico – fatte salve rare eccezioni che analizzeremo nella Parte II, par. n. …– una disposizione che sancisca espressamente in capo al datore di lavoro un obbligo formativo (di tipo professionale o di altro tipo) nei confronti del lavoratore, parte della dottrina ha provato a sostenere, ormai da tempo, l’esistenza di un simile obbligo (e del corrispondente diritto)397.
In particolare, i tentativi che sono stati fatti hanno fatto leva su alcuni principi fondamentali del nostro ordinamento (artt. 4 e 35 Cost.) e su alcune disposizioni del Codice Civile sia di carattere generale, ossia contenute nel Libro IV dedicato alle obbligazioni, (artt.1206, 1175 e 1375 c.c.)398 che di carattere speciale, ossia contenute nel Libro V dedicato al lavoro (artt. 2087, 2094, 2103 e 2104 c.c.)399.
In particolare, è stato sostenuto in dottrina che la formazione, in particolare quella continua, sia ormai entrata a far parte della struttura causale del contratto di lavoro400 o, comunque, che debba essere considerata un “effetto legale naturale” del rapporto di lavoro401.
396 Rischi ben noti alla stessa Autrice, cfr. F. GUARRIELLO, Per un approccio giuridico al tema delle competenze, cit., pp. 118-119 e 162. Viscomi DRI 1994
397 Cfr., fra gli altri, U. ROMAGNOLI, Art. 13, in AA.VV., Statuto dei diritti dei lavoratori. Artt. 1-13, Zanichelli, Bologna, 1979, pp. 235-237; M. NAPOLI, Disciplina del mercato del lavoro ed esigenze formative, cit., pp. 269-270; F. Guarriello, Trasformazioni organizzative e contratto di lavoro, cit., p. 222; C. Alessi, Professionalità e contratto di lavoro, cit., pp. 124 e ss. Tuttavia, la dottrina maggioritaria ritiene che la formazione non rientri, in termini di posizioni soggettive (positive e negative), nella struttura del contratto di lavoro, cfr. F. LISO, L’incidenza delle trasformazioni produttive, in QDLRI, 1987, n. 1, p. 57.
398 L’art. 1206 c.c. disciplina le “condizioni” della mora del creditore (c.d. mora accipiendi) e sancisce un onere (o obbligo) di cooperazione: «Il creditore è in mora quando, senza motivo legittimo, […] non compie quanto è necessario affinché il debitore possa adempiere l'obbligazione». In dottrina, è stata anche avanzata la tesi per cui in tale situazione si avrebbe una sorta di capovolgimento delle posizioni delle parti: l’interesse al conseguimento del risultato utile per il creditore è perseguito dal debitore (al quale così sarebbe riconosciuto un “diritto” soggettivo ad adempiere la propria obbligazione), mentre l’impedimento all’esecuzione della prestazione dovuta proviene dal creditore e, per tale ragione, subisce gli effetti negativi della mora (una sorta di sanzione per la violazione di un obbligo posto a suo carico e, quindi, la frustrazione del corrispondente diritto del debitore all’adempimento), cfr. A. FALZEA, L’offerta reale e la liberazione coattiva del debitore, Giuffré, Milano, 1947, p. 966. Tuttavia, questa tesi non ha trovato ampio consenso: secondo l’opinione prevalente, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, infatti, l’adempimento dell’obbligazione non può integrare un diritto del debitore (ma solo del creditore), onde il debitore avrebbe semplicemente un interesse alla liberazione dal vincolo obbligatorio al quale corrisponderebbe non un obbligo del creditore di porre in essere il comportamento necessario a rendere possibile l’esecuzione della prestazione, bensì un semplice onere, cfr., fra gli altri,
C.M. BIANCA, Diritto civile, L’obbligazione, vol. IV, Giuffré, Milano, 1990, p. 375. Anche la giurisprudenza tende a ricostruire la cooperazione del creditore soltanto come un “dovere strumentale” all'adempimento dell'obbligazione del debitore e non anche come “obbligazione costituente oggetto di un rapporto avente per soggetto attivo il debitore della prestazione cui è correlato il dovere di cooperazione e come soggetto passivo l'obbligo a tale cooperazione”(cfr., fra le altre, Cass. Civ., Sez. , n. 809/1986).
399 Cfr. L. GALANTINO, Lavoro atipico, formazione professionale e tutela dinamica della professionalità del lavoratore, cit., p. 319, la quale fa discendere il “dovere” del lavoratore di essere formato (o di ricevere la formazione) direttamente dall’art. 2104 c.c. che sancisce in capo al prestatore un obbligo di diligenza nell’adempimento commisurato alla «natura della prestazione dovuta» e all’«interesse dell’impresa».
400 Cfr. L. GALANTINO, Lavoro atipico, formazione professionale e tutela dinamica della professionalità del lavoratore, cit., p. 319. Lo scambio che si realizza con il contratto di lavoro subordinato sarebbe, pertanto, sempre più flessibilità conto formazione/retribuzione, cfr. anche F. GUARIELLO, Trasformazioni organizzative, cit., p. 232 e ss.
401 Cfr. M. NAPOLI, Disciplina del mercato del lavoro ed esigenze formative, cit., pp. 269-270, l’Autore ritiene di fondare il diritto alla formazione sull’art. 35, comma 2 Cost. nonché sugli artt. 2094 e 2103 c.c., benché siano la legge e la contrattazione collettiva ad individuare in modo specifico gli istituto che rendano effettivo tale diritto. Sul punto, cfr.
Altri autori hanno, invece, fatto discendere un siffatto obbligo formativo (c.d. dovere di adattamento del lavoratore al posto di lavoro in caso di modifiche che investano la sua posizione lavorativa) dal principio di buona fede in executivis, dall’art. 1206 c.c. che impone un obbligo di cooperazione in capo al creditore nonché dall’art. 2087 c.c. che sancisce un obbligo (generale) di tutela della integrità fisica ma anche morale del lavoratore e, quindi, della sua personalità e professionalità402.
Secondo questa opinione, però, la situazione giuridica attiva e, specularmente, quella passiva si atteggerebbero in modo diverso a seconda della fattispecie e della tipologia di formazione. È possibile, infatti, distinguere le seguenti situazioni giuridiche soggettive:
a) situazione giuridica “base” in cui il datore di lavoro ha un mero obbligo di pati, ossia di tollerare la sospensione del rapporto di lavoro avvenuta a seguito dell’esercizio del diritto formativo da parte del lavoratore (è il caso dei congedi di cui all’art. 5 della legge n. 53/2000);
b) obbligo di adeguamento o manutenzione della professionalità del lavoratore: in questi casi tanto il datore di lavoro quanto il lavoratore sarebbero obbligati, rispettivamente, ad erogare e ricevere attivamente la formazione, resa necessaria da intervenute modifiche organizzative, per il corretto adempimento dell’attività lavorativa403;404.
anche M. NAPOLI, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, cit., p. 1082, dove l’Autore critica quella opinione dottrinale secondo cui l’apprendistato costituirebbe un rapporto di lavoro speciale in ragione di un asserito allargamento causale (la finalità formativa quale elemento aggiuntivo) che modificherebbe tanto gli effetti quanto la stessa fattispecie: la differente regolamentazione si giustificherebbe, pertanto, non per l’allargamento della causa ma in ragione della natura di contratto d’ingresso nel mercato del lavoro. Si è parlato, al riguardo, di unicità del tipo, della fattispecie (contratto di lavoro subordinato ricavabile dall’art. 2094 c.c.) ma differenziazione legale della disciplina (pluralità di rapporti legalmente definiti con regolamentazioni differenti: apprendistato, part-time, contratto a tempo determinato, ecc.); in altri termini, il dato strutturale del diritto del rapporto di lavoro rispetto agli altri contratti è che il tipo legale non si presenta con una unitarietà di regolamentazione.
402 È questa la tesi di C. ALESSI, Professionalità e contratto di lavoro, cit., pp. 124 e ss., secondo la quale gli obblighi di protezione (di natura contrattuale e di carattere “principale”, non accessorio) ai sensi dell’art. 2087 c.c. ricomprendono anche il dovere del creditore di conservare la capacità di adempiere del lavoratore nelle sue varie declinazioni: diritto ad eseguire la prestazione lavorativa e garanzia dell’adeguamento delle capacità professionali del lavoratore rispetto al contesto produttivo. Anche in Francia, peraltro, la dottrina e la giurisprudenza, per il tramite della disposizione equivalente all’art. 2087 c.c. (art. L 230-2 Code du travail) e il principio di buona fede nell’esecuzione del rapporto di lavoro, hanno elaborato un devoir d’adaptation, ossia l’obbligo per il datore di lavoro di permettere l’adeguamento della professionalità del lavoratore all’evoluzione del suo posto di lavoro (cfr., per tutte, Cass. Soc., 25 fevrier 1992, n° 89-41.634, c.d. caso Expovit) poi recepito, a livello positivo, dal legislatore (cfr. art. L 6321-1 Code du travail:
«L'employeur assure l'adaptation des salariés à leur poste de travail. Il veille au maintien de leur capacité à occuper un emploi, au regard notamment de l'évolution des emplois, des technologies et des organisations.»). Proprio il riconoscimento in capo al datore di lavoro di modificare unilateralmente l’oggetto del contratto nonché l’organizzazione aziendale è il fondamento del dovere in commento nonché di quello volto al reclassement del lavoratore, anche attraverso un percorso formativo, all’interno dell’azienda o del gruppo in caso di licenziamento per motivi economici (cfr. art. L 1233-4 Code du travail: «Le licenciement pour motif économique d’un salarié ne peut intervenir que lorsque tous les efforts de formation et d’adaptation ont été réalisés et que le reclassement de l'intéressé ne peut être opéré sur les emplois disponibles, situés sur le territoire national dans l’entreprise ou les autres entreprises du groupe…»). Tra l’altro, il Codice del lavoro francese si preoccupa anche di precisare che tutte le attività formative svolte dal lavoratore per perseguire il suo adattamento al posto di lavoro sono da considearsi «temps de travail effectif» e, pertanto, danno diritto al mantenimento della retribuzione (art. L 6321-2).
403 L’esempio fatto è quello del devoir d’adaptation, riconosciuto dal Code du travail francese, che incombe tanto sul datore di lavoro quanto sul lavoratore, da non confondere con il diritto al congé individuel de formation di cui all’art. L 6322-1 del Code du travail («Le congé individuel de formation a pour objet de permettre à tout salarié, au cours de sa vie professionnelle, de suivre à son initiative et à titre individuel, des actions de formation, indépendamment de sa participation aux stages compris, le cas échéant, dans le plan de formation de l'entreprise dans laquelle il exerce son activité. Ces actions de formation doivent permettre au salarié: 1° D'accéder à un niveau supérieur de qualification; 2° De changer d’activité ou de profession; 3° De s'ouvrir plus largement à la culture, à la vie sociale et à l'exercice des responsabilités associatives bénévoles»), cfr. C. ALESSI, Professionalità e contratto di lavoro, cit., p. 161.
404 Cfr. C. ALESSI, Professionalità e contratto di lavoro, cit., pp. 160 e ss. dove viene riportata, alla nota 18, la ricostruzione di A. PEDRAJAS MORENO, Formación y derechos individuales, in Act. Lab., 1999, p. 503 e ss. che suddivide tre diversi livelli di tutela del diritto alla formazione: a) primo livello: la formazione risponde ad un interesse esclusivo del lavoratore, rispetto ad essa il datore di lavoro assume una posizione passiva; b) secondo livello: la
Tuttavia, come già anticipato, queste tesi traggono spunto da principi e clausole generali del nostro ordinamento (artt. 1206, 1175 e 1375, 2087 c.c.) e non da specifiche disposizioni di legge che introducano espressamente un obbligo di tal fatta405. Tant’è che le obiezioni che sono state mosse a questa tesi dalla dottrina maggioritaria si appuntano proprio su considerazioni di diritto positivo406.
Pertanto, a differenza di quei Paesi in cui un simile diritto è espressamente affermato407, nel nostro ordinamento non è possibile trarre dal dato positivo un obbligo formativo in capo al datore di lavoro, ma un simile risultato potrebbe essere raggiunto dall’autonomia individuale408.
Tuttavia, il dato inequivocabile che emerge, anche nella prassi, è che la formazione come la crescita professionale del lavoratore sono ormai entrati da tempo nella disponibilità delle parti del rapporto di lavoro attraverso accordi nei quali il datore di lavoro e il lavoratore concordano percorsi individuali fatti di fasi in cui si alternano formazione, mobilità, raggiungimento di obiettivi, scatti retributivi e premi legati al rendimento del lavoratore409.
formazione è sempre funzionale ad un interesse del lavoratore ma qui il datore di lavoro è tenuto, per legge, ad alcuni doveri collegati; c) terzo livello (massimo) di tutela: il datore di lavoro deve assumere una posizione attiva nel processo formativo nel senso che ha degli obblighi ed oneri.
405 L’unica eccezione è data – come vedremo nella Parte II del Capitolo III, par. n. … – dalle norme in materia di salute e sicurezza, prese a riferimento altresì da questa dottrina, cfr. C. ALESSI, Professionalità e contratto di lavoro, cit., p. 139.
406 Cfr. P.A. VARESI, I contratti di lavoro con finalità formative, Franco Angeli, Milano, 2001, pp. 178-179; G. LOY, La professionalità, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2003, fasc. 3, pt. 1, pp. 763 e ss.; U. CARABELLI, Organizzazione del lavoro e professionalità, cit., pp. 88 e ss.; M. MAGNANI, Organizzazione del lavoro, cit., pp. 187-188. Secondo questi Autori la tesi sopra descritta non trova convincenti appigli sul piano giuridico, in particolare sul piano del diritto positivo. Pertanto, di un diritto alla formazione continua all’interno del rapporto di lavoro si può parlare soltanto nei termini e limiti in cui esso è espressamente previsto dai contratti collettivi, ai quali rinvia espressamente la legge. n. 53/2000; l’affermazione secondo cui la formazione può considerarsi “effetto legale naturale” del contratto di lavoro subordinato è valida esclusivamente in termini descrittivi, come fotografia delle evoluzioni contrattuali e legislative innegabilmente presenti nel nostro ordinamento. D’altro canto, non mancano ipotesi in cui è stato lo stesso legislatore a configurare uno specifico onere di cooperazione del creditore (vd., ad es., artt. 53 e ss. della legge n. 264/1949 dove sono previsti corsi aziendali di riqualificazione per i lavoratori in eccedenza quale attività del tutto eccezionale e non obbligatoria volta a consentire l’impiego del lavoratore in nuove mansioni). Tuttavia, è stato osservato in dottrina che tali comportamenti “preparatori” (come la partecipazione a periodi di addestramento o formazione) non sembrano poter eccedere il contenuto normale del rapporto di lavoro, cfr. G. GIUGNI, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, cit., p. 69. D’altro canto, “nel caso di introduzione di un’innovazione tecnico-organizzativa, è senz’altro riscontrabile, a carico del datore, un onere cooperativo consistente nell’assicurare l’erogazione delle istruzioni necessarie al ‘funzionamento’ della medesima”, ma trattasi “non di una effettiva attività
di ‘formazione professionale’, bensì della fornitura di ‘istruzioni per l’uso’”, cfr. U. CARABELLI, Organizzazione del lavoro e professionalità, cit., p. 89.
407 Ad es., in Spagna all’art. 4, comma 2 dello Estatuto de los Trabajadores (ora R.D.L. n. 2/2015) è stabilito che: «En la relación de trabajo, los trabajadores tienen derecho: a) A la ocupación efectiva. b) A la promoción y formación profesional en el trabajo, incluida la dirigida a su adaptación a las modificaciones operadas en el puesto de trabajo, así como al desarrollo de planes y acciones formativas tendentes a favorecer su mayor empleabilidad». Per un’analisi approfondita sui sistemi di formazione in Italia e nei maggiori Paesi europei, cfr. M. CORTI, L’edificazione del sistema italiano di formazione continua dei lavoratori, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2007, n. 1, pp. 163 e ss.
408 È questa la posizione intermedia assunta in dottrina da quegli autori che, pur non aderendo alla tesi dell’esistenza di un obbligo formativo quale effetto legale naturale del contratto di lavoro, hanno ritenuto che nei casi – non infrequenti nella realtà sociale – in cui il lavoratore è stato assunto non per eseguire ordini e direttive stringenti ma per assumere decisioni congrue alle situazioni date e nell’interesse dell’organizzazione produttiva vi sarebbe un obbligo (di diligenza) del lavoratore a conservare e aggiornare la propria professionalità e un dovere (di cooperazione) da parte de datore di lavoro. In tali casi, allora, i momenti formativi risulterebbero parte “normale” del rapporto di lavoro, cfr. M.G. GAROFALO, Formazione, innovazione e contratto di lavoro, in AA.VV., Formazione e mercato del lavoro in Italia e in Europa., cit, pp. 403-404.
409 Cfr. F. GUARRIELLO, Per un approccio giuridico al tema delle competenze, cit., p. 121.
PARTE II
LE DISPOSIZIONI DI LEGGE IN MATERIA DI TUTELA DELLA PROFESSIONALITÀ E FORMAZIONE
3.2.1. Introduzione: l’art. 2103 c.c., fondamento normativo (dell’ordinamento positivo) della tutela della professionalità, e le altre disposizioni di legge a tutela della formazione del lavoratore.
Benché si ritenga, non senza argomentazioni valide, che la tutela della professionalità “non si realizzi in un solo precetto” ma necessiti di “un insieme normativo, in gran parte anche di tipo procedurale, con veri e propri programmi di contrattazione e consultazione tra le parti collettive”410, il fondamento normativo della stessa è stato tradizionalmente rinvenuto nell’art. 2103 c.c., come modificato dallo Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300, art. 13), articolo che disciplina la materia delle mansioni del lavoratore subordinato nel settore privato411.
E forse proprio l’aver relegato tale concetto alla tutela – come vedremo – di tipo statico approntata dall’art. 13 St. lav. ha fatto sì che la professionalità rilevante sul piano del rapporto di lavoro fosse soltanto quella legata all’oggetto del contratto e all’inquadramento del lavoratore, con conseguente valorizzazione di concetti puramente oggettivi e/o socio-economici quali mansioni, qualifica e categoria.
Senonché, con l’ultima riforma (strutturale412) delle tipologie contrattuali (c.d. Jobs Act), il legislatore delegato ha modificato sensibilmente l’art. 2103 c.c. (d.lgs. n. 81 del 2015, art. 3), tanto da incidere – secondo alcuni – non solo sul bene giuridico oggetto della protezione (non più la professionalità, ma la flessibilità organizzativa dell’impresa) ma anche, se non soprattutto, sulla stessa funzione/lettura del contratto di lavoro (in chiave meramente commutativa)413.
410 È questo il fondamentale insegnamento di G. GIUGNI, Qualifica, mansioni e tutela della professionalità, in Riv. giur. lav. pr. soc., p. 4.
411 Cfr., fra gli altri, G. LOY, La professionalità, cit., p. 793, secondo il quale la tutela alla professionalità approntata dall’art. 2103 c.c. (come modificato dallo Statuto dei lavoratori) è di tipo “contrattuale” nel senso che garantisce il diritto del lavoratore ad essere adibito alle mansioni pattuite al momento dell’assunzione e poi eventualmente modificate nel rispetto della legge. Occorre, però, anche ricordare che esistono discipline speciali in materia quali l’art. 52 del d. lgs. n. 165/2001 (per il settore del pubblico impiego privatizzato), l’art. 7 del d.lgs. n. 151/2001 (TU in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità), l’art. 10 della legge n. 68 del 1999 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili), gli artt. 334 e 905 del R.D. n. 327/1942 e s.m.i., c.d. Codice della navigazione (per il personale navigante), l’art. 22 del d.lgs. n. 367/1996 (per i lavoratori degli enti lirici), l’art. 3 del R.D. n. 148/1931 (per il rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri), cfr. sul punto M. FALSONE, Jus variandi e contrattazione collettiva, cit., p. 4. Peraltro, prima dell’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, la tutela di questo interesse era affidata alla contrattazione collettiva, la quale, sotto questo profilo, può considerarsi anticipatrice di molte soluzioni poi accolte dal legislatore.
412 Non potendosi considerare tale il c.d. Decreto Dignità (d.l. n. 87/2018, convertito dalla l. n. 96/2018), seppur probabilmente non privo di un rilevante impatto sulle dinamiche del mercato del lavoro.
413 Tra i più critici Autori, tra l’altro di scuola civilista, cfr. A. MONTANARI, Jobs Act e tutela contrattuale della persona: un’involuzione?, in Eur. Dir. Priv., n. 3, 2016, pp. 659 e ss. (pp. 7 e ss. dell’estratto), secondo il quale il Jobs Act promuoverebbe la rinascita della lettura del contratto in chiave meramente commutativa a danno della ulteriore funzione del contratto di lavoro volta a realizzare la personalità del lavoratore: la riforma delle tutele contro il licenziamento ingiustificato e la modifica dell’art. 2103 c.c. avrebbero infatti favorito – sempre ad avviso dell’Autore –, lo scambio lavoro-retribuzione accompagnato dalla “realizzazione della persona al ribasso”, ciò in quanto il lavoratore pur di lavorare accetterebbe qualsiasi tipo di impiego e mansione.
Di contro, come si avrà modo di argomentare, l’art. 2103 c.c. rimane, ancora oggi, il principale riferimento normativo (di tipo positivo) in materia di professionalità414, anche se è cambiata la prospettiva in cui quest’ultima viene garantita e tutelata.
Ed infatti, già all’indomani dell’adozione della legge che segna, allo stesso tempo, l’apice e l’inizio del declino del diritto del lavoro del Novecento (lo Statuto dei lavoratori), il legislatore ha inteso prevedere nuove garanzie e tutele a favore tanto della persona che lavora quanto di quella che aspira ad accedere al mercato del lavoro.
Se questo è il contesto normativo sinteticamente tratteggiato, in questa sede verranno analizzate nel dettaglio le richiamate disposizioni di legge, pur essendo consapevoli del fatto che la professionalità, oltre a trovare il suo regime protezionistico o incentivante imprescindibile nella contrattazione collettiva (che sarà oggetto di analisi del Capitolo IV), rileva, a vari fini, in una serie innumerevoli di altri articoli del Codice civile e non415.
Discorso analogo vale per il diverso, ma connesso, tema della formazione del lavoratore all’interno del rapporto di lavoro.
Tale interesse è stato, da sempre, oggetto di attenzioni e di regolamentazione da parte del legislatore nazionale (basti pensare alla disciplina del contratto “speciale” di apprendistato, di formazione e lavoro, ecc.)416, negli ultimi decenni intensificate anche sotto l’impulso delle istituzioni europee.
Senonché anche la formazione è – come si avrà modo di rilevare (cfr. Capitolo IV, par. n. …) – una tematica ricorrente e tipica della contrattazione collettiva, tanto nazionale quanto aziendale417, se non individuale418.
3.2.2. L’originario art. 2103 c.c.
La versione dell’art. 2103 c.c. risultante dal Codice civile del 1942, dopo aver stabilito che il lavoratore «deve essere adibito alle mansioni per cui è assunto» (c.d. principio della contrattualità delle mansioni), aggiungeva poi che, salvo patto contrario («se non è convenuto diversamente»), il
414 Non è un caso che è lo stesso comma 6 dell’articolo in commento parla esplicitamente di «professionalità».
415 Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, a tutte le questioni inerenti alla concorrenza e all’utilizzo, durante e dopo il rapporto di lavoro, delle conoscenze e competenze acquisite e, in particolare, al patto di non concorrenza di cui all’art. 2125 c.c. Al riguardo, giova richiamare quell’orientamento giurisprudenziale che prende come parametro di riferimento tale concetto per determinare la validità del suddetto patto: esso, infatti, deve ritenersi nullo “allorché la sua ampiezza sia tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale”, onde il giudice deve procedere a tale accertamento “in relazione alla concreta personalità professionale dell'obbligato” (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., n. 13282/2003; n. 10062/1194; n. 1017/1966).
416 La prima disciplina organica del contratto di apprendistato risale addirittura al periodo corporativo (vd. r.d.l. 21 settembre 1938, n. 1906, convertito nella l. 2 giugno 1939, n.739), una disciplina specifica la si trova nel Codice civile del 1942 (artt. 2130-2134), poi oggetto di riforma da parte della l. 9 gennaio 1955, n. 25.
417 Già a metà anni ’60 era sottolineato in dottrina che alcuni contratti collettivi dell’epoca mostravano una tendenza a che “la funzione dell’addestramento si inserisca persino nella struttura del normale contratto di lavoro, entri a far parte del contenuto negoziale”, cfr. M. RUDAN, Il contratto di tirocinio, Giuffrè, Milano, 1966, pp. 470 e ss., come richiamata in U. CARABELLI, Organizzazione del lavoro e professionalità, cit., pp. 89-90.
418 Già negli anni ’90 era diffusa la prassi di apporre al contratto di lavoro innovative clausole contrattuali quali, ad es., quei patti di stabilità in favore del datore di lavoro che assicurano uno scambio tra formazione (resa necessaria dal progresso tecnologico), sotto forma di training di qualificazione o riqualificazione professionale, contro l’impegno del lavoratore a prestare servizio per una certa durata commisurata al tempo necessario all’ammortamento dei costi di formazione, cfr, L. MENGONI, Diritto civile, cit., p. 8.
datore di lavoro poteva, «in relazione alle esigenze dell’impresa», adibire unilateralmente il prestatore a mansioni diverse, sempre nel rispetto della retribuzione in godimento (in caso di demansionamento) o corrispondente alla mansione (più alta) assegnata nonché della posizione sostanziale all’interno dell’impresa («purché essa [n.d.r.: la mansione diversa] non importi una diminuzione nella retribuzione o un mutamento sostanziale nella posizione di lui»).
Pertanto, l’originario art. 2103 c.c. obbligava il datore di lavoro ad assegnare al lavoratore mansioni ricomprese nell’oggetto del contratto di lavoro (erano questi i confini in cui operava il potere direttivo) ma, allo stesso tempo, lo autorizzava – salva la diversa pattuizione tra le parti – ad esercitare il c.d. jus variandi419 a condizione che tale potere fosse funzionale alle esigenze dell’impresa, non importasse una diminuzione della retribuzione né un mutamento sostanziale della posizione del lavoratore420.
Erano questi i requisiti e, quindi, al contempo i limiti421 – invero non esplicitati in modo chiaro dal legislatore422 – del potere del datore di lavoro di modificare unilateralmente l’oggetto del contratto. Potere che, con tutta evidenza, si differenziava notevolmente dal potere direttivo, se non altro per il suo carattere “eccezionale” e la diversa funzione.
Ed infatti, la ricostruzione dottrinaria tradizionale (precedente allo Statuto dei lavoratori) considerava come oggetto del contratto di lavoro l’insieme delle mansioni di assunzione (pattuito), all’interno del quale venivano “scelte”, di volta in volta durante lo svolgimento del rapporto, dal datore di lavoro per il tramite del potere direttivo (appunto “specificativo”); al contrario, il potere di modifica unilaterale delle mansioni era ritenuto un potere autonomo e diverso dal potere direttivo sia per natura (diritto potestativo) che per carattere (potere ritenuto – come sopra visto – “eccezionale”) e funzione423.
D’altro canto, occorre altresì sottolineare che i limiti sopra analizzati riguardavano esclusivamente le modifiche unilaterali delle mansioni e non anche quelle consensuali: queste pattuizioni erano, infatti, ritenute ammissibili e non soggette a limitazioni, stante la piena disponibilità della materia da parte dell’autonomia privata424.
419 Lo jus variandi rappresenta un’“anomalia” storica ma necessaria all’interno del rapporto di lavoro rispetto al principio generale dei contratti, secondo cui l’oggetto può essere modificato solo consensualmente, cfr. C. PISANI, Lo jus variandi, cit., pp. 1114 e ss. che richiama V. ROPPO, Il contratto, …, Milano, p. 555, secondo il quale tale potere si presenterebbe come “un’offesa al principio del vincolo”.
420 Proprio questa norma, che consentiva al datore di lavoro la derogabilità (unilaterale) rispetto all’accordo delle parti in materia di mansioni, ha portato parte della dottrina a rinvenire un “vistoso cedimento” alla concezione del contratto, cfr. R. SCOGNAMIGLIO, La natura non contrattuale del lavoro subordinato, cit., p. 3 dell’estratto.
421 Parte della dottrina ha messo in discussione la reale esistenza, nella pratica industriale e nella contrattazione collettiva, del divieto di diminuzione della retribuzione, cfr. U. ROMAGNOLI, Art. 13, cit., p. 221.
422 È stata, infatti, la dottrina, più che la giurisprudenza, a provare a precisare tali limiti, cfr. per un tentativo in tal senso
G. GIUGNI, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, cit., pp. 287 e ss. e 327 e ss. In particolare, Giugni aveva distinto tra mutamenti unilaterali delle mansioni che dovevano ritenersi limitati nel tempo (c.d. temporaneità) e sul piano professionale (c.d. affinità con le mansioni di assunzione) e trasferimenti definitivi che dovevano essere necessariamente oggetto di consenso anche da parte del lavoratore (pp. 377 e ss.).
423 Cfr., per tutti, M. PERSIANI, Contratto di lavoro e organizzazione, cit., pp. 194-196 nonché M. MARAZZA, Saggio sull’organizzazione del lavoro, cit., p. 298, il quale osserva che a partire dagli anni ’80 la dottrina procede ad una rivisitazione del rapporto tra potere direttivo e jus variandi, in realtà – come avremo modo di vedere – quelle (ri)considerazioni erano state avanzate già dai primi commentari dello Statuto dei lavoratori (cfr. par. n. ….).
424 Cfr. F. CARINCI, R. DE LUCA TAMAJO, P. TOSI, T. TREU, Diritto del lavoro, Torino, 8a ed., 2013, p. 199.
La giurisprudenza dell’epoca riteneva, infatti, legittima una modifica consensuale in pejus delle mansioni e della retribuzione anche nel caso in cui il consenso fosse stato espresso tacitamente dal lavoratore mediante la continuazione di fatto del rapporto di lavoro.
Tale orientamento era, però, particolarmente criticato in dottrina giacché qualsiasi mutamento disposto unilateralmente dal datore di lavoro poteva risultare legittimo in forza della (probabile) acquiescenza del lavoratore in quanto “indotta” dal timore di perdere l’occupazione in presenza di una libertà di licenziamento425.
Ed infatti, altra autorevole dottrina ha messo in luce i nessi all’epoca intercorrenti tra regime di recedibilità ad nutum (artt. 2118 e 2119 c.c.) ed originario art. 2103 c.c. e poi tra art. 18 ed art. 13 St. lav426.
Sarebbe stata così proprio l’incapacità427 dell’art. 2103 a governare e controllare, entro limiti tollerabili, la discrezionalità del datore di lavoro nell’esercizio del potere di modifica delle mansioni a far intervenire il legislatore nazionale, nonostante i pregevoli tentativi della contrattazione collettiva di introdurre norme e misure volte a riequilibrare l’assetto di interessi in gioco428.
3.2.3. L’art. 2103 c.c. come modificato dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori.
L’art. 13 della legge n. 300 del 1970 (c.d. Statuto dei lavoratori) ha modificato radicalmente l’art. 2103 c.c., lasciando però sostanzialmente invariato il primo periodo e, quindi, ribadendo il c.d. principio della contrattualità delle mansioni di assunzione («il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto»)429.
In particolare, le modifiche hanno coinvolto i periodi successivi dove è stata introdotta una clausola generale in forza della quale era riconosciuto al datore di lavoro la possibilità di assegnare unilateralmente al lavoratore «mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte» fermo restando il divieto di «diminuzione della retribuzione» (c.d. mobilità, secondo alcuni non necessariamente “orizzontale”, realizzata attraverso il criterio dell’equivalenza).
Il medesimo primo comma regolava poi la mobilità verticale (l’«assegnazione a mansioni superiori») stabilendo che in questi casi il lavoratore aveva diritto al trattamento corrispondente
425 Ibidem.
426 Cfr. M. NAPOLI, La stabilità reale del rapporto di lavoro, Milano, 1980, 312 e ss. Secondo l’Autore, “In un regime incentrato sulla recedibilità ad nutum, si giustificava una norma, come quella dell’art. 2103 c.c., che poneva l’esigenza dell’impresa come limite alla mobilità interna aziendale, essendo rimesso alla stessa la scelta fondamentale se attuare una mobilità inter-aziendale, licenziare il lavoratore immettendolo sul mercato, oppure limitarsi ad un mero spostamento interno (mobilità endo-aziendale). In un regime incentrato sulla stabilità, si giustifica, invece, una norma che detta criteri sulla mobilità interna diversi da quelli dell’esigenza dell’impresa”, in definitiva, “è l’esistenza di un effettivo sistema di stabilità che consente all’art. 13 di operare in tutta la sua portata”.
427 Parla di ineffettività dell’originario art. 2103 c.c. F. LISO, Brevi osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta nel decreto legislativo n. 81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, WP CSDLE “Massimo D’Antona” .IT -257/2015, p. 2, il quale evidenzia che tale disposizione, pur avendo lo scopo di tutelare la posizione sostanziale del lavoratore all’interno dell’impresa nei confronti dell’esercizio dello jus variandi dal datore di lavoro, non riusciva a centrare l’obiettivo perché non escludeva che la modifica peggiorativa potesse legalmente prodursi per altra via, e cioè come potere negoziale.
428 Ad es., il requisito della temporaneità della modifica unilaterale delle mansioni era esplicitato nella quasi totalità dei contratti collettivi, cfr. G. GIUGNI, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, cit., p. 332. Cfr. anche C. LAZZARI, La tutela della dignità professionale del lavoratore, cit., p. 665.
429 Principio riconducibile alla regola (generale) in materia di contratti della necessaria determinazione dell’oggetto del contratto (art. 1346 c.c.)
all’attività svolta nonché all’«assegnazione […] definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi».
Un ulteriore previsione imponeva poi che il trasferimento del lavoratore in un’altra unità produttiva dovesse essere sorretto da «comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive» (cfr. sempre art. 2103, comma 1 c.c. come modificato dall’art. 13 St. lav.).
Infine, l’ultimo comma dell’articolo in commento era inequivocabile nello stabilire che «ogni patto contrario è nullo»430.
Tale novella legislativa ha dato luogo ad uno dei dibattiti dottrinali e giurisprudenziali più vivaci e ricchi degli ultimi quarant’anni. Ed infatti, da un lato, erano numerosi e notevoli i problemi interpretativi che scaturivano da quella disposizione, problemi dovuti essenzialmente alla tecnica legislativa utilizzata e all’affrettata elaborazione, ma anche all’impatto dirompente della stessa; dall’altro lato, la materia risultava essere già all’epoca molto complessa e soprattutto difficilmente regolabile soltanto da una disciplina legale e generale431.
Peraltro, è innegabile che la disciplina che regola l’oggetto dell’obbligazione di lavorare e le sue modifiche interviene su profili centrali e delicati del rapporto di lavoro, quali il contenuto del contratto di lavoro, la portata del potere direttivo-organizzativo e dello jus variandi, che incidono profondamente sulla professionalità, sulle competenze, sulle aspettative di carriera e di crescita (retributiva ma anche professionale) del lavoratore, in una sola parola, sulla sua sfera personale432.
Anche mediante argomentazioni “topografiche”, ossia l’essere la disposizione di modifica dell’art. 2103 c.c. inserita a chiusura del Titolo I dello Statuto dei lavoratori433, la prima dottrina individuava nella tutela della libertà e della dignità dei lavoratori un criterio ermeneutico “sicuro” per inquadrare e leggere la nuova disciplina434. In quegli anni, infatti, l’attenzione del legislatore,
430 In dottrina e in giurisprudenza è stato precisato che tale comma trovava applicazione non solo con riferimento agli accordi individuali ma anche in relazione a quelli collettivi, cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., sent. n. 672/1987 e n. 20983/2004; Cass. Civ., Sez. Un., sent. n. 25033/2006; in dottrina, cfr. D. DE FEO, La nuova nozione di equivalenza professionale, cit., p. 858, nota 15. Questa tesi trae argomenti dal dato positivo (art. 40 St. lav. che fa salvi le condizioni dei contratti collettivi solo se più favorevoli ai lavoratori) nonché da ragionamenti a contrario su altre disposizioni del nostro ordinamento che autorizzano espressamente ed eccezionalmente alla contrattazione collettiva di derogare l’art. 2103, comma 1 cc. (come, ad es., l’art. 4, comma 11 della l. n. 223/1991). Ulteriori eccezioni al divieto di demansionamento sono cosituite: dall’art. 7 del d.lgs. n. 151/2001 che prevede la possibilità di adibire la lavoratrice incinta a mansioni inferiori (con conservazione della retribuzione) qualora le mansioni contrattuali possano pregiudicare la sua salute; dall’art. l’art. 10 della legge n. 68 del 1999 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili) che prevede una disciplina speciale in materia di mansioni «in caso di aggravamento delle condizioni di salute» del lavoratore o di
«significative variazioni dell’organizzazione del lavoro».
431 Cfr. M. PERSIANI, Prime osservazioni sulla nuova disciplina delle mansioni e dei trasferimenti dei lavoratori, in DL, 1971, XLV, p. 11 e nota n. 1, dove ricorda che inizialmente il testo legislativo non avrebbe dovuto contenere la modifica della disciplina delle mansioni.
432 In senso simile, cfr. M.T. BETTINI, Mansioni del lavoratore e flessibilizzazione delle tutele, Torino, 2014, p. 58.
433 Intitolato, appunto, “Della libertà e dignità del lavoratore”.
434 Cfr. M. PERSIANI, Prime osservazioni, cit., p. 12. Altri Autori si sono spinti sino a sostenere che “l’ispirazione fondamentale dello statuto” sarebbe quella di “porre ulteriori limiti ai poteri imprenditoriali” e non quello di conferire al datore di lavoro uno strumento “per ottenere una maggiore flessibilità nell’uso della forza-lavoro”, cfr. F. LISO, La mobilità del lavoratore, cit., p. 155. Tuttavia, come avremo modo di dimostrare, quella asserita ispirazione è stata in parte disattesa da un certo orientamento giurisprudenziale e dottrinale, tant’è che è stato sarcasticamente osservato che l’art. 2103 si sarebbe rivelato “assai meno garantista di quanto si temesse…”, cfr. U. CARABELLI, Organizzazione del lavoro e professionalità, cit., p. 7.
delle parti sociali e della dottrina iniziava a porsi ineluttabilmente sulla professionalità dei lavoratori e sulla sua tutela e finanche incremento o, comunque, sviluppo della stessa.
Al riguardo, è stato osservato che nell’art. 13 St. lav. convivono due anime: una posta a garanzia del divieto di “declassamento sia retributivo che professionale” del lavoratore435; l’altra di politica del diritto, e cioè la tendenza (e speranza) di una politica sindacale a difesa della professionalità che avrebbe dovuto portare ad affermare “il principio per cui il mutamento di mansioni è ammissibile solo se comporti una crescita di livello professionale dei lavoratori”436.
La portata innovativa dell’art. 13 sembrava, comunque, essere data dal fatto che lo Statuto dei lavoratori si avvaleva, per il raggiungimento dei suoi fini, di uno strumento non legislativo né statuale ritenuto più efficace e più garante: l’azione e la contrattazione collettiva che veniva incentivata e promossa da una legislazione di sostegno che ha di fatto dischiuso le porte delle fabbriche al sindacato437. In particolare, è stato osservato che la contrattazione collettiva si è spinta anche oltre la tutela “statica” approntata dall’art. 13 St. lav. introducendo misure e strumenti volti a tutelare la professionalità “dinamica” e perseguire lo sviluppo professionale del lavoratore all’interno del rapporto di lavoro438.
A distanza di tempo, però, ci si è resi ben presto conto che vi era stata tra i primi commentatori una sopravvalutazione della capacità di intervento, di tenuta e di espansione della contrattazione collettiva in materia di valorizzazione della professionalità439.
Sotto il profilo squisitamente teorico, invece, all’indomani dell’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, la dottrina si divideva in ordine alla permanenza, o no, nel nostro ordinamento, di un potere unilaterale del datore di lavoro di modificare le mansioni dedotte nel contratto ed eventualmente sui rapporti di una simile facoltà con il potere direttivo, atteso che l’art. 13 dello statuto dei lavoratori non conteneva più un’espressa menzione a siffatto potere.
Ad una prima tesi che sosteneva che lo jus variandi fosse venuto meno, con la conseguenza che diveniva necessario il consenso del lavoratore in ordine a qualsiasi modifica delle mansioni dedotte in contratto440, si è sin da subito contrapposta, ed in breve tempo affermata, anche in giurisprudenza, la tesi secondo cui, anche a seguito della novella legislativa, permaneva, nel nostro ordinamento, un potere unilaterale del datore di lavoro di esigere dal lavoratore mansioni diverse rispetto a quelle convenute, seppur nel rispetto di nuovi e diversi limiti probabilmente più
435 Ed infatti, era opinione condivisa dai più in dottrina che le mansioni o qualifiche inserite nello stesso livello o gruppo classificatorio non fossero interscambiabili e fungibili tra loro, essendo ben distinti il profilo della individuazione delle mansioni dovute e quello del loro inquadramento ai fini dell’individuazione del trattamento normativo e retributivo, cfr.
G. Giugni, Qualifica, mansioni e tutela della professionalità, cit., p. 7.
436 Cfr. G. GIUGNI, ……, in Riv. giur. lav., 1976, I, p. 635.
437 Attraverso questa lettura è possibile comprendere anche il silenzio della legge su questioni relative alla classificazione del personale nonché la portata poco innovativa di alcune norme (di fonte legislativa) in materia, cfr. M. PERSIANI, Prime osservazioni, cit., p. 12. Lo stesso Autore, in un altro scritto, ha parlato di “ambivalenza” del sindacato, il quale deve trovare il giusto equilibrio tra i due poli della contestazione (legittimazione dal basso) e della partecipazione (dialogo, contrattazione e concertazione con le imprese e sistema politico), modello, questo, recepito proprio nello Statuto dei lavoratori, cfr. M. PERSIANI, Il sindacato tra partecipazione e contestazione, in Quad. az. soc., 1970, n. 1, pp. 66 e ss.
438 In tali termini, cfr. G. GIUGNI, voce Mansioni e qualifica, cit., p. 11 dell’estratto.
439 Cfr. U. ROMAGNOLI, Art. 13, in U. ROMAGNOLI, L. MONTUSCHI, G. GHEZZI, F. MANCINI, Statuto dei lavoratori. Art.
1-13, in A. SCIALOJA, G. BRANCA (a cura di), Commentario del Codice Civile, Zanichelli, 1979, ed. 2a, p. 217.
440 Cfr. G. PERA, Interrogativi sullo Statuto, in Dir. Lav., 1970, I, p. 129; G. SUPPIEJ, Il potere direttivo dell’imprenditore e i limiti derivanti dallo statuto dei lavoratori, in Riv. Dir. Lav., 1972, I, p. 35 e ss.; G. GIUGNI, voce Mansioni e qualifica, cit., pp. 12-13 dell’estratto; M. GRANDI, La mobilità interna, in AA.VV., Strumenti e limiti della flessibilità, Milano, 1986, p. 262.
stringenti441. Si è parlato, al riguardo, di un “nuovo punto di equilibrio” tra le esigenze, insopprimibili, delle imprese al mutamento delle mansioni e quelle contrapposte a difesa del patrimonio (economico e professionale) del lavoratore442.
Allo stesso tempo, però, la disciplina di quel potere scaturente dallo Statuto dei lavoratori sembrava accentuare il carattere “anomalo” dello jus variandi443.
Tuttavia, le modifiche introdotte dall’art. 13 St. lav. erano talmente dirompenti che hanno spinto la dottrina a riconsiderare il rapporto tra potere direttivo e jus variandi, quantomeno con riferimento alla c.d. mobilità orizzontale.
Ed infatti, dopo le prime osservazioni – invero caute – sulla “tendenza” dei limiti posti allo jus variandi a coincidere con quelli posti al potere direttivo (di scelta e specificazione delle mansioni dovute)444, la dottrina successiva ha sostenuto in modo più radicale e netto che le mansioni equivalenti possono essere implicitamente ricondotte alle mansioni contrattuali445 e, quindi, rientrerebbero nell’oggetto dell’obbligazione di lavorare con l’effetto ultimo di allargarlo446.
Secondo quell’orientamento dottrinale già richiamato, lo Statuto dei lavoratori avrebbe rideterminato l’ambito di esigibilità della prestazione lavorativa con riferimento, oltre che alle mansioni di assunzione, anche a quelle “equivalenti” alle ultime effettivamente svolte e, quindi, avrebbe dettato “una norma determinativa dell’oggetto del contratto, impiegando come indice un dato reale e certo, le mansioni effettive, e collegando a queste le mansioni professionalmente equivalenti”447.
441 Cfr., fra gli altri, M. PERSIANI, Prime osservazioni sulla nuova disciplina delle mansioni e dei trasferimenti dei lavoratori, in DL, 1971, XLV, pp. 15 e ss.; U. ROMAGNOLI, La disciplina del mutamento di mansioni e dei trasferimenti dei lavoratori, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1971, pp. 336 e ss.; R. SCOGNAMIGLIO, Osservazioni sull’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, in Orient. Giur. Lav., 1972, p. 504 e ss.; M. BROLLO, La mobilità interna del lavoratore, in P. SCHLESINGER (diretto da), Commentario al Codice Civile, Milano, 1997, p. 15 e ss. Anche la giurisprudenza sembra aver accolto tale orientamento: “L'art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300 nel sostituire il testo originario dell'art. 2103, codice civile, se non ha eliminato lo ius variandi del datore di lavoro, che trova la sua giustificazione in insopprimibili esigenze organizzative e direzionali, ne ha limitato però chiaramente l’esercizio, stabilendo - oltre alla garanzia del livello retributivo raggiunto (già assicurata dal vecchio testo dell'art. 2103, codice civile) – l’esigenza del rispetto dell'equivalenza delle nuove mansioni, al fine di tutelare la corrispondenza tra il patrimonio professionale del lavoratore e la sua collocazione nella struttura organizzativa aziendale”, cfr. Cass. Civ., Sez. lav., sent. n. 539/1988 richiamata in M. BROLLO, M. VENDRAMIN, Le mansioni del lavoratore: inquadramento e jus variandi. Mansioni, qualifiche, jus variandi, in M. MARTONE (a cura di), Contratto di lavoro e organizzazione, in M. PERSIANI, F. CARINCI (a cura di), Trattato di diritto del lavoro, p. 532, nota 413.
442 Cfr. U. ROMAGNOLI, Art. 13, cit., p. 222, secondo il quale con l’art. 13 St. lav. sarebbe cambiato il tipo di controllo sull’esercizio dello jus variandi: sotto la vigenza dell’originario art. 2103 c.c. il giudice valutava l’interesse proprio del datore di lavoro per il raggiungimento dei suoi fini (era il limite della esistenza di esigenze dell’imrpresa); dopo l’art. 13, la valutazione interessa, invece, le esigenze professionali del lavoratore, ossia l’interesse tipico del soggetto passivo dello jus variandi che, pertanto, non poteva essere esercitato a totale scapito della professionalità del lavoratore.
443 Come già spiegato (cfr. supra par. n. …), lo jus variandi è considerato un potere “eccezionale” rispetto al principio consensualistico che permea l’intera materia civilistica dei contratti, cfr. C. PISANI, Lo jus variandi, cit., p. …., il quale sostiene che l’ “anomalia” risulta ancor più accentuata dopo l’entrata in vigore dell'art. 13 della legge n. 300/ 1970 perché differentemente dall'originario art. 2103 nell’ambito delle mansioni equivalenti lo jus variandi era esercitabile anche per spostamenti definitivi e senza alcun onere di giustificazione da parte del datore di lavoro, con conseguente perdita dei connotati dell’eccezionalità che lo rendevano compatibile con il principio consensualistco del contratto.
444 È questa la riflessione fatta a caldo da M. PERSIANI, Prime osservazioni, cit., p. 18.
445 A. VALLEBONA, Istituzioni… p. 96 (?)
446 È questa la tesi di M. NAPOLI, Contratto e rapporti di lavoro, cit., p. 1122, secondo il quale il principio dell’equivalenza professionale sarebbe il “criterio delimitativo delle mansioni esigibili” e, quindi, “dell’allargamento dell’oggetto del contratto rispetto alle mansioni di assunzione”.
447 Cfr. G. GIUGNI, voce Mansioni e qualifica, cit., p. 12 dell’estratto. Giugni evocava ulteriori conseguenze di tali modifiche dell’art. 2103 c.c.: la prima è che il suddetto criterio di determinazione della prestazione lavorativa avrebbe
È stato però anche osservato che quello della natura della fonte (potere direttivo o jus variandi) dell’atto di modifica delle mansioni, per quanto interessante sotto il profilo teorico, fosse, in realtà, un “falso problema” in quanto, sul piano pratico, l’opzione per l’una o l’altra ricostruzione non avrebbe avuto effetti diversi sulla posizione del lavoratore448.
Tuttavia, questo potrebbe avere – come vedremo – delle ricadute sul piano della qualificazione e natura dell’obbligo di formazione ora previsto dal vigente art. 2103 c.c., comma 2 (cfr. par. n. …). In ogni caso, la questione più problematica e rilevante sul piano pratico, data anche la progressiva espansione del contenzioso in materia di mansioni, si poneva con riferimento alla nozione di equivalenza, la cui definizione, ricoprendo valore decisivo tanto per la concreta esecuzione, nel corso del tempo, del rapporto di lavoro quanto per gli assetti organizzativi all’interno dell’impresa, ha dato vita ad un ricchissimo dibattito dottrinale e ad un cospicuo
contenzioso caratterizzato da orientamenti giurisprudenziali spesso ondivaghi.
In letteratura, sono state avanzate, come anticipato, numerose e spesso antitetiche letture di tale criterio. Procedendo per semplificazioni, occorre richiamare la posizione di chi ha rinvenuto nell’equivalenza non un semplice criterio di estensione e identificazione della prestazione dovuta, volto a misurare, in una prospettiva “atomistica” e “riduttiva”, una “qualità intrinseca” dei compiti di destinazione e quelli di provenienza, bensì un complesso criterio “di controllo” del fenomeno mobilità posto a tutela della posizione449 del lavoratore all’interno della (concreta) organizzazione produttiva; controllo che, pertanto, non poteva essere limitato alla qualità in astratto delle prestazioni esigibili ma doveva estendersi e implicare una “valutazione del senso, del significato” che la modifica avrebbe comportato nel contesto della gestione delle risorse umane, dal momento che sarebbe soltanto quello a rivelarne contenuto (neutro, vantaggioso o svantaggioso)450. Secondo questa ricostruzione, infatti, il contesto organizzativo assumerebbe un rilievo fondamentale nel giudizio di equivalenza in quanto ben poteva accadere che mansioni “in astratto” non equivalenti “in concreto” lo fossero perché espressione di uno spostamento realizzato in funzione di uno sviluppo di carriera e viceversa. Ciò portava alla conclusione che la professionalità non sarebbe tanto “oggetto immediato” di protezione dell’art. 2103 c.c. quanto piuttosto “il più importante parametro di controllo della gestione della mobilità” anche se non l’esclusivo potendo concorre con altri451. Tale criterio della professionalità, però, avrebbe operato sempre nel caso in cui gli spostamenti fossero stati unilaterali, ossia disposti dal datore di lavoro a prescindere dalla volontà del lavoratore452.
reso “superflua il più delle volte l'analisi puntuale della volontà delle parti”; la seconda è che il motivo del mutamento delle mansioni sarebbe irrilevante da un punto di vista giuridico e non soggetto al sindacato giudiziale in quanto “contenuto nell’ambito dell’oggetto del contratto e del corrispondente potere direttivo”.
448 Cfr. in M. BROLLO, M. VENDRAMIN, Le mansioni del lavoratore, cit., p. 533, le quali ritengono che la distinzione tra potere unilaterale normale (potere direttivo) o eccezionale (jus variandi) del datore di lavoro sia di fatto sfumata.
449 Anche G. Giugni, voce Mansioni e qualifica, cit., p. 12 dell’estratto riteneva che l’equivalenza non dovesse essere intesa in senso esclusivamente “oggettivo” (la norma non tutelava le mansioni ma il lavoratore) bensì doveva riferirsi alla posizione professionale del prestatore, al quantum di professionalità dedotto nel rapporto di lavoro. Per cui per Giugni lo spostamento temporaneo era compatibile se non ledeva in concreto la conservazione della professionalità del lavoratore.
450 Cfr. F. LISO, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, Franco Angeli, Milano, 1982, pp. 172-173.
451 Sarebbe, infatti, “assurdo” ritenere che “la legge abbia voluto imporre al tornitore di rimanere tornitore” Cfr. F. LISO,
La mobilità del lavoratore in azienda, cit., p. 175.
452 Per Liso, infatti, la modifica definitiva delle mansioni comporta sempre il consenso del lavoratore, cfr. …
Diversamente, è stato osservato da altri autori che la nozione di equivalenza adottata dal legislatore del 1970 avrebbe un carattere “aperto” e di per sé “neutro”453, ciò in quanto essa si limitava ad indicare un criterio relazionale (tra mansioni di provenienza e quelle di destinazione), generico e privo di puntuali parametri di comparazione, che necessitava, pertanto, di una definizione dei suoi confini “esterni” (le mansioni precedentemente svolte) ed “interni” (il parametro sul quale fondare il giudizio di equivalenza) 454.
Dottrina e giurisprudenza, pertanto, hanno cercato di far chiarezza sul punto cercando di individuare, attraverso una interpretazione teleologica dell’art. 2103 c.c., il bene della vita protetto dalla disposizione in esame. Esso è stato identificato non tanto nella retribuzione quanto nella professionalità455, intesa come diritto della persona-lavoratore (di rango costituzionale) alla “dignità professionale”456.
La Corte costituzionale ha avuto, infatti, modo di affermare, seppur incidentalmente, che l’art. 2103 c.c. appresta una protezione del lavoratore, anche per il tramite della contrattazione collettiva457, al fine di preservarlo dai danni a quel “complesso di capacità e di attitudini che viene definito con il termine professionalità, con conseguente compromissione delle aspettative di miglioramenti all’interno o all’esterno dell’azienda”458. Peraltro, la “dignità sociale” del lavoratore viene presa in considerazione e tutelata dall’ordinamento (a partire dalla nostra Costituzione: artt. 3, comma 1 e 41, comma 1) in relazione a qualsivoglia discriminazione concernente anche“l’area dei diritti di libertà finalizzati allo sviluppo della personalità morale e civile del lavoratore”459.
Anche la Suprema Corte di Cassazione ha riconosciuto all’art. 2103, comma 1 c.c. una funzione protettiva volta a tutelare la dignità del lavoratore e, in particolare, la professionalità “acquisita” dal lavoratore460.
453 Cfr. M. BROLLO, La mobilità interna del lavoratore, cit., p. 169.
454 Ed infatti, due mansioni possono essere “equivalenti” sotto una molteplicità di profili distinti (quali, ad esempio, la retribuzione, il patrimonio professionale, i contenuti tecnici o il grado di complessità dei compiti, la collocazione nella scala gerarchica ovvero nell’organizzazione produttiva dell’impresa, le aspettative soggettive o di carriera del lavoratore, ecc.), cfr. M. BROLLO, La mobilità interna del lavoratore, cit., p. 169.
455 Ed infatti, l’art. 2103, comma 1, c.c. nella versione risultante dallo Statuto dei lavoratori, nel prevedere che l’assegnazione di mansioni equivalenti debba avvenire «senza alcuna diminuzione della retribuzione», esclude che l’aspetto economico-retributivo possa fungere da criterio di valutazione dell’equivalenza, di conseguenza due posizioni di lavoro retribuite in misura eguale ben possono non essere equivalenti dal punto di vista “professionale”. Scopo dell’art. 2103 sarebbe allora quello di “consentire al datore di lavoro di chiedere al lavoratore tutte le mansioni ricomprese nell’area professionale e non soltanto quelle del livello retributivo”, cfr. G. SANTORO PASSARELLI, Diritto dei lavori. Diritto sindacale e rapporti di lavoro, Giappichelli, Torino, 2013, p. 270.
456 Non a caso l’art. 13 chiude il Titolo I dello Statuto dei lavoratori intitolato “Della libertà e dignità del lavoratore”. Sulla necessità di distinguere i concetti di professionalità e dignità professionale, cfr. C. LAZZARI, La tutela della dignità professionale del lavoratore, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2017, n. 156, 4, pp. 663 e s.
457 Ed infatti, “nella determinazione delle mansioni e dei conseguenti livelli retributivi, l’autonomia del datore di lavoro, cui spetta l'organizzazione dell’azienda, è fortemente limitata dal potere collettivo”, è cioè sia dai “contratti collettivi” (nazionali) che dai “contratti aziendali”, cfr. Corte cost., sent. n. 16 marzo 1989, n. 103. Peraltro, per la Corte costituzionale i contratti collettivi rappresentano “estrinsecazioni del potere delle associazioni sindacali” nonché “frutto e risultato di trattative e patteggiamenti”, di conseguenza costituiscono una “regolamentazione che, in una determinata situazione di mercato, è il punto di incontro, di contemperamento e di coordinamento dei confliggenti interessi dei lavoratori e degli imprenditori”. Allo stesso tempo, però, in quell’occasione è stata anche affermata l’esistenza di limiti anche per le parti sociali, segnatamente i principi costituzionali (fra gli altri artt. 3, 35, 36, 37 Cost.).
458 Corte Cost., sent. 6 aprile 2004, n. 113.
459 Corte Cost., sent. n. 103/1989 citata.
460 Così testualmente Cass. Civ., Sez. Un., sent. n. 25033/2006. Nella medesima sentenza è stato, inoltre, affermato che “quale norma di protezione, l’art. 2103 c.c. regolamenta l’esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro che