LA DISCIPLINA DEL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE NEL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI. PROFILI CRITICI
RIVISTA ITALIANA DI DIRITTO DEL LAVORO
Anno XXXIV Fasc. 3 - 2015
ISSN 0393-2494
Xxxxxxxxx Xxxxxxx
LA DISCIPLINA DEL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE NEL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI. PROFILI CRITICI
Estratto
Milano • Xxxxxxx Editore
XXXXXXXXX XXXXXXX
Ordinario di diritto del lavoro nell’Università Ca’ Foscari di Venezia
LA DISCIPLINA DEL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE NEL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI. PROFILI CRITICI
SOMMARIO: 1. La nuova tutela indennitaria: dubbi di congruenza con il diritto europeo ed internazionale. — 2. Il problema del «fatto materiale» e l’elimi- nazione del giudizio di proporzionalità. — 3. L’insussistenza del fatto «diret- tamente dimostrata in giudizio». — 4. Il licenziamento discriminatorio, nullo e la questione della «pretestuosità».
1. La nuova tutela indennitaria: dubbi di congruenza con il diritto europeo ed internazionale. — La riforma del Jobs Act (l. n. 183/2014 e d.lgs. n. 23/2015) consegna all’interprete del cd. con- tratto a tutele crescenti un sistema di tutele applicabili in caso di licenziamento illegittimo che si caratterizza per una drastica ridu- zione del rimedio della reintegrazione, per una chiara opzione a favore della tutela indennitaria, unitamente alla marginalizzazione del protagonismo giudiziale nella scelta dei rimedi applicabili e nella quantificazione del danno. Questa nuova prospettiva legisla- tiva inaugura in ambito giuslavoristico il principio della «rottura efficace del contratto» efficient breach of contract) che postula la possibilità di violare la norma dietro corresponsione di un risarci- mento economico, senza applicazione di punitive damages e, tan- tomeno, senza imporre la specific performance (esecuzione in forma specifica) (1). Applicata alla materia del licenziamento, la dottrina dell’efficient breach segue le ragioni imponderabili della razionalità
(1) Cfr. R.A. XXXXXX, Economic Analysis of Law, Xxxxxxx Xxxxxx, 2007, 119
s. e 127 s.; X. XXXXXXXX - X. XXXXXXXXX, The Myth of Efficient Breach, Yale Law School, Faculty Scholarship Series, n. 93/2010.
economica, giustifica qualunque motivo opportunistico di viola- zione del contratto nell’interesse dell’impresa e conduce alla mo- netizzazione del recesso quale prevalente, se non unico, sistema rimediale. Si tratta di un vero e proprio rovesciamento del para- digma offerto dalla tutela in forma specifica (art. 18 St. lav.), di cui la Cassazione a Sezioni Unite aveva sottolineato la coerenza siste- matica sia con i principi generali dell’ordinamento, sia con il diritto del lavoratore al proprio posto, protetto dagli artt. 1, 4 e 35 Cost; diritto che «subirebbe una sostanziale espropriazione se ridotto in via di regola al diritto ad una somma» (2).
La legge delega dispone invero per le nuove assunzioni, da realizzarsi con il contratto di lavoro a tutele crescenti, una severa limitazione del diritto alla reintegrazione, la quale risulta del tutto esclusa per i licenziamenti economici — ove opera un indennizzo monetario crescente con l’anzianità di servizio — e viene forte- mente limitata (se non del tutto marginalizzata) nell’ambito dei licenziamenti per motivi soggettivi. In sintesi, la tutela reintegra- toria risulta operante solo in caso di licenziamento nullo e discri- minatorio, nonché per «specifiche fattispecie di licenziamento disci- plinare ingiustificato», quest’ultime legislativamente individuate (art. 7, lett. c), l. n. 183/2014) e non, come sarebbe stato preferibile, identificate mediante il rinvio alle tipizzazioni della contrattazione collettiva. L’orientamento è apparso talmente restrittivo che il le- gislatore delegato, discostandosi in parte qua dai criteri di delega, ha alla fine ridotto tale pluralistica tipizzazione ad una sola fattispecie generale, costituita dalla «insussistenza del fatto materiale conte- stato al lavoratore» (art. 3, co. 2, d.lgs. n. 23/2015). La discrezionalità valutativa del giudice, ancora molto ampia dopo la riforma Fornero, si riduce, di conseguenza, sia per quanto attiene alla scelta del tipo di tutela (reintegrazione o indennizzo) sia per quanto concerne il quantum di monetizzazione del recesso ingiustificato, che viene ri- gorosamente definito a priori dallo stesso legislatore.
Questo intervento legislativo, che modifica radicalmente l’as-
(2) Cass., S. U., 10 gennaio 2006, n. 141; sul “valore” della stabilità cfr.
M.V. BALLESTRERO, Il valore e il costo della stabilità, LD, 2007, 389, ora in La stabilità nel diritto vivente. Saggi su licenziamenti e dintorni (2007-2009), Xxxxxx- xxxxxx, 2009, 1 ss.
setto complessivo dei poteri nell’ambito del rapporto di lavoro, è oggetto di opposte valutazioni in ragione delle diverse sensibilità (pro-labour o pro-business) espresse dagli interpreti. La prospettiva analitica seguita in questo scritto si pone, invece, su un diverso piano e intende sviluppare non tanto una critica di politica del diritto, bensì un’interrogazione valutativa sulle tecniche legislative adottate e sulla loro coerenza non solo con i parametri dell’argo- mentazione razionale secondo le regole del discorso pratico relativo alla «legittimazione sociale della legge», ma pure con riguardo alla
«fondabilità nel sistema del diritto positivo secondo le regole del discorso dogmatico» (3).
Sorge, sotto questo profilo, una questione di carattere generale, che merita attenta considerazione sistematica anche con riferi- mento al diritto sovranazionale. Nel nuovo paradigma rimediale la tutela ripristinatoria è sostanzialmente azzerata (salvi i casi colle- gati essenzialmente alla dimensione discriminatoria o pretestuosa che l’atto unilaterale di recesso dissimula: v. infra, § 4) a favore di una tutela indennitaria predeterminata e crescente in ragione dell’anzianità di importo pari a due mensilità dell’ultima retribu- zione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità. Grazie al nuovo istituto dell’offerta di conciliazione, il datore di lavoro è altresì legittimato ad offrire al lavoratore un importo di ammontare pari ad una mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità, mediante consegna di un assegno circolare.
Orbene, questo congegno rimediale non è de plano riconduci- bile alla categoria civilistica della tutela per equivalente moneta- rio, ed appare addirittura recessivo rispetto alla richiamata teoria della rottura efficiente, posto che quella dottrina postula un as- setto risarcitorio tale da soddisfare pienamente la parte che subisce la violazione. Vale infatti rilevare che la preferenza accordata dalla dottrina civilistica al risarcimento per equivalente rispetto alla tutela in forma specifica si fonda sulla maggior idoneità di tale tipologia di ristoro a riparare integralmente il danno, atteso che
(3) Secondo l’insegnamento di X. XXXXXXX, Relazione al convegno su Il modello della ricerca civilistica, RCDP, 1990, 7, 22.
laddove il responsabile venga condannato al ripristino della situa- zione quo ante, tale soluzione non elimina l’intera perdita di utilità subita dalla vittima nel lasso temporale fra l’evento di danno e la riparazione, onde tale perdita non può essere ristorata se non per equivalente: attraverso, dunque, una monetizzazione del pregiu- dizio subito dal duplice punto di vista del danno emergente e del lucro cessante. In tal prospettiva «il risarcimento per equivalente, anziché presentarsi come un minus, come un sostitutivo legale, come rimedio sussidiario della reintegrazione in forma specifica, è in realtà il modello funzionalmente più adatto ad eliminare gli effetti dell’evento dannoso» (4).
È evidente, quindi, che non può dirsi tutela per equivalente (ove l’equivalenza deve riguardare una somma congruente a risarcire l’ingiusta perdita del posto di lavoro) l’indennità prevista dall’art. 3, co.1, la cui misura è parsa inadeguata allo stesso Parlamento — nel parere approvato dalla Commissione Lavoro —, il quale chie- deva al Governo di provvedere a «incrementare la misura minima e massima delle indennità dovute in caso di licenziamento per giustificato motivo o giusta causa». Se ne deve dedurre che la tutela indennitaria prevista per il licenziamento illegittimo nell’ambito del contratto a tutele crescenti offre una tutela proporzionalmente assai minore rispetto a quella garantita dal diritto comune dei contratti al fine di ristorare, per esempio, il mandatario in caso di revoca senza giusta causa del mandato oneroso (art. 1723, co. 2, c.c.), o il prestatore d’opera che subisca il libero recesso del com- mittente (art. 2227 c.c.). Mentre questi ultimi potranno percepire integralmente il guadagno che dal contratto si erano ripromessi di trarre (5), ottenendo così il ristoro completo del danno subito, il lavoratore subordinato che perde ingiustamente il posto di lavoro non ottiene né un risarcimento in forma specifica né un risarci- mento per equivalente, bensì un tertium genus di ristoro, deteriore rispetto ai principi civilistici generali, che ben può essere qualifi-
(4) X. XXXXXXXX, Dei fatti illeciti, sub art. 2058, Comm SB, 1993, 1118 e ss.;
A. DE CUPIS, Il danno, vol. II, Xxxxxxx, 1979, 328 ss.; X. XXXXXXXX, Il danno non patrimoniale, Xxxxxxx, 1983, secondo cui il risarcimento per equivalente costituisce la regola in materia di riparazione del danno.
(5) Per i riferimenti rinvio a X. XXXXXXX, Il lavoro autonomo. Contratto d’opera e professioni intellettuali, Tratt CM, 1996, 724 ss.
cato nei termini di una deroga in peius ai criteri rimediali comuni, a favore del datore di lavoro.
Invero, i sistemi di diritto del lavoro europei — cui questa riforma intende ispirarsi — offrono sul punto soluzioni assai più garantiste, pur nel quadro di una sostanziale espansione dell’effi- cient breach e della conseguente residualità dei rimedi ripristinatori. Seguendo i principi dell’analisi economica del diritto, e contraria- mente a quanto da altri sostenuto (6), si può affermare che in altri ordinamenti sia di civil law sia di common law il tipo di tutela offerta in caso di licenziamento illegittimo segue la regola della property rule, nella misura in cui quest’ultima — similmente alla liability rule — può consistere anche in una somma: quantificata, tuttavia, quest’ultima, in misura maggiore rispetto all’expectation damage (danno da aspettativa), peraltro in consimili casi difficil- mente stimabile (7). Si prenda, ad esempio, il diritto del lavoro francese, ove vige il principio del ristoro integrale di tutti i danni subiti dal lavoratore in conseguenza del licenziamento illegittimo, che comunque non è inferiore ad un anno di retribuzione (8): è evidente che la violazione efficiente del contratto di lavoro viene compensata con una riparazione del danno potenzialmente idonea a fungere da deterrente per il datore intenzionato a comminare un licenziamento ingiustificato. Simili considerazioni valgono anche per il sistema rimediale del Regno Unito, laddove attraverso gli strumenti azionabili avanti le Corti ordinarie, il lavoratore illegit- timamente licenziato può aspirare al compensatory award, nella misura in cui il pregiudizio risarcito sia attribuibile al comporta- mento del datore di lavoro, sulla base di un parametro di «giustezza ed equità» (9). In questi casi, pur nel quadro di una tutela per
(6) X. XXXXXX, La riforma dei licenziamenti e i diritti fondamentali dei lavoratori, relazione al Convegno C.S.D.N., Pescara, 11 maggio 2012.
(7) Cfr. X. XXXXXXX, Foundations of Economic Analysis of Law, Harvard University Press, 2004, 312, trad. it. Fondamenti dell’analisi economica del diritto, Xxxxxxxxxxxx, 2005, 292. Si vedano, sul punto, ma con riferimento alla legge Fornero, le giuste considerazioni di X. XXXXXXX, Ambiente di lavoro e tutela della persona, Xxxxxxx, 2014, 287, secondo la quale il diritto a non essere licenziato senza giustificazione non trova sufficiente contrappeso nell’indennizzo compreso fra le 12 e le 24 mensilità.
(8) X. XXXXXXX - X. XXXXXXX, Droit du travail, 7 éd., Dalloz, 2013, 361.
(9) Cfr. X. XXXXX, I licenziamenti in Gran Bretagna, in Le discipline dei licenziamenti in Europa, a cura di X. XXXXXXXXXX, Xxxxxx Xxxxxx, 2014, 145.
equivalente e non in forma specifica, si realizza uno schema che, in termini di analisi economica del diritto, impiega una pena pecu- niaria per spingere all’adempimento, laddove la stessa tutela in forma specifica si atteggia come equivalente ad una quantifica- zione elevata del danno (10).
La questione che si pone, allora, riguarda l’adeguatezza del rimedio indennitario previsto dal legislatore italiano rispetto a quanto statuito dall’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, il quale stabilisce «il diritto di ogni lavoratore alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conforme- mente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali»; norma, quest’ultima, da leggersi in combinato disposto con l’art. 52, ai sensi del quale «eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previ- ste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà». Ma non basta, perché altro canone normativo alla luce del quale deve essere valutata la legittimità delle previsioni di cui al d.lgs. n. 23/2015 in materia di tutela indennitaria è offerto dall’art
24 della Carta sociale europea, il quale stabilisce il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo a ricevere «un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione». Sotteso a tale previsione è il principio di effettività (effectiveness) della tutela, secondo il quale la sanzione per l’ingiusta perdita del diritto al posto di lavoro dev’essere adeguata, dispiegare efficacia dissuasiva, ed offrire al- tresì un ristoro integrale per il lavoratore. Lo stesso Comitato OIL, nel «Protection against unjustified dismissal», interpretando l’art. 10 della Convenzione n. 158/1982, afferma che laddove il preferibile rimedio della reintegrazione sia sostituito da forme di monetizza- zione (compensation), queste devono essere «adeguate».
La problematica qui evocata non concerne, quindi, una possi- bile collisione del disposto in esame con la normativa europea ed internazionale sotto il profilo della compatibilità dell’indennizzo quale mezzo di reazione apprestato dall’ordinamento interno in caso di licenziamento illegittimo (11); il problema è un altro, e
(10) X. XXXXXXX, op. cit.
(11) È noto, peraltro, che secondo C. cost. n. 46/2000 la reintegrazione nel posto di lavoro non costituisce l’unico possibile paradigma attuativo dei principi di cui agli artt. 4 e 35 Cost.
attiene alla misura dell’indennizzo. Sorge, in sostanza, il fondato dubbio che la limitata tutela contro il licenziamento ingiustificato, realizzata con la previsione di un’indennità risarcitoria fortemente attenuata, sia tale da non garantire il «contenuto essenziale» del diritto ad una protezione contro il licenziamento ingiustificato. E ciò tanto più considerando che, in virtù della nuova formulazione della norma, che esclude ai fini della irrogazione della sanzione di reintegrazione ogni valutazione discrezionale circa la sproporzione del licenziamento, viene del tutto escluso il potere discrezionale del giudice in merito alla modulazione dell’indennizzo in ragione del caso concreto, e delle diverse rationes agendi del datore di la- voro (12). Il regime sanzionatorio apprestato sembra quindi non rispondere ai canoni di effettività e congruità dell’indennizzo ri- spetto al danno patito di cui agli artt. 30 della Carta di Nizza e 24 della Carta sociale europea (13). Il compito di verificare tale con- trarietà è demandato ai Giudici del Lavoro, pur precisando che l’efficacia dei predetti parametri normativi si pone su due piani differenti. La Carta di Nizza, in forza del disposto dell’art. 6 TUE, è stata elevata ad un rango giuridico equipollente a quello dei Trattati istitutivi (14). Al pari delle norme dettate da quest’ultimi, dunque, le disposizioni contenute nella Carta di Nizza esplicano efficacia diretta negli ordinamenti degli Stati membri solo nel caso in cui abbiano un contenuto self-executive. Qualora si dovesse riconoscere efficacia diretta all’art. 30, in ipotesi di contrasto il Giudice di merito sarà tenuto alla disapplicazione della disciplina interna, in osservanza del principio del primato del diritto europeo,
(12) Cfr. anche X. XXXXXXX, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel Jobs Act, ADL, 2015, 326.
(13) Per un cenno cfr. M.V. BALLESTRERO, La riforma del lavoro: questioni di costituzionalità, LD, 2015, 49, secondo cui la normativa in oggetto non soddisfa i requisiti posti dalle fonti europee.
(14) In ogni caso, ancor prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la Corte costituzionale in molte sue pronunce ha fatto riferimento alla Carta di Xxxxx per integrare in via interpretativa il parametro di giudizio: secondo la Corte, ancorché non efficaci, le disposizioni della Carta potevano svolgere una funzione di «ausilio interpretativo» (C. cost. 25 giugno 2008, n. 251) in quanto espressione «di principi comuni agli ordinamenti europei» (C. cost. 11-24 aprile 2002, n. 135; C. cost. 23 ottobre 2006, n. 393). Tale orientamento è stato confermato dalla Corte anche dopo l’acquisita natura giuridica vincolante della Carta (C. cost. 8 marzo 2010, n. 93; C. cost. 14 aprile 2010, n. 138; C. cost. 15 febbraio 2012, n. 31).
eventualmente sospendendo il contenzioso d’impugnativa del li- cenziamento ed operando un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, alla quale rimettere la valutazione di conformità della normativa italiana rispetto alle coordinate sovranazionali. Lad- dove, invece, si dovesse ravvisare nell’art. 30 esclusivamente una prescrizione di principio, priva del carattere self-executive, l’unico rimedio giurisdizionale per far valere la non congruità della nor- mativa interna rispetto alle previsioni sovranazionali è costituito dalla rimessione alla Consulta di una questione di legittimità costituzionale, avuto riguardo agli artt. 11 e 117, c. 1 Cost., che costituiscono il fondamento della limitazione di sovranità dell’or- dinamento italiano in favore dell’Unione Europea.
Diversa è invece l’efficacia che i giudici di merito dovranno attribuire all’art. 24 della Carta sociale europea, attesa la sua natura di atto di diritto internazionale (15). Vale rilevare che la Carta, così come revisionata nel 1998, è stata ratificata dall’Italia il 5 luglio 1999 ed è entrata in vigore il 1 settembre 1999, con il valore di norma pattizia. Peraltro, alla luce delle modifiche intro- dotte dall’art. 117 Cost., le norme internazionali assumono la qualifica di norma interposta in un eventuale giudizio di legitti- mità costituzionale della norma interna antinomica e, dunque, si pongono in una posizione intermedia fra la norma costituzionale e la la legge ordinaria di recepimento/ratifica. Come dire che le norme interne contrastanti con le disposizioni della Carta sociale europea, le quali sono norme pattizie recepite, sono da considerare illegittime per violazione della Costituzione, secondo il modello delle norme interposte. In tale prospettiva l’art. 3, co. 1, d.lgs. 23/2015 potrebbe essere giudicato come una norma antinomica rispetto all’art. 24 della Carta sociale e, di conseguenza, illegittima ai sensi degli artt. 11 e 117, co. 1, Cost.
2. Il problema del «fatto materiale» e l’eliminazione del giudizio di proporzionalità. — L’opera di marginalizzazione della tutela reintegratoria si realizza con la definizione legislativa del «fatto
(15) In tema, per alcuni spunti interessanti, cfr. X. XXXXXXXXXXX, La Corte EDU come contrappeso: alla ricerca di sinergie tra convenzione, carta sociale europea e OIL, in X. XXXXXXXX - A. GUAZZAROTTI - X. XXXXXXXX, I diritti dei lavoratori nelle Carte Europee dei diritti fondamentali, Jovene, 2012, 127 ss.
materiale contestato al lavoratore», la cui insussistenza, sola, abi- lita il giudice ad impiegare il rimedio ripristinatorio. Il riferimento al concetto di «fatto materiale», impiegato al fine di restringere la discrezionalità giudiziaria nell’apprezzamento del fatto contestato al lavoratore, vorrebbe chiudere la querelle dottrinale e giurispru- denziale circa l’interpretazione da attribuire al concetto di «fatto» di cui all’art. 18 St. lav., nella formulazione introdotta con la riforma Fornero (16) e avallata dall’obiter dictum contenuto nella recente pronuncia della Corte di Cassazione n. 23669/2014. La Suprema Corte ha affermato che la verifica giudiziaria sulla sussi- stenza/insussistenza del fatto posto a fondamento del licenzia- mento deve essere svolta «senza margini per valutazioni discrezio- nali» in relazione all’esistenza o meno del fatto, il quale deve intendersi come «fatto materiale», con conseguente eliminazione di ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato (17). È presto, tuttavia, per ritenere che l’interpretazione fornita in questo obiter dictum archivi definitivamente un conflitto interpre- tativo molto acceso in dottrina e nell’ambito della magistratura di merito. Vale anzitutto rilevare che una successiva pronuncia della Corte apre ad una valutazione di proporzionalità del recesso, facendo leva sulla qualificazione di gravità operata dalla contrat- tazione collettiva, secondo quanto previsto dall’art. 1, co. 42, della legge n. 92 del 2012 in merito alla possibilità di reintegrazione non solo in caso di «insussistenza del fatto contestato», ma pure quando
«il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conser-
vativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili» (18). Peraltro, proprio sulla sentenza
n. 23669/2015 si è già riaperta una querelle tra quanti, in una logica
pro-business, sono pronti «a sottolineare che la Cassazione aveva
(16) La bibliografia sul punto è amplissima; cfr. le ricostruzioni di X. XXXXXXX, La qualificazione del “fatto” nell’interpretazione di dottrina e giurispru- denza sullo sfondo del “dialogo” aperto dal legislatore delegato, in Contratto a tutele crescenti e Naspi, a cura di X. XXXXXXXX - X. XXXXXXX, Xxxxxxxxxxxx, 2015, 169 ss., e di X. XXXXX, Il fatto e la sua qualificazione: dalla querelle della riforma Fornero ai nodi irrisolti del Jobs Act, in corso di pubblicazione.
(17) Cass. 6 novembre 2014, n. 23669, GI, dicembre 2014, nt. X. XXXXXXXX, e FI, 2014, I, 3418, nt. X. XX XXXX.
(18) Cass. 11 febbraio 2015, n. 2692, FI, 2015, nt. A.M. XXXXXXX.
avvalorato una lettura restrittiva della tutela reintegratoria, e quelli pro-labour impegnati a ridimensionarne la portata» (19). Resta comunque al fondo di quella pronuncia la circostanza per cui il «fatto» di cui si discuteva era già pacificamente identificato come materiale (l’incarico ai sottoposti di svolgere determinate attività), onde «una volta ravvisato insussistente tale fatto, le divisioni interpretative a monte perdono rilevanza», posto che la controver- sia esegetica riguarda la riconducibilità all’insussistenza del fatto dell’insussistenza della sola componente soggettiva (nella sussi- stenza di quella materiale), ma non anche la «doverosa applica- zione della formula legislativa al caso in cui il fatto materiale non sia stato in assoluto commesso o comunque non sia stato commesso dal lavoratore che ne era stato accusato» (20).
L’asserita «vittoria del fatto materiale» (21) nella formulazione dell’art. 3, co. 2, potrebbe trasformarsi in una mezza vittoria di Xxxxx nel momento in cui l’incauta enunciazione legislativa, una volta entrata nel sistema giuridico, si trovi astretta dai vincoli sistematici ed ermeneutici che esso impone. Vale anzitutto rilevare come la nozione di «fatto materiale» impiegata dal legislatore delegato sia — per usare un eufemismo — del tutto atecnica (22), in quanto il fatto di cui trattasi, lungi dall’essere «materiale» è inevi- tabilmente connotato giuridicamente: non solo perché è produt- tivo di effetti giuridici, ma perché produce effetti in quanto è giuridico. Nonostante le opinioni contrarie, anche autorevolmente sostenute (23), rimango dell’idea che la corretta impostazione del problema, sotto il profilo di teoria generale, porta a concludere che il diritto non conosce il significato del fatto «se non per quel tanto di significato che è riconducibile alla norma valutante» (24): nella
(19) Così R. DEL PUNTA, Il primo intervento della Cassazione sul nuovo (eppur già vecchio) art. 18, q. Riv., 2015, II, 32 ss.; nel senso di attribuire al fatto materiale rilievo di fatto giuridico cfr. X. XXXXXXXXXX, Nuovo art. 18: la Cassazione getta un ponte tra riforma Fornero e Jobs Act, ivi, 39 ss.
(20) R. DEL PUNTA, op. cit.
(21) X. XXXXXXX, op. cit.
(22) In tal senso anche X. XXXX, Jobs Act: prime riflessioni sui decreti attuativi, GLav, 2015, n. 3, 13.
(23) X. XXXXXXXX, Il fatto rilevante per la reintegrazione del lavoratore illegit- timamente licenziato, ADL, 2013, 1, 1 ss.
(24) Cfr. X. XXXX, Rilevanza giuridica, in Norme e fatti, Xxxxxxx, 1984, 53.
fattispecie la norma valutante è rappresentata dall’art. 3, l. n. 604/1966, per cui ogni «fatto» disciplinarmente rilevante deve essere apprezzato e valutato non in sé, ma ai fini della sua quali- ficazione in termini di giusta causa o giustificato motivo di re- cesso (25).
A parte ciò, e pur concedendo che il legislatore abbia, con quel concetto atecnico, voluto isolare la componente materiale del fatto, come presupposto materiale all’intervento dell’ordinamento, vale rilevare come la norma, riferendosi al «fatto» nella sua dimensione puramente fenomenologica, aggiunge immediatamente dopo l’ag- gettivo «contestato» (cfr. anche l’art. 7, co. 2, dello St. lav., che parla di «addebito»), il quale non solo vincola l’interprete a consi- derare il fatto così come indicato nella contestazione disciplinare ma inevitabilmente colora il fatto stesso di componenti e corredi giuridico-ambientali: rinvia, cioè, ad un concetto di «fatto» com- prensivo anche dell’imputabilità, dell’elemento psicologico-sogget- tivo, della volontarietà della condotta, e finanche della sua anti- giuridicità. Di conseguenza, nonostante l’impiego della dizione atecnica «fatto materiale», l’interprete non può che rilevare come il
«fatto contestato», posto a fondamento del licenziamento, deve essere costituito da un inadempimento contrattuale e, dunque, da un mancato o inesatto adempimento imputabile al lavoratore, qualificabile come «fatto giuridico». In sostanza, anche alla luce della nuova formulazione del disposto, il giudice, nell’ambito della sua essenziale funzione di applicazione della legge, dovrà necessa- riamente operare un processo di qualificazione del fatto, il che implica un giudizio storico, interpretativo, classificatorio, alla luce dell’art. 3, l. n. 604/1966.
Secondo quanto disposto dal legislatore, in questa opera di apprezzamento del fatto non potrà più essere svolta una valuta- zione di proporzionalità ex art. 2106 c.c. Se ne deve dedurre, prima facie, che «qualunque tipo di comportamento rilevante sotto il
(25) Contra A. VALLEBONA, Jobs Act e licenziamento, in Jobs Act e licenzia- mento, Giappichelli, 2015, 89, che distingue tra accertamento del fatto e valuta- zione del fatto; ma nel sistema complessivo l’accertamento della sussistenza del fatto non può essere disgiunta, neppure logicamente, dalla qualificazione del fatto, in vista dell’effetto; anzi si può dire che nel sistema complessivo di regolazione del licenziamento l’accertamento è in funzione della qualificazione, e non ha alcuna autonomia né concettuale né pratico-applicativa.
profilo disciplinare e imputato al lavoratore può essere causa del suo licenziamento che, ove si accerti sia inidoneo a configurarne gli estremi, non potrà dare ingresso alla tutela reale», ma solo alla tutela indennitaria (26). In tal modo, l’inadempimento di lieve o lievissima entità (si pensi ad un ritardo di pochi minuti) può essere sempre causa di licenziamento, con applicazione della tutela in- dennitaria, in quanto quel comportamento consiste in un fatto materialmente sussistente (il ritardo, non importa di quale entità).
Appare evidente come tale soluzione legislativa si connoti per un elevato tasso di irrazionalità ed integri, di tal guisa, una violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. per le conseguenze inique alle quali conduce, nella misura in cui a) opera una netta separazione tra rimedi in fattispecie fattualmente diffe- renziate ma del tutto assimilabili sul piano funzionale (nessun ritardo; ritardo di pochi minuti) e quindi omogenee nei termini di un giudizio di analogia o di eguaglianza (27). In sostanza, se un prestatore viene licenziato per grave insubordinazione, mentre in realtà si tratta di futili motivi, ciò non basterà a fargli guadagnare la tutela reintegratoria nella misura in cui quel fatto contestato, materialmente, sussiste. È cruciale notare come sia proprio il rilievo attribuito al «fatto materiale» lo strumento attraverso il quale si realizza la violazione del principio di eguaglianza: invero, se il «fatto» disciplinarmente rilevante fosse valutabile nella sua qualità giuridica — e non quale mero “dato” — la sua insussistenza comporterebbe la reintegrazione in entrambi i casi considerati (nessun ritardo, ritardo di pochi minuti); b) equipara, quoad effec- tum, e senza alcuna possibilità di graduazione dei rimedi, un provvedimento espulsivo per un fatto di effimero valore (il ritardo di pochi minuti) ed un licenziamento che, pur non integrando gli estremi della giusta causa, è invece portatore di una ben più grave antigiuridicità (un’assenza ingiustificata di tre giorni), tant’è che viene sanzionato dal codice disciplinare aziendale (28). In en-
(26) X. XXXXXXXX, La tutela del lavoratore in caso di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo, in Contratto a tutele crescenti e Naspi, cit., 103 ss.
(27) Cfr. X. XXXXX, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Xxxxxxx, 1949, 76; X. XXXXXXX, Gli “strumenti” della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Xxxxxxx, 2000, 54.
(28) Esprime un «forte dubbio di razionalità» della xxxxx X. XXXXXXX, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel Jobs Act, cit.
trambi i casi scatterà la medesima sanzione indennitaria, senza alcuna possibilità giudiziale di modulazione del quantum in consi- derazione delle caratteristiche specifiche di ogni singola fattispecie concreta.
A mio parere, la formulazione della norma si presta ad una ulteriore riflessione critica in termini di “razionalità intrinseca”, secondo i canoni ermeneutici connaturati a questo tipo di giudizio di legittimità costituzionale (congruità, proporzionalità giustizia), a prescindere dall’impostazione di un giudizio comparativo tra fattispecie connesso al profilo dell’eguaglianza (29). Viene in rilevo un duplice profilo di irragionevolezza in senso proprio della legge: come eccesso di potere legislativo, ammesso dalla Corte «ove l’op- zione normativa contrasti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza, vale a dire si appalesi, in concreto, come espres- sione di un uso distorto della discrezionalità, che raggiunga una soglia di evidenza tale da atteggiarsi alla stregua di una figura, per così dire, sintomatica di eccesso di potere e, dunque, di sviamento rispetto alle attribuzioni che l’ordinamento assegna alla funzione legislativa» (sentenza n. 313 del 1995); nonché come «non rispon- denza all’esigenza di conformità dell’ordinamento ai valori di giustizia ed equità connaturati al principio sancito dall’art. 3 della Costituzione» (sentenza n. 52 del 1996). In tal prospettiva l’irra- gionevolezza intrinseca della norma si manifesta per l’indebita esclusione del giudizio di proporzionalità di cui all’art. 2016 c.c. quale criterio preminente di controllo non solo circa la giustifica- zione del licenziamento (che pur rimane) ma anche quale criterio di selezione della misura rimediale applicabile. Per mantenersi ade- rente al criterio di ragionevolezza-proporzionalità il legislatore avrebbe dovuto scegliere tra l’opzione di eliminare la reintegra- zione e modulare il quantum risarcitorio in ragione delle circo- stanze, ovvero consentire la reintegrazione fin tanto che il licen- ziamento appare del tutto sproporzionato. Al contrario, aver espunto dal meccanismo di modulazione della sanzione ogni rife- rimento proporzionalistico contraddice l’uso della proporzionalità
(29) L’autonomia della ragionevolezza rispetto al giudizio di eguaglianza appare con tutta evidenza laddove l’art. 3 Cost. viene evocato congiuntamente sotto il profilo della disparità di trattamento e sotto il profilo della ragionevolezza, e la Corte argomenta distintamente per ciascuno dei due profili.
quale elemento e parametro del controllo di ragionevolezza della legge, come dimostra, ad esempio, il rapporto reato-sanzione nel diritto penale, laddove è indirizzo giurisprudenziale costante che la configurazione dei reati e la previsione della quantità e quantità delle sanzioni penali sono sindacabili per ipotesi di manifesta irragionevolezza, sul principio che «la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia al contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali» (sent. n. 409/1989). Per reagire all’irrazionalità di tale impianto sanzionatorio sono prospettabili alcune soluzioni interpretative volte a limitarne gli effetti più iniqui. Da una parte, muovendosi nell’ambito della ratio legislativa che esclude tassativamente la reintegrazione a fronte della non insussistenza del fatto materiale contestato, si prospetta l’applicazione, a fronte di un licenziamento irrogato per un com- portamento contestato per il quale il codice disciplinare preveda una sanzione conservativa, il risarcimento del danno ex art. 1218 e ss. del codice civile per violazione, da parte del datore, dell’obbligo di osservare le disposizioni del contratto collettivo (30). Dall’altra parte, a questo rimedio civilistico generale — la cui praticabilità potrebbe scontrarsi con l’eccezione, sollevabile dal datore, dell’av- venuto assorbimento di ogni tutela in caso di licenziamento ille- gittimo con la sanzione prevista dalla legge — si affianca una più radicale prospettiva con riferimento al licenziamento comminato per futili motivi, laddove, in astratto, il fatto contestato sia rile- vante perché connesso ad un comportamento materialmente sus- sistente e disciplinarmente rilevante. In tal caso, pur essendo negata al giudice una valutazione di proporzionalità ex art. 2106 c.c., si potrà sostenere che il tasso assai trascurabile di antigiuri- dicità del comportamento materiale posto in essere (nell’esempio fatto, il ritardo di pochi minuti) ne fa venir meno la rilevanza disciplinare (e la sua “contestabilità” come “addebito”, secondo quando dispone l’art. 3, co. 2 in commento e l’art. 7. co. 2, St. lav.), di tal che potrà dirsi che nel caso di specie è stata provata direttamente in giudizio l’inesistenza del fatto materiale contestato
(30) X. XXXXXXXX, La tutela del lavoratore in caso di licenziamento cit., 118 ss.
(cioè rilevante disciplinarmente) (31), ovvero che, pur essendo presente nella realtà un fatto materiale, il licenziamento appare comunque pretestuoso: con applicazione della tutela reintegrato- ria (32).
3. L’insussistenza del fatto «direttamente dimostrata in giudi- zio». — Un profilo di interesse tipicamente esegetico della nuova disciplina riguarda l’utilizzo dell’avverbio «direttamente» conte- nuto nell’art. 3, c. 2 del decreto legislativo, ove si ammette la possibilità della reintegra nel posto di lavoro solo in caso di dimostrazione in giudizio dell’effettiva insussistenza del fatto ma- teriale contestato nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o giusta causa.
Secondo una prima prospettazione, fondata su un’interpreta- zione strettamente letterale, l’avverbio viene inteso nel senso che il lavoratore sarebbe chiamato a fornire la dimostrazione dell’insus- sistenza del fatto contestato direttamente nel giudizio d’impugna- tiva del licenziamento. Seguendo tale ipotesi ricostruttiva la for- mulazione della norma complicherebbe il riparto dell’onere probatorio, nel senso che, fermo il principio di cui all’art. 5 l. 604/1966, secondo cui spetta al datore di lavoro dimostrare la giustificatezza e, dunque, la legittimità del licenziamento, la con- cessione della reintegrazione sarebbe subordinata alla dimostra- zione da parte del lavoratore dell’insussistenza del fatto a lui contestato. Il lavoratore dovrebbe quindi offrire la prova di un fatto negativo (l’insussistenza del fatto materiale), ma soltanto in
(31) In questa prospettiva, ma con riferimento ad una fattispecie regolata dalla legge Fornero, si è espressa A. Brescia 30 aprile 2015, secondo la quale la reintegrazione si applica non solo in caso di insussistenza del fatto materiale contestato ma altresì quando il fatto, seppur materialmente sussistente, si risolva in un inadempimento di entità trascurabile e «risulti evidente l’abbaglio del datore di lavoro, o il suo torto palese, o la pretestuosità della contestazione ecc.».
(32) Cfr. X. XXXXXX - X. XXXXXX, Il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo: dottrina e giurisprudenza alla ricerca di un punto di equilibrio nella nuova disciplina del novellato art. 18, in La riforma del mercato del lavoro, Il nuovo diritto del lavoro, vol. IV, diretto da X. XXXXXXXX - X. XXXXXXX, Xxxxxxxxxxxx, 2014, 221 ss., i quali, con riferimento all’art. 18 nella versione novellata dalla l. n. 92/2012, scrivevano che «laddove invece il fatto non abbia rilevanza disciplinare (licenzia- mento per pochi minuti di ritardo) di tal che possa ritenersi pretestuoso, si applica il comma 4 — e sempre che non sia configurabile il motivo illecito ex art. 18 comma 1».
via diretta, con ciò escludendosi il ricorso alla prova indiretta di carattere presuntivo di cui all’art. 2727 c.c.; con la conseguenza che, se finora in ipotesi di insufficienti prove datoriali circa la giustificazione del recesso veniva de plano concessa la reintegra- zione, oggi il lavoratore perderebbe quel diritto qualora non forni- sca la prova dell’insussistenza del fatto, anche nel caso in cui il datore non abbia palesemente adempiuto agli oneri probatori di cui all’art. 5, l. n. 604/1966. In tal maniera la reintegrazione verrebbe ancor di più emarginata a sanzione non solo residuale — nel solco dell’intento legislativo inaugurato con la legge Fornero — ma addirittura a rimedio sostanzialmente impraticabile (33).
La probatio diabolica così accollata al lavoratore contraste- rebbe, invero, con la regola sul riparto dell’onere probatorio, che deve tenere conto anche del «principio — riconducibile all’art. 24 Cost. e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o tropo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio — della riferibilità o vicinanza di disponibilità dei mezzi di prova» (34). Ne consegue che siffatta interpretazione comporta un indubbio profilo di illegittimità costituzionale per contrarietà al- l’art. 24, co. 2, Cost., onde appare preferibile optare per una diversa ipotesi ricostruttiva, “costituzionalmente orientata” ed in linea con lo schema enunciato dall’art. 2, co. 5, l. n. 604/1966 (35). Alla postura interpretativa criticata deve quindi obiettarsi che l’imper- sonale formulazione legislativa dell’art. 3, co. 2, non consente di ritenere modificato l’impianto di riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 5, l. n. 604/1966 (36). Invero, il problema in esame si era già posto all’indomani dell’entrata in vigore della riforma Fornero, laddove, stante il silenzio normativo, ci si interrogava se il lavora- tore potesse limitarsi a chiedere l’accertamento del difetto di giustificazione o dovesse altresì allegare e provare i relativi fatti.
(33) Cfr. X. XXXXXXX, Il licenziamento disciplinare all’indomani del d.lgs. n. 23/2015, in corso di pubblicazione negli Scritti in onore di Xxxxxxxx De Xxxx Xxxxxx; e ID., Il tramonto dello Statuto dei lavoratori (dalla l. n. 30/1970 al Jobs Act), destinato agli Scritti in memoria di Xxxxxxxx Xxxxxxxx.
(34) Cass. 6 giugno 2012, n. 909.
(35) Cfr. in tal senso D. BORGHESI, Aspetti processuali del contratto a tutele crescenti, dattiloscritto.
(36) Cfr. in tal senso X. XXXXXX, Il nuovo regime di tutele per il licenziamento ingiustificato, in Jobs Act e licenziamenti, cit., 36.
Preferibile, perché maggiormente aderente al tessuto normativo, era stata la soluzione dottrinale secondo cui il lavoratore deve richiedere l’accertamento dell’ingiustificatezza e del carattere san- zionatorio del recesso, senza gravarlo ulteriormente della relativa prova, in quanto l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo sono espressamente oggetto dell’onere probatorio del da- tore di lavoro, ai sensi dell’art. 5, l. n. 604/1966, e non del lavora- tore (37). Dovendo provare la sussistenza delle ragioni del recesso, il datore è onerato di provare, anzitutto, la sussistenza del fatto materiale che costituisce la base di ogni giustificazione del recesso disciplinare, onde, se al termine dell’istruttoria «il giudice non si convincerà della esistenza del fatto, questa incertezza andrà a danno del datore di lavoro, quale soggetto onerato della prova» (38) e il lavoratore avrà diritto alla reintegrazione, essendo stata «direttamente dimostrata in giudizio» l’insussistenza del fatto materiale contestato.
4. Il licenziamento discriminatorio, nullo e la questione della
«pretestuosità». — Benché l’impianto rimediale delineato dal de- creto legislativo n. 23/2015 delinei un nuovo regime regolativo nella tutela in caso di licenziamento illegittimo, la normativa apprestata potrebbe non raggiungere pienamente lo scopo, in ragione della perdurante funzione di controllo giudiziario in punto di giustificato motivo e di giusta causa del licenziamento, che lascia spazio ad alcuni pertugi interpretativi volti a mantenere, per quanto possibile, aperta la possibilità di applicare la tutela reale, sia pur nel quadro di una sua drastica riduzione.
Anzitutto, si tratterà di saggiare, nel diritto vivente, la possi- bile tendenza espansiva dell’area del licenziamento discriminato- rio. Storicamente, infatti, il licenziamento per motivi discrimina-
(37) In tal senso cfr. X. XXXXXXXX, La Riforma del licenziamento individuale fra diritto ed economia, q. Riv., 2012, I, 521 ss.; ID, Giusta causa e giustificato motivo dopo la riforma dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, CSDLE, It, n. 165/2012; X. XXXXXXX, L’art. 18, nuovo testo, dello Statuto dei Lavoratori, ADL, 2012, 612 ss.; X. XXXXXXX, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell’art. 18 Statuto dei lavoratori, q. Riv., 2012, I, 438 ss.; X. XXXXXXX-XXXXXXXXXX, Il licenziamento per giustificato motivo e l’ambito della tutela risarcitoria, ADL, 2013, 231 ss.
(38) X. XXXXXX, op. cit.
xxxx ha fatto rarissimi ingressi nelle aule di giustizia; ma tale difficoltà di accesso non escludeva, ed anzi consentiva comunque, la massima sanzione in caso di licenziamento illegittimo, grazie all’originaria funzione dell’art. 18 St. lav., la quale rendeva di fatto inutile la ricerca in positivo del “reale” motivo del recesso ba- stando al lavoratore l’accertamento in negativo della generica insussistenza dei giusti motivi dell’atto. Oggi, con il superamento della tutela reintegratoria nei casi di “ordinaria” ingiustificatezza del recesso, la sanzione ripristinatoria potrebbe essere parzial- mente recuperata nell’ambito di una più attenta considerazione (in positivo) dei motivi discriminatori dell’agire datoriale; e ciò non tanto perché si debba ritenere discriminatorio ogni licenziamento ingiustificato (39), quanto in ragione della tendenza alla valorizza- zione legislativa del comportamento discriminatorio nella sua va- lenza oggettiva e non psicologico-soggettiva, e quindi riscontrabile anche in presenza di misure neutre, nonché al riconoscimento di un regime probatorio particolare nel caso rilevi un rischio tutelato dalla legislazione antidiscriminatoria. In sostanza, applicando il regime improntato al principio della prova prima facie, a fronte di una mancata o carente giustificazione da parte del datore, il lavoratore potrà allegare elementi idonei a far rilevare un fumus di discriminazione, relativo non già all’intenzionalità dell’atto ma al collegamento tra causa ed effetto, spettando al datore l’onere di provare l’assenza di discriminazione (40). Si tratterà, inoltre, di valutare la progressiva estensione del concetto di discriminazione a fattispecie non “tipizzate” dall’art. 15 St. lav., stante il principio di atipicità delle situazioni discriminatorie relative a fattispecie di amministrazione del personale e la valenza solo esemplificativa dell’indicazione dei motivi discriminatori di cui all’art. 15, a fronte
(39) Secondo la tesi, rimasta minoritaria, di M.T. CARINCI, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi: modelli europei e flexicurity all’italiana a confronto, DLRI, 2012, 527 ss.
(40) Per questo insegnamento v. M.V. BALLESTRERO, Declinazioni di flexi- curity. La riforma italiana e la deriva spagnola, LD, 2012, 461 s., nonché, della stessa A., Il licenziamento individuale, in La stabilità nel diritto vivente, cit., 103, che parla di vera e propria inversione dell’onere della prova che grava sul ricorrente.
del preminente rilievo di garantire in ogni direzione il bene alla pari dignità sociale (41).
In secondo luogo si tratta di definire l’ambito di applicazione della disciplina della nullità, nelle sue possibili diverse articolazioni e qualificazioni (nullità «espressamente» previste dalla legge, nul- lità di diritto comune). La norma di cui all’art. 2, co.1, del d.lgs. 23, apparentemente sembra discostarsi dall’art. 18, co.1, nella formu- lazione rivisitata dalla legge Fornero, in quanto si riferisce unica- mente ai casi di nullità «espressamente previsti dalla legge», mentre l’art. 18, co. 1, con formula assai più articolata, indica (in modo non esaustivo) alcune ipotesi di licenziamento nullo, prevede una clausola di chiusura che richiama tutti gli altri casi di nullità previsti dall’ordinamento, ed infine contempla espressamente il motivo illecito determinante di cui all’art. 1345 c.c.
Secondo una prima opzione ermeneutica si potrebbe ritenere, sulla base di una enfatizzazione del significato dell’avverbio
«espressamente» contenuto nella nuova norma, nonché della pre- valenza della disciplina speciale su quella generale, che il campo di applicazione della nullità sia stato sensibilmente ristretto, dedu- cendone altresì l’inutilizzabilità degli ordinari rimedi civilistici oltre i casi di licenziamento nullo tassativamente indicati dalla legge (i casi «espressamente» previsti dalla legge). In tal prospettiva si è scritto che il richiamo dell’art. 1418 c.c. all’art. 1345 c.c. «è generico, cioè stabilisce una equiparazione “di categoria” fra causa e motivo illecito, ai fini della nullità», laddove invece «le ipotesi rilevanti per la nullità del licenziamento alla stregua del decreto devono essere specificamente previste nella loro identità» (42). Tale interpretazione letterale, che rigorosamente restringe il campo di applicazione della nullità e, conseguentemente, il rimedio reinte- gratorio previsto dall’art. 2, co. 1, deve tuttavia essere attenta- mente vagliata, e contemperata con esigenze di interpretazione sistematica, la cui obliterazione conduce a risultati aberranti. In particolare, la cennata prospettiva interpretativa non tiene conto
(41) Mi riferisco all’insegnamento di X. XXXXXX, sub art. 15 e 16, in Statuto dei diritti dei lavoratori, Comm SB, 1972, 205 ss.; per una ragionata rassegna della giurisprudenza sul punto, chiaramente improntata ad un allargamento del cata- logo delle discriminazioni vietate, cfr. A. AMOROSO - G. DI CERBO - X. XXXXXXX, Diritto del lavoro, vol. II, IV ed., Xxxxxxx, 2014, 643.
(42) X. XXXX, Jobs Act: prime riflessioni sui decreti attuativi cit., 14.
dei differenti “campi di applicazione” della disciplina applicabile al
«licenziamento illegittimo» nel contratto a tutele crescenti (art. 1, co.1), giungendo, indebitamente, ad estendere il campo di appli- cazione relativo al rimedio indennitario — che attiene ai «casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo sogget- tivo o per giusta causa»: art. 3, co. 1 — ai casi di licenziamento nullo non «espressamente» previsti dalla legge (secondo quanto dispone l’art. 2, co. 1). Si tratta, con riferimento a tali casi, di fattispecie in cui la nullità, pur non «espressamente» prevista dalla legge con specifico riferimento alla materia del licenziamento, deriva dall’applicazione dei principi generali del diritto civile, ovvero dalle norme di cui agli artt. 1418 c.c., 1343 c.c. e 1345 c.c.; si tratta, altresì, di fattispecie non riconducibili alla mancanza di giustificazione del licenziamento ai sensi dell’art. 3, co.2, in quanto le situazioni inquadrabili in siffatte norme civilistiche si connotano per una diversa categoria di disvalore giuridico, di volta in volta consistente nella contrarietà a norme imperative (art. 1418 c.c.), nell’illiceità della causa (art. 1343 c.c.), nell’illiceità del motivo (art. 1345 c.c.) ed, infine, nella fronde alla legge (quando l’atto
«costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma im- perativa»: art. 1344 c.c.). È del tutto evidente che queste norme civilistiche non possono essere invocate, ai fini di un surrettizio recupero della tutela reale, a fronte di un licenziamento rispetto al quale risulti accertato che non ricorrono gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo, giacché tali fattispecie di licenzia- mento ingiustificato sono espressamente regolate dal campo di applicazione dell’art. 3, co.1, onde «non si può invocare la frode alla legge o la illiceità della causa in quanto quell’atto non elude alcuna finalità sostanziale della legge stessa» (43). Il problema è un altro: quid delle situazioni in cui, a prescindere dall’accertamento dell’as- senza di giusta causa o giustificato motivo, l’atto di recesso integra i (diversi) estremi della nullità civilistica? Alcuni esempi chiari- ranno la questione. Si prenda un licenziamento intimato per causa di trasferimento d’azienda in violazione dell’art. 2112 c.c.: que- st’ultimo non prevede «espressamente» la nullità del licenziamento,
(43) Così, correttamente, X. XXXXXXXX, op. cit.
ma è evidente, pena il ridurre il disposto ad una norma “imper- fetta” e quindi del tutto inutile, che la sua violazione determina la nullità del recesso per contrarietà a norma imperativa (art. 1418 c.c.), essendo prevista per legge l’inconfigurabilità quale motivo di licenziamento del mutamento soggettivo della parte datoriale (44). In tal caso non si discute di un licenziamento per il quale «risulta accertato che non ricorrono gli estremi» della giusta causa o del giustificato motivo ma di un’autonoma fattispecie di licenziamento vietato dalla legge, pur senza previsione di un’espressa sanzione di nullità; onde sarebbe del tutto errato, sotto il profilo sistematico, ricondurre tale fattispecie al campo di applicazione dell’art. 3, co.
1. Lo stesso dicasi con riferimento alla nullità sancita dall’art. 1344
c.c. (frode alla legge): sposando la tesi dell’assorbimento di ogni ipotesi di nullità del recesso non «espressamente» prevista dalla legge nell’alveo della tutela indennitaria, si giungerebbe alla con- clusione per cui il licenziamento del lavoratore in prova posto in essere al solo fine di eludere la normativa in materia di assunzioni obbligatorie — fattispecie qualificata dalla giurisprudenza come licenziamento in frode alla legge (45) — rimarrebbe sanzionato con una semplice indennità, come previsto dall’art. 3, co. 1, d.lgs. n. 23, e non con la reintegrazione; il che appare incongruo, posto che, anche in tal caso, il campo di applicazione dell’art. 3, co.1, non rileva, trattandosi di un’ipotesi di nullità civilistica e non di mancanza degli «estremi» del licenziamento (giustificato motivo o per giusta causa). Ancora: si consideri il caso del lavoratore licen- ziato prima di un trasferimento d’azienda a cui sia seguita la sua immediata riassunzione da parte del cessionario, con conseguente aggiramento sia della regola della responsabilità solidale, sia del diritto del dipendente alla conservazione del medesimo tratta- mento economico. Anche in tal caso sarebbe del tutto errato
(44) Cass. 28 febbraio 2012, n. 3041, secondo la quale «in un fatto come quello odierno, vale a dire di licenziamento basatosi unicamente sul fatto del trasferimento, deve riconoscersi la nullità del recesso per violazione della norma imperativa contenuta nell’art. 2112 c.c. comma 4; tale nullità comporta la prosecuzione del rapporto nei confronti del cessionario»; nello stesso senso già Xxxx. 6 marzo 1998, n. 2521; T. Firenze 29 novembre 2001, D&L, 2002, 390. In dottrina cfr. X. XXXXXXXXX, Il licenziamento individuale e collettivo, III ed., Cedam, 2006.
(45) Cass. 27 ottobre 2010, n. 21965, GDir, 2010, 49-50.
pretendere di escludere il rimedio civilistico della nullità per frode alla legge (art. 1344 c.c.), e di applicare invece l’art. 3, co. 1, per il semplice motivo che il comportamento datoriale qui non rileva sotto il profilo della presenza degli «estremi» del licenziamento (giusta causa o giustificato motivo) ma sotto un diverso un profilo di invalidità, cui consegue una diversa tecnica di tutela. Passando, poi, alla categoria del «motivo illecito» (art. 1345 c.c.), si pensi al caso di un licenziamento intimato a causa della domanda o della fruizione dei congedi parentali o familiari, ipotesi comunemente riconducibile al motivo illecito determinante. Sarebbe incongruo, in un caso di tal fatta, ritenere applicabile la tutela indennitaria dell’art. 3, co. 1, riconoscendo al licenziamento piena operatività quanto ad effetti: il recesso è invece radicalmente nullo perché il disvalore dell’atto attiene non già alla mancanza di una giustifica- zione secondo i parametri della giusta causa o del giustificato motivo (ove opera il campo di applicazione dell’art. 3, co. 1), bensì ai motivi e agli interessi datoriali per cui l’atto è stato compiuto. In tutti questi casi, quindi, non si può certo sostenere l’assor- bimento delle relative fattispecie nella disciplina di cui all’art. 3, co. 1, che riguarda l’inesistenza degli estremi legittimi di licenziamento, ma non le ipotesi in cui il motivo o la causa dell’atto sono viziate da nullità; onde troverà applicazione la cd. tutela reale di diritto co- mune, il cui campo di applicazione, confluito nell’art. 18, co. 1 (così come novellato dalla l. n. 92/2012) (46), rivive oggi al di fuori dei casi
di nullità «espressamente» previsti dalla legge (art. 3, co. 1).
(46) Con la riforma Fornero sono pressoché scomparse le ipotesi sino a tal momento assoggettate alla c.d. tutela reale di diritto comune, ovvero quel regime di tutela che trovava applicazione, a prescindere dai requisiti dimensionali dell’azienda, nei casi di nullità, rectius inefficacia, del licenziamento, con conse- guente diritto del lavoratore alla ricostituzione dello status quo ante il recesso datoriale. Tale regime di tutela permetteva dunque di porre nel nulla il licenzia- mento, tamquam non esset, e ricostituire il rapporto di lavoro senza soluzione di continuità, con conseguente diritto del lavoratore illegittimamente licenziato alla corresponsione delle retribuzioni medio tempore maturate. In tal maniera l’ordi- namento giuridico apprestava una tutela sostanzialmente reintegratoria anche nei confronti di quei dipendenti che, per difetto dei requisiti dimensionali del proprio datore, in ipotesi di nullità del licenziamento avrebbero potuto godere della tutela meramente indennitaria di cui all’art. 8, l. n. 604/1966. Si è così creato un diverso regime di tutela, nella sostanza di carattere reale ma distinto da quello di cui all’art. 18 St. lav. e definito “di diritto comune” perché assoggettato alle generali norme civilistiche in tema di nullità ed inefficacia. Venivano ricondotte entro l’alveo di tale regime sanzionatorio le ipotesi di licenziamento nullo a titolo
In sostanza, non è affatto detto che la nuova formulazione della norma sia più restrittiva e che non consenta l’impiego delle categorie civilistiche generali (47). Invero, affermare il carattere di “unicità” del rimedio della reintegrazione e dedurne l’irrilevanza
«di altri principi generali utilizzabili allo stesso fine» contiene un evidente salto logico: un conto è affermare la generalità del rimedio indennitario (che è indiscutibile), altra cosa è estendere quel rime- dio (che riguarda unicamente i casi di mancanza di giusta causa o giustificato motivo ex art. 3, l. n. 604/1966) a fattispecie che nulla hanno a che vedere con la mancanza di giustificazione, riguar- dando invece ipotesi di nullità. L’errore di impostazione di questa visione è palese: si confonde il rimedio che disciplina la mancanza di giustificazione (indennità) con il rimedio civilistico (nullità) che si applica quando il recesso è riconducibile ad un uso distorto del potere, volto cioè a violare una norma imperativa, ovvero a eludere una disposizione inderogabile di legge.
Questa prospettiva potrebbe aprire qualche breccia perfino in relazione alla apparente impossibilità di applicare la tutela reinte- gratoria in caso di licenziamento comminato per giustificato motivo oggettivo, benché del tutto inesistente (48). Non dobbiamo trascu- rare, infatti, che la riforma nulla ha innovato in merito al principio di giustificazione del recesso, tale per cui il licenziamento rimane nella sua struttura logico-giuridica un atto causale, necessariamente
esemplificativo: per motivo illecito, in frode alla legge, intimato a causa di matrimonio intimato nel periodo di interdizione per maternità, inefficace per difetto di forma, inefficace per omessa comunicazione dei motivi. Con la riscrit- tura dell’art. 18 St. lav., avvenuta ad opera della l. n. 92/2012, tutte le ipotesi precedentemente prima assoggettate al cono d’ombra della suddetta tutela reale di diritto comune, sono state ricondotte nella previsione dell’art. 18, co. 1, St. lav. in forza della clausola che dispone l’applicazione della tutela reale piena, oltre che nelle ipotesi tipizzate dalla norma, anche negli «altri casi di nullità previsti dalla legge».
Da tale circostanza ne è conseguita la sostanziale scomparsa della tutela reale di diritto comune, in ragione del fatto che tutte le suindicate ipotesi sono state ricondotte nell’art. 18, co. 1, St. lav., ad eccezione del difetto di motivazione che è sanzionato solo con la tutela indennitaria (art. 18, co. 6, St. lav.). Cfr. in tal senso
X. XXXXXXXXX, Breviario di diritto del lavoro, Xxxxxxxxxxxx, 2012, 362 ss. secondo il quale le ipotesi di motivo illecito, frode alla legge nonché altre fattispecie di nullità del recesso vengono ricondotte al co. 1 dell’art. 18 St. lav.
(47) Per un’ampia trattazione del tema cfr. X. XXXXX, La tutela reintegra- toria per i nuovi assunti tra novità e conferme, in Contratto a tutele crescenti e Naspi, cit., 83 ss.
(48) Cfr. X. XXXXXXXX, op. cit.
sorretto da un giustificato motivo oggettivo (art. 3, l. n. 604/1966): onde la magistratura continuerà nella propria attività di controllo circa la sussistenza di valide ragioni economiche ed organizzative, in mancanza delle quali il recesso potrebbe dissimulare un motivo pre- testuoso o fraudolento, che merita la riqualificazione del vizio e della relativa sanzione. Come dire che il controllo dei motivi del licenzia- mento potrebbe continuare a veicolare l’opzione reintegratoria al- meno in quei casi in cui il giudice accerti, su domanda del lavoratore, la natura “occulta” del recesso (49), ovvero se il licenziamento as- sume le caratteristiche della “pretestuosità”, espressione sintetica volta a designare «che vi è stato da parte datoriale un uso distorto del potere di licenziamento, ossia un grave abuso del potere di li- cenziare, ossia una sorta di abuso del diritto» (50). Secondo la Cas- sazione, che ne ha fatto applicazione nel caso Renault Italia, con tale espressione ci si riferisce al comportamento del soggetto che, pur in assenza di divieti formali, eserciti le proprie prerogative con moda- lità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti (51). È questo il caso del datore che attraverso un recesso
(49) In termini, seppure con riferimento alla disciplina dell’art. 18 nella versione novellata dalla l. n. 92/2012, X. XXXXXX, Licenziamenti: la metamorfosi della tutela reale, in Commentario alla riforma Fornero, a cura di X. XXXXXXX - X. XXXXXXXX, Xxxxx, 2012, 32; X. XXXXXXXX, Giusta causa e giustificato motivo dopo la riforma dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, CSDLE, It, n. 165/2012, 24.
(50) Cfr. X. XXXXXX - X. XXXXXX, Il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo cit., 226, il corsivo è mio; l’argomento degli AA. è stato svolto con riferimento alla disciplina introdotta con la l. n. 92/2012, ma il nucleo concettuale del ragionamento rimane valido anche con riferimento alla disciplina introdotta con il d.lgs. n. 22/2015.
(51) «Ricorrendo tali presupposti, è consentito al giudice di merito sinda- care e dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto, oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall’esistenza di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò costituisca una ingerenza nelle scelte economiche dell’individuo o dell’imprenditore, giacché ciò che è censurato in tal caso non è l’atto di autonomia negoziale, ma l’abuso di esso. (In applicazione di tale principio, è stata cassata la decisione di merito la quale aveva ritenuto insindacabile la decisione del concedente di recedere ad nutum dal contratto di concessione di vendita, sul presupposto che tale diritto gli era espressamente riconosciuto dal contratto)» (Cass., Sez. III, 18 settembre 2009, n.
del tutto sprovvisto di qualsiasi giustificazione obiettiva — in cui, ad esempio, si adduce in modo inveritiero una soppressione del posto in realtà insussistente —, artatamente impiega il simulacro della giustificazione per perseguire fini diversi e ulteriori rispetto a quelli consentiti.
Il giudice, inoltre, potrebbe valorizzare la distinzione tra un co- mune vizio di illegittimità del recesso (difetto di motivazione, in- sussistenza del giustificato motivo) e il vizio consistente nell’aver in mala fede esternato un motivo oggettivo del tutto pretestuoso, anche indipendentemente dalla fattispecie della frode alla legge o del mo- tivo illecito determinante. Tale possibilità non può certo essere esclusa dalla riforma del Jobs Act, che, pur negando in caso di man- canzadigiustificatomotivooggettivoil rimediodellareintegrazione, non elimina, di converso, la possibilità della diversa qualificazione giudiziale dell’atto di recesso; in tal caso, in base alle regole generali sull’onere della prova (art. 2697 c.c.) spetterà al lavoratore dimo- strare che l’atto datoriale è fondato su motivi diversi e pretestuosi, ad esempio lato sensu disciplinari (benché occultati).
LA DISCIPLINA DEL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE NEL CONTRATTO A TUTELE
CRESCENTI. PROFILI CRITICI. — Riassunto. Il saggio analizza alcuni profili interpretativi della nuova disciplina del licenziamento nell’ambito del contratto a tutele crescenti (d.lgs. n. 23/2015), concentran- dosi in particolare sulla misura dell’indennizzo, che non consente di ricondurre il rimedio apprestato nell’alveo della tutela per equivalente; sulla nozione di fatto materiale, espressione atecnica impiegata dal legislatore al fine di limitare la discrezionalità valutativa del giudice ai fini della applicazione della tutela reintegratoria; sul tema della ripartizione dell’onere della prova; ed infine sulla questione del licenziamento discriminatorio, nullo e per motivo pretestuoso.
RULES FOR INDIVIDUAL DISMISSAL UNDER THE ITALIAN “CONTRATTO A TU-
TELE CRESCENTI”. CRITICAL POINTS. — Summary. The paper analyzes some problems of inter- pretation concerning the new regulations for dismissal under Legislative decree n. 23/2015. Specifically, the paper focuses on the amount of compensation due, which may not be considered to come within the remedies by equivalent measure; the notion of “material fact”, a non-technical expression used by the legislator to limit the Court’s discretion with regard to the burden of proof; and finally the topic of discriminatory, void and specious dismissal.
20106, MGC, 2009, 9, 1331); su questa sentenza cfr. X. XXXXXXX, Qui suo iure abutitur neminem laedit?, Contratto e impresa, 20122, 311 ss. e, per un cenno, X. XXXXXX, La nuova disciplina dei licenziamenti ingiustificati alla prova del diritto comparato, in Le discipline dei licenziamenti in europa cit., 231.