Le tutele del lavoratore licenziato durante il periodo
Le tutele del lavoratore licenziato durante il periodo
di prova
Requisiti di validità al momento della stipulazione e vizi
del licenziamento
CHE COS’ È IL PATTO DI PROVA
Durante il periodo di prova entrambe le parti del rapporto di lavoro, e dunque sia il lavoratore sia il datore di lavoro, possono determinare la cessazione del rapporto, senza obblighi di preavviso e senza la necessità, per il datore di lavoro, di giustificare il licenziamento, in deroga alle regole generali.
Lo stabilisce l’art. 2096 c.c. secondo cui «durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso».
Lo scopo della norma è quello di consentire a entrambe le parti di disporre di un periodo di tempo per valutare se il rapporto soddisfa i loro interessi e, dal punto di vista del datore di lavoro, per valutare l’attitudine professionale del lavoratore. Secondo la giurisprudenza, infatti, il periodo di prova è funzionale
«ad attuare un esperimento attraverso il quale, sia il datore di lavoro, sia il lavoratore possono saggiare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, verificando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto» (Xxxx. 9 marzo 2020, n. 6633; Cass. 7 marzo 2013, n. 5677;
Cass. 30 luglio 2009, n. 17767).
Poiché la regola della libera licenziabilità del lavoratore durante il periodo di prova rappresenta una deroga al generale principio, avente anche copertura
costituzionale, per cui il licenziamento deve essere giustificato, la legge prevede una serie di limiti alla facoltà per il datore di lavoro di licenziare liberamente il lavoratore.
Alcuni di questi limiti trovano applicazione al momento della sottoscrizione del patto di prova, e la loro violazione determina la nullità originaria del patto stesso e, conseguentemente, l’invalidità del licenziamento poi intimato per mancato superamento della prova.
Altri limiti invece concernono la facoltà per il datore di lavoro di procedere al licenziamento per mancato superamento della prova anche a fronte di un patto di prova validamente stipulato, non potendo il licenziamento “libero” del lavoratore in prova trasformarsi in un licenziamento “arbitrario”.
Ma andiamo con ordine.
PRIMO REQUISITO DI VALIDITÀ DEL PATTO DI PROVA: LA STIPULAZIONE IN FORMA SCRITTA CONTESTUALE ALL’ASSUNZIONE
Innanzitutto, la legge stabilisce che il patto di prova (e cioè la clausola del contratto di lavoro che contiene la previsione del periodo di prova e ne prevede la durata) debba risultare da atto scritto. In assenza di patto scritto, dunque, il datore di lavoro non potrà avvalersi della facoltà di licenziare per mancato superamento della prova.
La giurisprudenza ha poi precisato che il requisito della forma scritta deve
«deve sussistere sin dall’inizio del rapporto, senza alcuna possibilità di equipollenti o sanatorie», con la conseguenza che un patto di prova sottoscritto a rapporto già instaurato è radicalmente nullo (Cass. 22 ottobre 2010, n. 21758, che ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto la nullità del patto di prova sottoscritto a distanza di alcuni giorni dall’assunzione; nello stesso senso Xxxx. 26 luglio 2002, n. 11122; Cass. 14 aprile 2001, n. 5591, e, di recente Trib. Milano 21 gennaio 2021, ottenuta da Legalilavoro e disponibile nella sezione “Approfondimenti” del sito xxx.xxxxxxxxxxxx.xx).
SECONDO REQUISITO DI VALIDITÀ: L’INDICAZIONE SPECIFICA DELLE MANSIONI
Il patto di prova apposto al contratto di lavoro deve non solo risultare da atto scritto, ma contenere anche la specifica indicazione delle mansioni da espletarsi, e più in generale dell’oggetto della prova. Infatti, la possibilità per il lavoratore di impegnarsi secondo un programma ben definito in ordine al quale poter dimostrare le proprie attitudini e la facoltà del datore di lavoro di esprimere la propria valutazione sull’esito della prova, presuppongono che questa debba effettuarsi in relazione a compiti esattamente identificati sin dall’inizio (Xxxx. 10 ottobre 2006, n. 21698; in senso conforme, più recentemente: Trib. Roma 2 ottobre 2018, n. 7198; Trib. X. Xxxxx Xxxxx Vetere 22 maggio 2018, n. 1413).
Secondo i consolidati orientamenti di legittimità «il patto di prova apposto al contratto di lavoro deve non solo risultare da atto scritto, ma contenere anche la specifica indicazione delle mansioni da espletare, atteso che la facoltà del datore di lavoro di esprimere la propria insindacabile valutazione sull’esito della prova presuppone che questa debba effettuarsi in ordine a mansioni esattamente identificate ed indicate» (Cass. 13 aprile 2017, n. 9597; Cass. 19
agosto 0000, x. 00000; Trib. Roma, 2 ottobre 2018, n. 7189 e Trib. Milano 8
aprile 2017, n. 730).
Secondo alcune decisioni è sufficiente il richiamo alla qualifica di inquadramento o alla posizione aziendale, ma ciò solo alla condizione che da tali indicazioni, con l’ausilio delle declaratorie professionali, si possa pervenire all’individuazione delle mansioni oggetto di esperimento. Tuttavia, ai fini della specifica indicazione delle mansioni oggetto di prova, il generico riferimento al livello di inquadramento del Ccnl di settore, nel caso in cui comprenda molteplici profili professionali, non è sufficiente, in quanto privo di specificità (Trib. Milano 18 settembre 2006).
Il riferimento al sistema classificatorio della contrattazione collettiva è sufficiente a integrare il requisito della specificità dell’indicazione delle mansioni del lavoratore in prova solo se, rispetto alla scala definitoria di
categorie, qualifiche, livelli e profili professionali, il richiamo contenuto nel patto di prova sia fatto alla nozione più dettagliata (cfr. Cass. 13 aprile 2017, n. 9597).
TERZO REQUISITO DI VALIDITÀ: L’EFFETTIVA FUNZIONALITÀ DEL PATTO
Poiché, come si è visto, la funzione del periodo di prova è quella di consentire alle parti di “conoscersi” a vicenda, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che non è consentita la stipulazione di un patto di prova quando tra le parti sia già intervenuto in precedenza un rapporto di lavoro avente ad oggetto le medesime mansioni, anche se con formule contrattuali diverse.
La giurisprudenza è consolidata nell’affermare che «nel lavoro subordinato, il patto di prova tutela l’interesse di entrambe le parti a sperimentarne la convenienza, sicché è illegittimamente stipulato ove la suddetta verifica sia già intervenuta, con esito positivo, per le stesse mansioni e per un congruo lasso di tempo» (Cass. 17 luglio 2015, n. 15059; più di recente Cass. 13 novembre 2018, n. 29193; Cass. 11 luglio 2018, n. 18268).
Sulla base di tal principio, è stato affermato che «deve ritenersi illegittimamente apposto un patto che non sia funzionale alla suddetta sperimentazione, per essere questa già intervenuta con esito positivo mediante lo svolgimento di un piano di inserimento professionale avente a oggetto le medesime mansioni» (Xxxx. 17 novembre 2008, n. 27330), nonché che «in caso di successione di contratti di lavoro di diversa natura (contratto di lavoro subordinato a tempo determinato il primo; contratto di lavoro a tempo indeterminato il secondo), il patto di prova apposto al secondo contratto è nullo laddove l’esperimento riguardi le medesime mansioni già espletate dal lavoratore in costanza di contratto di lavoro a termine» (Cass. 21 marzo 2017, n. 7167).
Più in generale, la giurisprudenza di merito non ha dubitato che «ai sensi dell’art. 2096 c.c., il patto di prova sottoscritto dopo che il lavoratore si è già stabilmente inserito nell’organizzazione del datore di lavoro con assoggettamento al potere direttivo del datore di lavoro è nullo con conseguente illegittimità del recesso» (Trib. Milano 12 giugno 2009).
Alla stessa conclusione la giurisprudenza di legittimità era giunta in riferimento alla fattispecie del distacco, reputando che il fatto dell’intervenuta sperimentazione con esito positivo del contratto «può essere provato anche per presunzioni, essendo desumibile dalla sussistenza di un precedente rapporto di lavoro tra le parti, o, come nella specie, dall’avere in precedenza il lavoratore prestato per un congruo lasso di tempo la propria opera per il datore di lavoro, sia pure in seguito a comando disposto dal precedente datore di lavoro» (Cass. 7 dicembre 1998, n. 12379).
Più di recente, è stata riconosciuta l’illegittimità del patto di prova anche nell’ambito di un rapporto di lavoro che era stato preceduto da un rapporto di somministrazione di lavoro (App. Roma, 23 giugno 2017, n. 3386, che ha attribuito rilievo al fatto che «l’odierna appellante aveva dedotto di avere svolto sempre mansioni di addetta alla segreteria, in tutti i contratti che si sono succeduti, ivi compreso quello di somministrazione di lavoro a termine»).
PRIMO CASO DI INVALIDITÀ DEL LICENZIAMENTO IN PRESENZA DI UN PATTO DI PROVA VALIDO: L’INADEGUATEZZA DELLA DURATA
L’art. 2096 prevede che le parti sono tenute «a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova», e cioè ad adoperarsi affinché la prova sia effettiva.
Da tale regola la giurisprudenza fa discendere il corollario che è illegittimo il licenziamento intimato per mancato superamento della prova se non sia trascorso un sufficiente lasso di tempo tra l’inizio della prova e il recesso.
In tal senso si era posta da tempo già la Corte Costituzionale (Corte cost. 189/1980), secondo cui la legittimità del licenziamento «può efficacemente essere contestato dal lavoratore quando risulti che non è stata consentita, per la inadeguatezza della durata dell’esperimento o per altri motivi, quella verifica del suo comportamento e delle sue qualità professionali alle quali il patto di prova è preordinato».
È noto che «l’esperimento delle attività oggetto di prova deve essere svolto per un periodo di tempo sufficiente e adeguato in relazione alla necessità di
consentire a entrambe le parti di verificare l’interesse alla prosecuzione del rapporto» (Trib. Milano 4 giugno 2007; Trib. Pistoia 18 aprile 2011, n. 115).
In questo senso, anche di recente è stata accertata l’inadeguatezza di un periodo di prova durato appena 7 giorni di lavoro effettivo, su un totale di 60 giorni di periodo di prova previsti nel relativo patto (Trib. Milano 11 giugno 2021, che ha dato ragione al lavoratore difeso da Legalilavoro).
SECONDO CASO DI INVALIDITÀ DEL LICENZIAMENTO: SUSSISTENZA DI UN MOTIVO ILLECITO
Il licenziamento intimato durante il periodo di prova è poi illegittimo in tutti i casi in cui il vero motivo alla base del licenziamento assuma carattere illecito secondo l’ordinamento (come nei casi del licenziamento discriminatorio e ritorsivo: su cui v. la precedente scheda a cura di Legalilavoro xxx.xxxxxxxxxxxx.xx/XXXX/000000).
E infatti la giurisprudenza è consolidata nell’affermare che «la facoltà di recesso prevista dal comma 3 dell’art. 2096 c.c. soggiace al limite -oltre quello temporale dell'adeguatezza della durata della prova- della mancanza di un motivo illecito» (Cass. 10 ottobre 2006, n. 21698; Cass. 1 dicembre 1992, n. 12814) e che «il licenziamento durante il periodo di prova rientra nella cosiddetta area della recedibilità acausale in quanto il datore è titolare di un diritto potestativo il cui esercizio legittimo non richiede giustificazione. Tuttavia non può ammettersi che l’esercizio del diritto potestativo riconosciuto al datore di lavoro possa risolversi nel mero arbitrio del suo titolare, dal momento che l’ordinamento, comunque, assegna garanzia costituzionale al diritto di non subire un licenziamento arbitrario. Ne deriva che l’atto di recesso del datore dal rapporto di lavoro, in quanto atto unilaterale di volontà negoziale, è viziato, se l’agente vi sia determinato esclusivamente per un motivo illecito (art. 1345 cod. civ.)» (Trib. Trento 6 febbraio 2018).
TERZO CASO DI INVALIDITÀ: SUSSISTENZA DI UN MOTIVO DI LICENZIAMENTO ESTRANEO ALL’ESPERIMENTO DELLA PROVA
La giurisprudenza ha poi riconosciuto l’illegittimità del licenziamento intimato formalmente per mancato superamento della prova ma in realtà per ragioni del tutto estranee all’esito della prova stessa.
È il caso della recente sentenza del Tribunale di Milano del 5 febbraio 2021, ottenuta da Legalilavoro e già oggetto di specifico approfondimento (xxx.xxxxxxxxxxxx.xx/XXXX/000000), la quale ha riconosciuto che cinque licenziamenti intimati formalmente per mancato superamento della prova poco prima del lockdown del 2020 fossero viziati da uno sviamento causale, essendo esclusivamente finalizzati a licenziare i lavoratori, per evitare di doverli tenere in forza durante un periodo di prevedibile contrazione dell’attività.
CONCLUDENDO
Anche il licenziamento intimato per mancato superamento del periodo di prova può essere impugnato, in tutti quei casi in cui il patto di prova non sia stato validamente stipulato e in cui il potere di recesso del datore di lavoro non sia stato correttamente esercitato, pur in presenza di un patto di prova valido. Davanti a un licenziamento per mancato superamento della prova occorre quindi esaminare con attenzione, e con l’assistenza di uno specialista, tutte le circostanze del caso concreto, per valutare eventuali lesioni dei diritti del
lavoratore.
a cura di Xxxxxxx Xxxxxxxxx
Legalilavoro Milano