Caratteri generali e fonti delle obbligazioni
Capitolo I
Caratteri generali e fonti delle obbligazioni
1. La nozione e la pluriforme funzione dell’obbligazione
Il termine “obbligazione” deriva dal vocabolo latino obligatio, la cui etimologia racchiude l’essenza stessa dell’istituto: ob (verso) e ligare (legare). Secondo la definizione contenuta nel Corpus Iuris Civilis di Giustiniano (“obligatio est iuris vinculum, quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei secundum nostrae civitatis iura”) l’obbligazione è un vincolo giuridico, in forza del quale un soggetto (debitore) è tenuto a effettuare una prestazione di dare, fare o non fare nei confronti di un altro soggetto (creditore).
L’obbligazione, in quanto vincolo, “costringe” il debitore a tenere il comportamento in essa dedotto, per soddisfare l’interesse creditorio, e correlativamente attribuisce al creditore rimasto insoddisfatto il diritto di agire in giudizio per la realizzazione coatta del proprio credito.
L’obbligazione può allora essere definita come lo specifico dovere giuridico in forza del quale un soggetto, detto debitore, è tenuto ad una determinata prestazione patrimoniale per soddisfare l’interesse di un altro soggetto, detto creditore. Oltre a designare la posizione debitoria, il termine obbligazione indica anche il rapporto che intercorre tra debitore e creditore. Questo rapporto prende il nome di rapporto obbligatorio.
Il rapporto obbligatorio è costituito dalla situazione attiva in capo al creditore (denominata diritto di credito) e da quella passiva del debitore (denominata debito, ovvero obbligazione in senso stretto); l’oggetto dell’obbligazione consiste nella prestazione, cioè nel comportamento al quale è tenuto il debitore.
1.1. L’obbligazione in funzione traslativa e di scambio
Il codice del 1865, ad imitazione del modello francese, includeva l’obbligazione tra i modi di acquisto della proprietà, attribuendole un ruolo centrale nell’ambito degli strumenti individuati dall’ordinamento per realizzare la funzione traslativa del diritto di proprietà. Il ruolo dell’obbligazione, nel previgente codice, rispecchiava il contesto socioeconomico del tempo, in cui la ricchezza coincideva con la proprietà e, quindi, con il diritto di proprietà: l’obbligazione, costituendo il mezzo principale di trasferimento del diritto dominicale, era deputata ad assolvere una funzione strumentale e ancillare rispetto al diritto di proprietà.
Il Codice civile vigente non include più le obbligazioni tra i modi di acquisto della proprietà. L’innovazione sistematica rispetto al codice del 1865 merita di essere sottolineata, poiché denota il nuovo ruolo e la diversa funzione che il legislatore ha conferito all’obbligazione, in un mutato contesto socioeconomico che giustifica la scelta innovatrice del legislatore.
Lo sviluppo industriale e finanziario, infatti, ha determinato una trasformazione del concetto stesso di ricchezza, incentrato non più sulla proprietà, ma sul bene-denaro e sulle attività economiche e finanziarie idonee a produrlo. La ricchezza ha così perduto la sua originaria dimensione statica, assumendone una dinamica (c.d. mobilizzazione della ricchezza). Anche l’obbligazione, di conseguenza, ha assunto una configurazione nuova: non più strumento di trasferimento della proprietà, ma forma di esplicazione dell’attività economica e finanziaria, basata sul credito e sui rapporti obbligatori.
La rinnovata funzione economica dell’obbligazione si incentra sullo scambio di beni, servizi e utilità: una funzione, quindi, distributiva e allocativa della ricchezza (obbligazione di scambio o contrattuale).
La nuova dimensione assunta dall’obbligazione si è riflessa nella sistematica del Codice civile vigente, il quale, a differenza del codice del 1865, disciplina l’obbligazione non più in relazione (e in funzione) della proprietà, ma in maniera autonoma (artt. 1173- 1320).
L’autonomia conquistata dall’obbligazione, sotto il profilo sistematico, è il chiaro segno che il rapporto obbligatorio costituisce la forma tipica dei rapporti privati.
1.2. L’obbligazione come mezzo di tutela: la funzione risarcitoria e indennitaria
Nella sistematica del Codice civile l’obbligazione costituisce anche mezzo di tutela della persona e dei suoi beni contro atti illeciti, lesivi dell’altrui sfera giuridico-patrimoniale: è l’obbligazione risarcitoria.
L’obbligazione assume qui una funzione conservativa, insieme riparatoria e ripristinatoria: tende a preservare l’assetto preesistente all’ingiusta lesione, attraverso la rimozione delle conseguenze dannose derivanti dall’altrui illecita interferenza.
All’obbligazione risarcitoria con funzione conservativa si affianca l’obbligazione indennitaria, con una funzione solo in parte analoga alla prima: quella indennitaria, a differenza dell’obbligazione risarcitoria, origina da un fatto dannoso non avente carattere di illecito. Nel nostro ordinamento, infatti, il danno non necessariamente è la conseguenza di un atto non consentito dall’ordinamento. Vi sono conseguenze dannose che derivano da atti autorizzati dall’ordinamento, e quindi leciti. Si verifica, allora, questa precisa situazione: il danno, pur lesivo della sfera giuridica altrui (e, quindi, contra ius) non è cagionato da un comportamento illecito (non iure), ma, al contrario, è conseguenza di un atto autorizzato dall’ordinamento (iure). L’autorizzazione a compiere l’atto lecito dannoso, tuttavia, non esclude la necessità di tutelare la sfera giuridica del soggetto danneggiato. La tutela si realizza attraverso lo strumento dell’indennizzo: l’ordinamento compensa il danno obbligando l’autore a corrispondere un indennizzo al danneggiato.
L’obbligazione indennitaria, a differenza di quella risarcitoria, è finalizzata a ristabilire una situazione di equilibrio dopo che si è verificato il sacrificio dell’interesse altrui mediante un atto consentito dall’ordinamento.
La ratio dell’obbligazione indennitaria, a differenza di quella risarcitoria, si può rinvenire in un fondamento etico ed equitativo: il principio di giustizia distributiva, che mira a riequilibrare una situazione di disequilibrio tra danneggiato e danneggiante legittimata dall’ordinamento.
1.3. L’obbligazione come reazione a uno spostamento patrimoniale non giustificato: la funzione restitutoria
All’obbligazione è assegnata un’ulteriore funzione, correlata al duplice principio della necessaria causalità degli spostamenti patrimoniali (art. 2041 c.c.) e della ripetibilità delle prestazioni adempiute senza essere dovute (art. 2033 c.c.): l’ordinamento non ammette trasferimenti di ricchezza che non siano sorretti da una giustificazione causale o che siano stati effettuati indebitamente. In relazione a tali tipologie di spostamenti patrimoniali, l’obbligazione assolve una funzione correttiva, sostanziandosi: i) nel dovere del soggetto arricchitosi senza causa di indennizzare il soggetto danneggiato (in questo caso l’obbligazione continua ad assolvere una funzione indennitaria); ii) nel dovere del soggetto che ha ricevuto la prestazione indebita di restituirla (in questo caso, l’obbligazione assolve una funzione tipicamente e strettamente «restitutoria»).
1.4. La serie aperta delle funzioni dell’obbligazione: la protezione
La tassonomia delle diverse funzioni (scambio, risarcimento, indennizzo, restituzione) che l’obbligazione può assolvere è destinata inevitabilmente ad assumere valenza relativa e solo descrittiva. E ciò in quanto le obbligazioni costituiscono una serie
«aperta», essendo altrettanto aperta la loro fonte. Esse, infatti, possono derivare da ogni fatto ad atto idoneo a produrle secondo l’ordinamento giuridico (art. 1173 c.c.). L’elasticità della formula utilizzata dal legislatore nell’individuare la fonte dell’obbligazione si riflette sulla funzione dell’obbligazione stessa, che tende anch’essa all’atipicità. Ciò rende l’obbligazione un istituto plastico, adattabile alle diverse esigenze poste dalla prassi economica e dalle trasformazioni del tessuto sociale.
L’esempio più evidente è rappresentato dall’obbligazione con funzione di protezione: su un determinato soggetto può gravare un obbligo il cui contenuto si sostanzia nell’utilizzo di un’adeguata diligenza nell’espletamento della propria attività tecnica o professionale, tale da evitare il verificarsi di pregiudizi in capo ad un altro soggetto con cui si sia instaurata una relazione, anche al di fuori di un rapporto contrattuale.
Da una situazione di fatto può sorge un dovere di protezione: il soggetto è obbligato a proteggere. È ciò che si verifica nel caso di contatto sociale qualificato (v. amplius infra).
2. La teoria generale: i caratteri strutturali e le dinamiche evolutive dell’obbligazione
Nella teoria generale delle obbligazioni, il rapporto obbligatorio si compone dei seguenti elementi: i) i soggetti (debitore e creditore); ii) il contenuto, rappresentato dal diritto del creditore nei confronti del debitore e dal correlato obbligo del debitore nei confronti del creditore (debito); iii) l’oggetto, ossia la prestazione, che si sostanzia in un comportamento di contenuto positivo (dare o fare) o negativo (non fare).
È in relazione ai primi due elementi (i soggetti e il contenuto) che si percepisce il carattere della relatività dell’obbligazione: il rapporto giuridico che si instaura è
incentrato su un diritto di credito del soggetto attivo, avente natura di pretesa, cui corrisponde un obbligo a carico del soggetto passivo, ossia il dovere di tenere un certo comportamento. La relatività indica la direzione del diritto e dell’obbligo che lega due soggetti determinati: la pretesa del creditore è rivolta verso il debitore, e solo verso il debitore; solo questi, e non altri, è tenuto all’adempimento dell’obbligazione. In caso di inadempimento, la relatività consente l’attuazione coattiva della pretesa solo nei confronti del soggetto passivo.
Il connotato della relatività tende a svanire quando il diritto di credito è leso da atti o comportamenti di soggetti terzi. La tutela del diritto di credito, in questo caso, può essere azionata erga omnes, cioè nei confronti di qualunque soggetto che abbia pregiudicato l’esercizio utile di quel diritto. In ciò si sostanzia la tutela aquiliana del credito, attraverso l’obbligazione risarcitoria. È infine, con riguardo al terzo elemento (l’oggetto) che si percepisce un’ulteriore caratteristica dell’obbligazione. L’oggetto non si esaurisce nell’obbligo primario di prestazione, espressamente previsto e finalizzato alla realizzazione dell’interesse creditorio, o nel corrispondente diritto-pretesa del creditore dedotto in obbligazione. L’oggetto comprende anche doveri secondari di comportamento, strumentali rispetto al dovere primario.
Ma, soprattutto, l’obbligazione si estende a quei doveri, non espressamente dedotti nel rapporto, che derivano dalla clausola generale e precettiva di buona fede di cui all’art. 1175 c.c. Tale clausola, imponendo alle parti del rapporto di comportarsi correttamente, sancisce un obbligo di buona fede oggettiva che opera come fonte di obbligazioni e che conseguentemente determina un’integrazione del contenuto originario del rapporto giuridico, tramite l’emersione di obblighi ulteriori rispetto a quelli che già formano oggetto di quel rapporto. Buona fede oggettiva è sinonimo di reciprocità: il creditore, nel soddisfare il proprio interesse, deve tenere in considerazione l’interesse del debitore; il debitore, nell’eseguire la propria prestazione, deve mirare a soddisfare l’interesse del creditore. Si impone, in questo modo, una interrelazione dell’interesse del creditore con quello del debitore. In ciò si compendia la clausola di reciprocità, che dà attuazione, sul piano civilistico, al principio costituzionale di solidarietà sociale (art. 2 Cost.) e che dà contenuto alla clausola generale di buona fede e correttezza. Essa pone in capo al debitore tutti quegli obblighi idonei a soddisfare l’interesse del creditore; al contempo, la reciprocità è fonte per il creditore di obblighi necessari a tutelare l’interesse del debitore. Tutto ciò in ossequio a un principio cardine
dell’ordinamento, che vieta la soddisfazione egoistica dei propri interessi.
Dalla buona fede, intesa come fonte di obbligazioni, possono sorgere, ad esempio, obblighi di esecuzione di prestazioni non previste, di modifica del comportamento durante l’esecuzione della prestazione, di tolleranza rispetto a modifiche della prestazione che non ne compromettano la sostanziale utilità, di avviso e di informazione, nonché di corretto esercizio di poteri discrezionali. Dalla buona fede può derivare perfino l’inesigibilità della prestazione che forma oggetto dell’obbligazione.
Si percepisce, così, la natura plastica dell’oggetto dell’obbligazione, che si modella sulla specificità del singolo rapporto giuridico che vincola il debitore al creditore.
La buona fede, oltre a integrare e modificare un rapporto obbligatorio già sorto, può divenire essa stessa fonte originaria ed esclusiva di un’obbligazione. Il riferimento principale è agli obblighi di protezione e, in particolare, all’istituto, di origine tedesca, del contatto sociale qualificato. Tale istituto si iscrive nel più ampio contesto di
valorizzazione della clausola generale di buona fede e nella lettura del rapporto obbligatorio come rapporto complesso, volta a superare la semplicistica linearità dello schema creditore-debitore incentrato sul solo obbligo di prestazione.
Per contatto sociale qualificato si intende la relazione, priva di fonte contrattuale, che si instaura tra due soggetti, il primo dei quali confida nell’adempimento di un dovere di diligenza gravante sul secondo in ragione delle sue qualità tecnico-professionali. Il rapporto concretamente instauratosi tra i due soggetti e l’affidamento che legittimamente il primo ripone nei confronti del secondo integrano un fatto idoneo a produrre obbligazioni secondo l’ordinamento giuridico ai sensi dell’art. 1173 c.c. e, in particolare, a generare un obbligo di protezione. Il contenuto di tale obbligo si sostanzia nell’utilizzo di un’adeguata diligenza nell’espletamento della propria attività tecnica o professionale, tale da evitare il verificarsi di pregiudizi in capo al soggetto con cui sia venuto in contatto. Pur in assenza di un sia pur tacito vincolo contrattuale, il soggetto gravato da obblighi di protezione può essere chiamato a rispondere dei danni cagionati dall’inadempimento di quegli obblighi, secondo la disciplina di cui all’art. 1218 c.c.
3. Le fonti dell’obbligazione
L’art. 1173 c.c. individua un trittico di fonti dell’obbligazione: i) il contratto; ii) il fatto illecito; iii) ogni altro atto o fatto idoneo a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico.
La formulazione della norma evoca la tripartizione delle fonti di Xxxx e si distingue invece dalle Istituzioni di Giustiniano e dall’omologa disposizione del codice del 1865 (art. 1097).
L’indicazione delle fonti dell’obbligazione nel contratto, nell’illecito e nelle altre varie fattispecie richiama quasi alla lettera la tripartizione di Gaio (obligationes aut ex contractu nascuntur aut ex maleficio aut proprio quodam iure ex variis causarum figuris) “. Nelle Istituzioni di Giustiniano troviamo invece una quadripartizione delle fonti, in quanto le varie figure diverse dal contratto e dall’illecito sono classificate in quasi-contratti e quasi-delitti. Tale classificazione fu recepita dal codice francese (art. 1101 s., 1371 s., 1382 s.), e passò nel codice italiano del 1865. Questo codice indicava come fonti dell’obbligazione anzitutto la legge e poi il contratto, il delitto, il quasi- contratto e il quasi-delitto (art. 1097).
Il codice previgente operava una penta-partizione delle fonti delle obbligazioni e adottava una terminologia fedele ad un modello di obbligazione che cercava di ricondurre alla volontà privata tutti i vincoli alla libertà individuale. Di qui le ambigue categorie, ignote al diritto romano classico, dei quasi-contratti e dei quasi-delitti, che racchiudevano le obbligazioni derivanti da fonte diversa dalla legge, dal contratto o dell’illecito.
Il quasi-contratto era definito come un fatto volontario e lecito dal quale risulta un’obbligazione verso un terzo o un’obbligazione reciproca tra le parti (art. 1140) Quale fatto volontario lecito il quasi-contratto comprende gli atti giuridici in senso stretto, ossia gli atti giuridici non negoziali (gestione di affari altrui, pagamento d’indebito, ecc.).
Il quasi-delitto, sempre nella concezione accolta dal codice abrogato, è la fattispecie di danno della quale il soggetto risponde pur non integrando un fatto proprio (danno arrecato dai dipendenti, danno derivante da cose in custodia, ecc.).
Il Codice civile vigente, adottando un modello tripartito delle fonti, ha ripudiato le categorie “spurie” del quasi-contratto e del quasi-delitto. La Relazione al Re giustifica il ripudio di quelle categorie anzitutto per la mancanza di una loro base storica, oltre che per l’intrinseca inadeguatezza di una formulazione normativa affidata alla parola
«quasi», nonché per la considerazione che, fuori dei territori del contratto e dell’illecito, i rapporti obbligatori, sul piano delle fonti, resistono a rigidi schemi di classificazione.
Nell’elenco delle fonti contenuto nel codice abrogato compariva, per prima, anche la legge. L’ideologia ed il linguaggio del codice del secolo passato, con il richiamo alla legge nella norma sulle fonti delle obbligazioni, non intendevano esaltare la legge come fonte dei rapporti obbligatori, degradando la volontà dei soggetti dell’autonomia negoziale o dell’autore del fatto dannoso a semplice presupposto di obbligazioni pur sempre legali. Né il legislatore del 1865 aveva inteso istituire una graduatoria delle fonti, con l’intento di collocare la legge, citata per prima dalla norma, al vertice delle fonti stesse. Anche se la legge figurava all’inizio dell’elenco, doveva piuttosto attribuirsi a quella menzione il carattere inverso di una norma «di chiusura», nel senso che trovava giustificazione nella legge ogni vincolo obbligatorio non derivante da contratto o da delitto, né dalle contigue figure del quasi-contratto e del quasi-delitto.
Nella prospettiva del Codice civile vigente, che abbandona l’idea garantista delle libertà private, il riferimento alla legge tra le ‘fonti’ delle obbligazioni avrebbe potuto avere il senso di proclamarne il primato, o di assorbire in essa tutte le altre ‘fonti’, in termini di valutazione politica. Il legislatore si è allora astenuto dal riproporre una formula che avrebbe potuto prestarsi a letture pericolosamente cariche di implicazioni.
L’esclusione della legge dall’elenco delle fonti di cui all’art. 1173 c.c. non significa che un’obbligazione non possa essere imposta dalla legge. Al contrario, l’obbligazione ex lege deve ritenersi implicita nel sistema (e anche per questo una sua previsione espressa nell’art. 1173 sarebbe stata ridondante). Sono numerose, del resto, le ipotesi in cui la legge impone un’obbligazione: si pensi, ad esempio, all’obbligazione degli alimenti (art. 433 ss.), solitamente indicata come figura paradigmatica di obbligazione legale.
Nell’eliminare il riferimento alla legge tra le fonti delle obbligazioni, il legislatore ha menzionato, affianco al contratto e al fatto illecito, ogni altro fatto o atto idoneo a costituire validi vincoli obbligatori «in conformità dell’ordinamento giuridico».
La formula utilizzata dall’art. 1173 c.c. («in conformità dell’ordinamento giuridico») ricorre anche in altre norme del codice, in relazione agli istituti più significativi della disciplina dei rapporti privati, delle prerogative, dei vincoli e dell’attività. Quella stessa formula, infatti, si ritrova nella definizione del contenuto della proprietà con riguardo ai limiti e agli obblighi (art. 832) e nel regime dei contratti atipici per il giudizio sulla meritevolezza degli interessi perseguiti (art. 1322).
La formula «in conformità dell’ordinamento giuridico» – se, all’epoca della codificazione, verosimilmente si risolveva nel riconoscere scarsi spazi a limitati fenomeni di produzione normativa al di fuori della legge, ed in buona sostanza alle norme corporative – in una lettura aggiornata, consente di ricomprendere, nel novero delle fonti delle obbligazioni, princìpi, soprattutto di rango costituzionale, che non si esauriscono o
che trascendono singole proposizioni legislative: gli inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale, la rimozione delle diseguaglianze di fatto, la funzione sociale della proprietà, la sicurezza, la libertà e la dignità della persona umana. Princìpi come quelli menzionati, nell’esemplificazione tratta dall’ordinamento ricostruito nella sua coerente interezza, possono assurgere a fonte non solo di una nuova obbligazione, ma anche di modificazione di un’obbligazione già sorta per effetto di altra fonte.
3.1. L’atipicità
La caratteristica che accomuna le fonti delle obbligazioni, considerate nel loro insieme e nelle singole tipologie enunciate dall’art. 1173 c.c., è l’atipicità.
3.2. Il contratto
Il contratto è una fonte atipica di obbligazioni. Oltre ai contratti tipici, infatti, le parti, nell’esercizio della loro autonomia privata, possono stipulare contratti atipici, con il solo limite della meritevolezza dell’interesse perseguito in conformità dell’ordinamento giuridico (art. 1322 c.c.). Non è un caso – e merita sottolinearlo di nuovo – che sia la prima (il contratto), sia la terza delle fonti delle obbligazioni individuate dall’art. 1173
c.c. (ogni altro fatto o atto idoneo a produrle) attribuiscono alla “conformità all’ordinamento giuridico” forza produttrice di obbligazioni.
L’obbligazione contrattuale è disciplinata dalle norme sull’obbligazione, ma anche dalle disposizioni del contratto in generale e dalla normativa del singolo tipo di contratto (es., appalto).
L’obbligazione che nasce da contratto è un effetto del contratto stesso, un rapporto attraverso il quale si realizza il programma contrattuale.
Anche se derivante dal contratto il rapporto obbligatorio non deve comunque essere confuso con il rapporto contrattuale. Rapporto obbligatorio e rapporto contrattuale esprimono nozioni distinte: l’obbligazione indica in generale il vincolo per cui una prestazione è dovuta da un soggetto ad un altro; il rapporto contrattuale, invece, indica il complesso unitario delle posizioni scaturenti dal contratto.
L’obbligazione derivante dal contratto fa quindi parte del rapporto contrattuale. Ma il contratto, oltre che di effetti obbligatori, può essere fonte di altri effetti: effetti reali, effetti estintivi, soggezioni, poteri.
3.3. Il fatto illecito e il fatto lecito
Atipica è anche la seconda delle fonti delle obbligazioni: l’illecito. La materia dei fatti illeciti è informata al principio dell’atipicità, che è implicito nella definizione dell’illecito come «qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto» (art. 2043).
Xxxxxxx, infine, è anche la terza fonte di obbligazioni: ogni altro fatto o atto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico. Traspare, già dai connotati messi in
luce, l’estrema varietà delle obbligazioni che possono sorgere da tale fonte, in cui sembrano sopravvivono le «variae causarum figurae» menzionate dalle Istituzioni di Gaio.
L’attitudine di ogni fatto o atto a produrre obbligazione è riferita all’ordinamento giuridico (e non alla legge, come stabiliva il Codice civile del 1865) nella sua complessità.
Così, al fianco di ipotesi di atti o fatti idonei a produrre obbligazioni che trovano una completa disciplina nel Codice civile, si colloca un sistema di fonti atipico, in cui la volontà dei privati, idonea a realizzare i valori espressi nel sistema di diritto positivo, diviene fonte di obbligazioni anche al di là dello schema contrattuale.
La prima e più semplice lettura della formula finale dell’art. 1173 c.c. consente di ricomprendere tra gli atti e i fatti idonei a produrre obbligazioni gli istituti del libro quarto frapposti tra il regime generale del contratto e le norme sui fatti illeciti. Vi rientrano, cioè, le promesse unilaterali ed i titoli di credito e le figure che la vecchia sistematica inquadrava fra i quasi-contratti: gestione di affari, pagamento dell’indebito e ingiustificato arricchimento.
3.4. I rapporti contrattuali di fatto
Nella più moderna configurazione del sistema delle fonti anche i rapporti contrattuali di fatto sono ricompresi tra i fatti o atti idonei a produrre obbligazioni. Si tratta di una categoria che risale alla dottrina tedesca di anni lontani e comprende i rapporti che vengono costituiti senza una base negoziale e talvolta grazie al semplice «contatto sociale qualificato» (secondo un’espressione che risale anch’essa alla dottrina tedesca,
v. amplius par. successivo).
Si tratta di rapporti contrattuali nella loro dimensione effettuale e, cioè, «rapporti contrattuali nei loro effetti», regolati dalle norme sulle obbligazioni di fonte contrattuale, pur non essendo originati da un contratto. è esclusa quindi l’applicazione delle norme che disciplinano la conclusione dell’accordo (e quindi anche delle norme inerenti alla capacità di agire e i vizi della volontà, essendo sufficiente, per l’insorgere dell’obbligazione, la consapevolezza dell’atto che la genera).
L’obbligazione sorge da una fonte innominata, distinta dal contratto, ma produttiva di effetti similari, «in conformità dell’ordinamento giuridico». I presupposti in presenza dei quali sorge questa atipica e “anomala” obbligazione sono: i) l’inizio, tra due parti, di una relazione, consistente nell’accettazione volontaria, da parte di uno dei soggetti, di una prestazione, volontariamente offerta dall’altro; ii) un obbligo alla controprestazione che sorge sulla base di «criteri di tipicità sociale», nel senso che l’opinione comune deve percepire che l’accettazione di una certa prestazione ingenera, nell’accipiens, l’obbligo di fornire la controprestazione, eventualmente anch’essa determinabile secondi criteri di tipicità sociale.
La ricostruzione originaria dell’istituto raggruppa nell’ambito dei rapporti contrattuali di fatto tre distinte sottocategorie: 1) il c.d. «contatto sociale qualificato» (v. par. successivo), comprensivo del rapporto precontrattuale; 2) i rapporti «derivanti da inserzione in un’organizzazione comunitaria» (e cioè la società di fatto e/o la società nulla ed il rapporto di lavoro di fatto e/o nullo, in parte direttamente codificati dalla
legge,); 3) i rapporti derivanti da un «obbligo sociale di prestazione» e cioè da un’offerta al pubblico di un bene o servizio di interesse generale e per il quale è previsto un obbligo legale a contrarre. La categoria dei rapporti contrattuali di fatto non è andata esente da critiche, soprattutto per il fatto di compendiare, nella stessa formula, due termini tra loro antitetici: il contratto e il fatto. Il che è apparso contradditorio, alla luce dei criteri generali in forza dei quali si distinguono i fatti, gli atti in senso stretto e i negozi a seconda della rilevanza assunta dalla volontà umana nel compimento dell’atto. Ma il significato e la validità della categoria dei rapporti contrattuali di fatto e della relativa formula, al di là delle riserve terminologiche, può cogliersi in altra direzione: parlando di «rapporti contrattuali di fatto», si riassume in una breve espressione una duplice prospettiva del fenomeno, riguardato sia in ragione della fonte (ed è allora decisiva la considerazione del fatto in senso stretto), sia in ragione del rapporto che ne scaturisce e del relativo regime (e diviene allora assorbente la considerazione del rapporto, che si atteggia ed è disciplinato secondo lo schema dell’obbligazione da contratto).
Nel senso che si è cercato di chiarire, la categoria dei rapporti contrattuali di fatto consente di mettere in luce una possibile dissociazione tra la fonte – individuata secondo lo schema dell’art. 1173 c.c. – e l’obbligazione che ne scaturisce: la fonte dell’obbligazione non è il contratto, eppure la disciplina applicabile è quella dell’obbligazione contrattuale. Quest’ultima è sottoposta alle regole proprie dell’obbligazione contrattuale pur se il fatto generatore non sia il contratto506.
3.5. Il contatto sociale qualificato
Nella categoria dei rapporti contrattuali di fatto si riconduce il c.d. «contatto sociale qualificato»507. Si tratta di un rapporto obbligatorio atipico riconducibile alla terza delle fonti menzionate dall’art. 1173 c.c. (“atto o fatto idoneo a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico”).
Il contatto sociale qualificato si configura in presenza di una relazione specifica tra due soggetti non vincolati da un preesistente contratto; e comporta l’esecuzione, da parte di uno a favore dell’altro, di prestazioni che sono caratteristiche di un rapporto contrattuale e che incidono nella sfera personale e/o patrimoniale dell’altro.
In presenza di questi presupposti (esecuzione di una prestazione e istituzione di una
«relazione qualificata») si instaura tra i soggetti un rapporto di tipo obbligatorio.
Il rapporto non ha origine in un contratto e, quindi, non è caratterizzato da un obbligo primario di prestazione (di qui la locuzione frequentemente impiegata di «obbligazioni senza prestazione»). Ciò nel senso che il soggetto non ha volontariamente assunto l’obbligo di effettuare la prestazione, ma, una volta intrapresane spontaneamente l’esecuzione, è obbligato a portarla ad esecuzione.
506 X. Xxxxxxxx, Obbligazioni, cit.
507 Il primo contributo scientifico alla teoria del contatto sociale qualificato lo si deve al tedesco Xxxxxx Xxxxx, che nel 1941 ne teorizzò l’origine affermando che «nella prassi moderna del commercio giuridico su larga scala i rapporti contrattuali si costituiscono diversamente da come era stato concepito secondo le regole del codice civile al di fuori dell’accordo di volontà: tali rapporti contrattuali non si costituiscono mediante la conclusione del contratto ma attraverso fattispecie di fatto, attraverso contatti sociali».
L’obbligazione, quindi, sorge solo dopo avere iniziato la prestazione. Quest’ultima resta fuori dal contenuto del rapporto obbligatorio, il cui oggetto è costituito invece dalla corretta e diligente esecuzione della prestazione stessa, nella prospettiva della protezione della controparte.
Il contatto sociale qualificato è dunque fonte dell’obbligo di portare a esecuzione la prestazione. Con l’inizio dell’esecuzione della prestazione si assiste ad un fenomeno di intervento di un soggetto nella sfera di un altro: a partire da questo momento la sfera del soggetto che riceve la prestazione è esposta al rischio di danno che potrebbe scaturire da un’inesatta esecuzione della prestazione stessa. L’ordinamento avverte l’esigenza di tutelare l’affidamento nella diligenza ed esperienza del «prestatore» (di solito, un professionista).
È, dunque, nell’intromissione volontaria nella sfera di un soggetto e nell’affidamento di quest’ultimo nelle capacità del prestatore che vanno individuati quegli elementi da cui sorge un contatto sociale qualificato che è fonte di un rapporto obbligatorio. Il contatto genera un obbligo di portare correttamente e diligentemente a compimento la prestazione, in modo tale da garantire la protezione del soggetto nella cui sfera si viene ad incidere con la prestazione stessa.
Dal contatto sociale qualificato, in altri termini, scaturisce un obbligo di portare a esecuzione una prestazione, in nome di un obbligo di protezione. Di qui ha origine la categoria delle «obbligazioni senza prestazione»: si tratta di una figura di conio dottrinale508, che si configura quando l’oggetto dell’obbligazione non è una prestazione, ma un dovere di protezione, sull’assunto che il proteggere e il praestare non coincidano. L’oggetto principale dell’obbligazione è il proteggere: l’interesse del creditore non è a una prestazione specifica, ma a una protezione specifica.
La categoria delle obbligazioni senza prestazione presta il fianco a critiche. Ciò in quanto per soddisfare l’interesse protettivo è comunque necessaria una prestazione: non è possibile proteggere senza eseguire una prestazione. Allora, se è vero che l’oggetto dell’obbligo non è direttamente la prestazione, ma la protezione, è altrettanto vero che l’esecuzione della prestazione è comunque, almeno indirettamente, l’oggetto del rapporto obbligatorio. La prestazione da portare a compimento per proteggere l’interesse dell’altra parte è quella che, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto, è funzionale alla protezione della controparte. Si tratta, quindi, di una prestazione strumentale, che dà contenuto all’obbligo di protezione.
Sul piano patologico, la responsabilità che scaturisce dall’inadempimento di un’obbligazione «non contrattuale», ma da contatto sociale qualificato, è disciplinata alla stessa stregua dell’inadempimento di un’obbligazione contrattuale. c.c. La disciplina applicabile non è quella della responsabilità aquiliana (art. 2043 c.c.), ma quella della responsabilità da inadempimento ai sensi dell’art. 1218 ss. c.c. L’inadempimento dell’obbligazione da contatto sociale qualificato è fonte di un obbligo risarcitorio
«derivato», quale risposta dell’ordinamento alla lesione di una preesistente posizione di credito rimasta insoddisfatta.
Poiché, però, ad essere «contrattuale» è solo il rapporto, ma non la fonte di esso, ne discende come logica conseguenza l’inapplicabilità delle norme che disciplinano il
508 Xxxxxxxxxx, L’obbligazione senza prestazione. Ai confini tra contratto e torto, in Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Xxxxx Xxxxxxx, I, Milano, 1995, 147.
contratto come «accordo» (e cioè le regole sulla conclusione del contratto), mentre risultano applicabili le regole che disciplinano il contratto come «rapporto»509.
509Tra le ipotesi in cui la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha fatto applicazione dell’istituto del contatto sociale qualificato possono essere menzionate quelle relative: i) alla responsabilità del medico nei confronti del paziente (prima della riforma introdotta dalla legge Gelli, v. amplius infra), per i danni verificatisi durante la degenza presso una casa di cura; b) alla responsabilità dell’insegnante in ipotesi di autolesioni dell’alunno minore; c) alla responsabilità della banca per il pagamento di un assegno a soggetto non legittimato all’incasso.
La prima pronuncia sul tema ha avuto ad oggetto il caso di una donna ricoverata presso una struttura ospedaliera e sottoposta ad intervento chirurgico con esiti negativi. Il problema posto alla Corte era quello della determinazione del regime di responsabilità del medico chirurgo, dal momento che, mentre la donna aveva sicuramente instaurato un regolare rapporto obbligatorio con la struttura ospedaliera, il chirurgo era intervenuto solo per eseguire l’operazione e senza che in precedenza fosse stato concluso un contratto. La Corte è giunta alla conclusione «che le obbligazioni possano sorgere da rapporti contrattuali di fatto, nei casi in cui taluni soggetti entrano in contatto, senza che tale contatto riproduca le note ipotesi negoziali, e pur tuttavia ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso. In questi casi non può esservi (solo) responsabilità aquiliana, poiché questa non nasce dalla violazione di obblighi, ma dalla lesione di situazioni giuridiche soggettive altrui (è infatti ormai acquisito che, nell’ambito dell’art. 2043 c.c., l’ingiustizia non si riferisce al fatto, ma al danno); quando ricorre la violazione di obblighi, la responsabilità è necessariamente contrattuale, poiché il soggetto non ha fatto (culpa in non faciendo) ciò a cui era tenuto in forza di un precedente vinculum iuris, secondo lo schema caratteristico della responsabilità contrattuale». Ciò perché «nei confronti del medico, dipendente ospedaliero, si configurerebbe pur sempre una responsabilità contrattuale nascente da “un’obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto”, in quanto poiché sicuramente sul medico gravano gli obblighi di cura impostigli dall’arte che professa, il vincolo con il paziente esiste, nonostante non dia adito ad un obbligo di prestazione, e la violazione di esso si configura come culpa in non faciendo, la quale dà origine a responsabilità contrattuale» (Cass. 22 gennaio 1999, n. 589).
Questo orientamento giurisprudenziale può oggi ritenersi superato alla luce della legge n. 124 del 2017, che qualifica espressamente la responsabilità del medico nei confronti del paziente, in assenza di un contratto, come responsabilità aquiliana. Tale legge, quindi, sconfessa la teoria del contatto sociale tra medico e paziente.
La giurisprudenza riconduce la responsabilità dell’insegnante in caso di danno arrecato dall’allievo a sé medesimo (c.d. autolesione dell’alunno) non già nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, con conseguente onere per il danneggiato di fornire la prova di tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c., bensì nell’ambito della responsabilità da inadempimento, con conseguente applicazione del regime probatorio desumibile dall’art. 1218 c.c. «Osta alla configurabilità di una responsabilità extracontrattuale il rilievo che tra precettore ed allievo si instaura pur sempre, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell’ambito del quale il precettore assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e di vigilanza, onde evitare che l’allievo si procuri da solo un danno alla persona».
La giurisprudenza riconduce nell’ambito della teoria del contatto sociale qualificato anche la responsabilità della banca che paga un assegno non trasferibile ad un soggetto diverso da quello legittimato all’incasso.
Le regole di circolazione e di pagamento dell’assegno munito di clausola di non trasferibilità, pur svolgendo indirettamente una funzione di rafforzamento dell’interesse generale alla corretta circolazione dei titoli di credito, sono volte a tutelare i diritti di coloro che alla circolazione di quello specifico titolo sono interessati: ciascuno dei quali ha ragione di confidare sul fatto che l’assegno verrà pagato solo con le modalità e nei termini che la legge prevede e la cui concreta esecuzione è rimessa ad un soggetto, il banchiere, dotato di specifica professionalità al riguardo. La professionalità del banchiere si riflette necessariamente su tutta la gamma delle attività da lui svolte nell’esercizio dell’impresa bancaria, e quindi sui rapporti che in quelle attività sono radicati, per la cui corretta attuazione egli dispone di strumenti e di competenze che normalmente gli altri soggetti interessati non hanno: dal che, appunto, dipende, per un verso, l’affidamento di tutti gli interessati nel puntuale espletamento dei compiti inerenti al servizio bancario, e per altro verso, la specifica responsabilità in cui il banchiere incorre nei confronti di coloro che con lui entrano in contatto per avvalersi di quel servizio, ove, viceversa, non osservi le regole al riguardo prescritte dalla legge.
Sulla scorta di tali considerazioni, la responsabilità della banca negoziatrice per avere consentito, in violazione delle specifiche regole poste dall’art. 43 legge assegni (R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736), l’incasso di un assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasferibilità, a persona diversa dal beneficiario del titolo, ha nei confronti di tutti i soggetti nel cui interesse quelle regole sono dettate e che, per la violazione di esse, abbiano sofferto un danno natura contrattuale, avendo la banca un obbligo professionale di protezione (obbligo preesistente, specifico e volontariamente assunto), operante nei confronti di tutti i soggetti interessati al buon fine della sottostante
Si può concludere affermando che è la presenza di una struttura obbligatoria a marcare la differenza tra la responsabilità aquiliana e quella da inadempimento: la prima sorge in assenza di un obbligo specifico per effetto della violazione del generico dovere di alterum non laedere, che è la proiezione – insita nel concetto stesso di responsabilità
– sul danneggiante del diritto del danneggiato all’integrità della propria sfera giuridica, al di fuori di un preesistente rapporto tra le parti. Il “non rapporto” caratterizza, pertanto, la responsabilità extracontrattuale, nella quale la rilevanza giuridica del contatto semplice tra soggetti viene alla luce solo nel momento della lesione, generando l’obbligo del risarcimento.
L’estensione dell’area di applicazione della responsabilità da inadempimento anche agli obblighi derivanti da un contatto sociale qualificato è frutto di un’evoluzione nel modo di intendere la responsabilità civile, nella prospettiva di assicurare a coloro che instaurano con altri soggetti relazioni significative e rilevanti una tutela più incisiva ed efficace rispetto a quella garantita dalla responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. Quest’ultima resta limitata al solo ambito nel quale si riscontrino lesioni ab extrinseco a beni o interessi altrui, al di fuori di qualsiasi rapporto preesistente che si ponga come fonte di obblighi di vario genere: di prestazione e/o di protezione.
3.6. La buona fede oggettiva: cenni e rinvio
È fonte aperta di obbligazioni anche la buona fede oggettiva: l’art. 1175 c.c., imponendo alle parti del rapporto di comportarsi correttamente, sancisce un obbligo di buona fede. La tendenza della dottrina e della giurisprudenza più recente è nel senso di valorizzare il ruolo della clausola generale di correttezza e buona fede, eleggendola a principio cardine
operazione, di far sì che il titolo stesso sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità alle regole che ne presidiano la circolazione e l’incasso (Cass., Sez. un., 21 maggio 2018, n. 12477).
In questo modo le Sezioni Unite hanno ricondotto la responsabilità della banca negoziatrice nell’alveo di quella contrattuale derivante da contatto qualificato-inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c. e dal quale derivano i doveri di correttezza e buona fede enucleati dagli artt. 1175 e 1375 c.c.
Importanti affermazioni in tema di responsabilità da contatto sociale qualificato si ritrovano nella giurisprudenza anche in relazione alla violazione degli obblighi procedimentali assunti dall’amministrazione nei confronti dei privati, in conseguenza dell’instaurazione di un procedimento amministrativo. La Corte di Cassazione, in proposito, ha da tempo affermato che la responsabilità della p.a. per la lesione degli interessi procedimentali del privato si radica nella violazione dei canoni di correttezza e di buona fede. (Cass. 157/2003). La violazione delle regole procedimentali dell’attività amministrativa costituisce inadempimento di obblighi nell’ambito del rapporto che si instaura con il privato e che si configura come contatto sociale qualificato. Dalla violazione di quelle regole consegue pertanto la responsabilità da inadempimento ai sensi dell’art. 1218 c.c. Nella medesima prospettiva si è posta, peraltro, la giurisprudenza amministrativa. Il danno da provvedimento illegittimo, che abbia leso un interesse legittimo del privato con incidenza sul bene della vita finale, rientra nello schema della responsabilità extracontrattuale (‘art. 2043 c.c.): con la domanda di ristoro del danno subito, il cittadino non si duole dell’ottemperanza ad uno o più obblighi gravanti a carico della p.a., bensì dello scorretto esercizio del potere amministrativo. Per converso, la relazione che viene ad instaurarsi tra il privato e l’amministrazione nel procedimento amministrativo è ricostruibile in termini di “contatto sociale qualificato”, sicché i comportamenti positivi o negativi della p.a., parametrati sulle regole che governano il procedimento, possono tradursi nella lesione patrimoniale dell’interesse del privato al bene della vita realizzabile mediante l’intermediazione del procedimento stesso. Ne deriva che il diritto al risarcimento del danno subito dal privato presenta una fisionomia sui generis, non riconducibile al modello aquiliano ex art. 2043 c.c.: la responsabilità della p.a. per violazione delle regole procedimentali è connotata dal rilievo di alcuni tratti della responsabilità precontrattuale e della responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, con conseguente applicabilità delle norme in materia di responsabilità contrattuale.
delle relazioni obbligatorie. Nella buona fede si compendia la clausola di reciprocità, che dà attuazione, sul piano civilistico, al principio costituzionale di solidarietà sociale (art. 2 Cost.): il creditore, nel soddisfare il proprio interesse, deve tenere in considerazione l’interesse del debitore; il debitore, nell’eseguire la propria prestazione deve soddisfare l’interesse del creditore. La reciprocità, per ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, è fonte di obbligazioni idonee a soddisfare l’interesse della controparte, in virtù di un principio ordinamentale solidaristico, “antiegostico”. E impone un necessario bilanciamento dell’interesse del creditore con quello del debitore. L’esame dell’art. 1173 c.c., in conclusione, evidenzia la rilevante funzione assolta dal rinvio all’ordinamento giuridico, inteso come complesso sistema in cui si inquadrano atti e fatti non riducibili agli schemi del contratto e dell’illecito. Il rinvio all’ordinamento giuridico rende aperto il sistema delle fonti, consentendone un adattamento automatico ai mutamenti e alle rinnovate esigenze economico-sociali.
4. Obbligazione e giuridicità. L’intento giuridico negativo
L’obbligazione appartiene alla categoria dei doveri giuridici. Il dovere designa in generale una posizione di giuridica necessità imposta al soggetto nell’interesse altrui. L’obbligazione si caratterizza particolarmente come dovere a contenuto patrimoniale e poi come dovere specifico, ossia come dovere nei confronti di determinati soggetti per il soddisfacimento di interessi individuali. Sotto questo profilo l’obbligazione si distingue quindi rispetto ai doveri generici, che interessano la vita di relazione, ossia ai doveri che l’ordinamento impone nei confronti della generalità dei consociati (doveri di rispetto della persona, doveri di rispetto degli altrui beni, ecc.).
Si è detto che l’obbligazione appartiene alla categoria dei doveri giuridici. Ma non ogni dovere è giuridico e, dunque, non ogni dovere è un’obbligazione. Vi sono, infatti, doveri morali, sociali, religiosi che rimangono circoscritti nelle sfere loro proprie, senza acquisire carattere di giuridicità. La dottrina più antica definiva queste situazioni come “obbligazioni imperfette”, proprio per evidenziare l’analogia, ma non l’identità con le “obbligazioni giuridiche” (quelle “perfette”).
Le stesse parti possono convenire l’assunzione di un obbligo con espressa e inequivoca intesa che il relativo rapporto rimarrà confinato nell’ambito della socialità, senza cioè assumere rilevanza giuridica. Si parla, in questo caso, di “patto tra gentiluomini” (gentlemen’s agreement), caratterizzato dalla dichiarata volontà di non giuridicizzare il rapporto che da quel patto deriva, affidando a misure extragiuridiche (discredito commerciale, cessazione futura dei rapporti d’affari) la funzione di rendere effettivo l’impegno assunto. Il patto tra gentiluomini è di regola un accordo tra soggetti appartenenti a un insieme sociale caratterizzato dalla spiccata sensibilità verso determinati valori, quali l’onore e il rispetto della parola data; il patto è stipulato in nome di tali valori; la coazione all’adempimento non deriva dalla vincolatività giuridica – che le parti escludono – ma dall’adesione a quei valori e dalla perdita di prestigio (all’interno del gruppo) scaturente dalla violazione del patto.
In tal caso, non si è in presenza di un rapporto inidoneo di per sé a configurarsi come giuridico, ma anzi, all’opposto, di un rapporto di per sé qualificabile come potenzialmente giuridico, se a ciò non ostasse la contraria volontà delle parti.
Il gentlemen’s agreement è una figura di confine, prossima ad altre tipologie di relazioni non giuridiche, quali i rapporti di cortesia, che si configurano quando vengono eseguite prestazioni senza che sussista un rapporto giuridico obbligatorio. Come accade per la promessa fatta all’amico di dargli un passaggio in automobile510, o ad una persona anziana di aiutarla ad attraversare la strada. Queste tipologie di rapporti sono riconducibili nell’ambito delle prestazioni solidaristiche, il cui fondamento è costituito dall’art. 2 Cost.
Caratteristica comune con i patti fra galantuomini è la presenza della volontà di non obbligarsi giuridicamente (c.d. intento giuridico negativo). Con una differenza: mentre nel gentlemen’s agreement l’intento giuridico negativo deve essere univocamente ed espressamente manifestato dalle parti (deliberate no-law), nei rapporti di cortesia la sussistenza di tale intento è presunta, perché si tratta di rapporti inseriti nel contesto della vita sociale, generalmente conformi al costume e dalla morale comune (contextual no- law).
L’attenzione, a questo punto, deve essere concentrata sull’ammissibilità dell’intento giuridico negativo espresso (deliberate no-law). Occorre stabilire, cioè, se un rapporto possa essere programmaticamente sottratto al vaglio dell’ordinamento giuridico per essere confinato nell’ambito di un contesto sociale specifico, all’interno del quale ne è in qualche modo assicurata la vincolatività.
510 Nel trasporto di cortesia (o amichevole) difetta un vincolo giuridicamente rilevante ad eseguire la prestazione, al contrario di quanto accade nel contratto di trasporto gratuito. Il trasporto di cortesia viene effettuato senza animus obligandi, ovvero esclusivamente per amicizia, condiscendenza o per spirito di solidarietà. Ciò ha indotto, per lungo tempo, la giurisprudenza, proprio sulla base dell’assenza di un obbligo giuridico tra le parti, a escludere la possibilità per il passeggero di ottenere un risarcimento dei danni subiti in esecuzione di un trasporto di cortesia.
La stessa giurisprudenza, con l’avallo autorevole della Corte costituzionale, riteneva l’ipotesi di trasporto di cortesia o di amicizia idonea ad originare solo il sorgere di una responsabilità di tipo extracontrattuale (ex art. 2043 c.c.) alla quale non si applicava la presunzione di cui all’art. 1681 c.c., riferibile al solo contratto di trasporto o al trasporto gratuito. Neppure trovava applicazione la presunzione di cui all’art. 2054 c.c. (cioè, la presunzione di responsabilità a carico del conducente di veicoli). Si legittimava così l’esistenza di un doppio regime di responsabilità, rispettivamente per il trasporto a titolo oneroso o gratuito (contrattuale) e per quello a titolo di cortesia o di amicizia (non contrattuale): premesso che il terzo trasportato su di un veicolo non poteva invocare, nei confronti del vettore, la presunzione di responsabilità di cui all’art. 2054 c.c., operante esclusivamente per i danneggiati coinvolti in un sinistro stradale, ma estranei alla circolazione del veicolo (si pensi, per es., ai pedoni), nell’ipotesi di trasporto (contrattuale) oneroso o gratuito, il passeggero che assumeva di aver subito un danno poteva avvalersi della presunzione prevista dall’art. 1681 c.c., là dove, invece, nel caso di trasporto amichevole o di cortesia (extracontrattuale), il trasportato aveva soltanto la possibilità di agire secondo la regola generale fissata dall’art. 2043 c.c., dovendo provare la colpa o il dolo del vettore.
A partire dal 1998, il giudice di legittimità ha enunciato una regula iuris di segno totalmente contrario, affermando che “in materia di responsabilità derivante dalla circolazione di veicoli, l’art. 2054 c.c. esprime, in ciascuno dei commi che lo compongono, princìpi di carattere generale, applicabili a tutti i soggetti che da tale circolazione, comunque, ricevano danni, e quindi anche ai trasportati, quale che sia il titolo del trasporto, di cortesia ovvero contrattuale (oneroso o gratuito)”. Pertanto, in maniera oggi assolutamente costante, si ritiene che “il trasportato, quale che ne sia il titolo del trasporto, nel caso di scontro con altro veicolo può invocare tutte le presunzioni di cui all’art. 2054 c.c., nei confronti del conducente e del proprietario sia del veicolo sul quale viaggiava al momento del sinistro, sia dell’altro mezzo”. Tutto ciò perché “l’esigenza di garantire il risarcimento del danneggiato, [tanto] mediante l’inversione dell’onere probatorio in suo favore, [quanto] mediante l’estensione della responsabilità al non proibente proprietario del veicolo, si pone su un piano prioritario e preminente rispetto all’apprezzamento sociale di un atto di cortesia, cui il diritto positivo non ricollega alcun effetto scriminante allorché esso costituisca l’occasionale presupposto della situazione di fatto nel contesto della quale s’è verificata la lesione dell’altrui diritto, talora addirittura costituzionalmente protetto”.
Il cambiamento di rotta nella giurisprudenza offre contezza della progressiva valorizzazione del “trasporto” unitariamente considerato, a prescindere dalla sua natura onerosa, gratuita o di cortesia (X. Xxxxxxxxxx, Responsabilità nei rapporti non vincolanti: il caso del trasporto di cortesia, in Contratto e Impr., 2011, 3, 546).
Gli interessi e rapporti che il diritto privato disciplina esistono nella vita sociale indipendentemente dalla loro rilevanza giuridica: il diritto non opera incondizionatamente sui rapporti sociali. Al contrario, deve infatti ritenersi proprio dell’autonomia privata di dare vita a rapporti e, al contempo, di escluderne la giuridicità, per collocare “il disposto regolamento di interessi sopra un piano diverso da quello giuridico, affidandosi alla fede o alla discrezione altrui o all’onore professionale della controparte: se ciò avviene il vincolo giuridico è certamente escluso. Se le parti pongono in essere un rapporto, ma esprimono la volontà di non vincolarsi giuridicamente, ecco che tale volontà assume un peso determinante, perché afferma un intento giuridico negativo, incompatibile con l’assunzione di un’obbligazione giuridicamente vincolante, ma pur sempre esercizio di autonomia.
Non si può dubitare, dunque, che le parti possano deliberatamente escludere la vincolatività giuridica del rapporto, poiché tale potestà sostanzia in un suo carattere fondamentale il concetto stesso di autonomia privata.
La linea di confine tra l’intento giuridico positivo e quello negativo, però, può essere molto sottile. È altrettanto sottile, diventa, quindi la distinzione tra un dovere sociale e uno giuridico. La prima operazione da compiere, allora, è individuare il criterio discretivo.
Non può ritenersi un valido canone distintivo quello basato sulla patrimonialità della prestazione dovuta, cui pure sembra fare riferimento l’art. 1174 c.c. Non è condivisibile, infatti, la tesi secondo cui i doveri giuridici hanno a oggetto una prestazione di natura patrimoniale, a differenza dei doveri non giuridici, caratterizzati da prestazioni non patrimoniali. Anche i doveri non giuridici possono presentare la nota della patrimonialità, sia con riguardo al sacrificio del soggetto tenuto al comportamento, sia con riguardo all’incidenza dell’inattuazione sulla sfera del soggetto creditore. Di ciò ne è prova, del resto, la norma che nel sistema codicistico esemplifica i doveri morali e sociali, vale a dire l’art. 2034 c.c., che racchiude il regime delle cosiddette «obbligazioni naturali»: la norma conferma indirettamente la patrimonialità dei doveri non giuridici quando stabilisce che per l’adempimento di essi non è accordata azione e, tuttavia, «non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato».
La patrimonialità della prestazione – nel significato che risulta dall’art. 1174 – non può dunque essere assunta a criterio distintivo dei doveri giuridici da quelli non giuridici. La giuridicità del dovere, piuttosto, consiste nel fatto che al soggetto attivo del rapporto è accordata azione per l’adempimento e nel senso che dall’inadempimento derivano conseguenze rilevanti per il diritto511. Giuridicità equivale, dunque, ad esperibilità dei rimedi e delle tutele previste dall’ordinamento. Ciò che non si verifica
nel caso di doveri non giuridici.
Chiarita la distinzione tra doveri giuridici e doveri metagiuridici, resta da affrontare un’ulteriore questione. Si è detto che l’obbligazione appartiene alla categoria dei doveri giuridici. E ciò nel senso (geometrico) che l’obbligazione è un sottoinsieme nell’ambito del più ampio insieme dei doveri giuridici: per cui, ogni obbligazione è un dovere giuridico, ma non ogni dovere giuridico è un’obbligazione. è il caso, ad esempio, di alcuni doveri giuridici che contraddistinguono le relazioni coniugali e familiari (ad
511 X. Xxxxxxxx, Obbligazioni (dir. priv.), in Enc. Dir., XXIX, 1979.
esempio, il dovere di fedeltà o di assistenza morale). La questione diventa la seguente: quando un dovere giuridico è anche un’obbligazione?
La risposta è fornita in maniera inequivoca dalla Relazione al Re (art. 4 del libro delle obbligazioni), dove si legge che “l’obbligazione deve essere considerata come figura giuridica distinta da quegli altri obblighi i quali, per quanto diano luogo ad azione, tuttavia non hanno contenuto patrimoniale diretto o riflesso, come è, ad esempio, di alcuni obblighi posti dalla legge in relazione a taluni rapporti di diritto familiare”.
L’elemento che connota il dovere giuridico in termini di obbligazione, dunque, è la patrimonialità della prestazione che ne forma oggetto, cioè del comportamento che il debitore deve assumere per soddisfare l’interesse del creditore; comportamento che, ai sensi dell’art. 1174 c.c., deve esser suscettibile di valutazione economica per sé stesso o per gli effetti che ne derivano. Si deve ritenere allora, citando ancora il testo della Relazione al Re, “che non vi è obbligazione quando il contenuto del correlativo dovere non abbia i caratteri della patrimonialità della prestazione”.
5. L’obbligazione naturale
L’obbligazione naturale costituisce un punto d’incontro tra il giuridico e il metagiuridico, tra il diritto e la morale.
Nel pensiero dei giusnaturalisti, nella categoria delle obbligazioni naturali venivano ricondotte tutte quelle fattispecie che presentano difformità rispetto allo schema tipico del rapporto obbligatorio e che, al contempo, assicurano la realizzazione di quelle esigenze di giustizia e di equità, che il diritto positivo non è in grado di soddisfare.
Nella dottrina francese dell’Ottocento, invece, era diffusa l’opinione che le obbligazioni naturali non appartenessero ad un genus diverso da quello delle obbligazioni civili, dalle quali si distinguevano solo per la mancanza del requisito della coercibilità. Si affermava, infatti, la pari dignità giuridica di ogni tipo di obbligazione, ad alcune delle quali, le obbligazioni naturali appunto, la legge negava, per ragioni diverse, il pieno riconoscimento. L’obbligazione naturale veniva ricostruita, quindi, alla stregua di un’obbligazione «imperfetta» o «degenerata».
Nella seconda metà dell’Ottocento, però, la dottrina francese, riprendendo uno spunto del Xxxxxxx, affermò con convinzione l’autonomia concettuale della categoria delle obbligazioni naturali, che venivano identificate con i doveri della coscienza e dell’onore. L’identificazione delle obbligazioni naturali con i doveri morali o sociali è la soluzione accolta anche dal nostro Codice civile (art. 2034, comma 1). Come chiarito nella Relazione al Re, «l’obbligazione naturale non è un vincolo giuridico neppure imperfetto: come tale non è idonea a produrre effetti giuridici». La stessa Relazione individua tra le principali fonti dell’obbligazione naturale la fiducia testamentaria (art.
627, comma 2, c.c.), il debito di giuoco512 (art. 1933 c.c.) ed il debito prescritto (art. 2940 c.c.)513
L’art. 2034, comma 2, c.c. opera un rinvio ai doveri morali o sociali che il legislatore, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, ha in altre norme individuato specificamente. Ne consegue una vera e propria «tipizzazione» dei doveri richiamati nel comma 2 dell’art. 2034, che si contrappone in un certo senso alla generica formulazione del primo comma, che si riferisce invece ad ogni tipo di dovere morale o sociale. Si ha, in tal modo, una coesistenza tra fattispecie nominate e fattispecie innominate o, se si preferisce, tra fattispecie tipiche e fattispecie atipiche di obbligazione naturale514. E ciò in analogia al sistema del diritto civile, caratterizzato da fonti tipiche e atipiche di obbligazioni (art. 1173: «... ogni altro atto o fatto idoneo. in conformità dell’ordinamento giuridico»), di contratti (art. 1322, comma 2, c.c.) e di fatti illeciti (art. 2043: «qualunque fatto doloso o colposo. »)515. Il carattere dell’atipicità consente alle obbligazioni naturali di fungere da valvola di sicurezza e da organo respiratore dell’ordinamento: esse garantiscono il trapasso nel mondo del diritto di valori, sempre mutevoli, della collettività espressi da doveri non giuridici516.
L’esistenza di un dovere morale o sociale è in re ipsa nelle obbligazioni naturali tipiche (quali, come già ricordato, la fiducia testamentaria, il debito di giuoco e il debito prescritto). Nelle fattispecie atipiche, la rispondenza a un dovere morale o sociale deve essere valutata di volta in volta. Si pone anche per le obbligazioni naturali il problema della meritevolezza del dovere morale o sociale: occorre accertare che tale dovere non sia in contrasto con i princìpi fondamentali dell’ordinamento statuale: e ciò spiega, ad esempio, la repressione del giuoco d’azzardo (art. 718 ss. c.p.). È da evitare, infatti, che l’obbligazione naturale si risolva in un mezzo per eludere una norma imperativa. Il dovere morale o sociale in forza del quale è eseguita la prestazione, in quanto non
512 Non ogni debito che deriva dal gioco o dalla scommessa è privo di giuridicità. Sulla distinzione tra gioco tollerato, fonte di obbligazioni naturali, e gioco tutelato, fonte di obbligazioni giuridiche, si rinvia alla parte dedicata ai singoli contratti e, segnatamente al capitolo su gioco e scommessa.
513 La prescrizione estingue il rapporto obbligatorio ma, trattandosi di una causa di estinzione non satisfattiva, il debitore ha la possibilità di avvalersene o meno. In termini processuali la possibilità di avvalersi della causa di estinzione dell’obbligazione è prevista come onere di eccezione quando il creditore agisca per l’adempimento. In termini sostanziali il debitore non è tenuto all’adempimento e può quindi non eseguire la prestazione senza responsabilità alcuna.
Se però esegue la prestazione non può pretenderne la restituzione. Occorre per altro che l’adempimento sia stato spontaneo. Non ci troviamo quindi di fronte ad una semplice realizzazione di un rapporto obbligatorio, ma ad un atto decisionale del soggetto che, analogamente a quanto rilevato per l’adempimento dell’obbligazione naturale, richiede che l’adempiente non agisca sotto l’impulso della coazione e sia inoltre legalmente capace.
514 Si riscontrano figure, per così dire, semitipiche di obbligazione naturale, quali il pagamento di interessi ultralegali (art. 1284 c.c.) o il pagamento del professionista non iscritto all’albo (al quale l’art. 2231 c.c. nega ogni tutela).
515 E. Moscati, Obbligazioni naturali, in Enc. Dir., XXIX, 1979.
516 Le unioni di fatto – nelle quali alla presenza di significative analogie con la famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale si associa l’assenza di una completa e specifica regolamentazione giuridica, cui solo l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale ovvero una legislazione frammentaria talora sopperiscono – costituiscano il terreno fecondo sul quale possono germogliare e svilupparsi quei doveri dettati dalla morale sociale, dalla cui inosservanza discende un giudizio di riprovazione ed al cui spontaneo adempimento consegue l’effetto della “soluti retentio”. Sono infatti considerate adempimento di un’obbligazione naturale le prestazioni effettuate da un convivente more uxorio nei confronti dell’altro, salvo che non si tratti di prestazioni sproporzionate ed inadeguate, tenuto conto anche del tenore di vita condotta dai conviventi e delle rispettive condizioni sociali ed economiche. La sproporzione elide il carattere di doverosità della prestazione: il convivente, in questo caso, può agire con l’azione di ingiustificato arricchimento (art. 2041 c.c.), non essendo l’attribuzione patrimoniale sorretta da causa alcuna (Cass., sez. I, 22 gennaio 2014, n. 1277).
giuridico, non è coercibile, ma è causa idonea a giustificare l’attribuzione compiuta. Pur non essendo una valida causa obligandi, l’obbligazione naturale è comunque una valida causa solvendi: la legge guarda ai doveri morali o sociali alla stregua di valori meritevoli di giustificare un trasferimento patrimoniale. In altri termini, il trasferimento attuato in esecuzione di un dovere morale o sociale è assistito da un valido riferimento causale, per cui la prestazione eseguita realizza una «causa» riconosciuta idonea dall’ordinamento giuridico.
L’adempimento dell’obbligazione naturale è un atto a titolo gratuito, ma la doverosità morale o sociale dell’atto vale a distinguerlo rispetto agli atti di liberalità, e in particolare rispetto alla donazione.
Qualificare un atto a titolo gratuito come adempimento di un dovere morale o sociale anziché come donazione è di particolare importanza perché vuol dire sottrarlo all’obbligo della collazione e all’azione di riduzione. Vuol dire ancora sottrarlo all’onere formale richiesto per la donazione.
5.1. La rilevanza giuridica dell’obbligazione naturale
L’adempimento dell’obbligazione naturale è un atto negoziale: precisamente, un negozio unilaterale mediante il quale un soggetto attribuisce ad un altro un beneficio patrimoniale moralmente o socialmente doveroso. Chi attribuisce un bene o presta la propria attività senza esservi giuridicamente tenuto, ma per soddisfare un’esigenza di ordine morale o sociale, compie un atto di autonomia privata, ossia dispone autonomamente dei propri beni e delle proprie azioni.
Gli effetti si producono in conformità ad un atto dispositivo del soggetto che, senza coazione, decide di fare un’attribuzione o di eseguire un servizio in favore di un altro soggetto.
Si è detto che l’obbligazione naturale è una valida causa solvendi. è per questo che l’art. 2034 c.c. stabilisce la regola della non ripetibilità dell’adempimento delle obbligazioni naturali (soluti retentio). La non ripetibilità del pagamento è indice di un riconoscimento del dovere morale o sociale a livello di diritto positivo517. Ma l’art. 2034 non significa che l’ordinamento abbia fatto proprio il dovere morale o sociale. In questo errore di prospettiva sono cadute le teorie che hanno costruito le obbligazioni naturali sul parametro degli obblighi giuridici, vedendosi poi costrette a parlare di obbligazioni
«degenerate» o «imperfette» per superare la contraddizione tra la giuridicità attribuita al dovere morale o sociale e la mancanza di azione da parte del creditore naturale.
Come precisato nella Relazione al codice, l’irripetibilità della prestazione più che «un effetto immediato dell’obbligazione naturale» è «una conseguenza del volontario adempimento, il quale crea una situazione che solo da questo momento l’ordinamento giuridico prende in considerazione e intende tutelare».
517 La soluti retentio dell’art. 2034 c.c. non può essere posta sullo stesso piano di quella prevista dall’art. 2035 c.c., ancorché entrambe le norme siano formulate in termini di irripetibilità della prestazione. Ciò che caratterizza l’art. 2035 c.c. è l’assenza totale di una qualsiasi valutazione della giustificazione sociale dell’acquisto dell’accipiens. La soluti retentio dell’art. 2035 c.c., in altri termini, è una vera e propria sanzione dell’ordinamento a carico dell’autore della prestazione contraria al buon costume.
L’art. 2034, comma 1, c.c. subordina la soluti retentio delle obbligazioni naturali alla duplice condizione che la prestazione sia stata eseguita «spontaneamente» e che il solvens sia un soggetto capace.
Il termine “spontaneamente” sta a significare che è sufficiente per la soluti retentio
un pagamento non coatto.
La capacità cui fa riferimento la norma è quella di agire. Ciò in quanto l’atto di adempimento ha natura negoziale. Secondo l’opposta tesi, che considera l’adempimento dell’obbligazione naturale come un atto non negoziale, la capacità richiesta dalla norma è quella naturale: l’atto adempitivo, in questa diversa prospettiva teorica, è espressivo, sul piano giuridico, del potere di autodeterminazione e di autoresponsabilità del solvens; potere che presuppone la capacità di intendere e di volere.
Altro requisito dell’adempimento dell’obbligazione naturale è quello della sua proporzionalità. La prestazione deve, cioè, essere adeguatamente proporzionata ai mezzi di cui l’adempiente dispone e all’interesse da soddisfare. Sebbene tale requisito non sia menzionato dal codice, esso deve ritenersi implicito nella stessa idea di obbligazione naturale, in quanto alla stregua della coscienza sociale non è doveroso ciò che va al di là di quanto l’adempiente può ragionevolmente fare o di quanto il beneficiario abbia ragionevolmente bisogno.
Il Codice civile nega alle obbligazioni naturali l’idoneità a produrre effetti diversi dai soluti retentio (art. 2034, comma 2, c.c.).
Tale disposizione rende inapplicabili all’obbligazione naturale le norme deputate alla tutela del credito (dalla responsabilità patrimoniale alle azioni surrogatorie, revocatorie, al sequestro, artt. 2740-2910 c.c.) e alla tutela da inadempimento (responsabilità ex art. 1218 c.c.).
L’inefficacia dell’obbligazione naturale a fini diversi dalla soluti retentio determina anche l’inapplicabilità di tutte le norme relative all’estinzione dell’obbligazione: adempimento stricto sensu, pagamento del terzo, datio in solutum, compensazione, confusione, remissione, novazione, ecc. E così pure l’inapplicabilità delle disposizioni relative alla modificazione dal lato attivo o dal lato passivo del rapporto obbligatorio, inter vivos o mortis causa (cessione del credito, surrogazione, delegazione espromissione accollo, successione a titolo universale o particolare).
Tutte queste vicende dell’obbligazione postulano una valida causa solvendi: nell’obbligazione naturale, la causa solvendi sussiste, ma ai soli fini della soluti retentio, secondo quanto stabilito dall’art. 2034, comma 2, c.c.
È per questa stessa ragione che non è possibile trasformare l’obbligazione naturale in obbligazione giuridica, ad esempio attraverso un riconoscimento di debito o una novazione. L’obbligazione naturale come già evidenziato non assume rilevanza giuridica se non nel momento dell’adempimento. Essa, pertanto, non può costituire il presupposto di una obbligazione giuridica.
Deve quindi essere data soluzione negativa al problema, ancora dibattuto, se il soggetto possa rendere giuridica la sua obbligazione naturale impegnandosi negozialmente ad eseguirla o, in generale, assumendo un’obbligazione sul fondamento di quella naturale (al riguardo si parla anche di adempimento indiretto di obbligazione naturale).
La soluzione negativa, attualmente seguita dalla giurisprudenza, trae argomento dalla lettera della legge, la quale esclude altri effetti, oltre a quello della irripetibilità del pagamento (2034, comma 2, c.c.).
I negozi con cui si vorrebbe rendere giuridica un’obbligazione naturale o confermano il rapporto preesistente o lo estinguono. Si tratta quindi di negozi ricognitivi di un debito giuridicamente inesistente o di negozi novativi, anch’essi inammissibili in quanto, come si vedrà, la novazione presuppone comunque la validità del titolo costitutivo dell’originaria obbligazione.
Capitolo II
Gli elementi costitutivi
1. I soggetti: il principio di dualità
Il rapporto obbligatorio si articola, sotto il profilo soggettivo, in un lato attivo (credito) e in un lato passivo (debito). Di qui il principio della necessaria dualità dei soggetti del rapporto obbligatorio: tale principio viene affermato non in forza di astratte teorie, ma in base alla stessa nozione di obbligazione, intesa come dovere imposto al debitore per il soddisfacimento dell’interesse del creditore. Il rapporto obbligatorio postula necessariamente un dualismo tra soggetti titolari di interessi antagonisti. La riunione nella stessa persona delle qualità di soggetto obbligato e di creditore comporta, di regola, l’estinzione dell’obbligazione per confusione (art. 1253 c.c.). E ciò a ulteriore conferma del dualismo del rapporto obbligatorio.
L’estinzione per confusione si giustifica poiché vengono a coincidere nella stessa persona il vincolo a prestare e l’interesse a ricevere. Essa opera nello stesso modo in cui incide sui rapporti di natura reale il consolidarsi nella stessa persona della proprietà e del diritto reale limitato sulla cosa. Non si tratta, tuttavia, di una esigenza logica assoluta e, perciò, in relazione all’interesse del soggetto, talvolta la legge esclude la confusione nonostante l’avvenuta riunione delle qualità di debitore e di creditore. È il caso del beneficio d’inventario nell’accettazione di eredità: il beneficio produce, tra gli altri effetti, quello di impedire la confusione poiché «l’erede conserva verso l’eredità tutti i diritti e tutti gli obblighi che aveva verso il defunto» (art. 490, comma 2, n. 1, c.c.). Le eccezionali figure di riduzione del rapporto ad una sola persona, contemporaneamente titolare del credito e del debito, hanno suggerito ad una dottrina autorevole la formula elegante del «rapporto unisoggettivo», applicata alle varie ipotesi di persistenza del rapporto al di là del temporaneo concentrarsi in un solo soggetto delle due posizioni di creditore e di debitore.
La rilevazione del fenomeno non consente, tuttavia, di costruire una categoria generale dei rapporti unisoggettivi. Categoria, dalla quale, ad ogni modo, rimarrebbero estranei i rapporti in cui appare un solo soggetto, al quale però fanno capo interessi sostanziali e posizioni formali di persone distinte, come nelle ipotesi del contratto con sé stesso (art. 1395) o della società con un solo socio (artt. 2272, n. 4, e 2362 c.c.).
Negare il principio di dualità vorrebbe dire negare la stessa nozione di obbligazione: quel principio discende infatti non tanto da un’esigenza logica, quanto dalla stessa nozione di obbligazione, quale dovere giuridicamente imposto per il soddisfacimento di un altrui interesse.
1.1. Il principio di determinatezza dei soggetti del rapporto obbligatorio
Il rapporto obbligatorio si instaura tra soggetti determinati (il creditore ed il debitore) e non può ritenersi costituito fino a quando non siano stati individuati i soggetti della relazione. A differenza della prestazione, che può essere ancora da determinare quando
è già costituito il rapporto, non può quindi aversi indeterminatezza e mera determinabilità del soggetto attivo o del soggetto passivo del rapporto obbligatorio.
Questo principio di determinatezza dei soggetti del rapporto obbligatorio segna la distinzione tra obbligazioni e doveri generici. Questi ultimi sussistono nei confronti della generalità dei consociati: i doveri generici regolano la vita di relazione. L’obbligazione, invece, impone un dovere specifico nei confronti del soggetto che è portatore del particolare interesse da soddisfare. Il creditore, a sua volta, è titolare della pretesa all’adempimento nei confronti esclusivi dell’obbligato.
La determinatezza dei soggetti è pertanto un carattere distintivo del rapporto obbligatorio quale rapporto specifico costituito a carico di un soggetto in funzione del soddisfacimento del particolare interesse individuale di un altro soggetto. I soggetti del rapporto obbligatorio possono non essere determinati, purché siano determinabili: deve essere stabilito dal titolo o dalla legge il modo per la loro determinazione.
La determinabilità presuppone un’incertezza che non cade sulla fonte del rapporto - che è completa nei suoi requisiti - ma sulla persona del creditore o del debitore: l’incertezza è destinata ad essere rimossa al verificarsi di un presupposto di fatto o di diritto o del compimento di un apposito atto di scelta rimesso allo stesso obbligato o ad un terzo.
La determinabilità della persona del creditore non assimila il vincolo obbligatorio ad un dovere generico. L’obbligazione a soggetto determinabile non è infatti posta a tutela della generalità dei consociati ma è diretta a soddisfare un interesse individuale, anche se non ancora individualizzato.
Sono obbligazioni a soggetto determinabile le obbligazioni in incertam personam. È il caso del contratto per persona da nominare (art. 1405 c.c.) e del contratto a favore di terzo (art. 1411 c.c.): nel primo caso, titolare delle posizioni attive e passive nascenti dal contratto può essere l’originario stipulante o la persona nominata successivamente alla stipulazione del contratto; nel secondo caso, creditore del promittente è, in alternativa, lo stipulante oppure il terzo.
L’identificazione del creditore è successiva al sorgere dell’obbligazione anche nel caso di legato o donazione, quando la scelta del legatario o del donatario sia rimessa all’arbitrio rispettivamente dell’onerato o del terzo (artt. 631 e 778 c.c.).
Nella promessa al pubblico (art. 1989 c.c.) il promittente, nel momento in cui rende pubblica la promessa, si obbliga ad una prestazione nei confronti di chi risulterà creditore per essersi trovato in una determinata condizione o per aver compiuto una determinata azione. Sul tema, si rinvia al capitolo dedicato alle obbligazioni da fatto lecito.
2. Titolarità della pretesa e legittimazione a riceverla
Il debitore e il creditore sono titolari del rapporto obbligatorio e, dunque, sono i soggetti legittimati, rispettivamente, a eseguire la prestazione e a riceverla. La legittimazione, tuttavia, può non coincidere con la titolarità del rapporto. Il Codice civile, infatti, attribuisce talvolta la legittimazione a ricevere a persona diversa dal titolare del credito. L’art. 1188 c.c., sotto la rubrica «destinatario del pagamento», elenca il rappresentante del creditore, la persona da lui indicata, il soggetto autorizzato dalla legge o dal giudice. Nel caso di creditore incapace, il pagamento al rappresentante legale è condizione perché
il pagamento sia pienamente liberatorio (art. 1190). Il pagamento al non legittimato (o all’incapace) libera il debitore solamente se il creditore ratifica l’atto o ne tragga profitto (artt. 1188 e 1190 c.c., che, per il pagamento all’incapace, ne circoscrive l’effetto liberatorio al vantaggio conseguito dal creditore)518.
Un’ulteriore ipotesi di dissociazione tra titolarità e legittimazione è rappresentata dal pagamento al creditore apparente (per tale intendendosi il soggetto che, pur non essendo creditore, «appare legittimato a ricevere il pagamento in base a circostanze univoche», art. 1189, comma 1, c.c.).
Anche nella cessione del credito, quando il debitore paga al cedente prima della notifica e nell’ignoranza del trasferimento del credito, si configura una scissione tra titolarità (che appartiene al creditore cessionario) e legittimazione (che il codice riconosce, in presenza delle condizioni appena richiamate, al creditore cedente).
La dissociazione tra titolarità e legittimazione è caratteristica della disciplina dei titoli di credito. Incorporato nel documento, il diritto cartolare diviene suscettibile di circolazione, con vantaggio del creditore della prestazione e con sicurezza del debitore che si libera se «senza dolo o colpa grave adempie la prestazione nei confronti del possessore... anche se questi non è titolare del diritto» (art. 1992 c.c.). Nella materia dei titoli di credito, il termine «legittimazione» indica l’investitura formale del possessore ottenuta nei modi prescritti dalla legge, eventualmente non coincidente con la titolarità del diritto incorporato nel titolo di credito. La legittimazione a ricevere, sussistendo le condizioni di legge, prescinde dalla titolarità del diritto di credito. E ciò risponde all’esigenza di favorire nella misura più ampia possibile la «mobilizzazione» della ricchezza.
3. La situazione economico-sociale dei soggetti dell’obbligazione: eguaglianza formale e diseguaglianze sostanziali
La disciplina codicistica delle obbligazioni è informata al principio della parità dei soggetti del rapporto obbligatorio: sulle situazioni di potere e dovere che scaturiscono dal rapporto non influiscono le condizioni personali, sociali ed economiche delle parti. Tali condizioni non operano né nel senso di accrescere la ‘misura’ della pretesa o di diminuirla, né viceversa nel senso di aumentare o ridurre la ‘misura’ dell’obbligo519.
Nella teoria generale del contratto, come si avrà modo di approfondire nella parte a ciò dedicata, un tema ricorrente attiene proprio alla ricerca critica dei punti di divario fra l’eguaglianza formale su cui il sistema è costruito e le diseguaglianze sostanziali che alterano l’equilibrio delle forze e le “regole del gioco” contrattuale, specie tra soggetti di differente forza economico-sociale (si pensi ai contratti tra consumatore e professionista o tra imprese con diverso potere di mercato).
Nella teoria generale delle obbligazioni, il problema dell’eguaglianza sostanziale dei soggetti non riveste, sotto il profilo ideologico e pratico, la gravità che certamente assume nella teoria generale del contratto. La disparità assume rilievo in relazione al fatto costitutivo del rapporto obbligatorio, soprattutto quando la fonte del rapporto
518 X. Xxxxxxxx, Obbligazioni, cit.
519 X. Xxxxxxxx, Obbligazioni, cit.
medesimo è contrattuale. L’autonomia privata, disciplinata dal Codice civile nel segno della libertà del volere e della presunzione dell’eguaglianza dei soggetti, può essere in concreto alterata da situazioni connotate dalla debolezza di una parte e dalla forza dell’altra. Xx è allora in relazione alla teoria generale del contratto che si impone l’esigenza di individuare strumenti idonei a considerare e a sterilizzare la diseguaglianza tra le parti.
Il rapporto obbligatorio, invece, una volta venuto ad esistenza tra determinati soggetti per l’esecuzione di una certa prestazione in vista della soddisfazione di un interesse, appare connotato da ‘neutralità’ sotto il profilo della simmetria tra le parti, poiché la disciplina del vincolo e dell’aspettativa prescinde da una valutazione dei rapporti in termini di forza. Sarebbe arbitrario, del resto, far sempre coincidere il debito con una posizione sociale ed economica subalterna rispetto al credito, considerando quest’ultimo come espressivo di una situazione di forza «egemone» nell’àmbito delle relazioni sociali520.
Non a caso, sono eccezionali le ipotesi in cui il Codice civile attribuisce rilevanza alle condizioni economiche delle parti del rapporto obbligatorio. Ciò si verifica nel diritto di famiglia, e in particolare laddove l’obbligazione ha radice nella solidarietà familiare. Si adeguano alla condizione dei soggetti il dovere di contribuzione a carico di ciascuno dei coniugi ed il mantenimento a cui sono tenuti i genitori nei confronti dei figli. In relazione alla «misura» dell’obbligazione alimentare, gli alimenti sono assegnati in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli.
Al di fuori del diritto di famiglia e dei doveri di solidarietà che ne legano i componenti, ha carattere eccezionale la possibilità che assumano rilevanza le condizioni economiche delle parti del rapporto obbligatorio.
In materia di fatto illecito, il giudice può condannare ad un’equa indennità, a vantaggio del danneggiato, l’incapace che sia autore del danno, quando il danneggiato non abbia potuto ottenere il risarcimento dalla persona tenuta alla sorveglianza. L’opportunità di imporre l’equo indennizzo e la misura vengono decise dal giudice «in considerazione delle condizioni economiche delle parti» (art. 2047, comma 2, c.c.).
In altre norme, sempre nel regime dei fatti illeciti, la condizione delle parti può influire invece sulla scelta della forma di riparazione che il giudice dispone a carico dell’autore del fatto dannoso ed a vantaggio del danneggiato: così la riparazione di un danno permanente alla persona può essere disposta in forma di una rendita vitalizia (art. 2057 c.c.) e su richiesta del danneggiato il giudice può condannare, invece che alla riparazione per equivalente, alla reintegrazione in forma specifica, ma la reintegrazione è esclusa ove risulti «eccessivamente onerosa per il debitore» (art. 2058 c.c.).
La condizione economica dei soggetti e, in particolare, quella del debitore è invece priva di rilevanza quando si debbano valutare l’inadempimento e la responsabilità che ne consegue. Il mutamento delle condizioni patrimoniali del debitore, che sia tale da mettere in pericolo il conseguimento della prestazione, incide sull’obbligazione solo attraverso la concessione di strumenti che rafforzano la tutela o aprono la possibilità di forme di autotutela al creditore. L’esecuzione della prestazione può essere sospesa (salvo che sia prestata idonea garanzia) se le condizioni dell’altro contraente, nei contratti a
520 X. Xxxxxxxx, Obbligazioni, cit.
prestazioni corrispettive, sono mutate e mettono in pericolo la controprestazione (art. 1461 c.c.). Se il debitore diviene insolvente, o diminuisce le garanzie date o non fornisce le garanzie promesse, decade dal termine, ed il creditore può chiedergli l’immediato adempimento (art. 1186).
Si può quindi affermare che il Codice civile sancisce la normale ininfluenza delle condizioni economiche con riguardo alla responsabilità per l’ineseguita prestazione: l’inadempimento sussiste per il solo fatto che la prestazione dovuta sia rimasta ineseguita e, finché la prestazione sia astrattamente possibile, non rileva la sopravvenuta impotenza economica, ancorché incolpevole, dell’obbligato521.
La rilevanza delle condizioni economiche delle parti del rapporto obbligatorio, rivestendo carattere eccezionale, è insuscettibile di applicazione in via analogica oltre i casi e i modi espressamente previsti dalla legge.
3.1. Il favor debitoris e il principio di temporaneità dei vincoli
Il principio della parità dei soggetti del rapporto obbligatorio è temperato dal principio del «favore» per il debitore, considerato uno dei princìpi generali dell’ordinamento giuridico.
Il fondamento normativo del favor debitoris si ravvisa: i) nell’art. 1184 c.c., in virtù del quale si presume stabilito «a favore del debitore» il termine fissato per l’adempimento, contro la regola dell’immediata esigibilità, nell’ipotesi in cui un termine sia fissato d’accordo tra le parti o dal giudice e non risulti nell’interesse di quale dei soggetti sia posto; ii) nell’art. 1286 c.c., che attribuisce al debitore, nelle obbligazioni alternative, la facoltà di scelta che non sia conferita al creditore o ad un terzo; iii) nell’art. 1371 c.c., che, come regola finale interpretativa dei contratti a titolo gratuito, enuncia il criterio della minore «gravosità» per l’obbligato (mentre per i contratti a titolo oneroso l’esigenza da rispettare è l’equo contemperamento degli interessi delle parti); iv) nel principio nominalistico, accolto per le obbligazioni pecuniarie, che si traduce nella insensibilità del debito al mutato valore della moneta, così avvantaggiando il debitore della somma di denaro; v) nell’inclinazione del sistema a rendere possibile e ad agevolare la liberazione del debitore pur se manchi la necessaria cooperazione del creditore.
Il favor debitoris si compendia anche nella tendenza dell’ordinamento a limitare nel tempo la durata del rapporto obbligatorio. La contrarietà del sistema ai vincoli perpetui è indice del favore del sistema nei confronti della parte debitrice.
Il principio della temporaneità, in forza del quale lo scorrere del tempo determina la liberazione delle persone da vincoli, non è esclusivo del rapporto obbligatorio, ma è espressivo di un principio generale. La perpetuità si giustifica soltanto dove, almeno in astratto, non vi sia problema di soggetti vincolati o di cose sottoposte a pesi: questa è la ragione storica della perpetuità del dominio, cioè del diritto di proprietà. E per lo stesso motivo la proprietà, così come i diritti detti «della personalità», sono sottratti al principio generale in forza del quale «ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge» (art. 2934, comma 1, c.c.)522. Alla
521 X. Xxxxxxxx, Obbligazioni, cit.
522 X. Xxxxxxxx, Obbligazioni, cit.
regola della temporaneità sono sottratti i diritti indisponibili (art. 2934, comma 2, c.c.): come non può disporne, così il soggetto non può perderli per inerzia. La configurazione normale di tutti i rapporti che riguardano diritti disponibili, invece, è nel senso della temporaneità del rapporto e dell’estinzione del diritto che non sia stato esercitato per il tempo stabilito dalla legge (prescrizione).
Esprimono il principio del favor debitoris anche le norme che pongono limiti all’autonomia negoziale del debitore nell’assumere obbligazioni destinate a protrarsi nel tempo. Si pensi al divieto contrattuale di alienare, che deve essere «contenuto entro convenienti limiti di tempo» (art. 1379 c.c.); al patto di non concorrenza stipulato dal lavoratore per il tempo successivo alla fine del contratto, da contenersi «entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo» (art. 2125, comma 1, c.c.); al divieto legale di concorrenza nel trasferimento di azienda, della durata massima di un quinquennio (art. 2557, comma 1 e 2, c.c.); ai patti restrittivi della concorrenza, che egualmente non possono eccedere il quinquennio (art. 1596, comma 1, c.c.).
Ad essere tutelata, nelle disposizioni appena menzionate, è anche l’iniziativa economica, considerata sotto il duplice aspetto della libertà delle persone e della circolazione dei beni. Le restrizioni all’iniziativa economica privata, per essere coerenti con i princìpi propri di un’economia di mercato che si affida alla concorrenza, devono necessariamente essere contenute entro congrui limiti di tempo523.
4. La prestazione e l’interesse
L’oggetto dell’obbligazione è costituito dalla prestazione («la prestazione... forma oggetto dell’obbligazione.», art. 1174 c.c.).
Il legislatore, pur avendo individuato nella prestazione l’oggetto del rapporto obbligatorio, non ne ha fornito una definizione. Nel silenzio normativo, può definirsi prestazione il programma materiale o giuridico che il debitore è tenuto a realizzare e a cui il creditore ha diritto.
Il legislatore non ha nemmeno operato una classificazione delle diverse tipologie di prestazioni che possono essere richieste al debitore, notoriamente consistenti in un ‘dare’ (trasferire, restituire, consegnare), in un ‘fare’ o in un “non fare”. Nel ‘dare’, ‘fare’, ‘non fare’, consiste la prestazione secondo una scolastica tripartizione che riprende e in parte modifica l’antica classificazione ordinata intorno al dare, facere, praestare.
Pur senza operare classificazioni, il legislatore ha stabilito il «carattere» della necessaria «patrimonialità» della prestazione. La patrimonialità, ai sensi dell’art. 1174 c.c., è sinonimo di «suscettibilità di valutazione economica». La norma, inoltre, individua la funzione della prestazione: essa deve corrispondere a un interesse del creditore, ma non se ne richiede la patrimonialità e, perciò, è sufficiente anche un interesse non patrimoniale.
Sotto quest’ultimo profilo, la disciplina della prestazione costituisce una significativa eccezione rispetto alla regola dell’esclusiva rilevanza per l’ordinamento di interessi, rapporti, attività ed effetti che rivestano carattere patrimoniale.
523 X. Xxxxxxxx, Obbligazioni, cit.
Il carattere della patrimonialità non deve essere valutato in termini oggettivi, adeguandolo cioè alle convinzioni generalmente accettate nell’ambiente sociale con riguardo alla deducibilità in rapporto di un comportamento individuale. Il carattere della patrimonialità, al contrario, deve essere valutato soggettivamente, essendo nella facoltà dei soggetti dell’obbligazione considerare la prestazione come suscettibile di valutazione economica: le prestazioni non aventi carattere patrimoniale, ad esempio, acquistano siffatto carattere se dedotte in contratto come corrispettivo di prestazioni a carattere patrimoniale. In tal caso, la possibilità di valutazione economica della prestazione – in sé non patrimoniale – è data dalla controprestazione, di carattere patrimoniale, per essa convenuta524.
Si è già avuto modo di sottolineare che il carattere della patrimonialità non vale a distinguere i doveri giuridici da quelli non giuridici; tuttavia, la mancanza della valutabilità economica della prestazione non consente di definire un dovere come
«obbligazione» in senso tecnico.
L’art. 1174 x.x. xxxxx in luce come il rapporto obbligatorio sia ordinato alla soddisfazione dell’aspettativa del creditore e come l’aspettativa consista nell’acquisizione al suo patrimonio di un determinato bene, una cosa, o l’utilità prodotta dall’altrui agire, o il vantaggio che gli procura la persistenza di una immutata situazione di fatto.
Il rapporto obbligatorio può essere esaminato sia dal punto di vista della pretesa del creditore, sia dal punto di vista del dovere di prestare dell’obbligato. Entrambi, però, sono ordinati all’adempimento, che consiste nell’esatta esecuzione della prestazione da parte del debitore e che produce l’estinzione dell’obbligazione in virtù della soddisfazione dell’interesse creditorio e della liberazione del debitore dal vincolo.
Ciò consente di affermare che le norme che disciplinano la prestazione guardano al conseguimento del bene o dell’utilità e, perciò, alla soddisfazione del creditore come alla finalità ed alla ragion d’essere esclusiva o quantomeno caratterizzante del rapporto obbligatorio. Nella dottrina contemporanea si assiste, perciò, ad una rivalutazione delle dottrine che vengono chiamate «personali»: esse definiscono la prestazione nei termini del «comportamento» imposto al debitore, attribuendo particolare rilievo all’apprezzamento che la legge fa della diligenza nell’adempimento (art. 1176), della colpa e del dolo nel caso d’inesecuzione o di inesattezza o di ritardo, e relativamente ai fatti degli ausiliari del debitore (v. gli art. 1225, 1229 comma 1, 1228), della non imputabilità della causa che abbia reso impossibile la prestazione (art. 1218, 1221 comma 1, 1256 comma 1)525.
Sulla base delle premesse svolte, e con aderenza al linguaggio normativo, può dunque affermarsi che oggetto dell’obbligazione è la prestazione e che essa consiste nella condotta del debitore; anche l’astensione, così come l’attività di dare o di fare, costituisce un ‘tipo’ di condotta. A sua volta la prestazione ha un oggetto: può trattarsi di una cosa determinata esistente nel patrimonio del debitore o di un terzo, o di una cosa rientrante in un genere, o di un’opera vista come risultato di attività da compiersi dall’obbligato, o
524 Una parte della dottrina, seguendo un’interpretazione più rigorosa, considera invece la patrimonialità come un requisito obiettivo della prestazione: essa sta ad indicare che, in un dato ambiente giuridico-sociale, i consociati sono disposti ad un sacrificio economico per godere i vantaggi di quella prestazione.
525 X. Xxxxxxxx, Obbligazioni, cit.
di un’attività del debitore contemplata in sé a prescindere dal compimento di un’opera, o infine della astensione da uno specifico tipo di azione526.
4.1. I requisiti della prestazione
La patrimonialità è un «carattere» della prestazione, mentre liceità, possibilità e determinatezza (o determinabilità) sono «requisiti» della prestazione, che si ricavano dall’art. 1346 c.c.; xxxxx, quest’ultima, dettata per l’oggetto del contratto, ma applicabile anche all’oggetto dell’obbligazione.
Quando abbia ad oggetto una cosa, la prestazione è possibile se nella realtà fisica la cosa medesima già esista (anche se, eventualmente, debba venire individuata in una massa) o possa venire ad esistenza. Se si tratta di un’attività, è possibile il comportamento compatibile con le leggi naturali che segnano i limiti invalicabili dell’impegno fisico e intellettuale degli uomini.
Non è necessaria, come si è accennato, l’attuale esistenza del bene; anzi, nell’attività di fare è normale il carattere di bene futuro rispetto alla costituzione del vincolo. La legge dispone che «la prestazione di cose future può essere dedotta in contratto, salvi i particolari divieti della legge» (art. 1348 c.c.). I divieti dipendono dalla peculiare natura dei negozi: così la donazione con effetto reale non può comprendere che i beni presenti del donante, salva l’ipotesi dei frutti non ancora separati (art. 771 comma 1), ma generalmente, riguardando una prestazione di fare, ha oggetto futuro la donazione obbligatoria (art. 769 c.c.).
Nell’àmbito delle obbligazioni di garantire, una garanzia personale può essere prestata per obbligazioni future (artt. 1938 e 1958) e diviene allora futuro ed eventuale lo stesso oggetto del negozio. A volte si combinano assieme, nella stessa operazione economica, il carattere futuro e il carattere di determinabilità della prestazione, come quando si garantiscono tutti i debiti che graveranno su un soggetto fino a un certo momento, o fino a una somma massima, o in relazione a certi affari. Nella prassi bancaria, dove sono più diffuse, si dà il nome di ‘fideiussione omnibus’ a clausole siffatte.
L’illiceità dell’oggetto comprende ogni ipotesi di impedimento a dedurre nella prestazione una cosa o un’attività, quando l’impedimento derivi da una proibizione legale. La illiceità dell’oggetto deve valutarsi alla stregua non solo della legge, ma altresì dei princìpi dell’ordine pubblico e delle regole del buon costume. Il buon costume implica valutazioni non giuridiche, proprie della morale collettiva o individuale, mentre l’ordine pubblico riassume princìpi ricavabili dal sistema positivo.
Le limitazioni alla libertà privata, nel costituire o configurare rapporti obbligatori, per ragioni di ordine pubblico, possono dipendere dalla stretta inerenza del rapporto alla persona, come avviene nei diritti della personalità riconosciuti a tutela della dignità e dello svolgimento dell’individuo, o in ragione dell’appartenenza dei soggetti ad una comunità che per durata e fini supera i limiti di tempo e le vicende del singolo rapporto. La comunità familiare, più di ogni altra formazione sociale, riveste quei caratteri; ma anche fuori delle materie dei diritti della personalità e dei rapporti familiari, e quindi sul
526 X. Xxxxxxxx, Obbligazioni, cit.
terreno degli interessi meramente patrimoniali, i privati incontrano limiti al potere di disporre della nascita, modificazione, e scioglimento dei rapporti obbligatori per ragioni di ordine pubblico. La formula dell’ordine pubblico può servire a riassumere i princìpi che i privati non possono superare o disattendere, e di ordine pubblico possono dirsi le regole non derogabili dall’autonomia privata527.
Nel concetto di ordine pubblico è compreso anche l’ordine economico, vale a dire il sistema di controlli e di programmi che servono a indirizzare e coordinare l’attività economica, non solo dello Stato e dei soggetti pubblici, ma anche dei privati (art. 41, comma 3, Cost.).
I princìpi di ordine pubblico riguardano sia la libertà dei beni, e sono intesi a favorirne la circolazione ed il più razionale sfruttamento, sia la libertà delle persone, nei rapporti personali e nelle attività economiche.
Particolare rilievo assumono i princìpi di ordine pubblico costituzionale, tra cui il principio di eguaglianza e di non discriminazione, che producono efficacia diretta nei rapporti tra privati.
Quanto al requisito della determinatezza, è sufficiente che vi siano indici che consentano di determinare la prestazione, con una parificazione della determinatezza alla determinabilità (art. 1346 c.c.).
4.1.1. Classificazione delle obbligazioni
Secondo la più antica classificazione, le obbligazioni si distinguono, secondo il contenuto, in dare, facere, praestare; quest’ultima tipologia si riferiva in particolare alle obbligazioni di garanzia o di indennità.
Obbligazioni tipiche d’indennità sono quelle dell’assicuratore (art. 1882) e del promittente del fatto o dell’obbligo altrui (art. 1381): chi promette l’obbligazione o il fatto di un terzo «è tenuto a indennizzare l’altro contraente, se il terzo rifiuta di obbligarsi o non compie il fatto promesso» (art. 1381); nell’assicurazione di responsabilità civile contro i danni, la legge stabilisce che l’assicuratore «è obbligato a tenere indenne l’assicurato di quanto questi deve pagare a un terzo, in conseguenza della responsabilità dedotta nel contratto» (art. 1917).
La classificazione più attuale delle obbligazioni è fondata sulla tripartizione «dare –
facere – non facere».
Le obbligazioni di garanzia e indennità, originariamente rientranti nell’ambito delle obbligazioni di praestare, possono ricondursi fra le prestazioni di dare o di fare.
4.2. Le obbligazioni di dare
Le obbligazioni di dare possono consistere sia in un consegnare, sia in un trasferire o costituire un diritto. Nel primo senso, il dare indica un’attività del debitore diretta alla dismissione del possesso o della detenzione di una cosa a favore e nell’interesse del creditore; nel secondo, invece, esso consiste in una attività del debitore che permetta
527 X. Xxxxxxxx, Obbligazioni, cit.
l’acquisto di un diritto nell’interesse del creditore. Le obbligazioni di dare possono consistere anche in un obbligo restitutorio.
Delle varie specie di obbligazione di dare – trasferire, consegnare, rilasciare, restituire
– deve sottolinearsi come la frequenza dell’obbligo di trasferire è ridotta in un sistema come il nostro, fondato sulla efficacia traslativa del consenso nei contratti che abbiano ad oggetto il trasferimento della proprietà o di altro diritto (art. 1376 c.c.). L’obbligazione di trasferire, e cioè di fare acquistare la proprietà della cosa o il diritto, rimane circoscritta alle ipotesi in cui «l’acquisto non è effetto immediato del contratto» (art. 1476 n. 2). Sono le ipotesi: i) di cosa determinata solo nel genere, trasmettendosi allora la proprietà all’atto dell’individuazione (art. 1378 c.c.); ii) di cose future o di cose altrui (quando possano essere dedotte ad oggetto del contratto, come è consentito nella vendita, allora configurandosi una «vendita obbligatoria», ex artt. 1472 e 1478).
Quando l’obbligazione di trasferire deve essere adempiuta attraverso un’attività negoziale, come nel caso di obbligo legale o convenzionale a contrarre (art. 1351 c.c. sul contratto preliminare e art. 1706, comma 2, c.c. in tema di mandato), la prestazione dovuta si configura non in termini di dare, bensì di facere.
Un orientamento teorico è giunto a ricomprendere tra le obbligazioni di facere ogni obbligazione di dare, negando autonomia e rilevanza alla relativa categoria tipologica. Tale tesi trae il principale argomento dall’esaltazione del principio consensualistico: il trasferimento della res, nel nostro ordinamento, quando ha ad oggetto una cosa determinata o una determinata massa di cose, avviene per mezzo del semplice consenso (artt. 1376, 1377 c.c.), senza necessità di un’effettiva traditio. Di conseguenza, le obbligazioni di dare godrebbero di una configurazione autonoma solo in quegli ordinamenti, diversi dal nostro, in cui l’acquisto della res è connotato da due momenti: il titulus, quale consacrazione della causa obbligatoria, e il modus, quale strumento di realizzazione, mediante consegna, dell’effetto obbligatorio, con conseguente differimento del momento traslativo.
Anche il nostro sistema, tuttavia, ha accolto, in alcune ipotesi peculiari, la scissione tra titolus e modus. È il caso del pagamento traslativo, atto che realizza l’effetto traslativo in esecuzione (i.e. in pagamento) di un precedente rapporto obbligatorio che ne costituisce la causa esterna.
Il pagamento traslativo costituisce una valida e sufficiente argomentazione a favore della categoria tipologica delle obbligazioni di dare.
4.2.1. Le obbligazioni miste di dare e di fare
Le obbligazioni di dare sono diverse rispetto a quelle di fare, ma non sempre il dare e il fare costituiscono contenuto esclusivo dell’obbligazione. È frequente nella prassi che l’attribuzione di un bene implichi un’attività creativa (di fare), ma al contempo quell’attività implichi l’alienazione del bene prodotto (e, quindi, un dare).
In questi casi il criterio per distinguere tra le due categorie va ricercato nella prevalenza dell’attribuzione del bene (il dare) ovvero dell’attività creativa (il fare).
La prevalenza dell’uno o dell’altro elemento va accertata in base al contenuto dell’obbligazione: si deve reputare prevalente il fare o il dare secondo che l’obbligazione
sia determinata dal titolo principalmente in relazione all’attività creativa del debitore (il fare) ovvero principalmente in relazione all’alienazione del prodotto finito (il dare).
Il criterio della prevalenza è enunciato dal codice in tema di distinzione tra contratto d’opera e vendita: se le parti hanno tenuto in prevalente considerazione la materia fornita dal prestatore d’opera, si applica la disciplina della vendita (2223 c.c.).
Analogamente, ai fini della distinzione tra appalto e vendita di cosa futura si ha riguardo al contenuto del contratto, secondo che sia programmato il compimento dell’opera ovvero l’alienazione del bene. Se il contratto prevede entrambi gli impegni della parte, l’obbligo di fare si pone come obbligo primario e assorbente, salvo che risulti avere un carattere meramente complementare rispetto all’oggetto dell’alienazione (il dare).
Il criterio della prevalenza ha riguardo al contenuto dell’obbligazione come determinato dal titolo ed è quindi un criterio oggettivo, dovendosi escludere che la prevalenza del fare o del dare dipenda dal giudizio soggettivo delle parti.
4.3. Le obbligazioni di fare e di non fare
La prestazione di “fare” indica qualsiasi comportamento del debitore diverso dal dare, compreso il comportamento negativo (non fare). Le obbligazioni di non facere, avendo a oggetto un comportamento omissivo del debitore, esprimono un divieto o, meglio, un precetto giuridico negativo528.
L’obbligazione di non facere è una “obbligazione negativa”, perché ha ad oggetto un comportamento omissivo del debitore.
Sotto l’aspetto del contenuto, l’obbligazione negativa costituisce un divieto, ossia un precetto giuridico negativo, ma essa si distingue rispetto ai doveri extracontrattuali di non ledere l’altrui sfera giuridica (neminem laedere). Tali doveri hanno infatti il carattere della genericità, essendo sanciti nei confronti di tutti i portatori di un interesse giuridicamente meritevole dell’altrui rispetto. L’obbligazione negativa rientra invece nello schema del rapporto obbligatorio intercorrente tra soggetti determinati.
Il carattere della temporaneità del vincolo accomuna le obbligazioni di fare e quelle di non fare. Come si è già avuto modo di evidenziare, l’esigenza di una limitazione del vincolo nel tempo è in verità propria di ogni obbligazione, ma si avverte nel sistema l’accresciuta preoccupazione di tutelare il debitore contro l’indefinito protrarsi del vincolo ove la condotta imposta consista nello svolgimento di un’attività o nell’astensione dall’agire. La libertà dell’iniziativa economica e la tutela della concorrenza costituiscono principi fondamentali del sistema che ostano all’imposizione di limiti e vincoli che, per la loro durata, determinano il totale sacrificio della libertà dei beni e dei soggetti. La disciplina dei limiti e dei vincoli è contrassegnata dal motivo ispiratore della necessaria temporaneità.
Ove si tratti di obbligazioni che limitano o escludono il potere di disporre di cose o diritti, la disciplina è altresì informata al principio della efficacia relativa del vincolo, che rimane circoscritto ai soggetti del rapporto obbligatorio: sul diritto o sulla cosa che forma
528 Bianca, Diritto civile, L’obbligazione, IV, Milano, 2003, 120.
oggetto del rapporto non si imprime un ‘peso’ di carattere reale, con effetti erga omnes529. L’efficacia meramente obbligatoria del vincolo costituisce la regola, come accade per i divieti di alienare o di cedere, ma non mancano ipotesi eccezionali in cui la legge attribuisce efficacia reale al vincolo, come nel caso della prelazione legale.
4.3.1. Obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato
La «diligenza del buon padre di famiglia» è il criterio su cui si basa la valutazione dell’esecuzione della prestazione da parte del debitore. La regola della «diligenza del buon padre di famiglia» e quella della diligenza conforme alla natura dell’attività professionale da svolgere (art. 1176, comma 1 e 2, c.c.) hanno indotto la dottrina a prospettare, nell’ambito delle prestazioni di fare, due distinte categorie di obbligazioni: da un lato, le obbligazioni «di diligenza», dette anche obbligazioni «di mezzi», dall’altro le obbligazioni cosiddette «di risultato».
Obbligazioni di mezzi sono le obbligazioni in cui il debitore è tenuto a svolgere un’attività a prescindere dal conseguimento di una determinata finalità.
Obbligazioni di risultato sono invece le obbligazioni in cui il debitore è tenuto a realizzare una determinata finalità a prescindere da una specifica attività strumentale.
Le prime hanno riguardo ad un determinato comportamento o servizio, mentre il conseguimento del risultato sperato rimane al di fuori della prestazione. Nelle obbligazioni di risultato, invece, si ha riguardo ad un dato effetto materiale o giuridico, essendo lasciata al debitore la scelta discrezionale dei mezzi e dei modi per il suo raggiungimento.
La distinzione si fonda su una diversità di contenuto: le obbligazioni “di risultato” si caratterizzano per la previsione, come fine dovuto, di un risultato in grado di determinare la piena soddisfazione dell’interesse del creditore; le obbligazioni “di mezzi” non si spingono sino al punto di imporre al debitore il conseguimento di un fine determinato. Il fine, pertanto, resta al di fuori del perimetro della prestazione: l’interesse del creditore trova soddisfazione in un comportamento del debitore qualificato da un certo grado di convenienza o di utilità in funzione di quel fine rimasto all’esterno del perimetro del vincolo, la cui realizzazione non è di per sé compresa nell’orbita del rapporto obbligatorio. La distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato produce l’effetto di suddividere i rapporti obbligatori in due categorie, a seconda della maggiore o minore corrispondenza del termine finale dell’obbligazione (il risultato dovuto) al termine iniziale (l’interesse da cui l’obbligazione trae origine). L’interesse iniziale viene indicato come interesse-presupposto ed è sempre orientato alla conservazione o al mutamento di una situazione iniziale. L’interesse iniziale, nelle obbligazioni di mezzi, si attesta nella dimensione del fatto; solo nelle obbligazioni di risultato quell’interesse viene giuridicizzato, divenendo così interesse protetto: la soddisfazione dell’interesse iniziale individua il risultato dell’obbligazione.
Nelle obbligazioni di mezzi, la giuridicizzazione dell’interesse iniziale non si compie e l’interesse protetto, che segna l’ampiezza del diritto del creditore, coincide con un momento intermedio nella sequenza delle modificazioni che possono condurre al
529 X. Xxxxxxxx, Obbligazioni cit.
soddisfacimento dell’interesse iniziale: quello che il creditore ha diritto di attendersi non è la soddisfazione dell’interesse iniziale, ma una serie più o meno ampia di mutamenti intermedi ai quali è condizionata la possibilità di soddisfare l’interesse iniziale530.
Nell obbligazioni di mezzi, in altri termini, è il comportamento del debitore ad essere in obbligazione, nel senso che la diligenza è tendenzialmente considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo, con l’ulteriore corollario che il risultato è caratterizzato dall’aleatorietà, perché dipende, oltre che dal comportamento del debitore, da altri fattori esterni oggettivi o soggettivi.
Nelle obbligazioni di risultato, invece, ciò che importa è il conseguimento del risultato stesso, essendo indifferente il mezzo utilizzato per raggiungerlo. La diligenza opera solo come parametro, ovvero come criterio di controllo e valutazione del comportamento del debitore: in altri termini, è il risultato cui mira il creditore, e non il comportamento, ad essere direttamente in obbligazione.
La differenza tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato è allora una differenza tra due diversi contenuti della prestazione dovuta. Precisamente, nelle prime la prestazione dovuta prescinde da un particolare esito positivo dell’attività del debitore, e il debitore adempie quindi esattamente l’obbligazione se svolge l’attività prevista nel modo dovuto.
Nelle seconde ciò che è dovuto è il risultato, e per adempiere esattamente l’obbligazione il debitore deve conseguire tale risultato. Se il risultato non si realizza l’obbligazione è quindi inadempiuta pur se il debitore abbia tenuto un comportamento diligente. Ciò vuol dire, ancora, che la prova del comportamento diligente non è prova dell’adempimento.
Dottrina e giurisprudenza hanno assunto posizioni critiche sull’utilizzo della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato. Tale distinzione, ancorché operante soltanto all’interno della categoria delle obbligazioni di fare (a differenza che in Francia, dove rappresenta una summa divisio valida per tutte le obbligazioni), refluisce sulla disciplina della responsabilità da inadempimento: la regola di responsabilità diviene più rigida in presenza di un’obbligazione “di risultato” e, invece, più mite in presenza di un’obbligazione “di mezzi”. Nell’ordinamento francese, che alla distinzione ha riservato non solo la prima elaborazione ma anche il più ampio riconoscimento, la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato è stata concepita proprio per modulare in maniera più favorevole al debitore la questione dei temi di prova nelle obbligazioni di mezzi.
Nelle obbligazioni di mezzi, precisamente, si applicherebbe la regola della responsabilità per colpa (il debitore non è responsabile se si è comportato diligentemente); nelle obbligazioni di risultato si applicherebbe invece la regola della responsabilità oggettiva: la diligenza impiegata dal debitore è irrilevante perché ciò che è dovuto è solo il risultato.
Sul tema, si rinvia alla parte dedicata alla responsabilità da inadempimento.
530 X. Xxxxxxx, Xxxxx e ricorsi delle obbligazioni “di risultato” e delle obbligazioni “di mezzi”: la distinzione e la dogmatica della sua irrilevanza, in Contratti, 2014, 10, 888.
4.4. L’obbligazione del fatto del terzo e l’obbligazione di garanzia
Si detto che secondo la più antica classificazione, tra le obbligazioni figuravano anche quelle di praestare: quest’ultima tipologia si riferiva in particolare alle obbligazioni di indennità e a quelle di garanzia.
La promessa del fatto del terzo è un tipo esempio di obbligazione d’indennità: chi promette l’obbligazione o il fatto di un terzo «è tenuto a indennizzare l’altro contraente, se il terzo rifiuta di obbligarsi o non compie il fatto promesso» (art. 1381)
L’obbligazione del fatto del terzo è quella che impegna il debitore all’agire altrui. Il debitore, precisamente, è obbligato a che un terzo tenga un certo comportamento positivo o negativo, stipulando o non stipulando un negozio giuridico, assumendo un’obbligazione, rinunziando ad un diritto, astenendosi da un acquisto, eseguendo un’opera, ecc.
Il Codice civile prevede l’obbligazione del fatto del terzo come effetto di una promessa. La «promessa» non è una speciale fonte dell’obbligazione, ma è l’atto di autonomia privata del debitore, che può integrare un contratto o consistere in un negozio unilaterale.
Contenuto della promessa è che il terzo assuma un’obbligazione o esegua una prestazione.
L’obbligazione del fatto altrui si differenzia rispetto alla garanzia dell’obbligazione altrui. Chi garantisce l’adempimento altrui diviene infatti obbligato egli stesso ad eseguire la prestazione garantita. Chi, invece, promette il fatto altrui non diviene obbligato a compiere quel fatto, ma è tenuto a adoperarsi affinché il terzo Io compia.
L’obbligazione del promittente è di facere, cioè di adoperarsi affinché il terzo compia il fatto o assuma l’obbligazione promessa. La promessa si configura così come “obbligazione di mezzi”, consistente in una condotta diligente e in un risultato (la promessa o il fatto del terzo) che rimane esterno al contenuto dell’obbligazione. Se non adempie diligentemente l’obbligazione di facere, il promittente incorre nella responsabilità da inadempimento ai sensi dell’art. 1218 c.c.
Se invece l’obbligazione viene adempiuto e, ciononostante, il terzo non presta o non assume l’obbligazione promessa, il promittente deve indennizzare il promissario, anche se da parte sua ha fatto il possibile per indurre il terzo a prestare.
L’obbligazione del fatto del terzo comporta l’assunzione di un rischio da parte del promittente: il rischio che il terzo non compia il fatto o non assuma l’obbligazione promessa, nonostante lo sforzo di diligenza impiegato dal promittente.
Si tratta di una prestazione di sicurezza, assimilabile alle obbligazioni di praestare del diritto romano, che trasferisce il rischio del fatto del terzo dalla sfera del promissario a quella del promittente. L’indennizzo compensa la perdita del vantaggio patrimoniale che il promissario avrebbe ottenuto dal fatto o dall’obbligazione del terzo.
4.5. Obbligazioni fungibili e infungibili. Obbligazioni generiche e specifiche
L’obbligazione si dice fungibile quando è sostituibile, avendo ad oggetto un bene il cui valore (economico, commerciale, personale) è equivalente a quello di un altro bene. L’obbligazione è al contrario infungibile quando non è sostituibile con altra, in quanto
individuata dalle parti in funzione di un determinato rapporto. La fungibilità del bene può dipendere non solo da qualità intrinseche della cosa, ma anche dal significato e dall’utilità che i contraenti intendano attribuire a quel determinato bene, in quanto possono conferire ad una cosa, che normalmente sarebbe valutata come fungibile, il carattere dell’infungibilità.
Un orientamento della dottrina tende a far coincidere le obbligazioni fungibili con quelle generiche.
Queste ultime sono obbligazioni di dare aventi a oggetto beni designati secondo l’appartenenza ad un genere, ossia ad una categoria di beni: l’art. 1178 c.c. definisce l’obbligazione generica quella che “ha per oggetto la prestazione di cose determinate soltanto nel genere”.
Alle obbligazioni generiche si contrappongono quelle specifiche, che designano beni determinati nella loro individualità.
La caratteristica delle obbligazioni generiche è che, ai fini dell’adempimento, esse necessitano di un’individuazione, vale a dire di una determinazione in concreto della cosa dovuta. Per tale ragione si ritiene che esse siano facilmente sostituibili dal debitore con beni appartenenti allo stesso genus. In questo senso, si può opinare che l’obbligazione generica non potrebbe mai rimanere inadempiuta per impossibilità sopravvenuta (genus numquam perit) a norma dell’art. 1456 c.c., se non adducendo il perimento dell’intero genere.
4.6. Le obbligazioni di durata
La prestazione che forma oggetto dell’obbligazione può essere istantanea o di durata.
La prestazione di durata è caratterizzata dall’esecuzione prolungata nel tempo: periodica, quando l’esecuzione avviene ad intervalli di tempo regolari (es. il pagamento di un canone mensile); continuativa, quando essa avviene in maniera ininterrotta (es. la somministrazione di energia elettrica).
Nelle obbligazioni di durata, soprattutto se con esecuzione periodica, ogni parte della prestazione è dotata di una certa autonomia, che rileva ad esempio in caso di risoluzione del contratto. Anche l’interesse del creditore è durevole e non può essere soddisfatto da una prestazione ad esecuzione istantanea. Tale specifico interesse creditorio consente di distinguere l’obbligazione di durata dall’obbligazione con prestazione unica frazionata nel tempo (es. rateazione del prezzo di una compravendita; consegna di merce in più partite)531.
Il rapporto di durata è anche caratterizzato dal rilievo del profilo fiduciario, che si instaura tra le parti: ne è conferma l’art. 1564 c.c., dettato per la risoluzione della somministrazione, che considera «la fiducia nell’esattezza dei successivi adempimenti». Non rientrano nella categoria dei rapporti di durata le obbligazioni ad esecuzione istantanea, ma differita nel tempo mediante un termine iniziale: in questi casi, il rapporto obbligatorio si protrae nel tempo, ma l’esecuzione rimane comunque istantanea.
I più comuni rapporti obbligatori di durata sorgono dai contratti di appalto, di somministrazione, di locazione, di affitto, di rendita vitalizia e perpetua, di assicurazione,
531 A. Chianale, Obbligazioni di durata, in Enc. Dir., 1995.
di lavoro. Ma prestazioni periodiche sorgono anche nell’ambito dei procedimenti di separazione e divorzio: un’ipotesi, avente fonte giudiziale, si rinviene nell’art. 156, comma 6, c.c. Obbligazioni di durata possono poi scaturire dall’autonomia testamentaria, sotto forma di oneri o legati532.
Le obbligazioni di durata possono essere considerate una categoria autonoma di obbligazioni, in quanto caratterizzate da una disciplina propria.
Nella parte del contratto in generale, infatti, sono contenute alcune norme dettate specificamente per i rapporti di durata. Si tratta di regole ispirate al principio della irretroattività delle vicende del rapporto rispetto alle prestazioni già eseguite.
Nei contratti a prestazioni periodiche o continuative, l’irretroattività caratterizza l’avveramento della condizione risolutiva e la risoluzione per inadempimento, che non toccano le prestazioni già eseguite (artt. 1360 e 1458 c.c.).
Nell’ambito dei rapporti di durata, l’esercizio del diritto di recesso, nei contratti a esecuzione continuativa, ha effetto dalla comunicazione alla controparte e, negli altri contratti, in quanto atto unilaterale recettizio, dall’esecuzione della prestazione in corso alla data della comunicazione (art. 1373, comma 2, c.c.). Il Codice civile, quindi, esclude la retroattività degli effetti del recesso sul rapporto.
Durante il tempo dell’obbligazione, le parti possono manifestare interesse a un mutamento delle prestazioni che ne formano oggetto. Tale circostanza, in alcuni casi, è disciplinata dalla legge, che, ad esempio, prevede le modalità per apportare variazioni al contenuto della separazione o del divorzio (artt. 155 e 156 c.c.; art. 9, l. n. 898/70). Durante il tempo dell’obbligazione, inoltre, si può verificare un mutamento delle circostanze originarie, tale da incidere, ad esempio, sul costo dell’esecuzione della prestazione in misura non prevista all’inizio del rapporto.
Se l’obbligazione di durata è assunta a titolo gratuito o comunque senza corrispettivo (come nel contratto con obbligazioni a carico del solo proponente, di cui all’art. 1333 c.c.), il principio di equità consente al debitore di modificare l’obbligazione: egli può chiedere la riduzione della prestazione o la modifica delle modalità esecutive, sufficienti per ricondurre la situazione ad equità (art. 1468 c.c.).
Se invece l’obbligazione di durata deriva da un contratto sinallagmatico, si pone il problema di stabilire quale soggetto debba sopportare il rischio della sopravvenienza e se il contratto, a causa di quella sopravvenienza, possa essere sciolto.
Sul problema della gestione delle sopravvenienze contrattuali, si rinvia alla parte sul contratto dedicata al tema.
4.7. Le obbligazioni alternative e facoltative (rinvio)
L’obbligazione alternativa è l’obbligazione in cui sono dovute due o più prestazioni ma un solo adempimento (1285 c.c.).
L’obbligazione facoltativa (o con facoltà alternativa) è l’obbligazione in cui è dovuta una prestazione ma il debitore ha la facoltà di liberarsi eseguendone un’altra.
Sul tema si rinvia al capitolo dedicato alle obbligazioni complesse.
532 A. Chianale, Obbligazioni di durata, cit.
5. L’interesse del debitore tutelato nel rapporto obbligatorio
Nel rapporto obbligatorio, all’interesse del creditore fa da contraltare l’interesse del debitore: la posizione di obbligato non esclude la titolarità di una situazione d’interesse protetto. Al contrario, un interesse del debitore, che trova tutela nell’ordinamento, è certamente la liberazione dal vincolo. Di qui le particolari norme relative ai casi in cui il creditore è tenuto a cooperare per rendere possibile l’adempimento (art. 1206 c.c.), nonché le norme che disciplinano l’istituto dell’offerta reale.
Il sistema riconosce altresì l’interesse del debitore a liberarsi mediante l’adempimento personale dell’obbligo: perciò il debitore può rifiutare la remissione (o una riduzione o una dilazione) del debito accordatagli dal creditore (art. 1236 c.c.) e può manifestare la propria opposizione all’adempimento che un terzo voglia fare del suo debito (art. 1180 c.c.).
L’interesse del debitore a liberarsi con l’adempimento, e non già per fatti estranei alla sua attività, riceve comunque una più ristretta tutela rispetto all’interesse alla liberazione. Il rilievo assunto dall’interesse del debitore consente di trarre fin d’ora alcune conclusioni riguardo all’estinzione dell’obbligazione. In linea normale, l’estinzione postula la consumazione dei due interessi estremi del rapporto, cioè la soddisfazione dell’interesse del creditore e la soddisfazione dell’interesse del debitore (i.e., la liberazione dall’obbligazione. Tale estinzione si realizza pienamente con l’adempimento
del debitore, che esegua la prestazione dovuta in confronto del creditore.
Ma, in taluni casi, l’estinzione si verifica con l’attuazione del solo interesse del creditore a ricevere o, al contrario, con l’attuazione del solo interesse del debitore ad essere liberato. E ciò in forza del principio generale secondo cui, per la realizzazione del diritto di credito, non è necessaria l’attività propria del soggetto obbligato, né sempre l’esecuzione della prestazione che forma oggetto dell’obbligazione, giacché l’oggetto del diritto di credito non è il bene dovuto, ma la connessa utilità economica533.
6. La responsabilità del debitore e la garanzia patrimoniale
Nell’obbligazione, al dovere di eseguire la prestazione è strettamente e inscindibilmente collegata la responsabilità del debitore.
Dall’obbligazione, fin quando la stessa non venga estinta, deriva una responsabilità che incide sull’intero patrimonio dell’obbligato. Il principio della garanzia patrimoniale generica è contenuto nella regola per cui «il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri» (art. 2740, comma 1, c.c.). La norma stabilisce che la garanzia del creditore non è limitata ai beni esistenti nel patrimonio del debitore al momento della nascita dell’obbligazione, ma si estende fino a comprendere anche i beni acquisiti in tempi successivi.
L’estensione della garanzia sta a significare che la sussistenza di un’obbligazione non paralizza l’attività del debitore, nella prospettiva di conservare immutato il patrimonio su cui il creditore può soddisfare le proprie ragioni. Nella regola sancita dall’art. 2740 c.c., dunque, è sottintesa la libertà del debitore di compiere attività che accrescano o
533 X. Xxxxxxxxx, Esecuzione forzata e diritto sostanziale, Milano, 1935, rist. Napoli, 1978
diminuiscano i suoi beni. A fronte di tale libertà, tuttavia, l’ordinamento appresta tutele specifiche al creditore, consentendogli di intervenire solamente se l’attività o la condotta dell’obbligato mettono in pericolo la «conservazione della garanzia patrimoniale» (art. 2900 ss.). La garanzia patrimoniale viene considerata dalla legge sotto un duplice profilo: quello della attuazione della responsabilità del debitore in caso di inadempimento (e in questa prospettiva si colloca l’esecuzione forzata, art. 2910 c.c.) e quello della conservazione della responsabilità patrimoniale prima e a prescindere dall’eventuale inadempimento. In quest’ultima prospettiva si collocano i «mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale» (art. 2900 c.c.) che costituiscono strumenti di tutela preventiva del credito.
Mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale sono l’azione surrogatoria, l’azione revocatoria, il sequestro conservativo. L’azione surrogatoria (art. 2900) presuppone la negligenza o l’inerzia del debitore: il creditore a lui si sostituisce per agire in suo nome, in giudizio o fuori del giudizio, nel primo caso realizzando una forma di sostituzione processuale (art. 81 c.p.c.), e per effetto dell’azione la sfera patrimoniale del debitore si accresce, o se ne impedisce la diminuzione.
Una tutela più intensa di quella fornita dall’azione surrogatoria è apprestata al creditore nei casi di azione diretta, come quella accordata al locatore contro il subconduttore (art. 1595), agli ausiliari dell’appaltatore contro il committente (art. 1676), al mandante contro la persona sostituita dal mandatario nell’esecuzione dell’incarico (art. 1717 comma 4). Una spiegazione unitaria di queste figure non è possibile, così come non è possibile un discorso che comprenda tutte le forme di tutela diverse dalla surrogatoria e tuttavia riducibili alla esigenza di mantenere integra la garanzia patrimoniale, forme di tutela a volte contemplate come alternative (v. l’art. 1113 comma 1)534.
L’azione revocatoria (xxxxx xxxxxxxx) è concessa contro gli atti dispositivi compiuti dal debitore in frode dei creditori, ed è diretta ad ottenere la dichiarazione di inefficacia dell’atto nei confronti del creditore.
Il sequestro conservativo consiste in un vincolo di indisponibilità materiale e giuridica che il giudice autorizza a costituire sui beni del debitore, in favore del creditore che abbia fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito. Quando il rischio di una diminuzione patrimoniale si presenta tale da mettere in pericolo l’eventuale realizzazione coattiva del credito, il creditore può avvalersi del sequestro per cristallizzare nelle condizioni attuali il patrimonio su cui successivamente agire esecutivamente. In sostanza, il sequestro conservativo comporta la sottrazione (materiale e giuridica) del bene sequestrato alla disponibilità del debitore proprietario, anticipando così, in via provvisoria, i tempi di quell’esecuzione satisfattoria che il creditore potrà ottenere sul bene.
7. Esecuzione forzata ed esecuzione specifica
Gli strumenti di attuazione coattiva del rapporto obbligatorio rispondono al principio di effettività della tutela, che è volto ad assicurare al diritto di credito una protezione piena
534 X. Xxxxxxxx, Obbligazioni, cit.
e specifica. Il titolare deve conseguire, per via di adempimento o attraverso il processo, esattamente ciò che gli spetta, sia sul piano quantitativo, sia su quello qualitativo. L’ordinamento deve assicurare al soggetto illegittimamente privato di un bene della vita il recupero del medesimo bene, il quale, solo eccezionalmente, per impossibilità o per ragioni di interesse superiore, può essere sostituito dall’equivalente in denaro.
«Per conseguire quanto gli è dovuto» il creditore può fare espropriare i beni del debitore (art. 2910 c.c.) o anche i beni di un terzo che siano vincolati a garanzia del credito o che siano stati oggetto di acquisto revocato per frode ai danni del creditore.
L’espropriazione, attraverso le varie fasi – pignoramento, vendita o assegnazione forzata, attribuzione del ricavato al creditore o distribuzione tra i vari creditori concorrenti – in realtà non assicura al creditore «quanto gli è dovuto», ma solo l’equivalente in danaro della prestazione inadempiuta. Solamente ove si tratti di obbligazioni pecuniarie può dirsi conseguita la medesima utilità alla cui produzione era ordinato il rapporto nell’interesse del creditore. Nell’ambito dell’esecuzione forzata, oltre allo strumento dell’espropriazione che rimane il mezzo normale di tutela del diritto e di attuazione degli obblighi, è prevista anche l’esecuzione forzata «in forma specifica» (art. 2930 ss.). Quest’ultima consente la soddisfazione dell’interesse del creditore non più per equivalente, ma con l’acquisizione diretta del bene promesso o più genericamente dell’utilità attesa al patrimonio del creditore.
Le obbligazioni negative appaiono le più idonee ad essere coattivamente eseguite in maniera da realizzare l’aspettativa del creditore alla conservazione della realtà fisica, o della realtà dei rapporti economici. Nelle obbligazioni di non fare, «ogni fatto compiuto in violazione di queste costituisce di per sé inadempimento» (art. 1222) e si risolve perciò nell’inattuazione dell’interesse creditorio e del rapporto. Ma la rimozione o la soppressione di ciò che è stato fatto, in breve il ripristino della situazione, valgono a procurare la ‘specifica’ utilità: è il senso della generale previsione in virtù della quale
«l’avente diritto può ottenere che sia distrutto, a spese dell’obbligato, ciò che è stato fatto in violazione dell’obbligo» (art. 2933 comma 1).
La regola è dunque rappresentata dal dovere di ripristino, mentre soccorre il minore rimedio del risarcimento dei danni «se la distruzione della cosa è di pregiudizio all’economia nazionale» (art. 2933 cpv.): la previsione, chiaramente inquadrata nella ideologia e nei meccanismi dell’età corporativa, può adattarsi ad una valutazione comparativa degli interessi del debitore e del creditore (arricchita da un giudizio obiettivo circa l’opera in sé), non dissimile dal confronto degli interessi che la legge impone con riguardo alla richiesta del risarcimento in forma specifica nella responsabilità aquiliana (art. 2058 c.c.), nella quale il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore.
La tutela «reale» del credito si presenta ancora più agevole quando la prestazione abbia ad oggetto la consegna o il rilascio di una cosa determinata mobile o immobile, esistente nel patrimonio del debitore: è l’ipotesi contemplata dall’art. 2930 e, quanto al procedimento, dagli art. 605 ss. c.p.c. Alle obbligazioni di consegna o rilascio di cosa determinata possono assimilarsi, per ciò che concerne la soddisfazione del creditore, le obbligazioni pecuniarie, anche se il conseguimento dell’utilità dedotta in rapporto avviene attraverso l’espropriazione.
Degli obblighi di fare (fungibili e infungibili) si è già avuto modo di parlare.
Capitolo III
Buona fede, correttezza e abuso del diritto
1. Il dovere di correttezza e buona fede
La norma che impone ai soggetti del rapporto obbligatorio un «comportamento secondo correttezza535» (art. 1175 c.c.) esprime un principio fondamentale dell’ordinamento, che racchiude un criterio di valutazione della condotta delle parti e, allo stesso tempo, una fonte di integrazione del rapporto obbligatorio536.
Un significato sostanzialmente identico a quello espresso dall’art. 1175 cc. deve essere attribuito alla regola della buona fede537 enunciata: i) dall’art. 1375 c.c. (secondo cui «il contratto deve essere eseguito in buona fede»); ii) dall’art. 1358 c.c. (che assume la buona fede a regola di comportamento dei contraenti in pendenza di condizione); iii) dall’art. 1460, comma 2, c.c. (che individua nella buona fede il criterio dell’esercizio legittimo della facoltà di rifiutare l’adempimento a ragione dell’inadempimento dell’altro contraente); iv) dall’art. 1337 c.c., che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto.
L’omogeneità del concetto di buona fede e correttezza contenuto nelle norme richiamate consente di fondare la teoria della buona fede-correttezza quale clausola generale unitaria.
Essa costituisce la specificazione e la proiezione, nei singoli momenti (di formazione e di attuazione) del rapporto obbligatorio, di un’unica direttiva di principio.
La buona fede, nell’assurgere così a fondamento di un principio generale dei rapporti privati, armonizza e ad un tempo trascende gli ambiti delle specifiche norme di legge che la richiamano. Alla buona fede si riconosce quella elasticità e duttilità, propria delle clausole generali, che ne arricchisce le potenzialità applicative.
535 X. Xxxxxxx, Correttezza, in Dig. Priv., 1989; X. Xxxxxx, Correttezza (obblighi di), in Enc. Dir., X, 1962.
536 Al di fuori della materia delle obbligazioni, la regola della correttezza è talora ricondotta alle valutazioni ed alla condotta propria di un particolare ambiente. Nel campo delle attività economiche, ad esempio, la liceità della concorrenza è giudicata secondo le regole della «correttezza professionale» (art. 2598, n. 3, c.c.). Il comportamento
«secondo correttezza» è imposto tanto al debitore quanto al creditore, mentre il criterio specifico per valutare la condotta dell’obbligato è la «diligenza del buon padre di famiglia» (art. 1176, comma 1, c.c.), o la diligenza richiesta dalla natura dell’attività ove si tratti di obbligazione inerente ad una attività professionale (art. 1176, comma 2, c.c.). Al dovere di correttezza possono ricondursi molteplici obblighi previsti nel regime dei singoli rapporti ora a carico del debitore, ora a carico del creditore: doveri di informazione dell’altra parte (art. 1686, 1690, 1710, 1746, comma 1, 1759, comma 1, 1800, comma 2, c.c.), di denuncia (artt. 1663, 1780, comma 1, 1785), di avvertimento (art. 1728.),
di avviso (artt. 1586 comma 1, 1687 comma 2, 1718 comma 3, 1770, 1913), di salvataggio di cose (artt. 1805 comma 1914), di richiesta di istruzioni (art. 1681 comma 1, 1690 comma 1). Costituisce una derivazione del dovere di correttezza anche l’obbligo del creditore di evitare o ridurre i danni procurati dall’inadempimento (art. 1227, comma 2, richiamato per la responsabilità da fatto illecito dall’art. 2056, comma 1 e, in materia di assicurazioni, dall’art. 1914). La predisposizione di misure idonee ad impedire o ad attenuare il danno riguarda non solamente il tempo successivo all’inadempimento, ma anche l’organizzazione dell’attività e del patrimonio prima e indipendentemente dall’inadempimento dell’obbligo. Il dovere ora illustrato, secondo un modello più accentuato di correttezza accolto in alcuni ambienti (ad esempio, nel diritto angloamericano) è integrato dal dovere di limitare il danno, sempre che ciò sia possibile senza grave sacrificio della personale libertà del creditore o dei suoi beni (X. XXXXXXXX, Obbligazioni, cit.).
537 X. Xxxxxx, Buona fede (dir. priv.), in Enc. Dir., V, 1959; L. Xxxxxxxxx Xxxx, Buona fede nel diritto civile, in Dig. Priv., 1988; X. Xxxxxxx, X. X’xxxxxx, voce Buona fede, in Enc. giur., III, 1.
La tensione espansiva della buona fede si coglie nell’opinione della dottrina e della giurisprudenza che inscrivono la clausola generale nel sistema dei valori costituzionali, indicandone la relazione con il principio di solidarietà sociale enunciato nell’art. 2 Cost. Alla regola di buona fede, in questo modo, si attribuisce contenuto, dimensione e valenza politico-costituzionale, dagli ampi confini.
In questa prospettiva, la «clausola generale» di buona fede conferisce al giudice un largo potere di apprezzamento, consentendogli di spiegare un penetrante controllo dei rapporti privati. Apprezzati alla stregua del criterio di buona fede, i rapporti possono essere ricondotti ad una «misura» di poteri e doveri adeguata alle esigenze del sistema, ora nel senso della conservazione ora nel senso dell’innovazione538.
L’elaborazione giurisprudenziale e la teoria dottrinale hanno consentito alla clausola di buona fede di operare all’interno del rapporto obbligatorio in più direzioni.
La prima direzione è nel senso della valutazione del comportamento delle parti del rapporto obbligatorio.
La seconda direzione è nel senso dell’integrazione del rapporto con obbligazioni strumentali all’adempimento. In questa prospettiva, la clausola di buona fede costituisce fonte di obbligazioni integrative.
La più recente direzione è nel senso della formazione di obbligazioni autonome. In questa prospettiva, la clausola di buona fede assurge a fonte di obbligazioni protettive.
2. La valutazione del comportamento delle parti
Nella sua dimensione originaria, la buona fede è chiamata a operare nella sola fase esecutiva del rapporto obbligatorio, offrendo al giudice un criterio di valutazione del comportamento adottato dalle parti nel concreto adempimento dell’obbligazione.
In questo senso, essa opera soltanto in una fase successiva al sorgere dell’obbligazione, come criterio valutativo che consente di verificare ex post la conformità del comportamento delle parti ai valori espressi dall’ordinamento, di cui la clausola di buona fede costituisce incarnazione. In breve, l’esecuzione del rapporto obbligatorio deve avvenire conformemente alla buona fede, che costituisce il paradigma di valutazione della condotta delle parti539.
538 X. Xxxxxxxx, Obbligazioni, cit.
539 È in applicazione della buona fede valutativa che la giurisprudenza ha risolto l’annosa questione relativa alla possibilità di estinguere un’obbligazione pecuniaria tramite la consegna di un assegno circolare, in luogo del denaro. Considerando che, per la disciplina bancaria, l’assegno circolare è un titolo di credito di sicuro realizzo, la questione sottoposta alle Corti ha avuto ad oggetto la contrarietà o meno alla buona fede del rifiuto del creditore di accettare la consegna di tale tipo di assegno in luogo del denaro. Secondo le Sezioni Unite, nelle obbligazioni pecuniarie, per le quali non sia imposta per legge una diversa modalità di pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta, in moneta avente corso legale nello Stato o mediante consegna di assegno circolare e il creditore non
può rifiutare il pagamento, diversamente contravvenendo alla regola della correttezza e della buona fede
(Cass., Sez. Un., 18 dicembre 2007, n. 26617; Cass., Sez. Un., 4 giugno 2010, n. 13658). Per approfondimenti si rinvia al capitolo sulle obbligazioni pecuniarie.
3. Gli obblighi integrativi strumentali all’adempimento
Da clausola valutativa a clausola precettiva: la diversa direzione assunta dalla buona fede, come già accennato, è nel senso dell’integrazione del rapporto con obbligazioni strumentali all’adempimento, sia dal lato del creditore, sia da quello del debitore. In questa prospettiva, la buona fede funge da mezzo generale di tutela reciproca per garantire il giusto equilibrio tra le parti.
Partendo dal lato soggettivo attivo, dalla clausola di buona fede sorge un obbligo di cooperazione da parte del creditore, strumentale all’esecuzione della prestazione da parte del debitore. Quando l’adempimento dell’obbligazione non sia sotto l’esclusivo controllo del debitore, ma necessiti dell’intervento del creditore, l’ordinamento crea un sistema di rapporti complementari, l’uno fondamentale, l’altro accessorio. Il rapporto fondamentale concerne l’attività necessaria a realizzare l’interesse del creditore (cioè, l’interesse all’adempimento della prestazione); il rapporto complementare concerne l’attività necessaria a preservare l’interesse del debitore (l’interesse alla liberazione dal vincolo obbligatorio). L’intersezione dei due rapporti determina il sorgere di un vero e proprio obbligo di cooperazione del creditore, strumentale all’adempimento, che si traduce in una serie di doveri a contenuto specifico, quali quelli di non aggravare la posizione del debitore rispetto all’adempimento e di non peggiorare con il fatto proprio la condizione del debitore moroso. La violazione di tali obblighi comporta per il creditore la perdita del diritto di far valere la responsabilità del debitore e, al contempo, la responsabilità del creditore stesso per inadempimento dell’obbligo di cooperazione.
La clausola di buona fede e correttezza, intesa come mezzo generale di tutela reciproca per garantire il giusto equilibrio tra le parti, opera anche come fonte di obbligazioni integrative del debitore. Questi è tenuto all’adempimento non solo dell’obbligo primario di prestazione, ma anche dei doveri secondari di comportamento, strumentali alla realizzazione dell’interesse del creditore.
In questa dinamica di relazioni obbligatorie integrative bilaterali si compendia la clausola di reciprocità, che nella Relazione ministeriale al Codice civile esprime il senso della clausola di buona fede in funzione precettiva: il creditore, nel soddisfare il proprio interesse, deve tenere in considerazione l’interesse del debitore; il debitore, nell’eseguire la propria prestazione deve soddisfare l’interesse del creditore. Si impone, in questo modo, un bilanciamento dell’interesse del creditore con quello del debitore. La clausola di reciprocità, dando attuazione, sul piano civilistico, al principio costituzionale di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), pone in capo al debitore tutti quegli obblighi idonei a soddisfare l’interesse del creditore; al contempo, la reciprocità è fonte per il creditore di obblighi necessari a tutelare l’interesse del debitore. Tutto ciò in ossequio a un principio cardine dell’ordinamento, che vieta la soddisfazione egoistica dei propri interessi.
Quando la fonte dell’obbligazione è il contratto, l’oggetto di esso si estende a quei doveri, non espressamente dedotti nel regolamento negoziale, che derivano dalla clausola generale e precettiva di buona fede. Tale clausola, imponendo alle parti del contratto di comportarsi correttamente, sancisce un obbligo di buona fede oggettiva che opera come fonte di obbligazioni primarie e che conseguentemente determina una modificazione del contenuto originario del contratto, tramite l’emersione di obblighi ulteriori rispetto a quelli che già ne formano oggetto.
Dalla buona fede, intesa come fonte autonoma di obbligazioni, possono sorgere, ad esempio, obblighi di esecuzione di prestazioni non previste, di modifica del comportamento durante l’esecuzione della prestazione, di tolleranza rispetto a modifiche della prestazione che non ne compromettano la sostanziale utilità, di avviso e di informazione, nonché di corretto esercizio di poteri discrezionali.
La violazione della buona fede precettiva si traduce nell’inadempimento di un obbligo che configura una responsabilità ai sensi dell’art. 1218 c.c.
4. Gli obblighi autonomi
L’integrazione del rapporto obbligatorio attraverso la clausola di buona fede e correttezza, nell’evoluzione del pensiero dottrinale e giurisprudenziale, ha assunto una portata sempre più ampia. Dalla clausola generale di buona fede, infatti, si fanno discendere anche obblighi di carattere autonomo, i quali gravitano intorno all’interesse negativo di entrambe le parti alla conservazione e alla protezione delle rispettive sfere giuridiche.
In questa prospettiva, la buona fede vale a tutelare l’interesse di ognuna delle parti del rapporto a non essere pregiudicata dal comportamento della controparte e a garantire la sicurezza e l’integrità della propria persona e dei propri beni (interesse negativo di protezione).
La relazione fra due soggetti comporta sempre un rischio specifico di interferenza e di lesione della sfera giuridica altrui, donde la necessità che, in ragione di tale specificità del pericolo e dell’affidamento reciproco delle parti, ciascuna sia ritenuta giuridicamente obbligata a comportarsi in modo da conservare integra e da proteggere la sfera giuridica altrui, e ciò a prescindere dall’adempimento dell’obbligazione.
Si parla, in questa prospettiva, di obblighi di protezione.
4.1. Gli obblighi di protezione
Gli obblighi di protezione costituiscono una delle più significative concretizzazioni della regola di buona fede e correttezza (art. 1175 c.c.). Accanto alla tutela dell’interesse del creditore alla prestazione e di quello del debitore alla liberazione dal vincolo, la buona fede impone la protezione dell’altra parte del rapporto obbligatorio; proprio la relazione con l’altra parte espone il soggetto a uno specifico pericolo di danni alla propria persona o al proprio patrimonio. Il contenuto degli obblighi protettivi può essere individuato nel generale dovere di salvaguardare la sfera giuridica dei soggetti con i quali venga instaurato un rapporto, abbia esso origine contrattuale o di fatto. La finalità è di evitare che dal proprio comportamento possa derivare un pregiudizio alla sfera giuridica- patrimoniale dell’altra parte.
La locuzione “obbligo di protezione” evoca implicitamente una distinzione con l’obbligo di prestazione, che forma oggetto dell’obbligazione. Il contenuto dell’obbligo
di protezione non è il praestare, ma il proteggere. Di qui ha origine l’obbligazione senza prestazione: si tratta, come detto, di una figura di conio dottrinale540.
L’obbligo di protezione presenta delle indubbie particolarità riconducibili all’ovvia constatazione che il proteggere e il praestare non coincidono. L’oggetto principale dell’obbligazione di protezione è il proteggere: l’interesse del creditore non è a una prestazione specifica, ma a una protezione specifica. Ma per soddisfare questo interesse protettivo è comunque necessaria una prestazione. Allora, se è vero che l’oggetto dell’obbligo non è direttamente la prestazione, quest’ultima lo è indirettamente. La prestazione non è nominata: è quella che, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto, è funzionale alla protezione della controparte. Si tratta, quindi, di una prestazione innominata strumentale.
Gli obblighi di protezione si possono configurare con riferimento non solo ai rapporti contrattuali, ma anche a quelli non contrattuali. Il riferimento principale è all’istituto, di origine tedesca, del contatto sociale qualificato (v. infra).
4.1.1. Gli obblighi di protezione nel contratto
Partendo dagli obblighi di protezione che sorgono nell’ambito di un rapporto contrattuale, la buona fede si configura come un dovere (imposto dall’art. 1175 c.c. e dall’art. 1375 c.c.) reciproco (perché gravante su entrambe le parti del rapporto obbligatorio).
Tale dovere integra la prestazione principale che già forma oggetto del contratto e si sostanzia non solo in obblighi strumentali, accessori e funzionali alla soddisfazione dell’interesse creditorio, ma anche in obblighi autonomi, rivolti a proteggere la sfera giuridica della controparte. è il caso degli obblighi di informazione circa eventuali pericoli derivanti dall’uso della cosa oggetto di consegna o con riferimento al rischio inerente a prodotti finanziari, e ad obblighi di riservatezza cui una parte è tenuta a seguito di informazioni confidenziali ricevute nell’ambito del rapporto o comunque acquisite in occasione di esso541.
Si considerino, inoltre, gli obblighi di custodia di cose ricevute nello svolgimento del rapporto (ad esempio, nei contratti di appalto, mandato, trasporto, albergo, ecc.)542.
Gli obblighi di protezione, in generale, gravano su entrambe le parti del rapporto contrattuale: ognuna ha il dovere di conservare integra la sfera giuridica altrui,
540 Xxxxxxxxxx, L’obbligazione senza prestazione. Ai confini tra contratto e torto, in Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Xxxxx Xxxxxxx, I, Milano, 1995, 147.
541 Un obbligo di protezione ex bona fide grava sulla società di leasing nei confronti dell’utilizzatore, controparte del contratto di locazione finanziaria, in caso di inadempimento del fornitore del bene concesso in leasing all’utilizzatore stesso. Tra fornitore e utilizzatore non sussiste un rapporto contrattuale: è la società di leasing ad essere parte del contratto di fornitura. L’utilizzatore, quindi, non può domandare la risoluzione del contratto di fornitura, non essendone parte: solo la società di leasing è legittimare a farlo. In forza dell’obbligo di buona fede, essa è anche obbligata a farlo, per proteggere la sfera giuridica dell’utilizzatore. Sull’utilizzatore grava l’obbligo ex bona fide di informare la società di leasing dell’inadempimento del fornitore: quell’informazione fa scattare l’obbligo di protezione della società di leasing in favore dell’utilizzatore. Cfr. Cass., Sez. Un., 5 ottobre 2015 n. 19785.
542 A. Nicolussi, Obblighi di protezione, in Enc. Dir., Annali VIII, 2015.
preservandola da possibili ingerenze lesive che l’esistenza stessa del rapporto contrattuale può provocare543.
4.1.2. Gli obblighi di protezione nel contatto sociale
Gli obblighi di protezione possono sorgere anche al difuori di un rapporto contrattuale, pur mancando un’obbligazione avente ad oggetto una prestazione, cioè quando un’obbligazione ancora non sia sorta. La regola di buona fede, in questo caso, diventa la fonte unica ed esclusiva del rapporto obbligatorio, che nasce per via della buona fede e che nella buona fede riceve il proprio contenuto: la buona fede, in altri termini, è al contempo fonte e oggetto del rapporto obbligatorio.
È il caso di cui all’art. 1337 c.c., che sancisce l’obbligo generale di comportarsi secondo buona fede nella fase delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337). Nella fattispecie contemplata dalla norma, il contratto non è stato stipulato e, quindi, un rapporto obbligatorio non è ancora sorto.
Ciò nonostante, la regola di buona fede fa sorgere un rapporto obbligatorio avente come contenuto lo stesso obbligo di buona fede, in funzione protettiva dell’altra parte della trattativa precontrattuale.
È la stessa disciplina della responsabilità precontrattuale che manifesta il fondamento razionale dell’obbligo di protezione. Tale responsabilità costituisce la reazione dell’ordinamento alla lesione dell’affidamento ingenerato nella controparte. Il fondamento razionale dell’obbligo di protezione è proprio l’affidamento che lega le parti di una relazione qualificata. Si tratta di quell’affidamento, che la buona fede rende legittimo, nella lealtà e nella correttezza dell’altra parte, ossia nella ragionevole attenzione che quest’ultima osserverà per evitare che il rapporto diventi occasione di danno per l’altra parte544.
Di per sé, la clausola generale della buona fede rinvia a standard o regole etiche di comportamento che il giudice ha il compito di riconoscere nell’esperienza sociale come manifestazioni del valore di «buona fede», interpretata alla luce dei principi etici istituzionalizzati dalla Costituzione. Di particolare rilievo, al riguardo, è la previsione del principio di solidarietà (art. 2), il quale offre riscontro normativo e intersoggettivo all’affidamento che ciascuna delle parti può riporre nella buona fede dell’altra.
4.1.3. Gli obblighi di protezione nei confronti dei terzi
Il principio di solidarietà consente di estendere gli obblighi di protezione anche nei confronti dei terzi. Il caso classico è quello del rapporto che si instaura tra la donna in stato di gravidanza e il medico: gli obblighi terapeutici sono finalizzati non solo alla protezione della controparte del rapporto (la donna in attesa), ma anche del futuro padre del nascituro (soggetto terzo) e del nascituro stesso che verrà alla luce per effetto dell’adempimento dell’obbligo di protezione.
543 Xxxxxxxxxx, Obblighi di protezione, in Enc. giur., XXI, 1990
544 A. Nicolussi, Obblighi di protezione, cit.
La regola di buona fede, intesa come attuazione sul piano normativo primario del principio costituzionale di solidarietà sociale, consente così di ampliare la sfera dei soggetti protetti, oltre le parti originarie del rapporto. Si verifica, in questo modo, una modificazione soggettiva del rapporto, che si estende anche nei confronti del terzo da proteggere. La buona fede in chiave solidaristica assume così i connotati di una fonte modificativa (in senso estensivo) del rapporto obbligatorio.
Parte della dottrina e della giurisprudenza, quando il rapporto tra le parti da cui derivano obblighi di protezione ha natura contrattuale (come nel caso del contratto ginecologico), per spiegare la protezione accordata al terzo (come nel caso del futuro padre) preferisce fare ricorso alla figura del contratto con effetti protettivi nei confronti dei terzi. Con tale espressione si fa riferimento al contratto che ha per oggetto una prestazione dalla cui esecuzione diligente possono derivare effetti che proteggono non solo la sfera della controparte contrattuale (la donna in attesa), ma anche di soggetti terzi (il futuro padre). Gli effetti protettivi tutelano il terzo dai pregiudizi che la mancata e inesatta esecuzione del contratto possa cagionargli. Dal contatto, quindi, non deriva un obbligo di protezione verso il terzo, ma un obbligo di diligenza nell’esecuzione del contratto stesso, il cui inadempimento può essere fatto valere anche dal terzo, in applicazione dell’art. 1218 c.c.
4.1.4. Gli obblighi di protezione al confine tra contratto e torto
È proprio sotto il profilo della responsabilità che si percepisce la rilevanza (e la funzione) della categoria degli obblighi di protezione (e degli effetti protettivi verso terzi).
Tali obblighi si collocano al confine tra contratto e torto, tra responsabilità contrattuale e responsabilità aquiliana, colmando i vuoti di tutela che la netta contrapposizione tra le due forme di responsabilità genera a svantaggio del danneggiato. Il vuoto di tutela è colmato attraendo la responsabilità da violazione degli obblighi di protezione nella sfera della responsabilità da inadempimento (art. 1218 c.c.): la disciplina applicabile, quindi, è la stessa della violazione degli obblighi contrattuali. Si verifica così un esodo dalla responsabilità aquiliana: la responsabilità da inadempimento “contrattualizza” gli obblighi di protezione: la lesione della sfera giuridica altrui, che costituirebbero danno ingiusto rilevante ai sensi dell’art. 2043 c.c., avviene nell’ambito di un contatto sociale che è fonte di un rapporto che ha ad oggetto l’obbligo di protezione. L’inadempimento dell’obbligo fa scattare la responsabilità ai sensi dell’art. 1218 c.c. Per le specificità della disciplina della responsabilità da inadempimento degli obblighi di
protezione.
5. L’abuso del diritto
Si è detto che la clausola di correttezza e buona fede assolve una costante funzione di sviluppo dell’ordinamento attraverso l’interpretazione giurisprudenziale. Da tale clausola sono state ricavate regole incisive, tra cui il divieto di abuso del diritto.
Nel quadro del diritto europeo, la figura del divieto di abuso del diritto ha trovato posto tra i principi fondamentali, con il riconoscimento da parte dell’art. 54 della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Anche la giurisprudenza europea ha attribuito al divieto di abuso del diritto un ruolo di principio generale dell’ordinamento dell’Unione, facendone larga applicazione specie nel sistema delle disposizioni in materia di tributi armonizzati (Iva, accise e diritti doganali). Sulla figura si propone di ricostruire, nell’orizzonte europeo, quella coesistenza tra affermazione dell’autonomia privata e promozione della giustizia sociale che caratterizza anche l’ordinamento nazionale, ispirato al principio di solidarietà sociale (art. 2 Cost.) e di utilità sociale (art. 41 Cost.).
Ed è proprio sul principio di solidarietà e di utilità sociale che si fonda il divieto di abuso del diritto nel nostro ordinamento. Il legislatore del Codice civile non ha previsto una norma specifica che vieti al titolare l’abuso della posizione soggettiva riconosciutagli dall’ordinamento545: tale divieto era previsto nel progetto del codice italo- francese delle obbligazioni e nel progetto definitivo del Codice civile del 1942, il cui art. 7 prevedeva che “nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto gli fu riconosciuto”. La norma sull’abuso è stata successivamente eliminata dal testo, ma ciò non significa che il legislatore abbia inteso disconoscere il divieto di abusare del proprio diritto. Al contrario, si può ritenere che il Codice civile abbia implicitamente introdotto tale divieto nell’art. 1175 c.c.: è la clausola generale di correttezza e buona fede a vietare l’esercizio abusivo del diritto, quella stessa clausola che dà attuazione proprio al principio di solidarietà sociale.
Sull’art. 2 Cost. e sull’art. 1175 c.c. può fondarsi allora l’esistenza nel nostro sistema giuridico del principio generale del divieto di abuso del diritto, inteso come categoria generale nella quale rientra ogni ipotesi in cui un diritto cessa di ricevere tutela quando esercitato al di fuori dei limiti consentiti dall’ordinamento.
L’attribuzione di un diritto rappresenta una scelta dell’ordinamento giuridico tra interessi contrapposti. Il titolare può esercitare il diritto che gli è stato riconosciuto nel modo che ritiene più conveniente, ma entro i limiti fissati dall’ordinamento stesso. Il divieto di “abuso del diritto” indica un limite esterno all’esercizio, potenzialmente pieno e assoluto, del diritto soggettivo.
Il diritto, in astratto, spetta effettivamente a chi lo esercita, ma, in concreto, il suo esercizio è abusivo.
A) È abusivo perché il diritto viene esercitato per una funzione diversa rispetto a quella per quale il diritto stesso è attribuito dall’ordinamento (abuso funzionale del diritto). Si percepisce, in questa forma di abuso, il fondamento del divieto nell’art. 41 Cost., che impone l’esercizio del diritto nella prospettiva della realizzazione di un fine prestabilito dall’ordinamento, conforme all’utilità sociale. Il divieto è la reazione dell’ordinamento alla recisione del rapporto di corrispondenza tra il potere di autonomia conferito al soggetto e l’atto di esercizio di quel potere: il diritto richiede di essere positivamente esercitato in funzione della cura di un interesse determinato. L’art. 833
c.c. costituisce un’ipotesi tipica e paradigmatica di abuso funzionale, che si configura quando il diritto di proprietà è esercitato al solo fine di nuocere o recare molestia ad altri (c.d. atto emulativo).
545 La figura dell’abuso del diritto è oggi espressamente prevista in ambito tributario: la riforma fiscale del 2015 (d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128) ha inserito nel corpo della Statuto dei diritti del contribuente l’art. 10-bis, che vieta l’abuso del diritto in materia fiscale.
B) È abusivo l’esercizio del diritto che avviene con modalità che provocano un sacrificio non proporzionato alla sfera giuridica altrui e non giustificato da un apprezzabile interesse proprio del soggetto che esercita il diritto (abuso “modale” del diritto). In tale prospettiva, ogni diritto deve essere esercitato attraverso il contemperamento delle esigenze imposte dall’appartenenza a un contesto sociale. Si percepisce, in questa forma di abuso, il fondamento del divieto nell’art. 2 Cost. e nella clausola di buona fede e correttezza, che impone la reciprocità nei rapporti tra privati.
Le condizioni in presenza delle quali si configura un abuso del diritto sono: a) la titolarità di un diritto; b) la pluralità delle funzioni o delle modalità del suo esercizio; c) un esercizio concreto conforme alla legge dal punto di vista formale, ma comunque censurabile alla luce di un criterio di valutazione funzionale o comparativo; d) un pregiudizio recato a terzi a causa della difformità di funzione o della natura censurabile della modalità di esercizio.
5.1. La reazione dell’ordinamento all’abuso del diritto
La reazione dell’ordinamento alle diverse forme di abuso del diritto è diversificata.
La regola generale è nel senso di rifiutare tutela ai diritti esercitati abusivamente. Rifiuto che si traduce nel riconoscimento al soggetto che ha subito l’abuso del rimedio dell’exceptio doli (generalis seu presentis)546.
L’eccezione di dolo, già nel diritto romano, costituiva il mezzo più efficace adoperato dal giudice per correggere lo ius civile ed assicurare riconoscimento e tutela ad interessi e rapporti che risultavano irrilevanti o contrari all’equitas; ossia per quella continua opera di adeguamento alle mutate esigenze e alle mutate concezioni sociali che la giurisprudenza romana compiva547. Ancora oggi l’exceptio doli generalis presuppone l’esistenza di un contrasto, a livello di un concreto rapporto intersoggettivo, tra lo stretto diritto (che attribuisce un diritto) e i principi dell’ordinamento di solidarietà e utilità sociale (rispetto ai quali l’esercizio di quel diritto si pone in contrasto). Il contrasto viene risolto a favore dei principi generali: l’exceptio doli consente infatti di paralizzare la pretesa del titolare del diritto, neutralizzando l’abuso. L’exceptio doli si sostanzia, quindi, in un “diniego di effetti”548.
Una delle fattispecie in cui la giurisprudenza ha fatto maggiormente applicazione del principio del divieto di abuso del diritto e dell’eccezione di dolo generale è quella del
546 Nell’ambito dell’eccezione di dolo si distingue tra exceptio doli generalis seu praesentis ed exceptio doli specialis seu praeteriti. La prima si riferisce al c.d. dolo attuale, cioè al momento dell’esercizio del diritto, ed è diretto a neutralizzare l’abuso, paralizzando l’efficacia dell’atto che ne costituisce la fonte. L’exceptio doli specialis seu preteriti, invece, si riferisce al dolo commesso al tempo della conclusione dell’atto ed è diretta a far valere (in via di azione o eccezione) l’esistenza di raggiri impiegati per indurre un soggetto a porre in essere un determinato negozio, al fine di ottenerne l’annullamento, ovvero a denunziare la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto. In altri termini, mentre l’exceptio doli generalis postula una valutazione secondo i principi di buona fede e correttezza del comportamento nel momento in cui si esercita il diritto, l’exceptio doli specialis fa riferimento al momento fraudolento della stipulazione contrattuale e, quindi, al momento in cui nasce il diritto (il dolo come causa di annullamento del contratto). In sintesi, l’exceptio doli specialis attiene al momento genetico del diritto, mentre l’exceptio doli generalis fa riferimento al momento funzionale, cioè all’esercizio del diritto.
547 Torrente, Eccezione di dolo, in Enc. Dir., XIV, 1965.
548 Cfr., ex multis, Cass., 17 marzo 2006, n. 5997.
contratto autonomo di garanzia. L’ipotesi di abuso del diritto può verificarsi qualora il creditore, pur sapendo che l’obbligazione è stata già estinta dal debitore principale o che si tratta di un’obbligazione illecita, escuta ugualmente la garanzia, avvalendosi della clausola di autonomia che impedisce al garante di opporre le eccezioni concernenti il rapporto principale. È evidente che, nel caso di specie, il diritto è esercitato abusivamente poiché utilizzato al solo fine di ottenere una locupletazione indebita.
Un’ulteriore fattispecie in cui l’abuso del diritto fa scattare la reazione dell’exceptio doli è il c.d. frazionamento del credito, cioè la richiesta da parte del creditore in via giudiziale dell’adempimento frazionato di una prestazione originariamente unica, perché fondata sullo stesso rapporto contrattuale. Tale richiesta, secondo il più recente orientamento delle Sezioni Unite, è contraria alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., che ingloba obblighi di protezione del debitore anche nella fase patologica del rapporto obbligatorio, conseguente all’inadempimento del debitore stesso. Il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario si risolve in ù (ostativo all’esame della domanda), poiché, senza una ragione giustificativa e senza un interesse concreto, il creditore, frazionando artatamente in giudizio la pretesa unitaria, pregiudica (o comunque peggiora) la posizione del debitore: ciò sia per il profilo del prolungamento del vincolo coattivo cui dovrebbe sottostare per liberarsi dell’obbligazione nella sua interezza, sia per il profilo dell’aggravio di spese e dell’onere di molteplici opposizioni che il debitore subirebbe, a fronte della moltiplicazione di (contestuali) iniziative giudiziarie, sia per il rischio della formazione di giudicati contrastanti sulla medesima vicenda. Il rimedio a tutela del debitore, in chiave processuale, è l’eccezione di dolo, che paralizza la pretesa abusiva del creditore549.
549 Cass., Sez. Un., 15 novembre 2007, n. 23726. La soluzione delle Sezioni Unite si inquadra in un contesto normativo evolutosi nella duplice direzione di una sempre più accentuata e pervasiva valorizzazione della regola di correttezza e buona fede – specificativa degli “inderogabili doveri di solidarietà”, il cui adempimento è richiesto dall’art. 2 Cost. – e di una valorizzazione del canone del “giusto processo”, di cui al novellato art. 111 Cost. Da una lettura “adeguata” della normativa di riferimento (in particolare dell’art. 88 c.p.c.) – nel senso del suo allineamento al duplice obiettivo della “ragionevolezza della durata” del procedimento e della “giustezza” del “processo” – emerge che non può essere definito “giusto” il processo laddove lo stesso sia frutto di abuso per esercizio dell’azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell’attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi: la parcellizzazione giudiziale del credito, pertanto, non risulta in linea con il precetto inderogabile (cui l’interpretazione della normativa processuale deve viceversa uniformarsi) di cui all’art. 111 Cost., della “ragionevole durata del processo”, per l’evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la possibilità di contenimento della correlativa durata.
Le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, anche se relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono invece essere proposte in separati processi (Cass., Sez. Un., 16 febbraio 2017, n. 4090). Se tuttavia i diritti di credito, oltre a far capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o comunque “fondati” sul medesimo fatto costitutivo - sì da non poter essere accertati separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale - le relative domande possono essere proposte in separati giudizi solo se risulta in capo al creditore agente un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata. In mancanza di tale interesse, il frazionamento delle domande si configura come abuso del diritto.
L’abuso del processo è stato oggetto di recenti interventi normativi volti a contrastarlo. Il decreto-legge n. 90 del 2014 (art. 41), a tal fine, ha inasprito il regime delle spese del processo amministrativo, rendendo più severa l’applicazione del principio della soccombenza e allargando la portata della sanzione per lite temeraria. A carico della parte soccombente sono possibili tre pronunce: 1) quella tradizionale di natura indennitaria, riguardante la refusione delle spese sostenute dalla parte vittoriosa; 2) quella di natura risarcitoria, consistente nella condanna della
Oltre all’exceptio doli, la reazione prevista dall’ordinamento per l’abuso del diritto può consistere nella responsabilità e nel risarcimento del danno. Il concetto di abuso del diritto evoca quello di antigiuridicità della condotta, poiché l’ordinamento tollera l’esercizio del diritto (anche se produttivo di un danno), ma non l’abuso. Il danno provocato dall’abuso si configura contra ius, in conseguenza di una condotta non iure. Sussistono, quindi, gli elementi dell’ingiustizia rilevante ai sensi dell’art. 2043 c.c. Se, però, l’ingiustizia si realizza nell’ambito di un rapporto obbligatorio per effetto dell’abuso di un diritto contrattuale, si configura una responsabilità di tipo anch’essa contrattuale.
La giurisprudenza ha certificato l’applicazione del rimedio della responsabilità nella fattispecie di c.d. “abusiva concessione di credito”, consiste nell’erogazione di finanziamenti da parte di una banca ad una impresa della quale la banca stessa conosca l’insolvenza, ingenerando nei terzi l’erroneo convincimento della solidità dell’impresa finanziata.
L’erogazione di un finanziamento obbliga il creditore e il finanziatore non solo a valutare i rischi che da tale finanziamento possono derivare a carico del creditore medesimo, ma anche a calcolare le conseguenza negative che sul mercato possono derivare da una concessione di credito che, procrastinando l’insolvenza dell’impresa finanziata – e inducendo in errore gli operatori economici circa la sua solvibilità – la mantiene artificialmente in vita, quando la stessa invece dovrebbe fuoriuscire dal mercato ed estraniarsi dai rapporti di concorrenza con altri (meritevoli) operatori del settore.
La giurisprudenza prevalente qualifica la concessione abusiva di credito come:
a) fonte di responsabilità aquiliana nei confronti dei creditori dell’impresa finanziata e dei terzi, nonché dei concorrenti; b) fonte di responsabilità contrattuale nei confronti dell’impresa finanziata, per il danno provocato al patrimonio della società. Si tratta di danno immediato e diretto derivante dalla condotta illecita della banca che, anziché ispirarsi ai principi di sana e corretta gestione del credito, risulta diretta a mantenere artificiosamente in vita un imprenditore “decotto”.
Diversa è la reazione dell’ordinamento quando l’abuso del diritto si realizza attraverso un contratto stipulato con la finalità di ottenere vantaggi fiscali. Si è detto che
parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste; 3) quella di natura sanzionatoria, per lite temeraria, a favore dell’erario. Il legislatore è intervenuto per frenare l’abuso del processo anche sul versante civile, scoraggiando comportamenti processuali volti solo a ritardare il pagamento del dovuto.
A tal fine, il decreto-legge n. 132 del 2014 ha disposto che il tasso degli interessi di mora attualmente previsto per il ritardo nel pagamento di fatture nelle transazioni commerciali (tasso di rifinanziamento Bce maggiorato di otto punti percentuali) abbia un’applicazione generalizzata a tutti i crediti di danaro, dopo l’inizio del processo. In tal modo, al fine di evitare che i tempi del processo civile diventino una forma di finanziamento al ribasso (in ragione dell’applicazione del tasso legale d’interesse) e dunque che il processo stesso venga a tal fine strumentalizzato, il
d.l. 12 settembre 2014, n. 132 (convertito con modificazioni, in legge 10 novembre 2014, n. 162), in coordinamento con la disciplina europea sui ritardi nei pagamenti relativi alle operazioni commerciali (attuata con decreto legislativo n. 231 del 2002, recentemente modificato), ha previsto uno specifico incremento del saggio di interesse moratorio durante la pendenza della lite. A tal fine, è stato integrato l’art. 1284 c.c. con l’aggiunta di due nuovi commi: il primo prevede che, laddove le parti non abbiano esse stesse previsto la misura del tasso d’interesse moratorio, dal momento della proposizione della domanda giudiziale il tasso degli interessi legale deve considerarsi pari a quello previsto dalle richiamate disposizioni in tema di ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali; l’ulteriore comma aggiunto specifica che alla domanda giudiziale è equiparato l’atto con il quale si promuove il procedimento arbitrale.
l’abuso del diritto è oggi espressamente previsto in ambito tributario dall’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, introdotto dal d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128. Secondo i principi sull’abuse of right, elaborati dalla Corte di giustizia UE, l’abuso del diritto ricorre anche se il contratto è tipico, purché sussistano oggettivi elementi che inducano a ritenere che il contratto è stato stipulato essenzialmente (anche se non esclusivamente) allo scopo di conseguire un vantaggio fiscale550. Si tratta, evidentemente, di una forma di abuso funzionale dell’autonomia negoziale.
In questo caso, l’abuso è sanzionato dall’ordinamento attribuendo all’amministrazione finanziaria il potere di riqualificare il contratto o di farne rilevare l’invalidità, in modo da dare ingresso ad un trattamento fiscale meno favorevole di quello che consegue agli effetti dello schema contrattuale adottato (abusivamente) dalle parti.
Il divieto di abuso del diritto, in quanto espressivo di principi generali dell’ordinamento, è trasversale e, per questo, trova applicazione anche al di fuori del campo delle obbligazioni.
Come nel caso del c.d. “abuso della personalità giuridica”: espressione ellittica, con la quale si suole fare riferimento all’abuso dei diritti riconducibili al concetto di persona giuridica. Tale forma di abuso ricorre allorquando si utilizza lo schermo societario per esercitare un’attività imprenditoriale, a carattere individuale, per non far apparire l’effettivo titolare dell’attività o il suo effettivo gestore, fruendo inoltre del beneficio della responsabilità limitata.
La collocazione naturale dell’abuso della personalità giuridica è nell’ambito dell’esercizio indiretto dell’attività d’impresa, fenomeno caratterizzato dalla scissione tra chi, in fatto, gestisce l’impresa e chi, formalmente, ne appare il dominus. In sostanza, la prassi dell’abuso della personalità giuridica si risolve nell’uso distorto dello schermo della personalità giuridica e delle norme che ne regolano il funzionamento, in modo da creare un’ingiustificata posizione di vantaggio in colui che gestisce in fatto l’attività imprenditoriale senza sopportarne i rischi e senza assumere in prima persona la responsabilità per le obbligazioni contratte nell’esercizio di tale attività.
I rimedi approntati dall’ordinamento in tale eventualità sono quelli che si riconnettono alla tecnica del superamento dello schermo della personalità giuridica e della fictio iuris della dissociazione tra persona giuridica e persone fisiche che ne rappresentano la compagine umana, consentendo la disapplicazione delle norme attributive di benefici con la ricostituzione di una responsabilità illimitata e la personale soggezione, in caso di insolvenza, al fallimento del soggetto che ha abuso della personalità giuridica551.
Le più frequenti applicazioni, in ambito societario, del divieto di abuso del diritto riguardano gli abusi della maggioranza nell’adozione di delibere assembleari: dal momento che la maggioranza dei soci è libera di perseguire ogni interesse che sia collimante con il contratto di società, si concretizza un abuso della maggioranza nel momento in cui la deliberazione assembleare devia rispetto agli obiettivi e agli interessi sociali, per perseguire interessi contrari.
La vita della società e il suo funzionamento, infatti, salvo alcune limitatissime ipotesi, sono dominati dal principio secondo il quale le decisioni che attengono alla gestione,
550 Cass, 19 maggio 2010, n. 12249.
551 Cass., Sez. Un., 14 dicembre 1981, n. 6594.
all’amministrazione e all’attività della società sono assunte a maggioranza. L’applicazione del principio di buona fede, operata con riferimento all’esecuzione del contratto di società, offre il criterio alla luce del quale verificare l’esistenza di un abusivo esercizio del diritto della maggioranza.
Tale fattispecie è ravvisabile quando la delibera non trova alcuna giustificazione nell’interesse della società, per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale contrastante con quello sociale, ovvero sia il risultato di un’intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari con il solo fine di ledere i diritti di partecipazione e gli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza.
Tale abuso è causa di annullamento delle deliberazioni assembleari ex art. 2377 c.c.552.
Situazioni di iniquità legate all’applicazione dei principi che regolano l’adozione delle delibere assembleari, e che producono l’effetto di un’irragionevole composizione degli interessi in gioco nell’apparente rispetto delle norme in materia, possono essere determinate anche da abusi compiuti dalla minoranza dei soci.
Tale tipologia di abusi non ha ricevuto particolare attenzione in dottrina553, probabilmente anche a fronte della scarsissima casistica giurisprudenziale.
Tra le condotte abusive ascrivibili alla minoranza, innanzitutto, figurano le usuali iniziative di disturbo, tra cui la sistematica impugnazione delle delibere assembleari e, in particolare, quelle di approvazione del bilancio, nonché l’uso anomalo di poteri statutari o l’uso strumentale di parola in assemblea554.
L’analisi delle fattispecie di abuso del diritto deve tenere conto anche delle ipotesi in cui l’abuso è tipizzato dal legislatore. Ipotesi che ricorre all’art. 9 della legge del 18 giugno 1998, n. 192, che vieta “l’abuso di dipendenza economica,” sanzionando con la nullità il patto in contrasto con la disposizione in esame.
La dipendenza economica si configura quando un’impresa può determinare, nei rapporti con un’altra impresa, un eccessivo “squilibrio di diritti e obblighi”. Ad onta del riferimento letterale al concetto di abuso, l’art. 9 della l. n. 192/1998 non sembra riguardare la nozione di abuso del diritto come delineata nei paragrafi precedenti. Il comportamento sleale oggetto della disposizione in esame non si manifesta attraverso l’uso distorto di un diritto, ma attraverso condotte che si realizzano tutte nella fase precontrattuale e che si sostanziano nel rifiuto di contrarre se non a condizioni particolarmente svantaggiose e nell’imposizione, di fatto, delle regole negoziali da parte del contraente economicamente più forte.
Il divieto di abuso di dipendenza economica rileva al di fuori e prima del contratto, sanzionando quei comportamenti scorretti commessi durante la fase delle trattative o dopo la conclusione del contratto, sanzionando l’interruzione arbitraria e ingiustificata del rapporto, o addirittura in assenza del contratto, qualora non si addivenga alla sua conclusione a causa delle prospettate iniquità.
Le descritte caratteristiche valgono a differenziare l’abuso di dipendenza economica dalla categoria tradizionale dell’abuso del diritto.
552 Cass., 25 gennaio 2000, n. 8004; Cass., 9 marzo 1991, n. 2503.
553 Xxxxx, L’abuso della minoranza. Potere, responsabilità e danno nell’esercizio di voto, Torino, 2003
554 Cass., 11 dicembre 2000, n. 15592.
Altra ipotesi di abuso “nominato” è quella che ricorre all’art. 102 del TFUE, che vieta l’abuso di posizione dominante. La Corte di Giustizia, nel definirne l’ubi consistam, ha stabilito che l’abuso di posizione dominante si sostanzia in un concetto oggettivo, che inerisce al comportamento dell’impresa atto ad influire sulla struttura di un mercato all’interno del quale, proprio per il ruolo svolto dalla stessa impresa, il grado di concorrenza risulta sminuito. Tale comportamento deve avere l’effetto di ostacolare, con mezzi diversi da quelli su cui si impernia la normale concorrenza, la conservazione del grado di concorrenza ancora esistente sul mercato o lo sviluppo di tale concorrenza. Ciò che il diritto dell’Unione europea stigmatizza non è il verificarsi di una posizione dominante in un mercato che per ragioni tecniche o economiche può venire ad esistenza, ma che questa condizione venga sfruttata da chi la detiene per evitare che il normale funzionamento delle regole del mercato ripristinino gli equilibri naturali tra i diversi soggetti che in esso operano, siano essi altre imprese od operatori del mercato o gli stessi consumatori.
Capitolo IV
Le obbligazioni pecuniarie
1. Obbligazioni di valuta e di valore. Il principio nominalistico e quello valoristico
Tra le singole «specie» di obbligazioni un ruolo di grande rilievo assumono le obbligazioni pecuniarie, aventi per oggetto danaro. Esse costituiscono la forma più frequente di obbligazione, in una economia fondata su valori di scambio e in un sistema giuridico in cui una prestazione può diventare oggetto di obbligazione se è suscettibile di valutazione economica (c.d. patrimonialità della prestazione: art. 1174 c.c.)555. La centralità del ruolo delle obbligazioni pecuniarie è data anche dalla convertibilità di ogni obbligazione in obbligazione di risarcimento: la mancata realizzazione del valore d’uso di un’obbligazione è suscettibile di trasformarsi in valore di scambio, espresso in denaro.
Il denaro assolve più funzioni giuridiche: è mezzo di pagamento, è strumento di valutazione di beni, è oggetto di proprietà e di altri diritti reali.
Alle diverse funzioni giuridiche corrispondono altrettante funzioni economiche: il danaro è strumento di scambio, unità di misura dei valori, bene economico. In quanto strumento di scambio, il danaro manifesta la capacità di esprimere, rispetto ai beni con i quali è scambiato, rapporti di valore. Di conseguenza, nel momento stesso in cui il danaro viene ad essere considerato quale misura di valori, l’aspetto fisico-materiale di esso (quale cosa) scompare, mentre risulta prevalente e assorbente l’aspetto meramente astratto: il denaro come unità ideale di valutazione dei valori556.
La prestazione pecuniaria consiste nel trasferimento di un ‘valore monetario’: risulta quindi accolta un’idea di moneta decisamente dematerializzata: il denaro rileva in quanto ‘valore’ che prescinde dalla «logica di fisicità-corporeità». Esso risulta adeguato a un sistema economico basato su transazioni ‘virtuali’: il denaro è dematerializzato e, al contempo deformalizzato, perché può assumere le forme più varie, purché consentano il risultato finale rappresentato dall’estinzione del debito pecuniario. La forma che un certo ‘valore monetario’ può assumere è solo la rappresentazione del denaro stesso, con definitivo distacco del denaro rispetto a ogni materialità.
Nonostante il danaro sia espressivo di un valore monetario, l’obbligazione pecuniaria, di regola, non esprime un debito di valore, ma di valuta. Il Codice civile, infatti, ha accolto il c.d. principio nominalistico, in base al quale i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale e per il loro valore nominale (art. 1277 c.c.): il debito pecuniario, quindi, è un debito di valuta, non soggetto a modificazioni per effetto del trascorrere del tempo e insensibile alle variazioni di valore della moneta.
Il principio nominalistico557, secondo la definizione resa dalla Relazione al Codice civile, consente di raffigurare i debiti pecuniari come entità costanti e, quindi, di ridurre
555 A. Di Majo, Obbligazioni pecuniarie, in Enc. Dir., XXIX, 1979.
556 X. Xxxxxxxx, Xxxxxx, in Dig. Priv., 1994.
557 La dottrina, nell’individuare il fondamento concettuale del principio nominalistico, ha prospettato soluzioni divergenti. La tesi c.d. negoziale afferma la sussistenza di una presunzione di una volontà dei soggetti del rapporto
a certezza l’entità economica di ogni debito. Esso risponde ad una esigenza razionale della vita economica: l’opzione in favore del nominalismo privilegia la sicurezza del traffico giuridico.
Il principio nominalistico non è assoluto, né inderogabile. L’ordinamento ammette forme di temperamento a quel principio, di natura convenzionale558, giudiziale o legale (v. infra).
Al principio nominalistico si contrappone quello valoristico: il debito pecuniario è debito di valore, la cui misura si adegua al trascorrere del tempo. Quando trova applicazione il principio valoristico, il debito costituisce un’entità variabile, in costante rivalutazione, che tiene conto del mutamento di valore del denaro nel tempo. Il debito di valore, pur essendo di denaro, si sottrae alle regole in generale previste dal codice per le obbligazioni pecuniarie: e ciò in considerazione del fatto che, in taluni casi, il denaro non rappresenta l’oggetto ‘vero e proprio’ dell’obbligazione, ma si presta a fungere da mero strumento di commisurazione di un valore. Il debito importa un costante adeguamento nel tempo della quantificazione monetaria: l’estinzione presuppone il ripristino del patrimonio del creditore ragguagliato al momento stesso in cui è effettuato il pagamento. In questo senso si può dire che la moneta mostra la sua funzione di misuratore di valore sempre con riferimento al tempo presente. Quando il debito di valore diviene oggetto di liquidazione, per effetto della sua determinazione – per via negoziale o giudiziale – si trasforma in debito di valuta, come tale soggetto al principio nominalistico.
La distinzione tra debiti di valuta e di valore ha il pregio di mettere a nudo il conflitto d’interessi “endemico” tra il creditore e il debitore di una somma di denaro: il debito di valuta fa ricadere sul creditore il rischio della perdita del potere d’acquisto del denaro nel tempo (c.d. svalutazione); al contrario, il debito di valore accolla quel rischio al debitore. L’opzione compiuta dal legislatore del codice civile in favore del nominalismo corrisponde senza dubbio a una preferenza accordata ai vantaggi derivanti dalla certezza del traffico giuridico, ma non senza ignorare che l’irrilevanza del trascorrere del tempo
obbligatorio, indirizzata alla conservazione del valore nominale del debito. Secondo questa linea di pensiero, dovrebbe ritenersi sottesa all’obbligazione pecuniaria una sorta di ‘tacita convenzione’ con riguardo al valore – assunto come stabile – della moneta. In altri termini, se non diversamente stabilito nel titolo, debitore e creditore intenderebbero che il pagamento vada effettuato, pur a fronte delle possibili oscillazioni del potere d’acquisto, secondo il valore nominale della moneta di corso legale al tempo del pagamento. Si può immaginare che questa sorta di ‘finzione legale’ in ordine alla stabilità monetaria copra la comune volontà dei soggetti riguardo all’estinzione del debito di denaro: il creditore, consapevole del fenomeno della svalutazione, se non risulti una diversa determinazione pur sempre possibile in forza dell’autonomia privata, accetta le conseguenze dell’inflazione. La tesi c.d. pubblicistica, invece, colloca il principio nominalistico tra quelli fondanti dell’organizzazione dello
Stato.
Tale principio sarebbe espressivo di una regola di natura pubblicistica che impone al creditore di accettare, all’atto del pagamento, la moneta avente corso legale e, in collegamento logico con ciò, di accettarne l’identica quantità che era stata posta a oggetto del debito al momento del suo sorgere. In questa prospettiva, il principio nominalistico appare come una regola essenziale e integrante dell’organizzazione statale, anzi la più tangibile espressione della ‘legge della moneta’, che trova il suo fondamento nell’ordine pubblico monetario.
La Corte costituzionale si è occupata, in più occasioni, del principio nominalistico. Tra le pronunce che ne hanno trattato in modo diretto, merita di essere ricordata una del 1979 (n. 176), da cui si ricava che il principio nominalistico ha la sua base nell’ordinamento monetario (con conseguente adesione implicita alla tesi pubblicistica). Per un’ampia ricostruzione del fondamento del principio nominalistico, T. Dalla Xxxxxxx, Obbligazioni pecuniarie, Padova, 2011, 74.
558 È consolidata l’ammissibilità, ai sensi dell’art. 1322 c.c., dei diversi meccanismi elaborati sul piano dell’autonomia privata, finalizzati a eliminare o comunque a ridurre i rischi, connessi all’oscillazione del potere d’acquisto della moneta, che l’art. 1277 c.c. addossa al creditore.
rispetto alla quantità di denaro oggetto del rapporto giova senza dubbio al debitore, parte debole del rapporto (con una precisa scelta di politica legislativa, dunque, nel senso di un favor debitoris che, almeno allora, era inteso come sicura espressione di ‘giustizia sociale’).
Il Codice civile, che non fa menzione della distinzione tra le due tipologie di debiti pecuniari, tantomeno fornisce il criterio utile a distinguerli. Elaborato da dottrina e giurisprudenza, il criterio è incentrato sull’oggetto della prestazione: se questo è immediatamente identificabile in termini pecuniari, il debito è di valuta; quando, invece, il denaro esprime la commisurazione di un valore non immediatamente identificabile in termini pecuniari, il debito è di valore.
Si tratta di un criterio di distinzione che, pur in assenza di un addentellato normativo espresso, è entrato a far parte integrante del sistema giuridico, come rilevato anche dalla Corte Costituzionale: «la distinzione del trattamento fra debiti di valuta e debiti di valore viene spiegata [. ] con la diversità dell’oggetto delle obbligazioni medesime, in quanto, mentre nell’obbligazione di valuta l’oggetto e la quantità delle prestazioni sono determinate originariamente in moneta, con riferimento ad una predeterminata unità di misura dei valori [. ], in quelle di valore la prestazione, in caso di inadempimento, si commisura alla conversione in denaro del valore del bene controverso, secondo i parametri monetari del momento».
È forma esemplificativa di debito di valore il risarcimento del danno: il valore, anche se espresso e liquidato in moneta, costituisce l’oggetto dell’obbligazione.
Il valore da liquidarsi in una determinata somma di moneta identifica il debito di valore, mentre la somma di moneta determinata fino ab initio identifica il debito di valuta.
La ratio della distinzione tra valuta e valore, in sintesi, risiede nel momento genetico dell’obbligazione: se, fin dall’origine, l’oggetto è una somma di denaro, allora il debito è di valuta. Le obbligazioni di valore, invece, sono quelle che hanno per oggetto diretto e originario una cosa diversa dal denaro: la moneta in questi casi rappresenta soltanto un bene sostitutivo di una prestazione con diverso oggetto. Tali obbligazioni non hanno originariamente per oggetto una somma di danaro, ma vengono, in un momento posteriore alla loro nascita, convertiti in una somma di danaro per quella particolare qualità specifica della moneta di poter fungere da equivalente giuridico degli altri beni.
Il concetto di debito di valuta, invece, abbraccia, in primo luogo, i casi in cui la prestazione sia fin da principio determinata in termini pecuniari; in secondo luogo, si estende a ricomprendere le ipotesi nelle quali il debito appaia determinabile in termini pecuniari sulla base di criteri prefissati o, comunque, di facile identificazione; in terzo luogo, include i casi in cui il debito, a prescindere dalla sua determinabilità, sia stato concepito dall’origine come avente per oggetto ‘diretto e originario’ una somma di denaro559.
Nel debito di valuta e in quello di valore è diversa la funzione assolta dal denaro: nel primo caso, esso rappresenta proprio l’interesse che il creditore aveva avuto direttamente di mira; nel secondo caso, il denaro esprime la commisurazione di un’entità non immediatamente identificabile in termini pecuniari, operando come succedaneo di un bene ‘altro’ in relazione al quale è sorta l’obbligazione: nell’ipotesi tipica della
559 T. Dalla Xxxxxxx, Obbligazioni pecuniarie, Padova, 2011, 9.
responsabilità aquiliana, il denaro funge da misuratore-riparatore del danno ingiusto subito.
È in forza di tale distinzione che la Cassazione considera “di valore” il debito che sorge da ingiustificato arricchimento560 (art. 2041 c.c.), mentre il debito da ripetere (art. 2033 cod. civ.) è considerato di “valuta”561: nel primo caso, l’obbligazione sorge con l’obiettivo di realizzare la reintegrazione di un equilibrio economico, mentre nel secondo si è a cospetto di un debito restitutorio di una somma di denaro.
2. Il duplice statuto delle obbligazioni pecuniarie
Alla distinzione tra debiti di valuta e debiti di valore corrispondono due diversi significati della locuzione “obbligazioni pecuniarie”.
In senso stretto, esse comprendono solo i debiti di valuta, per i quali vale il principio nominalistico e trova applicazione il regime giuridico di cui gli artt. 1277-1284 c.c.
In senso lato, le obbligazioni pecuniarie abbracciano anche i debiti di valore. Ma, in questo senso, la categoria delle ‘obbligazioni pecuniarie’ assume una valenza descrittiva, alla quale non corrisponde un regime giuridico unitario. I debiti di valore, infatti, sono estranei applicazione degli artt. 1277-1284 c.c., essendo essi soggetti a un proprio regime giuridico, modellato sull’idea dell’automatico adeguamento del denaro al suo potere d’acquisto.
3. Le deroghe al principio nominalistico e l’adeguamento dei debiti di valuta
Si è detto che il principio nominalistico non è inderogabile. L’ordinamento ammette forme di temperamento a quel principio, di natura convenzionale, giudiziale o legale.
Nell’esercizio dell’autonomia privata, le parti del contratto possono convenire clausole di adeguamento (o di indicizzazione), che rispondono a una funzione di ‘salvaguardia monetaria’, prevedendo la rivalutazione della somma dovuta nel corso dell’esecuzione del contratto (quando si tratti di rapporti di durata) o nel momento dell’adempimento (in caso di contratti a esecuzione differita nel tempo).
In presenza di un principio nominalistico, le clausole di indicizzazione costituiscono il più elementare, ma anche il più frequente strumento giuridico convenzionale per garantire al creditore la conservazione del valore della prestazione pecuniaria, quale corrispettivo reale ed effettivo. In questo senso, le clausole di indicizzazione trasformano un debito di valuta in un debito di valore, e possono dirsi espressive di un principio valoristico convenzionale.
A differenza delle clausole di indicizzazione – che operano una correzione automatica del valore della prestazione pecuniaria secondo criteri fissati ex ante, al momento del sorgere dell’obbligazione – le clausole di rinegoziazione prevedono che, in un momento successivo al sorgere dell’obbligazione, prenda avvio un meccanismo di revisione del
560 Ex multis, Cass., 7 marzo 2007, n. 5278.
561 Cass., sez. un., 15 gennaio 2007, n. 738.
quantum dovuto, attraverso la rideterminazione della somma di denaro, affidata a un terzo oppure a un nuovo accordo tra le parti.
Assolvono una funzione adeguatrice della prestazione pecuniaria anche le clausole che nel commercio internazionale sono definite di “hardship”, il cui scopo è quello di consentire un intervento correttivo ex post sul debito di valuta, a presidio dell’equilibrio fondamentale del contratto, sul presupposto che si realizzi un significativo mutamento rispetto alle condizioni iniziali. La funzione, dunque, è analoga a quella delle clausole di rinegoziazione: la clausola di ‘hardship’ affida alle parti, oppure a un terzo, il potere di modificare il contenuto della prestazione pecuniaria. La sua funzione fondamentale si manifesta nel realizzare una ‘conservazione adeguata’ del contratto: mediante l’inserzione della clausola, le parti mostrano di ritenere che tale conservazione sia preferibile rispetto al rischio di incertezza rappresentato dalla caducazione del contratto e, in particolare, dalla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.)562. Tra le forme di temperamento giudiziale, previste dalla legge, al principio nominalistico, va annoverata proprio la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.): tra gli «avvenimenti straordinari e imprevedibili» contemplati dalla norma affinché possa pronunciarsi la risoluzione del contratto è incluso anche quel particolare ‘evento’ rappresentato da una significativa diminuzione del potere d’acquisto della moneta. Nell’art. 1467 c.c. è ravvisabile un’implicita affermazione del principio valoristico, in forza del quale la prestazione è considerata per il suo valore, già al momento della stipulazione del contratto. Di ciò si ha conferma nella Relazione al Codice civile, in cui si chiarisce che l’art. 1467 c.c. esprime un «principio di implicita soggezione dei contratti con prestazioni corrispettive alla clausola rebus sic stantibus sulle tracce del diritto comune e, quindi, in collegamento con una tradizione prettamente italiana». La ratio del rimedio, che si inquadra nel regime previsto per i contratti a prestazioni corrispettive, è di porre fine a uno squilibrio manifestatosi nel funzionamento del sinallagma. Tale rimedio è applicabile alle obbligazioni di valuta nella misura in cui
sulle prestazioni pecuniarie incida un fenomeno di svalutazione monetaria.
L’ultimo comma dell’art. 1467 c.c. introduce uno strumento che si presta a correggere le iniquità derivanti dal principio nominalistico, evitando la caducazione del contratto: la parte nei cui confronti è proposta la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta può evitarla offrendo una riconduzione a equità delle condizioni contrattuali. Si tratta, dunque, di una scelta che privilegia l’obiettivo di ‘conservare’ il contratto, adeguando il valore della prestazione.
Il confronto tra il comma 1 e il comma 3 dell’art. 1467 c.c. evidenzia le opposte linee di tensione che guidano la reazione dell’ordinamento di fronte al caso in cui si verifichi
562 T. Dalla Xxxxxxx, Obbligazioni pecuniarie, cit., 212. La clausola di ‘hardship’ è contemplata sia nei Principi Unidroit (art. 6.2.2), sia nei Principi di diritto europeo dei contratti (art. 6:111). Entrambi prevedono che la parte svantaggiata abbia il diritto di chiedere la rinegoziazione del contratto, purché la richiesta sia fatta senza ingiustificato ritardo e con indicazione dei motivi per cui è avanzata. I principi Unidroit, inoltre, precisano che la richiesta di rinegoziazione non dà di per sé diritto alla parte svantaggiata di sospendere l’esecuzione della prestazione. Qualora non si pervenga a un accordo entro un tempo ragionevole, è attribuita al giudice la facoltà di risolvere il contratto ovvero di modificarlo di propria autorità, allo scopo di ripristinare l’originario equilibrio contrattuale (art. 6.2.3., n. 4, dei Principi Unidroit), ovvero con l’intendimento di realizzare un’equa distribuzione dei profitti e delle perdite (art. 6:111, n. 3, lett. B, dei Principi di diritto europeo dei contratti). Questi ultimi prevedono anche che il giudice possa condannare al risarcimento dei danni la parte che abbia rifiutato di avviare le trattative ovvero che le abbia interrotte in maniera contraria a buone fede e correttezza.
un significativo squilibrio nel rapporto tra prestazione e controprestazione: da un lato, la risoluzione del contratto, rimedio caducatorio con il quale si ottiene un riazzeramento dei sacrifici giuridici sopportati dalle parti mediante un sistema di restituzione dell’indebito improntato sull’art. 2033 c.c.; dall’altro lato, la reductio ad aequitatem che, viceversa, costituisce un rimedio conservativo e manutentivo dell’assetto d’interessi realizzato dal contratto.
Un’ulteriore forma di temperamento al principio nominalistico può essere costituita dall’istituto della presupposizione, in caso di divergenza tra il valore del denaro presupposto al momento dell’assunzione dell’obbligazione di pagamento e l’effettivo valore al momento dell’adempimento della prestazione di denaro.
Ma è più nella clausola generale di buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) che può essere individuato uno strumento, di carattere generale, idoneo a consentire al giudice di temperare il principio nominalistico, sindacando il contenuto della prestazione pecuniaria. Ove la pretesa della prestazione si rivelasse contraria a buona fede (in ipotesi, la pretesa alla consegna della merce, qualora la controprestazione in denaro risulti significativamente svalutata) si potrebbe configurare il rimedio dell’inesigibilità di quella prestazione o dell’opponibilità di un’eccezione di dolo generale.
4. Obbligazioni portabili e chiedibili, liquide e illiquide
Nell’ambito delle obbligazioni pecuniarie si distingue tra obbligazioni portabili (liquide) e obbligazioni chiedibili (illiquide).
Le obbligazioni portabili sono individuate dall’art. 1182, comma 3, c.c.: sono quelle che devono essere adempiute al domicilio del creditore. Le obbligazioni chiedibili sono individuate dall’art. 1182, comma 4, c.c.: sono quelle che devono essere adempiute al domicilio del debitore.
La qualificazione dell’obbligazione pecuniaria come portabile o chiedibili rileva sotto il profilo del regime giuridico applicabile, sostanziale e processuale.
Nelle obbligazioni portabili il forum destinatae solutionis (art. 20 c.p.c.) coincide con il luogo di residenza del creditore, che radica la competenza per territorio del giudice adito per l’adempimento. Nelle obbligazioni chiedibili il foro competente è quello del debitore.
La qualificazione dell’obbligazione come portabile rileva anche ai fini del prodursi della mora ex re ai sensi dell’art. 1219, comma 2, n. 3, c.c.: la norma esclude la necessità della costituzione in mora “quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore”, come appunto stabilito per le obbligazioni pecuniarie portabili (ma non per quelle chiedibili).
La mora ex re determina anche la responsabilità per il danno da ritardo e l’obbligo di pagamento degli interessi moratori (art. 1224 c.c.).
La giurisprudenza nega che la mora ex re si verifichi anche per le obbligazioni pecuniarie illiquide. Se tra le obbligazioni pecuniarie “portabili” contemplate da tale disposizione rientrassero quelle illiquide, la mora – e con essa la responsabilità ai sensi dell’art. 1224 c.c. – scatterebbe automaticamente anche a carico del debitore la cui prestazione non sia in concreto possibile perché l’ammontare della sua prestazione è ancora incerto: il che sarebbe ingiustificato, nonché contrario al sistema, il quale esclude
la responsabilità del debitore la cui prestazione sia impossibile per causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.).
Rientrano nella nozione di obbligazioni portabili esclusivamente le obbligazioni pecuniarie liquide, il cui ammontare, cioè, sia determinato direttamente dal titolo ovvero possa essere determinato in base ad esso con un semplice calcolo aritmetico.
Liquidità significa che la somma dovuta risulta dal titolo e, dunque, non è necessario, per determinarla, un ulteriore titolo negoziale o giudiziale. L’ammontare della somma dovuta può risultare direttamente dal titolo originario, che la precisa, oppure solo indirettamente dal titolo stesso, allorché questo indichi il criterio o i criteri, applicando i quali viene determinata la somma dovuta. Deve trattarsi, però, di criteri stringenti, tali, cioè, che la somma risultante dalla loro applicazione sia necessariamente una ed una soltanto: questo è ciò che si intende affermare, nella giurisprudenza, allorché si ammette una liquidità scaturente da semplici operazioni aritmetiche. Se, infatti, il risultato dell’applicazione dei predetti criteri non fosse obbligato, residuando un margine di scelta discrezionale, il credito non potrebbe dirsi liquido, perché quel margine di discrezionalità non potrebbe essere superato se non mediante un ulteriore titolo (convenzionale o giudiziale).
Non è portabile (né liquida), bensì chiedibile (e illiquida) l’obbligazione pecuniaria il cui contenuto sia determinato unilateralmente dal creditore che ne chiede il pagamento. Qualificare tali obbligazioni come portabili sarebbe in contrasto con il principio del favor debaoris che informa il sistema della disciplina delle obbligazioni.
L’esigenza di protezione del debitore richiede che la liquidità del credito sia ancorata a dati oggettivi, e non alla richiesta del creditore563.
5. Il pagamento e gli strumenti alternativi al denaro contante
Il denaro è un bene fungibile, per cui l’obbligazione pecuniaria è generica e, come tale, non è suscettibile di risoluzione per sopravvenuta impossibilità della prestazione (art. 1256 c.c.), in ossequio al brocardo genus numquam perit. Il denaro, però, come già evidenziato, rileva per il potere d’acquisto espresso, in funzione dell’estinzione dell’obbligazione pecuniaria. L’estinzione consegue alla corresponsione di pezzi monetari in quantità pari al valore indicato, ma la diversa composizione di monete o banconote o altri strumenti fino alla somma totale risulta, per regola generale, irrilevante. In altri termini, è in effetti la ‘quantità’ del denaro ciò che basta per esprimerne la sua stessa ‘qualità’ solutoria564.
In modo più esplicito, la Relazione al Codice civile afferma che: «la quantità di moneta legale dovuta si determina in base al valore nominale che lo Stato attribuisce ad essa, senza riguardo al valore intrinseco; oggetto dell’obbligazione non è la materia di cui le monete sono formate, ma una quantità commisurata al valore loro attribuito».
Nella prassi economica, già da tempo, è diffuso l’utilizzo di strumenti di pagamento alternativi al contante. Si pone allora il problema di stabilire se tali strumenti siano
563 Cass., Sez. Un., 13 settembre 2016, n. 17989.
564 T. Dalla Xxxxxxx, Obbligazioni pecuniarie, cit., 137.
equiparabili al denaro e, quindi, il pagamento effettuato con tali strumenti configuri un adempimento dell’obbligazione pecuniaria.
Il punto di partenza dal quale la giurisprudenza ha preso le mosse è rappresentato dall’assunto secondo cui l’accettazione di mezzi di pagamento non riconducibili alla nozione di denaro costituisce datio in solutum, perché viene presupposta la diversa natura della prestazione pecuniaria prevista in obbligazione, rispetto a quella offerta dal debitore. L’efficacia solutoria dello strumento alternativo al denaro, quindi, è condizionata al consenso del creditore (art. 1197 c.c.), secondo le regole che governano la datio in solutum. L’efficacia estintiva dell’adempimento, salvo diversa volontà, è rinviata al momento della riscossione del credito.
L’equiparazione alla datio in solutum dell’adempimento dell’obbligazione pecuniaria con strumenti alternativi al denaro non è mai stata messa in discussione nel suo nucleo essenziale. Ma sono state introdotte delle eccezioni.
È il caso del pagamento con assegno circolare. Muovendo da considerazioni attinenti al mutamento della realtà socioeconomica – e così assecondando la tendenza verso la smaterializzazione del denaro – le Sezioni Unite hanno affermato che l’assegno circolare assicura al creditore la medesima utilità offerta dal pagamento in contanti. Il consenso espresso dal creditore a ricevere l’assegno in luogo del denaro, pertanto, resta del tutto irrilevante rispetto all’effetto estintivo, comunque assicurato dal pagamento a mezzo di assegno circolare565.
La Corte, in tal modo, ha affermato che si configura un vero e proprio adempimento (e non una datio in solutum) ogniqualvolta sia eseguita una prestazione che, pur non avendo per oggetto diretto denaro, ottenga comunque di far conseguire al creditore la disponibilità di una somma con modalità idonee al conseguimento del denaro. In questa nuova prospettiva, l’estensione della nozione di pagamento, anche oltre l’ipotesi dell’assegno circolare, è destinata a non arrestarsi.
Facendo leva sui principi di buona fede e correttezza, la Suprema Corte ha aperto la strada, più di recente, alla possibilità per il debitore di effettuare il pagamento con assegno di traenza, in ragione della precostituzione della necessaria provvista presso la banca emittente, con l’effetto di assicurare al creditore la piena disponibilità della somma dovuta: in tal modo, il pagamento con assegno di traenza potrebbe essere rifiutato dal creditore soltanto per giustificato motivo566.
Di fronte a un caso nel quale era offerto un pagamento tramite assegno bancario, la Suprema Corte, a Sezioni Unite, ha affermato che non può rifiutarsi un (qualsivoglia)
«sistema di pagamento» diverso da denaro contante, purché sia realizzata un’effettiva
«messa a disposizione del ‘valore monetario’», al di fuori del caso in cui il rifiuto sia sorretto da un giustificato motivo, che il creditore deve allegare e all’occorrenza anche provare567.
565 Cass., Sez. Un., 18 dicembre 2007, n. 26617.
566 Cass. 10 marzo 2008, n. 6291, nella quale si afferma che «l’adempimento dell’obbligazione pecuniaria non va inteso come atto materiale di consegna della moneta contante, bensì come prestazione diretta all’estinzione del debito nella quale le parti devono collaborare, osservando un comportamento da valutare secondo la regola della correttezza per il creditore e secondo le regole della diligenza per il debitore».
567 Cass., sez. un., 4 giugno 2010, n. 13658.
A prescindere dalla presenza di un accordo tra le parti, quindi, non è ammissibile un rifiuto del pagamento, con uno strumento alternativo al denaro, che si configuri in contrasto con i principi di correttezza e buona fede568.
Tali principi divengono il criterio per stabilire se uno strumento è idoneo o meno a produrre l’effetto solutorio tipico del pagamento. Imponendo una leale collaborazione tra il soggetto che paga e colui che riceve, è rifiutabile soltanto quella prestazione che non offre sufficienti garanzie di incasso.
6. Gli interessi
Tra i caratteri del ‘bene-denaro’, la giurisprudenza romana evidenzia la sua attitudine a produrre frutti: e questi frutti assumono il nome di usurae. Nell’accezione del tempo, il termine usura è da intendersi nel senso di ciò che deriva dall’usus del denaro, al contrario dell’accezione assunta oggi dal termine, che identifica una sproporzione tra le prestazioni.
Il fondamento delle usurae, nel diritto romano, risiede nella naturala fecondità del denaro: gli interessi sorgono ogniqualvolta sia convertito a proprio vantaggio l’uso di denaro altrui. La produzione di interessi, dunque, compensa il creditore dell’indisponibilità del denaro: in ciò risiede il suo fondamento equitativo.
Il quadro generale degli interessi in epoca classica evidenzia la distinzione tra usurae che sorgono prima e dopo la mora, ma senza che su ciò sia fondata una diversa connotazione ‘funzionale’, bensì quale mero discrimine cronologico569.
La concezione della naturale fecondità del denaro fu accolta dal codice napoleonico, il cui art. 584 definiva gli interessi come ‘frutto del capitale’. E anche la dottrina italiana, vigente il codice del 1865, riconduceva la nozione di interesse a quella di frutto del capitale.
Il Codice civile del 1942, all’art. 820, comma 3, definisce i frutti civili, tra i quali rientrano gli interessi, come ciò che si ritrae dalla cosa quale «corrispettivo del godimento che altri ne abbia». I frutti, quindi, vengono ad esistenza per effetto di un rapporto giuridico che si instaura tra soggetto e cosa: precisamente, tale rapporto è a vantaggio del soggetto non titolare della cosa, il quale sia autorizzato a godere di questa. Gli interessi rappresentano i frutti del capitale, in ragione del godimento che altri ne abbia. Il Codice civile vigente conferma quindi l’idea della ‘naturale fecondità’ del denaro, come del resto risulta in maniera espressa nella Relazione al codice.
Anche l’art. 1282 c.c. – secondo cui «i crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto, salvo che la legge o il titolo stabiliscano diversamente» – rispecchia nei termini più generali l’idea della naturale fruttuosità del denaro e manifesta che all’origine degli interessi si colloca una dissociazione tra ‘appartenenza’ e ‘godimento’ del capitale. Tale dissociazione si registra anche nell’art. 1224 c.c., che prevede il sorgere di interessi dal giorno della mora. Si tratta di una
568 T. Dalla Xxxxxxx, Obbligazioni pecuniarie, cit., 149.
569 Rispetto alla concezione romana della naturale fruttuosità del denaro, nei secoli successivi si affermò il divieto di interessi, di derivazione canonistica, ricavato dalla lettura delle Sacre Scritture ed elaborato dai Padri della Chiesa. Tale divieto caratterizzò tutta la cultura del Medioevo cristiano (eloquente è l’immagine dantesca degli usurai collocati nel terzo girone del settimo cerchio dell’Inferno).
dissociazione ancora diversamente configurata, giacché in tal caso il debitore, ritardando il pagamento di una somma di denaro, gode di una somma che avrebbe dovuto già rimettere nella disponibilità del creditore.
Delineato il fondamento e l’origine, occorre ora tentare di fornire una definizione degli interessi che consenta di individuarne le caratteristiche.
Gli interessi costituiscono prestazioni accessorie, omogenee rispetto alla prestazione principale, che si aggiungono ad essa per effetto del decorso del tempo e che sono commisurate ad una aliquota della stessa. Da questa definizione possono ricavarsi le caratteristiche degli interessi: omogeneità, periodicità, proporzionalità, determinabilità e accessorietà.
L’omogeneità presuppone la fungibilità: gli interessi sono costituiti, di per sé, da beni fungibili, ossia da beni quae pondere, numero, mensura consistunt. Il carattere dell’omogeneità impone la necessità di una relazione con altri beni, e così in specie questa relazione si evidenzia tra l’oggetto dell’obbligazione di interessi e il bene dal cui godimento gli interessi scaturiscono: trattasi, appunto, di una tendenziale omogeneità tra beni quanto al genus di appartenenza. Così, tipicamente, il godimento di una somma di denaro fa sorgere l’obbligazione di interessi: e si nota che essa pure è, in sé considerata, un’obbligazione pecuniaria, nonostante le particolarità della disciplina che a essa si applica, entro cui spicca il divieto di produrre ulteriori interessi, in ragione di quanto prescrive l’art. 1283 c.c.570.
La periodicità riconduce in modo diretto la nozione di interesse a quella di frutto: come si è già evidenziato, ai sensi dell’art. 821 c.c., i frutti civili si acquistano giorno per giorno, in ragione della durata del diritto. La maturazione degli interessi è tipicamente connessa allo scorrere del tempo: l’unità cronologica è, se non diversamente stabilito, il giorno. Il momento della maturazione degli interessi deve essere tenuto distinto da quello della loro esigibilità: i due momenti possono non coincidere, come nel caso in cui sia stata concordata la corresponsione degli interessi in via anticipata o posticipata.
Il carattere della proporzionalità deve intendersi nel senso che la determinazione degli interessi dipende dall’applicazione di un’aliquota, fissa o variabile, alla somma capitale, nel corso del tempo: tale aliquota, espressa come percentuale, è detta anche ‘tasso’ o ‘saggio’ d’interessi. È riconducibile al tema della proporzionalità degli interessi il problema posto dagli interessi usurari e da quelli anatocistici (v. amplius infra).
Il carattere della determinabilità, che il codice esprime in relazione al contratto (1346 c.c.) è proprio di tutte le obbligazioni. Con riferimento specifico a quelle pecuniarie, l’art. 1284 c.c. individua un sistema di determinazione certa dell’entità degli interessi. La norma fissa, al comma 1, la quantificazione degli interessi legali; al comma 2, stabilisce un criterio legale di determinabilità degli interessi di fonte convenzionale, quando le parti non ne abbiano stabilito l’entità; al comma 3, l’art. 1284 c.c. affida la determinazione degli interessi ultralegali alle parti.
Il carattere dell’accessorietà, infine, esprime il rapporto che sussiste tra l’obbligazione pecuniaria e l’obbligazione di interessi, nel senso che la seconda è dipendente dalla prima.
570 X. Xxxxx, in X. Xxxxx, X. Dalla Xxxxxxx, M. De Poli, M. Xxxxx Xxxxx, X. Materia, Le obbligazioni pecuniarie, cit., 529.
L’accessorietà, dunque, evoca un nesso tra obbligazioni: quella di interessi nasce proprio in ragione dell’esistenza dell’obbligazione pecuniaria principale, sussistendo un vincolo al momento genetico. Dall’accessorietà deriva che, qualora venga meno l’obbligazione principale viene a cadere anche l’obbligazione di interessi. Il rapporto di accessorietà, quindi, si traduce in un vincolo di dipendenza unilaterale: le vicende dell’obbligazione principale retroagiscono sull’obbligazione di interessi, ma non viceversa.
Il carattere dell’accessorietà non si esaurisce però nella dipendenza: l’obbligazione principale conforma e tipizza l’obbligazione di interessi. Così, per esempio, i caratteri di impignorabilità e irrinunziabilità dell’obbligazione principale – ritenuto che la posizione del creditore meriti una particolare protezione – si trasmettono a quella di interessi.
Si consideri ancora l’art. 1194 c.c., il quale stabilisce, al comma 1, che «il debitore non può imputare il pagamento al capitale, piuttosto che agli interessi e alle spese, senza il consenso del creditore», nonché, al comma 2, che «il pagamento fatto in conto di capitale e d’interessi deve essere imputato prima agli interessi». La ratio della norma è di evitare che il pagamento incida sulla base capitale, giacché è su questa che vengono calcolati gli interessi. Con l’accordo delle parti, tuttavia, il pagamento può essere imputato prima al capitale e poi agli interessi, in modo da ridurre l’ammontare del debito che produce interessi.
6.1. Le diverse tipologie di interessi
Gli interessi possono essere classificati in base alla diversa funzione svolta. La stessa Relazione al Codice civile opera una distinzione tra interessi che derivano dall’uso legittimo del denaro e interessi che costituiscono un compenso per il ritardo: i primi sono interessi c.d. corrispettivi, i secondi sono interessi c.d. moratori.
Gli interessi corrispettivi sono l’equivalente dell’utilità che il debitore ritrae (o si ritiene ritragga) dall’uso protratto del capitale monetario del creditore. A tali interessi fa riferimento l’art. 1282 c.c.: «i crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto, salvo che la legge o il titolo stabiliscano diversamente».
Gli interessi moratori, invece, sono dovuti per il ritardo nel pagamento: ai sensi dell’art. 1224 c.c., «nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di denaro, sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali». Tali interessi costituiscono una quantificazione forfettizzata del danno conseguente al ritardo nel pagamento.
Oltre agli interessi corrispettivi e moratori, nella Relazione al Codice civile vengono menzionati gli interessi compensativi, che «prescindono dalla mora del debitore ed anche dalla semplice scadenza del debito, ed appaiono in taluni casi specificamente previsti (artt. 1499, 1815 e 1825 c.c.)».
Nonostante la chiara tripartizione operata dalla Relazione al Codice civile, gli esatti confini della categoria degli interessi compensativi sono controversi, al punto che un orientamento della dottrina tende ad unificare la categoria degli interessi corrispettivi e quella degli interessi compensativi, rilevando che la funzione corrispettiva risponde, in
senso lato, a un’esigenza che può dirsi compensativa. La conseguenza di questa impostazione è una bipartizione tra interessi moratori e interessi non moratori571.
Senza negare la difficoltà di individuare i confini della categoria degli interessi compensativi, non si può ignorare il fatto che il legislatore, nella Relazione al Codice civile, ha concepito gli interessi in una prospettiva tripartita, evidenziando una tensione tra differenti funzioni: corrispettiva, moratoria e compensativa.
6.1.1. Gli interessi corrispettivi
Si è detto che l’art. 1282, comma 1, c.c. fissa la regola cardine in base alla quale il credito di una somma di denaro liquida ed esigibile produce automaticamente interessi, salvo che la legge o il titolo stabiliscano diversamente. Tali interessi sono attribuiti secondo la funzione corrispettiva, in liquidazione presuntiva del vantaggio che il debitore trae per la disponibilità del denaro. Essi costituiscono l’esemplificazione paradigmatica dei frutti civili che, ai sensi del comma 3 dell’art. 820 cod. civ., si producono naturaliter per effetto del godimento di un capitale altrui572.
La produttività di interessi corrispettivi postula la liquidità ed esigibilità della somma. In presenza di un’obbligazione pecuniaria pagabile al domicilio del debitore (debito c.d. ‘quérable’), ricorre il carattere dell’esigibilità: giacché la prestazione può essere attualmente richiesta, decorrono gli interessi corrispettivi.
6.1.2. Gli interessi moratori
A differenza degli interessi corrispettivi, che si giustificano per l’altrui uso legittimo del denaro, gli interessi moratori assolvono una funzione lato sensu sanzionatoria del ritardo del debitore. Essi decorrono in conseguenza del ritardo ‘colpevole’ nell’adempimento dell’obbligazione di pagamento. A seguito della mora, la prestazione di interessi assume il carattere di risarcimento per il ritardo, e non per l’uso legittimo del denaro, come è nell’essenza della corrispettività. Mentre gli interessi corrispettivi rispondono a una logica di scambio, esprimendo la commisurazione di un vantaggio, gli interessi moratori rispondono a una ‘regola di responsabilità’, esprimendo la quantificazione di un danno. Negli interessi corrispettivi è prevalente la considerazione del ‘vantaggio’ del debitore, negli interessi moratori è prevalente, invece, il profilo del ‘pregiudizio’ per il creditore.
L’art. 1224 c.c. stabilisce la regola in base alla quale l’obbligazione avente per oggetto una somma di denaro produce interessi in conseguenza della mora «anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno». Il presupposto degli interessi moratori è nel principio generale della responsabilità da inadempimento (art. 1218 c.c.), ed è l’art. 1219, comma 2, n. 3, c.c. che individua il rapporto tra mora e interessi: una volta giunto a scadenza il termine, allorché la prestazione debba eseguirsi al domicilio del creditore (obbligazione portable), si producono ope legis gli effetti della mora del debitore. Se si considera che i debiti aventi
571 C.M. Xxxxxx, Diritto civile, IV, cit., 179.
572 T. Dalla Xxxxxxx, Obbligazioni pecuniarie, cit., 319.
per oggetto una somma di denaro sono portabili (giacché precisamente in tal senso si esprime l’art. 1182, comma 3, c.c.), alla scadenza del termine si verifica la costituzione in mora e, assieme con questa, sorge l’obbligazione di prestare gli interessi sulla somma di denaro dovuta.
In altri termini, proprio il carattere rappresentato dalla portabilità del debito rende coincidente il momento della scadenza del termine per l’esecuzione della prestazione con quello della costituzione in mora del debitore: di conseguenza, tra gli interessi corrispettivi, decorrenti sulla somma liquida ed esigibile, e quelli moratori, conseguenti alla mora, si realizza di regola una sovrapposizione e un assorbimento dei primi nei secondi. Le due categorie di interessi, corrispettivi e moratori, sono concettualmente distinte, ma, stante la normale coincidenza del giorno della loro decorrenza, per effetto della regola di portabilità del debito, gli interessi moratori possono iniziare a decorrere senza che vi sia il tempo perché sorgano quelli corrispettivi. Come chiarito nella Relazione al Codice civile, una volta sopravvenuta la mora, si realizza una ‘trasformazione’ della funzione svolta dagli interessi compensativi, che vengono assorbiti da quelli moratori.
Se è vero che, di norma, gli interessi moratori vengono a sostituirsi a quelli corrispettivi, bisogna tener conto del fatto che, per effetto della convenzione delle parti e sussistendone i presupposti di legge, gli uni possono cumularsi con gli altri. Per quanto concerne il calcolo degli interessi moratori, l’art. 1224 c.c. stabilisce una presunzione che copre non solo l’an del risarcimento del danno, ma anche il quantum del pregiudizio subito a causa del ritardo nell’adempimento dell’obbligazione pecuniaria. La norma introduce un meccanismo automatico di quantificazione del danno che prescinde dalla prova del suo esatto ammontare: gli interessi moratori sono dovuti in misura pari al saggio legale, fissato nell’art. 1284 cod. civ., anche se prima della mora non decorrevano interessi e a prescindere dalla prova del danno da parte del creditore573.
L’art. 1224 c.c., inoltre, prevede che, se anteriormente alla mora era convenuto per gli interessi corrispettivi un saggio superiore a quello legale, gli interessi moratori sono dovuti in quella stessa misura: occorre, quindi, che gli interessi moratori siano ragguagliati alla misura in precedenza fissata dalle parti per gli interessi convenzionali. La ratio di questa regola, con cui è imposta una sorta di ‘perpetuazione’ del saggio convenzionale, deve ravvisarsi nella necessità di evitare che l’inadempimento si trasformi in un evento vantaggioso per il debitore.
Ai sensi comma 2 dell’art. 1224 c.c., se è stata convenuta la misura degli interessi moratori, l’eventuale maggior danno da ritardo non è dovuto: la pattuizione delle parti individua e delimita in via preventiva il danno risarcibile, operando come una clausola
573 Al fine di evitare che i tempi del processo civile diventino una forma di finanziamento al ribasso (in ragione dell’applicazione del tasso legale d’interesse) e dunque che il processo stesso venga a tal fine strumentalizzato, il
d.l. 12 settembre 2014, n. 132 (convertito con modificazioni, in legge 10 novembre 2014, n. 162), in coordinamento con la disciplina europea sui ritardi nei pagamenti relativi alle operazioni commerciali (attuata con decreto legislativo n. 231 del 2002, recentemente modificato), ha previsto uno specifico incremento del saggio di interesse moratorio durante la pendenza della lite. A tal fine, è stato integrato l’art. 1284 c.c. con l’aggiunta di due nuovi commi: il primo prevede che, laddove le parti non abbiano esse stesse previsto la misura del tasso d’interesse moratorio, dal momento della proposizione della domanda giudiziale il tasso degli interessi legale deve considerarsi pari a quello previsto dalle richiamate disposizioni in tema di ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali; l’ulteriore comma aggiunto specifica che alla domanda giudiziale è equiparato l’atto con il quale si promuove il procedimento arbitrale.
penale, con funzione al contempo liquidativa e limitativa del risarcimento del danno da ritardo.
Se, invece, la misura degli interessi moratori non è stata convenuta, il creditore può ottenere il risarcimento del danno da ritardo in misura maggiore rispetto a quello quantificato in via predeterminata e forfettaria dalla legge. Il maggior danno, in altri termini, è il danno eccedente quello già coperto dagli interessi di mora calcolati al tasso legale sulla somma dedotta in obbligazione; si giustappone, e non si aggiunge, a quello, forfettario, previsto dal comma 1 e deve quindi essere depurato di quanto sia già stato accordato a titolo di interessi moratori. Accogliendo la teoria dell’assorbimento, la giurisprudenza è stabile nel ritenere che, superato il danno presunto costituito dagli interessi legali, con l’attribuzione del maggior danno ai sensi del comma 2 dell’art. 1224
c.c. trova copertura l’intera area dei danni subiti dal creditore. Al contrario, se si desse luogo al cumulo, si finirebbe per attribuire due volte la liquidazione dello stesso danno al creditore, il quale allora conseguirebbe addirittura più di quanto avrebbe ricavato se il debitore avesse tempestivamente adempiuto.
La Relazione al Codice civile include entro l’ambito del maggior danno risarcibile anche il pregiudizio derivante dal mutamento del valore della moneta, con allocazione del relativo rischio in capo al debitore. Ma il maggior danno è idoneo a coprire ogni pregiudizio subito nel tempo della mora in conseguenza del ritardo, non unicamente quello derivante dalla svalutazione monetaria. Il principio fondamentale è nel senso che sia risarcibile ogni danno conseguente alla mancata tempestiva disponibilità della somma nel patrimonio del creditore. L’onere della prova del maggior danno grava sul creditore, ma, quando si tratta di danno derivante dal mutamento del valore della moneta, l’onere della prova è alleggerito da una serie di presunzioni di natura giurisprudenziale. I giudici di legittimità574, infatti, hanno affermato il principio in base al quale il maggior danno di cui al comma 2 dell’art. 1224 cod. civ. risulta in via generale riconoscibile presuntivamente, a decorrere dal momento della mora e a vantaggio di qualunque creditore ne chieda il risarcimento, nella misura della differenza tra il tasso di rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi e il saggio degli interessi legali determinato anno per anno.
Nella misura appena indicata è ravvisabile l’entità del danno in via presuntiva, entro la quale il creditore è sollevato dall’onere della prova. Viene fatta salva per il debitore la facoltà di provare che il creditore non abbia subito il maggior danno di cui al comma 2 dell’art. 1224 cod. civ., oppure che il danno subito assuma una misura inferiore rispetto a quella identificata nel modo appena descritto, dimostrando il meno remunerativo uso che il creditore avrebbe fatto della somma dovuta qualora fosse stata tempestivamente corrisposta.
Viceversa, il creditore è ammesso a provare di aver subito un pregiudizio maggiore rispetto a quello identificabile in via presuntiva: e ciò sia facendo riferimento al tasso d’interesse corrisposto per il ricorso al credito bancario, sia invocando quale parametro l’utilità netta marginale dei propri investimenti.
574 Cass., Sez. Un., 16 luglio 2008, n. 19499.
6.1.3. La speciale disciplina degli interessi moratori nelle transazioni commerciali
Nelle transazioni commerciali, il ritardo nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie, oltre a danneggiare le imprese, soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni, imponendo loro pesanti oneri finanziari e amministrativi, impedisce il buon funzionamento del mercato e, generando un deficit di solvibilità, contribuisce alla contrazione dei livelli occupazionali.
Il ritardo nel pagamento delle obbligazioni pecuniarie, inoltre, può rappresentare una violazione contrattuale finanziariamente conveniente per il debitore e, dunque, può costituire una soluzione attraente in ragione dei bassi livelli dei tassi degli interessi di mora, nonché della lentezza delle procedure giudiziarie per il recupero dei crediti.
Il legislatore nazionale, dando attuazione della dir. 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, ha cercato di porre rimedio al complesso dei problemi appena delineati con il d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231.
La normativa, applicabile ad ogni tipo di pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale e impostata secondo uno schema tipicamente sanzionatorio e repressivo, prevede la decorrenza automatica degli interessi dal giorno successivo alla scadenza del termine contrattualmente stabilito per il pagamento. Nel caso in cui, invece, il contratto non preveda alcun termine di scadenza, gli interessi decorrono, senza che sia necessaria alcuna “messa in mora”, dal trentesimo giorno successivo alla data di ricevimento della fattura.
Le parti, nella propria libertà contrattuale, possono tuttavia stabilire un termine superiore rispetto a quello legale, a condizione che le diverse pattuizioni siano stabilite per iscritto.
6.2. Gli interessi compensativi
Come già evidenziato, la Relazione al Codice civile considera gli interessi compensativi come un tertium genus; essi “prescindono dalla mora del debitore ed anche dalla semplice scadenza del debito, ed appaiono in taluni casi specificamente previsti (artt. 1499, 1815, 1825 c.c., che disciplinano rispettivamente compravendita, mutuo e conto corrente).
La fattispecie più rilevante, tra quelle che danno luogo a interessi in funzione compensativa, è senza dubbio quella del mutuo oneroso. Dal contratto sorge un’obbligazione di interessi, giustificata dal godimento di un capitale altrui e rispondente a una funzione compensativa. Gli interessi non scaturiscono da una somma liquida ed esigibile, ma maturano su una somma che è esigibile soltanto alla scadenza del contratto stesso. Alla luce di ciò la Relazione al codice riconduce gli interessi derivanti dal mutuo nella categoria degli interessi con funzione compensativa, anziché corrispettiva. L’opinione largamente prevalente tenda a qualificarli come interessi corrispettivi, perché derivanti da un credito di denaro. La stessa Relazione individua come interessi compensativi anche quelli derivanti dalla vendita ex art. 1499 c.c. La norma prevede che, salvo diversa pattuizione, qualora la cosa venduta e consegnata al compratore produca frutti o altri proventi, decorrono gli interessi sul prezzo, sebbene quest’ultimo non sia ancora esigibile. Se un bene fruttifero è consegnato prima del pagamento del prezzo, gli
interessi sono attribuiti al venditore proprio con lo scopo di compensare il vantaggio che tale situazione arreca al compratore: il venditore non gode del prezzo ma, al contempo, ha già consegnato la merce. Dall’art. 1499 c.c. si evincono le caratteristiche distintive degli interessi compensativi: essi postulano che il bene oggetto del contratto sia produttivo di frutti (naturali o civili) o altri proventi e che il credito per il quale essi maturano non sia ancora esigibile. Si tratta di interessi, quindi, che sorgono in presenza di presupposti diversi da quelli che determinano la produzione di interessi corrispettivi. La funzione degli interessi compensativi è equitativa, mirando essi a compensare i benefici che possono trarsi dal godimento di un bene, prima che sia esigibile il
corrispettivo per quel godimento.
La stessa funzione caratterizza gli interessi di conto corrente (art. 1825 c.c.), annoverati anch’essi dalla Relazione al Codice civile tra quelli compensativi. Con il contratto di conto corrente le parti realizzano una reciproca concessione di credito, caratterizzata dall’inesigibilità del credito stesso fino al momento della chiusura del conto. Nel prevedere interessi su crediti «inesigibili e indisponibili fino alla chiusura del conto», l’art. 1825 c.c. risponde a una funzione sostanzialmente compensativa: la giustificazione economico-giuridica degli interessi di conto corrente è ravvisabile nella necessità di attribuire un ‘corrispettivo’ per il godimento di un capitale altrui, analogamente al mutuo.
Nel vigore del codice del 1865, la giurisprudenza definiva compensativi gli interessi sulla somma riconosciuta a titolo di risarcimento del danno per fatto illecito. In linea di continuità si pone ancora oggi la giurisprudenza con riferimento all’art. 2043 del codice vigente, evocando la categoria degli interessi ‘compensativi’.
In realtà, al di là di un generico fondamento equitativo comune, gli interessi sulla somma riconosciuta a titolo di risarcimento del danno non presentano le caratteristiche di quelli che la Relazione al Codice civile individua come compensativi. Manca infatti il tratto caratteristico dato dal fatto di ‘compensare’ il godimento di un bene prima che sia dovuto il corrispettivo per quel godimento. Gli interessi da risarcimento, piuttosto, coprono il pregiudizio subito dal creditore danneggiato per il ritardo con cui questi consegue la somma di denaro a titolo risarcitorio. Tali interessi, quindi, sorgono da un debito di valore e compensano il danno per il periodo di tempo intercorso tra il sorgere dell’obbligazione risarcitoria e il suo adempimento, realizzando una compiuta reintegrazione del patrimonio del creditore-danneggiato. Si tratta allora di interessi che costituiscono strumento atto alla quantificazione di un debito di valore.
Di ciò si trova conferma in una sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in cui si afferma che se la liquidazione del danno ingiusto viene effettuata ‘per equivalente’, con riferimento, cioè, al valore del bene perduto dal danneggiato all’epoca del fatto illecito, e tale valore venga poi espresso in termini monetari, è dovuto al danneggiato anche il danno da ritardo, e cioè il lucro cessante provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma, danno che deve essere provato dal creditore575.
575 Cass., sez. un., 14 gennaio 2009, n. 557.
7. L’anatocismo
Con il termine “anatocismo” si indica quel fenomeno che determina la produzione di interessi sugli interessi già maturati sul capitale iniziale e non pagati. In forza di tale fenomeno, il debitore è tenuto a pagare: il capitale iniziale, i relativi interessi scaduti e gli ulteriori interessi calcolati anche su questi ultimi.
L’anatocismo è stato sempre considerato con un certo sfavore, poiché consente di trasformare gli interessi in capitale produttivo di ulteriori interessi, con la conseguenza di un progressivo e inarrestabile aumento del debito, in danno del debitore. Nel diritto romano, l’anatocismo non era vietato, se le parti avessero compiuto una apposita stipulazione. Xxxxxxxxxxx, però, con una sua costituzione, sviluppando una politica che tendeva a fissare un tasso massimo degli interessi, proibì in modo esplicito l’assunzione convenzionale di usurae usurarum.
Il legislatore italiano – in ciò preceduto dal Codice Xxxxxxxxx – ha seguito una via intermedia fra il divieto assoluto della produzione di interessi da parte degli interessi scaduti e l’ammissibilità senza xxxxxx000.
Il codice vigente, all’art. 1283, ha sostanzialmente riprodotto la disposizione del codice del 1865. L’art. 1283 c.c., infatti, prevede che, “in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla scadenza sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi”.
L’anatocismo, dunque, è consentito da una norma imperativa solo in tre ipotesi.
Anzitutto, sulla base di un accordo fra le parti (anatocismo convenzionale) che sia successivo alla scadenza degli interessi e con riferimento a interessi dovuti per almeno sei mesi. La scelta legislativa di indicare un tempo minimo di sei mesi si giustifica considerando che il periodo di tempo considerato ha diretta influenza sull’entità della capitalizzazione degli interessi: più breve è l’arco di tempo preso in considerazione per la maturazione degli interessi, tanto maggiore è quantitativamente la capitalizzazione degli interessi stessi. Il legislatore, in sostanza, ha voluto evitare che la brevità del periodo per la maturazione degli interessi agisse da diretto o indiretto moltiplicatore degli stessi interessi, con il risultato di stimolarne la produzione, anche in costanza di un saggio di interessi “normale”, in misura pari o superiore ad un saggio di interessi usurari577.
In secondo luogo, l’anatocismo è consentito in presenza di una domanda giudiziale successiva alla scadenza degli interessi e anch’essa riferita agli interessi dovuti per almeno sei mesi (anatocismo giudiziale).
576 Già nel Codice civile del 1865, l’art. 1232 disponeva che: «gli interessi scaduti possono produrre altri interessi o nella tassa legale in forza di giudiziale domanda e dal giorno di questa, o nella misura che verrà pattuita in forza di una convenzione posteriore alla scadenza dei medesimi. Nelle materie commerciali l’interesse degli interessi è inoltre regolato dagli usi e dalle consuetudini. L’interesse convenzionale o legale d’interessi scaduti per debiti civili non comincia a decorrere, se non quando trattasi d’interessi dovuti per una annata intera, salvo però riguardo alle casse di risparmio ed altri simili istituti quanto fosse altrimenti stabilito dai loro rispettivi regolamenti».
577 G. Xxxxx, X. Xxxxxxx, X. Zoppini, Manuale, cit., 812.
In terzo luogo, l’anatocismo si configura in presenza di un uso normativo578 contrario (anatocismo usuale), in grado di derogare alla disciplina dettata dall’art. 1283 c.c.
L’anatocismo è particolarmente praticato dalle banche nei loro rapporti con i clienti debitori e, in tale ambito, assume il nome, nella prassi, di anatocismo bancario. Esso vanta una disciplina speciale, recata dall’art. 120 del t.u. bancario (d.lgs. 1.9.1993, n. 385, modificato dalla legge di stabilità 2014). La norma attribuisce al CICR il potere di stabilire modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che: a) nelle operazioni in conto corrente sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori; b) gli interessi periodicamente capitalizzati (contabilizzati) non possano produrre interessi ulteriori, i quali sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale.
Lo scopo della nuova disposizione è quello di vietare che gli interessi possano produrre ulteriori interessi (salvo quelli di mora), così evitando il fenomeno dell’anatocismo bancario.
La norma, inoltre, certifica la validità del principio, già noto, secondo il quale nelle operazioni in conto corrente deve essere assicurata alla clientela la parità di conteggio nella produzione degli interessi. Ma, a differenza della previgente formulazione della norma, nella nuova versione si fa riferimento non più alla “produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria”, bensì alla “produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria”.
Non si parla, dunque, di periodicità di interessi capitalizzati, ma di periodicità della liquidazione degli interessi.
Non si tratta, in sostanza, della mera riproposizione di quanto già stabilito dall’art. 25, co. 2, d.lgs. 4 agosto 1999, n. 342, che aveva introdotto nel corpo dell’art. 120 del TUB, proprio come la norma in esame, il potere del CICR di definire modalità e criteri per la produzione degli interessi sugli interessi nelle operazioni in conto corrente e garantendo la coincidenza temporale, nel computo di questi, in tutte le operazioni di dare e avere. Diversamente, la nuova norma garantisce solo la coincidenza temporale (giornalmente, mensilmente, trimestralmente, semestralmente, annualmente) della liquidazione degli interessi di tutte le operazioni di dare e avere, ma senza alcuna capitalizzazione.
La norma, inoltre, elimina evidentemente l’anatocismo degli interessi liquidati o, meglio, contabilizzati. Infatti, quando vengono contabilizzati gli interessi (giornalmente, mensilmente, trimestralmente, semestralmente, annualmente) questi non confluiscono, come avveniva prima, nella sorte capitale, ma vengono contabilizzati a parte, non dando luogo ad alcuna capitalizzazione. È escluso quindi l’anatocismo. L’esclusione, però, non è assoluta. La legge 8 aprile 2016, n. 49, di conversione del d.l. 18 del 2016, ha reintrodotto il fenomeno dell’anatocismo limitatamente ad alcune tipologie di contratti bancari. Per le aperture di credito in conto corrente e in caso di sconfinamento extra fido o in assenza di fido, il cliente può autorizzare, anche preventivamente, l’addebito degli
578 Gli usi normativi si formano per il fatto che certi comportamenti sono stati ripetuti per un certo periodo di tempo (diuturnitas), con la convinzione che fossero giuridicamente obbligatori, perché conformi ad una norma giuridica valida o giusta (opinio iuris et necessitatis). Dagli usi normativi si distinguono gli usi negoziali, che si formano in presenza della sola pratica diffusa in una cerchia ristretta di soggetti.
interessi sul conto nel momento in cui sono maturati. Gli interessi addebitati sul conto sono considerati dalla legge come sorte capitale e, quindi, posso produrre ulteriori interessi: cioè, possono dar luogo al fenomeno dell’anatocismo.
In relazione ai contratti di conto corrente bancario si è a lungo discusso circa l’esistenza di un uso normativo, idoneo a legittimare un anatocismo bancario a cadenza trimestrale, in deroga alla disciplina dettata dall’art. 1283 c.c. e dall’art. 120 del t.u. bancario. In particolare, si è posta la questione se configuri un uso normativo contrario, ai sensi dell’art. 1283 c.c., l’uso bancario rintracciabile nelle norme bancarie uniformi del 1951, che si concretizza nella capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi dei clienti, a fronte di una capitalizzazione che è invece annuale per i saldi attivi dei clienti stessi.
La disparità di conteggio, a tutto vantaggio degli istituti di credito, e la deroga ai criteri fissati dall’art. 1283 c.c., inizialmente, sono state ritenute legittime dalla giurisprudenza sulla base dell’asserita esistenza di un uso normativo sulla capitalizzazione trimestrale degli interessi, recepito dalle norme bancarie uniformi del 1951.
La Cassazione, dopo aver riconosciuto la ricorrenza di un uso normativo che legittima la capitalizzazione trimestrale degli interessi sui conti debitori, ha mutato radicalmente indirizzo con due sentenze epocali del 1999 (nn. 2374 e 3096). La Corte, in sostanza, accogliendo la tesi della dottrina, è giunta a escludere la sussistenza e, comunque, la stessa possibilità di formazione di un uso normativo che possa derogare all’art. 1283 c.c., rilevando: a) l’assenza di qualsiasi prova di un uso normativo anteriore all’entrata in vigore del codice e conforme a quello trasfuso nelle norme bancarie uniformi del 1951;
b) l’assenza dell’elemento dell’opinio iuris, consistente nella consapevolezza di tenere un comportamento dovuto, in quanto conforme a norma; c) l’imposizione ai clienti, da parte delle banche, delle clausole sulla capitalizzazione trimestrale degli interessi, senza nessuna possibilità di negoziazione.
Le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi inserite nei contratti di conto corrente bancario, nella ricostruzione giurisprudenziale, vengono classificate come usi negoziali, applicati nella prassi contrattuale dalle banche, ma carenti dei requisiti propri degli usi normativi. L’uso invalso, dunque, non viene ritenuto idoneo a derogare alla disciplina dettata dall’art. 1283 c.c. e le clausole inserite sulla base di tale uso, contrastando con una norma imperativa, vengono ritenute nulle per violazione di una norma imperativa ex art. 1418, comma 1, c.c.
L’anatocismo che non rispetta le condizioni indicate dall’art. 1283 c.c. deve ritenersi nullo per violazione di norma imperativa. La conseguenza è il riconoscimento in capo al debitore del diritto alla ripetizione delle somme corrisposte indebitamente a titolo di interessi anatocistici.
In relazione ai contratti di conto corrente bancario, che instaurano un rapporto di durata nell’ambito del quale la banca può procedere ad annotare a debito del cliente gli interessi anatocistici e il cliente può effettuare versamenti sul conto corrente volti a ripristinare la provvista, si è posto il problema di individuare il dies a quo del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito. Si tratta di stabilire se il termine inizi a decorre dal giorno dell’annotazione da parte della banca (ovvero del versamento da parte del cliente) o dal giorno della chiusura del conto corrente.
Nella prospettiva delineata dalle Sezioni Unite579, il problema del rapporto tra conto corrente bancario e decorrenza della prescrizione del diritto alla restituzione dell’indebito di interessi anatocistici si riassume nello stabilire quando in tale tipo di rapporto si verifichi un pagamento indebito, e cioè un effettivo trasferimento patrimoniale. Ciò in quanto il cardine della regola enunciata dall’art. 2033 c.c. sulla ripetizione è proprio quello della possibilità di neutralizzare (con la ripetizione) atti di disposizione patrimoniale privi di causa (ab origine o per fatti sopravvenuti), costituendo conseguentemente tali atti il presupposto imprescindibile per azionare il rimedio quasi- contrattuale.
Il baricentro dell’intera questione è incentrato sull’individuazione del pagamento indebito, e cioè nello stabilire se l’addebito e il versamento costituiscano un pagamento. Nel risolvere tale questione, la Corte di cassazione ha sposato incondizionatamente la tesi della natura meramente contabile del rapporto di conto corrente, escludendo che le annotazioni passive (e le anteriori o successive annotazioni attive che in tutto o in parte si annullano con le prime) possano essere qualificate quali “pagamento”. L’annotazione indebita sul conto corrente di una clausola anatocistica nulla, dunque, non costituendo un pagamento in senso tecnico, non fa sorgere il diritto alla ripetizione dell’indebito (e, dunque, non determina il conseguente inizio del decorso del termine di prescrizione dell’azione di ripetizione).
È solo dal momento della chiusura del conto corrente che detto termine prescrizionale inizia a decorrere580. Prima della chiusura del conto e sin dal momento dell’annotazione, avvedutosi dell’illegittimità dell’addebito in conto, il correntista può naturalmente agire per far dichiarare la nullità del titolo su cui quell’addebito si basa e, di conseguenza, per ottenere una rettifica in suo favore delle risultanze del conto stesso.
Dall’ipotesi dell’addebito su conto corrente deve essere tenuta distinta l’ipotesi di un versamento indebito effettuato dal correntista. In tale ipotesi – afferma la Cassazione – per stabilire da quando inizi a decorrere il termine di prescrizione dell’azione di ripetizione, occorre avere riguardo alla natura ed alla funzione del versamento. Si configura un pagamento solo nei casi in cui il cliente, debitore, effettui versamenti su un conto «in passivo (o, come in simili situazioni si preferisce dire “scoperto”) cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento»: per tali versamenti, che costituiscono pagamento, il termine di prescrizione dell’azione di ripetizione inizia a decorrere dal momento stesso in cui gli stessi versamenti sono stati effettuati. Qualora, invece, i versamenti valgano solo a ripristinare la provvista dell’apertura di credito, essi non vanno considerati “pagamenti”, e quindi non integrano quel trasferimento patrimoniale indebito da cui comincia a decorrere la prescrizione. Per tali versamenti la prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito inizia a decorrere, al pari delle annotazioni indebite, dalla chiusura del conto corrente.
579 Cass., Sez. Un., 2 dicembre 2010, n. 24418.
580 Con una norma di interpretazione autentica (art. 2, comma 61, della legge di stabilità 2012), il legislatore aveva tentato di anticipare al giorno dell’annotazione l’inizio del decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito. Ma la Corte costituzionale, con sentenza 5 aprile 2012, n. 78, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma.
8. La distinzione degli interessi in base alla fonte
Il Codice civile, seppur implicitamente, distingue, in relazione alla loro fonte, tra interessi legali, (artt. 1224 e 1282, comma 1, c.c.), convenzionali (art. 1284 comma 2 c.c.) e usuali.
Gli interessi legali sono predeterminati dalla legge nell’an e nel quantum e hanno come parametro normativo di riferimento l’art. 1282, comma 2, c.c., secondo cui ogni credito di somme liquide ed esigibili produce interessi di pieno diritto, salvo che la legge o il titolo non dispongano diversamente.
Gli interessi si definiscono negoziali quando traggono la loro fonte in un negozio giuridico. Il legislatore ha previsto che la formazione del negozio debba avvenire per iscritto quando il saggio di interesse negoziale sia superiore a quello legale: l’atto scritto è richiesto ad substantiam e la sua mancanza è rilevabile d’ufficio: un eventuale negozio verbale sarebbe nullo e nessuna prova potrebbe essere ammessa a supplire la mancanza della forma scritta.
L’art. 1830 del codice del 1865 prevedeva espressamente che gli interessi non convenuti, così come quelli eccedenti la misura convenuta ma non eccedenti entro il limite massimo fissato dalla legge contro l’usura, una volta corrisposti, non potessero essere ripetuti. Al di là della discussione se tali interessi fossero stati corrisposti in ottemperanza a doveri morali o sociali o piuttosto in attuazione di un dovere di correttezza commerciale, era dunque la legge a stabilire espressamente per questi la soluti retentio. Si trattava di un caso paradigmatico – accanto, per esempio, a quello del debito di gioco – di obbligazione naturale, per il quale sarebbe valsa la regola tradizionale nec actio nec repetitio.
Una disposizione di tale contenuto non venne però ripresa nel codice del 1942, nel quale si evitò di dettare una disciplina specifica dell’ipotesi in esame. Nella Relazione al codice la scelta è giustificata in questi termini: «non si è ripetuta la norma dell’art. 1830 cod. civ. del 1865 circa l’irripetibilità degli interessi non dovuti, perché è sembrata inutile. Infatti, se la loro misura è contenuta in limiti leciti, la relativa corresponsione costituisce adempimento di un’obbligazione naturale per cui non è ammessa ripetizione (art. 2034); se invece gli interessi assumono proporzioni usurarie, la prestazione dell’eccedenza sulla misura legale, costituendo un illecito, dà luogo a ripetibilità». Da ciò si trae dunque conferma del fatto che nel codice vigente il debito di interessi non validamente convenuti e spontaneamente pagati continua a integrare un’ipotesi di obbligazione naturale.
Se quanto detto vale in linea generale, ciò non toglie che spetti poi all’interprete di valutare, caso per caso, l’effettiva sussistenza dei presupposti dell’obbligazione naturale: in particolare, occorre scrutinare la ‘spontaneità’ dell’esecuzione, nonché la corrispondenza dell’esecuzione stessa a ‘doveri morali o sociali’.
Si definiscono “usuali” gli interessi di fonte consuetudinaria (per i quali viene in rilievo l’art. 1, n. 4, delle preleggi). Un esempio assai noto di fattispecie nella quale si fa esplicito rinvio agli usi come fonte di obbligazione di interessi, è quella descritta nell’art. 1283 c.c.: l’anatocismo (cioè, la produzione di interessi su interessi scaduti) è un fenomeno che si verifica in conformità agli usi.
8.1. Gl interessi lite pendente
Ai sensi dell’art. 1284, comma 4, c.c., se le parti non hanno determinato la misura degli interessi, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
La ratio della norma risiede nell’esigenza di assicurare al creditore un più adeguato ristoro economico nelle more del giudizio, scoraggiando l’uso abusivo del processo, utilizzato come strumento per ritardare il pagamento del debito.
La norma è stata introdotta al fine di contenere gli effetti negativi della durata dei processi civili, riducendo il vantaggio, per il debitore convenuto in giudizio, derivante dalla lunga durata del processo, attraverso la previsione di un tasso di interesse più elevato di quello ordinario, dal momento della pendenza della lite: si tratta, quindi, di una disposizione (lato sensu deflattiva del contenzioso giudiziario), che ha lo scopo di scoraggiare l’inadempimento e rendere svantaggioso il ricorso ad inutile litigiosità.
E’ pacifico che la norma si applichi a tutte le obbligazioni pecuniarie aventi la loro fonte in un qualunque contratto, indipendentemente dalla causa petendi (pagamento di corrispettivo, premi, incentivi, risarcimento, indennizzo, penali o altro).
Si discute se la norma si applichi anche alle obbligazioni pecuniarie aventi fonte diversa da un contratto, come le obbligazioni da fatto illecito e le obbligazioni ex lege.
Secondo un orientamento giurisprudenziale, la norma si applica alle sole obbligazioni aventi fonte in un contratto. Tale indirizzo ermeneutico fa leva sull’argomento letterale, basato sul dato testuale desunto dall'incipit del comma 4 ("Se le parti non ne hanno determinato la misura ..."): solo nel caso di un contratto è ipotizzabile un previo accordo sulla misura del saggio degli interessi e non invece nel caso di obbligazioni derivanti dalle altre fonti stabilite dall'art. 1173 c.c..
Per un diverso orientamento giurisprudenziale (Cass., n. 61 del 2023), la norma si applica anche alle obbligazioni pecuniarie che sorgono da fonti diverse dal contratto.
Ciò in quanto la ratio della norma è quella di scoraggiare l'inadempimento e di rendere svantaggioso l’impiego del processo come strumento di dilatazione dei tempi dell’adempimento.
In chiave di analisi economica del diritto, la ratio dell'art. 1284, comma 4, c.c. è quella di evitare che in virtù dei tempi del processo civile il debitore possa finanziarsi al ribasso (utilizzando la somma dovuta in impieghi alternativi più vantaggiosi rispetto agli interessi legali di mora, ovvero evitando interessi da finanziamenti bancari più elevati degli interessi legali di mora). Questa ratio non è compatibile con una limitazione del campo di applicazione della norma alle sole obbligazioni penunciarie derivanti da contratto.
Una tale limitazione finirebbe per attribuire maggiore tutela ai creditori da obbligazioni contrattuali rispetto ai creditori, ad esempio, da obbligazioni ex delicto.
L'art. 1284 c.c., in cui è inserita la norma sugli interessi legali pendente lite, disciplina in linea generale il tasso legale degli interessi per tutte le obbligazioni senza distinguere tra categorie di obbligazioni in relazione alla loro fonte.
9. L’usura
Si è detto che l’art. 1284 c.c., in deroga al principio generale di libertà delle forme, richiede la forma ad substantiam per l’accordo con cui le parti convengono interessi in misura superiore a quella legale. La necessità della forma solenne si ispira alla ratio di richiamare l’attenzione delle parti (e, in particolare, del debitore) su un profilo sensibile dell’assetto negoziale, collegato al divieto generale di usura. In assenza della forma scritta, la pattuizione è affetta da nullità, ma il comma 3 dell’art. 1284 c.c. prevede che si realizzi la sostituzione automatica del tasso legale a quello convenzionale, così operando il meccanismo previsto dall’art. 1419, comma 2, c.c., per il quale la nullità della singola clausola non comporta la sanzione di nullità per l’intero negozio, quando la clausola sia sostituita di diritto da una norma imperativa. Il meccanismo della nullità parziale soddisfa l’esigenza di conservazione del rapporto obbligatorio, giustificata da una ragione particolare di protezione del debitore: se la nullità colpisse l’intero negozio, si produrrebbero conseguenze dannose anzitutto per quest’ultimo, il quale sarebbe così costretto a restituire immediatamente l’intera somma.
Non opera, invece, il meccanismo della sostituzione automatica quando sono convenuti interessi usurari: ai sensi dell’art. 1815, comma 2, c.c., “se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”.
Prima della riforma del 1996, il comma 2 dell’art. 1815 c.c. non prevedeva la nullità ‘tout court’ della clausola con cui fossero previsti interessi usurari, bensì la conversione dell’interesse usurario in interesse legale. L’attuale formulazione della norma invece abbandona il meccanismo della conversione legale, che si è appena osservato con riguardo al comma 3 dell’art. 1284 c.c., per affermare perentoriamente che la clausola è nulla e che non sono dovuti interessi.
Si configura, quindi, una nullità parziale che colpisce solo la pattuizione d’interessi, mentre rimane salvo il rapporto obbligatorio, a tutto vantaggio del debitore e a svantaggio del creditore. Si è in presenza di un regime peculiare, che è giustificato dalla gravità del fenomeno dell’usura e che risponde a una ratio di massima tutela della parte debole del rapporto, a fronte di una sproporzione tra le prestazioni perpetrata dalla parte forte del rapporto.
Tale regime, ancorché riferito al mutuo, esprime un principio generale, estensibile alla più ampia categoria dei contratti con funzione creditizia.
9.1. Il calcolo dell’usura: il calcolo degli interessi di mora
La disciplina antiusura è posta a tutela di una pluralità di interessi e presenta plurime rationes: la tutela del fruitore del finanziamento (il debitore), la repressione della criminalità economica, la direzione del mercato creditizio e la stabilità del sistema bancario.
Sanzionare le pattuizioni inique estranee alla logica concorrenziale persegue il fine dell’ordinato funzionamento del mercato creditizio e della protezione del soggetto finanziato.
Si discute se si applichi la disciplina antiusura e, in particolare, l’art. 1815, comma 2,
c.c. agli interessi di mora, pattuiti dalle parti o determinati unilateralmente dalla banca nell’esercizio dello ius variandi.
La tesi favorevole all’inclusione degli interessi moratori nel calcolo dell’usura fa leva sul tenore letterale del d.l. n. 394/2000, convertito con modificazione nella legge n. 24/2001, di interpretazione autentica dell’art. 644 c.p.: l’art. 1, comma 1 della citata legge riconduce alla nozione di interessi usurari quelli convenuti “a qualsiasi titolo”, e la relazione governativa di accompagnamento al citato decreto fa più esplicito riferimento a ogni tipologia di interesse, “sia esso corrispettivo, compensativo o moratorio”. Il linguaggio del legislatore sembra non lasciare spazio a interpretazioni: in claris non fit interpretatio. E, infatti, la giurisprudenza prevalente ha aderito alla tesi che include gli interessi moratori nel calcolo dell’usura.
A conforto della tesi in esame, sconfessando le differenze tra interessi moratori e interessi corrispettivi, si afferma che entrambi hanno una configurazione funzionalmente unitaria. Gli interessi moratori, al pari degli interessi corrispettivi, hanno una funzione “reintegrativa”, nel senso che entrambe le categorie di interessi trovano la loro giustificazione nella perdita di disponibilità di capitale a favore di un altro soggetto. In questa prospettiva, gli interessi corrispettivi e quelli moratori sarebbero due fenomeni speculari, in quanto ad entrambi andrebbe riconosciuta una funzione in ultima istanza risarcitoria o indennitaria.
In questo senso, si è evidenziato che il vantaggio del debitore che utilizza denaro altrui (che giustifica la previsione di interessi corrispettivi), e il danno che il creditore subisce per la ritardata restituzione del denaro da parte del debitore (che comporta l’applicazione di interessi moratori a titolo di risarcimento), rappresenterebbero due fenomeni identici.
L’equiparazione degli interessi moratori a quelli corrispettivi vale a evidenziare la mancanza di ogni razionale giustificazione di un trattamento diversificato ai fini del calcolo dell’usura.
La conseguenza dell’applicazione dell’art. 1815, comma 2, agli interessi di mora sarebbe la nullità (testuale e parziale) della clausola di interessi: per cui, con effetto di tipo sanzionatorio, nulla sarebbe dovuto a titolo di interessi, né xxxxxxxx, né corrispettivi. L’orientamento più recente della giurisprudenza ha ritenuto invece non applicabile in modo letterale l’art. 1815, comma 2, c.c., accedendo a una applicazione “transtipica” della norma che si basa su una lettura interpretativa volta a preservare il prezzo del
denaro (Cass., Sez. Un., 18 settembre 2020, n. 19597).
Questo orientamento osserva che, a differenza di altri ordinamenti anche Europei, nei quali il superamento del tasso soglia non determina la nullità della clausola sugli interessi, ma la mera restituzione del surplus, l’art. 1815, comma 2, c.c. dispone la gratuità del denaro come conseguenza dell’usura.
Raffrontando la norma interna con quella corrispondente di altri ordinamenti, le Sezioni unite ritengono che la norma possa trovare una interpretazione che, pur sanzionando la pattuizione degli interessi usurari, sanzioni solo in relazione al tipo di interesse che ha determinato il superamento della soglia. Se l’interesse corrispettivo è lecito (cioè, sotto la soglia dell’usura), ed il calcolo degli interessi moratori a comportare il superamento della soglia, allora solo questi ultimi sono illeciti: la sanzione della nullità
parziale si applica solo alla clausola relativa agli interessi moratori. La conseguenza è che sono dovuti gli interessi corrispettivi lecitamente pattuiti.
L’alternativa (cioè, l’applicazione letterale dell’art. 1815, comma 2, c.c.) finirebbe per premiare il debitore inadempiente, il quale beneficerebbe di un costo del denaro del tutto nullo (inesistente), con l’obbligo di restituire il solo capitale. E sarebbe invece sanzionato il creditore. Sarebbe violato il principio generale di buona fede (art. 1375 c.c.): il debitore riceverebbe un vantaggio sproporzionato che lede l’interesse del creditore.
Il punto di equilibrio sta dunque nell’applicazione dell’art. 1815, comma 2, c.c., limitatamente agli interessi moratori. Il che apre all’applicazione dell’art. 1224, comma 1, c.c.
L’art. 1224, comma 1, c.c. dispone che, quando non sono pattuiti interessi moratori ma il debitore è in mora, l’interesse moratorio è a quello corrispettivo. La norma può essere applicata nel caso di interessi moratori che determinano usura.
Una volta che il giudice abbia riscontrato l’usurarietà degli interessi moratori, la clausola relativa agli interessi moratori deve considerarsi nulla e quindi inefficace: cioè, come se non fossero pattuiti interessi moratori.
L’interesse moratorio diviene pari non più alla misura preconcordata ed usuraria, ma alla misura pattuita per gli interessi corrispettivi, come prevede l’art. 1224, comma 1, c.c.
Caduta la clausola degli interessi moratori, resta un danno per il creditore insoddisfatto, donde l’applicazione dell’art. 1224, comma 1, c.c., secondo cui il danno da inadempimento di obbligazione pecuniaria viene automaticamente ristorato con la stessa misura degli interessi corrispettivi.
La nullità relativa agli interessi moratori non tocca gli interessi corrispettivi: gli interessi moratori sono quindi dovuti in minor misura, pari all’interesse corrispettivo, in applicazione dell’art. 1224 c.c. Ciò però solo se gli interessi corrispettivi siano lecitamente convenuti. Altrimenti nulla è dovuto, né a titolo di interessi moratori, né corrispettivi (Cass., Sez. Un., 18 settembre 2020, n. 19597).
Tale conclusione è confortata dalla esigenza di coerenza e non contraddittorietà con il diritto dell’Unione europea, come vive nelle interpretazioni rese dalla Corte di giustizia, che più volte è stata adita in via pregiudiziale con riguardo alle direttive in materia di consumatori.
La stessa Corte ha chiarito come sia legittima e rispettosa della direttiva in materia di consumatori la regola spagnola secondo cui continuano - pur caduta la clausola sugli interessi moratori - ad essere dovuti quelli corrispettivi. La direttiva non osta a che si giunga alla «soppressione integrale degli interessi moratori, mentre continuano a maturare gli interessi corrispettivi previsti dal contratto».
Ciò in quanto «gli interessi corrispettivi hanno una funzione di remunerazione della messa a disposizione di una somma di denaro da parte del mutuante fino al rimborso della somma stessa». Xxx «la clausola abusiva consiste in tale maggiorazione, la direttiva 93/13 esige unicamente che la maggiorazione stessa venga annullata». Con la conseguenza definitiva che «il giudice nazionale, il quale abbia constatato il carattere abusivo della clausola di un contratto di mutuo che fissa il tasso degli interessi moratori, escluda molto semplicemente l’applicazione della clausola suddetta o della maggiorazione che tali interessi rappresentano rispetto agli interessi corrispettivi.
In sintesi, la Corte di Giustizia dispone la debenza degli interessi entro la soglia dell’usura.
Se questo schema non si applicasse anche al caso di un contratto stipulato da un soggetto non consumatore si arriverebbe a un paradosso: il consumatore deve gli interessi entro la soglia dell’usura; il non consumatore non deve nulla perché si applica l’art. 1815, comma 2, secondo una lettura non transtipica. Il trattamento del non consumatore sarebbe addirittura migliore di quello di chi la qualità di consumatore.
Il 1815, comma 2, c.c. non può che applicarsi in modo transtipico. Cioè, secondo lo schema dell’art. 1224 comma 1, c.c..: gli interessi moratori sono dovuti nella misura (lecita) degli interessi corrispettivi.
Ciò comporta che non vanno restituiti gli interessi corrispettivi già pagati. La nullità opera ex tunc, ma riguarda solo gli interessi moratori. Mentre vanno restituiti gli interessi di mora già corrisposti in violazione del divieto di usura.
9.1.1. Le tecniche di tutela del soggetto finanziato
Spesso il contratto prevede un tasso degli interessi moratori, sebbene, poi, al momento dell’inadempimento, la banca applichi, a tale titolo, un tasso inferiore.
Le questioni che ne derivano sono due.
La prima: se possa essere domandata la nullità di una clausola sugli interessi moratori in corso di svolgimento regolare del rapporto. Cioè, prima che si sia verificato l’inadempimento del debitore e quindi la mora e, con essa, l’applicazione degli interessi moratori.
La seconda: se, una volta verificatosi l’inadempimento e, quindi, il presupposto per l’applicazione degli interessi di mora, l’indagine sulla usurarietà dei medesimi debba tener conto di quelli in astratto dedotti in contratto o di quelli in concreto applicati.
Le due questioni devono essere congiuntamente esaminate affinché l’ordinamento offra una tutela razionale, secondo le considerazioni che seguono. Al primo quesito, secondo le Sezioni Unite, deve darsi risposta affermativa.
L’interesse ad agire in relazione ad una clausola reputata in tesi nulla sussiste sin dalla pattuizione della medesima, in quanto risponde ad un bisogno di certezza del diritto che le convenzioni negoziali siano accertate come valide ed efficaci, oppur no.
L’interesse ad agire in un’azione di mero accertamento non implica necessariamente l’attualità della lesione di un diritto, essendo sufficiente uno stato di incertezza oggettiva. Ma il tasso rilevante è quello in concreto applicato dopo l’inadempimento. La conseguenza è che la sentenza è di mero accertamento dell’usurarietà del tasso, ma in astratto, senza relazione con lo specifico diritto vantato dalla banca, posto che ancora non è attuale l’inadempimento ed il finanziatore ancora non ha preteso alcunché a titolo
di interessi moratori.
Se quindi, da un lato, non può essere disconosciuto l’interesse ad agire ex art. 100
c.p.c. per la presenza attuale in contratto di una clausola degli interessi usurari, dall’altro lato l’effetto del giudicato di accertamento è limitato, non è idoneo automaticamente a valere con riguardo alla futura applicazione di un interesse moratorio in concreto, ma solo ad escludere che l’interesse pattuito sia dovuto.
In altri termini, se il finanziato agisca in accertamento in corso di regolare rapporto, ed ottenga sentenza di nullità della clausola, ciò non vuol dire che, da quel momento in poi, egli potrà non adempiere e pretendere che nessun interesse gli sia applicato, oltre all’interesse corrispettivo.
Realizzatosi l’inadempimento, rileva unicamente il tasso che di fatto sia stato richiesto ed applicato al debitore inadempiente. Non v’è l’interesse ad agire per l’accertamento della eventuale illegittimità del tasso astratto non applicato. Ciò che rileva in concreto in ipotesi di inadempimento è il tasso moratorio applicato.
Se il finanziato intenda agire prima, allo scopo di far accertare l’illiceità del patto sugli interessi rispetto alla soglia usuraria, la sentenza ottenuta vale come accertamento, in astratto, circa detta nullità, laddove il patto sugli interessi moratori fosse, in futuro, utilizzato dal finanziatore.
La sentenza non ha ancora l’effetto concreto di rendere dovuto solo un interesse moratorio pari al tasso degli interessi corrispettivi lecitamente pattuiti (ex art. 1224 c.c.): effetto che, invece, si potrà verificare solo alla condizione - presupposta dalla sentenza di accertamento mero pre-inadempimento - che quello previsto in contratto sia stato, in seguito, il tasso effettivamente applicato, o comunque che, al momento della mora effettiva, il tasso applicato sulla base della clausola degli interessi moratori sia sopra soglia.
Ove il tasso applicato in concreto sia, invece, sottosoglia, esso sarà dovuto, senza che possa farsi valere la sentenza di accertamento mero, che non ha considerato quel tasso (Cass., Sez. Un., 18 settembre 2020, n. 19597).
9.1.2. Interessi moratori e usura nei contratti del consumatore
Nei contratti conclusi con un consumatore, assumono rilievo che gli artt. 33, comma 2, lett. «f», e 36, comma 1, del codice del consumo.
Nei contratti di finanziamento, in cui il soggetto che riceve la somma in prestito rivesta la qualifica di consumatore, è applicabile, altresì, la tutela contro le clausole vessatorie.
Il codice del consumo (art. 33, comma 2, lett. f) prevede che «si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di. imporre al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente d’importo manifestamente eccessivo».
L’interesse moratorio, sia esso considerato una forma di clausola penale, sia esso considerato una forma di risarcimento del danno da ritardo nell’adempimento, sicuramente ricade nel campo di applicazione della norma.
Il rimedio previsto dal codice del consumo si cumula al rimedio contemplato dall’art.
1815, comma 2, c.c. È rimessa all’interessato la scelta sul rimedio di cui avvalersi.
La Corte di giustizia chiarito che un sistema nazionale, il quale pur riduca entro una soglia ritenuta lecita il tasso eccessivo degli interessi moratori, non deve comunque precludere al giudice, in caso di contratto dei consumatori, la facoltà di ritenere la clausola abusiva, con la conseguente eliminazione della clausola (Corte di giustizia 21 gennaio 2015, C-482/13).
9.2. L’usura sopravvenuta
Ai sensi dell’art. 1 del d.l. 29 dicembre 2000, n. 394, ai fini dell’applicazione dell’art. 644 c.p. e dell’art. 1815, comma 2, c.c., sono da intendersi usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, a prescindere quindi dal momento del loro pagamento.
La norma attribuisce rilievo solo all’usura originaria (cioè, agli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo). Di qui il problema della sorte dell’usura sopravvenuta (cioè, degli interessi che, quando promessi o convenuti non superano il limite di legge, ma che diventano usurari successivamente, durante l’esecuzione del contratto, in rapporto ad un nuovo tasso soglia fissato dalla legge).
Il tenore letterale dell’art. 1 del d.l. n. 394 del 2000 è nel senso di escludere rilevanza, ai fini dell’art. 1815, comma 2, c.c. all’usura sopravvenuta: è usura, affetta da nullità, solo quella originaria. Per cui, gli interessi divenuti usurari non ricadano nel campo di applicazione dell’art. 1815, comma 2, c.c. e nella relativa sanzione della nullità testuale. L’esigenza di tutela del debitore – che si impone anche quando gli interessi non siano originariamente usurari, ma lo diventino nel corso del rapporto – ha indotto la giurisprudenza e una parte della dottrina a stigmatizzare l’usura sopravvenuta al di fuori
dell’art. 1815, comma 2, c.c., con strumenti diversi dalla nullità testuale581.
I rimedi, alternativamente individuati, sono582: a) la nullità sopravvenuta; b) l’inefficacia successiva; c) l’inesigibilità della prestazione; d) l’obbligo di rinegoziazione del tasso di interesse.
a) La tesi della nullità sopravvenuta muove dall’idea che i contratti ad efficacia differita o di durata, che non siano ancora esauriti, sul presupposto di una loro «vitalità», per così dire, perdurante, siano esposti alle sopravvenienze che possono provocare il venir meno o la illiceità di un requisito essenziale. La norma che fissa il tetto massimo è imperativa e la sua violazione determina la nullità virtuale sopravvenuta della clausola che prevede interessi oltre la misura di legge.
Viene introdotto – nelle linee di sviluppo di questo indirizzo – il meccanismo contemplato dagli artt. 1419, comma 2, c.c. e 1339 c.c.: nullità parziale della clausola di interessi, per violazione di una norma imperativa, con sostituzione di diritto della clausola nulla. La norma imperativa sostitutiva sarebbe quella che, individuando il tasso soglia, determina il limite oltre il quale l’interesse dovuto diventa illecito. Si realizza così, nella clausola di interessi, la conformazione automatica del saggio convenuto nella misura pari al tasso soglia fissato dalla legge.
I limiti di questa teoria possono essere così sintetizzati. È anzitutto discutibile la stessa configurabilità, nel nostro ordinamento, di una nullità sopravvenuta, che si verifica in fase esecutiva del rapporto. La nullità, infatti, è un vizio che attiene alla struttura del contratto e che quindi si valuta nel momento genetico del contratto, e non durante l’esecuzione. Il giudizio di nullità si sostanzia nel raffronto tra la clausola e la norma
581 Cass., ord. 31 gennaio 2017, n. 2484.
582 X. Xxxxxxx, in Giust. Civ., 2014, 3, 885.
all’atto della formazione della clausola, e quel giudizio è definitivo e irreversibile, non potendo essere revisionato durante l’esecuzione della clausola.
b) La tesi dell’inefficacia successiva si fonda sull’assunto che la negazione di effetti di una clausola può prescindere dalla nullità della clausola stessa. E ciò nella prospettiva della divaricazione tra fonte del contratto ed effetto del contratto, tra contratto inteso come atto e contratto inteso come rapporto, tra accordo e prestazione da eseguire. L’art. 1815, comma 2, c.c. e la relativa nullità riguardano la fonte del contratto, inteso come l’atto, cioè l’accordo. La variazione successiva del tasso soglia è una sopravvenienza che riguarda l’effetto del contratto, inteso come rapporto che deve essere eseguito, rendendo inefficace. Si configura così l’inefficacia successiva dell’obbligazione di interessi superiori.
I limiti di questa teoria possono essere così sintetizzati. La causa dell’inefficacia successiva resta ignota. Sembra affacciarsi l’idea di una inefficacia intesa come categoria autonoma, che ha causa in sé stessa o, meglio, in una patologia nell’esecuzione del contratto. Si profila, inoltre, il problema della disciplina applicabile: il meccanismo della sostituzione automatica della clausola di interessi non può operare, postulando quel meccanismo la nullità della clausola. Per cui la conseguenza dell’inefficacia sopravvenuta sarebbe che non sono dovuti interessi, neanche entro il limite fissato dalla legge. La stessa conseguenza che deriva dalla nullità testuale prevista dall’art. 1815, comma 2, c.c.
c) La prospettiva da cui muove la giurisprudenza più recente per tutelare il debitore sulla clausola di buona fede. Essa impone al creditore di esercitare il diritto di riscuotere gli interessi entro il mutato limite massimo fissato dalla legge. Esigere la misura ulteriore, ancorché prevista dal contratto, configura un comportamento contrario alla buona fede. Di qui l’inesigibilità della prestazione di interessi eccedente il tasso soglia.
La soluzione, in questa seconda chiave di lettura, dominata dalla buona fede, muove dal «rapporto», considerato nel suo concreto svolgersi e attuarsi. Si tratta di assumere, come luogo di incidenza delle variazioni successive del tasso soglia, i comportamenti delle parti; immessi, per effetto di quelle variazioni, in un diverso contesto situazionale. Si delinea la correlazione tra esercizio del diritto e adempimento dell’obbligo. L’uno, che nel principio di buona fede trova limiti e condizionamenti; l’altro, che rinviene nell’interesse del creditore, nel risultato atteso, un criterio di valutazione.
Questa ricostruzione vale anche a spiegare la ratio dell’art. 1815, comma 2, c.c. La norma, la cui applicazione è circoscritta al momento della stipulazione della clausola, ha introdotto una «sanzione civile indiretta», volta a «scoraggiare i patti usurari». Ma non per questo l’usura sopravvenuta è consentita dall’ordinamento, essendo essa già “sanzionata” implicitamente dal sistema, attraverso la clausola generale di buona fede.
d) La clausola di buona fede costituisce anche il fondamento della tesi più evolutiva in materia: ai sensi dell’art. 1375 c.c. il contratto deve essere eseguito secondo buona fede. Si è già evidenziato che la bona fides in executivis opera come fonte di obbligazioni integrative, ulteriori rispetto a quelle previste dal contratto, e protettive della sfera giuridica della controparte (v. cap. III). Nel caso dell’usura sopravvenuta, la buona fede è in grado di far sorgere l’obbligo di rinegoziare la clausola di interessi, per riportarne la misura al di sotto del limite fissato dalla legge. L’usura rappresenta una sopravvenienza che altera l’equilibrio originario dello scambio contrattuale: l’interesse, al momento della conclusione del contratto, era proporzionato, perché al di sotto del
limite di legge; durante l’esecuzione del contratto, si verificano fatti sopravvenuti che rendono sproporzionata la prestazione di interessi, perché divenuta superiore alla soglia massima. L’usura sopravvenuta può essere gestita attraverso il rimedio della buona fede nell’esecuzione del contratto: l’obbligo di buona fede assume contenuto di obbligo di rinegoziare la clausola contrattuale per ripristinare l’equilibrio del sinallagma, riportando la misura dell’interesse dovuto entro la soglia massima fissata dalla legge. Il rifiuto di rinegoziare il contratto non è coercibile, ma configura una responsabilità da inadempimento, che attribuisce all’altra parte il diritto al risarcimento del danno.
e) Le Sezioni Unite583 hanno negato rilevanza all’usura sopravvenuta, affermando che il giudice è vincolato all’interpretazione autentica dell’art. 644 c.p. e dell’art. 1815, comma 2, c.c., imposta dal d.l. n. 394 del 2000.
Secondo le Sezioni Unite, è priva di fondamento la tesi della illiceità della pretesa del pagamento di interessi a un tasso che, pur non essendo superiore, alla data della pattuizione (con il contratto o con patti successivi), alla soglia dell’usura definita con il procedimento previsto dalla L. n. 108, superi tuttavia tale soglia al momento della maturazione o del pagamento degli interessi stessi. La ragione della illiceità risiederebbe nella violazione di un divieto imperativo di legge, il divieto dell’usura, e in particolare il divieto di pretendere un tasso d’interesse superiore alla soglia dell’usura come fissata in base alla legge. Ma il divieto dell’usura è contenuto nell’art. 644 c.p.: questa norma è l’unica che vieta di farsi dare o promettere interessi o altri vantaggi usurari come corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità. Una sanzione (che implica il divieto) dell’usura è contenuta, per l’esattezza, anche nell’art. 1815, comma 2, c.c.: questa norma però presuppone pur sempre una nozione di interessi usurari definita altrove, ossia, di nuovo, nell’art. 644 c.p.
È quindi impossibile operare la qualificazione di un tasso come usurario senza fare applicazione dell’art. 644 c.p. Ai fini dell’applicazione” di questa norma, però, non può farsi a meno – perché così impone il d.l. n. 349 del 200 d’interpretazione autentica – di considerare il “momento in cui gli interessi sono convenuti, indipendentemente dal momento del loro pagamento”.
Non ha perciò fondamento la tesi che cerca di limitare l’efficacia della norma di interpretazione autentica alla sola sanzione penale e alla sanzione civile della gratuità del mutuo, perché in tanto è configurabile un illecito civile, in quanto sia configurabile la violazione dell’art. 644 c.p.
Le Sezioni Unite osservano che anche la giurisprudenza penale di Cassazione nega la configurabilità dell’usura sopravvenuta (Cass. Sez. 5^ pen. 16/01/2013, n. 8353).
Le Sezioni Unite, pertanto, hanno concluso nel senso che è impossibile affermare che il superamento del tasso soglia dell’usura al tempo del pagamento comporti la nullità o l’inefficacia della corrispondente clausola contrattuale o comunque l’illiceità della pretesa del pagamento del creditore.
L’illiceità della pretesa – secondo le Sezioni Unite - non può discendere neppure dalla violazione del principio di buona fede oggettiva nell’esecuzione dei contratti, di cui all’art. 1375 c.c. Tale principio impone un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost., per il quale ciascuna delle parti del rapporto è tenuta ad agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o da
583 Cass., Sez. Un., 19 ottobre 2017, n. 24675.
quanto stabilito da singole norme di legge. La buona fede è criterio di integrazione del contenuto contrattuale rilevante ai fini dell’”esecuzione del contratto” stesso (art. 1375 c.c.), vale a dire della realizzazione dei diritti da esso scaturenti. La violazione del canone di buona fede non è riscontrabile nell’esercizio in sé considerato dei diritti scaturenti dal contratto, bensì nelle particolari modalità di tale esercizio in concreto, che siano appunto scorrette in relazione alle circostanze del caso.
In questo senso le Sezioni Unite hanno affermato che, in presenza di particolari modalità o circostanze, anche la pretesa di interessi divenuti superiori al tasso soglia in epoca successiva alla loro pattuizione potrebbe dirsi scorretta ai sensi dell’art. 1375 c.c.; ma va escluso che sia da qualificare scorretta la pretesa in sé di quegli interessi, corrispondente a un diritto validamente riconosciuto dal contratto.
Secondo le Sezioni Unite, l’unico rimedio esperibile in caso di usura sopravvenuta sarebbe quindi fondato sull’art. 1375 c.c.: la pretesa di pagamento di interessi usurari potrebbe integrare gli estremi della violazione della clausola di buona fede nell’esecuzione del contratto, intendendo la buona fede come regola di valutazione del comportamento del creditore e come limite all’esercizio della pretesa creditoria.
9.3. Usura reale e usura pecuniaria a confronto
Quella pecuniaria è l’usura avente a oggetto una somma di denaro: il contratto realizza un sinallagma tra denaro e interesse. È in questo scambio che si realizza lo squilibrio economico tra le prestazioni che formano oggetto del contratto
L’usura pecuniaria non è l’unica forma di usura prevista dall’art. 644 c.c.: lo squilibrio può intercorrere tra prestazioni di natura diversa dal denaro e dal pagamento di interessi. È il caso dell’usura reale, che si realizza quando le prestazioni si sostanziano in altre utilità e altri vantaggi usurari.
L’usura reale ha un campo di applicazione più ampio dell’usura pecuniaria: essa può riguardare qualunque contratto a prestazione corrispettive.
A differenza dell’usura pecuniaria (che è sanzionata dall’art. 1815, comma 2, c.c.), nel sistema del diritto civile non è apprestato un rimedio specifico per l’usura reale.
È praticabile il rimedio generale della rescissione, al ricorrere dei presupposti (e quindi con i relativi limiti) di attivazione del rimedio. In particolare, la rescissione del contratto concluso in stato di bisogno presuppone che una lesione ultra dimidium (cioè, eccedente la metà del valore che la prestazione eseguita o promessa dalla parte danneggiata aveva al tempo del contratto).
Per superare i vincoli derivanti dall’applicazione dell’istituto della rescissione, un orientamento teorico riconosce al giudice il potere di sindacare l’equilibrio del contratto facendo applicazione dei principi e delle clausole generali di equità, buona fede, liceità e meritevolezza: il contratto usurario, ponendosi in contrasto con i valori e i principi del sistema racchiusi in norme imperative, sarebbe affetto da nullità.
L’adesione a questa tesi implica il riconoscimento del potere del giudice di:
1) sindacare l’equilibrio economico del contratto anche al di fuori dei casi in cui ciò è espressamente consentito dalla legge; 2) apprestare un rimedio allo squilibrio economico pur in assenza di una norma di legge che espressamente lo contempli.
Per l’analisi di questi due temi si rinvia alla parte sul contratto e, segnatamente, al capitolo dedicato all’equilibrio del contratto.
L’alternativa al sindacato del giudice sull’equilibrio del contratto può essere rappresentata dalla qualificazione del contratto usurario come reato-contratto: è il contratto in sé che costituisce reato (art. 644 c.p.). Ciò comporta la nullità del contratto stesso.
Alla stessa conclusione si perviene attribuendo alla norma penale che punisce l’usura il valore di norma imperativa, la cui violazione comporta nullità virtuale del contratto.
A differenza della nullità testuale parziale che colpisce il contratto ai sensi dell’art. 1815, comma 2, c.c. in caso di usura pecuniaria (ad essere nulla è solo la clausola usuraria, non l’intero contratto), la nullità del contratto per usura reale è una nullità totale. È anche diverso il tipo di sindacato che il giudice effettua. Nel caso di usura pecuniaria l’accertamento della sproporzione è vincolato: l’usura è data dal superamento della soglia predeterminata attraverso un meccanismo di legge. Non v’è invece un parametro fisso in quale al quale accertare l’usura reale. Si rimette in questo caso al giudice un potere valutativo-discrezionalità, che comunque implica un sindacato da parte
del giudice stesso sull’equilibrio del contratto.
Capitolo V
Le obbligazioni complesse
1. Le obbligazioni alternative
L’obbligazione si definisce alternativa quando il suo oggetto consiste in due o più prestazioni diverse, delle quali una soltanto deve essere effettuata dal debitore: tutte le prestazioni sono dovute, ma una soltanto è oggetto di adempimento. Il debitore non può imporre al creditore, né questi può pretendere, l’adempimento in parte di una prestazione e in parte dell’altra584.
In chiave sistematica, le obbligazioni alternative sono solitamente ricondotte nell’ambito della categoria delle obbligazioni oggettivamente complesse (o collettive o multiple), caratterizzate dalla pluralità delle prestazioni. Alle obbligazioni complesse si contrappongono le obbligazioni semplici, caratterizzate dalla unicità delle prestazioni dedotte in obbligazione.
Nella categoria delle obbligazioni complesse rientrano anche le obbligazioni cumulative, che hanno in comune con le quali le obbligazioni alternative la presenza di una pluralità di prestazioni, ma che se ne differenziano per il fatto che tutte le prestazioni cumulativamente dedotte devono essere eseguite dal debitore e non soltanto una di esse, come avviene invece nello schema dell’obbligazione alternativa.
La nota caratterizzante l’obbligazione alternativa, dunque, risiede nel fatto che, come oggetto di tale obbligazione, figurano più prestazioni (due o più di due): si tratta, dunque, di obbligazione con oggetto plurimo585. La configurazione di un’obbligazione «unica» con oggetto plurimo è il segno della evoluzione subìta dall’obbligazione, che è divenuta una categoria sempre più «astratta» rispetto agli interessi economici sottostanti. L’impiego dell’obbligazione alternativa è compatibile con l’esistenza di interessi economici plurimi: l’interesse da soddisfare viene individuato al momento dell’esercizio della facoltà di scelta (da parte del debitore o del creditore)586.
Il Codice civile raramente disciplina figure tipiche di obbligazioni alternative: è il caso del legato alternativo (art. 665 c.c.) e dell’obbligazione alimentare (art. 443 c.c.), che il debitore può scegliere di adempiere mediante assegno periodico oppure accogliendo nella propria casa il creditore. La rarità delle obbligazioni alternative tipiche manifesta l’effettiva marginalità del ricorso, anche convenzionale, all’uso di tali obbligazioni nel traffico giuridico. All’uso dell’obbligazione alternativa, del resto, fa concorrenza l’uso dell’obbligazione c.d. facoltativa o con facoltà alternativa: si tratta di un’obbligazione con unica prestazione, da cui il debitore può liberarsi eseguendo una prestazione diversa, così verificandosi un ampliamento delle modalità di adempimento. L’interesse economico-individuale che l’uso dell’obbligazione alternativa può soddisfare coincide con l’interesse del soggetto al quale è attribuita la facoltà di scelta della prestazione. Attraverso tale facoltà, questi può avvantaggiarsi della differenza e
584 A. Chianale, Obbligazione, cit.
585 A. Di Majo, X. Xxxxxxxx, Obbligazioni alternative, in Enc. Dir., XXIX, 1979.
586 A. Di Majo, X. Xxxxxxxx, Obbligazioni alternative, cit.
delle variazioni di valore tra le diverse prestazioni in obbligazione, valutando quale sia la più conveniente al momento dell’adempimento.
L’obbligazione alternativa, quindi, assolve la propria funzione nelle situazioni di
«incertezza», specie di quelle legate al valore delle prestazioni, nella prospettiva di tutelare l’interesse del creditore o del debitore, a secondo del soggetto al quale sia attribuita la facoltà di scelta.
Si può affermare, quindi, che l’obbligazione alternativa è più frequente nei rapporti di durata che in quelli ad esecuzione istantanea.
1.1. La “concentrazione”
La transizione dallo stato di semplice «determinabilità» a quello della «determinatezza» della prestazione è assicurata da quel fenomeno che la dottrina denomina
«concentrazione», con cui si risolve l’alternativa, si determina l’unica prestazione dovuta e si eliminano le altre. Con linguaggio più figurato si è soliti dire che, essendo tutte le prestazioni, sin dall’origine, in obligatione, l’effetto della concentrazione è quello di estromettere dall’obbligazione tutte le altre prestazioni, con esclusione di quella su cui la concentrazione è caduta. Si assume che la vicenda è quella della trasformazione di un’obbligazione oggettivamente complessa in obbligazione oggettivamente semplice, giacché è questa struttura di obbligazione a consentire al debitore di liberarsi587.
Alla concentrazione si può pervenire attraverso l’«estromissione» volontaria di alcune prestazioni e la indicazione della prestazione voluta con un atto di scelta, oppure mediante la «estromissione» fortuita della prestazione colpita da una sopravvenuta impossibilità che inevitabilmente restringe la possibile prestazione ad una sola, concentrando così in quella residua l’unico oggetto dell’obbligazione.
L’atto di scelta in cui si sostanzia l’estromissione volontaria può spettare al debitore, al creditore o ad un terzo (art. 1286 c.c.). L’atto di scelta è espressivo di un potere, ma anche di un dovere, quello di giungere alla individuazione della prestazione da eseguire; dovere che si ricollega a quello più generale che al creditore (legittimato alla scelta) impone di favorire la liberazione del debitore ed al debitore impone di adoperarsi perché si realizzino le condizioni e i presupposti dell’adempimento588. È per la sua doverosità che la mancata scelta è sanzionata con la decadenza dal potere di scelta (art. 1287 c.c.). Il mancato esercizio del potere di scelta non deve né rendere incerta né ritardare l’attuazione del rapporto obbligatorio. La parte che non si avvale del potere di scelta, quindi, decade da tale potere, il quale passa all’altra parte. Anche il terzo decade dal potere di scelta, e in tal caso la scelta è fatta dal giudice (1287, comma 3, c.c.; 81 disp. att.).
La decadenza dal potere di scelta ha luogo automaticamente se la parte non lo esercita nel termine stabilito o in quello fissatogli dall’altra parte. Questa soluzione è espressamente formulata con riguardo all’ipotesi di scelta spettante al creditore (1287, comma 2, c.c.).
587 A. Di Majo, X. Xxxxxxxx, Obbligazioni alternative, cit.
588 A. Di Majo, X. Xxxxxxxx, Obbligazioni alternative, cit.
1.2. La natura giuridica dell’atto di scelta
Molto si discute in ordine alla natura giuridica dell’atto di scelta.
La prevalente dottrina tende ad escludere la natura negoziale, in quanto il risultato dell’atto di scelta non consiste in una modificazione di carattere giuridico, ma nella determinazione di un elemento di fatto e, cioè, nella individuazione della prestazione dovuta. I mutamenti giuridici che si ricollegano alla scelta ne sarebbero una conseguenza non immediata, ma indiretta.
In senso contrario, si osserva che l’atto di scelta è un negozio unilaterale, che si perfeziona con la volontà del suo autore. Esso è anche recettizio, in quanto acquista efficacia con la comunicazione al suo destinatario.
La natura negoziale dell’atto di scelta si desume da ciò, che il debitore e il creditore dispongono con esso della propria posizione giuri dica in quanto concorrono a determinare il rapporto di cui sono titolari.
1.3. L’impossibilità sopravvenuta della prestazione alternativa
Gli art. 1288, 1289 e 1290 c.c. regolano il caso della impossibilità sopravvenuta della prestazione nella fase antecedente alla concentrazione. La disciplina è finalizzata ad evitare che, per il verificarsi di fatti sopravvenuti, l’obbligazione venga meno. Essa tende ad attuare comunque un complicato equilibrio a seconda che responsabile dell’impossibilità sia il soggetto cui spetta o non spetta la scelta. Decisiva, dunque, non appare la qualità di soggetto attivo o passivo del rapporto ma quella di legittimato alla scelta.
L’impossibilità originaria o sopravvenuta (non imputabile ad alcuna delle parti) comporta dunque l’effetto di concentrare l’obbligazione nella prestazione residua, diventando dunque semplice l’obbligazione (art. 1288 c.c.).
Nel caso in cui l’impossibilità (di una delle prestazioni) dipenda invece da colpa di una delle parti, le conseguenze sono diverse a seconda che a provocare l’impossibilità sia stata la parte cui spetta la scelta o l’altra.
Quando la scelta spetta al debitore, l’obbligazione alternativa diventa semplice se una delle due prestazioni diventa impossibile anche per causa a lui imputabile (art. 1289). Se invece la scelta spetta al creditore, questi può scegliere l’altra prestazione ed esigere il risarcimento del danno (art. 1289, comma 2, c.c.).
Nel caso opposto, se l’impossibilità dipende da causa imputabile al creditore, il debitore avente diritto alla scelta è liberato, qualora non preferisca eseguire l’altra prestazione e chiedere il risarcimento dei danni (art. 1289, comma 1, c.c.). Se la scelta spetta invece al creditore il debitore sarà egualmente liberato, salvo che il creditore preferisca esigere l’altra prestazione e risarcire il danno (art. 1289 c.c.). Nell’ipotesi in cui entrambe le prestazioni siano divenute impossibili e il debitore debba rispondere riguardo ad una di esse, egli dovrà pagare l’equivalente di quella che è divenuta impossibile per l’ultima se la scelta spettava a lui. Se la scelta spettava al creditore, questi può domandare l’equivalente dell’una o dell’altra (art. 1290 c.c.).
2. L’obbligazione con facoltà alternativa
Una figura molto vicina a quella dell’obbligazione alternativa e, come si è già evidenziato, anche più frequente nella pratica e nelle norme del Codice civile, è quella dell’obbligazione «con facoltà alternativa» del debitore (o del creditore). La figura ricorre quando al debitore è attribuita la facoltà di liberarsi dall’obbligo eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta. È il caso del legato di cosa altrui, in cui l’onerato- obbligato ad acquistare la proprietà dal terzo ha anche la facoltà di pagarne il giusto prezzo al legatario (art. 651 c.c.). Altro caso è quello del terzo acquirente dei beni ipotecati il quale, se non preferisce pagare i creditori iscritti, può rilasciare i beni stessi o liberarli dalle ipoteche (art. 2858). Dalla disciplina generale delle obbligazioni è tratto il caso del debitore di moneta estera che «ha facoltà di pagare in moneta legale, al corso del cambio nel giorno di scadenza e nel luogo stabilito per il pagamento» (art. 1278).
Da un punto di vista strutturale, l’obbligazione con facoltà alternativa si differenzia dall’obbligazione alternativa. Mentre in quest’ultima si hanno, come abbiamo visto, più prestazioni in obligatione e una in solutione, nel caso dell’obbligazione con facoltà alternativa la prestazione dovuta è unica, ma al debitore (nel caso di facoltà ad esso attribuita) è data la possibilità di liberarsi dell’obbligo di eseguire la prestazione dovuta attraverso l’esecuzione di altra prestazione che non è in obligatione.
A differenza dell’obbligazione alternativa, in cui tutte le prestazioni sono dovute, la prestazione che il debitore è facoltizzato ad eseguire non entra nell’oggetto del rapporto obbligatorio. L’obbligazione facoltativa si considera pertanto un’obbligazione semplice, essendo dovuta una sola prestazione.
È uno schema, dunque, quello dell’obbligazione «con facoltà alternativa» che, pur correndo da un punto di vista economico parallelo a quello dell’obbligazione alternativa, da questa si differenzia per il fatto che il risultato pratico dell’alternatività è realizzato attraverso uno strumento del tutto esterno al rapporto obbligatorio (i cui caratteri restano in ogni caso, quindi, quelli dell’obbligazione semplice).
Si può dire che, nell’obbligazione con facoltà alternativa, ad un rapporto obbligatorio si accompagna, con i caratteri dell’accessorietà, un diritto potestativo che consente al debitore di sostituire in limine solutionis la prestazione dovuta con altra prestazione. Se il risultato economico può essere lo stesso, è evidente la differenza con l’obbligazione alternativa: quest’ultima è un’obbligazione con oggetto plurimo, mentre nell’obbligazione con facoltà alternativa v’è una giustapposizione di una prestazione dovuta e di una facoltativa589.
Da queste differenze strutturali discendono, quindi inevitabilmente, ulteriori conseguenze sul piano della regolamentazione di tali fattispecie che maggiormente evidenziano la distanza che corre tra le due ipotesi.
L’evento che maggiormente mette in luce la profonda diversità tra le due ipotesi si ha nel caso in cui la prestazione dovuta non fosse suscettibile ab origine di essere oggetto del rapporto obbligatorio (perché impossibile, illecita, ecc.), oppure sia divenuta impossibile per eventi sopravvenuti. In tal caso, non ricorrendo l’ipotesi dell’obbligazione alternativa, risulta inapplicabile la regola dell’art. 1288 (che avrebbe consentito la riduzione dell’obbligazione alternativa ad obbligazione semplice) e, di
589 A. Di Majo, X. Xxxxxxxx, Obbligazioni alternative, cit.
conseguenza, ricorrerà la disciplina generale secondo cui, pur in presenza di obbligazione con facoltà alternativa, l’obbligazione dovrà considerarsi nulla ab origine o estinta successivamente ex art. 1256590. Altro elemento rivelatore della differenza tra le due fattispecie si riscontra nel modo in cui si esercita la facultas alternativa. Consistendo, infatti, il diritto potestativo nella mera facoltà di sostituire, in sede di adempimento, altra prestazione a quella dovuta, ogni eventuale dichiarazione di scelta comunicata all’altra parte sarà irrilevante e non può, quindi, determinare quegli effetti che, nel caso dell’obbligazione alternativa, si riconnettono alla concentrazione. In realtà l’obbligazione con facoltà alternativa è una obbligazione a struttura semplice, di guisa che la scelta non avrebbe un oggetto su cui esercitarsi. L’obbligo, che grava sul debitore, infatti, non è che uno, avendo soltanto il debitore facoltà di liberarsi attraverso prestazione diversa da quella dovuta e dovendosi ravvisare in tale fenomeno una sorta di datio in solutum prevista in anticipo dalla legge o dalla volontà delle parti591.
3. Le obbligazioni soggettivamente complesse
Si definisce “soggettivamente complessa” l’obbligazione che intercorre tra una pluralità di debitori e/o di creditori.
Si tratta di una tipologia di obbligazione di cui il Codice civile non fa espressa menzione e non detta una specifica disciplina, pur contemplando figure obbligatorie caratterizzate dalla partecipazione di più soggetti (debitori o creditori). Il legislatore, in tal modo, si è conformato ai risultati di una lunga elaborazione dottrinale che affonda le sue origini nel sistema del diritto romano, individuando alcune figure di obbligazioni soggettivamente complesse, senza definirle tali e senza introdurre una specifica disciplina della tipo. Le figure contemplate dal Codice civile sono le obbligazioni solidali (art. 1292- 1313), quelle divisibili e indivisibili (art. 1314-1320).
Gli elementi costituitivi di un’obbligazione soggettivamente complessa sono: i) la pluralità delle parti del rapporto obbligatorio; ii) l’identità della prestazione dovuta (eadem res debita); iii) l’unicità della fonte dell’obbligazione (eadem causa obligandi) o comunque da fatti giuridici tra loro collegati.
Il primo elemento costitutivo di un’obbligazione soggettivamente complessa (la pluralità dei soggetti debitori e/o creditori) si traduce in una contitolarità della posizione debitoria («condebito») e/o della posizione creditoria («concredito»).
Alla pluralità dei condebitori e/o dei concreditori corrisponde un’unica prestazione (eadem res debita). Al riguardo, occorre anzitutto distinguere le ipotesi in cui unica è la prestazione da quelle caratterizzate dalla semplice identità di più prestazioni. Ad entrambe si riferisce l’art. 1292 c.c. quando, nel definire la nozione di solidarietà, parla di più debitori «obbligati tutti per la medesima prestazione».
«Medesima prestazione» può voler dire, anzitutto, unica prestazione comune a tutti i più debitori: si tratta in tal caso di un affare al quale ciascuno di essi ha una parte di interesse e si è, allora, in presenza di un’obbligazione solidale «a interesse comune», ossia di una vera e propria obbligazione soggettivamente complessa. Ma «medesima
590 A. Di Majo, X. Xxxxxxxx, Obbligazioni alternative, cit.
591 A. Di Majo, X. Xxxxxxxx, Obbligazioni alternative, cit.
prestazione» può voler dire, anche, identica prestazione, come avviene quando «è in gioco l’interesse di un solo debitore che forma la base dell’obbligazione, mentre gli altri non intervengono che come garanti»: sono queste le obbligazioni solidali «a interesse unisoggettivo», che si configurano, ad esempio, in caso di fideiussione, in cui la solidarietà deriva dal collegamento tra due rapporti obbligatori (quello garantito e quello di garanzia). Ne consegue, dunque, che non esiste un concetto omogeneo di obbligazione solidale, ma esiste piuttosto una nozione unitaria di solidarietà; la quale, come risulta dal meccanismo descritto dall’art. 1292, può funzionare sia come strumento di attuazione di un’unica obbligazione soggettivamente complessa («a interesse comune») sia come vincolo, sempre in fase di attuazione, fra più obbligazioni distinte, seppur connesse in virtù della identità delle prestazioni («ad interesse unisoggettivo»)592.
Le distinzioni appena tracciate presuppongono il terzo elemento costitutivo dell’obbligazione soggettivamente complessa: la eadem causa obligandi. Ciò che riduce ad unità la prestazione è l’unità della fonte, cioè del fatto generatore dell’obbligazione.
Tale fonte può essere rappresentata, secondo la previsione generale dell’art. 1173, da un contratto, da un fatto illecito, o infine da un altro atto o fatto idoneo a produrre un’obbligazione (soggettivamente complessa) in conformità con l’ordinamento giuridico.
Resta, tuttavia, da chiarire quando una di queste fonti di obbligazioni possa considerarsi unitaria, idonea cioè a costituire una eadem causa obligandi per tutti i soggetti a cui essa si riferisce.
Quando la fonte dell’obbligazione è costituita da un fatto illecito, il criterio per individuare la eadem causa obligandi è contenuto nell’art. 2055, che lo identifica nell’unico «fatto dannoso... imputabile a più persone». L’art. 2055 c.c. non intende riferirsi sic et simpliciter a un fatto illecito commesso da più persone; vero è, piuttosto, che l’unicità del fatto dannoso non postula necessariamente un unico fatto illecito, ma implica più semplicemente un unico evento dannoso come risultato finale delle azioni o delle omissioni dolose o colpose compiute da soggetti diversi, a condizione che dette azioni od omissioni – pur integrando eventualmente gli estremi di fatti illeciti distinti – abbiano concorso in maniera efficiente a determinare l’evento.
Non vi è dubbio, infatti, che la corresponsabilità solidale di più danneggianti è stabilita dall’art. 2055 in funzione della realizzazione di un interesse unitario del danneggiato. Ora, l’interesse del danneggiato in tanto può considerarsi unitario in quanto unico sia il danno subìto; mentre irrilevante diventa, sotto questo profilo, verificare se, a sua volta, questo unico danno deriva da un fatto illecito plurisoggettivo o da più fatti illeciti distinti. E ciò basta per spiegare come la norma in esame individui espressamente nel «fatto dannoso» la fonte dell’obbligazione risarcitoria soggettivamente complessa, quasi a confermare che la eadem causa obligandi va identificata, più che in un unico fatto illecito, in un unico evento dannoso provocato da una pluralità di condotte illecite ai sensi dell’art. 2043 c.c.593.
In tale prospettiva, si può ravvisare una eadem causa obligandi anche quando la corresponsabilità dei danneggianti derivi dalla violazione di norme giuridiche diverse, come avviene nei casi in cui uno dei corresponsabili, rendendosi inadempiente a un
592 X.X. Xxxxxxxx, Obbligazioni soggettivamente complesse, in Enc. Dir., XXIX, 1979.
593 X.X. Xxxxxxxx, Obbligazioni soggettivamente complesse, cit.
contratto che lo legava al danneggiato, abbia violato l’art. 1218 c.c, mentre l’altro risponda per violazione dell’art. 2043 c.c. Per questa via, si può configurare un’obbligazione (risarcitoria) soggettivamente complessa anche quando il medesimo, unico danno sia stato provocato da più soggetti per inadempimento di contratti diversi intercorsi con lo stesso soggetto (danneggiato).
In tutte le ipotesi menzionate, l’unicità del danno si configura come presupposto
«necessario, ma anche sufficiente per unificare le diverse posizioni debitorie, fondendole in un’unica obbligazione (risarcitoria) soggettivamente complessa.
Quando la fonte dell’obbligazione soggettivamente complessa è il contratto, in tal caso manca una norma di carattere generale, analoga all’art. 2055 c.c., idonea a individuare il criterio identificativo dell’eadem causa obbligandi.
A tal fine, possono risultare utili alcune indicazioni normative desumibili dalla disciplina speciale di determinati tipi contrattuali (vendita, mandato, trasporto) e concernenti il fenomeno della complessità «soggettiva» nell’àmbito di quei contratti. Tali indicazioni, pur essendo influenzate dalle caratteristiche peculiari del contratto a cui a volta a volta si riferiscono, consentono di enucleare alcuni criteri generali di valutazione, fermo restando, in via di principio, che lo stabilire se si ha un contratto unico o una pluralità di contratti diviene... una questione di interpretazione del caso concreto, del modo come si è atteggiata la volontà delle parti594.
Il rapporto che lega i più debitori e/o i più creditori di un’obbligazione soggettivamente complessa è caratterizzato da un vincolo comunitario: la «comunione di interessi» viene espressamente posta dalla Relazione ministeriale al Codice civile a fondamento dell’art. 1294 c.c. Tale comunione – da cui i condebitori, precisa la Relazione, «sono legati intimamente» – consiste in un qualsiasi legame comunitario rilevante sul piano economico.
4. Le obbligazioni divisibili e indivisibili
Il primo tipo di obbligazione soggettivamente complessa previsto dal Codice civile è l’«obbligazione divisibile». Ciò che caratterizza la figura in esame è la «divisibilità della prestazione», per tale intendendosi una prestazione (unica e) indivisa, suscettibile di essere eseguita per parti.
Sulla base di tale definizione, si può trarre la distinzione tra obbligazione divisibile e obbligazione indivisibile, a seconda che l’unica prestazione sia o non sia suscettibile di esecuzione pro-parte.
La prestazione che forma oggetto dell’obbligazione indivisibile può essere indivisibile per propria natura o per volontà delle parti (art. 1316 c.c.).
L’indivisibilità, quindi, caratterizza l’obbligazione indicando un determinato modo di essere della prestazione. Il che vale tanto per le obbligazioni semplici, quanto per quelle soggettivamente complesse, nelle quali l’indivisibilità possiede naturalmente l’ulteriore peculiarità di rendere necessario un vincolo tra i più debitori o i più creditori in fase di
594 Xxxxxx, Delle obbligazioni (obbligazioni alternative – obbligazioni in solido – obbligazioni divisibili e indivisibili), in Commentario del Codice civile a cura di A. Scialoja e X. Xxxxxx, Libro quarto. Delle obbligazioni, Bologna-Roma, 1963, 130.
attuazione del rapporto. Se l’obbligazione indivisibile fa capo a più soggetti, essa implica il vincolo della solidarietà tra condebitori o concreditori e viene quindi regolata dalle norme sulle obbligazioni solidali, in quanto compatibili.
Concettualmente, però, non si deve confondere l’indivisibilità con la solidarietà: la prima rimane, sempre e soltanto, un carattere della prestazione, anche se nelle obbligazioni soggettivamente complesse alla indivisibilità della prestazione corrisponde, normalmente, un’attuazione solidale del rapporto.
In sostanza, tra indivisibilità e solidarietà non corre un rapporto di tendenziale autonomia, ma, piuttosto, di possibile complementarità. Tale complementarità non è una regola assoluta, dal momento che possono configurarsi ipotesi di obbligazioni indivisibili, con pluralità di soggetti, che non si configurano come obbligazioni solidali. Proprio così si giustifica la riserva («in quanto applicabili») posta dall’art. 1317, circa la estensibilità alle obbligazioni indivisibili delle norme dettate in tema di solidarietà.
La riserva sta a significare che non sempre l’indivisibilità della prestazione è tale da comportare le conseguenze della solidarietà. è il caso delle obbligazioni indivisibili ad attuazione congiunta, in relazione alle quali, per la particolare natura della prestazione, oppure, più semplicemente, per disposizione speciale di legge o per volontà delle parti, si rende necessaria la partecipazione di tutti i condebitori o i concreditori all’attuazione del rapporto.
In conclusione, le obbligazioni indivisibili e quelle solidali sono riconducibili a due distinti ordini di valutazione delle obbligazioni soggettivamente complesse: il primo, avente come punto di riferimento la natura della prestazione, consente di individuare le obbligazioni indivisibili; il secondo, avente come punto di riferimento il modo di attuazione del rapporto, consente di individuare le obbligazioni solidali. Un’obbligazione soggettivamente complessa, qualificata come indivisibile alla stregua del primo ordine di valutazione, rientra, in base al secondo ordine di valutazione, nel novero delle obbligazioni solidali.
Tornando alle obbligazioni divisibili, quando ad una prestazione divisibile corrisponda effettivamente, in sede di attuazione dell’obbligazione, una esecuzione pro- parte, si è di fronte alla obbligazione (ad attuazione) parziaria. Ciò che caratterizza la figura in esame è proprio il meccanismo di attuazione parziaria regolato dall’art. 1314 c.c., in forza del quale ciascuno dei creditori non può domandare il soddisfacimento del credito che per la sua parte, e ciascuno dei debitori non è tenuto a pagare il debito che per la sua parte. L’esempio tipico di obbligazione parziaria viene tradizionalmente indicato nell’obbligo di pagare i debiti ereditari, facente capo, ex art. 754, comma 1 c.c., ai coeredi «personalmente in proporzione della loro quota ereditaria».
5. Le obbligazioni solidali
La nozione di solidarietà è puntualmente delineata, nell’art. 1292 c.c., come quel meccanismo per cui, in presenza di più debitori tenuti alla medesima prestazione,
«ciascuno può essere costretto all’adempimento per la totalità e l’adempimento di uno libera gli altri» (solidarietà passiva); e per cui, viceversa, in presenza di più creditori,
«ciascuno ha diritto di chiedere l’adempimento dell’intera obbligazione e l’adempimento conseguito da uno di essi libera il debitore verso tutti i creditori» (solidarietà attiva).
L’obbligazione solidale si configura in presenza degli stessi elementi costitutivi dell’obbligazione soggettivamente complessa, nella cui tipologia è riconducibile. Ne consegue che essa è caratterizzata dalla pluralità dei soggetti debitori (solidarietà passiva) o dei creditori (solidarietà attiva) della medesima prestazione, che rimane unica: non vi sono tante prestazioni quanti sono i titolari passivi (debitori) o attivi (creditori) del rapporto obbligatorio, bensì una sola prestazione identica e comune a tutti.
La dottrina tradizionale individua come presupposti delle obbligazioni solidali: i) la pluralità dei debitori o dei creditori; ii) l’identità (o unicità) della prestazione; iii) l’unitarietà del fatto costitutivo dell’obbligazione (eadem causa obligandi).
In presenza di questi presupposti, il vincolo di solidarietà si costituisce in base alla regola generale della presunzione di solidarietà, salvo che risulti diversamente dal titolo negoziale o dalla legge.
Il presupposto dell’identità della fonte (o della causa) si realizza quando le obbligazioni hanno origine dalla medesima fattispecie legale o negoziale. È il caso, ad esempio, dell’illecito del quale rispondono più soggetti o del contratto plurilaterale. Generalmente si ritiene che questo presupposto sia riscontrabile anche nelle ipotesi in cui i fatti costitutivi siano unitariamente collegati.
In mancanza della fonte comune, non operando la presunzione di solidarietà, la costituzione del vincolo solidale deve risultare da una previsione legale o negoziale. L’obbligazione solidale del fideiussore, ad esempio, nasce dal negozio di fideiussione o dalla legge che istituisce un certo soggetto come fideiussore. Senza il negozio o la norma, l’obbligazione non avrebbe il carattere della solidarietà.
L’altro presupposto della solidarietà è quello dell’identità della prestazione. Ciò vuol dire che tutti i debitori sono obbligati per la medesima prestazione, ossia che la prestazione ha lo stesso contenuto per tutti. L’identità della prestazione non esclude che i singoli coobbligati siano tenuti con modalità diverse.
Anche l’identità della prestazione è uno dei presupposti in presenza dei quali opera la presunzione di solidarietà: in mancanza, l’obbligazione non è solidale, salvo che risulti diversamente dal titolo.
5.1. La natura giuridica
La natura giuridica dell’obbligazione solidale ha creato non pochi problemi interpretativi, tanto da indurre lo Xxxxxxx ad affermare che essa ha rappresentato “per i giuristi della tradizione romanistica un rompicapo non minore di quello che la trinità rappresenta per i teologi!”. L’opzione ermeneutica da condividere è quella che individua nella solidarietà la fonte di una pluralità dei vincoli obbligatori, tanti quanti sono i condebitori (nella solidarietà passiva) o i concreditori (nella solidarietà attiva).
Nonostante si configurino più rapporti obbligatori tra soggetti differenti, tali rapporti possono tutti essere estinti con un unico adempimento da parte di un unico soggetto. E ciò in forza di una delle caratteristiche strutturali della solidarietà: eadem res debita. Eseguita la prestazione da parte di uno dei condebitori (o ricevuta la prestazione da pare di uno dei concreditori), viene meno l’oggetto anche degli altri rapporti obbligatori, che devono automaticamente ritenersi adempiuti.
Con una rappresentazione geometrica, la solidarietà passiva si può descrivere come un cerchio sul quale sono collocati i condebitori e al centro del quale si posiziona il creditore. I raggi che legano il creditore ai singoli condebitori sono i vincoli obbligatori che la solidarietà instaura, aventi tutti a oggetto la stessa identica prestazione.
In caso di solidarietà passiva, il creditore può rivolgersi indifferentemente a uno dei condebitori (libera electio del debitore al quale chiedere l’adempimento). Non è solidale in senso stretto, quindi, l’obbligazione sussidiaria, che si configura quando tra più debitori di uno stesso creditore è previsto un ben preciso ordine che il creditore deve osservare nel far valere le proprie ragioni: tradizionalmente vi si fanno rientrare il beneficium excussionis, che si ha quando il creditore deve agire anche esecutivamente contro il debitore principale, e solo qualora resti in tutto o in parte insoddisfatto può chiedere l’adempimento al debitore sussidiario; e il beneficium ordinis, che implica invece un semplice onere di preventiva richiesta, senza la necessità di agire prima esecutivamente sul patrimonio del debitore principale.
In entrambi i casi si tratta di una modalità esecutiva dei rapporti obbligatori plurisoggettivi sul lato passivo, la quale va tenuta distinta dalla accessorietà, che attiene invece alla causa del negozio che funge da titolo dell’obbligazione (individuando quindi una stretta dipendenza funzionale da un’obbligazione “principale”); accessorietà che, al più, può essere un semplice presupposto della sussidiarietà, attenendo quest’ultima ad un profilo effettuale.
5.2. La funzione
In chiave di analisi funzionale, nell’obbligazione solidale attiva – in cui ciascuno dei concreditori ha il diritto di ricevere la prestazione dal debitore e l’adempimento in favore di uno dei creditori libera il debitore anche verso gli altri creditori – non è ravvisabile una funzione univoca e generale: a seconda dei casi concreti, la solidarietà attiva può agevolare il debitore, libero di scegliere verso quale creditore adempiere, oppure i creditori, tutti legittimati a pretendere la prestazione.
Nell’obbligazione solidale passiva, invece, la funzione del vincolo solidale consiste nell’agevolare il creditore nella soddisfazione del proprio interesse, potendo lo stesso esigere la prestazione da uno qualsiasi dei debitori.
5.3. La solidarietà dal lato passivo
La solidarietà dell’obbligazione raffigura un principio riguardante i condebitori in genere: in presenza di più debitori di una medesima prestazione, la regola è la solidarietà dell’obbligazione (art. 1294 c.c.). Ma la regola opera laddove, in concreto, sussistano tutti i presupposti previsti dalla legge per l’attuazione congiunta del condebito.
L’art. 1292 c.c. si limita a descrivere la nozione della solidarietà, così come l’art. 1294
c.c. si limita a presumere, sussistendo determinati presupposti, la solidarietà passiva. Ma nessuna norma ne chiarisce né la ratio, né il fondamento.
La lettura offerta dalla giurisprudenza è la seguente: il nucleo duro della fattispecie dell’obbligazione solidale è costituito dalla pluralità soggettiva dei debitori e dall’unicità
della causa obligandi. Anche l’idem debitum è un elemento costitutivo della fattispecie, ma esso pone problemi considerevoli: in particolare, si discute se possa considerarsi unica la prestazione che per sua natura sia suscettibile di divisione e se quindi possa qualificarsi come solidale l’obbligazione che abbia ad oggetto una prestazione “naturalisticamente parziaria”.
Secondo la giurisprudenza, quando la prestazione per natura è divisibile, la solidarietà dipende solo dalle norme e dai principi. La solidarietà raffigura un particolare atteggiamento nei rapporti esterni di un’obbligazione che per sua natura è intrinsecamente parziaria in quanto avente a oggetto una prestazione naturalisticamente divisibile. In questo caso, per aversi solidarietà occorre un titolo che la preveda, altrimenti la struttura parziaria dell’obbligazione derivante dalla natura divisibile della prestazione ha il sopravvento e insorge una pluralità di obbligazioni parziarie tra loro connesse.
Le conclusioni cui giunge la giurisprudenza sono le seguenti.
La solidarietà si configura come regola quando la prestazione comune a più debitori sia, allo stesso tempo, indivisibile. In questo caso la solidarietà è una conseguenza naturale della prestazione che forma oggetto della prestazione.
Se, invece, l’obbligazione è divisibile, il principio della solidarietà va contemperato con quello della divisibilità, stabilito dall’art. 1314 c.c., secondo cui se più sono i debitori ed è la stessa la causa dell’obbligazione, ciascuno dei debitori non è tenuto a pagare il debito che per la sua parte. Nelle obbligazioni divisibili, quindi, vale la regola opposta: l’obbligazione è parziaria, salvo che non sia qualificata come solidale595.
Già nel codice del 1865, del resto, la regola accolta era la parziarietà del vincolo, giacché la solidarietà doveva essere pattuita dalle parti oppure doveva essere prevista dalla legge. La solidarietà, quindi, assumeva carattere eccezionale rispetto alla normale parziarietà del vincolo. In senso diametralmente opposto, l’art. 40 del codice di commercio del 1882 stabiliva che «nelle obbligazioni commerciali i condebitori si presumono tenuti in solido, se non vi è convenzione contraria». La regola della solidarietà, nel campo delle obbligazioni commerciali, era diretta a favorire il commercio, essendo il creditore garantito dalla presenza di più patrimoni aggredibili ognuno per l’intero debito: il favor creditoris era quindi posto al centro della scelta del legislatore del codice del commercio di derogare alla regola della parziarietà dell’obbligazione sancita dal codice del 1865.
Il diverso regime dettato dai codici abrogati induce a sottolineare le differenze esistenti tra obbligazione divisibile solidale e obbligazione divisibile parziaria: nel primo caso, ogni debitore garantisce anche la prestazione degli altri, mentre nel secondo caso ognuno risponde solo per la propria parte. Sul piano della politica del diritto, l’obbligazione divisibile solidale risponde al favor creditoris: essa avvantaggia il creditore, che può disporre di più debitori (e, quindi, di più patrimoni) per soddisfare il proprio credito. L’obbligazione divisibile non solidale, invece, risponde al favor debitoris: essa avvantaggia il debitore, che è tenuto all’adempimento solo per la propria
595 Cfr. Cass., Sez. Un., 8 aprile 2008, n. 9148. In senso contrario, parte della dottrina individua nell’art. 1294 c.c. il fondamento della regola della solidarietà anche nelle obbligazioni parziarie, in conformità a quanto previsto dall’art. 40 dell’abrogato codice del commercio del 1882 (v. di seguito nel testo). Cfr. X. XXXXXXX, Studi sulle obbligazioni solidali, Padova, 2012, 11
parte e, pertanto, non assume il rischio dell’inadempimento degli altri consorti quando agisce in via di regresso.
Una chiara esemplificazione del rilievo della questione è data dal caso affrontato dalle Sezioni Unite in tema di obbligazioni contratte dall’amministratore nell’interesse del condominio.
5.3.1. La natura giuridica delle obbligazioni dei condomini
È controversa la natura delle obbligazioni contratte verso i terzi dall’amministratore di condominio per conto del condominio stesso, nel rispetto delle proprie attribuzioni o in esecuzione di deliberazioni assembleari.
Le Sezioni Unite, chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale vertente appunto sulla natura solidale o parziaria delle obbligazioni condominiali, ne hanno statuito la parziarietà: il creditore per causa di condominio, conseguita la condanna dell’amministratore quale rappresentante dei condomini, può procedere all’esecuzione individualmente nei confronti dei singoli condomini, secondo la quota di ciascuno e non per l’intero.
Le Sezioni Unite, per escludere la solidarietà tra i condomini, procedono in motivazione alla ricostruzione teorica della nozione di solidarietà passiva, nonché del rapporto solidarietà-parziarietà, delineata nel precedente paragrafo.
Nello specifico il Supremo Collegio precisa che, presupponendo la solidarietà passiva non soltanto la pluralità dei debitori e l’identica causa dell’obbligazione, ma anche l’indivisibilità della prestazione comune, se la prestazione, ancorché comune, è divisibile, e in difetto di una espressa disposizione di legge, la intrinseca parziarietà dell’obbligazione prevale. Conseguentemente, siccome l’obbligazione ascritta a tutti i condomini, sebbene comune, è divisibile, trattandosi di somma di denaro, e nel condominio la solidarietà non è contemplata da alcuna disposizione di legge — riguardando l’art. 1115, comma 1, cod. civ. non già il condominio negli edifici, ma la comunione di cose soggette a divisione — alle obbligazioni condominiali si applica il criterio della parziarietà ed il terzo può quindi richiedere l’adempimento solo pro quota nei confronti dei singoli condomini.
Questa soluzione è «adeguata» – a detta delle stesse Sezioni Unite – «alle esigenze di giustizia sostanziale emergenti dalla realtà economica e sociale del condominio»: risulta «preferibile» il criterio della parziarietà, che non costringe uno dei debitori ad anticipare somme a volte rilevantissime.
L’orientamento delle Sezioni Unite merita di essere riconsiderato alla luce della riforma del condominio.
Ai sensi del nuovo art. 63 disp. att. c.c., “i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti se non dopo l’escussione degli altri condomini”. Il senso della norma è di immediata intuizione. L’intento è di adottare una distinzione per classi di condomini: quelli in regola con i pagamenti e quelli non in regola, associando a ciascuna di esse un diverso grado di responsabilità. Immediata per quelli non in regola, esposti in prima battuta all’azione del terzo creditore del condominio; secondaria per quelli in regola, tenuti all’adempimento solo in via subordinata in caso di infruttuosa escussione dei primi.
La norma, in questo modo, introduce una forma di responsabilità sussidiaria, caratterizzata dal beneficium excussionis. Una responsabilità che postula un vincolo di solidarietà tra i condomini: quelli in regola con i pagamenti finiscono per rispondere anche delle quote dei condomini non in regola, seppure in via subordinata. La fattispecie evoca l’effetto tipico e principale della solidarietà: l’essere tenuti per l’intera prestazione e non per una sua parte (art. 1292 c.c.). Il condomino in regola con i pagamenti, proprio perché responsabile in via sussidiaria, non può dirsi tenuto solo “per la sua parte”, così come richiesto dall’art. 1314 c.c.: ciò porta a escludere che la qualificazione teorica delle obbligazioni condominiali possa essere governata attraverso il ricorso al paradigma delle obbligazioni parziarie.
La previsione di un ordine di escussione dei condebitori non solo non è strutturalmente incompatibile con l’essenza dell’obbligazione solidale, ma al contrario la conferma: il condebitore sussidiario è pur sempre un debitore attuale ed è pur sempre tenuto, al pari degli altri, per l’intero, in modo che l’adempimento dell’uno libera tutti. Lo stesso art. 1293 c.c. ammette che i singoli condebitori solidali possano essere “tenuti ciascuno con modalità diverse”, e dunque anche secondo un ordine particolare.
L’applicazione del modello della solidarietà alle obbligazioni condominiali lascia aperto il problema se sia configurabile una responsabilità del condominio distinta da quella dei singoli condomini. Prima della riforma, si escludeva una responsabilità del condominio, trattandosi di ente di gestione privo di soggettività giuridica. A seguito della riforma, il riconoscimento da parte della giurisprudenza di una soggettività giuridica autonoma, seppure limitata, in capo al condominio ha aperto la strada all’affermazione di una responsabilità del condominio stesso, con il proprio fondo, per le obbligazioni assunte dall’amministratore.
Si delinea così un sistema di responsabilità complesso, basato su una doppia solidarietà: quella dei condomini con il condominio e quella dei condomini tra di loro.
5.4. Il lato esterno e il lato interno della solidarietà. Le obbligazioni a interesse esclusivo e quelle a interesse comune
Il lato esterno della solidarietà riguarda i rapporti tra debitori e creditori, mentre il lato interno riguarda i rapporti tra i condebitori o i concreditori. Dal lato esterno, debiti e crediti hanno ad oggetto l’intera prestazione. Dal lato interno, invece, l’obbligazione si divide tra i diversi debitori o tra i diversi creditori. Se non risulta diversamente, le quote di presumono uguali (art. 1298 c.c.).
Le obbligazioni possono essere costituite nell’interesse esclusivo di uno dei debitori o dei creditori o nell’interesse comune. Modello tipico di obbligazione solidale passiva a interesse esclusivo è l’obbligazione fideiussoria: essa è costituita nell’interesse esclusivo del debitore.
La distinzione tra obbligazioni solidali a interesse comune e ad interesse esclusivo assume rilevanza nei rapporti interni: solo se l’obbligazione è assunta nell’interesse esclusivo di uno dei debitori, gli altri condebitori possono opporre per intero le cause estintive personali al debitore principale.
5.5. La disciplina della solidarietà. La facoltà di scelta e il regime delle eccezioni
Nelle obbligazioni solidali passive ciascun debitore è tenuto per l’intero e il creditore può esigere l’adempimento totale da parte dell’uno o dell’altro a sua scelta.
La facoltà di scelta del creditore non esclude che egli possa esercitare il suo diritto contemporaneamente nei confronti di tutti gli obbligati, esigendo da ciascuno l’intero. Fino a quanto il creditore non abbia conseguito l’adempimento, la scelta di un debitore non gli preclude la facoltà di esigere l’adempimento dagli altri condebitori.
La richiesta di pagamento costituisce in mora il destinatario, non gli altri condebitori. Nelle obbligazioni solidali attive il debitore può pagare all’uno o all’altro dei creditori secondo la sua scelta. La facoltà di scelta viene meno quando uno dei creditori lo abbia prevenuto mediante domanda giudiziale (art. 1296 c.c.). Il debitore che sia stato prevenuto dalla domanda giudiziale di uno dei creditori non può eseguire la prestazione ad altro concreditore con effetto liberatorio: l’adempimento deve essere rinnovato al
creditore che per primo ha esercitato la facoltà di scelta.
Il debitore al quale sia richiesto l’adempimento può far valere le cause di invalidità e di inefficacia del titolo, oltre a quelle di estinzione e di inesigibilità dell’obbligazione solidale. Si tratta di eccezioni comuni, che incidono su tutti i rapporti obbligatori. Esse si contrappongono alle eccezioni personali, che attengono esclusivamente al rapporto del singolo condebitore o concreditore. Eccezioni personali, ad esempio, sono quelle fondate sulle diverse modalità della prestazione: al singolo condebitore può essere accordato un più lungo termine per adempiere o il beneficio di escussione.
In generale, delle eccezioni comuni possono avvalersi tutti i condebitori nei confronti del creditore, e il debitore nei confronti di tutti i concreditori.
Per quanto riguarda le eccezioni personali vige invece la regola secondo la quale nelle obbligazioni solidali passive il debitore non può giovarsi delle eccezioni personali agli altri condebitori; nelle obbligazioni solidali attive il debitore non può giovarsi nei confronti di uno dei creditori delle eccezioni personali agli altri concreditori (1297 c.c.).
Questa regola subisce tre deroghe596.
La prima attiene alle obbligazioni solidali assunte nell’interesse esclusivo di uno dei debitori o dei creditori. In tali obbligazioni il debitore può giovarsi delle eccezioni personali al debitore principale o al creditore unico interessato. Questa deroga è espressamente prevista nella disciplina della fideiussione, dove è appunto sancito che il fideiussore può opporre al creditore tutte le eccezioni che spettano al debitore principale, salva quella derivante dall’incapacità (1945 c.c.). La seconda deroga attiene alle cause estintive dell’obbligazione, le quali, se hanno natura personale, rilevano nei limiti della quota del rapporto estinto. La terza deroga è rappresentata dalle cause di nullità del titolo. Se tali cause sono relative solo ad alcuno dei rapporti solidali, esse di massima possono essere opposte dagli altri condebitori o agli altri concreditori nei limiti della quota del rapporto invalido.
596 M.C. Xxxxxx, Diritto civile, cit., 657.