L’ARBITRATO AI TEMPI DEL “COLLEGATO LAVORO”
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L’ARBITRATO AI TEMPI DEL “COLLEGATO LAVORO”
Sommario: 1. - Conciliazione e arbitrato. 2. - L’accordo arbitrale. 3. - La scelta cade ancora una volta sull’arbitrato irrituale. 4. - L’arbitrato irrituale e le controversie dell’ex pubblico impiego. 5. - Gli arbitri. 6. - La procedura. 7. - Il lodo. 8. – Diritto ed equità. 9. – L’impugnazione del lodo. 10. - L’arbitrato irrituale e il termine per l’impugnazione del licenziamento. 11. - Un tentativo di trarre qualche conclusione
1. Conciliazione e arbitrato
Dopo un lungo e tormentato iter parlamentare1 il d.d.l. n. 1441-quater-F, più noto come “collegato lavoro”, è stato approvato dalla Camera dei Deputati e si è trasformato nella l. 4 novembre 2010, n. 183.
Tra i tanti temi toccati dal “collegato lavoro” mi occuperò esclusivamente delle innovazioni introdotte in materia di arbitrato, cercando, nei limiti del possibile, di tenermi alla larga dalle polemiche che ci sono state nel recente passato e che sono destinate a rinfocolarsi con la sua entrata in vigore. Ritengo infatti che quando le posizioni contrapposte sono ampiamente condizionate da pregiudizi ideologici, il loro confronto sia poco utile per comprendere le norme di nuova introduzione e per valutarne la funzionalità. Invece di profondere i propri sforzi per dimostrare che
1 Il “collegato lavoro” è stato oggetto di numerosi commenti durante la fase di gestazione; senza pretesa di completezza, tra i tanti x. XXXXXXXXXXX, Perturbazione in arrivo. I licenziamenti nel d.d.l. 1167, in Lav. e dir., 2009, p. 3 ss.; XXXXXXXX, Il diritto del lavoro ondivago, ivi, 2009, p. 25 ss.; BORGHESI, Le nuove frontiere dell’arbitrato del lavoro secondo il disegno di legge n. 1441-quater, ivi, 2009, p. 13 ss.; XXXXXXXXX, Il cosidetto “collegato lavoro” e la disciplina dei licenziamenti: un quadro in chiaroscuro, in Riv.it.dir.lav., 2010, p. 215 ss.; MISCIONE, Quale arbitrato d’equità in materia di lavoro, in Dir.prat.lav., p. 1298; SPEZIALE, La riforma della certificazione e dell’arbitrato nel “collegato lavoro”, in Dir.lav.merc., 2010, p. 129 ss.; CENTOFANTI, Le nuove norme, non promulgate, di limitazione della tutela giurisdizionale dei lavoratori, in Lav.giur., 2010, p. 329 ss.; XXXXXXX, Il Collegato lavoro: un nuovo modus operandi per i pratici e, forse, un nuovo diritto del lavoro, ivi, 2010, p. 344 ss.
le recenti disposizioni in materia di arbitrato sono il diavolo o che sono la panacea per le piaghe che affliggono la giustizia del lavoro, penso sia meglio cercare di comprenderne il funzionamento e l’effettiva portata. Ora che il “collegato lavoro” è legge dello Stato bisogna esaminarlo nel merito, con la sola ambizione di chiarirne prima di tutto il significato, lasciando al poi critiche e valutazioni.
Venendo al merito, bisogna notare innanzitutto che il “collegato lavoro” svuota di contenuto gli artt. 412-ter e 412-quater c.p.c., abrogando l’”arbitrato irrituale previsto dai contratti collettivi” ed introducendo quattro nuovi tipi di arbitrato, menzionati, rispettivamente, dagli artt. 412 (Risoluzione arbitrale della controversia) e 412-quater (Altre modalità di conciliazione a arbitrato), nonché dall’art. 412-ter, nuovo testo, nel quale si prevede che “La conciliazione e l’arbitrato, nelle materie di cui all’art. 409, possono essere svolti altresì presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative” e dall’art. 31, comma 12, che prevede un arbitrato gestito dagli organi di certificazione i quali possono istituire camere arbitrali.
Ciò che colpisce nel nuovo sistema è in primo luogo che l’arbitrato sindacale è notevolmente “liberalizzato”, nel senso che viene meno la complessa ed articolata regolamentazione che in precedenza condizionava la contrattazione collettiva, affidandole il compito non solo di autorizzare l’arbitrato, ma imponendole anche di determinarne le modalità secondo canoni in larga misura stabiliti dalla legge2. Per questa maggiore libertà lasciata alla contrattazione collettiva l’arbitrato sindacale paga tuttavia un prezzo. L’art. 412-ter a differenza di quanto avviene per l’arbitrato presso gli organi di certificazione, non richiama infatti le norme contenute nell’art. 412 e ripetute nell’art.
2 Sull’arbitrato irrituale previsto dai contratti collettivi secondo gli, oggi abrogati, artt. 412-ter e 412-quater c.p.c. v. XXXXXXXX, Arbitrato per le controversie di lavoro, in Arbitrati speciali, diretto da X. Xxxxx, Bologna, 2008, p. 18 ss.
412-quater, che consentono alle parti di impugnare il lodo entro trenta giorni davanti al tribunale che decide con sentenza in unico grado e di depositare il lodo nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato, facendogli acquistare l’efficacia del titolo esecutivo. Il regime del detto lodo, quindi, avendo natura irrituale, non può che essere quello dettato in generale dall’art. 808-ter c.p.c, che, come è noto, non ne contempla l’esecutività e ne prevede l’impugnazione con un’ordinaria azione di cognizione, che si sviluppa per i tre usuali gradi di giudizio ed è proponibile nei termini di prescrizione3. Xxxxxx, tuttavia, tramite la quale possono essere fatti valere gli stessi motivi di invalidità del lodo che possono essere sollevate rispetto alle altre determinazioni previste dal “collegato” e sui quali avrò occasione di soffermarmi più oltre.
Nella versione precedente all’intervento del Presidente della Repubblica l’art. 412-ter non richiamava neppure l’art. 2113, comma 4, c.c., così come fanno gli artt. 412 e 412-quater, cosicchè il lodo sindacale sembrava non avere la stessa stabilità di quelli previsti dalla legge. Nel testo definitivo la lacuna è stata colmata, tramite l’inserimento nel comma 4 dell’art. 2113 c.c. di un richiamo anche all’art. 412-ter, oltre che agli artt. 412 e 412-quater Venendo ai due arbitrati disciplinati in maniera più dettagliata dal “collegato lavoro”, la prima cosa che si nota (oltre alla mancanza di qualsiasi riferimento alla contrattazione collettiva se non, come vedremo, relativamente alla clausola compromissoria) è un collegamento di entrambi con il tentativo di conciliazione.
L’art. 412-quater, infatti prevede una procedura che è insieme di conciliazione e di arbitrato, riproponendo, a rovescio, uno schema già presente nell’art. 412, nel senso che, mentre quest’ultimo
3 Sulla disciplina dell’arbitrato irrituale secondo il nuovo art. 808-ter c.p.c., x. XXXXXXX, Arbitrato irrituale, in Arbitrato,
diretto da X. Xxxxx, Bologna, 2005, p. 160 ss.
configura una commissione di conciliazione che si trasforma in collegio arbitrale, il primo propone un collegio arbitrale che, in limine, tenta anche la conciliazione.
Comunque sia, a parte le differenze di cui si è detto, la filosofia che accomuna le due norme è quella secondo la quale conciliazione e arbitrato irrituale hanno la medesima natura negoziale e possono quindi essere contenuti in un’unica procedura nella quale il passaggio dall’una all’altro (o viceversa) avviene senza soluzione di continuità e senza che l’organo preposto sia modificato. In buona sostanza nel sistema dell’art. 412 è il tentativo di conciliazione che si tramuta in arbitrato, tramite una semplice modifica del mandato attribuito alla commissione di conciliazione. Ma anche nel sistema dell’art. 412-quater gli arbitri – come il giudice del lavoro – hanno l’obbligo di esperire il tentativo di conciliazione nella prima udienza e, nel caso in cui questo abbia esito positivo, l’accordo raggiunto tra le parti è inoppugnabile e suscettibile di diventare titolo esecutivo, ai sensi dell’art. 411, commi 1 e 3, c.p.c.
E’ innegabile che una simile concezione abbia delle sue doti di economicità, consentendo – per così dire – “la massima utilizzazione degli impianti”. E’ infatti evidente che portare la conciliazione e l’arbitrato davanti ad organi diversi costringe a duplicare lo studio della controversia, con conseguente maggiore dispendio di tempo e di denaro.
Non si può tuttavia nascondere che le più recenti concezioni in materia di mediazione, quelle – per intenderci – che sono alla base del recente d.lgs n. 28/2010, sono ispirate ad una filosofia diametralmente opposta, secondo la quale non solo la fase del tentativo di conciliazione va affidata ad un organo privo di poteri decisori e va tenuta separata da quella di decisione, ma quanto accade nella prima è coperto da un velo di riservatezza che lo nasconde all’organo (arbitro o giudice) che tratta la seconda. Mescolando le due fasi, infatti, o semplicemente facendo indiscriminatamente circolare le informazioni, si finisce, per un verso, per limitare la “spontaneità” della parte nel
rappresentare la sua effettiva posizione a fronte delle proposte transattive dell’altra parte o del conciliatore e, per altro verso, per influenzare l’organo giudicante con comportamenti che mai la parte avrebbe tenuto se non ci fosse stata la prospettiva della conciliazione.
Proprio per evitare gli inconvenienti di cui sopra il citato d.lgs n. 28/2010 prevede che chiunque partecipi al procedimento di mediazione sia tenuto all’obbligo di riservatezza rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite nel procedimento stesso (art. 9) e che le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite durante la mediazione non possano essere utilizzate nel giudizio che segue il fallimento del tentativo di conciliazione (art. 10)4.
Vista l’evidente contraddizione, i casi non possono che essere due: o il legislatore che ha appena riformato la conciliazione e l’arbitrato in materia di lavoro non condivide l’impostazione del legislatore che ha altrettanto recentemente introdotto la mediazione stragiudiziale in Italia; oppure ha ritenuto che ci troviamo in presenza di una zona franca, cui la regola valida in generale per la conciliazione non si applica a causa di specificità proprie della materia di lavoro.
2. L’accordo arbitrale
L’accordo di sottoporre la controversia ad arbitrato si può formare in due modi. Il primo è quello che potremmo definire usuale nelle controversie di lavoro e consiste nell’accettazione implicita del convenuto che provvede alla nomina del proprio arbitro dando seguito alla proposta, formulata pure per implicito, nel ricorso contenente la nomina dell’arbitro e la domanda dell’attore5. L’art. 412- quater, comma 4, recita infatti testualmente: “se la parte convenuta intende accettare la procedura
4 Sul dovere di riservatezza nel procedimento di mediazione v. BORGHESI, Riservatezza e segreto nella mediazione, in
Xxxxxxxx.xx.
5 X. XXXXXXXX, L’arbitrato del lavoro dopo la riforma, in Riv.trim.dir. e proc.civ., 2006, p. 831.
di conciliazione e arbitrato nomina il proprio arbitro di parte” (la sottolineatura è nostra). La qual cosa significa che il convenuto ha la possibilità di rifiutare l’arbitrato in modo esplicito oppure di farlo in modo implicito, non provvedendo alla nomina del proprio arbitro. Purtroppo non è previsto un termine entro il quale la nomina dell’arbitro deve essere fatta, cosicchè si deve ritenere che il rifiuto implicito si formalizzi se l’inerzia del convenuto si protrae per trenta giorni dalla notifica del ricorso, che è il termine stabilito ai due arbitri di parte per la nomina del terzo.
La legge non prevede il caso in cui alla nomina non segua l’accettazione degli arbitri. Non è quindi chiaro se l’accordo raggiunto con lo scambio delle nomine degli arbitri permanga o se la mancata accettazione degli stessi (o di uno di essi) dia origine ad una sorta di ius poenitendi delle parti6.
L’art. 412 si premura di precisare che il passaggio dal tentativo di conciliazione all’arbitrato deve essere scandito da un apposito accordo al quale non si pongono specifici requisiti di forma, ma solo due requisiti di contenuto, che, tuttavia, a ben vedere, sono solo apparentemente tali. Il n. 1 del comma 2, prevede che nel mandato agli arbitri le parti devono indicare il termine per l’emanazione del lodo, che però non deve superare i sessanta giorni. La qual cosa significa che, se il termine non è indicato o è indicato in misura maggiore, si applicano automaticamente i sessanta giorni previsti dalla legge.
Quanto all’indicazione delle “norme invocate dalle parti a sostegno delle loro pretese”, in alternativa con la richiesta di decidere secondo equità, mi pare più un requisito della domanda arbitrale, che non dell’accordo compromissorio. Requisito che può anche mancare, non essendoci motivo per dubitare che il principio iura novit curia valga anche in arbitrato irrituale.
6 Una sorta di ius poenitendi è prevista dai contratti collettivi Aran, Confservizi Cispel, Confapi nel corso della procedura arbitrale (sul punto v. BORGHESI, I primi contratti collettivi definiscono il nuovo statuto dell’arbitrato irrituale, in Lav.pubbl.amm., 2001, p. 167 s.).
Il secondo tipo di accordo arbitrale è quello che innova in maniera radicale rispetto all’assetto precedente e che, proprio per questo motivo, non solo ha scatenato la violenta reazione di alcune forze politiche e sindacali, ma è stata una delle cause che hanno indotto il Presidente della Repubblica a rinviare il decreto legislativo alle camere7.
L’art. 31, comma 10, del “collegato lavoro” nella versione approvata in via definitiva dal Senato il 3 marzo 2010 prevedeva che le parti potessero stipulare clausole compromissorie riferite agli arbitrati di cui agli artt. 412 e 412-quater, (non invece – a quanto pare - agli arbitrati organizzati dagli organi di certificazione o a quelli previsti dalla contrattazione collettiva) purchè fosse consentito da accordi interconfederali o da contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni più rappresentative sul piano nazionale e purchè le clausole fossero certificate dagli appositi organismi, cui era affidato il compito di accertare “l’effettiva volontà” delle parti di rinunciare alla giurisdizione per l’arbitrato.
La disposizione ha, da subito (anzi anche da prima di essere sul punto di diventare legge), suscitato una marea di critiche. Come è noto, il motivo che, da sempre, ha indotto molti a considerare la clausola compromissoria incompatibile con le cause di lavoro è la convinzione che il lavoratore, come parte economicamente più debole, non sia in grado di scegliere liberamente la via arbitrale, quanto meno quando la situazione è tale da rendergli praticamente impossibile opporre un rifiuto. Esemplare, sotto questo profilo, è il caso in cui la clausola compromissoria sia inserita nel contratto di assunzione e al lavoratore non resti che l’alternativa tra “mangiare quella minestra” o rinunciare al posto di lavoro. Inutile aggiungere che in questo caso l’arbitrato finisce per essere
7 Tra i punti critici rilevati dal messaggio del 31 marzo 2010 con il quale il Capo dello Stato ha rinviato alle Camere il
d.d.l. 1441-quater l’arbitrato occupa indubbiamente un posto centrale rispetto alla disciplina della responsabilità per le infezioni da amianto subite dal personale che presta la propria opera sul naviglio di Stato e a quello, generico, sulla “configurazione marcatamente eterogenea dell’atto normativo”, al quale ultimo non ci si aspetta sia data una risposta specifica.
sostanzialmente obbligatorio (o comunque fondato sulla volontà di una sola delle parti) e per dare vita ad una palese violazione dell’art. 24, comma 1, cost8.
In questo quadro la legittimità, anche costituzionale, del sistema avrebbe dovuto essere garantita dalla certificazione9 della clausola, attestante “l’effettiva volontà delle parti di devolvere ad arbitri le controversie che dovessero insorgere in relazione al rapporto di lavoro”.
A questo proposito ci si è chiesti se e come sia possibile che la commissione di certificazione accerti che la volontà del lavoratore di scegliere l’arbitrato è genuina. E al quesito si è data ovviamente risposta negativa, per il buon motivo che la commissione, ove accertasse la preferenza del lavoratore per il giudice xxxxxx, non avrebbe il potere di imporre al datore di lavoro di stipulare il contratto di lavoro senza la clausola compromissoria10.
Le censure di cui si è detto sono state recepite dal Capo dello Stato, il quale, nel rinviare il “collegato lavoro” alle Camere ai sensi dell’art. 74 cost. (31 marzo 2010), ha rilevato che la certificazione non rappresenta, di per sé, una garanzia sufficiente, non potendo l’organo competente “che prendere atto della volontà dichiarata dal lavoratore, una volta che sia stata confermata in una fase che è pur sempre costitutiva del rapporto e nella quale permane pertanto una ovvia condizione di debolezza”.
8 Sull’illegittimità costituzionale dell’arbitrato obbligatorio x. XXXXXXXX, L’arbitrato obbligatorio, in Arbitrato ADR conciliazione a cura di X. Xxxxxx-Xxxxxxxxxx, Bologna, 2009, p. 46 ss. E, con particolare riferimento all’arbitrato irrituale, XXXXX, L’arbitrato irrituale, Torino, 2005, p. 173 ss.
9 Sulla certificazione v. RAUSEI, La certificazione dei contratti di lavoro, in Dir.prat.lav., 2008, n. 18, pp. I-XXIII (parte I) e
n. 19 pp. I-XXIII (parte II); GRECO, Gli enti bilaterali dopo la riforma del mercato del lavoro, in Riv.giur.lav., 2009, p. 83 ss. e, con particolare riferimento al “collegato lavoro”, XXXXXXXX, Certificazione dei contratti di lavoro: le novità contenute nel collegato lavoro, in Giur. lav., 2010, p. 32 ss. e SPEZIALE, La riforma, cit., p. 146 ss.
00 X. XXXXXXXX, Xx nuove frontiere, cit., p. 21.
Per superare i rilievi del Presidente della Repubblica il legislatore ha modificato il testo iniziale prevedendo che la clausola compromissoria non possa avere ad oggetto controversie relative alla “risoluzione del contratto di lavoro”, né essere stipulata prima che sia esaurito il periodo di prova o comunque non siano trascorsi trenta giorni dall’assunzione. Inoltre, vengono in qualche modo rafforzate le garanzie del lavoratore nella fase di certificazione, con la previsione che questo possa farsi assistere da un avvocato o da un sindacalista.
Per quanto riguarda l’esclusione dei licenziamenti, bisogna dire che riguarda solo la clausola compromissoria, restando la piena arbitrabilità degli stessi quando la relativa controversia è già sorta.
Sono state quindi recepite le indicazioni dei primi commentatori che avevano individuato fin da subito il punto critico della vecchia formulazione nel fatto che la volontà di un lavoratore che non è ancora stato assunto o che non è stabile non ha, per definizione, la possibilità di esprimersi liberamente. Ora, quanto meno, la sottoscrizione della clausola compromissoria non può più essere contestuale a quella del contratto di assunzione. Cosa questa destinata a semplificare l’opera degli organismi di certificazione, i quali potranno indagare la volontà compromissoria del lavoratore separatamente da quella di ottenere il posto di lavoro.
Certamente tra le garanzie per il lavoratore previste dal nuovo testo del “collegato lavoro” non può essere sottovalutata quella rappresentata dall’assistenza di un avvocato o di un sindacalista, non foss’altro per negoziare il “come” (cioè il contenuto), oltre che il “se” della clausola compromissoria. Contenuto che, pur dovendosi mantenere nei parametri della legge e della contrattazione collettiva, non può non lasciare un qualche margine alla volontà delle parti.
Tutto a posto quindi ? Si può dire che l’intervento delle Camere in seconda battuta abbia risolto i problemi segnalati dal Capo dello Stato ? A mio avviso resta un dubbio che può riguardare anche la
legittimità costituzionale della nuova formulazione. Se infatti la previsione secondo la quale la clausola compromissoria deve essere stipulata esaurito il periodo di prova o comunque trascorsi trenta giorni dall’assunzione garantisce che la volontà sia liberamente espressa perché il lavoratore gode di una posizione dotata di stabilità, come può la stessa garanzia valere per tutti i lavori atipici o a termine o comunque caratterizzati da stabilità ridotta ? E’ chiaro che in questi casi il condizionamento che la volontà del lavoratore potrebbe subire è identico, anche se la clausola compromissoria è sottoscritta a rapporto iniziato da oltre trenta giorni.
Per risolvere il problema sarebbe necessario un intervento della contrattazione collettiva che individuasse esattamente i rapporti di lavoro cui può accedere la clausola compromissoria, magari ispirandosi a quella giurisprudenza che, in materia di prescrizione, ritiene che il lavoratore sia in grado di far valere il proprio diritto in corso di rapporto solo quando gode della stabilità reale11.
Prima di concludere sul punto va sottolineato che, stando alla formulazione dell’art. 31, comma 10, del “collegato”, l’uso della clausola compromissoria sembrerebbe escluso con riferimento all’arbitrato previsto dalla contrattazione collettiva, stante il mancato richiamo dell’art. 412-ter. Anche di questo mi sembra difficile trovare un motivo che non sia un lapsus del legislatore.
Se – come si è visto – la clausola compromissoria è un modo di deferire le controversie di lavoro ad arbitrato che la legge sottopone a particolari cautele ed è, quindi, in un certo senso, eccezionale, la modalità normale dovrebbe essere il compromesso del quale però il “collegato lavoro” non fa esplicita menzione. Infatti l’art. 412, comma 1, prevede che le parti possono accordarsi affidando alla commissione di conciliazione la funzione di decidere la controversia e che nel mandato agli arbitri devono prevedere il termine per l’emanazione del lodo e le norme da applicare al caso o la richiesta di decidere secondo equità.
11 Un punto di riferimento in materia è tutt’ora Cass. Sez. un., 12 aprile 1976, n. 1268, in Foro it., 1976, I, c. 915 ss.
L’art. 412-quater stabilisce che la parte la quale vuole iniziare la procedura notifichi un atto contenente la nomina dell’arbitro e la domanda all’altra parte, la quale, se “intende accettare”, provvede, a sua volta, alla nomina dell’arbitro di sua competenza.
Nel secondo caso è chiaro che l’accordo arbitrale può essere stipulato per facta concludentia, ma anche nel primo, non essendo specificate le modalità tramite le quali le parti possono accordarsi per trasformare la conciliazione in arbitrato, non è escluso che l’impegno possa essere assunto tramite il semplice scambio degli atti introduttivi.
Si tratta – a mio avviso – di un sottotipo di compromesso che non ha le caratteristiche di quello disciplinato dall’art. 808-ter c.p.c. (cioè, in particolare, la forma scritta) e probabilmente neppure gli stessi effetti, nel senso che dovrebbe valere esclusivamente per la singola procedura, estinta la quale, le parti tornano libere di adire il giudice togato.
Peraltro, non mi sembra si possa dubitare che le parti, prima dell’instaurazione della controversia, possano stipulare un formale compromesso con l’effetto di vincolarsi in modo irreversibile all’arbitrato. Il problema semmai sta nello stabilire se al compromesso si applichi la disciplina dell’accordo per facta concludentia prevista dall’art. 412-quater o quella della clausola compromissoria stabilita dall’art. 31, comma 9, del “collegato lavoro”. Se infatti al compromesso si applicasse il regime della clausola compromissoria, sarebbe necessaria la forma scritta, dato il richiamo all’art. 808 c.p.c., la previsione in un contratto collettivo e la certificazione ad opera dell’apposita commissione. Se viceversa la normativa di riferimento fosse l’accordo per facta concludentia, l’unico requisito aggiuntivo richiesto sarebbe la forma scritta, così come previsto dall’art. 808-ter c.p.c., sicuramente applicabile al caso di specie. Propenderei per la seconda soluzione, sia per la formulazione letterale della legge, che riferisce la certificazione e la previsione in un contratto collettivo alla sola clausola compromissoria, sia perché non avrebbe senso trattare in
modo diverso due fattispecie sostanzialmente identiche quali il compromesso e l’accordo arbitrale per facta concludentia e, nel contempo, disciplinare nello stesso modo ipotesi molto diverse quali il compromesso e la clausola compromissoria.
Secondo l’art. 31, comma 11, nella versione precedente alla rimessione alle Camere, se gli accordi interconfederali o i contratti collettivi, la cui esistenza è condizione indispensabile perché le clausole arbitrali siano ammissibili, non sono stipulati entro dodici mesi dall’entrata in vigore del “collegato lavoro”, “il Ministero del lavoro e delle politiche sociali definisce con proprio decreto, sentite le parti sociali, le modalità di attuazione e di piena operatività delle disposizioni”.
Anche su questo punto ha obiettato il Capo dello Stato il quale ha ritenuto non coerente con i principi generali dell’ordinamento prevedere l’autorizzazione alla stipulazione di clausole compromissorie anche senza un apposito pronunciamento della contrattazione collettiva, sulla base di “un intervento suppletivo del Ministero – di cui tra l’altro non si stabilisce espressamente la natura regolamentare né si delimitano i contenuti”.
La risposta delle Camere è stata un testo che annacqua la precedente previsione, senza peraltro rinunciare alla prospettazione dell’intervento autoritativo del Ministero. Intervento che tuttavia rappresenta l’extrema ratio cui si ricorre dopo che le parti sociali hanno trattato per almeno sei mesi senza giungere ad un risultato, che, quanto ai contenuti, tiene conto “delle risultanze istruttorie del confronto tra le parti sociali” e che ha il carattere della sperimentalità, essendo aperto ad “integrazioni e deroghe derivanti da eventuali successivi accordi interconfederali o accordi collettivi”.
Insomma, ancora una volta il legislatore ha cercato una mediazione, se non impossibile, certo molto difficile, tra l’esigenza di impedire che anche una sola organizzazione sindacale, pregiudizialmente contraria all’arbitrato, possa esercitare una sorta di diritto di veto e l’ovvia considerazione secondo
la quale le modalità di funzionamento di un arbitrato che si dovrebbe caratterizzare per l’intervento della contrattazione collettiva, se non sono condivise dai sindacati più rappresentativi, hanno scarsissime possibilità di avere successo.
3. La scelta cade ancora una volta sull’arbitrato irrituale
Il comma terzo dell’art. 412, il comma primo del nuovo art. 412-quater e l’art. 31, comma 12 del “collegato” sono espliciti nel definire l’arbitrato dagli stessi disciplinato come irrituale. Meno esplicito è l’art. 413-ter, nuovo testo, che fa riferimento genericamente all’arbitrato. A chiarire che si tratta, anche in questo caso, di arbitrato irrituale contribuisce il richiamo all’art. 413-ter contenuto nell’art. 2113, comma 4, c.c. che presuppone il carattere negoziale del lodo.
Il legislatore del “collegato” si pone così sulla scia delle leggi che si sono susseguite in materia dal dopo guerra ad oggi (dalla legge n. 604/1966 ai d.lgs. nn. 80 e 387 del 1998 che hanno introdotto nel nostro c.p.c. gli (ora abrogati) artt. 412-ter e quater). Vista la continuità con il passato, a questo punto, non ci si può stupire della scelta operata, anche se viene spontaneo chiedersi per quale mai motivo il legislatore, avendo a disposizione due modelli di arbitrato, scelga quello che si caratterizza per dare vita ad una pronuncia che non produce gli effetti della sentenza, salvo poi munirla di efficacia esecutiva e assoggettarla ad impugnazione, facendola assomigliare, quanto più possibile, ad una pronuncia giurisdizionale. In maniera abbastanza paradossale l’ultimo comma dell’art. 412 e il comma 10 dell’art. 412-quater, nuovo testo, nella versione antecedente all’intervento del Presidente della Repubblica, prevedevano che il lodo acquistasse l’efficacia del titolo esecutivo “a seguito del provvedimento del giudice su istanza della parte interessata ai sensi dell’art. 825”. Se si considera che, stando a quanto dispone l’art. 808-ter c.p.c., la possibilità che il lodo sia depositato ai sensi dell’art. 825 c.p.c. è esclusa proprio perché il deposito rappresenta una
sorta di spartiacque che separa l’arbitrato rituale da quello irrituale, lo stabilire che anche il lodo irrituale può essere depositato ex art. 825 rappresenta una vera e propria contraddizione in termini. Più pudicamente, nella formulazione definitiva della norma in esame il legislatore, pur mantenendo il deposito nella cancelleria del tribunale, ha omesso il riferimento all’art. 825 c.p.c.
Una volta stabilito che l’arbitrato di cui si tratta rientra tra quelli irrituali, la cui caratteristica essenziale – stando a quanto stabilisce l’art. 808-ter c.p.c. – è quella di definire la controversia “mediante determinazione contrattuale”, è decisamente pleonastico che i nuovi artt. 412, comma 3, e 412-quater, comma 10, prevedano che il lodo produca gli effetti dell’art. 1372 c.c., intitolato, per l’appunto, “efficacia del contratto”.
Il richiamo all’art. 2113, comma 4, c.c. ha invece la palese funzione di estendere al lodo negoziale la inoppugnabilità delle rinunzie e transazioni stipulate dai lavoratori in sede giudiziale, sindacale o amministrativa. Non si tratta però di inoppugnabilità assoluta, non solo perché gli artt. 412, comma 4 e 412-quater, comma 10, fanno espresso rinvio di motivi di impugnazione di cui all’art. 808-ter c.p.c., ma anche perché, secondo quanto ritiene una giurisprudenza ormai costante, l’art. 2113, comma 4, c.c., copre si una vasta area assoggettata al regime dell’annullabilità, ma lascia scoperta la vera e propria nullità (art. 1418 c.c.), che, conseguentemente, può essere fatta valere con l’impugnazione appositamente prevista per il lodo irrituale.
Il problema sta quindi nello stabilire quali siano i confini dell’area che, per intenderci, abbiamo definito della nullità assoluta e che, in termini generali, include quelle determinazioni che, incidendo sul momento genetico del diritto e disponendo per il futuro, finiscono per definire una regolamentazione del rapporto diversa da quella prevista dalla legge.
Per fare qualche esempio sono considerati radicalmente nulli gli accordi che stabiliscano per il futuro una retribuzione collettiva e quindi “insufficiente” ai sensi dell’art. 36 cost.; gli accordi,
sempre de futuro, in materia di ferie e riposi12; le pattuizioni aventi ad oggetto le misure dirette a salvaguardare la salute e la sicurezza dei lavoratori13; gli accordi sulla proroga del periodo di prova14; le pattuizioni relative al t.f.r. effettuate nel xxxxx xxx xxxxxxxx xx xxxxxx00; gli accordi in materia di obblighi contributivi16; le pattuizioni che modifichino, con effetti che si riverberano nel futuro, l’assetto legislativo in materia di qualifiche e mansioni del lavoratore17.
Nei casi sopra elencati e in tutti quelli nei quali ricorrono i medesimi presupposti è chiaro che la determinazione arbitrale non conforme alla legge è radicalmente nulla (e quindi sottratta al regime dell’art. 2113, comma 4, c.c.) né più né meno di come lo sarebbe un accordo intervenuto tra le parti in sede giudiziale o amministrativa. Da ciò deriva che il lodo irrituale del lavoro, pur non essendo, in linea di principio, impugnabile per violazione di legge, può eserlo quando la violazione incida, non su diritti, già maturati, ma sull’assetto futuro del rapporto di lavoro. E la cosa vale – è bene ribadirlo – sia per il lodo di diritto, sia per quello di equità (il quale peraltro, come vedremo tra breve, è impugnabile anche per violazione dei “principi generali del diritto” e dei “principi regolatori della materia”).
Quanto sinora detto riguarda la legge, non la contrattazione collettiva. Una eccezione tuttavia mi sembra vada fatta per quella del pubblico impiego, che la giurisprudenza ritiene inderogabile anche
12 V. l’ampia e puntuale rassegna di COSATTINI, Rinunzie e transazioni, in Il rapporto di lavoro subordinato: garanzie del reddito, estinzione e tutela dei diritti, a cura di X. Xxxxxxxx, in Diritto del lavoro, diretto da X. Xxxxxxx, III, p. 701 ss.
13 XXXX, Le rinunce e le transazioni del lavoratore – art. 2113, in Il codice civile commentato, diretto da X. Xxxxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, p. 40 s.
14 Cass., 13 marzo 1992, n. 3093, in Mass.giur.lav., 1992, p. 176
15 Cass., 4 settembre 1983, n. 7633, in Notiz.giur.lav., 1984, p. 203
16 Cass., 26 aprile 1999, n. 4168; Cass., 26 marzo 2010, n. 7380, in Infoutet
17 Cass., 24 gennaio 1987, n. 674, in Orient.giur.lav., 1987, p. 550
in melius per il lavoratore18. Essendoci alla base della detta inderogabilità un difetto assoluto di attribuzione della p.a., determinato dal fatto che, al di fuori di quanto prevede la contrattazione collettiva nazionale, non è consentito assumere impegni di spesa non previsti dagli strumenti di programmazione finanziari, mi pare si possa ritenere che anche in questo caso non si tratti di semplice annullabilità, ma di radicale nullità.
4. L’arbitrato irrituale e le controversie delll’ex pubblico impiego
L’art. 31, comma 9, del “collegato lavoro” prevede che “le disposizioni degli artt. 410, 411, 412, 412-ter e 412-quater del codice di procedura civile si applicano anche alle controversie di cui all’articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”.
Non si tratta di una disposizione nuova, ma della conferma di quanto già si desumeva dalla precedente normativa e cioè che, a far tempo dalla privatizzazione del pubblico impiego, non esistono ostacoli all’applicazione dell’arbitrato irrituale alle relative controversie, che oggi coinvolgono diritti soggettivi e atti dell’autonomia privata19.
Pure confermato è il fatto che l’ambito dell’arbitrato irrituale non vada oltre la giurisdizione del giudice ordinario e che restino quindi escluse le controversie relative ai concorsi finalizzati all’assunzione e al “Personale in regime di diritto pubblico”, che l’art. 63, comma 9, del citato d.lgs.
n. 165/2001 (non richiamato dall’art. 31, comma 8, del “collegato”), riserva alla giurisdizione del giudice amministrativo, probabilmente perché, secondo un’opinione diffusa coinvolgono interessi
18 Cass., 4 novembre 2009, n. 23329 e Cass., 14 ottobre 2009, n. 21744, in Infoutet.
19 Sul superamento dell’idea secondo la quale tra arbitrato rituale e controversie sul pubblico impiego vi sarebbe una sorta di incompatibilità v. BORGHESI, La giurisdizione del pubblico impiego privatizzato, Padova, 2002, p. 262 ss.
legittimi20. Tuttavia, anche se si trattasse di diritti soggettivi, alle relative controversie sarebbe applicabile la regola generale enunciata dall’art. 6, comma 2, della legge n. 205/2000, secondo la quale le controversie rientranti nella giurisdizione del giudice amministrativo possono essere assoggettate esclusivamente all’arbitrato rituale di xxxxxxx00.
Sempre a questo proposito è stato detto che agli arbitri irrituali non potrebbe essere esteso il potere di disapplicare gli atti amministrativi illegittimi attribuito al giudice ordinario dall’art. 63, comma 1, d.lgs n. 165/200122. Secondo questo orientamento infatti la p.a. non ha il potere di disapplicare i propri atti, ma solo di annullarli. Ne segue che, non essendo tale potere configurabile in capo alla p.a., non può essere da questa delegato agli arbitri.
Come già mi è capitato di osservare,23 la tesi appena riassunta si basa su di un falso presupposto. In realtà non è esatto che la p.a. non possa disapplicare gli atti amministrativi dalla stessa emanati perché è priva del relativo potere, ma perché ha quello, ben maggiore, di annullamento (non avrebbe infatti senso che la p.a. disapplicasse un atto che può annullare). E poiché il potere di annullamento – questo sì – non può essere trasferito tramite il meccanismo privatistico del mandato, per gli arbitri l’atto amministrativo è semplicemente materia che fuoriesce dall’accordo arbitrale. Materia che però non è totalmente esclusa dall’accertamento degli arbitri, potendone questi conoscerne incidenter tantum, ai sensi dell’art. 1708, comma 1, c.c., in maniera non vincolante per le parti.
20 XXXXXXXX XXXXXX, Controversie relative ai rapporti di lavoro, in Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Commentario diretto da X. Xxxxxxx e M. D’Antona, III, Milano, 2000, p. 1060.
21 VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, 3 ed., Torino, 2010, p. 6 ss.
22 VILLATA, Controversie di pubblico impiego, arbitrato e disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi, in
Riv.dir.proc., 2000, p. 806.
23 BORGHESI, Arbitrato per le controversie di lavoro, cit., p. 21 s.
Prima di concludere sul punto giova ricordare che, stando a quanto dispone il nuovo testo dell’art. 412-quater, la pubblica amministrazione sembrerebbe tenuta a partecipare all’arbitrato tramite un proprio organo o un proprio dipendente. Infatti il comma 3 e il comma 5, quando consentono all’attore e al convenuto di stare in giudizio, rispettivamente tramite un rappresentante o tramite un avvocato, eccettuano espressamente la p.a.
5. Gli arbitri
A differenza di quanto è avvenuto in altre occasioni nelle quali si è scelto l’arbitro unico (penso ad esempio al contratto collettivo interconfederale ARAN–Organizzazioni sindacali 18 ottobre 201024) l’art. 412-quater opta per la formula classica del collegio di tre arbitri, due dei quali nominati da ognuna delle parti e il terzo d’accordo tra i primi due. In mancanza di accordo l’attore può chiedere che la nomina sia fatta dal presidente del tribunale nel cui circondario si trova la sede dell’arbitrato (oppure, se la sede non è determinata, al presidente del tribunale del luogo nel quale è sorto il rapporto o ha sede l’azienda o la sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore).
Non è menzionato il caso in cui sia il convenuto a non nominare il suo arbitro. Probabilmente l’omissione dipende dal fatto che – come si è visto – la mancata nomina del proprio arbitro da parte del convenuto corrisponde, di regola, alla mancata adesione alla procedura arbitrale. Non si è tenuto tuttavia conto del fatto che, quando ha inizio l’arbitrato, le parti possono essere già vincolate da una clausola compromissoria o da un compromesso precedentemente sottoscritti e che quindi un rifiuto di partecipare alla procedura non sia più possibile. In questo caso è giocoforza ritenere che si applichi, per analogia, il meccanismo previsto per la nomina del terzo arbitro.
24 BORGHESI, I primi contratti collettivi, cit., p. 167 ss.
Altra lacuna deriva dal fatto che nell’art. 412-quater non si menziona minimamente l’accettazione degli arbitri, quasi si trattasse di un optional del quale si può fare a meno. Inutile dire che così non è e che senza l’accettazione degli arbitri non si costituisce il collegio, né la procedura avviata con la proposizione della domanda e la nomina dell’arbitro da parte dell’attore può passare alla fase della trattazione vera e propria. Conseguentemente si deve ritenere che, pur nel silenzio della legge, gli arbitri debbano comunicare la loro accettazione nel termine per il deposito della prima memoria del convenuto (per evitare il rischio che tutte le attività difensive che precedono l’udienza si svolgano a vuoto), ovvero, al più tardi, prima del pagamento del compenso loro spettante, che deve avere luogo almeno cinque giorni prima dell’udienza.
A proposito del compenso, questo è fissato nel 2% del valore della controversia per il presidente e nell’1% (sempre del valore della controversia) per gli arbitri di parte. Il primo deve essere anticipato dalle parti in ragione del cinquanta per cento ognuna e il secondo va corrisposto direttamente da ciascuna delle parti all’arbitro che ha designato. Salvo individuazione della parte sulla quale tali compensi devono gravare con il lodo che decide la controversia, sulla base della regola della soccombenza. La regolamentazione appena riassunta non esclude che si applichi il principio secondo il quale le parti sono obbligate in solido al pagamento dei compensi dovuti agli arbitri e che quindi gli arbitri nominati da una parte possano rivolgersi anche all’altra e il terzo arbitro abbia facoltà di chiedere, anche ad una sola di esse, l’intero compenso25 in forza del mandato congiunto loro conferito.
La legge non dice quale sia la conseguenza del mancato pagamento del compenso del terzo arbitro entro cinque giorni prima dell’udienza. Non applicandosi per analogia l’art. 816-septies c.p.c., non si può negare agli arbitri la facoltà di rinunciare all’incarico per giustificato motivo.
25 Trib. Brescia, 2 gennaio 2003, in Infoutet.
Dovrebbe essere inutile ricordare che gli arbitri non solo devono essere imparziali, dato che sono soggetti a tale obbligo, sia pure sotto il profilo dello svolgimento del loro mandato secondo buona fede26, anche quando procedono in via irrituale, ma devono anche apparire tali. Se così stanno le cose (non essendoci motivo per ritenere che il legislatore del “collegato lavoro” abbia voluto discostarsi da un principio di questa portata), non è bello – per non dire altro – che il nuovo art. 412- quater qualifichi gli arbitri nominati dalle parti quali loro rappresentanti, come se ignorasse che le parti non hanno un loro rappresentante all’interno del collegio e che gli arbitri sono legati alle parti da un mandato congiunto. Mandato congiunto che è alla base del dovere degli arbitri di procedere con equo apprezzamento ai sensi dell’art. 1349 c.c., corrispondente a quello di essere imparziale27. Per di più non è neppure elegante – anche qui per non dire altro – che ognuna delle parti provveda al pagamento del proprio arbitro. Quanto meno perché in questo modo si alimenta la convinzione – ahimè molto diffusa – che l’arbitro nominato dalla parte operi come una sorta di suo difensore all’interno del collegio e che, così facendo, si guadagni il compenso.
Per concludere va ricordato che l’art. 412-quater, comma 2, richiede che il terzo arbitro abbia la qualifica di professore universitario di materie giuridiche o di avvocato cassazionista. La mancanza del detto requisito nel terzo arbitro, nominato dagli altri due o dal presidente del tribunale, a stretto
26 Non mancano tuttavia in giurisprudenza elementi di ambiguità, che ricorrono ad es. in Cass., 29 maggio 2000, n. 7045, in Nuova giur.civ.comm., 2000, 1, II, p. 101 con nota di XXXXX, la quale, per concludere che “l’assensa di terzietà dell’arbitro irrituale designato con mandato collettivo deve necessariamente essere proposta e dedotta attraverso l’azione di cui all’art. 1726 c.c. ossia prospettando una giusta causa di revoca, nonché la conseguente nullità della determinazione che sia nondimeno stata adottata”, parte del presupposto secondo il quale il principio di imparzialità- terzietà, pur avendo rango costituzionale ed essendo valido per qualsiasi tipo di giudizio, “non trova immediata e diretta applicazione nell’arbitrato irrituale”.
27 XXXXXXXXX, La natura dell’arbitrato irrituale, Torino, 2002, p. 235.
rigore, non rientra tra i motivi di annullabilità previsti dall’art. 808-ter, comma 2, nn. 2 e 3, c.p.c.28 Conseguentemente l’alternativa è tra la nullità del lodo per violazione di una norma inderogabile di legge e l’assoluta irrilevanza del vizio se si considera la norma secondo la quale il terzo arbitro deve rivestire una particolare qualifica derogabile, non essendo riscontrabile né la violazione dell’accordo arbitrale, né una vera e propria incapacità dell’arbitro. A me pare che la soluzione da preferire sia la prima, essendo la norma in esame destinata alla realizzazione di un interesse pubblico, quale è quello ad una migliore amministrazione della giustizia arbitrale. Tanto più che, se non si considerassero inderogabili le disposizioni che regolano la nomina degli arbitri, non sarebbe neppure possibile far valere l’irregolare costituzione del collegio, essendo la stessa motivo di annullabilità ex art. 808-ter, comma 2, n. 2 c.p.c. solo in caso di violazione dell’accordo compromissorio.
Per quanto riguarda l’arbitrato di cui all’art. 412, il collegio arbitrale è già costituito quando le parti stipulano l’accordo compromissorio, dato che la loro scelta non può che cadere sulla commissione che ha già esperito il tentativo di conciliazione nella controversia. Se si stesse alla formulazione letterale della norma le parti si troverebbero affidate ad un collegio arbitrale a geometria variabile. Infatti la commissione, secondo quanto dispone l’art. 410, comma 3, è composta dal direttore della Direzione provinciale del lavoro, da quattro rappresentanti dei lavoratori designati dalle rispettive organizzazioni sindacali più rappresentative. Il tentativo di conciliazione, tuttavia, è svolto, in concreto, da una sottocommissione, presieduta dal direttore della Direzione provinciale del lavoro o da un suo delegato, la cui composizione rispecchia quella della commissione e che, per essere validamente costituita, devono esserne membri il presidente e almeno un rappresentante dei
28 Non si può infatti dire né che la nomina degli arbitri non è avvenuta secondo le modalità previste dall’accordo arbitrale, né che gli arbitri siano incapaci. Sui motivi di impugnazione previsti dall’art. 808-ter, comma 2, c.p.c. v. comunque BOVE, Arbitrato irrituale, in La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di X. Xxxxxxxx, Padova, 2010, p. 90 ss.
lavoratori e uno dei datori di lavoro. In questo quadro normativo, l’unica soluzione praticabile sembra quella di riferire la nomina ad arbitri ai membri della sottocommissione che ha effettivamente esperito il tentativo di conciliazione.
6. La procedura
Una delle principali caratteristiche dell’arbitrato, sia rituale che irrituale, è quella di essere sottratto alle norme del codice di procedura civile e di consentire alle parti e, in mancanza di loro accordo, agli arbitri di stabilire le regole di procedura da applicare alla singola controversia.
Tale è il primato dell’autonomia delle parti, che l’art. 832 c.p.c. stabilisce che, in caso di rinvio dell’accordo compromissorio al regolamento di una camera arbitrale, sono le norme di procedura contenute nel primo a prevalere su quelle, eventualmente in contrasto, previste dal secondo29.
Mentre l’art. 412 si limita a stabilire un termine massimo di durata, senza dare altre indicazioni di procedura, il nuovo art. 412-quater deroga in maniera radicale al principio generale sopra enunciato, in quanto prevede una procedura regolata nei minimi dettagli e, per di più, scandita da rigidi termini di preclusione, anch’essi, a dir poco, inconsueti in procedure fondate sull’autonomia privata. Si tratta di vedere se dette norme procedurali siano derogabili e se, quindi, le parti possano modificarle sia nell’accordo arbitrale, sia in corso di procedura.
Per quanto riguarda il termine massimo entro il quale deve essere emanato il lodo, la formulazione dell’art. 412, comma 2, n. 1, sembrerebbe chiara nell’escludere che la disposizione possa essere derogata dalle parti. Riguardo all’art. 412-quater, invece, la soluzione mi sembra più dubbia non essendoci nella legge una chiara presa di posizione in favore dell’inderogabilità ed essendo più
29 Ritiene opportuna questa disposizione XXXXXX, Dell’arbitrato secondo regolamenti precostituiti, in Le nuove discipline, cit., p. 481. Contra, v. CARATTA, Rinvio a regolamenti arbitrali, in Le recenti riforme del proceso civile, II, Bologna, 2007, p. 1898 secondo il quale la previsione “suscita qualche perplessità”.
conforme allo spirito di un istituto dell’autonomia privata, quale è l’arbitrato, lasciare spazio alla volontà delle parti, piuttosto che creare una gabbia procedurale ancora più rigida di quella costruita per il giudice xxxxxx.
In modo palesemente contraddittorio, l’art. 412-quater, mentre al comma 3 prevede che il ricorso introduttivo deve essere sottoscritto dalla parte personalmente (salvo che si tratti di una pubblica amministrazione) o “da un suo rappresentante al quale abbia conferito mandato e presso il quale deve eleggere il domicilio”, al comma 5 dispone che il convenuto deve depositare una “memoria difensiva sottoscritta, salvo che si tratti di una pubblica amministrazione, da un avvocato cui abbia conferito mandato e presso il quale deve eleggere domicilio”.
Essendo inconcepibile che l’attore possa stare in giudizio senza l’ausilio di un avvocato e che, nello stesso procedimento, per il convenuto valga l’obbligo della difesa tecnica, bisogna concludere che in uno dei due punti il legislatore si è sbagliato (e non può certo essere l’interprete a stabilire in quale).
Si può comunque sin d’ora osservare che l’obbligo di essere assistiti da un tecnico del diritto, pur essendo decisamente anomalo nell’arbitrato irrituale, che normalmente non lo richiede, sarebbe tutt’altro che inopportuno in una procedura come quella disciplinata dall’art. 412-quater, che, come ho già detto, è irta di preclusioni ed è quindi difficilmente percorribile senza una guida esperta. D’altra parte è ormai un dato acquisito che la possibilità di stare in giudizio personalmente, soprattutto in controversie contrassegnate da un’istituzionale disparità economica delle parti, costi in termini di venir meno della garanzia della parità delle armi, più di quanto rende in termini di economicità della procedura30.
30 Sul punto x. XXXXXXXXX, Processo e garanzie della persona, II, 2 ed., Milano, 1982, p. 107 ss.
Per concludere sul punto - sicuramente per un mio limite – devo confessare di non aver capito la ragione dell’esclusione delle pubbliche amministrazioni convenute dalla facoltà-obbligo di farsi assistere da un avvocato. Ancora più oscura mi appare la ragione per la quale il comma 2° dell’ art
. 412-quater esonera la pubblica amministrazione dal sottoscrivere il ricorso tramite rappresentante.
Il definitivo carico delle spese legali e il compenso degli arbitri è stabilito dagli arbitri stessi con il lodo ai sensi degli artt. 91, comma 1 e 92 c.p.c., applicando cioè la regola secondo la quale le spese seguono la soccombenza, salvo compensazione per soccombenza parziale reciproca o per altre gravi ed eccezionali ragioni31.
Al comma 12 dell’art. 412-quater è previsto una sorta di gratuito patrocinio per il lavoratore, affidato ad un apposito fondo istituito (e, pare di capire, finanziato) dalla contrattazione collettiva. Fondo che potrebbe rimborsare al lavoratore il compenso versato all’arbitro da lui nominato e al presidente. E’ appena il caso di osservare che restano fuori le spese sostenute per la difesa ed il compenso eventualmente corrisposto all’arbitro nominato dal datore di lavoro in caso di xxxxxxxxxxx del lavoratore, con conseguente condanna dello stesso ex art. 91 c.p.c.
Quanto al fondamento del diritto al compenso maturato dagli arbitri e le modalità tramite le quali farlo valere valgono le regole generali normalmente seguite da dottrina e giurisprudenza, che fanno riferimento all’art. 1709 c.c., sul carattere naturaliter oneroso del mandato, e ritengono inapplicabile l’art. 814 c.p.c, con conseguente necessità di fare ricorso alla normale tutela di cognizione32.
31 Sull’analoga previsione contenuta nel vecchio testo dell’art. 412-ter, comma 4, c.p.c. v. BORGHESI, La giurisdizione del pubblico impiego, cit., p. 484 ss.
32 X. XXXXX, L’arbitrato irrituale, cit., p. 186.
7. Il lodo
Il termine entro il quale il lodo deve essere emanato non è previsto in modo unitario dall’art. 412-
quater, ma si ottiene sommando una serie di termini intermedi, scanditi nel modo che segue:
a) un termine di trenta giorni dalla notifica del ricorso introduttivo, entro il quale il convenuto deve nominare il proprio arbitro e i primi due arbitri devono nominare il terzo (come già si è detto non è fissato un termine per la nomina dell’arbitro del convenuto, il quale però deve provvedere in modo da lasciare il tempo agli arbitri di parte per nominare il presidente);
b) un termine di trenta giorni dalla scelta del terzo arbitro per il deposito da parte del convenuto di una memoria contenente le sue difese ed, in particolare, le eccezioni, le domande riconvenzionali e le prove;
c) un termine di dieci giorni dal deposito della memoria difensiva entro il quale l’attore può replicare “senza modificare il contenuto del ricorso”;
d) un termine di dieci giorni dal deposito della replica perché il convenuto possa depositare una controreplica, senza modificare la memoria difensiva;
e) un termine di trenta giorni dalla controreplica entro il quale gli arbitri devono fissare la prima udienza;
f) un termine di non più di dieci giorni per rinviare l’udienza nel caso in cui sia necessario assumere prove;
g) un termine di venti giorni dall’udienza di discussione entro il quale emanare il lodo.
La frammentazione dei termini nel modo che si è appena descritto fa sì che ad avere rilievo ai fini del deposito del lodo sia unicamente l’ultimo, cosicchè a determinare la decadenza degli arbitri con il conseguente venir meno dei loro poteri decisori è la decorrenza del termine di venti giorni
dall’udienza di discussione senza che il lodo sia emanato. Decadenza che, peraltro, può essere fatta valere come motivo per ottenere l’annullamento del lodo ex art. 808-ter, comma 2, c.p.c., solo se il termine è previsto come essenziale con apposito accordo delle parti. Come ho già avuto occasione di osservare, non esistono elementi che inducano a considerare inderogabili le norme di procedura previste dall’art. 412-quater.
Non penso si possa applicare per analogia l’art. 820, comma 4, c.p.c. che consente agli arbitri rituali la facoltà di auto-proroga in alcuni casi espressamente previsti dalla legge, né, tanto meno, il comma 3, lett. b) dello stesso art. 820, che prevede il ricorso degli arbitri stessi al giudice per ottenere l’estensione del termine per l’emanazione del lodo33.
Sul carattere negoziale del lodo e sul richiamo agli artt. 1372 e 2113, comma 4, c.c. già mi sono soffermato, così come mi è già capitato di ricordare che il lodo può acquistare efficacia di titolo esecutivo. Vorrei solo aggiungere che, nonostante l’intervento del giudice xxxxxx per il controllo e l’omologa, ci troviamo in presenza di un titolo esecutivo indubbiamente stragiudiziale34, dato il carattere di “determinazione contrattuale” del lodo arbitrale.
Gli artt.412, comma 3, 412-quater, comma 10, prevedono che il lodo, oltre ad essere sottoscritto dagli arbitri, vada anche autenticato. La detta formalità che non è di regola richiesta nei vari tipi di arbitrato rituale o irrituale presenti nel nostro ordinamento35, complica l’iter procedurale, soprattutto nel caso dell’arbitrato di cui all’art. 412-quater, nel quale manca una figura equiparabile al
33 Prima delle modifiche apportate con la legge n. 40/2006 XXXXXXXXX, L’arbitrato irrituale, cit., p. 234 riteneva applicabile all’arbitrato irrituale l’art. 820, comma 2, c.p.c.
34 Sulle conseguenze del trasferimento dei titoli in questione dal n. 2 al n. 1 dell’art. 474, comma 2, c.p.c., x. XXXXX,
Titolo esecutivo, in Recenti riforme, cit., I, p. 575 ss.
35 L’accertamento dell’autenticità ad opera del direttore della Direzione provinciale del lavoro o di un suo delegato è richiesto con riferimento al verbale di conciliazione in sede sindacale dall’art. 411, comma 3, c.p.c.
funzionario della Direzione provinciale del lavoro, che presiede il collegio nel caso previsto dall’art. 412 e può quindi provvedere alla bisogna.
8. Diritto ed equità
Gli arbitri decidono secondo diritto a meno che le parti li abbiano incaricati di decidere secondo equità. Il comma 2, n. 2 dell’art. 412 e il comma 3 dell’art. 412-quater prevedono, con identica dizione, che l’attore nel ricorso introduttivo deve fare riferimento alle norme “a sostegno della sua pretesa e l’eventuale richiesta di decidere secondo equità nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento” e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari.
Si deve innanzitutto osservare che la disposizione in esame smentisce – se mai ce ne fosse bisogno
– l’idea avanzata da alcune pronunce giurisprudenziali, secondo la quale vi sarebbe una vera e propria incompatibilità tra arbitrato irrituale e giudizio secondo diritto36.
Nel nostro caso infatti dalla formulazione normativa discende che è alla legge che gli arbitri devono attenersi nella normalità dei casi e che, anche quando sono autorizzati a discostarsene, non possono mai perdere di vista i principi che regolano lo specifico rapporto loro sottoposto.
Bisogna poi dire che il riferimento ai “principi regolatori della materia” è stato inserito in seconda battuta, come risposta ai rilevi mossi dal Presidente della Repubblica, il quale aveva notato che i principi generali dell’ordinamento non ricomprendono necessariamente (o comunque è dubbio che ricomprendano) “tutte le ipotesi di diritti indisponibili, al di là di quelli costituzionalmente garantiti”. Così facendo però il legislatore del “collegato” ha creato una situazione paradossale, perché in questo modo il lodo di equità finisce per essere assoggettato ad un controllo molto più
36 V. da ultimo Trib. Bologna, 17 aprile 2008, in Riv.arb., 2010, p. 121 s. con nota di CAMPIONE, Xxxxx presunta incompatibilità tra arbitrato irrituale e pronuncia secondo diritto, nonché Cass., 10 ottobre 2003, n. 15150, in Infoutet.
rigoroso di quello cui è sottoposto il lodo diritto. Infatti, mentre il secondo non è censurabile per violazione di legge (a parte quanto si è detto sulle materie che superano i limiti tracciati dall’art. 2113 c.c.), il primo può essere impugnato per erronea applicazione di norme (quelle che contengono principi regolatori della materia) che non sono necessariamente di ordine pubblico e la cui violazione non può quindi essere fatta valere contro il lodo di diritto.
Probabilmente non è questo il risultato che voleva ottenere il legislatore. Conseguentemente sarebbe forse il caso di assoggettare la disposizione in esame ad una interpretazione correttiva, ritenendo che il rispetto dei principi in questione sia imposto anche (e mi verrebbe da dire a maggior ragione) agli arbitri cui non è consentito di decidere secondo equità. Interpretazione che, tra l’altro, eviterebbe il venirsi a creare di una disparità di trattamento del tutto irrazionale e quindi incostituzionale per violazione del principio di parità.
Senza contare che la regola, enunciata dalla Corte costituzionale per il giudizio di equità, secondo la quale il giudice, nel discostarsi dallo stretto diritto, deve comunque attenersi ai “medesimi principi cui si ispira la disciplina positiva”37, pena la violazione dell’art. 24, comma 2, cost., non può non valere, a fortiori, per quello di diritto, non censurabile sotto il profilo della violazione di legge. Con la conseguenza che la mancata estensione della norma in commento determinerebbe un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale.
Anche se la legge è muta in proposito, si deve ritenere che la disposizione che gli arbitri decidano secondo equità debba essere basata su di un accordo tra le parti e che, quindi, quella contenuta nel ricorso introduttivo non può che essere una proposta, cui il convenuto può aderire o meno, Sempre
37 Corte cost., 6 luglio 2004, n. 206, in Xxxx.xx., 2005, p. 677, secondo la quale il giudizio di equità “deve trovare i suoi limiti in quel medesimo ordinamento nel quale trovano il loro significato la nozione di diritto soggettivo e la relativa garanzia di tutela giurisdizionale, il che era del resto ciò che esprimeva il testo previgente della norma attraverso la previsione dell’osservanza dei “principi regolatori della materia”.
nel silenzio della legge, non si può escludere che l’opzione per il giudizio di equità sia contenuta nel compromesso o nella clausola compromissoria.
Molti hanno lamentato che il lodo pronunciato secondo equità diventerebbe sostanzialmente inataccabile, salvo i motivi dell’art. 808-ter c.p.c e salvo il mancato “rispetto dei principi generali dell’ordinamento” e dei principi che regolano la materia38.
Come ho avuto modo di osservare in altra sede39, a me non pare che le cose stiano in questi termini. E’ infatti pacifico in dottrina e in giurisprudenza che l’arbitro irrituale non può disapplicare le norme inderogabili40, le quali quindi rappresentano un limite al potere di decidere secondo equità. E se si considera che nel diritto del lavoro le norme inderogabili non sono l’eccezione, ma la regola, è giocoforza concludere in linea di principio, che, l’area di insindacabilità–inoppugnabilità del lodo, anche di equità, dovrebbe essere ristretta al giudizio di fatto e a quello relativo all’applicazione di norme derogabili.
La disposizione che gli arbitri decidano secondo equità implica infatti – come è stato efficacemente osservato – “una sorta di disposizione indiretta dei diritti sottesi alla lite che i soggetti contraenti affidano all’arbitro, il quale, per il fatto stesso di discostarsi dall’applicazione del diritto, emette una decisione “costitutiva” per il presente, non una accertativa per il passato”41. Disposizione che, riguardo alle norme inderogabili, non appartiene alle parti e, per questo motivo, non può essere trasmessa agli arbitri tramite il mandato implicitamente conferito con la nomina. Tanto che,
38 V. ad. es., CENTOFANTI, Le nuove norme, cit., p. 334 s.
39 BORGHESI, Le nuove frontiere, cit., p. 17
40 Cass., 4 maggio 1994, n. 4330, in Riv.arb., 1994, p. 499 e, per un’ampia disamina del tema, FINOCCHIARO, L’equità del giudice di pace e degli arbitri, Padova, 2001, p. 112 ss.
41 BERLINGUER, La compromettibilità per arbitri, I, Torino, 1999, p. 95 ss.
secondo un’accreditata posizione dottrinale, della quale non mancano echi anche nella giurisprudenza, “le posizioni giuridiche tutelate dalle regole in discorso non sono suscettibili di formare oggetto di compromesso perché inderogabili dalla volontà dei soggetti”42. Tuttavia, anche chi non accetta la tesi della inarbitrabilità delle norme inderogabili non nega il loro carattere indisponibile, dal quale si fa discendere la possibilità di impugnare il lodo, sia rituale che irrituale, per far verificare all’autorità giudiziaria se tali norme sono state correttamente applicate43. Quanto sopra detto mi pare dimostri che il lodo in questione non è sottratto all’impugnazione per violazione di norme inderogabili perché pronunciato secondo equità, ma semmai perché inoppugnabile ex art. 2113, comma 4, c.c. (e nei limiti in cui la detta norma garantisce l’inoppugnabilità). Con l’ulteriore conseguenza che, anche sotto questo profilo, una differenza tra il regime impugnatorio del lodo di equità e di quello di diritto, in realtà, non esiste.
Quanto al profilo dell’equità cui gli arbitri del lavoro si dovranno attenere, il riferimento ai “principi regolatori della materia”, in aggiunta a quelli “generali dell’ordinamento”, si xxxxxx di ridurne l’ambito, stringendo le maglie del controllo che il giudice togato può esercitare sul lodo. Tuttavia, per un verso, non modifica quanto si è detto a proposito del necessario rispetto di alcune norme assolutamente inderogabili e, per altro verso, nel suo ambito di operatività (che è anche quello delle norme derogabili) non cessa di essere quell’”araba fenice” che è stata introdotta con la legge n. 339/1984 a proposito del conciliatore e che è sopravvissuta a se stessa, dopo essere stata abrogata, grazie ad una pronuncia della consulta che ha ritenuto costituzionalmente illegittimo l’art. 113, comma 2, c.p.c. nella parte in cui non prevede che il giudice di pace, nel giudizio secondo equità,
42 XXXXXXXXX, Arbitrato d’equità e norme inderogabili, in Riv.arb., 1992, p. 330
43 LUISO, L’impugnazione del lodo equitativo per violazione di norme inderogabili, in Riv.arb., 1994, p. 503.
debba osservare i principi informatori della materia44 e ad un intervento del legislatore (d.lgs n. 40/2006), che ha modificato il comma 3 dell’art. 339 c.p.c., prevedendo che le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità sono appellabili oltre che per violazione delle norme costituzionali e comunitarie, anche per violazione “dei principi regolatori della materia”.
Infatti, nonostante i lunghi anni di sperimentazione giurisprudenziale, culminati anche in sentenze delle sezioni unite della Cassazione, che aspiravano a dire una parola, se non proprio definitiva, almeno chiarificatrice45, nonostante l’uso della norma in esame come una sorta di barriera costituzionale contro l’eccesso di discrezionalità insito nell’equità puramente sostitutiva (con conseguente sua assunzione nel pantheon dei principi di rilevanza costituzionale), l’auspicata chiarezza non è stata fatta in generale, né, tanto meno, potrà essere fatta in tempi ragionevolmente brevi in un settore come quello lavoristico, dal quale, sino ad ora, l’equità è stata bandita e nel quale quindi non c’è stata l’occasione di riflettere su quali siano i principi che regolano (o ispirano) la materia.
Resta da dire della locuzione “anche derivante da obblighi comunitari”, riferita ai principi generali dell’ordinamento e a quelli regolatori della materia.
Xxxxx restando che i principi generali del diritto comunitario sono anche principi generali del nostro ordinamento, in virtù della loro immediata applicazione, non ci sarebbe stato bisogno di richiamarli espressamente46. E’ quindi probabile che il legislatore della riforma non abbia usato a caso le parole “obblighi comunitari”, ma abbia voluto alludere a quei principi enunciati da fonti
44 Corte cost., 6 luglio 2004, n. 206 cit.
45 Cass. Sez. un., 15 giugno 1991, n. 6794, in Giust.civ., 1991, I, p. 1965 ss.
46 XXXXXXXXXXX, L’equità del giudice di pace, cit., p. 134 nota che il giudice di pace “non può enunciare decisioni contrastanti con norme comunitarie vincolanti”.
comunitarie e non direttamente applicabili nel nostro ordinamento, quali sono le direttive, le raccomandazioni e i pareri47.
9. L’impugnazione del lodo
Anche per quanto riguarda l’impugnazione del lodo il percorso seguito dal legislatore non è stato rettilineo, nel senso che negli art. 412, ultimo comma e 412-quater, comma 11, nella versione precedente all’intervento del Capo dello Stato si rinviava semplicemente all’art. 808-ter c.p.c. con, in aggiunta, un non chiarissimo richiamo all’art. 829, commi 4 e 5, c.p.c.
Nel testo definitivo dei commi sopra richiamati invece si ripropone, alla lettera, quanto disposto dall’art. 412-quater ante riforma. Tale testo non si può davvero dire che sia sperimentato, anche se è in vigore da diversi anni (d.lgs. n. 387 del 1998). Tuttavia, anche se le pronunce giurisprudenziali in materia si contano sulle dita di una mano48, la dottrina ha avuto modo di fornire la sua interpretazione49. In buona sostanza, per restare alle linee essenziali del sistema mutuato dal vecchio “arbitrato irrituale previsto dai contratti collettivi”, si può dire quanto segue.
A) In primo luogo l’”impugnazione” del lodo di cui agli artt. 412 e 412-quater, nonché di quello emanato in esito agli arbitrati gestiti dagli organi di certificazione, è ricondotta all’archetipo dell’art.
47 TESAURO, Diritto dell’Unione Europea, 6 ed., Padova, 2010, p. 150 ss.
48 Cass., 23 febbraio 2006, n. 4025, in Infoutet; Cass., 4 marzo 2008 n. 5863, ivi; Cass., 2 febbraio 2009, n. 2576, ivi stabilivano che l’impugnazione di cui al vecchio art. 412-quater c.p.c. si applicasse anche agli arbitrati previsti dalla legge. Trib. Bologna, 10 febbraio 2009, ivi, statuiva che il lodo irrituale ha natura negoziale e non può quindi essere censurato per errori di giudizio, sia di fatto che di diritto, ma solo per “i vizi che possono vulnerare le manifestazioni di volontà negoziale.
49 V. ad es. XXXXXXX, L’arbitrato nelle controversie individuali di lavoro, in Il processo del lavoro, a cura di D. Borghesi, in
Diritto del lavoro, diretto da X. Xxxxxxx, XX, Xxxxxx, 0000, p. 151 ss.
808-ter c.p.c., nel senso che la parte soccombente può far valere le doglianze previste dalla norma citata davanti al tribunale, che ne conosce come giudice di primo grado, secondo il rito del lavoro.
Anche se la formulazione letterale della norma in esame, facendo riferimento alle “controversie aventi ad oggetto la validità del lodo arbitrale irrituale, ai sensi dell’art. 808-ter”, potrebbe far pensare il contrario, i motivi di doglianza proponibili non sono solo quelli enumerati dal codice di procedura civile, ma anche quelli basati sulle norme sostanziali che non sono coperte dall’inoppugnabilità sancita dall’art. 2113, comma 4, c.c. o sui principi generali dell’ordinamento o, ancora, su quelli che regolano la materia, nonché su quelle processuali dettate dagli artt. 412 e 412- quater se ed in quanto si dovessero considerare inderogabili (cosa che, come ho già detto, a me non pare, se non nel caso del termine massimo per l’emanazione del lodo previsto dall’art. 412).
Resta dunque esclusa la censurabilità del giudizio di fatto, se non sotto il profilo del c.d. errore revocatorio50, nonché di quello di diritto relativamente all’applicazione delle norme di legge e di contratto collettivo derogabili, oltre a quelle inderogabili rientranti nell’area dell’annullabilità.
B) L’impugnazione pur essendo disciplinata dalle normali regole del giudizio del lavoro in primo grado, presenta degli elementi di specialità, rappresentati dal breve termine di trenta giorni dalla notifica del lodo entro il quale la domanda deve essere depositata, dalla competenza del tribunale del lavoro del luogo nel quale l’arbitrato ha avuto sede e dal fatto che il tribunale stesso decide in unico grado.
C) Non mi soffermo sui delicati problemi suscitati dal sistema di impugnazione in esame, del quale ho avuto occasione di occuparmi in precedenti scritti51, cui faccio rinvio, limitandomi a ricordare che resta dubbio se l’impugnazione sia soggetta al solo termine breve decorrente dall’impugnazione
50 Sull’errore revocatorio x. XXXXXXXXX, La natura dell’arbitrato, cit., p. 242, testo e nota 290.
51 BORGHESI, La giurisdizione del pubblico impiego, cit., p. 286 ss.
del lodo o se decorra anche un termine lungo dalla sua sottoscrizione, in analogia con quanto dispone l’art. 828, comma 2, c.p.c. per l’arbitrato rituale. Altrettanto dubbio è se il tribunale che dichiari nullo il lodo debba o, quanto meno, possa anche pronunciare sul merito.
L’aver disciplinato l’impugnazione del lodo irrituale come un’actio nullitatis esperibile entro un ristretto termine di decadenza fa sì che, trascorso tale termine, non possa più essere fatta valere la nullità assoluta, neppure indirettamente, tramite cioè la relativa eccezione.
Per quanto riguarda la legittimazione a far valere i vizi del lodo, il riferimento all’art. 2113 c.c. non deve far pensare che ci sia da distinguere tra lavoratore e datore di lavoro, non potendo che essere la soccombenza l’unico punto di riferimento.
D) Particolarmente poco felice è la disciplina (sempre mutuata dal vecchio art. 412-quater) dell’esecutorietà del lodo irrituale. Efficacia esecutiva che può essere acquistata dal lodo stesso non dal momento in cui è produttivo di effetti tra le parti, ma da quello in cui è definitivo o ha comunque superato il vaglio del tribunale, anche se è ancora proponibile o è stato proposto il ricorso per cassazione. Inutile aggiungere che in questo modo la regola generale viene rovesciata in un settore come quello delle controversie di lavoro, nel quale l’esecutorietà immediata della pronuncia di primo grado è considerata uno degli elementi essenziali per garantire l’effettività della tutela soprattutto del lavoratore52.
10. L’arbitrato irrituale e il termine per l’impugnazione del licenziamento
52 Tanto più che dopo la riforma introdotta con la legge n. 353 del 1990, tutte le sentenze di condanna pronunciate in primo grado sono provvisoriamente esecutive di diritto (x. XXXXXXXXXXXXX, La provvisoria esecuzione e l’inibitoria nel processo civile, Milano, 2010, p. 171 ss.). Può acquistare efficacia esecutiva, previo deposito ex art. 411 c.p.c. e nonostante la proposizione dell’impugnazione, il lodo pronunciato nell’arbitrato irrituale in una tema di licenziamenti previsto dalla legge n. 108 del 1990, sul quale v. BORGHESI, L’arbitrato per le controversie di lavoro, cit., p. 49.
L’art. 32 del “collegato lavoro”, nella sua prima versione, ha novellato i primi due commi della legge n. 604/1966, mantenendo il meccanismo dell’impugnazione del licenziamento tramite atto scritto, anche extragiudiziale, aggiungendo però che l’impugnazione perde efficacia “se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo di conciliazione o di arbitrato”. Successivamente il termine è stato portato a duecentosettanta giorni ed è stata aggiunta la dizione: “ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso”.
Oltre alla domanda giudiziale valgono quindi ad impedire la decadenza anche gli atti introduttivi del tentativo di conciliazione e dell’arbitrato, purchè portati a conoscenza dell’altra parte nel termine. Termine che vale anche nel caso in cui sia il datore di lavoro ad agire allo scopo di accertare la legittimità del licenziamento. Intervenuta la decadenza infatti la sua azione non è più sorretta dall’interesse ad agire.
Se il tentativo di conciliazione o l’arbitrato sono rifiutati o su di essi non si raggiunge un accordo, il ricorso giudiziale deve essere depositato, sempre a pena di decadenza, entro sessanta giorni “dal rifiuto o dal mancato accordo”.
Il triplice ordine di decadenze creato dal legislatore della riforma è abbastanza complicato e, soprattutto, non sempre consente di individuare con la dovuta precisione il momento dal quale decorre il termine di duecentosettanta giorni (se dalla scadenza del termine precedente o dall’effettiva notifica dell’atto di impugnazione) né il giorno esatto in cui hanno avuto luogo il rifiuto o il mancato accordo cui la norma fa riferimento.
Altrettanto problematica si può presentare l’individuazione del giorno in cui il termine in oggetto inizia a decorrere quando nei duecentosettanta giorni dall’impugnazione stragiudiziale è proposta
una domanda di arbitrato. Anche a questo proposito bisognerà passare in rassegna i vari tipi di procedura individuati dalla legge e dalla contrattazione collettiva per verificare con quali modalità si realizzi, in ciascuno di essi, il mancato accordo sull’inizio o sulla prosecuzione della procedura.
In primo luogo bisogna dire che l’accordo arbitrale può essere stipulato prima dell’instaurazione della relativa procedura, anche se esclusivamente nella forma del compromesso, dato che le controversie aventi ad oggetto il licenziamento sono escluse dalla clausola compromissoria. In questo caso basta la notifica della domanda arbitrale ad evitare la decadenza, non essendo ipotizzabile un rifiuto del convenuto.
Lo stesso effetto impeditivo della decadenza deriva dalla stipulazione dell’accordo “per la risoluzione della lite” che segna l’inizio della procedura arbitrale ai sensi dell’art. 412, alinea. Le cose vanno in modo diverso quando ci sono disposizioni come quella contenuta nel comma 4 del nuovo art. 412-quater c.p.c., secondo la quale la parte cui è stata notificata la domanda di arbitrato, se “intende accettare la procedura di conciliazione e arbitrato nomina il proprio arbitro di parte, il quale, entro trenta giorni dalla notifica del ricorso procede, ove possibile concordemente con l’altro arbitro, alla scelta del presidente e della sede del collegio”. E’ infatti chiaro che la mancata notifica ad opera del convenuto della nomina del proprio arbitro di parte realizza il mancato perfezionamento dell’accodo compromissorio. C’è solo da segnalare che manca l’indicazione del termine entro il quale le risposta del convenuto deve essere formulata. Ragion per cui per individuare il dies a quo dal quale decorre il termine per adire il giudice non si può che fare riferimento al termine per nominare il proprio arbitro fissato dall’attore al convenuto53 o, in mancanza, allo stesso art. 412-quater, comma 4, secondo il cui tenore entro trenta giorni dalla notifica dell’atto introduttivo gli arbitri di parte devono accordarsi per la nomina del terzo.
53 Così XXXXXXXXX, Il cosiddetto “collegato lavoro”, cit., p. 254 s.
Resta da stabilire che cosa accada nel caso in cui l’arbitrato si estingue (ammesso che un simile termine possa essere riferito all’arbitrato irrituale) o, comunque, viene abbandonato. A me pare che nei casi appena segnalati il lavoratore non decada dal diritto di impugnare il licenziamento (come accade se si estingue il processo ordinario), ma che inizi a decorrere il termine di sessanta giorni per adire il giudice togato, così come sarebbe accaduto se una delle parti avesse rifiutato l’arbitrato. Una simile soluzione è sostenibile se si interpretano i termini “rifiuto” o “mancato” accordo come allusivi ad eventi che possono anche essere sopravvenuti, oltre che collocarsi all’inizio della procedura. Né si può obiettare che la disparità di trattamento tra il giudizio nel corso del quale l’estinzione determina l’operare della decadenza54 e l’arbitrato sia priva di giustificazione. E’ infatti perfettamente comprensibile che il legislatore abbia lasciato una via di scampo al lavoratore in un contesto, quale quello dell’arbitrato, soprattutto irrituale, in cui la disciplina del procedimento è ridotta al minimo e quella dell’estinzione è del tutto carente.
Anche se la legge non lo prevede espressamente ritengo che, nel termine di sessanta giorni dal rifiuto del tentativo di conciliazione, si possa proporre la domanda di arbitrato piuttosto che quella giudiziale, salvo poi vedere se, nel caso in cui venga rifiutato anche questo, decorra un ulteriore termine per depositare il ricorso giudiziale.
Prima di concludere vale la pena di notare che non è chiara l’utilità del ricordato riferimento alla possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso, essendo regola di buon senso, ancor prima che giuridica, quella secondo la quale le preclusioni non valgono per le prove formatesi o venute a conoscenza della parte in epoca successiva al loro operare55.
54 Cass., 14 aprile 1994, n. 3505, in Foro it., 1995, I, c. 2229.
55 Quanto meno ricorrono i presupposti per la rimessione intermini ex art., 153, comma 2, c.p.c., sulla quale x. XXXXX,
Il processo civile, II, 2 ed., Torino, 2010, p. 70 ss.
11. Un tentativo di trarre qualche conclusione
Il “collegato lavoro” è appena diventato legge e non è quindi il momento per fare un bilancio, neppure preventivo. In chiusura mi limiterò quindi ad indicare i temi che mi sembrano più critici e che, con ogni probabilità, saranno determinanti al fine di tracciare la nuova identità dell’arbitrato del lavoro nel nostro paese.
a) Sembra banale dirlo, ma l’arbitrato non può avere successo se non ne è condivisa la filosofia da parte di tutti coloro i quali si muovono sulla scena sindacale. Filosofia che mal si concilia con il conflitto, come atteggiamento pregiudiziale e permanente, ma neanche richiede necessariamente forme avanzate di collaborazione quali la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese. Ciò che per certo è indispensabile è la fiducia nella contrattazione e nella sua capacità, se non di risolvere i conflitti individuali, quanto meno di creare gli organi e le regole per affrontarli. Questa “concertazione delle regole” (che altro non è se non la capacità di accordarsi per gestire il disaccordo) dovrebbe, per un verso, fugare il sospetto che ci si trovi di fronte ad un semplice abbassamento del livello della tutela, diretto ad avvantaggiare la parte economicamente più forte e, per altro verso, rappresentare (non un, ma) il valore aggiunto, dato proprio dal fatto che questo modo di decidere può essere quello che capta ed esprime in forma diretta i valori che le parti sociali condividono.
Bisogna anche che organizzazioni sindacali e governo siano seriamente intenzionati ad investire nelle strutture arbitrali che, diversamente, sono destinate ad esistere solo sulla carta, come è accaduto sino ad oggi. E che si possano avere fondati dubbi sulla serietà delle intenzioni del legislatore di puntare sull’arbitrato è dimostrato dalla presenza nel testo del “collegato lavoro” di
indicatori sicuramente significativi, pur nella loro apparente modestia. Uno fra i tanti è rappresentato dall’aver optato per il collegio, piuttosto che per l’arbitro unico, indicando altresì alcuni parametri diretti a garantire la “qualità” del terzo arbitro, per poi stabilire che il compenso spettante a quest’ultimo è pari al 2% del valore della causa. In buona sostanza esiste un vistoso divario tra la pretesa di avere un organo giudicante collegiale e caratterizzato da un presidente qualificato e la modestia del compenso allo stesso riconosciuto. Sarebbe stato quindi meglio puntare sull’arbitro unico, con il risultato di poter aumentare il compenso e di eliminare gli arbitri di parte, la cui figura è disegnata nel “collegato” in modo, se possibile, più ambiguo del solito.
In ogni caso è essenziale che organizzazioni datoriali e sindacati dei lavoratori si diano da fare per creare un ceto di xxxxxxx00 del lavoro, che attualmente non esiste, capace, se non di rinverdire i fasti dei probiviri dell’industria, quanto meno di dare una risposta alla domanda di giustizia che viene dal mondo del lavoro con modalità non necessariamente identiche a quelle del giudice togato, ma con pari credibilità. A questo fine mi pare in primo luogo indispensabile l’istituzione di camere arbitrali capaci non solo di organizzare il lavoro degli arbitri, ma anche di garantirne la qualità.
b) Inoltre è forse venuto il momento di chiedersi quale sia il motivo per cui il patrio legislatore, con una coerenza poche altre volte mostrata e senz’altro degna di miglior causa, abbia puntato sull’arbitrato irrituale, per poi cercare, tramite un complicato maquillage, di farlo assomigliare a quello rituale. Dato che ormai si è smarrita la memoria dei motivi socio-politici che hanno indotto ad introdurre (si potrebbe dire ad inventare) l’arbitrato irrituale nelle controversie di lavoro, sarebbe più pratico utilizzare quello rituale che ha una sua precisa disciplina ed è strutturato in modo tale da consentire l’ottenimento di un risultato che, per la via irrituale, può essere raggiunto solo attraverso artifici legislativi, spesso contraddittori o di oscura interpretazione.
00 X. XXXXXXXX, Xx riforma della certificazione e dell’arbitrato, cit., p. 151.
c) Xxxxxx alla clausola compromissoria, gli ultimi interventi hanno dato una risposta ai dubbi sollevati dai primi commentatori e, molto più autorevolmente, dal Capo dello Stato. Resta da vedere come gli organi di certificazione sapranno svolgere il difficile compito di accertare quanto la clausola compromissoria corrisponda, anche nella formulazione, alla libera volontà del lavoratore. Anche se non è affatto scontato che esista nei datori di lavoro lo sfrenato desiderio di far firmare clausole compromissorie ai loro dipendenti.
d) Venendo all’equità, ho già notato che, paradossalmente, il legislatore prevede un controllo più rigoroso per il lodo di equità che non per quello di diritto e che solo con un artificio interpretativo le due ipotesi possono essere ricondotte a parità. La qual cosa significa che l’aver introdotto il giudizio di equità in un arbitrato già di per sé sottratto all’impugnazione per violazione di legge non ha reso il lodo più insindacabile di quanto già non lo fosse quello di diritto. L’unica cosa che si può dire in proposito è: molto rumore per nulla.
e) Il problema più delicato – che, come si è visto, è comune all’arbitrato di equità e a quello di diritto – sta nel verificare sino a dove può estendersi il sindacato del giudice sul lodo negoziale. Problema che consiste nello stabilire quali siano i contorni dell’inoppugnabilità-annullabilità ex art. 2113, comma 4, c.c. e quali siano i temi, genericamente collegati alla nullità, che ne fuoriescono. Può aiutare riflettere sulle distinzioni operate dalla giurisprudenza tra diritti già maturati e diritti futuri o fra diritti primari e diritti secondari, secondo la casistica che si è più sopra presa in considerazione. L’occasione però potrebbe essere propizia per una rimeditazione dell’intera materia.
Altrettanto problematico sarà adattare al settore giuslavoristico il concetto di “principi regolatori della materia”, corrispondenti, secondo quanto dice la Corte di cassazione57, a quelle “norme fondamentali del rapporto dedotto in giudizio [tratte] dal complesso delle norme con le quali il legislatore lo aveva disciplinato”.
Operazione questa che lascia alla giurisprudenza ampi margini di discrezionalità. E’ infatti facile capire che una cosa è far coincidere la “materia” con il rapporto di lavoro subordinato in generale o con quello privato o ex pubblico. Tutt’altra cosa invece è cercare di estrapolare i “principi regolatori” da ambiti molto più ristretti, quali, ad esempio, il licenziamento o la tutela della salute.
f) Xxxxxx, ma non ultimo, ci si deve rammaricare che il legislatore non abbia colto l’occasione offerta dal rinvio alle camere operato dal Capo dello Stato per correggere i numerosi errori dei quali il testo del nuovo art. 412-quater è disseminato. E’ infatti vero che ognuna delle segnalate inesattezze, singolarmente considerata, non rappresenta certo una tragedia. Tuttavia è altrettanto vero che non si tratta solo di “inestetismi”, ma di piccoli ostacoli destinati a rendere più faticoso un percorso già di per sé accidentato.
57 Cass., 21 febbraio 2007, n. 4055, in Infoutet.