Corso di Dottorato di Ricerca in DIRITTO DEI MERCATI EUROPEI E GLOBALI. CRISI, DIRITTI E REGOLAZIONE - XXXIV ciclo
Università degli Studi della Tuscia di Viterbo Dipartimento di Studi linguistico-letterali, storico-filosofici e giuridici
Corso di Dottorato di Ricerca in
DIRITTO DEI MERCATI EUROPEI E GLOBALI. CRISI, DIRITTI E REGOLAZIONE - XXXIV ciclo
IL MERCATO DEI CONTRATTI PUBBLICI TRA LA TUTELA DELLA CONCORRENZA E L’ ESERCIZIO DELLA DISCREZIONALITÀ AMMINISTRATIVA
Settore scientifico-disciplinare Ius/10
Tesi di dottorato di:
Dott. ssa Xxxxxxxxxx Xxxxxxx
Coordinatore del corso Tutore
Xxxx. Xxxxx Xxxxx Xxxx. Xxxxxxxxxx Xxxxxx
A.A. 2020/21
Indice
pag.
Introduzione e delimitazione del campo di indagine 5
Capitolo I
La tutela della concorrenza nella Costituzione italiana e la Pubblica Amministrazione come acquirente nel
MERCATO
1. La concorrenza e le sue dimensioni: premesse ricostruttive 11
2. Il mercato nella Costituzione italiana: la Costituzione economica e l’art. 41 Cost. 17
2.1. La tutela della concorrenza nella Costituzione: dal riconoscimento della libertà di iniziativa economica privata all’affermazione del principio della libera concorrenza 29
2.2. Le “potenzialità concorrenziali nascoste” dell’art. 41 Cost. 38
3. Il ruolo della Pubblica amministrazione nel mercato 41
3.1. segue: La Pubblica amministrazione come acquirente nel mercato: La procedura di gara come “micro-mercato” e lo Stato “banditore” 45
3.2. L’esercizio del potere discrezionale e la concorrenza per il mercato: premessa e rinvio 52
Capitolo II
Il mercato dei contratti pubblici tra tutela della concorrenza ed esercizio della discrezionalità amministrativa
Sezione I
L’evoluzione del quadro normativo e i principi generali della materia
1. La tutela della concorrenza nell’evidenza pubblica: premessa 61
2. L’evidenza pubblica e la concezione contabilistica 63
2.1. La tutela della concorrenza, le prime direttive UE e il loro recepimento 66
2.2. Le direttive del 2004 e il Codice “de Lise” 73
2.3. Le direttive del 2014 e il “nuovo” Codice dei contratti pubblici 80
2.3.1. La tumultuosa incertezza delle (nuove) riforme: c’è ancora un Codice dei contratti pubblici? 86
3. Il ruolo dei principi (nel diritto amministrativo) e nell’evidenza pubblica
.............................................................................................................. 94
3.1. Il valore dei principi generali nelle direttive europee: la tutela della concorrenza e i “nuovi principi” 95
3.2. I principi generali nel Codice dei contratti pubblici: l’art. 30 c.c.p.
...................................................................................................... 103
3.2.1. I principi applicabili alla fase di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici 107
3.2.2. I principi applicabili alla “sola” fase di affidamento: la tutela della concorrenza e i suoi corollari 109
Sezione II
La concorrenza per il mercato e l’esercizio della discrezionalità amministrativa: premesse per uno sguardo d’insieme
1. La concorrenza per il mercato e l’esercizio della discrezionalità amministrativa nel mercato dei contratti pubblici tra ordinamento interno e comunitario. Un confronto 113
2. La tutela della concorrenza come limite alla discrezionalità amministrativa?: premessa e rinvio 120
3. Il Giudice amministrativo quale giudice dell’economia e la tutela della concorrenza per il mercato: premessa e rinvio 123
Capitolo III
Il “micro-mercato” tra Concorrenza e discrezionalità
Sezione i
Il procedimento ad evidenza pubblica tra concorrenza e discrezionalità. Casistica e spunti di analisi.
1. Il micro-mercato tra concorrenza e discrezionalità: premessa 129
2. L’esercizio (decrescente) del potere discrezionale delle amministrazioni aggiudicatrici nelle procedure ad evidenza pubblica 130
3. La scelta della procedura tra concorrenza e discrezionalità 134
3.1. La garanzia della concorrenza davanti alle nuove riforme e i riflessi sulla discrezionalità: a) le deroghe alle procedure sopra- soglia comunitaria 144
3.1.2. segue: b) le deroghe alle procedure sotto-soglia 150
3.1.3. segue: La concorrenza e la discrezionalità davanti all’emergenza Covid-19. Uno sguardo d’insieme 153
4. La scelta dei criteri di aggiudicazione. Il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa e la discrezionalità della stazione appaltante 159
5. I requisiti di partecipazione tra tutela della concorrenza e discrezionalità: breve premessa 163
5.1. segue: L’esempio delle cc.dd. clausole di territorialità nei bandi di gara 168
5.1.2. segue: I più recenti orientamenti del giudice amministrativo tra concorrenza, discrezionalità e proporzionalità 170
6. L’istituto del subappalto e la transizione verso l’eliminazione della quota massima subappaltabile tra normativa europea e normativa interna, tra concorrenza e discrezionalità 181
Sezione II
L’ “incontro” tra la discrezionalità amministrativa e la concorrenza per il mercato nella tutela delle pmi
1. L’importanza e la tutela delle PMI negli interventi dell’UE: dallo Small Business Act agli interventi più recenti nell’ambito dei contratti pubblici
.............................................................................................................. 194
1.1. L’acceso delle PMI ai contratti pubblici nel mercato UE: alcuni dati
...................................................................................................... 202
2. La suddivisione degli appalti in lotti tra normativa UE e normativa interna 212
2.1. L’art. 51 c.c.p. tra discrezionalità amministrativa e tutela della concorrenza 221
2.1.1. segue: la suddivisione in lotti quale scelta di natura discrezionale 225
2.2. Il Giudice amministrativo e il sindacato sulla motivazione in merito alla mancata o cattiva suddivisione dell’appalto in lotti. Casistica
...................................................................................................... 228
2.3. La suddivisione degli appalti in lotti: “la chiave di volta” che non risolve 238
Considerazioni finali 242
Bibliografia 255
Introduzione e delimitazione del campo d’indagine
Il presente lavoro di ricerca intende analizzare alcune delle dinamiche legate all’interazione e alla coesistenza della concorrenza (intesa principalmente come concorrenza per il mercato)1 con il potere della pubblica amministrazione (in specie discrezionale) all’interno del mercato dei contratti pubblici.
I principali quesiti a cui si tenterà di rispondere, analizzando l’attuale contesto normativo-giurisprudenziale nazionale ed europeo, sono i seguenti: che ruolo ha, ad oggi, la concorrenza nel mercato dei contratti pubblici? In che modo la concorrenza e la discrezionalità amministrativa costituiscono il fulcro di questo mercato? Quali sono le loro principali interazioni e quali i nodi problematici? In che modo interagiscono con il ruolo del legislatore? Che ruolo assumono nel dibattito sull’inefficienza del mercato dei contratti pubblici?
A fondamento del presente lavoro di ricerca vi è, anzitutto, l’analisi dell’evoluzione del ruolo detenuto dalla concorrenza, in primo luogo, nell’ordinamento nazionale e, in secondo luogo, all’interno di una precisa disciplina e di uno specifico mercato, ossia quello dei contratti pubblici.
A tal proposito, il primo capitolo è teso a fornire un inquadramento generale del contesto ordinamentale in cui si andranno ad inserire le tematiche e le problematiche che verranno analizzate nei capitoli successivi.
In primo luogo, verrà esaminata l’evoluzione, a livello costituzionale, del concetto di concorrenza e, in secondo luogo, il ruolo della pubblica amministrazione nel mercato.
1 La ricerca è stata infatti circoscritta all’analisi di una precisa “dimensione” della concorrenza, c.d. concorrenza per il mercato e a come il potere della pubblica amministrazione (in specie discrezionale) si relaziona ad essa nel delimitare l’accesso ai singoli micro-mercati che sono le procedure ad evidenza pubblica. Nel primo capitolo, infatti, si è messa in luce una fondamentale specificazione del concetto di concorrenza. Data l’assenza di una precisa definizione del concetto di concorrenza (sia a livello economico che normativo) si è infatti inteso porre a fondamento del lavoro di ricerca, più che una precisa definizione, una “dimensione” della concorrenza per la cui individuazione si deve il merito, in particolare, alla Corte costituzionale. Quest’ultima, nel prezioso tentativo di fornire una nozione di concorrenza quanto più possibile flessibile e adattabile alle diverse “sfumature” che la stessa è andata via via ad assumere all’interno dell’ordinamento, ha compiuto un distinguo tra concorrenza “nel mercato” e concorrenza “per il mercato” facendo rientrare nella prima “dimensione” tutte quelle misure tese ad aprire a liberalizzare i mercati in una visione macro-economica e riconducendo, invece, alla seconda tutti quegli strumenti (anche procedimentali) e quelle previsioni idonee a garantire la più ampia apertura del mercato a tutti gli attori economici operanti nello stesso e a favorirne la partecipazione in condizioni di parità. Per tali profili definitori si v. infra al Cap. I, par. I.
Si partirà dalla concezione di mercato presente in Costituzione, dalla genesi dell’art. 41 Cost. e dai mutamenti successivi dovuti al necessario adeguamento ai principi UE: si darà atto di come tale disposizione si sia confrontata con il processo di integrazione europea che ha portato con sé l’obbligo, per i singoli Stati membri, di fare propri i principi della c.d. Costituzione economica europea, primo fra tutti quello di «un’economia di mercato aperto e in libera concorrenza», principio che, almeno a prima vista, secondo parte della dottrina, non appariva riconosciuto né tutelato all’interno della Carta costituzionale.
La seconda necessaria premessa – contenuta sempre nel primo capitolo – riguarda, come accennato, il ruolo della pubblica amministrazione all’interno del mercato e, in particolare, il suo ruolo di acquirente di beni, servizi, lavori in qualità di “Stato banditore” 2.
Si farà riferimento, in particolare, alla dimensione “micro” della concorrenza, ove la pubblica amministrazione può essere considerata come un agente che crea artificialmente un mercato in relazione al singolo atto di scambio al quale sono interessate una pluralità di controparti (c.d. concorrenza per il mercato)3; mentre, nella dimensione “macro”, come un agente che opera “nel mercato” e ne può condizionare il funzionamento in diversi modi4 (c.d. concorrenza nel mercato).
Si cercherà quindi di analizzare il ruolo del potere pubblico all’interno del mercato ed in particolare del potere (discrezionale) che l’amministrazione esercita nel momento in cui “dirige” l’accesso al mercato. Tale ambito di analisi verrà poi circoscritto all’esercizio del potere discrezionale nel mercato dei
2 X. XXXXXXX, Lo Stato banditore. Gare e servizi locali, Milano, 2001.
3 X.XXXXXXX, Contratti pubblici e concorrenza, in La nuova disciplina dei contratti pubblici tra esigenze di semplificazione, rilancio dell’economia e contrasto alla corruzione. Atti del LXI Convegno di Studi di scienza dell’amministrazione, Milano, 2016, e anche in Xxxxxx-xxxxxx.xx, 19, 2015.
4 Ad esempio, può assumere la veste di produttore diretto di beni e servizi fruibili da parte dei cittadini, talora gratuitamente, talora dietro il pagamento di un corrispettivo (tramite imprese pubbliche o direttamente con strutture operative interne agli apparati). Può offrire ai privati l’utilizzo di risorse (scarse) di proprietà pubblica, come il demanio (tramite lo strumento della concessione). Può sostenere finanziariamente le imprese attraverso sovvenzioni pubbliche, sempre nel rispetto dei parametri posti dalla disciplina europea in materia di aiuti di Stato. Può svolgere anche un ruolo, che è quello che qui specificamente interessa, di grande acquirente e utilizzatore di beni e servizi prodotti ed erogati da imprese operanti sui vari mercati. Si v. X. XXXXXXXXX, Il diritto della concorrenza dell’Unione Europea, Milano, 2014, 511 ss. Sul ruolo della pubblica amministrazione nel mercato si rinvia ai parr. 3 ss. del capitolo I.
contratti pubblici, ossia al momento in cui l’amministrazione definisce le regole della concorrenza per il mercato che andranno a delimitare e a “cristallizzare” i singoli “micro-mercati” che sono le procedure di gara.
Sulla base delle premesse fornite nel primo capitolo, anche il secondo capitolo avrà una funzione di inquadramento generale: in particolare, nella prima sezione, si darà conto dell’evoluzione storico-legislativa del valore e del ruolo della concorrenza nelle procedure ad evidenza pubblica.
Si cercherà di evidenziare il superamento della matrice c.d. “contabilistica” che caratterizzava la normativa nazionale sulla contabilità dello Stato5: nel porre una disciplina dei pubblici incanti, la normativa nazionale, infatti, privilegiava l’obiettivo di garantire una corretta gestione del denaro pubblico nell’interesse esclusivo dell’amministrazione committente e solo di riflesso le norme di contabilità garantivano la par condicio tra i concorrenti nell’ambito delle procedure per l’affidamento del contratto6.
Da qui si proseguirà nell’excursus storico-normativo che ha portato all’adozione delle direttive cc.dd. di “terza” e “quarta” generazione (ossia i pacchetti di direttive del 2004 e del 2014).
Si cercherà poi di mettere in luce, attraverso l’analisi delle diverse “stagioni della concorrenza”, come il recepimento della normativa UE (nei “Codici” dei contratti pubblici) abbia cambiato l’assetto della disciplina e, più in generale, della tutela della concorrenza anche nell’ordinamento interno.
All’interno di tale excursus si cercherà di analizzare poi anche la complessità del sistema normativo che fonda la materia dei contratti pubblici e i suoi continui mutamenti, così da evidenziare il ruolo che, in tale mercato, detiene il legislatore, il quale, nell’ottica di un’asserita semplificazione, non fa altro che modificare la disciplina rendendola sempre più frammentata, sempre meno comprensibile non solo per gli operatori e gli interpreti ma anche per le stesse amministrazioni che sono chiamate ad applicarla. Tale aspetto verrà
5 Ci si riferisce alla disciplina contenuta nel r.d. 18 novembre 1923, n. 2440 e nel regolamento attuativo approvato con r.d. 23 maggio 1924, n. 824 che hanno costituito per molti decenni la base normativa fondamentale del sistema dei “pubblici incanti” e per la cui analisi si rinvia al capitolo II, sezione I.
6 X. XXXXXXX, Contratti pubbliici e concorrenza, op. cit., 263 ss.
approfondito, in particolare, con riferimento alle riforme intervenute negli ultimi anni.
La seconda sezione del secondo capitolo, invece, è destinata ad inquadrare, a livello generale, alcune delle interazioni tra la tutela della concorrenza e l’esercizio della discrezionalità amministrativa nel mercato dei contratti pubblici che faranno da “cornice” alla successiva trattazione.
Si confronteranno anzitutto due diversi approcci “culturali” alla materia: quello nazionale, da un lato, e quello dell’UE, dall’altro, per evidenziare come il primo si sia andato ad intersecare con il secondo.
Si esaminerà, da un lato, l’approccio nazionale, ancora spesso influenzato dalla visione c.d. contabilistica e dalla connessa necessità di imporre un fitto reticolo di regole teso a “legare le mani” all’amministrazione, secondo lo schema regolatorio del “command and control”; e, dall’altro, invece, l’approccio UE, teso a garantire la massima apertura del mercato dei contratti pubblici alla concorrenza, attraverso proprio l’aumento dei margini di discrezionalità delle amministrazioni aggiudicatrici.
In altre parole, si vedrà come l’approccio pro-concorrenziale dell’UE sia fondato sulla convinzione che la discrezionalità, se esercitata in modo corretto, possa costituire un valore, in quanto consente di individuare la soluzione contrattuale migliore tenendo conto delle circostanze del caso concreto.
Tale visione, tuttavia, nel corso del tempo, si è scontrata con quella nazionale che, invece, condizionata dalla sfiducia nell’integrità morale delle stazioni appaltanti e delle imprese – accentuatasi dopo gli scandali dei primi anni ’90 e (forse) mai superata, neanche dopo l’intervento dell’UE – tende, come detto, a porre rigide regole al fine di prevenire il rischio di una gestione non trasparente e corretta delle procedure di gara.
Si analizzerà quindi questa dinamica di “divergenza” tra le regole di derivazione europea (che tendono a lasciare alle amministrazioni maggiori spazi di valutazione e di flessibilità) e le regole “interne” che potrebbero definirsi come “ibride” in quanto, da un lato, hanno tentato di adeguarsi
all’approccio e alla normativa europea, dall’altro, sono risultate “figlie” del retaggio della tradizione nazionale.
Altro legame tra concorrenza e discrezionalità che verrà inquadrato nel capitolo II, e poi analizzato nel proseguo del lavoro, è quello che vede la concorrenza divenire limite della stessa discrezionalità esercitata dalle amministrazioni aggiudicatrici nel momento in cui vanno a stabilire i confini del micro-mercato attraverso la determinazione della lex specialis. Tale correlazione può essere esemplificata richiamando le parole del giudice amministrativo, secondo cui «la discrezionalità della stazione appaltante si può spingere fino a ridurre la platea dei potenziali concorrenti, sempre che tale scelta non sia irragionevolmente limitativa della concorrenza, in quanto correttamente esercitata attraverso la previsione di requisiti pertinenti e congrui rispetto allo scopo perseguito, e risponda quindi ai parametri della ragionevolezza e della proporzionalità rispetto alla tipologia e all'oggetto dello specifico appalto»7.
A tale discorso si ricollegherà, inevitabilmente, il ruolo del Giudice amministrativo quale giudice della concorrenza (per il mercato) e quale garante della tutela della stessa all’interno dei singoli micro-mercati che sono le procedure di gara. Anche su tale questione si intende fornire, all’interno del secondo capitolo, principalmente un quadro generale e rimandare al successivo capitolo l’analisi dei connessi riscontri applicativi.
Una volta analizzata in generale la disciplina della concorrenza e alcune delle interazioni con la discrezionalità amministrativa all’interno del mercato dei contratti pubblici, nella prima sezione del terzo capitolo, verranno esaminate le loro connessioni all’interno dell’attuale disciplina del procedimento ad evidenza pubblica, attraverso alcuni passaggi o istituti “chiave” (ai fini che qui interessano), così da fornire un riscontro pratico di quanto esaminato, a livello generale, nei capitoli precedenti.
7 Xxxx, ex multis, Cons. Stato, sez. V, 8 gennaio 2021, n. 284; Cons. Stato, sez. III, 2 marzo 2020, n. 1484; Id., sez. V, 26 giugno 2017, n. 3110; Id., sez. V, 23 settembre 2015, n. 4440.
La seconda sezione del terzo capitolo è invece dedicata all’ “incontro” tra la discrezionalità amministrativa e la concorrenza per il mercato nella tutela delle piccole e medie imprese (PMI) e come “terreno di incontro” verrà analizzato il travagliato istituto della suddivisione degli appalti in lotti, considerato l’istituto “chiave” nella garanzia dell’accesso al mercato di tali categorie di imprese.
Si cercherà, dunque, di rispondere ai seguenti quesiti: quanto sono rilevanti le PMI per il mercato nazionale ed europeo (e quanto per quello dei contratti pubblici)?; In che modo l’incidenza pro-concorrenziale dell’UE nei confronti delle PMI è stata recepita all’interno dell’ordinamento nazionale?; Quali sono le principali difficoltà riscontrate da tali imprese nell’accesso al mercato dei contratti pubblici?; In che modo la garanzia dell’accesso alle PMI al mercato dei contratti pubblici incontra il rapporto tra la concorrenza per il mercato e l’esercizio della discrezionalità amministrativa?
A livello più generale, nel corso della trattazione si cercherà poi di mettere in luce, attraverso l’analisi delle più recenti riforme, anche le attuali tendenze del legislatore sia nei confronti della discrezionalità che della concorrenza.
CAPITOLO I
La tutela della concorrenza nella Costituzione italiana e il ruolo della pubblica amministrazione come acquirente nel mercato
SOMMARIO: 1. La concorrenza e le sue dimensioni: premesse ricostruttive. – 2. Il mercato nella Costituzione italiana: l’art. 41 Cost e la Costituzione economica.
– 2.1. La tutela della concorrenza nella Costituzione: dal riconoscimento della libertà di iniziativa economica privata all’affermazione del principio della libera concorrenza. – 2.2. Le “potenzialità concorrenziali nascoste” dell’art. 41 Cost.
– 3. Il ruolo della Pubblica amministrazione nel mercato. – 3.1. La Pubblica amministrazione come acquirente nel mercato: la procedura di gara come “micro-mercato” e lo Stato “banditore”. – 3.2. L’esercizio del potere discrezionale della p.a. e la concorrenza per il mercato: premessa e rinvio.
1. La concorrenza e le sue dimensioni: premesse ricostruttive
A fondamento del presente lavoro di ricerca, vi è anzitutto l’analisi dell’evoluzione del concetto di concorrenza: in primo luogo, in generale all’interno dell’ordinamento costituzionale italiano e, in secondo luogo, all’interno di una precisa disciplina e di uno specifico mercato, ossia quello dei contratti pubblici.
Quando si parla di concorrenza, tuttavia, occorre tenere presente che non vi è una definizione univoca di tale termine8, non solo a livello economico ma anche a livello normativo.
È noto, infatti, che né l’ordinamento europeo, né quello italiano, nel tutelare la concorrenza, si siano mai preoccupati di dare una definizione normativa di questo xxxxxxxx0.
8 La teoria economica classica intendeva la concorrenza come un processo di mercato ove si sviluppa la rivalità tra vari attori commerciali, all’interno di mercati aperti e privi di ostacoli che impediscono o rendono difficoltoso l’accesso. In un siffatto contesto la dinamica degli scambi produce distorsioni della concorrenza solo se posizioni di vantaggio (anche se legittimamente acquisite) vengono istituzionalizzate e sottratte «agli stimoli naturali generati dal gioco della concorrenza stessa» Così X. XXXXX, Il mercato e la tutela della concorrenza, Il Mulino, Bologna, 2001, 13 ss.
9 Ciò sarebbe avvenuto in quanto la nozione di concorrenza sarebbe implicitamente sempre stata data per «autoevidente» Xxxx, X. XXXXXXXXX, Il diritto della concorrenza dell’Unione europea, Milano, 2014, 3.
Per tali ragioni, la nozione di concorrenza viene quindi spesso intesa in modi molto differenti che rendono difficile ricavare dal senso comune o dalla cultura generale una nozione univoca, semplice ed evidente10.
Pertanto, si cercherà di inquadrarne, più che una precisa definizione, “le dimensioni” che sono qui di interesse e che verranno approfondite nel corso del lavoro.
In primo luogo, verrà analizzata l’idea di mercato presente in Costituzione, la struttura della c.d. Costituzione economica e la portata normativa dell’art. 41 Cost., a più di settant’anni dalla sua approvazione.
Si darà atto di come tale disposizione si sia confrontata con il processo di integrazione europea che ha portato con sé l’obbligo, per i singoli Stati membri, di fare propri i principi della c.d. “Costituzione economica europea”, primo fra tutti quello di «un’economia di mercato aperto e in libera concorrenza», principio che, almeno a prima vista, non appariva riconosciuto né tutelato all’interno della Carta costituzionale.
I principi posti a fondamento dell’idea di mercato dell’UE, oltre a quelli già richiamati, ad oggi, possono essere rintracciati, in gran parte, nell’art. 3 TUE dove viene previsto che l’Unione europea si adoperi per lo sviluppo sostenibile dell’Europa basato, inter alia, su «un’economia sociale di mercato fortemente competitiva»11 e, dunque, su un sistema che sebbene riconosca il libero mercato
10 Così ancora X. XXXXXXXXX, ult. op.cit. ove l’A. esemplifica tale concetto richiamando la fondamentale differenza tra una concezione della concorrenza come “struttura del mercato” (più concorrenza sta a significare più operatori presenti nel mercato) e una concezione della concorrenza come processo dinamico (più concorrenza come maggior flusso di innovazioni, indipendentemente dal fatto che gli operatori siano molti o pochi).
11 Art. 3 TUE: «L’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico». Sulla formula “economia sociale di mercato” si veda ex multis: X. XXXXXXXXX, Relazione generale. Concorrenza tra imprese e concorrenza tra Stati, in Unione Europea: concorrenza tra imprese e concorrenza tra Stati, a cura di X. XXXXXXXXXX, Milano, 2016, 1 ss., l’Autore, nei termini che seguono, riassume le caratteristiche della c.d. “ESM” in quattro punti fondamentali che sono: «(i) l’economia di mercato, caratterizzata dalla concorrenza fra imprese, costituisce il sistema migliore che l’umanità abbia mai sperimentato, sulla via del benessere economico e della libertà delle persone; tuttavia, l’economia di mercato concorrenziale, presenta – secondo l’ESM
– due limiti strutturali e funzionali; (ii) l’idea di base della superiorità dell’economia di libero mercato è, infatti, immediatamente corretta da un’altra idea: la concorrenza fra imprese è un meccanismo che tende ad essere autodistruttivo, nel senso che i meccanismi di mercato, lasciati alle libere negoziazioni
come suo caposaldo, tende anche a garantire un certo grado di equità sociale, indispensabile affinché i singoli individui siano in grado di operare liberamente e in condizioni di pari opportunità (anche) all’interno del mercato12.
Nei paragrafi seguenti si intende, dunque, ripercorrere l’excursus che ha visto tali principi andarsi ad innestare nella “originaria” Costituzione economica e verificare se e come si siano inseriti, nelle maglie dell’art. 41 Cost.
Con l’entrata in vigore dei Trattati europei si è realizzata, infatti, una sorta di “rivoluzione copernicana” che non ha visto la piena sostituzione del modello di “economia mista” con un modello pienamente liberistico, bensì, piuttosto a un modello dirigistico fondato sul protagonismo degli Stati sovrani, si è sostituita la scelta della già richiamata “economia sociale di mercato”, in cui il potere pubblico non ha più (o meglio, non ha solo) il compito di proteggere le imprese sul mercato, bensì quello più ampio di tutelare e proteggere il mercato stesso e di intervenire “in supplenza” al fine di correggere eventuali insufficienze13.
In relazione a tale doverosa ricostruzione, come si vedrà, verranno in rilievo le “dimensioni” della concorrenza che faranno da struttura portante all’intero lavoro di ricerca, per la cui individuazione si deve il merito alla Corte costituzionale.
Quest’ultima, infatti, nel corso del tempo, ha tentato di fare da “collante” tra le disposizioni costituzionali in materia economica e i principi di derivazione comunitaria, nel prezioso tentativo di fornire una nozione di concorrenza quanto più possibile flessibile e adattabile alle diverse
fra imprenditori, tendono ad irrigidire le posizioni di potere di mercato acquisite da alcune imprese e a dare luogo alla creazione di cartelli e monopoli; (iii) il mercato è lo strumento principale per assicurare alle persone i beni e i servizi di cui sentono effettivamente il bisogno; tuttavia, esso non è in grado di assicurare alle persone tutti i beni di cui esse hanno bisogno per una elevata qualità della vita: alcuni di questi beni dovranno essere pur sempre assicurati dal potere pubblico.(iv) l’ESM postula un ruolo forte dello Stato, ma un ruolo molto diverso da quello degli Stati dirigisti: compito dello Stato non è quello di proteggere e di guidare questa o quella impresa (anzi deve astenersi del tutto dal fare ciò), bensì quello di far funzionare bene i mercati e di garantire un alto livello di offerta di beni e di servizi pubblici, secondo un criterio di sussidiarietà orizzontale». Sul tema si veda anche X. XXXXXXXX, L’articolo 3 del trattato sull’unione e la politica economica europea, in Xxxxxxxxxxx.xx, 2013, secondo cui ogni paese che possa definirsi come democratico possiede «un’economia di mercato a vocazione sociale (o anche solidale, parola che penso evidenzi il profilo dinamico del concetto di “sociale”)».
12 A. FUMAGALLI, Economia sociale di mercato, Dizionario di Economia e Finanza, Treccani, 2012.
13Così ancora X. XXXXXXXXX, ult. op.cit., 512.
“dimensioni” che la stessa è andata via via ad assumere all’interno dell’ordinamento.
Come verrà meglio approfondito nei paragrafi a seguire, il Giudice delle leggi, sebbene in alcune più risalenti decisioni abbia qualificato la concorrenza quale «valore basilare della libertà di iniziativa economica» 14 e come “libertà” che integra «la libertà di iniziativa economica che spetta nella stessa misura a tutti gli imprenditori»15, nella più recente giurisprudenza, invece, ha favorito una dimensione più ampia delle suddette nozioni, proprio sulla base dei principi e delle influenze comunitarie16.
In tal senso, la Corte ha affermato, a più riprese, che «dal punto di vista del diritto interno la nozione di concorrenza non può non riflettere quella operante in ambito comunitario» e, a tal fine, ricomprende non solo interventi regolativi ma anche misure antitrust e misure destinate a promuovere un mercato aperto e in libera concorrenza17.
Tali misure si specificherebbero in: a) interventi regolatori dello Stato che incidono sulla concorrenza, quali le misure legislative di tutela in senso proprio, sia di contrasto agli atti ed ai comportamenti delle imprese che incidano negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati, sia di disciplina dei relativi strumenti di controllo; b) misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando o riducendo barriere all’entrata e vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo, in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche.
14 Corte cost. n. 240 del 1990.
15 Corte cost. n. 223 del 1982.
16 Sullo sviluppo dell’intervento della Corte ai fini della definizione della concorrenza v. X. XXXXXX,
Tutela della concorrenza e giurisdizione, Napoli, 2018, 49 ss.
17 Il leading case di tale definizione è la pronuncia n. 14 del 13 gennaio del 2004, in Giur. cost., 2004, con note di A. PACE, Gli aiuti di Stato sono forme di tutela della concorrenza, ivi, 259 ss.; di G.P. DOLSO, Tutela dell’interesse nazionale sub specie di tutela della concorrenza, ivi, 265, di C. BUZZACCHI, Principio della concorrenza e aiuti di Stato tra diritto interno e diritto comunitario, ivi,
277. Le sentenze della Corte con profili definitori in tema di concorrenza sono sterminate, per ricordarne alcune: Corte cost. n. 272 del 2004; Id., n. 345 del 2004; Id., n. 336 del 2005; Id., n. 80 del 2006; Id., n. 401 del 2007; Id., 430 del 2007; Id., n.63 del 2008; Id., n. 160/ del 009; Id., n. 45 del 2010 n. 270 del 2010; Id., n. 325 del 2010; Id., n. 339 del 2011; Id., n.200 del 2012; Id., n. 291 del 2012; Id., n. 171 del 2013; Id., n. 94 del 2014; n. 125 del 2014.
Da tale distinguo può compiersi un’ulteriore specificazione: le misure di cui alla lettera a), corrisponderebbero alle c.d. misure antitrust tese a regolare sia i comportamenti delle imprese operanti nel mercato, sia le modalità di controllo del mercato stesso18; le misure legislative di promozione di cui alla lettera b), invece, sarebbero quelle tese a tutelare sia la c.d. concorrenza “nel mercato”, sia la c.d. concorrenza “per il mercato”19.
Nella prima ipotesi (c.d. concorrenza “nel mercato”) l’obiettivo viene raggiunto attraverso misure tese all’apertura del mercato e alla liberalizzazione dello stesso, nella seconda ipotesi (c.d. concorrenza “per il mercato”), invece, attraverso la predeterminazione di procedure e strumenti idonei a garantire la più ampia apertura del mercato a tutti gli attori economici operanti nello stesso e a favorirne la partecipazione in condizioni di parità.
Alla concorrenza “per il mercato” vanno ricondotte, infatti, tutte le disposizioni tese a delimitare il mercato “rilevante”, individuandone i confini con il fine di garantire un efficiente allargamento della concorrenza.
Più nello specifico, guardando al tema della ricerca, nel mercato dei contratti pubblici vengono ricollegate alla tutela della concorrenza per il mercato tutte quelle disposizioni tese all’individuazione dei soggetti legittimati a partecipare alle procedure ad evidenza pubblica, tramite anche la determinazione dei requisiti richiesti agli operatori economici da parte delle amministrazioni pubbliche al fine di consentirne “l’accesso” al mercato20.
Garantiscono, inoltre, la concorrenza per il mercato non solo tutte quelle norme che afferiscono alla definizione dei profili soggettivi del mercato stesso ma anche quelle relative all’individuazione dei contenuti e delle caratteristiche
18 Su queste tematiche si v. ex multis A. POLICE, Tutela della concorrenza e pubblici poteri, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2007.
19 Sui rapporti tra concorrenza nel mercato e per il mercato si v. anche Corte cost. n. 401 del 2007 ove definisce concorrenza “per” il mercato quella che impone che il contraente venga scelto mediante procedure di garanzia che assicurino il rispetto dei valori comunitari e costituzionali. Ciò, tuttavia, non sta a significare che nello stesso settore degli appalti, soprattutto relativi ai servizi a rete, non sussistano concomitanti esigenze di assicurare la cosiddetta concorrenza “nel” mercato attraverso la liberalizzazione dei mercati stessi, che si realizza, tra l'altro, mediante l'eliminazione di diritti speciali o esclusivi concessi alle imprese (par. 6.7).
20 Così A. XXXXXXX, Lo Stato che contratta e che si accorda. Vicende della negoziazione con le PP.AA. tra concorrenza per il mercato e collaborazione con il potere, Pisa, 2012, 59.
delle prestazioni che saranno oggetto dello “scambio” sul mercato, (recte: attinenti alla definizione del contenuto e del tipo di contratto tramite la predeterminazione della lex specialis).
Tale distinzione è utile, ai fini che qui interessano, proprio per delimitare il campo di ricerca che sarà circoscritto proprio a questa ultima “dimensione” della concorrenza e a come il potere della Pubblica amministrazione si relaziona ad essa nel peculiare mercato dei contratti pubblici.
L’indagine che verrà portata avanti nei capitoli seguenti, infatti, non avrà ad oggetto la tutela della concorrenza nella sua “dimensione” antitrust, né verranno in risalto le dinamiche di liberalizzazione dei mercati (se non trasversalmente a fronte dell’influenza dell’UE nel mercato stesso), bensì verrà approfondito il ruolo della concorrenza per il mercato, come la stessa venga tutelata e garantita all’interno del mercato dei contratti pubblici e le sue interazioni con il potere amministrativo (in specie discrezionale) nella regolazione dell’accesso al mercato.
A tal fine, occorre individuare un’ulteriore (duplice) “dimensione” della concorrenza che si lega a quella anzidetta come se fossero facce della stessa medaglia, ossia quella che differenzia la concorrenza nella sua visione più generale, c.d. “macro” e in quella, più particolare, c.d. “micro”.
Come più attenta dottrina ha osservato21, alla prima dimensione deve essere ricondotta l’incidenza dell’azione pubblica sul funzionamento generale dei mercati; la seconda, invece, riguarderebbe i singoli atti di scambio compiuti sul mercato stesso22.
Con riguardo a quest’ultima e al ruolo della Pubblica amministrazione nel mercato dei contratti pubblici, viene in rilievo la peculiarità che vede la parte pubblica tenuta ad avviare una procedura ad evidenza pubblica ogni qualvolta decida di stipulare un contratto c.d. passivo.
21 In tal senso X. XXXXXXX, Contratti pubblici e concorrenza, in Atti del LXI Convegno di studi di scienza dell’Amministrazione, La nuova disciplina dei contratti pubblici fra esigenze di semplificazione, rilancio dell’economia e contrasto alla corruzione, Varenna 17-19 settembre 2015, Xxxxxxx, 2016, consultabile anche in xxxxxx-xxxxxx.xx, 19, 2015.
22 Sul ruolo della Pubblica amministrazione nel mercato si rimanda ai parr.3 ss.
In altre parole, nella dimensione “macro” la Pubblica amministrazione deve essere considerata come un agente che opera nel mercato; in quella “micro” come un agente che crea artificialmente un mercato in relazione a singoli atti di scambio a cui sono interessati una pluralità di operatori economici (concorrenza per il mercato)23 e ne regola l’accesso e il funzionamento attraverso precisi strumenti.
Le dimensioni micro e macro della concorrenza verranno approfondite nei paragrafi seguenti in merito al ruolo che detiene la Pubblica amministrazione nel mercato: quest’ultima nel momento in cui si pone come creatore o regolatore del mercato (liberalizzandolo, ampliandone i confini e liberandolo da barriere all’ingresso) delinea e tutela la concorrenza “nel mercato”; ogni qualvolta invece si pone come acquirente lo fa attraverso la designazione di strumenti appositi (le gare pubbliche), che vanno a regolare e a delineare la concorrenza per il mercato24.
2. Il mercato nella Costituzione italiana: l’art. 41 Cost e la Costituzione economica
Come anticipato, necessaria premessa di tale lavoro di ricerca è l’evoluzione del rilievo che la tutela della concorrenza ha avuto nel nostro ordinamento, partendo dallo studio delle norme costituzionali ad essa inerenti. A tal fine, nei paragrafi seguenti si intende dare atto, anzitutto, di come l’art.
41 Cost. si sia confrontato con il processo di integrazione europea che ha portato con sé l’obbligo, per i singoli Stati membri, di fare propri i principi della
23 Così X. XXXXXXX, ult. op.cit.
24 Si precisa che nel momento in cui lo Stato si pone come “acquirente” nel mercato regola la concorrenza per il mercato attraverso la determinazione della lex specialis. Tuttavia, con il medesimo strumento crea anche un mercato (recte: un micro-mercato) che è la procedura di gara stessa. In questa precisa dimensione “micro” della concorrenza lo Stato si pone dunque allo stesso momento come creatore e acquirente, in funzione di garante della concorrenza per il mercato.
c.d. “Costituzione economica europea” 25, primo fra tutti quello di
«un’economia di mercato aperto e in libera concorrenza»26.
L’art. 41 Cost., infatti, nella sua originaria formulazione, prevedeva un’idea di mercato ben diversa rispetto a quella propria del diritto comunitario.
Tuttavia, si cercherà di evidenziare come la duttilità intrinseca di tale disposizione abbia espresso il suo pieno potenziale proprio a seguito dell’ingresso, nella Costituzione economica, dei principi di derivazione comunitaria.
Ciò ha reso possibile ipotizzare un’interpretazione dell’art. 41 Cost. capace di legare la libertà di impresa al più ampio contesto della libertà economica nel mercato27, così da non ritenere la tutela della concorrenza del tutto emancipata dal testo costituzionale.
L’art. 41 Cost. rientra tra quelle disposizioni del Titolo III, Parte I che la Costituzione italiana dedica interamente ai “Rapporti economici” (artt. da 35 a 47 Cost.) e, insieme a poche altre previsioni (artt. 4, 53, 81, 99 Cost.) va a costituire la c.d. Costituzione economica28.
25 Sul concetto di Costituzione economica europea si veda, ex multis X. XXXXXXX, La Costituzione economica europea, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 6, 2001, 907. Lo stesso Autore, a seguito del fenomeno di integrazione europea, ha ritenuto opportuno parlare di una “nuova costituzione economica” rispetto a quella delineatasi fino a quel momento nell’ordinamento italiano. In tal senso v. X. XXXXXXX, La nuova costituzione economica, X. xx., Xxxx, 0000. Recentemente è stato evidenziato che, anche a seguito della crisi economico-finanziaria che ha colpito i debiti sovrani di alcuni Stati membri dell’Unione, ad oggi, si potrebbe parlare addirittura una nuova fase nell’evoluzione della Costituzione economica europea. In tal senso v. X. XXXXX, Le trasformazioni della costituzione economica europea: verso un nuovo paradigma? in Xxxxxxxxxxx.xx, 2019.
26 Art. 4 del Trattato di Roma.
27 La “tutela della concorrenza”, come si vedrà è stata poi inserita all’interno dell’art. 117 lett. e), attribuito per la prima volta una dignità costituzionale espressa al principio di concorrenzialità del mercato ed abbia “sgombrato definitivamente il campo da ogni equivoco circa la rilevanza costituzionale del principio di concorrenza” In questi termini X. XXXXXX, La recente giurisprudenza della Corte costituzionale sulla “tutela della concorrenza” (art. 117, comma 2, lett. e): linee di tendenza e problemi aperti, in Giur. cost., 2005, 4, 3448.
28 X. XXXXXXX, voce Economia nel diritto costituzionale, in Digesto, IV ed., Discipline pubblicistiche, V, Torino, 1990, 374 ss. Secondo l’Autore, in realtà, si può parlare della disciplina dell’economia solo se non si perde di vista «l’impianto unitario della Costituzione»; se «non si postula un’autonomia di tale settore nei confronti degli altri oggetti delle norme costituzionali»; se non si dimentica che «le interconnessioni fra la disciplina del sottosistema economico e quella del sistema sociale nel suo complesso sono così profonde che la prima può essere isolata solo per comodità di analisi». L’A. aggiunge, inoltre, che oltre a tale accezione ve ne è anche un’altra, poco fortunata nella dottrina italiana, che con la formula “Costituzione economica” intende un complesso di norme in qualche modo autonomo rispetto all’insieme della Costituzione, della quale peraltro sarebbe il «nocciolo essenziale, il dato realmente infungibile attorno al quale finiscono per ruotare i contingenti contenuti delle disposizioni relative ai rapporti politici, sociali, ecc.». A detta dell’Autore, tale tesi susciterebbe diverse
Con tale espressione, solitamente, si intende indicare, nel suo significato descrittivo, l’insieme delle disposizioni costituzionali in materia economica.
L’art. 41 Cost. che oggi conosciamo, venne approvato dall’Assemblea costituente, il 13 maggio 1947, dopo un lungo ed acceso dibattito che si risolse nella fusione di due distinti articoli del Progetto di Costituzione (artt. 37 e 39), espressione di due diverse visioni circa la qualificazione sia dell’iniziativa economica privata, sia degli ambiti di intervento dello Stato29.
perplessità, difficilmente superabili. Anzitutto perché isolare una sfera “dell’economico” rispetto agli altri contesti nei quali si esplicano le attività sociali dell’uomo è «quantomeno problematico» e che lo è ancora di più postulare un’autonomia delle disposizioni in materia economica «all’interno di testi normativi come quelli costituzionali che hanno l’ambizione di dettare le regole fondamentali di un sistema sociale nella sua interezza». Una siffatta visione presuppone, secondo X. Xxxxxxx, una contrapposizione tra società e politica, fra Stato e mercato che non può essere accettata nelle Costituzioni degli odierni Stati sociali. In tali termini lo stesso Autore si è espresso anche in X. XXXXXXX, La Costituzione dei diritti e la Costituzione dei poteri, Noterelle brevi su un modello interpretativo ricorrente in Scritti in onore di X. Xxxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, II, 479 ss. In riferimento alle possibili definizioni del concetto di “Costituzione economica” si veda anche X. XXXXXXX, La nuova costituzione economica, op. cit., ove l’Autore identifica tre modi di intendere la “Costituzione economica”: in un primo senso “Costituzione economica” può essere intesa come formula riassuntiva delle norme della Costituzione in senso formale sui rapporti economici ma anche di norme che, pur essendo contenute in leggi ordinarie, hanno, tuttavia una rilevanza costituzionale (come, ad esempio, la l. 10 ottobre 1990 n.
287 c.d. legge “antitrust”); in una seconda (e più ampia) accezione “Costituzione economica” indicherebbe l’insieme di istituti che, pur facendo parte del diritto, non appartengono necessariamente alla Costituzione scritta. La terza accezione, invece, non conterrebbe solo le norme costituzionali e le leggi ma anche il diritto vivente. Sul concetto di “Costituzione economica” si veda anche N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, V ed., Bari, 2004, 14 ss., il quale afferma che la formula “Costituzione economica” può essere usata in due diversi significati: o come sintesi descrittiva «delle forze e poteri e soggetti» operanti nell’economia di uno Stato in un dato periodo di tempo, o come sintesi normativa di principi e regole, dettati da una costituzione o da leggi costituzionali. Secondo Xxxx, nel primo significato la formula risponderebbe ad una funzione storico-politica, poiché, accertando le forze dominanti nell’economia «provvede a salvaguardarle o le disvela nella lotta dei partiti o ne addita e promuove il mutamento». Nel secondo significato, invece, la suddetta formula avrebbe un contenuto normativo in grado di vincolare il legislatore ordinario e di proporsi «come categoria ermeneutica e strumento di auto-integrazione delle lacune». In tale ultimo senso la Costituzione economica costituirebbe propriamente l’essenza delle norme costituzionali, tese a disegnare la forma di economia di uno Stato. Sulle origini del concetto di Costituzione economica si veda anche X. XXXXX, Lo stato regolatore e la nuova costituzione economica: paradigmi di fine secolo a confronto, in Il modello europeo di regolazione - Atti della giornata di studio in memoria di Xxxxxxxxx Xxxxxxxx, a cura di X. XXXXXXXX, X. XXXXX, Napoli, 2011, 252 ss.; Id., Economia e costituzione”: una lettura della cultura giuspubblicistica tedesca in Quaderni del pluralismo, Torino, 1996, 243 ss. L’A., in più occasioni, evidenziato che il principale contributo alla formulazione di una nozione formale di costituzione economica (intesa come l’insieme delle norme costituzionali riguardanti i rapporti economici) ed al suo approfondimento sia venuto dalla cultura giuspubblicistica tedesca. Quest’ultima ha affondato le sue radici nella corrente dottrinale dell’ordoliberalismo della c.d. scuola di Friburgo che, nell’idea di Costituzione economica ha individuato una decisione di sistema (System-Entscheidung) o, per meglio dire, una scelta globale dell’ordine economico che, tuttavia, non può essere separata dall’esigenza di realizzare e garantire quel catalogo dei diritti e valori che costituiscono il nucleo essenziale della costituzione politica.
29 In particolare, l’art. 37 configurava l’attività economica, sia pubblica che privata, come interamente finalizzata al perseguimento del benessere collettivo e funzionalizzabile al raggiungimento di “fini sociali”. Il testo dell’art. 37, posto all’esame della Costituente il 13 maggio 1947, era così formulato:
«Ogni attività economica privata o pubblica deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni
Il dibattito che occupò, per diverse sedute, i Costituenti fu proprio quello del rapporto tra iniziativa economica privata e pubblica e i limiti che dovevano essere posti alla loro operatività30.
La scelta che venne compiuta con l’approvazione dell’art. 41 Cost. fu, da un lato, quella di operare in favore del riconoscimento dell’iniziativa economica privata31 in termini di libertà e, dall’altro, di restringerne
individuali ed al benessere collettivo. La legge determina le norme ed i controlli necessari perché le attività economiche possano essere armonizzate e coordinate a fini sociali». L’art. 39 riconosceva, invece, la libertà di iniziativa economica privata e indicava i limiti a cui la stessa doveva essere sottoposta. Il testo dell’originario art. 39 prevedeva che: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». In sede di Assemblea costituente – tramite le proposte di emendamenti degli Onorevoli Mortati, Arata e Xxxxxxx – si decise di recepire sostanzialmente l’art. 39 a cui, tuttavia, venne aggiunto il secondo comma dell’art. 37 di cui, invece, venne soppresso il primo comma. Nello specifico Xxxxxxx propose la soppressione del primo comma dell’art. 37 in quanto in riferimento all’attività pubblica esso risultava del tutto “tautologico”. Per quanto riguardava, invece, la funzionalizzazione dell’attività privata, secondo Xxxxxxx, essa veniva già in rilievo negli articoli successivi. Successivamente, gli Onorevoli Arata, Piemonte, Preti, Carboni, Persico, Xxxxxx, Cairo, Xxxxxxxxxx, Xxxx Xxxxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxx, Xxxxxxxx, Xxxxxx e Xxxxxxxxx proponevano il seguente emendamento:
«Coordinare gli artt. 37 e 39 come segue: trasferire il testo dell’art. 39 nell’art. 37, in sostituzione della sua prima parte, che rimane pertanto soppressa. Modificare, come segue, la seconda parte dell’art. 37, la cui dizione completa viene ad essere la seguente: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge stabilisce le norme, i controlli e i piani opportuni perché le attività economiche pubbliche e private siano dirette e coordinate a fini di utilità sociale”». L’ultimo comma fu oggetto di emendamenti concordati tra Xxxxxxx e Xxxxx, quest’ultimo propose quale ultimo comma dell’articolo la seguente dicitura: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica privata e pubblica possa essere indirizzata e coordinata a fini di utilità sociale». Xxxxxxx accettava l’emendamento proposto di Xxxxx, proponendo però la sostituzione dell’inciso “a fini di utilità sociale” con l’espressione “fini sociali”, accettata da Xxxxx. L’emendamento di. Xxxxxxx, sostanzialmente coincidente con quello degli Onorevoli Xxxxxxx e Xxxxx venne, dunque, ritirato. Per un’attenta ricostruzione del dibattito avvenuto in sede di Assemblea costituente si vedano, ex multis: X. XXXXX, Il mercato nella costituzione, in La Costituzione economica (Ferrara, 11-12 ottobre 1991), Padova, 1997; X. XXXXXXXX, Note sul dibattito alla Costituente sulla “costituzione economica” in Dir. pubbl., 2000, 3, 919 ss.; R. NIRO, Art. 41, in X. XXXXXXX, X. XXXXXXX, M, XXXXXXXX, Commentario alla
Costituzione, Utet, 2006.
30 Particolarmente rilevante fu l’intervento di Xxxxxxx (nella seduta del 13 maggio 1947) teso a proporre un emendamento aggiuntivo al testo dell’art. 37 avente ad oggetto l’esistenza dei monopoli intesi come
«il male più profondo della società presente». Nel suo intervento in sede di Assemblea chiese che venisse sancito in Costituzione il principio secondo cui «la legge non deve creare monopoli e che quando i monopoli esistono noi dobbiamo chiedere che siano soppressi ed eliminati, quando esistono noi dobbiamo affermare, in generale che opportuni metodi siano adottati per controllare i monopoli medesimi». L’emendamento aggiuntivo avrebbe dovuto avere il seguente tenore: «La legge non è strumento di formazione di monopoli economici; ed ove questi esistano li sottopone a pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta». Dominedò si oppose a tale proposta di emendamento in quanto, pur comprendendo e condividendone lo spirito, ritenne che i criteri da esso espressi fossero «esplicitamente od implicitamente contenuti nello schema delle disposizioni votate o votande».
31 Di grande rilievo, rispetto al passato, fu proprio la scelta dei Costituenti di prevedere un’espressa ed autonoma tutela dell’iniziativa economica privata, distinta rispetto a quella del diritto di proprietà. Lo Statuto Xxxxxxxxx, infatti, prevedeva il riconoscimento e la tutela di “tutte le proprietà” nel limite del
l’operatività attraverso una serie di pregnanti limiti, corrispondenti al non contrasto con l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà, e la dignità umana32.
Al riconoscimento del diritto e alla previsione dei suoi limiti di operatività, venne aggiunta la possibilità per il legislatore statale di intervenire per determinare programmi33 e prevedere controlli, tesi a coordinare ed indirizzare la riconosciuta libertà di iniziativa economica privata verso “fini sociali”.
rispetto “dell’interesse pubblico legalmente accertato” (art. 29). Successivamente nel 1927 venne elaborata, sotto la vigenza dell’ordinamento corporativo fascista, la c.d. Carta del Lavoro, la quale riconobbe un ruolo centrale all’iniziativa economica privata seppur di natura funzionalista. In particolare, l’iniziativa economica privata veniva definita come «lo strumento più efficace e più utile nell’interesse della Nazione» e l’intervento dello Stato nella produzione economica veniva previsto in via residuale soltanto «quando manchi o sia insufficiente la iniziativa privata o quando siano in gioco interessi politici dello stato». Per una dettagliata ricostruzione storica sul riconoscimento di una tutela autonoma dall’iniziativa economica privata si veda R. NIRO, Art. 41, op cit., 847 ss.; A. XXXXXXXXXXX, voce Iniziativa economica privata, in Enc. Dir., Vol. XXI, 1971, 582 ss; X. X. XXXXXX, Rapporto tra tutela costituzionale della proprietà e libertà di impresa, in Saggi di diritto pubblico, Napoli, 2014, 11 ss. Sul rapporto tra la Carta del Lavoro e la Costituzione si veda anche X. XXXXXXX, Art. 41, in Commentario della Costituzione, a cura di X. XXXXXX, Bologna, 1982. Si veda anche N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, op. cit., 93 ss. che, invece, definisce l’art. 41 Cost. come “una norma di continuità”, “un’eredità del passato” volta appunto a conferire legittimità costituzionale alle esperienze del passato piuttosto che “a romperne lo sviluppo ed a rifiutarne l’eredità”.
32 Per un’attenta analisi dei diversi limiti dell’art. 41 Cost. e per la loro interpretazione da parte della Corte costituzionale si veda X. XXXXXXX, L’iniziativa economica privata nella giurisprudenza costituzionale, Roxx, 0000.
33 Il riferimento alla programmazione fu introdotto da un emendamento presentato da Xxxxx che chiese nella seduta del 13 maggio 1947 che “la legge” stabilisse «le norme, i controlli e i piani opportuni perché le attività economiche pubbliche e private siano dirette e coordinate a fini di utilità sociale». Nel suo intervento Xxxxx sottolineò che l’accenno ai “piani” non aveva lo scopo di «volere porre all'Assemblea una perentoria alternativa fra sistema liberale e socialista, fra iniziativa economica privata e coercizione burocratica di Stato, fra capitalismo nella sua forma pura e pianificazione integrale» ma voleva soltanto portare il tema sopra un piano di “praticità, di realtà, di attualità e di attuabilità» che secondo Xxxxx era rappresentato dal pensiero di Xxx Xxxxx, Autore che si era espresso sulla possibilità di ammettere delle forme parziali di pianificazione, affermando che: «Una pianificazione parziale può essere razionale ove la si intenda come il prodotto di una permanente architettura giuridica, architettata in modo da fornire all'iniziativa privata gli incentivi necessari per compiere gli adattamenti richiesti da ogni variazione della vita economica e sociale». La successiva discussione dell’Assemblea si concentrò sull’utilizzo della parola “piani” che, come fece notare Xxxxxxxxxx, spaventava i molti. Xxxxxxx propose l’uso del termine “norma”, Xxxxxxx fece notare come il problema non fosse l’utilizzo del termine “programmi” o “piani” – in quanto entrambi espressione del medesimo concetto – bensì, sarebbe stato opportuno inserire un riferimento a quello che secondo Xxxxxxx sarebbe stato «il male più profondo della società presente» ossia l'esistenza di monopoli. Ruini sostenne, con tenacia, che la parola “piano”, considerata da alcuni “un feticcio”, “uno spauracchio” non avrebbe dovuto rappresentare né l’uno né l’altro in quanto «i piani vi saranno sempre anche se non si mette la parola nella Costituzione poiché quest’ultima riconosce la libertà dell’iniziativa privata, i piani non possono far paura nemmeno ai più sospettosi». Alla fine, si concordò per l’approvazione della proposta di Xxxxx, nel testo concordato con Xxxxxxx che sostituì alla parola “piano” quella di “programma” per dissipare, come affermò Ruini, «un’atmosfera di dubbi e di equivoci». Da questa discussione emerge che l’intento della maggioranza che votò la vigente formulazione dell’ultimo comma dell'articolo 41 era essenzialmente quello di riconoscere allo Stato la possibilità di intervenire in economia con la garanzia che ciò avvenisse in modo coordinato «non per semplice decisione o
Seppur queste diverse “anime” contenute nell’art. 41 Cost. – da un lato l’affermazione di una libertà individuale e dall’altra l’esigenza di controllo delle attività dei singoli da parte dei pubblici poteri nel nome di valori sociali ed interessi generali34 – hanno suscitato, nel corso del tempo, sin dall’entrata in vigore della Costituzione, le più svariate interpretazioni35, solitamente si è tentato di rintracciare una sorta di unitarietà nelle suddette previsioni, riconducendole ad un sistema c.d. di economia mista, non corrispondente ad un preciso modello economico ma solamente ad un sistema capace di assicurare, contemporaneamente, sia la libertà di iniziativa economica privata (che non deve svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana), sia l’eventuale possibilità di un intervento pubblico volto a garantire l’indirizzo e il coordinamento dell’attività economica pubblica e privata verso “fini sociali”36.
capriccio di autorità e di governo, ma soltanto per legge» (Ruini). In questi termini X. XXXXXXXX, Note sul dibattito alla Costituente sulla “costituzione economica” in Dir. pubbl., 2000, 3, 919 ss.
34 Secondo una parte della dottrina, nel pensiero del Costituente non vi era una “cultura del mercato” ma solamente la necessità di difenderlo “dall’alternativa del regime comunista” e il “sentimento misto” è andato a ricadere sull’iniziativa economica privata con il duplice intento di difenderla e di assoggettarla, non tanto alle regole della concorrenza ma a programmi, controlli, impulsi, orientamenti pubblici. X. XXXXX, Il mercato nella costituzione, op. cit., 12 ss.
35 Nonostante la disposizione sia stata spesso definita come “disarmonica”, di “difficile interpretazione”, “di compromesso” - si vedano in tal senso, ex multis: M. S. XXXXXXXX, Diritto pubblico dell’economia, Il Mulino, Bologna, 1977, p. 175 ss.; X. XXXXXXXXXX, Iniziativa economica privata, in Enc. Giur., XVII, Roma, 1989 - c’è stato anche chi ha cercato di conferire alla disposizione una lettura unitaria, in forza proprio dei principi costituzionali tesi ad esaltare la centralità della persona e in primo luogo i diritti di libertà ad essa garantiti. In tale prospettiva si veda X. XXXXXXX, Profili di diritto costituzionale applicato all’economia. I “diritti di cittadinanza” tra libertà economiche ed integrazione sociale, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2001; X. XXXXXXX, voce Economia nel diritto costituzionale, op. cit., 374 ss.
36 R. NIRO, Art. 41, cit. Sulla formula dell’economia mista si veda A. XXXXXXXXXXX, voce Iniziativa economica privata, op. cit., 582 ss. Questa funzionalizzazione verso i “fini sociali”, in realtà, non appartiene solamente alla disciplina dell’iniziativa economica dell’art. 41 Cost. (in riferimento non solo al richiamo ai “fini sociali” ma anche all’ “utilità sociale”), bensì all’intera materia economica per come prevista all’interno del testo costituzionale. Si pensi, ad esempio, alla “funzione sociale” dell’art. 42; all’ “utilità generale” e all’ “interesse generale” dell’art. 43; il riferimento dell’art. 44 agli “equi rapporti sociali”; alla “funzione sociale” dell’art. 45. L’insistenza della Costituzione nel rimarcare il legame dei valori sociali con la materia economica, dimostra che la disciplina economica presente in costituzione non sia ispirata da logiche e/o da valori diversi rispetto a quelli fondanti l’intero disegno costituzionale ma, le richiamate disposizioni, troverebbero la loro unitarietà e la loro coerenza di fondo nel “progetto di generale trasformazione sociale” dell’art. 3, comma 2, Cost. In tal senso X. XXXXXXX, voce Economia nel diritto costituzionale, op. cit., 375 ss. Ciò non sta a significare che la Costituzione non abbia dato alcuna rilevanza al sistema economico, bensì che la disciplina economica, presente e futura, dovrà sempre essere tesa non solo al raggiungimento di scopi (unicamente) economici ma dovrà porsi in linea con il generale processo di trasformazione sociale dell’art. 3, comma 2, Cost. Il suddetto condizionamento a cui sono state sottoposte le libertà economiche e i precisi vincoli di carattere collettivo sopra elencati, possono dirsi frutto di una generale apprensione che ha caratterizzato il
Tra i principali dubbi interpretativi suscitati dalla formulazione dell’art. 41 Cost. vi è stato, inter alia, anche quello legato all’ individuazione dell’oggetto tutelato dalla norma.
Se parte della dottrina costituzionalistica, infatti, era incline nel ritenere che la disposizione avesse un unico oggetto, ritenendo impossibile differenziare l’iniziativa economica dal suo concreto svolgimento37, altra parte della dottrina, invece, evidenziò, con vigore, la differenza sussistente tra l’atto di impulso dell’attività economica e l’oggetto dei limiti previsti dal secondo comma dell’art. 41 Cost., che veniva rintracciato, unicamente, nello svolgimento della medesima attività e, in particolare, nella disciplina dell’impresa, assoggettata, invece, ai limiti di cui al secondo e al terzo comma38.
processo di riconoscimento costituzionale delle libertà economiche. Infatti, se, da un lato, non sarebbe stato possibile negare alle stesse un riconoscimento costituzionale – a garanzia della “completezza” in tema di tutela dei diritti che la Costituzione mirava a conferire – dall’altro, non è stato mascherato il timore che concedere illimitata libertà alla volontà dell’homo oeconomicus potesse ledere “l’ordine delle priorità sotto il profilo dei valori più essenziali della persona umana”. Così X. XXXXX, Libertà economiche e libertà d’impresa, in I diritti costituzionali, a cura di X. XXXXX, X. XXXXXX, Torino, 2001, vol. I, op. cit., 69 ss. Vi era, infatti, il convincimento che la sfera economica non potesse consegnarsi in via esclusiva all’esercizio delle libertà private ma che il potere pubblico fosse chiamato ad intervenire non solo nella qualità di guida generale del sistema produttivo ma in veste di vero e proprio operatore economico. Questa visione può senz’altro trovarsi a fondamento anche di un’altra “lacuna garantista” dell’art. 41 Cost., ossia la scelta di non riconoscere alla libertà di iniziativa economica il carattere di diritto inviolabile che è attribuita alle libertà civili e di estrometterla anche da quelle libertà che la Repubblica è tenuta a difendere. Sul punto v. X. XXXXXXX, Art. 41, op. cit., 13 ss. il quale sottolinea che la preoccupazione prevalente del nostro costituente fosse quella di evitare che l’esercizio della libertà di iniziativa economica potesse ledere determinati valori sociali o umani come l’utilità sociale, la sicurezza, la dignità umana (art. 41 Cost., secondo xxxxx) o compromettere la realizzazione dei “fini sociali” di cui al terzo comma dell’art. 41 Cost. Seppur sia stata da molti condivisa la tesi che vede le libertà economiche, nella impostazione complessiva del nostro sistema costituzionale, impossibilitate ad ottenere la stessa intensità di tutela vantata dalle libertà personali - tanto da condurre taluni a parlare di libertà “dimidiata” (X. XXXXXXX, La produzione economica privata nel sistema costituzionale, Padova, 1983) - non può che concordarsi con chi ha ritenuto di sottolineare che le libertà economiche, pur se nei termini sopra descritti, sarebbero comunque declinabili in termini di espressione della personalità e della capacità umana e, inoltre, vi sarebbe un non può che concordarsi con chi ha ritenuto di sottolineare che le libertà economiche, pur se nei termini sopra descritti, sarebbero comunque declinabili in termini di espressione della personalità e della capacità umana e, inoltre, vi sarebbe un ineludibile collegamento tra le libertà economiche ed i principi fondamentali della costituzione. Tale collegamento sarebbe da ricondurre sia al già citato art. 3, comma 2, Cost., sia attraverso il disposto dell’art. 4 Cost., in quanto le libertà economiche sono anche suscettibili di favorire “il progresso materiale” della società di cui al secondo comma dell’art. 4 Cost. Cfr. X. XXXXX, Libertà economiche e libertà d’impresa, op. cit. 72 ss.
37 X. XXXXXXXXX VIGORITA, L’iniziativa economica privata nel diritto pubblico, Napoli, 1959, 232 ss.
38 Tesi sostenuta sia da A. XXXXXXXXXXX, voce Iniziativa economica privata, op.cit., 582 ss., che, ampiamente, anche da X. XXXXXXX, La produzione economica privata nel sistema costituzionale, op.cit., e ribadita più volte v. Id., voce Economia nel diritto costituzionale, op. cit., 374.
In altre parole, vi era chi riteneva che all’interno della generale categoria dell’“attività economica” si potesse distinguere tra il momento dell’iniziativa, da far coincidere con l’atto iniziale di impulso dell’attività, e quello del suo svolgimento. Tale distinzione era tesa a far sì che i due “frammenti” dell’attività economica fossero sottoposti a due discipline differenziate dal momento che, in tal modo, la garanzia piena del primo comma veniva attribuita ad una sola delle fasi dell’agire economico.
L’opposta tesi prospettava, invece, una indistinzione di fondo sulla base della quale l’intero agire economico veniva assoggettato interamente alla disciplina di tutto l’art. 41 Cost. 39
La giurisprudenza costituzionale ha tentato di attenuare tale dibattito e, abbracciando con chiarezza e decisione l’orientamento più “unitario”, ha affermato che «la garanzia posta nel primo comma di quest’articolo (…) riguarda non soltanto la fase iniziale di scelta dell’attività ma anche i successivi momenti del suo svolgimento»40.
39 Parte della dottrina ha evidenziato che tale ultima tesi, in realtà, contrasterebbe con la struttura stessa dell’art. 41 Cost. che, invece, distinguerebbe, nei primi due commi, il momento iniziale dell’attività economica e quello successivo della sua organizzazione, per poi considerarli unitamente nel terzo comma. Così X. XXXXXXX, L’iniziativa economica privata nella giurisprudenza costituzionale, Roxx, 0000. Solamente in tal modo l’atto di iniziativa dell’attività - inteso come l’atto di destinazione del capitale ad un determinato settore di mercato (in tal senso A. XXXXXXXXXXX, Iniziativa economica privata, op. cit., 549 - godrebbe della garanzia di cui al primo comma mentre le successive attività verrebbero sottoposte ai limiti previsti dai commi successivi. Il momento dell’iniziativa e quello del suo svolgimento, dunque, pur considerati come separati dai primi due commi dell’art. 41, troverebbero un “punto unificante” nel terzo comma che avrebbe ad oggetto tutta l’attività economica privata facendo in modo che i limiti funzionali ai fini sociali, ivi previsti, possano essere imposti sia al momento dell’iniziativa che a quello del suo svolgimento. Così X. XXXXXXX, xxx. op. cit., 60 ss.
40 Corte Cost., n. 35/1960; Id., 54/1962. In tal modo, la Corte ha riconosciuto l’applicazione dei limiti posti dal secondo e terzo comma dell’art. 41 Cost. anche all’atto di iniziativa (postulato, invece, secondo parte della dottrina, in termini di assoluta libertà). L’interpretazione dei Giudici costituzionali, tuttavia, non ha posto fine alle problematiche interpretative prodotte dalla norma. Il dibattito, semmai, ha cambiato forma e si è incentrato sull’individuazione di quelli che, fra gli atti economicamente significativi, possano costituire “iniziativa economica”. Parte della dottrina voleva ricondurre all’art. 41 Cost. unicamente la disciplina dell’attività di impresa. Si veda in tal senso X. XXXXXXX, Art. 41, in Commentario della Costituzione, a cura di X. XXXXXX, Xxxxxxxxxx, 1982. Un altro orientamento, invece, era teso a rintracciare nella disposizione uno strumento di copertura costituzionale per ogni atto con cui il soggetto privato sceglie il fine economico che intende perseguire. Così X. XXXXXXXX, I tre commi dell’art. 41 della Costituzione, in Giur. Cost. 1962, 37. La successiva giurisprudenza costituzionale – anche sulla scia di quanto rilevabile dai lavori dell’Assemblea costituente (nella seduta della III Sottocommissione del 3 ottobre 1946) ha escluso la riconducibilità dell’iniziativa economica privata alla sola attività di impresa, considerando l’impresa solo come una delle tante forme di esercizio dell’iniziativa economica e, conseguentemente, riconoscendo nell’art. 41 il fondamento costituzionale anche di altre attività economiche non organizzate nella forma dell’impresa. Così Corte cost. n. 13/1961; Id., n. 17/1976; Id., n. 59/1976. Nel dibattito riguardante l’oggetto tutelato dall’art. 41, dunque, la Corte
Dal canto suo anche la dottrina, spesso sulla scia dell’operato della Corte costituzionale, ha sempre cercato di fornire una lettura unitaria della disposizione che potesse opporsi a tutte le accuse mosse contro l’art. 41 Cost., definito spesso come una norma di difficile interpretazione, disarmonica se non addirittura contraddittoria.
Tale lettura “unitaria” è stata garantita proprio rintracciando nella struttura della disposizione costituzionale il fondamento di un sistema c.d. di economia mista.
Oltre al dibattito sull’individuazione dell’oggetto tutelato dalla norma, una delle più rilevanti spigolature dell’art. 41 Cost. riguarda la formula utilizzata per indicare il primo limite a cui soggiace la libertà di iniziativa economica privata che, per l’appunto, non deve svolgersi, secondo il secondo comma, in contrasto con l’utilità sociale.
La qualificazione di tale formula ha dato adito ad un dibattito particolarmente acceso che ha trovato il suo primo “campo di battaglia” in sede di Assemblea costituente.
Uno degli interventi da ricordare è senza dubbio quello di Xxxxxxx che definì l’utilità sociale come una formula inconoscibile, una «norma senza significato», arbitraria e per questo anticostituzionale41.
costituzionale, in primo luogo, ha riconosciuto la sostanziale identità tra il momento dell’iniziativa e il suo svolgimento (v. Corte cost. n. 29/1957 in cui la Corte ha chiarito che la libertà di iniziativa economica privata “si traduce nella possibilità di indirizzare liberamente, secondo le proprie convenienze, la propria attività nel campo economico”); e, in secondo luogo, ha dato una lettura quanto più ampia delle fattispecie da ricomprendere nella tutela dell’art. 41, facendovi rientrare anche attività non strettamente “imprenditoriali”. Si rimanda alla pronuncia della Corte costituzionale n. 78/1958, in cui viene rilevato che “nella locuzione iniziativa economica devono ricomprendersi le attività di operatori non solo dirette a creare e a costituire un’azienda ma anche inerenti alla vita e allo svolgimento di essa”. Per una completa ricostruzione delle pronunce della Corte in materia X. XXXXXXX, La produzione economica privata nel sistema costituzionale, op.cit., 16 ss.
41 Per Einaudi questa “ombra” di inconoscibilità avrebbe condotto i “legislatori del futuro” a riempire di contenuto tale formula, secondo il loro arbitrio e riteneva che, conseguentemente, qualunque interpretazione avrebbe potuto essere considerata valida in quanto “tutte le leggi di interpretazioni saranno conformi a ciò che non esiste”. Tali affermazioni derivavano dalla convinzione secondo cui non sarebbe stato possibile conoscere “il ponte fra l’utilità di un individuo e quella di ogni altro individuo” ossia apprezzare quale fosse il significato che una collettività, anche di sole due persone, è in grado di dare “all’utilità non dei singoli, ma dell’insieme dei due”. Nella seduta dell’Assemblea costituente del 9 maggio 1947 propose, infatti, di sopprimere le parole “in contrasto con l’utilità sociale”. A seguito del dibattito che si instaurò in quella sede, nella seduta del 13 maggio affermò che: “Il primo emendamento all'articolo 39 da me presentato si limitava a togliere le parole: «in contrasto con l'utilità sociale o». Ma poiché vedo che l'Assemblea è propensa ad introdurre nei testi legislativi
Il dibattito sulla qualificazione della formula dell’utilità sociale proseguì anche al di fuori della sede della Costituente e, per molti anni, ha continuato ad accendere gli animi della dottrina che ha proposto, nel corso del tempo, le più varie interpretazioni42.
La difficoltà di identificare una precisa definizione di “utilità sociale” ha condotto una parte della dottrina ad evidenziare che l’indefinibilità «meramente ontologica » di un concetto è un fenomeno ricorrente nelle legislazioni di ogni tempo se non addirittura necessario per la sopravvivenza e la vitalità dei singoli sistemi giuridici e che si concretizza nella presenza dei c.d. “principi-valvola” ossia di meccanismi tesi a far sì che gli ordinamenti possano essere dotati dell’elasticità necessaria per adeguarsi al «continuo evolversi della vita politica e sociale» 43. La formula dell’“utilità sociale” sarebbe da collocare proprio in tale categoria.
La scelta dei Costituenti di utilizzare una siffatta formula, infatti, è da rintracciare nella consapevolezza, da parte degli stessi, dell’impossibilità di prevedere «tutto il reale e tutte le forme possibili della sua evoluzione» e alla conseguente necessità di trovare uno strumento attraverso il quale rimettere a chi si troverà ad “applicare il diritto” l’evoluzione della norma che, in tal modo,
parole le quali non hanno un significato preciso e su cui i commentatori avranno in avvenire ampio campo a discutere, su questo punto preciso non insisto. Avevo già imparato che nelle Costituzioni di oggi si usano indicare principî ed additare indirizzi per l'azione successiva del legislatore. Apprendo ora che, oltre ad indicare principî ed indirizzi per il legislatore futuro, si formulano anche auguri, che in avvenire si riesca a scoprire il significato delle parole che oggi non si conosce”. Così nella seduta dell’Assemblea costituente del 9 maggio 1947. Alla posizione di Xxxxxxx si oppose con forza Xxxxxxxxxx il quale puntualizzò che non vi sarebbe dovuto essere timore di alcun abuso o arbitrio in quanto il “legislatore futuro”, che Xxxxxxx non vedeva di buon occhio, sarebbe stato il Parlamento nominato dal popolo italiano in libere elezioni e, per tale ragione, non si sarebbe mai potuto parlare di arbitrio ma di “interpretazione della volontà del popolo italiano” in un dato momento.
42 Mortati, attraverso una lettura sistematica dell’art. 41 Cost. con l’art. 4 Cost., la definì come l’esigenza di raggiungere i massimi livelli di occupazione in C. MORTATI, Il diritto al lavoro secondo la Costituzione della Repubblica in Problemi di diritto pubblico nell’attuale esperienza costituzionale repubblicana. Raccolta di scritti, III, Milano, 1972, 42 ss. Altro Autore la intese, invece, come “benessere economico collettivo” definendo quest’ultimo come “progresso materiale di tutti in condizioni di eguaglianza”. In tal senso v. X. XXXXXXXXX VIGORITA, L’iniziativa economica privata nel diritto pubblico, op.cit., 243 ss. Per una chiara e completa ricostruzione dei diversi orientamenti della dottrina v. X. XXXXXXX- X. BIN, Commentario breve alla Costituzione, II ed., Art. 41, 403 ss.
43 In tali termini A. XXXXXXXXXXX, Iniziativa economica privata, op. cit., 604 ss. L’Autore precisa, inoltre, che l’utilità sociale in quanto formula riassuntiva dei bisogni della comunità è in realtà determinabile come precetto specifico dell’ordinamento giuridico dal momento che è affidata agli organi ed ai soggetti dotati di poteri di supremazia e di autonomia politica e privata, la scelta dei fini o dei valori che ritengono, in virtù della loro mediazione, come giuridicamente obbligatori.
potrà seguire i cambiamenti dei rapporti sociali potrà realizzare quel progetto di trasformazione sociale previsto dall’art. 3, comma 2, Cost. 44 .
È proprio partendo dal progetto di trasformazione sociale che la più attenta dottrina è riuscita a dare una qualificazione quanto più precisa di cosa possa intendersi, ai sensi dell’art. 41 Cost., per “socialmente utile” e a far sì che la riconosciuta definizione di utilità sociale possa coincidere anche con la sua natura di “principio-valvola” dell’ordinamento45.
44 Cfr. X. XXXXXXX, La produzione economica privata nel sistema costituzionale, op. cit., 81 ss. in cui specifica anche che la formula dell’“utilità sociale” sarebbe da identificare non solo come principio valvola ma anche come un “concetto di valore” ossia come formula che ha come referente un valore e come tutti i concetti di valore consente l’adattamento dell’ordinamento al mutare dei fatti sociali. L’A. ha escluso che per “socialmente utile” possa intendersi ciò che corrisponde alla tutela del pubblico interesse in quanto quest’ultimo sarebbe interesse unicamente dello “stato-persona” o comunque dei suoi enti territoriali e non della società nel suo insieme. A tale considerazione segue la precisazione secondo cui gli interessi pubblici possono coincidere con gli interessi sociali ma non possono farlo automaticamente o per mera definizione. Inoltre, sarebbe lo stesso art. 41 ad indicare l’irriducibilità dell’interesse sociale a quello pubblico (seppur implicitamente) quando assoggetta l’attività economica pubblica ai programmi e ai controlli del terzo comma. In tal modo, infatti, escluderebbe che essa sia, per il semplice fatto di essere, un sicuro mezzo per il raggiungimento dei “fini sociali”. In questi termini anche X. XXXXXXX, Pubblico e privato nella regolazione dei rapporti economici, in Trattato, 1977, vol. I, 3 ss. Secondo tale ricostruzione, dunque, per utilità sociale dovrebbe intendersi la sintesi degli interessi della società nel suo complesso e non di parti di essa o di alcuni suoi gruppi o categorie presenti al suo interno. Sempre Xxxxxxx, in diverse sue opere precisa come l’utilità sociale non sia riconducibile “all’utilità economica”, al “benessere economico” di tutti i cittadini in quanto “la massimizzazione dei benefici economici” è un obiettivo soltanto strumentale rispetto a quelli riassuntivamente indicati all’art. 3, comma 2, Cost. La stessa Corte costituzionale ha ricordato, in alcune risalenti pronunce, che l’utilità sociale “ha anche un contenuto economico” (Corte cost., 20 maggio 1976, n. 123). Si veda per tutti X. XXXXXXX, La produzione economica privata nella giurisprudenza costituzionale, op. cit., 51 ss. Di diverso avviso, invece, sarebbe X. XXXXXXXXX VIGORITA, L’iniziativa economica privata nel diritto pubblico, 243 ss.
45 La società a cui però si riferirebbe l’art. 41 Cost. o, per meglio dire, a cui tenderebbe la Costituzione nella sua interezza, tuttavia, non è una società “omogenea” chiaramente identificabile a priori in quanto non può ritenersi che nel pensiero dei Costituenti vi fosse la volontà di garantire un determinato e costante disegno di società ma, semmai, solamente un progetto di trasformazione sociale Così X. XXXXXXX, Art. 41, op. cit., 27 ss. Per questo può ritenersi che la “società” a cui sarebbe da riferire “l’utilità” dell’art. 41 Cost., appartenga ad un disegno di una società “di transizione”, che tende verso una “società futura” che non viene regolata in Costituzione ma che dovrà esserne il frutto, dovrà essere una precisa derivazione del processo di trasformazione di cui al richiamato art. 3, comma 2, Cost. Sul punto X. XXXXXXX, La produzione economica, op. cit., 129 ss. Ed è tramite questo collegamento che, conseguentemente, può affermarsi che l’utilità sociale non potrà coincidere con l’interesse di “chiunque” ma solamente di quelli che di volta in volta saranno titolari di interessi che coincideranno con il processo di trasformazione di cui all’art. 3, comma 2 Cost. Questo non sta a significare che la qualificazione di utilità sociale rientri di nuovo in una “zona d’ombra” di inconoscibilità in quanto, seppur è vero che non potrà mai dirsi a priori cosa sia “socialmente utile”, tuttavia, potrà individuarsi per cosa debba esserci utilità, a cosa debbono essere utili “le incidenze sulla produzione”: agli obiettivi e agli oggetti individuati dall’art. 3, comma 2, Cost. Così ancora X. XXXXXXX, La produzione economica, op. cit., 131. Ciò posto, non può non concordarsi con chi ha ritenuto che si debba ritenere “socialmente utile” tutto ciò che è in linea con il progetto di trasformazione sociale delineato dalla Costituzione nel suo intero e precisato dall’art. 3, comma 2, Cost. Tuttavia, non possono non aggiungersi alcune ulteriori precisazioni. Non può dimenticarsi, infatti, che la delicata opera di individuazione delle singole fattispecie spetta “agli organi costituzionali” per tale intendendosi gli organi legislativi, il Governo e la
Da quanto sinora evidenziato possono compiersi alcune considerazioni.
In primo luogo, l’esclusione di ogni tipo di “pietrificazione” 46 e di precisa individuazione legislativa della nozione di utilità sociale è stata validamente giustificata proprio sulla base della (necessaria) duttilità della norma, che fa sì che la stessa possa dispiegare i propri effetti di “principio-valvola” e rendere l’ordinamento flessibile davanti ai continui mutamenti economici, politici e sociali a cui, per sua natura, è chiamato ad adattarsi.
Tale interpretazione degli elementi intrinsechi all’art. 41 ha reso possibile l’interpretazione di chi, intendendo la libertà di concorrenza come valore implicito nella libertà di iniziativa (in quanto libertà di tutti, verso lo Stato e verso gli altri operatori), ha ritenuto di poter individuare il fondamento costituzionale del principio di libera concorrenza nell’art. 41, comma 2 e 3, e in particolar modo nella nozione di utilità sociale.
Corte costituzionale. Così A. XXXXXXXXXXX, Iniziativa economica privata, op.cit., 604. Proprio la Corte costituzionale, con il suo instancabile intervento, infatti, ha guidato la delimitazione delle singole fattispecie normative nelle quali sia possibile rintracciare “l’utilità sociale” e se, da un lato, ha respinto la tesi dell’inconoscibilità della formula delineata dai costituenti, dall’altro, ha valorizzato l’opera del legislatore, ritenendola indispensabile - seppur sottoposta al suo controllo di legittimità (Sui limiti del sindacato giurisdizionale sul rispetto dell’utilità sociale v. X. XXXXXXX, L’iniziativa economica, op.cit.,54 ss.; A. XXXXXXX, Libertà d’impresa nell’ottica del controllo sull’utilità sociale, in Giur. cost., 2001, 1473 ss.) - ai fini della precisa definizione di quali siano, di volta in volta, gli interessi così rilevanti la cui realizzazione possa essere definita come di “utilità sociale”. Spetta, dunque, al legislatore ordinario la determinazione del concreto modo di operare dell’utilità sociale, trattandosi di una scelta politica volta ad attuare il predetto progetto costituzionale in base a valutazioni di opportunità. Sul punto si richiama X. XXXXXXX, xxx. op. cit., 131. Anche in altre pronunce, oltre quelle già richiamate, la Corte si è soffermata sul rapporto intercorrente tra il suo operato e quello legislativo nella determinazione di ciò che, nei singoli casi concreti, possa essere ricondotto alla “clausola generale” (Corte cost. 94/2013) dell’“utilità sociale”, ed ha affermato che “essa legittima l’introduzione di vincoli e limiti alla libertà di iniziativa economica” ma - richiamando un precedente più risalente - essi “non devono necessariamente risultare da esplicite dichiarazioni del legislatore” (Corte cost. n. 46/1963) essendo sufficiente “la rilevabilità di un intento legislativo di perseguire quel fine e la generica idoneità dei mezzi predisposti per raggiungerlo” (Corte cost. n. 63/1991) ferma l’esigenza che l’individuazione delle medesime “non appaia arbitraria” e che le stesse non siano perseguite dal legislatore mediante misure palesemente incongrue” (Corte cost. n. 247/2010). Nonostante queste “indicazioni” la Corte non si è mai spinta oltre definendo, in maniera puntuale, la nozione di “utilità sociale”. È stato possibile, tuttavia, rintracciare una “logica comune” corrispondente al principio secondo cui “sono di utilità sociale quei beni che non solo sono ritenuti tali dal legislatore ma che godono anche e soprattutto di diretta protezione e garanzia in Costituzione” così X. XXXXXXX, xxx. op.cit., 53 ss. Questi “beni” sarebbero da far coincidere, dunque, con altri interessi o diritti costituzionalmente garantiti quali, ad esempio, l’ambiente o il diritto alla salute – che vengono, di volta in volta, a confliggere con l’iniziativa economica privata la quale, in forza del secondo comma dell’art. 41, comma 2, subirà i limiti ivi previsti, Cfr. R. NIRO, op. cit., 855 ss.
46 R. NIRO, Art. 41, op cit., 854 ss.
Ciò in quanto quest’ultima, comprenderebbe anche interessi economici massimamente garantiti da un funzionamento concorrenziale del mercato e tra i fini sociali cui l’iniziativa economica privata va indirizzata e coordinata ai sensi del comma 3 vi sarebbero anche quelli inerenti al funzionamento del mercato47.
2.1. La tutela della concorrenza nella Costituzione: dal riconoscimento della libertà di iniziativa economica privata all’affermazione del principio della libera concorrenza
La poliedricità che, come visto, ha caratterizzato (e caratterizza) l’intero art. 41 Cost. ha dovuto confrontarsi con un cambiamento “copernicano” che ha comportato un approccio completamente diverso alle questioni sino ad ora esposte, ossia l’istituzione della Comunità economica europea e la progressiva affermazione dei principi posti alla base dell’integrazione europea, primi fra tutti il principio di «un’economia di mercato aperto e in libera concorrenza»48.
47 In tal senso G. OPPO, L’iniziativa economica, Relazione presentata al convegno “La Costituzione economica (a quarant’anni dall’approvazione della Carta fondamentale)”, Milano, 6-7 maggio 1988, in Riv. dir. civ., 1988, 1, 309 ss. Sull’ interpretazione della concorrenza quale limite di utilità sociale dell’iniziativa economica privata si è espressa anche la Corte costituzionale (sent. n. 241 del 1990) che, in tale occasione riconduceva i «valori del mercato, dell'efficienza, della competitività fra le imprese e del mantenimento della concorrenza, al fine di utilità sociale cui deve essere finalizzata l'attività imprenditoriale».
48 Art. 4 del Trattato di Roma, istitutivo della CEE. In realtà, le disposizioni sulla concorrenza contenute nel Trattato di Roma del 1957 non hanno avuto una grande influenza in Italia per almeno trent’anni. Gli equilibri hanno cominciato a mutare soltanto dalla seconda metà degli anni ’80 quando la Corte costituzionale ha accettato il primato del diritto comunitario sul diritto interno e quando in Europa si sono sviluppate con forza le politiche di liberalizzazione in vari settori. In tal senso, M. X’XXXXXXX, Concorrenza, in Dizionario di diritto pubblico, a cura di X. XXXXXXX, II, 2006, 1140 ss. Sul rapporto tra l’art. 41 Cost. e il fenomeno di integrazione europea si veda anche, ex multis: L. XXXXXXXX, Articolo 41, in La Costituzione italiana commento articolo per articolo, a cura di X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXX, X. X. XXXXXXXX, X, 0000; X. XXXXXX, L’economia di mercato tra Costituzione italiana e Costituzione europea, in Costituzione europea e interpretazione della Costituzione italiana, a cura di
X. XXXXXX e G. ALPA, Napoli, 2006; E. XXXXX, Concorrenza, iniziativa economica e utilità sociale: spigolature su principi e limiti tra ordinamento europeo e Costituzione italiana in Rassegna di diritto pubblico europeo, 1, 2016, 89 ss.; X. XXXXXX, Economia di mercato e regolazione statale: la controversia tedesca sulla wirtschaftsverfassung e il “posto” dell’art. 41 della costituzione italiana, in Ianus dir. e fin., 5, 2011, 9 ss; S. DEL GATTO, Poteri pubblici, iniziativa economica e imprese, Roma Tre-Press, 2019.
L’idea di mercato del costituente è stata quindi intaccata dall’idea di un mercato aperto49, senza barriere (tariffarie e non)50, in cui i singoli imprenditori, in concorrenza tra di loro, tendono a migliorare la qualità dei prodotti e a ridurne i prezzi51.
Nel 1957 lo Stato italiano, infatti, aderendo al Trattato CEE, accettava il mercato «come principio istituzionale irrevocabile»52 e riconosceva come proprio obiettivo quello di promuovere mediante «l’instaurazione di un mercato comune e il graduale riavvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri» uno sviluppo “armonioso” delle attività economiche
«nell’insieme della Comunità»53.
Le libertà economiche a cui il Costituente aveva riconosciuto una libertà “dimidiata”, acquistano, dunque, una nuova linfa diventando il “faro d’azione”54 della Comunità (poi Unione), a cui viene riconosciuta l’idoneità a dar vita ad un sistema, il mercato appunto, capace di esprimere, «in virtù dei suoi meccanismi interni di autoregolazione, il massimo realizzabile di efficienza economica e di crescita del tenore di vita complessivo» 55.
Da qui la necessità di adattare le disposizioni del dettato costituzionale ai principi derivanti dall’adesione alla Comunità.
49 L’idea di mercato comunitario è stata definita anche di “capitalismo sociale”, ossia un’economia che ai sensi dell’art. 3, par. 3, TUE, persegue lo sviluppo sostenibile attraverso una crescita economica equilibrata e la stabilità dei prezzi, mediante un’economia sociale di mercato che miri alla piena occupazione e al progresso sociale. Così G.M. RUOTOLO, La costituzione economica dell’Unione europea al tempo della crisi globale, in Aa.Vv. Studi sull’integrazione europea, Cacucci Editore, 2012,433 ss.
50 Tradizionalmente, come barriere non tariffarie sono state identificate quelle dei controlli alle frontiere, la presenza di norme e regole tecniche differenti tra Stato e Stato; le differenze tra le legislazioni nazionali, le prassi protezionistiche. Così X. XXXXXXXX, La sfida del 1992. Una grande scommessa per l’Europa, Xxxxxxxx & Kupfer Editori, 1992, 13 ss.
51 Definizione di X. XXXXXXX, Art. 41, op.cit. secondo cui la libera concorrenza è «cardine fondamentale del sistema economico: si confida che più imprenditori in concorrenza tra loro tenderanno, per procurarsi la preferenza dei consumatori, a migliorare la qualità dei prodotti e a ridurne i prezzi; e essi tenderanno, per superarsi a vicenda, ad una sempre più intensa utilizzazione delle risorse naturali e umane, con l’effetto di accrescere la prosperità generale».
52 X XXXXXXX, Pubblico e privato nell’economia. La sovranità tra Costituzione ed istituzioni comunitarie, in Quad. cost., I, 1992, 41.
53 Art. 2 del Trattato di Roma. Tali principi vennero poi rafforzati con l’Atto Unico europeo e con il Trattato di Maastricht.
54 Espressione utilizzata da X. Xxxxxxx che ha definito il principio della concorrenza come il “faro d’azione della Comunità” in X. XXXXXXX, La Costituzione italiana e gli ostacoli all’integrazione europea, in Pol. dir., 1992, 4, 557 ss.
55 X. XXXXX, Libertà economiche e libertà d’impresa, 2001, op. cit., 78.
Infatti, seppur dibattuto, il modello (prefigurato volontariamente o meno che si voglia dal Costituente) che aveva definito i rapporti economici del Paese era stato, come ricordato, quello della c.d. “economia mista”, modello che, davanti a tali cambiamenti, necessitava di una rilettura e di un obbligato adattamento.
Questo «processo di emancipazione dallo schema dirigistico» prefigurato dalla Costituzione, dunque, ha trovato nei principi posti a base dell’integrazione europea il proprio fondamento e la propria legittimazione56.
Vi era l’esigenza, in primo luogo, di sancire la compatibilità dei predetti principi economici di matrice europea con le disposizioni costituzionali in materia economica, e, conseguentemente, di stabilire se il principio della concorrenza avesse (e in che modo) un qualche tipo di copertura costituzionale e, dunque, se fosse possibile che la tutela della concorrenza fosse presente nel disegno del costituente.
In altre parole, il “fuoco” del dibattito era quello di definire il rapporto intercorrente tra la libertà di iniziativa economica dell’art. 41 Cost. e il principio della libera concorrenza e se quest’ultimo potesse trovare il proprio riconoscimento costituzionale nelle maglie dell’art. 41 Cost.
Vi è stato, infatti, chi ha ritenuto che la libertà di iniziativa economica dell’art. 41 Cost. potesse contenere al suo interno anche il principio di libera concorrenza in quanto la libertà di concorrenza sarebbe una libertà, per certi versi, conseguente alla libertà di iniziativa economica e valevole non solo, in senso verticale, nei confronti dello Stato e dei poteri pubblici, ma anche, in senso orizzontale nei confronti degli altri privati57.
56 Sempre X. XXXXX, Libertà economiche e libertà d’impresa, op. cit., 79. Questa “emancipazione” è stata interpretata da parte della dottrina come momento determinante a tal punto da fungere da “spartiacque” tra la “vecchia” Costituzione economica” e la “nuova Costituzione economica” che troverebbe il suo caposaldo nella prospettiva ultra-nazionale. In tal senso X. XXXXXXX, La nuova costituzione economica, op. cit., 320 ss.
57 Parte della dottrina ha ritenuto che l’iniziativa privata ed il mercato sarebbero collegati con le libertà individuali nel senso che queste ultime non potrebbero svolgersi compiutamente se non in un regime che sia anche di libertà economica. X. XXXXXXX, Pubblico e privato nell’economia. La sovranità tra Costituzione e istituzioni comunitarie, in Quaderni cost., 1992, 32, 21 ss. Sono da ricondurre a tale indirizzo interpretativo anche, ex multis: X. XXXXXXXXX, Il mercato: i modelli di organizzazione, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, a cura di X. XXXXXXX, vol. III, L’azienda e il mercato, Padova, 1979, 471; A. PACE, Libertà del mercato e nel mercato, in Pol. dir.,
In altre parole, in tale ottica, la libertà di iniziativa economica non sarebbe da intendersi unicamente in senso verticale nei confronti dello Stato e dei poteri pubblici, bensì anche in senso orizzontale, nei confronti della generalità degli altri consociati.
Ciò in quanto, affinché possa realizzarsi la libertà di ciascun singolo di intraprendere ed esercitare la propria attività imprenditoriale, sarebbe necessaria la presenza di regole che impediscano che l’esercizio della libertà di uno pregiudichi quella degli altri58.
Secondo diversa interpretazione, invece, la libertà di iniziativa economica non potrebbe contenere in sé il principio di concorrenza in quanto la prima sarebbe unicamente una “figura verticale”, tesa a delimitare “sfere di azione” protette contro lo Stato; la seconda, invece, avrebbe natura orizzontale riferibile solo ai rapporti tra imprenditori, ossia soggetti che esercitano la libertà di iniziativa economica59.
In merito a tale dibattito, se, da un lato, non può negarsi che la libertà di concorrenza possa essere identificata quale diretta conseguenza dell’esercizio della (piena ed effettiva) libertà di iniziativa economica privata; dall’altro lato non può ritenersi che fosse nell’intenzione del Costituente, attraverso il primo
1993, 177; X. XXXXXXX, Art. 41, op. cit., 7 ss. Altro Autore, intendendo la libertà di concorrenza come valore implicito nella libertà di iniziativa (in quanto libertà di tutti, verso lo Stato e verso gli altri operatori) ha ritenuto di poter individuare il fondamento costituzionale del principio di libera concorrenza nell’art. 41, comma 2 e 3, e in particolar modo nella nozione di utilità sociale. Quest’ultima, infatti, comprenderebbe anche interessi economici massimamente garantiti da un funzionamento concorrenziale del mercato e tra i fini sociali cui l’iniziativa economica privata va indirizzata e coordinata ai sensi del comma 3 vi sarebbero anche quelli inerenti al funzionamento del mercato. In tal senso G. OPPO, L’iniziativa economica, op. cit. Sull’ interpretazione della concorrenza quale limite di utilità sociale dell’iniziativa economica privata si è espressa anche la Corte costituzionale (sent. n. 241 del 1990) che, in tale occasione riconduceva i “valori» del mercato, dell'efficienza, della competitività fra le imprese e del mantenimento della concorrenza, al fine di utilità sociale cui deve essere finalizzata l'attività imprenditoriale”.
58 Per un’attenta ricostruzione dei diversi orientamenti v. X. XXXXXX, L’economia di mercato, op. cit. .
59 N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, 95 ss Secondo Xxxx la Costituzione avrebbe ignorato l’economia di mercato non contemplando né “relazioni vicendevoli” tra gli imprenditori né quelle tra imprenditori e consumatori. Questo in quanto, a detta dell’Autore, la concorrenza doveva apparire ai costituenti come un “affare privato”, immeritevole di sostegno e protezione costituzionale e per il quale era utilizzabile il Codice civile. Secondo una differente opinione, il rapporto tra iniziativa e concorrenza dovrebbe essere ricostruito sulla base del rilievo che l’art. 43 Cost. non contiene alcun principio antimonopolistico (contra X. XXXXXXX, Art. 41, 13) la Costituzione conterrebbe un principio di libera concorrenza ed avrebbe optato per una struttura anticoncorrenziale del mercato pur, tuttavia, non prevedendo alcuna garanzia. In tal senso X. XXXXXXX, Monopolio e Concorrenza, in Enc. Dir., XXVI, Milano, 1976, 793 ss.
comma dell’art. 41 Cost., garantire un mercato concorrenziale agli operatori privati.
Si è vista, infatti, la titubanza con cui i Costituenti hanno riconosciuto tutela costituzionale alle libertà economiche private e le difficoltà emerse in sede di Assemblea costituente per delineare una struttura di mercato quanto più rispondente alle esigenze del tempo e che potesse comunque legarsi al progetto di trasformazione sociale delineato in Costituzione.
Tuttavia, una Costituzione che garantisce e riconosce l’iniziativa economica privata in termini di libertà (seppur, come visto, non assoluta) non può dirsi contraria a garantire, nelle maglie delle sue disposizioni, la possibilità che tale libertà venga esercitata non solo nei confronti dello Stato ma anche degli altri soggetti privati che ne sono parimenti titolari.
Se, dunque, può dirsi azzardato ipotizzare che fosse nei piani del Costituente garantire una copertura costituzionale ad un’idea di mercato ancora così distante, ciò che è certo è che seppur non vi sia stata una prefigurazione in tal senso, la «felice ambiguità»60 di cui è pregna la Costituzione italiana è stata un valido strumento di elastico adattamento alle nuove circostanze, ai “nuovi” principi economici.
Attraverso la suddetta interpretazione evolutiva, infatti, non è parso impossibile legare il principio di libera concorrenza al dettato dell’art. 41 Cost. che ha così potuto dispiegare le sue «potenzialità concorrenziali nascoste»61, dimostrando come la Costituzione sia «un contenitore adatto» per la «cultura del mercato», capace di dare alle sue norme significati differenti rispetto a quelli ipotizzati dai suoi autori62.
Tuttavia, non può considerarsi priva di pregio l’opinione di chi ha ritenuto che il “cambiamento di rotta” della costituzione economica nella direzione di un’economia aperta e competitiva – anch’essa necessariamente compatibile con il parametro dell’utilità sociale quale limite della iniziativa economia
60 X. XXXXX, Il mercato nella costituzione, op. cit., 18.
61 Così R. NIRO, Art. 41, cit., 851.
62 X. XXXXX, Il mercato nella costituzione, op. cit., 18.
privata63 – non possa ritenersi, ad oggi, “costituzionalmente imposta” solamente in forza dell’art. 41 Cost., ma troverebbe il suo pieno riconoscimento costituzionale, nell’art. 11 Cost. che avrebbe dato modo all’ordinamento di recepire il modello di economia di mercato previsto dai Trattati senza alcuna ulteriore forzatura interpretativa64.
In tal senso, il principio della concorrenza avrebbe trovato – per il tramite della suddetta interpretazione evolutiva – il suo legame con la Costituzione economica nella libertà di iniziativa economica privata in qualità di sua diretta conseguenza65; e, per il tramite dell’art. 11 Cost, un diretto collegamento con le norme comunitarie66 che ne prevedono la tutela da parte degli Stati membri,
63 X. XXXXXX, L’economia di mercato, op. cit., 174 ss.
64 X. XXXXXX, L’economia di mercato, op. cit., 181. Altro Autore ha rilevato che i principi fondamentali del diritto dell’economia si troverebbero “fuori dalla Costituzione statale o, se si vuole, dentro la Costituzione europea”. N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, op. cit., 101 ss. In tal senso anche X. XXXXXX, Profili costituzionali dell’integrazione comunitaria, in Mercati e amministratori indipendenti, a cura di X. XXXXX e X. XXXXXX, Milano, 1993, 159 ss.; B. XXXXXXXX, I fondamenti costituzionali della concorrenza in Xxxxxxxxxxx.xx, 2017 E similmente anche in ID., I fondamenti europei della concorrenza in I fondamenti costituzionali della concorrenza, a cura di X. XXXXX -X. XXXXXXXXXXX, 0000. Secondo l’A. il fondamento costituzionale della concorrenza (ed anche dell’Autorità antitrust), non può più essere cercato nell’art. 41 Cost o nei principi costituzionali nazionali in quanto è ormai rintracciabile solo nei Trattati europei o meglio in quel “testo sostanzialmente costituzionale (anche se non lo vogliamo chiamare costituzione), costituito dai tre blocchi TUE, TFUE e della Carta europea dei diritto fondamentali”. In senso parzialmente critico X. XXXXXXX, I fondamenti costituzionali della concorrenza, op.cit. Secondo l’A. i sostenitori dell’opinione secondo la quale non avrebbe più senso interrogarsi sui fondamenti costituzionali della concorrenza dal momento che questa appare esaustivamente fondata sul diritto comunitario (e tanto più dopo che l’art. 117 Cost. è stato modificato nel senso di prevedere espressamente sia la tutela della concorrenza come materia a sé stante, sia il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione). Secondo l’A. tale possibilità interpretativa, che ritiene che la concorrenza nell’ordinamento italiano sia stata unicamente “trapiantata”, sarebbe comunque tenuta ad ammettere che la concorrenza viene “mantenuta in vita e irrorata dal sistema nel quale e per il quale opera”. Sul rapporto tra sovranità e mercato si veda X. XXXXXXX, Pubblico e privato nell’economia, op. cit., 54 ss., secondo cui l’instaurazione del mercato comunitario unificato per i condizionamenti che avrebbe determinato avrebbe avuto come conseguenza la rinuncia ad una quota di sovranità, in favore dell’istituzione comunitaria “mercato. Tale “quota di sovranità”, tuttavia, non sarebbe stata persa dall’ordinamento italiano ma verrebbe solamente esercitata in modo diverso, non attraverso organi costituzionali interni bensì tramite gli organi comunitari. Sul fondamento costituzionale ed europeo del “principio di concorrenza” si v. anche X. XXXXXXXXX XXXXX, Il “principio” di concorrenza: proprietà e fondamento in Dir. amm., 1-2, 2013, 15 ss.
65 L. F. PACE, Il concetto di tutela della concorrenza, l’art. 117 Cost. e il diritto comunitario: la “costituzionalizzazione” dell’imprenditore sovvenzionato, in Giur. cost., 2004, 4681, secondo cui “il riconoscimento del diritto di iniziativa economica ha quale conseguenza la creazione della concorrenza”; X. XXXXXXXXX, La tutela della concorrenza nella Costituzione italiana, in Giur. cost., 2005, 2, 84, il quale distingue tra libertà di concorrenza soggettiva, dell’individuo (per tale intendendosi persone e imprese) e la concorrenza oggettiva, come modo di funzionamento del mercato. La prima sarebbe tutelata dall’art. 41, comma 1 Cost., e la seconda dagli ultimi due commi dell’art. 41.
66 Le attuali norme comunitarie sarebbero quelle del TFUE ed in particolare gli artt. 28, 101, 102, 106. Si ricordano, inoltre, i Regolamenti nn. 2790 del 1999, 1475 del 2002, n. 1 del 2003, n. 139 del 2004.
alle quali l’ordinamento italiano è tenuto ad adeguarsi in virtù dell’art. 117, comma 1, Cost.
Tali interpretazioni furono necessarie, anzitutto, per far sì che la tutela della concorrenza non fosse del tutto estranea alla Carta costituzionale (e prevista unicamente a livello comunitario) e, in secondo luogo, perché all’interno del testo costituzionale il primo riferimento espresso alla concorrenza si è avuto solamente con la riforma del 2001 che, modificando la formulazione dell’art. 117 Cost., ha previsto, alla lettera e), la “tutela della concorrenza” tra le materie attribuite alla legislazione esclusiva dello Stato67.
A ciò si aggiunga che il valore che tale esplicito riferimento ha avuto nel dibattito sopra descritto è stato oggetto di diverse opinioni.
Vi è stato, infatti, chi ha ritenuto che l’inserimento della tutela della concorrenza nell’art. 117 lett. e) abbia attribuito per la prima volta dignità costituzionale al principio di concorrenzialità del mercato ed abbia «sgombrato definitivamente il campo da ogni equivoco circa la rilevanza costituzionale del principio di concorrenza»68.
Tuttavia, si ritiene di concordare con quella parte di dottrina che ritiene che l’art. 117 Cost. sia una norma tesa a ripartire le competenze tra Stato e Regioni e non a «riconoscere diritti o elevare dei valori a rango costituzionale»69 ed
67 Sugli effetti di tale costituzionalizzazione: G. CORSO, La tutela della concorrenza come limite alla potestà legislativa (delle Regioni e dello Stato), in Dir. pubbl. 2002, 3, 985 che ha osservato che la “tutela della concorrenza” prevista in una norma costituzionale comporta che venga eretta una barriera anche contro le limitazioni della concorrenza determinate dai pubblici poteri, o conseguenti alla legge, statale o regionale. E tale aspetto costituisce una novità rilevantissima se solo si consideri che la legge
n. 287/90, in difetto di una garanzia costituzionale della concorrenza, non avrebbe potuto impedire al Parlamento o ai Consigli regionali di restringere la concorrenza nell’esercizio dei poteri di regolazione in campo economico. In senso analogo, v. anche X. XXXXXXXXX, La tutela della concorrenza nella Costituzione italiana, op. cit., 1429.
68 X. XXXXXX, La recente giurisprudenza della Corte costituzionale sulla “tutela della concorrenza” (art. 117, comma 2, lett. e): linee di tendenza e problemi aperti, in Giur. cost., 2005, 4, 3448.
69 L. DELLI PRISCOLI, Concorrenza e costituzione economica, in L. DELLI PRISCOLI, Mercato e diritti fondamentali, Torino, 2011, cit., 149. Secondo l’Autore l’assenza della parola concorrenza nel testo costituzionale prima della riforma del 2001 è dovuta al fatto che la ripartizione delle competenze avveniva per mezzo di un elenco espresso di materie attribuite alla Regione mentre il resto veniva riservato allo Stato (al contrario di quanto avviene attualmente). L’assenza della parola “concorrenza” dal precedente assetto dell’art. 117 Cost. si spiegherebbe nel fatto che la sua tutela era anche prima affidata allo Stato. Ciò sarebbe avvenuto anche, ad esempio, con la parola “immigrazione”: la sua presenza in Costituzione non sta a significare che abbia acquisito un rango costituzionale che non aveva ma solo che la competenza delle politiche relative all’immigrazione non può che essere attribuita allo Stato.
abbia quindi avuto come unico scopo – oltre a quello di chiarirne in maniera esplicita la presenza all’interno della Costituzione – quello di esplicitare che la “tutela della concorrenza” sia una materia attribuita alla competenza esclusiva statale e non anche a costituzionalizzarne il valore70, in quanto tale funzione sarebbe da riconoscere ad altre disposizioni costituzionali71.
L’art. 117 Cost. è stato definito, infatti, quale “norma sulla competenza” e per tale ragione sarebbe stato insolito se, introducendo una norma sulla competenza, si fosse introdotto ex novo anche l’oggetto della stessa.
In generale, le norme sulla competenza incidono su oggetti preesistenti e ciò si evince anche analizzando l’art. 117, ove può evidenziarsi che nessuno di quegli oggetti è stato introdotto con la riforma del 2001, ma erano tutti preesistenti72.
Il rapporto tra libertà di iniziativa economica e qualificazione della concorrenza non solo è stato protagonista dei richiamati dibattiti dottrinali ma, inevitabilmente, è stato anche oggetto di diverse declinazioni da parte della giurisprudenza costituzionale che, anche in tale occasione, ha tentato di fare da “collante” tra le disposizioni costituzionali in materia economica e i principi di
70 Tendenza costante nelle recenti pronunce della Corte è un più limitato ricorso all’art. 41 Cost. in favore di una tendenza interpretativa che vede l’art. 117 Cost., non solo come norma di competenza ma anche come norma di valore e, ad oggi, l’art. 41, viene richiamato, nei giudizi di legittimità costituzionale in combinato disposto con l’art. 117, per la tutela della libertà di impresa e della libera concorrenza. X. XXXXXXXXX, La tutela della concorrenza nella Costituzione, op.cit., 509.
71 Sull’argomento c’è chi ha evidenziato che nonostante l’art 41 Cost. abbia potuto esprimere le sue “potenzialità nascoste”, tuttavia, scontava il limite di un’interpretazione soggettiva della concorrenza, risolto solo con la riforma del Titolo V della Costituzione. Fino a quel momento, infatti, il rapporto tra l’art. 41 e le norme dei Trattati europei in materia di tutela della concorrenza era da ritenersi equivalente al rapporto tra un fenomeno soggettivo e uno oggettivo, nel senso che “la norma costituzionale fonda una situazione soggettiva di libertà individuale e tutela il diritto di impresa, mentre il diritto comunitario esprime un modello di relazioni economiche e giuridiche e pone il mercato libero ed aperto come premessa per lo svolgimento della libertà di impresa”. In tal senso F. CINTIOLI, L’art. 41 della Costituzione tra il paradosso della libertà di concorrenza e il “diritto della crisi”, in Dir. e soc., 3-4, 2010, 379 ss., e anche E. XXXXX, Concorrenza, iniziativa economica e utilità sociale, op. cit., 92 ss.
72 In tal senso X. XXXXXXXXX, Relazione di sintesi, in I fondamenti costituzionali della concorrenza, a cura di, X. XXXXX-X. XXXXXXXXXXX, 2019, 149 ss., cit. Secondo l’A. la concorrenza era sicuramente preesistente alla riforma, non solo per il tramite dell’art. 41 bensì anche in relazione ad altre disposizioni, come, ad esempio, l’art. 3 Cost. Tale disposizione, infatti, ci dice quanto lo sviluppo della libera iniziativa economica privata non debba porsi in contrasto con l’uguaglianza forma e sostanziale dei cittadini. Quindi, a detta dell’Autore, in nuce c’era già tutto e a dimostrazione di ciò viene evidenziato, infatti che la Corte costituzionale, prima della novella del 2001, aveva già dedicato alla concorrenza molte sentenze (poi c’è stato lo sviluppo europeo).
derivazione comunitaria, in particolar modo nel prezioso tentativo di fornire una quanto più precisa nozione (contenutistica) della concorrenza.
La Corte costituzionale, se in alcune più risalenti decisioni ha qualificato la concorrenza quale «valore basilare della libertà di iniziativa economica»73 e come “libertà” che integra «la libertà di iniziativa economica che spetta nella stessa misura a tutti gli imprenditori»74; nella più recente giurisprudenza, invece - come è stato osservato75 - questi richiami sembrerebbero essere meno frequenti in favore di una più ampia “dimensione” della medesima nozione, sulla base dei principi e delle influenze comunitarie76.
In tal senso, la Corte ha affermato, a più riprese, che «dal punto di vista del diritto interno la nozione di concorrenza non può non riflettere quella operante in ambito comunitario» e comprende non solo interventi regolativi ma anche misure antitrust e misure destinate a promuovere un mercato aperto e in libera concorrenza77.
La Corte – come anticipato nel primo paragrafo – ha anche chiarito che tali misure si specificherebbero in: a) interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali le misure legislative di tutela in senso proprio sia che contrastino gli atti ed i comportamenti delle imprese sia che incidano
73 Corte cost. n. 240/1990.
74 Corte cost. n. 223/1982.
75 R. NIRO, Art. 41, op. cit., 857.
76 Sullo sviluppo dell’intervento della Corte ai fini della definizione della “concorrenza” v. X. XXXXXX,
Tutela della concorrenza e giurisdizione, Napoli, 2018, 49 ss.
77 Il leading case di tale definizione è la pronuncia n. 14 del 13 gennaio del 2004, in Giur. cost., 2004, 237, con note di A. PACE, Gli aiuti di Stato sono forme di tutela della concorrenza, di G.P. DOLSO, Tutela dell’interesse nazionale sub specie di tutela della concorrenza, di C. BUZZACCHI, Principio della concorrenza e aiuti di Stato tra diritto interno e diritto comunitario e di L.F. PACE, Il concetto di tutela della concorrenza, l’art. 117 Cost. e il diritto comunitario: la costituzionalizzazione della figura dell’”imprenditore sovvenzionato”, ivi, 4678. Le sentenze della Corte con profili definitori in tema di concorrenza sono sterminate, per ricordarne alcune: Corte cost. n. 272/2004; Id., n. 345/2004; Id., n. 336/2005; Id., n. 80/2006; Id., n. 401/2007; Id., 430/2007; Id., n.63/2008; Id., n. 160/2009; Id., n.
45/2010 n. 270/2010; Id., n. 325/2010; Id., n. 339/2011; Id., n.200/2012; Id., 291/2012; Id., 171/2013;
Id., n. 94/2014; 125/2014. In tale ultima pronuncia è stato specificato che: «la nozione di concorrenza di cui al secondo comma, lettera e), dell’art. 117 Cost. riflette quella operante in ambito comunitario e comprende: a) sia gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali le misure legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e che ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; b) sia le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo, cioè, in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche».
negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e che ne disciplinino le modalità di controllo; b) misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo, cioè, in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche.
Il concetto di tutela della concorrenza, stando alla costante interpretazione della Corte costituzionale, ad oggi, è stato ampliato fino a ricomprendere il sostegno finanziario della produzione in determinati settori economici.
Ciò in base della considerazione che la tutela della concorrenza costituisce
«una delle leve della politica economica statale» e per tale ragione non può essere intesa unicamente in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di equilibri perduti, bensì anche in un’accezione dinamica, nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche tese a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di uno sviluppo sufficiente del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali.
Attraverso tali interventi, dunque, la Corte costituzionale è riuscita a delineare una nozione contenutistica del concetto di concorrenza quanto più elastica possibile a adattabile alle diverse “dimensioni” che la stessa va via via assumendo all’interno dell’ordinamento.
2.2. Le “potenzialità concorrenziali nascoste” dell’art. 41 Cost.
Attraverso le considerazioni sin ora svolte si è cercato di delineare e ricostruire il percorso evolutivo dell’art. 41 Cost., quale norma forse di maggior rilievo all’interno della c.d. Costituzione economica, non solo per il peso che, come visto, ha avuto all’interno del dibattito dei Costituenti ma anche per il fondamentale ruolo che ha acquisito nel corso del tempo e che ha fatto sì che essa possa essere considerata una delle disposizioni di maggior peso nello studio di ciò che oggi viene comunemente inteso per “concorrenza”.
La chiave di lettura di tale disposizione, tesa a riconoscerle (ancora) un certo pregio, può forse rintracciarsi nella “felice ambiguità”78 che, come visto, caratterizza non solo le sue “formule interne” ma l’art. 41 Cost. nella sua interezza.
Questa elasticità ha permesso al dettato costituzionale, tramite una necessaria interpretazione evolutiva, di adattarsi al mutare delle esigenze economico-sociali dell’ordinamento e volendo anche ad ospitare la nuova e diversa visione del mercato offerta dall’Unione europea.
La duttilità dell’art. 41 Cost. ha espresso quindi il suo pieno potenziale a seguito dell’ingresso nella Costituzione economica dei principi di derivazione comunitaria.
Come si è detto, infatti, seppur nel pensiero dei Costituenti non vi fosse forse l’intenzione di porre, nel riconoscimento della libertà di iniziativa economica, il fondamento per l’attuazione di un mercato aperto e in libera concorrenza, è pur certo che l’art. 41 Cost., come si è visto, nonostante l’esposizione a critiche ed ideologie varie, è riuscito ad adattarsi ai mutamenti economici e sociali dell’ordinamento e ancora oggi riesce a dispiegare i suoi effetti, seppur differenti, da quelli prefigurati in sede di Assemblea costituente. Sebbene si riconosca il pregio dell’opinione di chi ritiene che la tutela della concorrenza sia da ritenersi del tutto emancipata dal testo costituzionale e da ogni riferimento ivi contenuto, non si ritiene, tuttavia, di poter concordare con l’idea che vede la tutela della concorrenza quale elemento unicamente
“trapiantato” nel nostro ordinamento.
78 X. XXXXX, Il mercato nella costituzione, op. cit., 18. Tale concetto si potrebbe ricondurre prima ancora che al primo comma dell’art. 41 (e a come è stato interpretato a seguito dell’avvento dei principi economici comunitari), alla clausola dell’utilità sociale. La presunta inconoscibilità della formula, lamentata da Einaudi, si è in realtà sviluppata, come visto, nel modo prospettato da Malagugini, ossia diventando non uno strumento di arbitrio legislativo, bensì un “principio-valvola” dell’ordinamento che ha garantito allo stesso di potersi adattare ed evolversi di pari passo con le esigenze economiche, politiche e sociali del Paese, rispondenti al processo di trasformazione sociale di cui all’art. 3, comma 2, Cost. Il rilievo che la formula dell’utilità sociale ha avuto nello sviluppo della Costituzione economica, infatti, è stato tale che alcuni hanno rintracciato in essa il fondamento per il principio di libera concorrenza. Quest’ultima, infatti, come visto, comprenderebbe anche interessi economici massimamente garantiti da un funzionamento concorrenziale del mercato e tra i fini sociali cui l’iniziativa economica privata va indirizzata e coordinata ai sensi del comma 3 vi sarebbero anche quelli inerenti al funzionamento del mercato. In tal senso G. OPPO, L’iniziativa economica, op. cit., 309 ss.
La diretta applicabilità della normativa europea nonché la prevalenza della stessa sulle norme di diritto interno all’insegna delle limitazioni di sovranità di cui all’art. 11 Cost., e l’interpretazione evolutiva dell’art. 41 Cost., hanno fatto sì, infatti, che potesse essere pienamente abbracciato il radicale cambiamento, di cui si è detto, del modo di concepire ed interpretare l’intera Costituzione economica.
Tale integrazione è stata poi consacrata anche dalla riforma del titolo V della Costituzione che ha reso sicuramente più consistente (con le anzidette specificazioni) la garanzia della libera concorrenza nel nostro ordinamento costituzionale79.
I cambiamenti che si è cercato di ricordare hanno richiesto, al fine di valorizzare tutte le potenzialità della Carta costituzionale, infatti, un’interpretazione dell’art. 41 Cost. capace di legare la libertà di impresa al più ampio contesto della libertà economica nel mercato80.
A dimostrazione di ciò, la l. 10 ottobre 1990, n. 287 “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”81 all’art. 1, rubricato “Ambito di applicazione e rapporti con l'ordinamento comunitario” prevede, al primo comma, che «le disposizioni della presente legge, si applicano alle intese, agli abusi di posizione dominante e alle concentrazioni di imprese», in attuazione
«dell’articolo 41 della Costituzione a tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica».
Seguendo tale interpretazione può notarsi come la Costituzione, in tale occasione, è riuscita ad avere quel ruolo che, usando le parole di Xxxxxxx, le è
79 Sul rilievo che tale riforma ha avuto nell’ambito della tutela della concorrenza v. M. X’XXXXXXX, La tutela della concorrenza in un sistema a più livelli, in Dir. amm., 4, 2004, 705 ss. Secondo l’A. il “nuovo” titolo V ha contribuito certamente a rafforzare la garanzia della concorrenza e del mercato, facendone un elemento fortemente unificante nel nostro sistema giuridico. Anzitutto per via del vincolo che in questa materia discende dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionale sulle leggi statali e regionali ed inoltre anche per via dell’attribuzione esclusiva alla legge statale di una materi- funzione trasversale come la “tutela della concorrenza”. In tal modo le regole e il principio della concorrenza sono divenuti una sorta di “timone” della normazione economica statale e regionale”.
80 In tal senso M. X’XXXXXXX, La tutela della concorrenza, op. cit. e anche A. PACE, Libertà “del” mercato e “nel” mercato, in La Costituzione economica, Atti, del Convegno dell’Associazione dei costituzionalisti (Ferrara, 11-12 ottobre 1991), Cedam, 1997, 175 ss.
81 Tale legge ha concretamente recepito la costituzione economica europea e ha istituito l’Autorità garante della Concorrenza e del mercato.
proprio, ossia di essere «un ponte lanciato verso l’avvenire»82, in grado di dispiegare le sue nascoste (e non previste) potenzialità.
Nei paragrafi e nei capitoli successivi si vedrà come la tutela della concorrenza che, come visto, ha faticato ad essere recepita a livello costituzionale, ha poi permeato non solo il mercato in generale ma, più in particolare, ha cambiato la figura del c.d. Stato banditore che, influenzato dal diritto UE, ha dovuto orientare la propria azione (anche normativa) in funzione della garanzia della concorrenza e del mercato libero e aperto.
3. Il ruolo della Pubblica amministrazione nel mercato
Al fine di inquadrare correttamente il ruolo della concorrenza e quello del potere amministrativo (in specie discrezionale) nel mercato dei contratti pubblici occorre partire da una più ampia prospettiva di analisi e guardare al più generale ruolo che l’Amministrazione detiene all’interno dei meccanismi di mercato83 per poi andare ad analizzare le peculiarità legate alla figura del c.d. “Stato banditore”84.
Come parte della dottrina ha già evidenziato, il distinguo fondamentale che occorre compiere, anche facendo riferimento ad elementi di analisi economica del diritto, sarebbe quello – accennato nei paragrafi precedenti – tra concorrenza nella visione “macro” e in quella “micro”.
Dal primo punto di vista, infatti, la normativa sui contratti pubblici e il ruolo che il potere pubblico esercita in tale mercato, vanno a collocarsi nel più generale contesto dell’azione pubblica sul funzionamento dei mercati; mentre, nella visione micro, la normativa sui contratti pubblici può essere considerata
82 Il senso delle disposizioni costituzionali, infatti, «risiede interamente nel modo in cui vivono». A Differenza di quanto avviene alla legge, il cui senso si compie nel modo in cui essa dispone, le norme costituzionali sono fondamentali, poiché non esauriscono mai il loro significato: «la Costituzione, prima ancora di articolarsi in enunciati che esprimono vere e proprie regole o norme, contiene principi, che sono cosa ben diversa dalle regole». Per tale ragione non si può pensare che lo schema contenuto all’art. 41 possa esprimere una regola univoca e ben definita. L’art. 41 riflette un principio, non una regola, e
«il principio costituzionale non si impone alla realtà, come la volontà sovrana del legislatore, ma ne accompagna il corso operando dall’interno». In tal senso M. RAMAJOLI, La regolazione amministrativa dell’economia e la pianificazione economica nell’interpretazione dell’art. 41 della Costituzione in Dir. amm, 1, 2008, 121 ss.
83 Cfr. X. XXXXXXX, Contratti pubblici e concorrenza, op.cit., 263 ss.
84 X. XXXXXXX, Lo Stato banditore. Gare e servizi locali, Milano, 2001.
come tesa a disciplinare un singolo atto di scambio tra due attori in un mercato determinato «imponendo alla stazione appaltante di avviare una procedura ad evidenza pubblica ogniqualvolta decida di stipulare un contratto avente per oggetto un determinato bene, servizio o lavoro» 85.
In altre parole, secondo tale ricostruzione, nella dimensione “macro”, la pubblica amministrazione può essere considerata come un agente che opera “nel mercato”; in quella “micro” come un agente che crea artificialmente un mercato in relazione a singoli atti di scambio a cui sono interessati una pluralità di operatori economici (concorrenza per il mercato)86 e ne regola l’accesso e il funzionamento attraverso precisi strumenti87.
Nella visione macro lo Stato può influenzare l’andamento del mercato in diversi modi.
Anzitutto, può agire in veste di produttore – di norma in condizione di monopolio – di beni (pubblici) fruibili gratuitamente dai cittadini, oppure può agire al fine di garantire ai cittadini la possibilità di usufruire di certi servizi dietro pagamento di un corrispettivo. Siamo qui nell’ambito dei servizi pubblici, garantiti tramite imprese pubbliche oppure direttamente con strutture operative interne agli apparati pubblici.
All’interno del mercato l’azione pubblica può poi essere di programmazione dell’impiego delle risorse scarse (governo del territorio); può essere tesa, inoltre, ad offrire ai privati l’utilizzo di risorse scarse di proprietà pubblica, da destinare alle attività imprenditoriali (ad esempio, attraverso le concessioni di beni pubblici); oppure può agire sia tramite strumenti di regolazione amministrativa88 delle attività svolte dalle imprese in determinati
85 Così X. XXXXXXX, ult. op. cit., 267.
86 A tale concezione si ricollega la distinzione, operata all’inizio del capitolo, tra concorrenza per il mercato (visione micro) e quella nel mercato (visione macro).
87 Così X. XXXXXXX, ult. op.cit.
88 In materia di regolazione amministrativa dei mercati si sono succeduti storicamente diversi modelli di intervento. Il primo riguarderebbe le «antiche radici mercantilistiche», teso a garantire situazioni di equilibrio dei mercati stessi. Un secondo modello sarebbe quello della regolazione della seconda metà del XX secolo, nel momento di maggior successo dello Stato sociale, ove la ratio ispiratrice veniva rintracciata nella necessità di dover correggere gli squilibri dello sviluppo spontaneo dei mercati, orientando gli investimenti produttivi in modo tale da realizzare risultati ritenuti ottimali in termini di giustizia sociale e di equilibrio territoriale. Per tali ragioni questo tipo di intervento è stato definito come “programmazione democratica dell’economia”. La terza “stagione” della regolazione amministrativa
settori economici, sia anche con il finanziamento delle medesime imprese attraverso sovvenzioni pubbliche (nel rispetto dei parametri posti dalla disciplina UE in materia di aiuti di Stato), oppure può collocarsi sul mercato agendo mediante l’attività produttiva di imprese di proprietà pubblica89 .
Infine, un ruolo di primario rilievo viene svolto dallo Stato e dai singoli enti pubblici nella loro qualità di “grandi acquirenti” e utilizzatori di beni e servizi, mediante l’utilizzo, in particolare, di contratti conclusi con gli operatori economici presenti sul mercato.
Il contratto, infatti, rappresenta lo strumento principale di cui l’amministrazione si serve sia per acquisire le risorse strumentali e necessarie al suo funzionamento, sia per mettere a disposizione della collettività beni e servizi90.
dei mercati trova la sua origine nella crisi dello stato sociale e nella nascita dell’UE, con lo smantellamento dei tradizionali monopoli pubblici. Da qui sarebbero rintracciabili tre fenomeni che caratterizzano le “nuove” regolazioni amministrative: i) le nuove regolazioni tendono non più a creare o mantenere posizioni dominanti stabili in certi mercati, bensì tendono ad eliminare le posizioni dominanti create dalle regolazioni amministrative del passato; ii) la titolarità dei poteri pubblici viene tendenzialmente sottratta ai precedenti apparati burocratici e la soluzione è stata quella della creazione delle autorità amministrative indipendenti, titolari di poteri di regolazione e di amministrazione attiva. In questo contesto la regolazione amministrativa viene a giustificarsi solo come misura eccezionale, quando le regole del gioco concorrenziale non portano a risultati ottimali in quanto vengono a manifestarsi fallimenti di mercato o comunque conseguenze antisociali. Così, X. XXXXXXXXX, Il diritto della concorrenza dell’Unione europea, Milano, 2014, 535 ss.
89 Per tale ricostruzione si v. X. XXXXXXXXX, ult. op. cit., 513 ss. Ove l’A. specifica poi che alcuni di questi filoni di azione possono anche interferire tra di loro: ad esempio, un’impresa in mano pubblica può essere lo strumento per realizzare la produzione di un servizio pubblico, ma può anche essere un’impresa che sta sul mercato libero, in concorrenza con imprese private. L’intervento pubblico sul mercato poi può essere anche soltanto di regolazione del gioco concorrenziale, in mercato che mantengono la libertà di accesso e di iniziativa concorrenziale al proprio interno, ma può anche tradursi nell’attribuzione di “diritti speciali od esclusivi” a favore di determinate imprese (pubbliche o private), con esclusione della libertà di ingresso per i potenziali concorrenti. Altra parte della dottrina ha invece distinto l’azione pubblica sul mercato tenendo distinte le questioni allocative – che riguardano le decisioni circa la destinazione da dare alle risorse – dalle questioni gestionali – che riguardano il modo di attuare le decisioni del primo tipo. La prima tipologia di decisioni – che riguardano cosa produrre e a che condizioni offrire ciò che è stato prodotto – vengono solitamente attuate per mezzo di imprese pubbliche ma anche ricorrendo a soggetti privati (si fa riferimento al caso dei servizi pubblici). La scelta poi tra l’operatore economico pubblico e la concessione all’impresa privata, implica valutazioni che riguardano l’efficienza dei diversi modi possibili per produrre servizi (decisioni gestionali). In questo senso X. XXXXXXXXX XXXXX, Lezioni di diritto pubblico dell’economia, X xx., Xxxxxx, 0000, 4.
90 Cfr. X. XXXXXXXXXX, La logica del diritto amministrativo, II ed., Il Mulino, 2014, 219 ove l’A. precisa anche che il ricorso a strumenti contrattuali per l’approvvigionamento di beni e servizi costituirebbe anche la conseguenza della rinuncia da parte dell’amministrazione a produrli direttamente. Questo tipo di attività, infatti, comporterebbe una scelta tra “il fare e il comprare” ossia tra l’uso di risorse proprie- interne e il ricorso al mercato. La prima soluzione implicherebbe la necessità per le amministrazioni di dotarsi di apposite strutture produttive. Tale scelta comporta, tuttavia, elevati costi di investimento. Il ricorso al mercato, invece, consente all’amministrazione di non sostenere investimenti onerosi, ma al
Per comprendere il rilievo di tale affermazione, si prenda in considerazione il dato che vede gli appalti pubblici rappresentare circa il 13% del PIL dell’Unione europea e l’11% di quello nazionale91, livelli destinati anche ad aumentare a seguito degli investimenti pubblici in programmazione per fronteggiare le conseguenze economiche della pandemia da Covid-19 attualmente in corso92.
Non stupisce, dunque, che le strategie di acquisto delle pubbliche amministrazioni, considerate come attori che operano (principalmente) dal lato della domanda, abbiano effetti sulla struttura e sulle dinamiche competitive del mercato.
Se infatti le procedure pubbliche di selezione dei contraenti sono efficienti e, dunque, tese a selezionare le imprese in grado di fornire prestazioni ottimali per le stazioni appaltanti, l’effetto complessivo è quello di favorire il successo sul mercato delle imprese migliori, garantendo così l’efficienza del mercato stesso.
Se, invece, il processo di selezione nasce distorto (a causa di un cattivo uso del potere dell’amministrazione nel delineare l’accesso al mercato), l’effetto che si raggiunge è quello di far ottenere il successo sul mercato a quelle imprese in grado unicamente di sfruttare a proprio favore le procedure di gara o che vengono favorite sulla base di valutazioni errate, e non anche a quelle capaci di fornire le prestazioni migliori93.
Nel paragrafo successivo verrà approfondito quest’ultimo “ruolo” dello Stato come acquirente di beni e servizi all’interno del mercato dei contratti
contrario può contare sulla capacità degli operatori privati di contenere al massimo i costi di produzione e puntare, grazie alle procedure ad evidenza pubblica, alla selezione dell’offerta più vantaggiosa.
91 Cfr. Commissione europea, Public Procurement Indicators 2017, 9 luglio 2019 (xxxxx://xx.xxxxxx.xx/xxxxxxxx/xxxxxxxxx/00000).
92 Si fa riferimento in particolare al piano di crescita e di sviluppo economico che dovrà essere attuato attraverso i fondi del programma Next Generation EU.
93 X. XXXXXXX, ult.op. cit., 268 ove viene specificato che anche le politiche di acquisto e le regole volte a promuovere la centralizzazione o il decentramento dei centri di spesa hanno effetti sulle dinamiche competitive. In Italia, infatti, è noto come il mercato delle commesse pubbliche sia particolarmente frammentato dato l’elevato numero di stazioni appaltanti. Ciò comporta, di conseguenza, una frammentazione della domanda pubblica in appalti poco elevati.
pubblici (recte: all’interno dei “micro” mercati appositamente creati dallo stesso con le lex specialis) e le peculiarità legate allo stesso.
3.1. La Pubblica amministrazione come acquirente nel mercato: la procedura di gara come “micro-mercato” e lo Stato “banditore”.
In merito alla richiamata visione “micro”, occorre anzitutto considerare, come già accennato, che ogni procedura ad evidenza pubblica deve essere considerata come un atto di scambio su un singolo e determinato mercato nel quale, se quest’ultimo è concorrenziale, sono presenti anche altri acquirenti di beni, servizi e lavori del medesimo genere e un numero più o meno elevato di possibili fornitori94.
In altre parole, le procedure ad evidenza pubblica possono essere viste come processi decisionali che favoriscono l’incontro tra domanda e offerta e che, stilizzando un mercato competitivo95 (c.d. micro-mercato), facilitano il processo negoziale.
In tal senso, infatti, è stato affermato che la domanda di beni, servizi, lavori delle pubbliche amministrazioni che viene soddisfatta dagli operatori appartenenti ai vari settori economici, va a delineare singoli e distinti segmenti di mercato, sebbene non necessariamente sia possibile individuare (ai fini dell’applicazione del diritto della concorrenza) un mercato rilevante a sé stante in corrispondenza di ogni singola gara pubblica96 .
Tali “micro-mercati” si differenziano – per una molteplicità di motivi – dai mercati dove gli scambi si realizzano unicamente tra soggetti privati e ciò in quanto le pubbliche amministrazioni, in veste di acquirenti, presentano diverse
94 X. XXXXXXX, ult.op. cit., 269.
95 Così X. XXXXXXX, Lo Stato banditore, op.cit., 130; X. X. XXXXXXX, Markets, Morals and the Law, Oxford University Press, 2002, 68.
96 In questo senso A. XXXXXXX, Lo Stato che contratta e che si accorda, op.cit., 36. Tale concezione è stata accolta anche dalla giurisprudenza amministrativa che, in diverse pronunce, ha appunto evidenziato come le procedure di gara siano da considerarsi come dei temporanei micro-mercati nel quale si trovano a confrontarsi gli operatori economici del settore. In questo senso v. TAR Lazio, Roma, sez. II, 07 luglio 2017, n. 8007; Id., 7 novembre 2016, n. 11038; Cons. Stato, sez.V, 18 marzo 2019, n.
1736; Id., 8 gennaio 2021, n. 284.
peculiarità che, invece, non sussistono quando sono i privati ad assumere la stessa veste97.
97 L’attività contrattuale delle pubbliche amministrazioni rappresenta una delle forme con le quali tradizionalmente si manifesta l’esercizio della funzione amministrativa, accanto agli altri due fondamentali modelli dell’agire dei pubblici poteri per provvedimenti e per accordi. Così F.P. PUGLIESE, Contratto, V) Contratti della pubblica amministrazione, in Enc. Giur., IX, Roma 1988. Sul punto si v. anche X. XXXXXXX XXXXXX, Note critiche in tema di attività amministrativa secondo modelli negoziali, in Dir. amm, 2, 2003, 243 secondo cui «l’attività negoziale delle pubbliche Amministrazioni è soggetta invero a una serie di principi pubblicistici fortemente derogatori rispetto alla disciplina comune». Sul più generale tema dell’utilizzo dei moduli convenzionali nello svolgimento dell’attività amministrativa, la dottrina è sterminata si v. ex multis: A. XXXXXXXXXX, Appalto nel codice civile e nel codice dei contratti pubblici, in Trattato sui contratti pubblici, a cura di X. XX XXXXXXXX, X.X. XXXXXXXX, X, 0000,
5 ss.; X. XXXXXXX, I contratti pubblici, Torino, 2012; X. XXXXXXX, X. BUSCEMA, Attività amministrativa di diritto privato, in I Contratti della Pubblica amministrazione, Vol. VII, a cura di X. XXXXXXX, X. BUSCEMA, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da X. XXXXXXXXXXX, XXX xx., Xxxxxx, 0000; 115 X. XXXXXXXXX, I contratti della pubblica amministrazione tra diritto pubblico e diritto privato, in I contratti con la pubblica amministrazione, a cura di X. XXXXXXXXX, Xxxx X, Milano, 2007, 54 ss.; B. ARGIOLAS, B.G. MATTARELLA, Attività amministrativa e moduli convenzionali, ivi, 73 ss.; Aa.Vv., L’attività contrattuale della pubblica amministrazione, a cura di X. XXXXX, X. XXXXXXX, Xxxxxx 0000; A. XXXXXXX, I contratti, in Tratt. Dir. amm., a cura di X. XXXXXXX, Diritto amministrativo generale, II, Milano, 2003, 1547; X. XXXXXXX XXXXXX, Il negozio come strumento di attività amministrativa, in Autorità e consenso nell'attività amministrativa. Atti del 47° Convegno di Scienza dell'Amministrazione, (Varenna, Villa Monastero 20-22 settembre 2001), Milano, 2002, 77 ss. secondo cui l’utilizzo dei modelli negoziali da parte delle Pubbliche amministrazioni dà luogo a un duplice ordine di questioni. La prima è quella relativa all’esistenza in capo a ciascun ente pubblico di una generale capacità di diritto privato. Sul punto sia dottrina (Xxxxxxxx) che giurisprudenza (Cass. SS.UU., 16 aprile 1952, in Foro pad., I, 950) hanno dato risposta affermativa. A detta dell’A., ciò sta a significare unicamente che le pp.aa., quali soggetti di diritto comune, possono essere titolari di diritti e obblighi ed altre situazioni soggettive nell’ambito dei rapporti di diritto comune (ricevere donazioni, eredità, stipulare contratti). In tal caso si parla di attività non connesse direttamente alla funzione di amministrazione in senso tecnico, come cura degli interessi pubblici. Altra questione sarebbe poi quella della possibilità di utilizzare modelli civilistici come strumenti di azione amministrativa ossia come attività di servizio per gli interessi della collettività. A questo proposito l’A. richiama le celebri parole di F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo, Milano 1911, rist. a cura di X. MIELE, Padova, 1960, 51: «il diritto pubblico è il diritto comune, ordinario per i rapporti fra individuo e Stato» che devono presumersi regolati dal diritto pubblico, salvo vi sia diversa indicazione in senso contrario. Per i compiti di amministrazione la regola è quindi l’uso del diritto amministrativo e l’eccezione l’uso del diritto privato. Di diverso avviso altra parte della più risalente dottrina, secondo cui «i moduli convenzionali tra potere pubblico e assoggettati (…) con l’avvento dello Stato pluriclasse sono talmente aumentati in qualità e quantità che si può parlare di un diverso modo di amministrare»; (M.S. XXXXXXXX, Il pubblico potere. Stato e amministrazioni pubbliche, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 126) anzi, l’agire per via convenzionale delle pubbliche amministrazioni viene oggi valutato in termini di principio, tale da consentire l’affermazione che è il ricorso all’atto unilaterale a dover essere considerato come eccezione rispetto alla regola, Così v. X. XXXXX, Il principio contrattuale nell’attività amministrativa, in Scritti in onore di M. S. Xxxxxxxx, II, Milano, Xxxxxxx, 1988, p. 47 ss. Sulla tematica si v. ancora A. XXXXXXX, I Contratti, op. cit.,1555 ss.; X. XXXXXX, Procedimento amministrativo e attività contrattuale della pubblica amministrazione, Torino, 2003; X. XXXXXXXXXX, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, Milano, 2003; X. XXXXXXX, Pubblico e privato nell’economia, op.cit.; S.A. ROMANO, Attività di diritto privato delle Pubbliche amministrazioni, in D. Disc. Pubbl., I, Torino, 1989, 531 ss.;
M. S. XXXXXXXX, Attività amministrativa, in Enc. Dir., III, Milano, 1958, 988 ss; A. AMORTH,
Osservazioni sui limiti all’attività amministrativa di diritto privato, Padova, 1938, 455 ss.
Ciò in quanto essere una pubblica amministrazione, come parte di quello che resta pur sempre un “contratto”98, comporta una disciplina speciale, per quanto riguarda il momento della scelta del soggetto contraente, quello di formazione della volontà dei soggetti contraenti e anche quello di esecuzione del contratto stesso99.
Si pensi, in primo luogo, all’autonomia contrattale della pubblica amministrazione che si differenzia notevolmente dall’autonomia negoziale privata in quanto, anzitutto, deve sempre essere tesa a realizzare l’interesse pubblico100 – specifico, concreto ed attuale – che rappresenta lo scopo stesso della contrattazione101, tramite la spendita di denaro anch’esso pubblico e deve poi sottostare alle regole discendenti dalla normativa nazionale e comunitaria102.
98 Si è soliti distinguere, sin dalla legge sulla contabilità dello stato, tra contratti x.x. xxxxxxx e attivi: dai primi consegue una spesa, dai secondi un’entrata. Altra classificazione riguarda più specificatamente l’oggetto contrattuale e distingue tra: a) contratti ordinari o di diritto comune (come vendite, locazioni, contratti d’opera) che non subiscono modifiche in ragione del fatto che una delle parti sia una p.a.; b) i contratti speciali, retti da norme di diritto privato speciali ovvero da norme civilistiche di specie rispetto a quelle generali del Codice; c) contratti ad oggetto pubblico (o di diritto pubblico) che si caratterizzano per l’incontro e la commistione tra provvedimento e contratto (es. le convenzioni che si accompagnano alla concessione di un bene pubblico) e si caratterizzano per il fatto che una delle parti deve necessariamente essere una pubblica amministrazione. I contratti c.d. “ad evidenza pubblica” non costituiscono una categoria autonoma in quanto rappresentano una categoria procedimentale che, dal punto di vista sostanziale, può essere applicata a contratti ordinari, speciali e ad oggetto pubblico. In questo senso, M.S. XXXXXXXX, Diritto amministrativo, Milano, 1970, 670.
99 Cfr. X. XXXXXXX, ult.op.cit., 5.
100 Sul punto M. S. XXXXXXXX, Istituzioni di diritto amministrativo, 1981, 459 ss. ove in merito all’attività contrattuale delle pp.aa., ricorda che la stessa – nonostante la sua natura di strumento c.d. privatistico – è comunque sempre finalizzata alla cura di interessi pubblici. Il Consiglio di Stato, dal suo canto, ha da sempre ritenuto che l’interesse pubblico debba considerarsi come “immanente” al contratto. Sul punto, tra le pronunce più recenti v. ex multis: Cons. Stato, sez. IV, 15 maggio 2017, n. 2256, secondo cui «il contratto di diritto pubblico non può essere ritenuto come disciplinato, in via generale, dal codice civile, salvo un “condizionamento” derivante dalle ragioni di pubblico interesse perseguite, per quelle parti volute dalla legge o definite pattiziamente dai contraenti (…) la finalità di pubblico interesse è immanente al contratto, ne conforma diversamente la causa e l’oggetto, sotto il profilo della sua liceità e possibilità giuridica».
101 Cfr. E. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, Diritto dell’economia, II ed., 2017, 159.
102 Sul punto v. Cons. Stato, Ad. plen., n. 5 del 2020, ove è stato ribadito che le peculiarità dell’autonomia contrattuale della p.a. sono legate alla specificità dell’Amministrazione e, in particolare, alla necessità che l’attività contrattuale da essa posta in essere non confligga con le finalità istituzionali e sia conforme alla normativa sia nazionale che comunitaria. Infatti, nonostante le persone giuridiche pubbliche detengono la stessa capacità delle persone giuridiche private – ha precisato il Consiglio di Stato – la capacità negoziale pubblica si manifesta sempre attraverso norme primarie e secondarie che la finalizzano e la funzionalizzano secondo fasi procedimentali tese ad assicurare il perseguimento degli interessi generali, mediante la sequenza procedimentale dell’evidenza pubblica.
Questo perché il soggetto pubblico non è libero di scegliere i propri fini ed obiettivi (o meglio, non è libero di farlo nello stesso senso in cui lo è il soggetto privato), bensì attua gli obiettivi e raggiunge i fini che gli vengono “assegnati” dall’esterno, in quanto eterodeterminati dal legislatore nel rispetto del principio di legalità quale principio generale dell’attività amministrativa103.
A titolo esemplificativo, un contratto di appalto stipulato da una amministrazione pubblica si distingue da un analogo contratto stipulato tra soggetti privati, sia per la rilevanza giuridica assunta dai motivi che spingono la parte pubblica a contrarre, sia soprattutto per le modalità di scelta del contraente.
Vieppiù che nell’ipotesi di “assegnazione” di appalti (o concessioni) da parte della pubblica amministrazione, il contratto non rileva solamente come momento costitutivo di un rapporto negoziale, né unicamente quale strumento per conseguire il pubblico interesse, ma anche come momento di allocazione di un vantaggio economico (recte: di un bene giuridico) che l’amministrazione decide di assegnare – tra più aspiranti in competizione tra loro – ad un soggetto piuttosto che ad un altro104, così preferendolo.
Quindi il peculiare ruolo che l’amministrazione ricopre all’interno di tali rapporti di scambio, acquista un’importanza economica di particolare rilievo
103 Sul ruolo del principio di legalità nell’attività contrattuale della p.a. si v. ex multis A. XXXXXXX, I contratti, op.cit., 1564, ove l’A. evidenzia che «il principio di legalità è innanzitutto presidio contro l’esercizio innominato del potere autoritativo, inteso nel senso di realizzazione di una fattispecie concreta difforme nel nomen e nel tipo dalla fattispecie astratta di riferimento; e quindi la qualità dell’incidenza della cura dell’interesse pubblico sull’interesse privato è già definita dalla legge, che perlomeno ne definisce anche la soglia massima. All’agire per moduli convenzionali è invece quasi naturalmente intrinseco il potere di autodeterminazione del contenuto dell’atto, e quindi del regolamento degli interessi, come risultante del consenso raggiunto tra le parti; così che ormai pacificamente la giurisprudenza, civile e amministrativa, ammette la possibilità anche per le pubbliche amministrazioni di stipulare contratti ‘misti’ o ‘innominati’». Sul principio di legalità e sull’eterodeterminazione dei fini v. ex multis G. CORSO, Il principio di legalità, in Codice dell’azione amministrativa, a cura di M.A. SANDULLI, Milano 2017, 15 ss.
104 Cfr. X. XXXXXXX, Lo Stato banditore, op. cit., 167 ss. si v. anche X. XXXXX, Per una nuova normativa sulla contrattazione pubblica, in AA.VV., Studi in onore di Xxxxxxx Xxxxxx, I, Scritti di diritto amministrativo, Milano, 1982, 323 ss. ove l’A. precisa che «quel contratto che nella sua espressione più consueta siamo soliti rappresentarci come mezzo, uno strumento di composizione e realizzazione di interessi, quando sia parte l’amministrazione pubblica viene in considerazione al tempo stesso come un bene, rispetto al quale possono manifestarsi diverse aspirazioni: cioè come un bene del quale l’amministrazione piò disporre a vantaggio di questo o quel soggetto (…). Quando si tratti di commesse pubbliche si vuole che del contratto l’amministrazione disponga imparzialmente: favoritismo e abusi debbono essere impediti ad ogni costo (…)».
che non permette di assimilare gli scambi con quest’ultima a quelli che possono possibilmente avvenire tra comuni contraenti, quest’ultimi legittimati a sfruttare – per massimizzare il proprio vantaggio – anche l’antagonismo di coloro che aspirano a divenire loro controparti.
A tali considerazioni si aggiunga poi che il principio generale del buon andamento (art. 97 Cost.) richiede al committente pubblico di riuscire ad arrivare ad un esito negoziale congruo in termini di rapporto costi-benefici, avendo riguardo agli obiettivi prefissati, ai risultati ottenuti e alle risorse impiegate per conseguire tali risultati105.
Sotto un altro punto di vista, deve poi considerarsi che sebbene i contratti pubblici rappresentino lo strumento attraverso cui le pp.aa. acquisiscono dal mercato beni e prestazioni da destinare al soddisfacimento dei bisogni della collettività, occorre ricordare che, su un più ampio piano di politica economica, i contratti stipulati dalla pubblica amministrazione svolgono una peculiare funzione, connessa alla quantità e alla qualità delle risorse pubbliche impiegate a tale scopo. Ciò sotto due profili: a) come definizione della domanda pubblica (in termini di selezione e quantificazione dei bisogni da soddisfare); b) come orientamento per i produttori a cui la p.a. si rivolge per acquisire i beni e servizi che le sono necessari allo svolgimento delle sue funzioni106.
È quindi chiaro che l’attività che l’amministrazione compie nel mercato dei contratti pubblici possa provocare distorsioni non di poco conto al mercato (recte: alla concorrenza).
Da qui le seguenti considerazioni.
Anzitutto, come accennato supra, il concetto di autonomia negoziale deve essere letto con diverse accezioni a seconda che esso si riferisca ad un soggetto pubblico o ad un soggetto privato.
105 Cfr. X. XXXXXXX XXXXXX, L’amministrazione “costituzionalizzata” e il diritto pubblico della proprietà e dell’impresa, Torino, 2019, 131.
106 Così X. XXXXXXXXXXX, Dall’attività amministrativa al mercato, Napoli, 2008, 324.
Più precisamente, se riferito al soggetto privato, il concetto di autonomia negoziale evidenzia l’idoneità di quel soggetto a scegliere da sé i propri obiettivi, nonché a stabilire le regole con cui raggiungerli.
Se riferito al soggetto pubblico, invece, il concetto di autonomia negoziale assume una valenza c.d. “tecnica”, ossia identifica un insieme determinato di strumenti che quel soggetto può utilizzare per il perseguimento dei propri obiettivi107 (recte: per il corretto perseguimento del pubblico interesse).
In questa ultima accezione, il concetto di autonomia negoziale non investe il piano della scelta degli obiettivi, dal momento che questi ultimi sono eterodeterminati.
In secondo luogo, la scelta allocativa compiuta dalla pubblica amministrazione deve essere soggetta al rispetto di peculiari regole in grado di garantire la correttezza e l’imparzialità della scelta medesima.
Per tali ragioni, la libertà di scelta del contraente – che costituisce uno dei fondamentali pilastri dell’autonomia privata e che vede il contraente privato, di norma, libero di scegliere discrezionalmente con chi contrarre – se riferita alla pubblica amministrazione, vede quest’ultima tenuta a scegliere il proprio contraente all’esito di una apposita procedura (rectius: procedimento) ad evidenza pubblica108, retta da norme di diritto pubblico.
Viene così reso noto – attraverso il procedimento ad evidenza pubblica – l’interesse pubblico109 posto a fondamento dello scambio di mercato definito,
107 In questo senso Cfr., X. XXXXXXXX, X. XXXXX, Il contratto con la pubblica amministrazione, Napoli, 2009, 183 ss. Sul punto v. anche F.G. SCOCA, Autorità e consenso, in Autorità e consenso nell’attività amministrativa. Atti del XLVII Convegno di Scienza dell'Amministrazione. Varenna, Villa Monastero, 20-22 settembre 2001, Milano, 2002, che distingue due accezioni del concetto di autonomia privata: i) autonomia privata come potere di regolazione dei propri interessi, escludendo dalla nozione qualunque riferimento alla libertà di apprezzamento degli interessi medesimi. In questa prospettiva sussiste certamente, a detta dell’A., l’autonomia privata della pubblica amministrazione; ii) autonomia privata come libera valutazione degli interessi e del modo di soddisfarli, escludendo vincoli di scopo e di ogni forma di attenzione per le controparti. In questa seconda accezione, sarebbe arduo sostenere che la pubblica amministrazione sia titolare di poteri di autonomia privata, in quanto essa può agire solo nel rispetto del vincolo di scopo, ossia per la soddisfazione dell’interesse pubblico. Sul punto anche R. DI PACE, Partenariato pubblico privato e contratti atipici, Milano, 2006, 235, il quale evidenzia che alle pp.aa. non è riconosciuta la capacità di determinare i propri fini, e ciò ne differenzia la posizione rispetto ai soggetti privati.
108 Sul punto cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II, 30 agosto 2016, n. 9441.
109 Si v. sul punto A. XXXXXXX, I contratti, op.cit., secondo cui «l’interesse pubblico costituisce la ragione per cui le amministrazioni rappresentano alla o alle potenziali controparti la necessità di fare
dalla più attenta dottrina, come quel procedimento amministrativo avente per l’appunto lo scopo di rendere conoscibile i motivi di pubblico interesse specifici del contratto110.
Sin da prima dell’Unità d’Italia111, quindi, il meccanismo tipico con cui l’amministrazione ha sempre selezionato i propri contraenti è stata l’evidenza pubblica e, in particolare, la gara pubblica, in quanto considerata lo strumento ideale per garantire l’imparzialità e la correttezza dell’azione amministrativa, assicurare la convenienza della stessa e (solamente in tempi più recenti) promuovere e salvaguardare la concorrenza tra privati112.
Gli interessi astrattamente tutelabili attraverso il ricorso alle procedure di gara sono stati tripartiti – da lungimirante dottrina – come segue: convenienza ed efficienza contrattuale, imparzialità dell’azione amministrativa, sviluppo della concorrenza.
Sarebbero infatti queste le “tre classi di valori” attorno alle quali hanno sempre gravitato tutte le norme e la copiosa giurisprudenza in materia di contratti pubblici113.
applicazione di regole procedurali particolari e diverse da quelle utilizzate per la costituzione dei rapporti contrattuali inter-privati, caratterizzate dalla rilevanza, nei confronti di una platea più o meno ampia e più o meno determinata di terzi, di regole sostanziali in misura più o meno estesa derogatorie alla disciplina ordinaria di quel certo contratto, di poteri unilaterali per la fase di vita e di esecuzione del contratto una volta stipulato, ecc., regole e poteri tutti disciplinati essenzialmente dal diritto amministrativo». Così da sempre anche la Corte costituzionale, sul punto si veda la nota Corte cost., 19 novembre 2007, n. 401, ove viene ricordato che «l'attività contrattuale della pubblica amministrazione, essendo funzionalizzata al perseguimento dell'interesse pubblico, si caratterizza per la esistenza di una struttura bifasica: al momento tipicamente procedimentale di evidenza pubblica segue un momento negoziale. Nella prima fase di scelta del contraente l'amministrazione agisce secondo predefiniti moduli procedimentali di garanzia per la tutela dell'interesse pubblico, ancorché siano contestualmente presenti momenti di rilevanza negoziale, dovendo la pubblica amministrazione tenere, in ogni caso, comportamenti improntati al rispetto, tra l'altro, delle regole della buona fede. Nella seconda fase, che ha inizio con la stipulazione del contratto, (…) l'amministrazione si pone in una posizione di tendenziale parità con la controparte ed agisce non nell'esercizio di poteri amministrativi, bensì nell'esercizio della propria autonomia negoziale» (par. 6.8).
110 M.S. XXXXXXXX, ult. op. cit., 463.
111 Le prime norme sulla formazione dei contratti pubblici risalgono almeno al Regno di Sardegna con la l. 23 marzo 1853, n. 1483 che all’art. 24 prevedeva: «Tutti i contratti nell’interesse dello Stato avranno luogo a pubblici incanti». Tale regola, dopo l’Unità, venne estesa a tutto il Regno d’Italia.
112 L’evoluzione del rapporto tra tutela della convenienza amministrativa e tutela della concorrenza verrà analizzato nel capitolo successivo.
113 Sugli interessi astrattamente tutelabili mediante il ricorso alle procedure di gare v. X. XXXXXXX, Lo Stato banditore, op.cit., 120. Secondo l’A., tale tripartizione sarebbe anche da sempre supportata dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui - sin dalle più risalenti pronunce - la ragione per cui l’ordinamento imporrebbe alle amministrazione di scegliere il contraente tramite precise regole procedurali risiederebbe sia nella necessità di effettuare la scelta più conveniente e di salvaguardare
Nel capitolo successivo, tuttavia, si vedrà come la tutela di tali interessi sia mutata nel corso del tempo a seguito di differenti bilanciamenti operati sia a livello legislativo (dovuti soprattutto all’influenza UE) che a livello di prassi applicativa.
3.2. L’esercizio del potere discrezionale della p.a. e la concorrenza per il mercato: premessa e rinvio
L’attività amministrativa è tesa, per sua natura, al perseguimento di interessi pubblici fatti propri dall’ordinamento.
Ciò è ormai sancito anche dalla clausola di apertura della l. 241/1990, secondo la quale «l’amministrazione persegue i fini determinati dalla legge114». Di norma, quindi, ogni apparato pubblico è chiamato a perseguire uno specifico interesse pubblico (c.d. interesse primario)115 individuato dalla legge, e (almeno in via teorica) le scelte di ogni amministrazione dovrebbero essere tese a massimizzare il singolo interesse alla cui cura sono state designate dal
legislatore116.
Tuttavia, un interesse pubblico non può mai essere curato isolatamente dal momento che lo stesso può entrare in contrasto con altri interessi sia pubblici che privati (cc.dd. interessi secondari)117.
l’imparzialità delle pubbliche amministrazioni, sia in quella di promuovere «la prosperità collettiva rispettando la libertà di iniziativa economica e la genuinità della concorrenza» (Cons. Stato, sez. V, 20 agosto 1996, n. 937).
114 Sul principio di legalità si v. G. CORSO, Il principio di legalità, op.cit., 20 ss. ove precisa che la formula di apertura dell’art. 1 (l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge) è una formula “parziale” in quanto la legge – nei rapporti con l’attività amministrativa – non si limita a stabilire i fini. Se così fosse l’amministrazione sarebbe libera da dottare qualunque mezzo idoneo a raggiungere il fine. La legge, infatti, non stabilisce solamente i fini ma anche i mezzi per raggiungerli, ossia i poteri da esercitare per il raggiungimento del fine legislativo.
115 Così, come noto, M. S. XXXXXXXX, Manuale di diritto amministrativo, 1970, 480; Id, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano, 1930.
116 Si v. anche X. X. XXXXXXXX, Manuale di diritto amministrativo, IV ed., Napoli, 1957, 251, che distingueva tra interesse pubblico generico e interesse pubblico specifico. Secondo l’A., infatti, l’Amministrazione, «pur essendo sempre inderogabilmente tenuta a ispirarsi all’interesse pubblico generico e a perseguire nel caso specifico quel particolare obiettivo concreto in funzione del quale il potere in questione le venne attribuito dall’ordinamento (interesse pubblico specifico), dispone di una certa potestà di determinazione.»
117 Sempre Xxxxxxxx precisava poi che i singoli interessi secondari non giocano gli stessi ruoli: alcuni hanno un ruolo di attenuazione, altri sono così forti da impedire la realizzazione dell’interesse primario, altri ancora portano a soluzioni di compromesso. Sulla discrezionalità come comparazione di interessi si v. anche A. PIRAS, Discrezionalità, in Enc. Dir., XIII, Milano, Xxxxxxx, 1954, 67 ss.
Vieppiù che davanti a scelte complesse cresce anche il numero e la qualità degli interessi coinvolti.
In altre parole, poiché gli interessi pubblici non esistono in forma isolata, lo svolgimento delle funzioni amministrative implica la valutazione (recte: comparazione) di diversi interessi (anche pubblici) in rapporto a quello “primario”, la cui cura è affidata alla singola amministrazione118.
Sarebbe questa – secondo la tesi ormai maggioritaria119 – la definizione di discrezionalità amministrativa: la «ponderazione comparativa di più interessi secondari in ordine ad un interesse primario»120 che consente di soddisfare al meglio il pubblico interesse121.
Questo tipo di attività contempla quindi il continuo compimento di scelte. Ma dire che la discrezionalità consiste in una scelta – come rilevato dalla richiamata dottrina122 – non è sufficiente.
Ciò in quanto anche il privato compie delle scelte ma quello che distingue la scelta dell’amministrazione nell’esercizio della sua discrezionalità è la
118 B.G. MATTARELLA, L’attività, in Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo generale, a cura di X. XXXXXXX, Xxxx X, II ed., 2003, 756.
119 Accanto a tale tesi nel corso del XIX e XX secolo ne sono state proposte altre. F. CAMMEO (Corso di diritto amministrativo, Milano 1911, rist. a cura di X. MIELE, Padova, 1960) distingueva l’attività dell’amministrazione a seconda che la stessa fosse regolata da norme giuridiche precise (attività vincolata) ovvero si svolgesse in uno spazio libero da norme (attività discrezionale). Vi è stato poi chi descriveva la discrezionalità come completamento di una norma imprecisa (E. CASETTA, Attività e atto amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1957, 307 ss.) o anche chi vedeva nella discrezionalità l’applicazione di norme non giuridiche (C. MORTATI, Discrezionalità, in Nss D.I., V, Torino, Utet, 1968, 1102 ss.)
120 Così, ancora M. S. XXXXXXXX, ult. op.cit., 483, che ha definito tale ponderazione come «la figura tipo della discrezionalità».
121 Vi è anche chi è posto l’attenzione sul legame esistente tra discrezionalità e organizzazione della pubblica amministrazione, descrivendo il potere discrezionale come strumento indefettibile di efficienza e buona amministrazione. Così X. XXXXX, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano, 1966, 88 ss. Per l’A. «discrezionalità e auto-organizzazione sono le due forme in cui si manifesta il principio di elasticità: esse sono, quindi, implicitamente e indirettamente, ma chiaramente previste dall’art. 97 Cost. come strumenti formali ed organizzativi idonei a garantire la concreta efficienza dell’amministrazione». Da qui la considerazione, secondo cui la
«commisurazione dei mezzi giuridici al fine» non può essere soddisfatta attraverso l’imposizione di contenuti predeterminati ma «nella necessità di proporzionare i mezzi al fine», ove è implicito il
«riconoscimento di una libertà di apprezzamento, d’una elasticità nell’uso dei mezzi (giuridici e non)». 122 Così, ancora M. S. XXXXXXXX, ult.op.cit., 480. Sull’idea del collegamento tra il concetto di scelta e la discrezionalità amministrativa v. anche X. XXXXX, Il provvedimento amministrativo, Milano, 1968, 21 che descrive la discrezionalità come la «facoltà di scelta tra più comportamenti giuridicamente leciti, per il perseguimento dell’interesse pubblico, rispondente alla “causa” del potere esercitato».
delimitazione ex lege dell’ambito della scelta: quando l’amministrazione agisce deve curare l’interesse pubblico stabilito dal legislatore123.
Tuttavia, nella concezione di Xxxxxxxx, come detto, gli interessi pubblici, pur se dati dalle leggi, devono poi essere acquisiti dall’amministrazione (recte: valutati e comparati).
Ciò sta a significare che l’interesse pubblico che effettivamente l’amministrazione persegue in ciascuna occasione non è uno degli interessi pubblici dati dalle leggi (né l’interesse primario né uno degli interessi secondari) ma è un interesse definito come “composto”, “misto”, frutto di confronto o compromesso, costruito dalla stessa amministrazione attraverso le operazioni di valutazione comparativa124, e quindi aderente al caso concreto.
Tali scelte compiute di volta in volta dall’amministrazione – tese a realizzare, tra più soluzioni compatibili con il dato normativo, l’interesse pubblico nel caso concreto – possono poi essere di vario genere e riguardare, tradizionalmente, l’an dell’azione amministrativa (quindi incidere sul se emanare o meno un certo provvedimento), il “quando” emanarlo (discrezionalità nel quando), con quale contenuto (nel quid), come esternarlo e quali elementi accidentali inserirvi (nel quomodo).
123 Sul punto Xxxxxxxx (Diritto Amministrativo, II, op cit., 47), ha rilevato infatti che la scelta discrezionale «spazia in un ambito circoscritto da norme: quando l’amministrazione agisce deve curare l’interesse pubblico proprio della sua attribuzione o della sua competenza; la sua scelta è perciò finalizzata». Xxx Xxxxxxxx la discrezionalità poteva definirsi come “attività vincolata nel fine” o “agire libero della funzione” (Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, op.cit.). In altre parole, tale concezione è legata alla funzionalizzazione del potere discrezionale alla realizzazione di interessi pubblici. Sul punto ex multis, v. X. XXXXXXXXX, Eccesso di potere per eccesso di funzione, in Rass. Dir. pubbl., 1950, ora anche in Scritti giuridici, II, Milano, 2006, 991 ss. Sul collegamento tra attività e funzione si v. C. XXXXXXX, Discrezionalità, op cit., 1110, secondo il quale il presupposto della discrezionalità sarebbe «in primo luogo il carattere funzionale del potere (…), da cui deriva l’obbligo che il suo esercizio si effettui in modo da soddisfare la funzione». Questa concezione non vedeva più il potere discrezionale della pubblica amministrazione come assoluta libertà, giacché essa, nel perseguire i fini indicati dalla legge, doveva ispirarsi al principio di legalità, allontanando così il potere pubblico da una concezione di irresponsabilità ed insindacabilità che ne aveva caratterizzato l’essenza prima dell’avvento dello Stato liberale. Cfr. X. XXXXXXXXXXX, A.M. XXXXXXXXX, L’indizio nella decisione amministrativa. Teoria e prassi dell’inferenza probatoria nell’esercizio della funzione amministrativa e del potere giurisdizionale, Napoli, 2021, 37.
124 Sul punto F.G. SCOCA, La discrezionalità nel pensiero di Xxxxxxxx e nella dottrina successiva, in
Riv. trim. dir. pubbl., 4, 2000, 1149.
Come evidenziato da parte della dottrina125, così intesa la discrezionalità, due sarebbero i problemi che si porrebbero: da un lato, quello dell’individuazione dell’interesse primario e degli altri interessi che l’amministrazione deve prendere in considerazione nel fare le proprie scelte; dall’altro, quello della determinazione dei criteri di bilanciamento dei diversi interessi rilevanti.
Sotto entrambi i profili, le scelte dell’amministrazione non sono interamente libere, né interamente vincolate: essa, infatti, ad esempio, non può esercitare un potere per un fine diverso da quello per il quale il potere stesso è attribuito126, né può prescindere dagli interessi dei soggetti privati coinvolti dall’esercizio del potere amministrativo; d’altra parte, però, essa può considerare interessi ulteriori rispetto a quelli indicati dalle norme e, sebbene nell’operare il bilanciamento degli interessi l’amministrazione sia tenuta a rispettare regole come quelle espresse nelle varie figure di eccesso di potere, al di là di tali regole, la scelta dell’interesse in concreto prevalente spetta all’amministrazione stessa127.
Con la discrezionalità amministrativa (c.d. “pura”) non va poi confusa la discrezionalità tecnica128.
125 B.G. XXXXXXXXXX, op.cit., 758.
126 La scelta che avviene nell’esercizio della discrezionalità amministrativa, dovendo perseguire un “fine pubblico” eteroimposto, non è libera nel fine, al contrario di quanto avviene generalmente nell’attività politica e in quella legislativa. Sul punto L. XXXXXXX, Osservazioni sulla discrezionalità e sull’eccesso di potere del legislatore ordinario, in Riv.trim.dir.pubb., 1956, 993; X.X. XXXXXXXX, Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in Dir.soc., 1975, 561 ss, i quali tuttavia riconoscono il vizio di eccesso di potere legislativo nelle ipotesi in cui la Costituzione ponga un espresso vincolo finalistico alla legislazione.
127 Così ancora B.G. XXXXXXXXXX, op.cit., 760.
128 Xxx Xxxxxxxx la discrezionalità tecnica era addirittura un «errore storico della dottrina» (M. S. XXXXXXXX, Diritto amministrativo, op.cit., 56). Sulla distinzione tra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica e sulle problematiche legate a quest’ultima, la dottrina è sterminata. Si segnalano, senza pretesa di esaustività: F. CAMMEO, La competenza di legittimità della IV Sezione e l’apprezzamento dei fatti valutabili secondo i criteri tecnici, in Giur. it., 3, 275, 1902; E. XXXXXXXX, Discrezionalità pura e discrezionalità tecnica, in Giur. it. 4, 16, 1910; X. XXXXX, Appunti sulla cd. discrezionalità tecnica, in Ius, 1957, 95 ss; X. XXXXXXXX, L’attività tecnica della pubblica amministrazione, Milano, 1967; X. XXXXXXX XXXXXX, Note in tema di discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità, in Dir. proc. Amm., 1984, 463; X. XXXXX, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull’amministrazione pubblica, in Dir. proc. Amm. 1983, 371; X. XXXXXXXX, Discrezionalità, merito e regole non giuridiche nel pensiero di Xxxxxxxxxx Xxxxxxx e la polemica con Xxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxx, in Xxxxxxxxxx Xxxxxxx costituzionalista calabrese, a cura di X. XXXXXXXXXX, Napoli, 1989, 408 ss.; D. DE PRETIS, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova 1995; X. XXXXXXX, Autorità indipendenti e discrezionalità, Milano, 2002; Id., Discrezionalità tecnica e situazioni
Quest’ultima rileva quando nella fase di valutazione di fatti complessi rilevanti per il successivo esercizio del potere amministrativo, l’amministrazione è tenuta a dover fare applicazione di cognizioni tecnico- scientifiche di carattere specialistico129, non giuridiche ed opinabili.
Questo tipo di “discrezionalità” poi, a differenza della discrezionalità c.d. pura, non implica alcuna possibilità di valutazione dell’interesse pubblico, né alcuna libertà di scelta130 alla stregua di quest’ultimo, bensì corrisponde ad una
«sfera di determinazione rigidamente vincolata a valutazioni di ordine tecnico, e cioè compiute alla stregua di certe discipline tecniche»131.
Infatti, ogni volta in cui interviene una valutazione tecnica (ad es. un giudizio circa la pericolosità di una certa malattia) l’autorità pubblica – ove non disponga anche di discrezionalità “pura” nei termini suddetti – diviene
giuridiche soggettive, in Dir. proc. Amm., 2000, 212; L. LEVA, Potere tecnico-discrezionale della p.a. e sindacato del giudice amministrativo: profili teorici ed applicativi, in Foro amm. CDS, 10, 2002, 2665 ss.; F. CINTIOLI, Tecnica e processo amministrativo, in Dir. proc. Amm., 2004, 983 ss; A. XXXXX, Il giudice amministrativo e le questioni tecnico-scientifiche: formule nuove e vecchie soluzioni, in Dir. pubb., 2004, 439 ss.; X. XXXXX, Discrezionalità tecnica e presupposti dell’atto amministrativo, in Dir. amm., 2008, 791; F.G. SCOCA, Giudice amministrativo ed esigenze di mercato, in Dir. amm., 2, 2008, 257 ss.; A. PRONTERA, L’agire discrezionale dell’amministrazione tra “vuoti” e “pieni” normativi, in Dir. proc. Amm., 2012, 1602 ss.; X. XXXXXXXX, Il controllo giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica: indeterminatezza della norma e opinabilità dell’apprezzamento del fatto da sussumere, in Dir. proc. Amm.., 2013, 349; X. XXXXXXXX, Consulenza tecnica, pienezza di sindacato e full jurisdiction, in Dir. proc. Amm., 2015, 745 ss., X. XXXXX, Sisifo e l’evoluzione della discrezionalità amministrativa, in xxxxxxxxxxx.xx, 9, 2018.
129 Cfr. Cfr. X. XXXXXXXXXXX, A.M. XXXXXXXXX, L’indizio nella decisione amministrativa, op.cit., 44. 130 In questo senso anche Xxxxxxxx, secondo cui la discrezionalità tecnica non aveva «proprio nulla di discrezionale». Mentre infatti la discrezionalità, secondo l’A., si riferisce ad «una potestà, e implica giudizio e volontà insieme», la discrezionalità tecnica si lega invece «ad un momento conoscitivo e implica solo giudizio: ciò che attiene alla volizione viene dopo e può coinvolgere o non coinvolgere una separata valutazione discrezionale» (Diritto amministrativo, II, op cit., 55). Per tale ragione «la discrezionalità tecnica va intesa non in relazione all’interesse pubblico, ma in relazione alle regole, agli insegnamenti delle discipline tecniche, mentre la discrezionalità in senso proprio va intesa in relazione al solo pubblico interesse: la discrezionalità tecnica da luogo a una valutazione di tipo scientifico, concernente il fenomeno naturale in sé, non in coordinazione con gli altri fenomeni sociali». Per un’attenta analisi dell’evoluzione del pensiero di M. S. Xxxxxxxx sul tema della discrezionalità si veda, in particolare, F.G. SCOCA, La discrezionalità nel pensiero di Xxxxxxxx e nella dottrina successiva, op.cit., 1149 ss. La dottrina peraltro è stata sempre scettica nei confronti della c.d. discrezionalità tecnica: già E. XXXXXXXX, Discrezionalità pura e discrezionalità tecnica, in Giur. it., 4, 20, 1910, la considerava un «istituto contingente, storico, residuo non ancora eliminato (...) di un
ordinamento giuridico di altri tempi».
131 Così X. X. XXXXXXXX, ult. op.cit., 252.
vincolata a provvedere nel modo che l’ordinamento prevede per l’ipotesi che l’apprezzamento tecnico ha contribuito a far riconoscere132.
Quindi se intendiamo il potere discrezionale come ponderazione comparativa di interessi, esso non può ritenersi sussistente ogni qualvolta l’amministrazione, per l’emanazione di un determinato provvedimento, debba utilizzare nozioni provenienti da discipline specialistiche alle quali la legge attribuisca rilevanza diretta o indiretta133.
In questo caso, infatti, non vi sarebbe una valutazione comparativa di interessi (recte: una scelta in senso stretto) vi sarebbe, invece, l’applicazione
«di regole o standard tecnici, anche se talora non meramente meccanica»134.
In altre parole, nell’ipotesi della discrezionalità tecnica, sussisterebbe l’elemento “di giudizio” nella valutazione del fatto (elemento comune alla discrezionalità c.d. pura) ma verrebbe meno il profilo della scelta che si realizza solo nell’ipotesi in cui vi sia, come detto, un’attività ponderativa degli interessi coinvolti nell’esercizio del potere pubblico.
Ciò posto, la ratio posta alla base dell’esercizio di poteri discrezionali è autoevidente e può dirsi risiedere nella necessità di rispondere ad una generale
132 Così ancora X. X. XXXXXXXX, ult. op.cit., 253 che specifica che nei casi in cui l’amministrazione oltre a disporre di discrezionalità tecnica dispone anche di discrezionalità amministrativa si deve parlare di discrezionalità mista. In tale ipotesi, la discrezionalità amministrativa e quella tecnica rimangono su due piani diversi: la prima attiene alla constatazione dell’effettiva presenza della fattispecie prevista dal legislatore affinché l’autorità possa legittimamente provvedere in ordine alla soddisfazione dell’interesse pubblico affidato alle sue cure (giudizio preliminare); la seconda attiene alla scelta del miglior modo di realizzare l’interesse pubblico nella situazione di fatto valutata alla stregua dei criteri tecnici.
133 X. XXXXXXXXXXX, Discrezionalità amministrativa e servizi pubblici locali. Contributo allo studio del potere decisionale degli enti locali nella gestione dei servizi pubblici, Napoli, 2018, 48.
134 M. X’XXXXXXX, Lezioni di diritto amministrativo, Torino, 2017, 192. Detto altrimenti, le scelte tecnico-discrezionali, a differenza di quelle connotate da discrezionalità c.d. “pura”, sono espressione di un potere neutrale, del tutto privo di politicità (X. XXXXXXXXXXX, op.cit., 50). Tuttavia, la dottrina ha da tempo evidenziato come si stia assistendo – ormai da tempo – ad una progressiva erosione della “politicità” delle scelte, a favore di un sistema decisionale fondato, prevalentemente, su apprezzamenti tecnico-scientifici (X. XXXXXXX, Autorità indipendenti e discrezionalità, op.cit., 156). In altre parole, è stato posto in evidenza, che la scelta amministrativa di “ponderazione comparativa di interessi” si riduce, sempre più spesso, a un giudizio valutativo da compiersi alla stregua di conoscenze specialistiche. Così D. DE PRETIS, op cit., 309. Così anche: E. CASETTA, Riflessioni in tema di discrezionalità amministrativa, attività vincolata e interpretazione, in Dir. dell’econ., 1998, 511 ss, Id., Profili della evoluzione dei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione, op.cit., 28, che vede nelle amministrazioni indipendenti un segno della progressiva tecnicizzazione della discrezionalità. Su questa tendenza già M. S. XXXXXXXX, Discrezionalità amministrativa e pluralismo, in Quad.plur.,1984, 109; X. XXXXX, Diritto amministrativo e processo amministrativo nel bilancio di dieci anni di giurisprudenza, in Scritti giuridici, III, 1819, 1985.
esigenza di flessibilità connaturata proprio al meccanismo di attuazione delle stesse leggi: il legislatore, infatti, non può regolare ex ante ogni aspetto relativo all’esercizio di una data funzione amministrativa senza finire per negare ogni esigenza di flessibilità e di adattamento alle circostanze135.
La norma che conferisce all’amministrazione la possibilità di esercitare poteri discrezionali si astiene così dal disciplinare puntualmente il contenuto di attività giuridicamente rilevanti poiché reputa che la miglior cura dell’interesse pubblico possa realizzarsi affidando la definizione della regola del caso concreto all’organo cui tale potere è attribuito136.
In tal senso, la discrezionalità amministrativa rappresenta quindi lo strumento ideato dall’ordinamento giuridico per il perseguimento dell’interesse pubblico concreto nell’ambito della cornice fissata dal legislatore, nel rispetto del principio di legalità.
Già nel corso del XX secolo, tuttavia, si è assistito a un fenomeno particolare che ha visto, da un lato, crescere i possibili ambiti di applicazione dei poteri discrezionali e, dall’altro, la “risposta” degli ordinamenti contemporanei, tesa, invece, a limitarne quanto più possibile l’utilizzo.
L’aumento delle funzioni amministrative, infatti, ha determinato, nel corso del tempo, la moltiplicazione degli interessi ritenuti dall’ordinamento rilevanti e meritevoli di tutela. Ciò ha comportato, inevitabilmente, un aumento della discrezionalità amministrativa nello svolgimento di molte funzioni.
A questo fenomeno gli ordinamenti contemporanei hanno spesso reagito moltiplicando le norme che disciplinano le funzioni amministrative: sia quelle generali sia (più spesso) quelle speciali, cercando di limitare la discrezionalità dell’amministrazione attraverso previsioni analitiche e dettagliate137.
La moltiplicazione delle norme, tuttavia, rende spesso difficoltoso comprendere ed individuare la disciplina applicabile.
135 Cfr. X. XXXXXXXXXX, La logica del diritto amministrativo, op.cit., 162.
136 Cfr. X.X. XXXXXXXX, Discrezionalità amministrativa e mercati finanziari, in Dir. banc., 2012, 2, 229 ss.
137 Cfr. B.G. XXXXXXXXXX, L’attività, op. cit., 760.
Ciò comporta che, in un clima di incertezza sia per i consociati che per l’amministrazione, quest’ultima sia poi libera di applicare e/o interpretare le norme (confuse e poco chiare) come meglio ritenga opportuno138.
La dinamica appena delineata verrà analizzata nei capitoli successivi.
Si è visto che, dato il ruolo che l’amministrazione detiene all’interno del mercato, le scelte che la stessa compie possono provocarne distorsioni di non poco conto.
Vieppiù che il mercato dei contratti pubblici, rappresenta un settore strategico dell’economia, il cui rilancio e la cui efficienza dipendono in larga parte dall’intensificarsi della concorrenza e dall’ampliamento dello spazio per l’esplicarsi dei meccanismi di mercato in un contesto di trasparenza ed economicità.
Per tali ragioni vi è l’esigenza di garantire non soltanto il buon andamento della p.a., ma anche di stimolare una reale concorrenza attraverso la domanda pubblica.
Quest’ultima, infatti, deve essere strutturata in modo tale da permettere a più soggetti di poter rispondere dal lato dell’offerta, così da assicurare che la libera concorrenza consenta il raggiungimento di un maggiore livello di efficienza139.
Nei capitoli successivi si vedrà come il potere discrezionale ricopra un ruolo di particolare rilievo all’interno di tale mercato in quanto incide, in primo luogo, sulla concorrenza per il mercato (si pensi, a titolo meramente esemplificativo, al momento in cui l’amministrazione definisce la lex specialis con cui delinea
138 Sul rapporto tra il potere discrezionale e l’indeterminatezza normativa v. X. XXXXXXXXXXX, A.M. XXXXXXXXX, L’indizio nella decisione amministrativa. op.cit., 29. Gli Autori evidenziano che il rapporto che intercorre tra la norma giudica che disciplina la discrezionalità e il ragionamento inferenziale elaborato nell’applicazione della stessa al fatto concreto è caratterizzato da diversi profili di criticità. Questi ultimi sarebbero rilevabili, infatti, «nello spiegarsi dell’azione dei pubblici poteri che è per sua natura caratterizzato da un ineliminabile, e a volte difficilmente perimetrabile, margine di discrezionalità valutativa nella cura dell’interesse pubblico». Viene rilevato infatti, che, osservando le interrelazioni tra la tecnica di normazione e la configurazione del potere discrezionale (amministrativo e tecnico), «quando la prima prevede disposizioni indefinite o di ordine generale, la seconda straborda spesso in ambito politico, con il rischio di trasformare la discrezionalità in mero arbitrio». Sul punto
v. anche X. XXXXXXXXX, I principi costitutivi del diritto amministrativo come branca del diritto, in Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, 38, secondo cui l’interpretazione delle norme amministrative «è fondata su un grado elevato di manipolazione delle norme scritte».
139 Cfr. Così X. XXXXXXXXXXX, Dall’attività amministrativa al mercato, op.cit., 325.
l’accesso a quello che abbiamo definito “micro-mercato” della procedura ad evidenza pubblica)140.
Tuttavia, l’approccio “regolatorio” del legislatore interno si è sempre fondato sull’imposizione di minuziose regole di condotta tese a circoscrivere quanto più possibile il margine di scelta dell’amministrazione.
Ciò a causa del timore che l’amministrazione possa esercitare la propria discrezionalità per colludere con la parte privata ai danni dello Stato.
Tale concezione, propria del nostro ordinamento, ha dovuto tuttavia fare i conti con il diverso approccio contenuto nelle direttive europee concretizzatosi, in particolar modo, con le direttive del 2004 e del 2014.
Dal rilievo delle conseguenze che le ponderazioni dell’amministrazione possono comportare su tale mercato è derivata, infatti, anche l’attenzione dell’UE alla materia.
Si vedrà, infatti, come l’UE abbia voluto introdurre – al contrario di quanto avviene a livello interno – un approccio teso ad aumentare i margini di scelta delle amministrazioni aggiudicatrici, ritenendo che la discrezionalità (e la flessibilità che ne discende), se esercitata in modo corretto, possa costituire un valore, in quanto consente di individuare la soluzione contrattuale migliore, tenuto conto delle circostanze del caso concreto.
Ciò posto, nei capitoli successivi si analizzerà il ruolo della discrezionalità amministrativa nel mercato dei contratti pubblici e i principali legami che intercorrono tra quest’ultima e la garanzia della concorrenza per il mercato, tra scelte legislative, prassi applicative e casi giurisprudenziali.
140 Aspetto che verrà analizzato nel Capitolo III.
CAPITOLO II
Il mercato dei contratti pubblici tra tutela della concorrenza ed esercizio della discrezionalità amministrativa
Sezione I
L’evoluzione del quadro normativo e i principi generali della materia
SOMMARIO: 1. La tutela della concorrenza nell’evidenza pubblica: premessa – 2. L’evidenza pubblica e la concezione contabilistica – 2.1. Le prime direttive UE, il loro recepimento e la tutela della concorrenza – 2.2. Le direttive del 2004 e il Codice “de Lise” – 2.3. Le direttive del 2014 e il “nuovo” Codice dei contratti pubblici. – 2.3.1. La tumultuosa incertezza delle (nuove) riforme: c’è ancora un Codice dei contratti pubblici? – 3. Il ruolo dei principi (nel diritto amministrativo) e nell’evidenza pubblica. – 3.1. Il valore dei principi generali nelle direttive europee: la tutela della concorrenza e i “nuovi principi”. – 3.2. I principi generali nel Codice dei contratti pubblici: l’art. 30 c.c.p. – 3.2.1. I principi applicabili alle fasi di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici
– 3.2.2. I principi applicabili alla “sola” fase di affidamento: la tutela della concorrenza e i suoi corollari.
1. La tutela della concorrenza nell’evidenza pubblica: premessa
Come detto, sin da prima dell’Unità d’Italia141, il meccanismo tipico con cui l’amministrazione ha sempre selezionato i propri contraenti è stata la gara pubblica, in quanto considerata lo strumento ideale per garantire l’imparzialità e la correttezza dell’azione amministrativa, assicurare la convenienza della stessa e (in tempi più recenti) promuovere e salvaguardare la concorrenza tra privati142.
Tuttavia, il rilievo e l’assetto dei singoli interessi tutelati all’interno della normativa in materia di contratti pubblici sono mutati più volte nel corso del tempo.
141 Le prime norme sulla formazione dei contratti pubblici risalgono almeno al Regno di Sardegna con la l. 23 marzo 1853, n. 1483 che all’art. 24 prevedeva: “Tutti i contratti nell’interesse dello Stato avranno luogo a pubblici incanti”. Tale regola, dopo l’Unità, venne estesa a tutto il Regno d’Italia.
142 Sugli interessi astrattamente tutelabili mediante il ricorso alle procedure di gare v. X. XXXXXXX, Lo Stato banditore, op. cit., 120. Secondo l’A., sulla base di una “pacifica tripartizione”, sarebbero: convenienza ed efficienza contrattuale, imparzialità dell’azione amministrativa, sviluppo della concorrenza. Tale tripartizione sarebbe anche da sempre supportata dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui la ragione per cui l’ordinamento imporrebbe alle amministrazione di scegliere il contraente tramite precise regole procedurali risiederebbe sia nella necessità di effettuare la scelta più conveniente e di salvaguardare l’imparzialità delle pubbliche amministrazioni, sia in quella di promuovere «la prosperità collettiva rispettando la libertà di iniziativa economica e la genuinità della concorrenza» (Cons. Stato, sez. V, 20 agosto 1996, n. 937).
L’anima c.d. originaria della disciplina sui contratti pubblici, infatti, è stata quella della convenienza amministrativa rispetto alla quale la concorrenza tra privati è stata considerata per lungo tempo un interesse recessivo, tutelata solo ove idonea a garantire una corretta gestione del denaro pubblico143.
La normativa nazionale sulla contabilità dello Stato144, che ha costituito per diversi decenni la disciplina fondamentale del sistema dei pubblici incanti, aveva quale obiettivo primario quello di garantire le condizioni economiche più favorevoli per l’amministrazione e tutelava la concorrenza tra imprese e la par condicio tra i concorrenti solamente di riflesso, nell’interesse esclusivo dell’amministrazione145.
Il ruolo secondario della concorrenza all’interno del mercato dei contratti pubblici, tuttavia, viene intaccato dal diritto comunitario e dall’obiettivo di costruire un mercato unico146, aperto e in grado di garantire le libertà economiche fondamentali (libertà di circolazione dei capitali, delle persone, dei beni e servizi e libertà di stabilimento), in cui emerge anche l’importanza nevralgica degli appalti pubblici nel raggiungimento dello stesso147.
Se nel primo capitolo si sono analizzate le problematiche sorte a livello costituzionale relative al recepimento dei richiamati principi, nei paragrafi seguenti, si intende, invece, ripercorrere la normativa sull’evidenza pubblica che si è susseguita fino alla odierna disciplina, per cercare di mettere in luce, in primo luogo, la complessità del quadro normativo che ha da sempre
143 Cfr. X. XXXXXX-X. XXXXXXX, Appalti pubblici e concorrenza, in, Lo Stato compratore. L’acquisto di beni e servizi nelle pubbliche amministrazioni, a cura di X. XXXXXXXXXX, Bologna, 2007, 119 ss.
144 Si fa riferimento al r.d. 18 novembre 1923, n. 2440 e al regolamento attuativo approvato con r.d. 23 maggio 1924, n. 824.
145 In tal senso X. XXXXXXX, Contratti pubblici e concorrenza, op.cit. Sull’argomento Xxxxx Xxxxxx nel 1901 scrisse che il procedimento previsto per le gare per pubblico incanto o per licitazione privata, prevedeva l’adempimento di formalità in genere «stabilite nell’interesse dell’amministrazione e il cui difetto, quindi, non può essere opposto dal privato». Così X. XXXXXX, Diritto amministrativo, Milano, 1901, 533.
146 Su come, più in generale, il principio di tutela della concorrenza si sia innestato all’interno del nostro ordinamento costituzionale si rinvia al Capitolo I.
147 Concetti come competizione e concorrenza sono sempre stati presenti nella disciplina relativa alla formazione dei contratti pubblici già nelle leggi di fine Ottocento dei principali paesi europei. Tuttavia, ciò che è mutato nel tempo è il significato di “messa in concorrenza”, totalmente diverso rispetto a quello che sarebbe stato poi posto a fondamento delle norme comunitarie poi recepite dagli Stati membri. Così X. X’XXXXXXX, Interesse pubblico e concorrenza nel codice dei contratti pubblici, in Dir.amm., 2, 2008, 296 ss.
caratterizzato tale settore e le sue caratteristiche principali e, parallelamente, ripercorrere le “stagioni” della concorrenza all’interno del percorso evolutivo della normativa degli appalti pubblici, al fine di verificare come il rilievo di tale interesse sia mutato nel corso del tempo sia a livello di normativa europea che (conseguentemente) interna.
Tale excursus costituirà il punto di partenza dei capitoli successivi ove si cercherà di appurare il valore che oggi detiene il principio della tutela della concorrenza all’interno della normativa vigente.
In particolare, le direttive del 2014 e la disciplina contenuta nel vigente Codice dei contratti pubblici (comprensivo delle modifiche intervenute con il
c.d. “decreto semplificazioni”), saranno oggetto di approfondita trattazione nei successivi capitoli, in tale sede si intende unicamente tracciare le linee generali dell’attuale reticolo normativo per lasciare alla successiva trattazione l’approfondimento dei singoli istituti in esso contenuti.
2. L’evidenza pubblica e la concezione contabilistica
L’allegato F della legge 20 marzo 1865, n. 2248 può essere considerato uno dei primi e più rilevanti passi nella storia normativa della disciplina dei contratti pubblici in quanto con esso vennero unificate in un unico corpo normativo (anche se dal contenuto eterogeneo) tutte le regole per la realizzazione di opere pubbliche148.
Tale sistema di regole era funzionale ad assicurare lo sviluppo infrastrutturale di cui necessitava il neocostituito Stato unitario, perseguendo gli interessi pubblici coinvolti, tra cui ricopriva un ruolo di primo piano quello del contenimento e della razionalizzazione della spesa pubblica149.
148 Dei sei allegati della legge unificatrice della legislazione amministrativa l’allegato F, dedicato ai lavori pubblici, era quello dal contenuto più differenziato in quanto comprendeva la disciplina di tutti i settori allora affidati alla competenza dell’amministrazione statale dei lavori pubblici. Così X.X. XXXXXXXX, I lavori pubblici, in Atti del congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, Milano, 1967.
149 A. FARÌ, L’uso strategico dei contratti pubblici, in L’intervento pubblico nell’economia, a cura di
X. XXXXXXX, X. XXXXXXXXX, Xxxxxxx, 0000, 441 ss.
Per tale ragione, infatti, la fase iniziale della disciplina dei contratti per le opere pubbliche fu strettamente connessa a quella sulla contabilità generale dello Stato, sul presupposto che i contratti, per la connessa erogazione di spesa (o di acquisizione di una entrata), incidevano sulla consistenza del patrimonio pubblico e quindi trovavano la loro disciplina «in quel settore dell’ordinamento positivo che delinea il regime giuridico della gestione finanziaria e patrimoniale pubblica»150.
Infatti, non solo la legge del 1865 faceva esplicitamente rinvio alla (originaria) disciplina sulla contabilità151, ma le disposizioni inerenti alla contrattazione vennero ricomprese all’interno della stessa normativa “Sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato”. Quest’ultima (r.d. 8 novembre 1923, n. 2240) e il relativo regolamento attuativo (r.d. 23 maggio 1924, n. 827) hanno costituito per molto tempo la
disciplina di riferimento in materia di contratti pubblici152.
In particolare, l’art. 37 del r.d. 23 maggio 1924, n. 827 (regolamento di contabilità) prevedeva che tutti i contratti dello Stato dai quali fosse derivata una entrata (c.d. contratti attivi) o una spesa (c.d. contratti passivi) dovessero essere preceduti da pubblici incanti, eccetto che per i casi espressamente previsti dalla legge in cui poteva procedersi con la licitazione privata153.
Tale previsione era tesa a garantire che con la procedura con formalità di incanto la pubblica amministrazione potesse aggiudicare con apposito avviso d’asta (o bando di gara), il contratto al miglior offerente, inteso come colui che
150 A. BARETTONI ARLERI, Linee evolutive della contabilità dello Stato e degli enti pubblici, Milano, 1980, 177. Si v. anche X. XXXXXXX, Trattato di contabilità pubblica, Milano, 1979.
151 A titolo esemplificativo si richiama l’art. 325 che prevedeva che «Alla esecuzione dei lavori e alle somministrazioni si provvede per mezzo di contratti stipulati dal Ministero dei lavori pubblici o suoi delegati, o per economia, nei limiti e secondo le norme prescritte dalla legge sulla contabilità generale dello Stato».
152 Prima ancora v. l. 22 aprile 1869, n. 5026 e relativo regolamento r.d. 4 settembre 1870, n. 5852, poi sostituiti dal r.d. 17 febbraio 1884, n. 2016 e dal regolamento di cui al r.d. 4 maggio 1885, n. 3074 e successivamente approdati nel r.d. 8 novembre 1923, n. 2440 e al regolamento di cui al r.d. 23 maggio 1924, n. 827. Per la ricostruzione normativa ex multis: X. XXXXXXX, X. XXXXXXXXX, Le basi del diritto dei contratti pubblici, II ed., Milano 2019, 6 ss; X. XXXXXXX, Il riordino normativo nel settore degli appalti di opere pubbliche, in Bollettino di informazioni costituzionali e parlamentari, 1995, 1-3, 253 ss.
153 Per tale intendendosi una gara ristretta a cui non venivano invitati tutti i concorrenti che possedevano i requisiti di legge bensì solo alcuni scelti a discrezione dell’amministrazione in quanto ritenuti idonei. In tal senso poteva procedersi solamente nei casi previsti dall’art. 38 del regolamento di contabilità.
potesse garantire il prezzo più basso, massimizzando così la finalità di risparmio dell’amministrazione154.
Nella legge di contabilità, infatti, l’offerta migliore era quella considerata più conveniente per l’amministrazione in una logica meramente contabilistica in quanto l’interesse pubblico coincideva con l’interesse finanziario dell’amministrazione, che era tenuta a scegliere secondo il criterio del prezzo più basso, non corrispondente necessariamente all’offerta migliore155.
In quest’ottica si ricorda, a titolo meramente esemplificativo, l’art. 72, comma 2, del r.d. 827/1924 che prevedeva che quando in un’offerta vi fosse discordanza tra il prezzo in lettere e in cifre dovesse considerarsi come valida l’indicazione più vantaggiosa per l’amministrazione.
L’intera normativa di contabilità era quindi permeata dall’idea che l’Amministrazione fosse la parte contrattuale più debole e che dovesse essere tutelata, tramite una legislazione di privilegio, nell’insidiosa contrattazione con i privati appaltatori, ove l’interesse alla convenienza amministrativa doveva detenere una posizione di centralità.
L’evidenza pubblica era considerata uno strumento teso ad evitare il verificarsi di pratiche corruttive e spreco di denaro pubblico piuttosto che a garantire la concorrenza tra gli operatori privati156: interessi come la par condicio tra gli operatori e la massimizzazione della loro partecipazione erano presi in considerazione solo ove a favore dell’amministrazione157 e vi era una forte diffidenza anche nei confronti di quest’ultima.
Nel timore che l’amministrazione potesse esercitare la propria discrezionalità per colludere con la parte privata ai danni dello Stato, la normativa rispondeva ad uno schema regolatorio di tipo “command and
154 A. XXXXXXX, Lo Stato che contratta e che si accorda, op.cit., 39.
155 A. XXXXX, Il principio di concorrenza nell’esecuzione dei contratti pubblici, Torino, 2019, 21 ss.
156 X. XXXXXXX, X. XXXXXXXXX, op.cit., 7.
157 Si pensi, ad esempio, all’art. 37 che, al secondo comma, prevedeva la possibilità di suddividere l’appalto in più lotti solo ove ciò potesse risultare «più vantaggioso per l’amministrazione». L’attuale disciplina della suddivisione dell’appalto in lotti verrà trattata nel Capitolo III, sezione II.
control”, fondato sulla imposizione di minuziose regole di condotta tese a circoscrivere quanto più possibile il margine di scelta dell’amministrazione158. La “piramide valoriale” che caratterizzava la disciplina dell’evidenza pubblica prima dell’avvento del diritto comunitario vedeva, quindi, al primo posto l’interesse alla convenienza amministrativa e alla corretta gestione delle risorse pubbliche, seguito da quello della tutela dell’imparzialità dell’amministrazione, teso ad evitare che la stessa potesse colludere con i
privati ai danni dell’Erario.
L’accesso dei privati al mercato dei contratti pubblici e i connessi interessi alla par condicio, alla massima partecipazione e alla concorrenza tra gli stessi non erano valori sconosciuti al legislatore di quell’epoca ma venivano presi in considerazione solo ove tesi a garantire un favor per l’amministrazione, in specie economico.
Quest’ottica ha permeato la normativa nazionale per lungo tempo, sino all’avvento del diritto comunitario che, senza dimenticare le esigenze di tutela delle risorse pubbliche, ha visto nella disciplina dei contratti pubblici uno strumento di primaria importanza nel raggiungimento degli obiettivi della Comunità europea, primo fra tutti la creazione e il consolidamento del mercato unico159.
2.1. La tutela della concorrenza, le prime direttive UE e il loro recepimento
Come noto, sin dal Trattato di Roma del 1957, tra i principi cardine della “Costituzione economica europea”160 vi è quello di garantire – in un mercato
158 Così X. XXXXXX-X. XXXXXXX, op.cit., 124.
159 A. FARÌ, op.cit., 444.
160 Sul concetto di Costituzione economica europea si veda, ex multis X. XXXXXXX, La Costituzione economica europea, op.cit., 907; Id., La nuova costituzione economica, op.cit. L’ Autore, a seguito del fenomeno di integrazione europea, ha ritenuto opportuno parlare di una “nuova costituzione economica” rispetto a quella delineatasi fino a quel momento nell’ordinamento italiano e delineata dagli artt. 41, 42 e 43 della Costituzione. Sui legami tra Costituzione e tutela della concorrenza sia consentito il rinvio a
A. XXXXXXX, “Le potenzialità concorrenziali nascoste” dell’art. 41 Cost., in xxxxxxxxxxx.xx, 4, 2020. Si rinvia, inoltre, al primo capitolo e ai riferimenti ivi contenuti.
interno161 «caratterizzato dall’eliminazione tra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali» (art. 3, comma 1, lett. c) Trattato CE) – «un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza» (art. 4, comma 2, Trattato CE).
Nonostante, inizialmente, nel Trattato istitutivo della CEE non vi fosse alcun riferimento agli “appalti pubblici nazionali”162, la Comunità europea prima e l’Unione europea poi, hanno compreso l’importanza nevralgica degli stessi nel raggiungimento del mercato interno163.
Venne intuito che, per realizzare una piena integrazione economica, occorreva eliminare non solo le barriere tariffarie ma anche quelle non tariffarie alla libera circolazione dei fattori produttivi e tra queste ultime gli appalti pubblici occupavano una posizione di primaria importanza164.
Da qui la necessità di armonizzare, attraverso lo strumento delle direttive, le legislazioni degli Stati membri così da aprire la concorrenza, garantendo alle imprese europee la partecipazione alle commesse pubbliche indipendentemente dallo Stato di originaria appartenenza e in condizioni di parità con le imprese locali.
Il primo passo in tal senso furono, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, le direttive c.d. di prima generazione165 tese a creare i presupposti per
161 Inizialmente il Trattato istitutivo della Comunità europea utilizzava il termine “mercato comune” per indicare la liberalizzazione degli scambi dei fattori produttivi tra Stati membri. Con l’Atto unico europeo e con l’intermediazione della Corte di Giustizia a tale espressione ha iniziato poi ad affiancarsi quello di “mercato interno”. Così T. M. MOSCHETTA, Il riavvicinamento delle normative nazionali per il mercato interno, Cacucci, 2018, 36 ss.
162 Un esplicito richiamo agli appalti pubblici nazionali fu inserito solo con l’Atto unico europeo del 17 febbraio 1986 (art. 130F).
163 COM (85) 310, Libro bianco sul completamento del mercato interno, 14 giugno 1985, parr. 81 ss.
164 X. XXXXXX-X. XXXXXXX, op. cit., 126.
165 In particolare, riferimento è alla direttiva 71/304/XXX xxxx a sopprimere le restrizioni alla libera prestazione dei servizi in materia di appalti di lavori pubblici; alla direttiva 71/305/CEE che disciplinava il coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti di lavori pubblici (di importo superiore al miliardo di lire) e alla direttiva 71/306/CEE di modifica della precedente; alla direttiva 72/277/CEE relativa alle modalità e alle condizioni di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee dei bandi di gara per appalti e concessioni di lavori pubblici. Sugli effetti «dirompenti» della direttiva 71/305/CEE si v. X. XXXXX, Direttive CEE e appalti di lavori pubblici, in AA. VV., Gli appalti dei lavori pubblici nel diritto amministrativo comunitario e italiano, Giuffrè, Milano,1990. Hanno fatto seguito poi le direttive 77/62/CEE e 77/63/CEE per il coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture. Quale direttiva di “prima generazione” viene considerata anche la direttiva 80/767/CEE. Sul tema AA.VV., Le norme di adeguamento alle direttive CEE in materia di appalti pubblici di lavori, Milano, 1979; X. XXXXXX, Il nuovo codice dei contratti pubblici di lavori,
un mercato interno degli appalti pubblici attraverso l’eliminazione, in primo luogo, delle discriminazioni basate sulla nazionalità degli operatori economici e, più in generale, attraverso la tutela delle quattro libertà fondamentali garantite dal Trattato, nei confronti delle limitazioni ad esse imposte dalle normative nazionali.
Queste prime direttive, come evidenziato, hanno posto le premesse metodologiche che andranno a costituire il “nucleo duro” del corpus normativo dei contratti pubblici (prima comunitario e poi eurounitario) e si fondavano sulle seguenti argomentazioni166.
Anzitutto, il Trattato tutela la libertà di prestazione di servizi e il diritto di stabilimento e tale tutela richiede l’eliminazione di qualunque restrizione alla circolazione (tra gli Stati membri); in secondo luogo, per realizzare tale obiettivo vi deve essere anche il «coordinamento delle procedure nazionali di aggiudicazione» degli appalti «per conto dello Stato, degli enti pubblici territoriali e di alte persone giuridiche di diritto pubblico»167.
Questa operazione si prevedeva fosse realizzabile tramite un’attività di armonizzazione delle regole dei diversi Stati membri secondo il rispetto di principi quali: il «divieto delle prestazioni tecniche di carattere discriminatorio, sufficiente pubblicità degli appalti, elaborazione di criteri obiettivi di partecipazione e istituzione di una procedura che permetta di assicurare congiuntamente tali principi»168.
Tali direttive, anche per il loro orientamento a carattere essenzialmente “negativo” e di armonizzazione minima169, furono per molto tempo (quasi)
servizi e forniture. Commentario sistematico, Cedam, Padova, 2004, 212. Per una ricostruzione particolarmente puntuale v. M. A. SANDULLI, L’oggetto, in Trattato sui Contratti pubblici, diretto da
M.A. XXXXXXXX, X. DE XXXXXXXX, X. XXXXXXXX, Xxxx X, Xxxxxxx, Milano, 2008, 5 ss; ma anche X. XXXXXXXXX, Le nuove direttive appalti e concessioni: recepimento, elementi critici e opportunità, anche alla luce delle recenti novità normative, in Il recepimento in Italia delle nuove direttive appalti e concessioni. Elementi critici e opportunità, a cura di X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXXXX, Editoriale Scientifica, 2015, 12 ss.
166 X. XXXXXXX, Diritto eurounitario dei contratti pubblici, in, Trattato sui contratti pubblici, a cura di
M.A SANDULLI - R. DE NICTOLIS, vol. I, Xxxxxxx, 2019, 99 ss.
167 Così il primo considerando.
168 Così il terzo considerando.
169 Sulla più generale tematica dell’armonizzazione si rinvia ex multis a T. M. MOSCHETTA, op. cit.
ignorate dagli Stati membri170. Si pensi, ad esempio, all’Italia che recepì le prime direttive in materia di appalti pubblici di lavori solamente dopo diversi anni e a seguito di una procedura di infrazione171.
L’ambito di applicazione, inoltre, era particolarmente ridotto in quanto disciplinavano solo i lavori e le forniture all’infuori dei c.d. settori esclusi per i quali non era stata prevista alcuna armonizzazione delle procedure di ricorso172 e, inoltre, le disposizioni comunitarie presentavano ampie lacune di cui le amministrazioni aggiudicatrici approfittavano per non ricorrere alle procedure aperte173.
Vieppiù che, da un punto di vista soggettivo, le direttive si applicavano solamente alle “Amministrazioni aggiudicatrici” per tali intendendosi unicamente lo Stato, gli enti pubblici territoriali ad esclusione di tutti i soggetti formalmente privati ma sostanzialmente pubblici174.
Queste prime direttive comunitarie, quindi, apportarono un primo contributo positivo all’apertura del mercato degli appalti pubblici alla concorrenza, tuttavia, molto limitato.
170 Come evidenziato nel già citato Libro bianco sul completamento del mercato interno COM (85) 310. Di tale avviso anche la Corte di Giustizia che in merito alle direttive di prima generazione affermò che ogni qualvolta gli Stati membri si trovano a recepire il contenuto delle direttive non possono discostarsene in modo sostanziale. Così Causa C-103/88.
171 Il recepimento avvenne con la l. 9 agosto 1977, n. 584, successivamente integrata e modificata dalla
l. 10 dicembre 1981, n. 741 e dalla l. 8 ottobre 1984, n. 687. A livello nazionale, restava fermo, inoltre, il ricorso alla legislazione di contabilità di Stato per i contratti attivi e per i contratti sotto le soglie definite dalle stesse direttive. Sulla l. del 1977 si v. A. BARETTONI ARLERI, op.cit., 200 ss. ove l’A. evidenzia che la l. n. 584, pur se indubbiamente importante, aveva limitato il suo intervento unicamente alla disciplina dell’evidenza pubblica di solo due fattispecie contrattuali: l’appalto di opere pubbliche e la concessione di sola costruzione con valore superiore al miliardo di lire. Tale risultato fu comunque frutto di un fagocitato periodo di riflessione, concentratosi in sede di approvazione della legge. In tale sede, il Parlamento riuscì a mediare sull’orientamento restrittivo del Governo che riteneva necessario “l’adempimento comunitario” solo in merito alla disciplina inerente alla procedura di aggiudicazione e non anche a quella delle altre fasi dell’evidenza pubblica. Al contrario, nelle intenzioni del Parlamento vi era quella di adottare una disciplina «più moderna, idonea ed omogenea con quella di altri Paesi comunitari, relativamente alle altre fasi dell’evidenza pubblica».
172 Le prime direttive ricorsi risalgono agli anni novanta del secolo scorso. In particolare, si richiamano le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE, rispettivamente per i settori ordinari e per quelli speciali.
173 In questo senso si v. l’allegato n. 1 del libro verde del 27 novembre 1996 “Gli appalti pubblici nell’unione. Spunti di riflessione per il futuro”.
174 Si v. F. MASTRAGOSTINO-E. TRENTI, La disciplina dei contratti pubblici fra diritto interno e normativa comunitaria, in, Diritto dei contratti pubblici. Assetto e dinamiche evolutive alla luce del nuovo codice, del decreto correttivo 2017 e degli atti attuativi, a cura di F. MASTRAGOSTINO, II ed., Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2019.
A livello nazionale, inoltre, restava fermo il ricorso alla legislazione di contabilità di Stato per i contratti attivi e per i contratti sotto le soglie definite dalle stesse direttive.
Fu solo dalle direttive degli anni Ottanta e Novanta, cc.dd. di seconda generazione175, che si iniziò ad introdurre un quadro normativo man mano più omogeneo e dettagliato (sempre con l’obiettivo di ridurre le differenziazioni legislative esistenti tra gli Stati membri). Ad esempio, venne estesa la disciplina comunitaria anche agli appalti pubblici di servizi, venne introdotta la nozione di organismo di diritto pubblico e venne prevista una regolamentazione ad hoc per i settori esclusi176.
In generale, inoltre, con tali direttive venne data un’impostazione più attenta ad impedire l’elusione da parte delle Amministrazioni delle regole di pubblicità, trasparenza, imparzialità, ad esempio, tramite la tipizzazione delle procedure di gara in aperte, ristrette e negoziate177.
Iniziava a maturare la consapevolezza dei c.d. costi della “non-Europa”178, delle inefficienze derivanti dalla mancata attuazione e realizzazione degli obietti che erano stati posti dalle direttive179, e della conseguente necessità di
175 In particolare, si richiama la direttiva 89/400/CEE che modifica la direttiva 71/305/CEE in materia di coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti di lavori pubblici; la direttiva 93/36/CEE per il coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture; la direttiva 93/37/CEE per il coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori. Nell’ottica di garantire l’applicazione effettiva della disciplina sostanziale il legislatore comunitario adotta anche le prime direttive ricorsi (89/665/CEE e 92/13/CEE). Per un’analisi di tali direttive si v. AA. VV., Gli appalti dei lavori pubblici nel diritto amministrativo comunitario e italiano, op. cit.
176 93/531/CEE e 93/38/CEE.
177In questo senso v. F. MASTRAGOSTINO-E. TRENTI op cit., 5 ss.
178 Dal nome del rapporto della Commissione “Il costo della non Europa nel settore degli appalti pubblici” del 1988, noto come «Rapporto Cecchini» dal nome del Consulente della Commissione che lo ha curato. Sul tema si v. X. XXXXXXXX, La sfida del 1992, op.cit.
179 In particolare, si v. Il libro verde del 27 novembre 1996 “Gli appalti pubblici nell’unione. Spunti di riflessione per il futuro”. In tale sede veniva evidenziata, in primo luogo, l’importanza dei contratti pubblici per lo sviluppo del mercato unico. L’obiettivo comunitario in tal senso veniva così precisato:
«predisporre le condizioni di concorrenza necessarie affinché gli appalti pubblici siano aggiudicati senza discriminazioni, pervenire ad un'utilizzazione razionale del pubblico denaro attraverso la scelta dell'offerta migliore, rendere accessibile ai fornitori un mercato unico che offra importanti sbocchi e rafforzare così la competitività delle imprese europee». Venivano poi messe in luce le problematicità più rilevanti riscontrate nei primi tentativi di attuazione della legislazione comunitaria in materia. Quale prima causa di inefficienza veniva individuato il mancato recepimento delle direttive da parte degli Stati membri, la cui inerzia, infatti, aveva indotto la Commissione ad intraprendere ben trentanove procedure di infrazione.
garantire, invece, attraverso una politica comunitaria di carattere “positivo”, la realizzazione effettiva di un mercato senza discriminazioni all’accesso e realmente aperto alla concorrenza tra le imprese dei vari Stati membri180.
Vi era la coscienza che, nel mercato dei contratti pubblici, prima dell’entrata in vigore della disciplina giuridica comunitaria, gli acquisti pubblici degli Stati membri si orientavano principalmente (se non unicamente) verso il mercato nazionale, spesso tenendo poco conto dei criteri volti ad ottenere il migliore rapporto qualità-prezzo. In siffatte condizioni gli operatori nazionali non erano certo motivati a migliorare la loro competitività.
Per tali ragioni, a livello comunitario, la principale finalità di una disciplina armonizzata in materia era quella di predisporre le condizioni di concorrenza necessarie affinché gli appalti pubblici potessero essere aggiudicati senza discriminazioni, pervenendo ad un’utilizzazione razionale del pubblico denaro attraverso la scelta dell’offerta migliore, e rendendo accessibile agli operatori un mercato che potesse offrire importanti sbocchi e rafforzare così la competitività delle imprese europee181.
Rispetto al passato, maggiore organicità della disciplina veniva garantita anche a livello nazionale dalla c.d. legge Merloni o legge quadro sui lavori pubblici (l. 11 febbraio 1994, n. 109)182, strumento con cui il legislatore aveva cercato di reagire ai fenomeni corruttivi emersi a seguito del fenomeno c.d. Tangentopoli, dettando una disciplina peculiare delle procedure di affidamento
180 V. A. MASSERA, op. cit., 45.
181 Si richiama ancora una volta il libro verde del 27 novembre 1996 “Gli appalti pubblici nell’unione. Spunti di riflessione per il futuro”, par. 2.
182 Tale legge era dedicata unicamente agli appalti di lavori sopra e sotto la soglia comunitaria, mentre gli appalti di valore pari o superiore alla soglia comunitaria di forniture, servizi nonché lavori, servizi e forniture dei settori speciali, erano disciplinati da tre decreti legislativi (rispettivamente d.lgs. n. 358 del 1992, d.lgs. n 157 del 1995, d.lgs. n. 158 del 1995) che avevano recepito le rispettive direttive in materia. La legge Xxxxxxx subì nel tempo ripetute modifiche di cui si ricordano: L. 2 giugno 1995, n. 216 (c.d. Xxxxxxx-bis); l. 18 novembre 1998, n. 415 (c.d. Xxxxxxx-xxx); l. 1 agosto 2002, n. 166 (c.d Merloni- quater). Sui caratteri della legge Xxxxxxx si v. ex multis, anche M. A. XXXXXXXX, X. CANCRINI, I contratti pubblici, in La corruzione amministrativa. Cause, prevenzione e rimedi, a cura di X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX XXXXXXXX, Xxxxxx, 2010, 437 ss.; A. XXXXXXX-A. CLARIZIA, La legge «Quadro» in materia di lavori pubblici, Padova, Cedam, 2004, 985 ss. Più in generale sulla disciplina previgente al codice si
v. ex multis: X. XXXXX, I contratti dell’amministrazione tra pubblico e privato, Roma, Xxxxxxx, 1986;
F.P. XXXXXXXX, Contratti della pubblica amministrazione, in Enc. giur., vol. IX, 1988; A. XXXXXXXXX-
X. XXXXXXXXXX, L’appalto di opere pubbliche, Roma, Xxxxxxx Editore, 1999.
dei contratti di lavoro, sia sopra che sotto la soglia comunitaria183 anche in termini di maggior rigore rispetto alla disciplina comunitaria184.
La l. quadro, infatti, aveva dettato discipline parzialmente differenti da quella comunitaria prevedendo, ad esempio, una rigida separazione tra attività di progettazione ed attività di esecuzione dei lavori, limitando il ricorso al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ma anche inserendo elementi di differenziazione sull’utilizzo della trattativa privata e sull’ introduzione delle varianti.
Riguardo a tali previsioni si pose anche il problema della loro conformità alla direttiva allora vigente (89/440/CEE poi trasfusa nella direttiva 37/1993/CEE).
Tuttavia, la Corte costituzionale185 ritenne infondate le questioni di costituzionalità sollevate dalle Regioni in relazione alle procedure di scelta del contraente ed ai criteri di aggiudicazione previsti dalla l. n. 109 del 1994, che prevedeva metodi di selezione del contraente anche più rigorosi rispetto alle direttive comunitarie.
Questi ultimi vennero ritenuti costituzionalmente legittime, in quanto diretti ad assicurare, a detta della Corte, la concorrenza in modo ancora più esteso.
Successivamente i principi in questione hanno subito taluni temperamenti ma l’impianto generale è rimasto sostanzialmente invariato.
Il fine ultimo di tale disciplina “rafforzata” era quello di limitare al massimo i poteri discrezionali delle stazioni appaltanti attraverso l’utilizzo di disposizioni particolarmente dettagliate tese a disciplinare le procedure di gara in modo minuzioso, lasciando all’amministrazione un minimo e residuo margine di scelta186.
183 F. MASTRAGOSTINO-E. TRENTI, op.cit., 4 ss.
184 La normativa sugli appalti veniva vista come un’occasione per riportare delle regole in un settore che si rifiniva fonte di illeciti penali continuati, continuativi e molto gravi. Tuttavia, l’ottica che ha determinato la genesi di questa normativa ne ha anche costituito il limite di fondo. In questo senso. X. XXXXXXXXX, Mercato e potere amministrativo, Napoli, 2010, 200. Ulteriori riflessioni sull’argomento sono rinvenibili anche nel lavoro di X. XXXXXXXXX-R. DI PACE, Gli appalti di opere, dal collegato infrastrutture alla legge obiettivo, Milano, 2003.
185 Corte cost., 7 novembre 1995, n. 482.
186 Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, all’art. 21 della legge Xxxxxxx che indicava quello del prezzo più basso quale criterio ordinario di valutazione delle offerte, consentendo alle stazioni appaltanti
In merito ai principi generali della materia, l’art. 1 della suddetta legge, prevedeva che «in attuazione dell’art. 97 della Costituzione l’attività amministrativa in materia di opere e lavori pubblici deve garantirne la qualità ed uniformarsi a criteri di efficienza e di efficacia, secondo procedure improntate a tempestività, trasparenza e correttezza, nel rispetto del diritto comunitario e della libera concorrenza tra gli operatori».
Il richiamo immediato all’art. 97 Cost. (e quindi il collegamento diretto con i principi generali che governano l’organizzazione e il funzionamento delle pubbliche amministrazioni), come è stato evidenziato, sarebbe stato frutto di una prospettiva ancora finalizzata a mettere in primo piano unicamente l’interesse pubblico, in conformità alla originaria concezione contabilistica, in modo da garantire che lo stesso non potesse essere subordinato all’interesse all’apertura concorrenziale del mercato187.
Quindi se, da un lato, il legislatore comunitario tentava, pur se ancora piuttosto debolmente, di armonizzare la normativa interna dei singoli stati, in modo da consentire agli operatori economici di poter competere con pari possibilità all’interno dello spazio europeo; dall’altro, il legislatore nazionale delineava una normativa in cui l’interesse alla concorrenza risultava anticipato, anche solo testualmente, da principi di matrice unicamente economica e ove residuavano minimi spazi per l’esercizio della discrezionalità amministrativa.
Questa fase del rapporto tra diritto comunitario e diritto nazionale è stata caratterizzata dal tentativo di adattare il diritto comunitario al diritto interno e non viceversa, e il diritto alla libera concorrenza tra operatori fungeva al massimo unicamente come limite negativo di compatibilità della normativa in materia piuttosto che come un valore positivo da tutelare188.
di ricorrere al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa solamente in ipotesi eccezionali e tassativamente previste, a differenza di quanto avveniva a livello comunitario ove i criteri erano già considerati come meramente alternativi.
187 Cfr. A. XXXXXXX, Principi procedimentali, in, Trattato sui contratti pubblici, a cura di M.A SANDULLI - R. DE NICTOLIS vol. I, Xxxxxxx, 331.
188 In tal senso E. PICOZZA, I lavori pubblici, in, Appunti per un manuale di diritto pubblico dell’economia, a cura di X. XXXXXXX Roma, 1996, 605 ss.
2.2. Le direttive del 2004 e il Codice “de Lise”
Il vero cambiamento di rotta nella disciplina dei contratti pubblici (prima a livello comunitario e poi a livello interno) si è avuto solo con le direttive 2004/18/CE189 e 2004/17/CE190, che sono state il frutto di un lungo processo di revisione avviato dalla Commissione nel 1996191 e culminato con tali direttive, c.c.dd. di terza generazione192.
Gli Stati membri, come anzidetto, per molto tempo non hanno orientato le proprie politiche in tema di contratti pubblici in chiave pro-competitiva anche a causa del fatto che la disciplina europea ha impiegato molti anni prima di riuscire ad incidere in maniera significativa nel settore.
La mancata introduzione di politiche incisive e ragionate che potessero garantire una tutela reale della concorrenza in questo settore ha consentito ai singoli Stati di rapportarsi al principio della concorrenza con modalità non univoche e contingenti193.
Le patologie rilevate, in più occasioni, dalla Commissione europea in merito alle normative nazionali (oltre al mancato, parziale o non corretto recepimento
189 Relativa al “Coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi”. Per un approfondito esame si rinvia a X. XXXXXXXX, X. X. SANDULLI, Il nuovo diritto degli appalti pubblici nella direttiva 2004/18/CE e nella legge comunitaria n. 62/2005, Milano, 2005.
190 Relativa al “Coordinamento delle procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali”.
191 La Commissione prese nota dell’insufficienza delle misure normative sino a quel momento adottate e della necessità di indispensabili adeguamenti per raggiungere le finalità di apertura concorrenziale che si era posta.
192 Tali direttive furono il frutto di un lungo periodo di riflessione. In primo luogo, la Commissione con la comunicazione dell’11 marzo 1998, 143, prospettava la redazione di un unico testo della materia che ricompresse le varie discipline. Tale possibilità è stata poi ripresa in due proposte dell’11 luglio e del 30 agosto del 2000, poi sfociate nelle direttive del 2004, Cfr. M.A. SANDULLI, L’oggetto, op.cit., 11. Sulle direttive del 2004 si vedano, senza pretesa di esaustività: AA. VV, Il nuovo diritto degli appalti pubblici nella direttiva 2004/18/CE e nella legge comunitaria n. 62/2005, a cura di X. XXXXXXXX, X.X. XXXXXXXX Xxxxxxx, 0000; X. XXXXXXXXXX, X. XXXXXX, Le nuove direttive europee degli appalti pubblici, in Giorn. dir. amm., Quaderni, 9, 2004; X. XXXXXX, Il nuovo diritto europeo degli appalti, in Urban. App., 2004, 7, 755 ss; X. XXXXXXXXX, Prime osservazioni in merito alle direttive di coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici. Direttive n. 17 e n. 18/2004, 31 marzo 2004, in Riv. trim. app., 2004, 854 ss.; X. XXXXXXX, X.XXXXXXX, X. XXXXXXXXXX, Public procurement 004/2005: The legal framework and practice keeps developing, in Global Competition Review, The European Antitrust Review 2006, Special Report, 57 ss.
193 In questo senso X. XXXXXXXXXX, Nuovi modelli organizzativi, tecnologie, processi nel public procurement: opportunità per maggiore concorrenza, efficienza, rinnovamento del mercato?, Relazione al Seminario “Più valore alla pubblica amministrazione”. Appalti pubblici tra efficienza e trasparenza, Roma, 23 novembre 2005, in Xxxxxx.xx.
della normativa), riguardavano, a titolo meramente esemplificativo: il ricorso a nozioni generali differenti da quelle contenute nelle direttive; un ricorso eccessivo alla procedura negoziata, perlopiù senza pubblicazione del bando e al di fuori dei limiti tassativi previsti a livello comunitario; la scarsa qualità dei bandi; l’utilizzo di criteri di aggiudicazione incompatibili con l’impostazione generale delle direttive194.
Con le direttive del 2004, invece, vi è stata una svolta nella politica comunitaria e si è cercato di rendere il mercato degli appalti pubblici più aperto e competitivo.
Il primo obiettivo che il legislatore comunitario ha inteso raggiungere con tali direttive è stato, anzitutto, quello di accorpare in un unico testo195 la disciplina relativa ai contratti pubblici di lavori, servizi, forniture sia nei settori ordinari che nei settori speciali e di fornire una disciplina per lo più uniforme della materia, andando a consolidare nella stessa anche tutti gli orientamenti della Corte di Giustizia che avevano consentito, sino a quel momento, il progredire della disciplina previgente196.
Tale riordino della materia ha segnato, in primo luogo, il superamento della settorialità che aveva contraddistinto i precedenti interventi (anche) eurounitari.
194 Così X. XXXXXXXX, X. XXXXXXXXX, Appalti pubblici: il quadro normativo e la governance, in AA. VV., Concorrenza bene pubblico. Ricerca per il Convegno biennale 2006 del centro studi di Confindustria, vol. II, 2006.
195 In particolare, si faceva riferimento alla direttiva 92/50/CEE che coordinava le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, alla direttiva 93/36/CEE che coordinava le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e alla direttiva 93/37/CEE che coordinava le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori. Data tale frammentarietà, la Commissione volle riunire, modificare e semplificare il contenuto delle suddette direttive e arrivare a detenere in un'unica sede la disciplina degli appalti di forniture, di lavori e di servizi. Tale approccio era teso a salvaguardare la coerenza del diritto comunitario e a far sì che gli “utilizzatori” potessero beneficiarne:
«se le direttive devono essere recepite dalle legislazioni nazionali, è pur vero che gli operatori economici come pure le amministrazioni aggiudicatrici si riferiscono spesso ai testi delle direttive, segnatamente ai fini dell'interpretazione dei testi nazionali. Pertanto, anziché far riferimento a testi distinti che trattano in gran parte le stesse questioni, costituiti rispettivamente da 35 articoli (forniture), 37 articoli (lavori) e 45 articoli (servizi), si avrà a disposizione un testo unico più chiaro nella sua struttura, composto da 82 articoli». In questo senso COM (2000) 275 «Proposta di direttiva del parlamento europeo e del consiglio relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture, di servizi e di lavori».
196 In questo senso il Considerando n. 1 della direttiva 2004/18/CE, ove viene rilevato che la stessa è necessaria per rispondere «alle esigenze di semplificazione e di modernizzazione formulate sia dalle amministrazioni aggiudicatrici che dagli operatori economici nel contesto delle risposte al Libro verde adottato dalla Commissione il 27 novembre 1996» e che si basa «sulla giurisprudenza della Corte di giustizia» (considerando n. 2).
Gli altri obiettivi che sono stati posti a fondamento di questo pacchetto di direttive, possono così riassumersi: a) semplificazione e rafforzamento della disciplina vigente, ritenuta talvolta troppo dettagliata e compressa, al fine di rendere tale mercato più efficiente e competitivo; b) modernizzazione della normativa e delle procedure applicate, consentendo un più largo utilizzo delle nuove tecnologie; c) massimizzazione della flessibilità degli strumenti giuridici utilizzati197.
Il bilanciamento “centrale” all’interno di tali direttive vedeva, da un lato, l’urgenza di garantire maggiore flessibilità alle stazioni appaltanti; dall’altro, la doverosa necessità di conformare l’esercizio di tale “libertà” nel rispetto dei principi del Trattato tra cui, in primo luogo, quello della tutela della concorrenza.
Ruolo di primaria importanza, infatti, venne dato proprio ai principi fondamentali della materia inseriti nel considerando n. 2 della direttiva 2004/18/CE ove veniva specificato che «l’aggiudicazione degli appalti negli Stati membri per conto dello Stato, degli enti pubblici territoriali e di altri organismi di diritto pubblico, è subordinata al rispetto dei principi del trattato ed in particolare ai quelli della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi» ma anche ai principi che dalle stesse libertà derivano ossia quelli di parità di trattamento, di non discriminazione, di riconoscimento reciproco, di proporzionalità e di trasparenza.
Veniva poi precisato che, per le procedure sopra soglia, era necessario altresì elaborare «disposizioni di coordinamento comunitario delle procedure nazionali di aggiudicazione di tali appalti fondate su tali principi, in modo da garantirne gli effetti ed assicurare l’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza».
All’interno del testo, il ruolo dei principi si fermava ad una generale enunciazione all’art. 2 della stessa: «Le amministrazioni aggiudicatrici trattano
197 Cfr. X. XXXXXXXXXX, Verso un Codice unico degli appalti, in Xxxxxx-Xxxxxxxx, 23, 2006.
gli operatori economici su un piano di parità, in modo non discriminatorio e agiscono con trasparenza».
Nell’ottica della semplificazione e della flessibilità, con tali direttive sono stati poi introdotti nuovi strumenti in grado di attribuire maggiore libertà di azione alle stazioni appaltanti, pur nel rispetto della concorrenza.
Si pensi, ad esempio, all’ampliamento (sia per tipologia che numero) delle procedure di aggiudicazione: accanto alle classiche procedure allargate, ristrette e negoziate sono stati introdotti gli strumenti del dialogo competitivo e dell’accordo quadro; ma si pensi anche al maggior favor per il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
La direttiva 2004/17/CE segna poi anche il passaggio da una regolazione di tipo “command and control” ad una regolazione cooperativa tesa a valorizzare il potere di scelta dell’amministrazione198.
A livello nazione, tale mutamento si è avuto inizialmente con il recepimento delle suddette direttive nel “Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture” (d.lgs. 12 aprile 2006, n. 165)199, meglio noto anche come Codice “De Lise” (dal nome del Presidente della Commissione tecnica che ne ha curato la redazione) a cui va riconosciuto, anzitutto, il merito di aver raccolto per la prima volta in un unico contesto, le numerose, non omogenee e stratificate
198 Cfr. X. XXXXXX-X. XXXXXXX, op.cit., 131.
199 L’art. 25 della l. 18 aprile 2005 n. 62 (legge comunitaria del 2004) delegava il governo al recepimento delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE, al fine di proseguire il disegno di unificazione della materia tracciato dal legislatore europeo, prevedendo la raccolta in un unico testo normativo dell’intera disciplina degli appalti pubblici, sia nei settori ordinari che in quelli speciali. Il Codice fu poi sottoposto a due decreti correttivi i dd.lgs. nn. 6 e 113 del 2007. Sui nuovi “codici” di settore introdotti in quello stesso periodo e sulla distinzione con i testi unici si v. AA.VV., Codificazione, semplificazione e qualità delle regole, a cura di M.A. SANDULLI, Milano, Xxxxxxx, 2005. In merito alle peculiarità di tale delega e alle sue finalità si v. P. DE XXXX, Introduzione, in Trattato sui contratti pubblici, op.cit., tomo I, ove viene precisato che in sede di attuazione della delega si pose il problema se dare alla stessa una lettura minimale, limitandosi al recepimento delle due direttive e ad un’attività di semplice coordinamento di esse con la legislazione vigente, ovvero se compiere un’opera più incisiva, idonea a dare vita ad un autonomo e organico corpus normativo. Con l’avallo del Consiglio di Stato (parere del 6 febbraio 2006,
n. 355) e sulla scia di quanto era già avvenuto in sede comunitaria è stata poi preferita la seconda strada. Sul Codice del 2006 si v. oltre alla dottrina sopra indicata, ex multis: X. XXXXXXXXXX, X. XXXXXXXXX, Appalti pubblici, in Trattato di diritto amministrativo europeo, a cura di X.X. XXXXX, X. XXXXX, Xxxxxx, Xxxxxxx, 0000; R. DE NICTOLIS, Il nuovo codice degli appalti pubblici, Roma, EPC libri, 2007; AA.VV., Commento al codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, a cura di X. XXXXXX, Torino, Utet, 2007; AA.VV., I contratti pubblici di lavori servizi e forniture, a cura di R. DE NICTOLIS, Milano, Xxxxxxx, 2007; AA.VV., Commento al codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Torino, Giappichelli, 2007.
disposizioni che, nel corso degli anni, avevano regolato l’affidamento di lavori e l’acquisizione di servizi e forniture da parte di soggetti pubblici o ad essi equiparati200.
Come sottolineato anche dalla Corte costituzionale, è da tale momento che a livello di diritto interno si è concretamente realizzato il definitivo superamento della c.d. concezione contabilistica, che qualificava la normativa interna come posta esclusivamente nell’interesse dell’amministrazione, fino a giungere al perseguimento della finalità di tutela della concorrenza quale strumento per il consolidamento del mercato unico201.
Il Codice ha comportato, infatti, una significativa evoluzione rispetto al passato in quanto il vincolo derivante dalle direttive europee, combinato con la necessità di osservare gli orientamenti della Corte di giustizia, ha imposto al legislatore delegato di discostarsi dalla strada seguita dalla l. 109 del 1994,
«così da prefigurare un modello di amministrazione in grado di attuare una propria “politica” degli appalti e di motivare le scelte dei metodi di gara o dei criteri di aggiudicazione in relazione alle diverse peculiarità delle situazioni di fatto»202, di rivolgersi al mercato con una maggiore elasticità, sempre nel pieno rispetto dei principi di parità di trattamento, di trasparenza, di non discriminazione, di economicità, di concorrenza.
Ciò ha trovato rispondenza nei due dei criteri espressamente fissati nella legge di delega.
Il primo è stato quello della semplificazione che ha costituito un ulteriore incentivo a ridurre i vincoli per le stazioni appaltanti, permettendo loro di utilizzare al meglio le potenzialità del mercato. L’altro è stato quello della flessibilità degli strumenti giuridici che, sulla scia di quanto stabilito dal legislatore UE, è stata garantita (anche) nel codice con l’aumento del numero e della tipologia delle procedure di aggiudicazione (realizzato, come visto,
200 Cfr. M.A. SANDULLI, L’oggetto, op.cit., 5 ss.
201 Xxxxx xxxx., x. 000 del 2007 (par. 6.6), in Foro amm.- CdS, 2007, 3026; in Giorn. dir. amm., 2008, 624 con nota di X. XXXXXX; in Giust. amm., 2007, 1264, con note di A. CELOTTO e X. XXXXX; in Riv. giur. edil., 2008, I, 101, con note di X. XXXXX e R. DE NICTOLIS.
202 Così P. DE LISE, op.cit.
attraverso la previsione, accanto alle classiche procedure allargate, ristrette e negoziate, di strumenti organizzativi e negoziali nuovi, come il dialogo competitivo, l’accordo quadro, le aste elettroniche e le centrali di committenza)203.
Con le direttive del 2004 e, ancor di più, con il loro recepimento da parte dei singoli Stati membri (e dunque, in Italia, con il Codice del 2006) si era quindi palesata la possibilità di rendere il mercato degli appalti pubblici più aperto e competitivo, sia per mezzo dell’accoglimento di strumenti in grado di garantire maggiore flessibilità e libertà di scelta delle amministrazioni aggiudicatrici, sia volendo garantire il rispetto effettivo dei principi di parità, trasparenza, non discriminazione e concorrenza.
Tuttavia, il Codice del 2006 con i suoi 257 articoli e i 359 articoli del Regolamento attuativo204, nonostante il pregio di aver accorpato in un unico testo una normativa particolarmente frammentata e di aver recepito principi di vitale importanza per la crescita del mercato dei contratti pubblici, non ha fatto conseguire i risultati sperati.
Se, da un lato, infatti la normativa europea aveva come principale obiettivo quello garantire maggiore apertura ed efficienza al mercato degli appalti pubblici (anche) concedendo maggiore discrezionalità alle singole stazioni appaltanti, gli stessi obiettivi, pur se formalmente considerati di primaria importanza anche dal legislatore interno, non sono stati pienamente raggiunti con il codice del 2006.
L’approccio del legislatore europeo, meno formalistico e a favore di modelli più flessibili, si è scontrato, infatti, con l’impianto tradizionale dell’ordinamento italiano caratterizzato, principalmente, da un fitto reticolo di regole rigide improntate ancora sullo schema “command and control”.
203 Ancora P. DE LISE, op.cit. Altri strumenti tesi a garantire una “concorrenza effettiva” sono stati, secondo parte della dottrina (a titolo esemplificativo) anche “un più articolato contraddittorio nella fase di verifica delle offerte anomale; il principio di equivalenza delle specifiche tecniche inerenti le prestazioni contrattuali, accompagnati dall’introduzione dei (nuovi) modelli organizzativi, delle tecnologie e dei processi descritti, orientati in chiave dinamica per creare un sistema amministrativo favorevole alla concorrenza”. In tal senso X. XXXXXXXXXX, Il Codice degli appalti, in Giorn. dir. amm., 11, 2006, 1176 ss.
204 D.p.r. 5 ottobre 2010, n. 207.
Tale impianto, storicamente fondato sull’esigenza di garantire tutela dallo “spettro” della corruzione, (in particolar modo dopo Tangentopoli) è stato da ostacolo alla realizzazione della flessibilità richiesta dalle direttive europee205.
Il Codice del 2006, tuttavia, può identificarsi come un primo tentativo206 di far coesistere questi due approcci: il primo, tipico della disciplina europea, incentrato sull’esigenza di aprire il mercato dei contratti pubblici alla concorrenza; il secondo, tradizionalmente legato alla disciplina italiana, connotato dalla visione “contabilistica” e dallo schema regolatorio del “command and control”207.
2.3. Le Direttive del 2014 e il “nuovo” Codice dei contratti pubblici
L’ultimo intervento di sistema, da parte dell’UE, in materia di contratti pubblici è stato quello del pacchetto direttive del 2014208 (cc.dd. di ultima generazione).
205 Tale aspetto verrà approfondito nei capitoli successivi.
206 Parte della dottrina fa riferimento al Codice del 2006 come ad una “falsa partenza” dal momento che, dalla sua entrata in vigore, vi sono state molteplici modifiche e decreti correttivi. Così X. XXXXXXX, Codice dei contratti pubblici: ancora correttivi e modifiche, in Corr. Giuri., 11, 2006, 1485 ss. Anzitutto, infatti, con l’approvazione della l. 12 luglio 2006, n. 228, di conversione con modificazioni del d.l. 12 maggio 2006, n. 173 (cd. milleproroghe), vi fu la sospensione, sino al 1 febbraio 2007, di diversi istituti tesi ad aumentare la flessibilità del sistema e per questo guardati con sospetto (a titolo esemplificativo si ricordano gli istituti del dialogo competitivo e degli accordi quadro). Successivamente, vi fu un primo decreto correttivo (d.lgs. 26 gennaio 2007, n. 6), seguito da un secondo (d.lgs. 31 luglio 2007, n. 117) e da un terzo correttivo (d.lgs. 11 settembre 2008, n. 152), quest’ultimo teso a garantire l’adeguamento del sistema alle censure mosse dalla Commissione europea in sede di procedura di infrazione (n. 2007/2309) in merito ad alcune disposizione ritenute incompatibili con le direttive comunitarie o incomplete rispetto a quanto previsto nelle stesse. In tal senso si v. G. XXXXXX, Il nuovo Codice dei contratti pubblici, in Commentario al Codice dei Contratti pubblici, a cura di X. XXXXXXX, XX ed., Xxxxxxxxxxxx, 2019, 19 ss.
207 Tale confronto tra modelli sarà oggetto di puntuali approfondimenti nei paragrafi successivi.
208 Si fa riferimento in particolare alle direttive n. 2014/23 sulle concessioni; n. 2014/24 sugli appalti pubblici e n. 2014/25 sulle procedure di appalto nei settori speciali. Sull’argomento v. ex multis: AA. VV., Le nuove direttive europee in materia di appalti e concessioni, a cura di X. XXXXX, Xxxxxxxx, 2014; AA.VV., EU Public contract law. Public Procurement and Beyond, a cura di X. XXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, Xxxxxxxxx, 0000; AA. VV. Il recepimento in Italia delle nuove direttive appalti e concessioni, elementi di criticità e opportunità, a cura di X. XXXXXXXXX, X. XXXXXXXXX, Xxxxxx, 0000; X. XXXXXXX, Diritto eurounitario dei contratti pubblici, op. cit.; M. P. CHITI, Il sistema delle fonti nella nuova disciplina dei contratti pubblici, in Giorn. Dir. amm., 4, 2016, 436 ss.; X. XXXXXXXX, Le direttive UE del 2014 in materia di contratti pubblici e l’articolato processo di integrazione europea nel diritto interno degli appalti, in xxxxxxxxxxx.xx, 11, 2015; X. XXXXXXX, La nuova direttiva europea in materia di appalti servizi e forniture nei settori ordinari, testo della relazione per il 61 Convegno di Studi Amministrativi su “La nuova disciplina dei contratti pubblici fra esigenze di semplificazione, rilancio dell’economia e contrasto alla corruzione”, Varenna 17-19 settembre 2015, in www.giustizia- xxxxxxxxxxxxxx.xx.
Tale intervento riformatore209, in linea con la strategia “Europa 2020”210, vedeva tra i principali obiettivi da raggiungere nel settore dei contratti pubblici, da un lato, quello di ammodernare la disciplina degli appalti pubblici e, dall’altro, di accrescere l’efficienza della spesa pubblica, «facilitando in particolare la partecipazione delle piccole e medie imprese (PMI) agli appalti pubblici e permettendo ai committenti di farne un miglior uso per sostenere il conseguimento di obiettivi condivisi a valenza sociale»211.
Tali direttive si sono mosse su due “binari paralleli”: infatti, da un lato, proponevano l’obiettivo di accrescere l’efficienza della contrattazione pubblica, attraverso un’opera di massima semplificazione della disciplina, anche grazie all’utilizzo di procedure di aggiudicazione più moderne e flessibili (con la conseguenza di assicurare maggiore discrezionalità alle amministrazioni); dall’altro, ponevano in risalto il c.d. uso strategico dei contratti pubblici, ossia il perseguimento di obiettivi anche sociali (recte: non unicamente economici).
In altre parole, accanto e in aggiunta al primario e tradizionale obiettivo di garantire un’effettiva concorrenza tra le imprese che operano su tale mercato, veniva posta in risalto anche la finalità di accrescere l’efficienza della spesa pubblica attraverso la tutela di interessi diversi quali, ad esempio, la tutela delle piccole e medie imprese (di seguito anche solo PMI)212 o la tutela dell’ambiente, del lavoro, della salute213.
209 L’intervento di riforma iniziò ad essere elaborato già nell’atto per il mercato unico del 2010 (COM (2010) 608 “Verso un atto per il mercato unico. Per un’economia sociale di mercato altamente competitiva”) ove le Commissione manifestò l’intenzione di avviare “ampie consultazioni” per presentare entro il 2012 proposte legislative tese ad aggiornare e semplificare la normativa europea sugli appalti pubblici e permettere un uso più efficiente degli stessi, anche a sostegno di altre politiche.
210 Cfr. la comunicazione della Commissione del 3 marzo 2010, COM (2010) 2020. In particolare, gli obiettivi della strategia in materia di appalti pubblici riguardavano: i) il miglioramento del contesto generale per l’innovazione nelle imprese, utilizzando politiche incentrate sulla domanda; ii) favorire la transizione verso un’economia efficiente sotto il profilo delle risorse (ad es. attraverso la promozione dei cd appalti verdi); iii) migliorare il clima imprenditoriale, specialmente per le PMI. In tal senso si v. anche il “Libro verde sulla modernizzazione della politica dell’UE in materia di appalti pubblici” del 27.1. 2011.
211 Così il considerando n. 1 della direttiva 2014/24.
212 Tale aspetto verrà approfondito nel capitolo III, sezione II.
213 Si v. in particolare i considerando 40 e 41 della direttiva 2014/24.
Nell’ottica di far sì che tali considerazioni non venissero ritenute unicamente mere enunciazioni di principio, a tale rilievo teorico è conseguita un’attenzione, per così dire, “pratica” che ha trovato concretezza, ad esempio, nella disciplina sulla struttura del bando, sulla determinazione dei requisiti tecnici, sui criteri di aggiudicazione e sulle condizioni di esecuzione del contratto.
Può dirsi, dunque, che la prima grande differenza tra la disciplina europea del 2004 e quella del 2014 sta, anzitutto, nell’aggiunta (o anche solo nella più ampia considerazione) di ulteriori interessi e principi meritevoli di tutela, da accostare a quello della tutela della concorrenza e dell’apertura del mercato214. Se infatti tale interesse ha permeato tutta la disciplina delle direttive del 2004 – facendo, come visto, anche da “spartiacque” tra quanto sino a quel momento compiuto – nel nuovo pacchetto di direttive, può dirsi che l’interesse
dell’UE sia andato “oltre la concorrenza”.
In altre parole, la tutela della concorrenza (e la garanzia della sua effettività) è rimasta comunque la ratio ispiratrice dell’intera disciplina europea – data la convinzione che sia proprio la concorrenza il primo e più rilevante strumento per assicurare l’efficienza del processo di acquisizione di lavori, servizi e forniture da parte delle amministrazioni pubbliche215 – tuttavia, il vero cambiamento da ricondurre a tale ultimo pacchetto di direttive, sta proprio nella considerazione (se non del tutto nuova quantomeno migliore e più effettiva) di ulteriori interessi e valori da tutelare.
Il recepimento di tali direttive è avvenuto, non senza complessità, con l’approvazione del “nuovo” Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50)216.
214 Da un punto di vista meramente formale, è ictu oculi evidente la maggiore complessità della “nuova” disciplina, trattandosi di un corpo normativo di ben 259 articoli (di cui 204 per gli appalti e 55 per le concessioni), laddove, invece, le direttive del 2004 constavano di 159 articoli in tutto. Dal punto di vista del contenuto, la precedente disciplina viene toccata in maniera particolarmente incisiva, senza tuttavia stravolgerne la struttura di fondo (ad esempio della direttiva 2004/18/CE sono risultati come modificati circa il 70% dei paragrafi). In tal senso v. A. MANZIONE, Codificazione dei contratti pubblici, in Trattato sui contratti pubblici, a cura di M.A SANDULLI - R. DE NICTOLIS vol. I, Xxxxxxx, 2019, 171 ss.
215 Cfr. X. XXXXXXX, op. cit., 2.
216 Il legislatore nazionale, conscio dei ritardi che caratterizzano l’elaborazione dei testi normativi, aveva ritenuto opportuno di adempiere agli obblighi sovranazionali, attraverso l’utilizzo di due deleghe
Il testo del Codice è stato definito, da parte della dottrina, come «la combinazione di due diverse anime» in quanto, da un lato, esso ha recepito in unico testo le tre direttive del 2014 (scelta peculiare del legislatore italiano in quanto vi era la possibilità di recepirle anche con testi legislativi separati), ispirandosi alle linee direttrici delle direttive stesse (ossia la maggiore flessibilità dei modelli tesa a garantire una maggiore efficienza degli acquisti e il c.d. uso strategico degli appalti); dall’altro lato, il corpus del codice risulta essere figlio del diritto interno e, in particolare, del retaggio del “vecchio” Codice del 2006 e di esigenze proprie dell’ordinamento interno217.
La tecnica di recepimento utilizzata, infatti, non è stata di certo quella del
c.d. “copy out” (utilizzata, ad esempio, in Francia) con cui il legislatore nazionale si limita a recepire unicamente quanto è indicato nell’atto normativo europeo, bensì, ancora una volta, si è preferito aggiungere norme tipiche del diritto interno, anche di nuova ideazione.
Ciò è avvenuto nonostante all’interno della delega fosse stato espressamente ribadito il principio del divieto del c.d. gold plating218 ossia il
«divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive» (art. 1, comma 1, lett.a) l. 28 gennaio 2016, n. 11), il che ha comportato il deferimento di diverse questioni alla Corte
prevedendo l’adozione di: a) un primo decreto di recepimento delle direttive, da adottare entro la data del 18 aprile 2016, prevista dalle stesse per adempiere all’obbligo di recepimento, e b) un secondo decreto, finalizzato, invece al riordino generale della disciplina vigente, mediante l’emanazione di un nuovo Codice dei contratti pubblici. Tale “sdoppiamento” della delega voleva consentire al Governo di elaborare un Codice più organico e armonizzato con la disciplina di settore. Il Governo, tuttavia, ha invece deciso di avvalersi della facoltà (parimenti prevista dalla delega) di adottare un unico decreto legislativo entro il 18 aprile 2016. La conseguenza, tuttavia, è stata quella precisata dal Consiglio di Stato in sede di parere al codice (parere n. 855/2016), secondo cui «il teso del codice risente dei tempi ristretti e presenta pertanto inevitabili incoerenze sistematiche, refusi, disposizioni non ben coordinate, imprecisioni lessicali e di recepimento, essendo mancata, verosimilmente, una pausa di ponderazione e rilettura complessiva dell’articolato». Cfr. A. XXXXX, X. CANZONIERI, La nuova disciplina dei contratti pubblici, Xxxxxxx, 2018, 10.
000 x. X. XXXXXX, xxx. op. cit., 45 ss.
218 Definito dal Consiglio di Stato come necessità di «riduzione degli oneri non necessari, e non anche in un abbassamento del livello delle garanzie che salvaguardano altri valori costituzionali, in relazione ai quali le esigenze di massima semplificazione e efficienza non possono che risultare recessive» (parere n. 855/2016).
di Giustizia, prima fra tutte quella inerente alla disciplina del subappalto, sospettata di incompatibilità (poi confermata) con la disciplina comunitaria219. Tra le principali novità apportate dal Codice, vi è stata sicuramente la modifica circa le modalità attuative della disciplina in esso contenuta: se nella vigenza del previgente Codice (ma anche, come visto, nella vigenza della legge Merloni) l’attuazione della disciplina era stata demandata ad un sistema “rigido”, costituito dal richiamato Regolamento unico (d.p.R. 207/2010), nel “nuovo” impianto normativo il Regolamento viene sostituito da un sistema più
flessibile c.d. di soft law o soft regulation.
Tale sistema, caratterizzato dall’utilizzo dello strumento delle “linee guida”220 emanate dall’Autorità nazionale anticorruzione221, ha creato, sin dalle prime applicazioni, non pochi problemi inerenti, in particolar modo, all’assenza di vincolatività di alcune di esse e al loro inserimento nella gerarchia delle fonti. Tali difficoltà applicative hanno provocato non poche criticità, prime fra tutte quelle in merito alla garanzia della certezza del diritto222.
Per tali ragioni il legislatore con il d.l. n. 32/2019, il c.d. “Sblocca cantieri”223 (a soli tre anni dall’entrata in vigore del previgente sistema) ha
219 La questione verrà affrontata nel Capitolo III, sezione I, par. 6.
220 Sul tema, senza pretesa di esaustività v. X. XXXXXXXX, Linee guida e legalità, in Sicurezza, legalità ed economia, a cura di A. XXXXXX, X. XXXXXXX, Napoli, 2020; F. XXXXXXXX, Il sindacato del giudice amministrativo sulle linee guida, sui pareri del c.d. precontenzioso e sulle raccomandazioni di Anac, in Dir. proc. Amm., 2, 2017; X. X. XXXXXXX, Le “nuove” dimensioni del regolamento. Il caso delle Linee guida ANAC, in xxxxxxxxxxx.xx, 2, 2017; X. XXXXXXXXXX, Le linee guida Anac, in Aspetti della transizione nel settore dell’energia: gli appalti nei settori speciali, il market design e gli aspetti di governance, Atti degli Atelier Aiden 2017, Xxxxxxx, 2017; M. P. CHITI, Il sistema delle fonti nella nuova disciplina dei contratti pubblici, op.cit., 436 ss; X. XXXXXXX, Le linee guida dell’ANAC: una nuova fonte del diritto?, in xxx.xxxxxxxxx-xxxxxxxxxxxxxx.xx, 2016.
221 In particolare, il sistema si fondava su tre tipologie differenti di atti: a) quelli adottati con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, su proposta dell’Anac; b) le linee guida adottate con delibera dell’Anac a carattere vincolante erga omnes; c) le linee guida adottate con delibera dell’Anac a carattere non vincolante. A chiarirne la natura giuridica è intervenuto anche il Consiglio di Stato in sede consultiva (parere n. 1767 del 2016) rilasciato in relazione alle linee guida Anac relative al RUP, all’offerta economicamente più vantaggiosa e ai servizi attinenti all’Architettura e all’Ingegneria.
222 Sul più generale tema della certezza del diritto si v. tra i più recenti contributi, ex multis: X. XXXXXXXXX, Il diritto alla sicurezza giuridica. Note in tema di certezza giuridica e giusto processo, in Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, a cura di X. XXXXXXXXX e M.A. XXXXXXXX, Napoli, 2018; M.A. XXXXXXXX, Xxxxxx sui rischi dell’incertezza delle regole (sostanziali e processuali) e dei ruoli dei poteri pubblici, in Xxxxxxxxxxx.xx, 11, 2018 ID., Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018.
223 Convertito con modificazioni dalla l. 55 del 2019. Tale provvedimento aveva come dichiarato obiettivo quello del rilancio immediato del settore dei lavori pubblici ed è intervenuto sul codice con
deciso di fare “un passo indietro” prevedendo il ritorno al sistema del c.d. “Regolamento unico”.
L’emanazione del Regolamento (dopo due anni non ancora avvenuta), tuttavia, non comporterà un superamento integrale del sistema delle Linee guida, ma solamente parziale224, con la possibilità di creare una pluralità di antinomie e incertezze interpretative che non potranno che ledere la già precaria instabilità del sistema normativo della materia225.
A livello prettamente contenutistico, per quanto qui di interesse, tra le novità principali si ricordano (a titolo meramente esemplificativo) il recepimento delle nuove procedure flessibili (quali ad. es., il dialogo competitivo, il partenariato per l’innovazione o la procedura competitiva con negoziazione); ma anche la consacrazione del favor per il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa e il relegamento del criterio del prezzo più basso ad ipotesi marginale226; ed ancora il maggior favor per le PMI che ha fatto sì che venissero
tre diverse modalità: i) alcuni istituti sono stati sospesi fino al 31 dicembre 2020; ii) sono state introdotte alcune disposizioni con vigenza limitata al biennio 2019-2020; iii) sono state modificate diverse disposizione a regime e ne sono state introdotte di nuove.
224 Le materie in cui interverrà il Regolamento, infatti sono: a) nomina, ruolo e compiti del responsabile del procedimento; b) progettazione di lavori, servizi e forniture, e verifica del progetto; c) sistema di qualificazione e requisiti degli esecutori di lavori e dei contraenti generali; d) procedure di affidamento e realizzazione dei contratti di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie comunitarie; e) direzione dei lavori e dell’esecuzione; f) esecuzione dei contratti di lavori, servizi e forniture, contabilità, sospensioni e penali; g) collaudo e verifica di conformità; h) affidamento dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria e relativi requisiti degli operatori economici; i) lavori riguardanti i beni culturali. Restano dunque fuori dall’ambito di applicazione del Regolamento, ad esempio, il tema del grave illecito professionale (linee guida Anac n. 6) o quello del tema dei sistemi di monitoraggio da applicare in caso di partenariati pubblico-privati (linee guida Anac n. 9). A complicare ancora di più il lavoro dell’interprete (e degli operatori) vi è la previsione secondo cui l’entrata in vigore del Regolamento, oltre a fare cessare l’efficacia delle Linee guida inerenti alle materie espressamente indicate, renderà inefficaci anche quelle Linee Guida che siano «comunque in contrasto con le disposizioni recate dal Regolamento».
225 Prima di tale intervento, il Codice del 2016 è stato oggetto anche di un’ulteriore modifica ad opera del Decreto correttivo di cui al d.lgs. n. 56 del 2017, adottato a distanza di un anno dall’entrata in vigore del Codice, malgrado l’auspicio del Consiglio di Stato (in sede di parere sullo schema del decreto) che il termine del correttivo venisse allungato di almeno un anno per consentire un’effettiva valutazione dell’impatto concreto della riforma (avviata unicamente un anno prima) sul tessuto socio-economico. Il legislatore delegante, invece, ancora una volta, non ha inteso muoversi nella direzione consigliata facendo sì che il correttivo venisse emanato in un momento in cui ancora risultava incompleta l’attuazione di buona parte del codice. Cfr. A. MANZIONE, ult. op, cit. Per approfondimenti sulle modifiche apportate dal decreto correttivo, si richiama per tutti: AA.VV., Il correttivo al Codice dei contratti pubblici. Guida alle modifiche introdotte dal d.lgs. 19 aprile 2017, n.56, a cura di M. A. XXXXXXXX, X. XXXXXX, X. XXXXXXXXXX, Xxxxxxx 2017.
226 Tale scelta verrà analizzata nel capitolo III.
modificate e/o enfatizzate tutte una serie di disposizioni, prima fra tutte quella in materia di suddivisione dell’appalto in lotti227.
Tuttavia, il cambiamento più radicale (di derivazione UE) è da rintracciarsi nel mutamento della disciplina dei principi, della “piramide valoriale” fondante il sistema della contrattazione pubblica, la cui analisi ed evoluzione verrà compiuta nei paragrafi successivi.
2.3.1. La tumultuosa incertezza delle (nuove) riforme: c’è ancora un Codice dei contratti pubblici?
Quello dello Sblocca cantieri non è stata l’ultima modifica compiuta alla disciplina. Tra gli ultimi interventi del legislatore in materia, occorre soffermarsi – per quanto di interesse alla presente ricostruzione normativa – sull’emanazione del primo228 “decreto semplificazioni” (d.l. 16 luglio 2020, n.
76 convertito con modificazioni dalla l. 11 settembre 2020, n. 120)229 – avvenuta a distanza di un anno dal decreto sblocca cantieri – che, a seguito dell’emergenza da Covid-19 che ha colpito (anche) l’Italia, ha introdotto rilevanti modifiche (anche a regime) nella disciplina dei contratti pubblici,
«ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di realizzare un’accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture attraverso la semplificazione delle procedure in materia di contratti pubblici».
227 Al favor per le PMI e alla suddivisione dell’appalto in lotti è dedicato il capitolo III, sezione II, al quale si rinvia.
228 A distanza di neanche un anno, il legislatore è intervenuto nuovamente sulla materia modificando ancora una volta la disciplina dei contratti pubblici con il d.l. n. 77/2021. Tale decreto anzitutto ha prorogato alcuni dei termini previsti per l’applicazione delle riforme “termporanee” (ad es. la disciplina derogatoria del sottosoglia, ulteriormente modificata dal decreto, troverà applicazione fino al 30 giugno 2023, oppure ancora le deroghe al subappalto potranno applicarsi fino al mese di ottobre 2021); ha poi inciso (nuovamente) sul regime del sottosoglia, su quello del subappalto; ha creato un canale procedurale semplificato per determinate opere – considerate prioritarie – indicate negli allegati al decreto; ha modificato la disciplina dell’inhouse. Le modifiche al sottosoglia e al subappalto verranno affrontate nel capitolo III. Per una ricostruzione delle principali modifiche intervenute sia consentito il rinvio a A. XXXXXXX, S. TRANQUILLI, Bullet points del D.l. “semplificazioni” n. 77/2021: le principali novità in materia di contratti pubblici, in xxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 7 giugno 2021; Id., Semplificare per resistere. Il d.l. “Semplificazioni-Governance” n. 77/2021 e i contratti pubblici, in Xxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 29 giugno 2021.
229 Per una puntuale analisi delle modifiche avvenute in sede di conversione si v. X. XXXXX, Le principali modifiche e integrazioni recate, in sede di conversione, al d.l. “Semplificazione”, in xxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 15 settembre 2020.
In particolare, dei sessantacinque articoli che inizialmente componevano il decreto (a cui ne sono stati aggiunti altri quarantacinque in sede di conversione, per un totale di centodieci articoli), i primi nove riguardano la suddetta opera di semplificazione (decantata sin dalla rubrica legis) in materia di contratti pubblici.
Per quanto qui di interesse, ai primi due articoli, al dichiarato fine di
«incentivare gli investimenti pubblici nel settore delle infrastrutture e dei servizi pubblici e a far fronte alle ricadute economiche negative a seguito delle misure di contenimento e dell’emergenza sanitaria globale del COVID-19», viene previsto un regime derogatorio per le procedure sotto soglia (art. 1 “Procedure per l’incentivazione degli investimenti pubblici durante il periodo emergenziale in relazione all’aggiudicazione dei contratti pubblici sotto soglia”) e sopra soglia comunitaria (art. 2 “Procedure per l’incentivazione degli investimenti pubblici in relazione all’aggiudicazione dei contratti pubblici sopra soglia”), applicabile a tutte le procedure in cui la determina a contrarre (o altro atto di avvio del procedimento equivalente) venga adottata entro il 31 luglio 2021 (termine modificato in sede di conversione al 31 dicembre 2021)230.
Di particolare rilievo sono state anche le modifiche stabilite dall’art. 4, che ha introdotto tutta una serie di (disorganiche) disposizioni che sono andate ad incidere, anche a regime, sulla fase di conclusione dei contratti e sul codice del processo amministrativo231; ma anche il successivo art. 5 che ha dettato, invece,
230 Il d.l. 77/2021 ha poi ampliato nuovamente il regime temporale della deroga fino al giugno 2023. Per l’analisi di tale nuova disciplina e i suoi riflessi sulla concorrenza si rinvia ai parr. 3.1. ss del capitolo III, sezione I.
231 Per un’analisi approfondita di tali modifiche, con riferimento alla bozza del decreto, si v. ex multis:
X. XXXXXX, La proposta di modifica del rito appalti: complicazioni e decodificazioni senza utilità?, in xxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 3 luglio 2020. In generale sulle criticità della normativa “emergenziale” nel processo amministrativo v. ex multis: M.A. SANDULLI, Cognita causa, in Xxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 6 luglio 2020, rielaborazione della Relazione al webinar del 30 giugno/1 luglio 2020 su L'emergenza Covid e i suoi riflessi sul processo amministrativo. Principi processuali e tecniche di tutela tra passato e futuro (visionabile ai seguenti link: xxxxx://xxx.xxxxxxx.xxx/xxxxx?xx0xXXx-XxX0x&xx00x; xxxxx://xxx.xxxxxxx.xxx/xxxxx?xxXx0Xx-xXx0X). Sulle “incisioni” sulla tutela giurisdizionale, sia inoltre consentito il rinvio a A. XXXXXXX, Decreto semplificazioni: contratti pubblici, concorrenza e tutela, in Xxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 31 luglio 2020. Sul rapporto tra normativa emergenziale e garanzia di una tutela effettiva v. ex multis anche X. XXXXXXXXX, Diritto dell’emergenza e giustizia nell'amministrazione. No a false semplificazioni e a false riforme, in Osservatorio emergenza covid-19,
un regime derogatorio all’art. 107 del Codice dei contratti pubblici sulla sospensione dell’esecuzione delle opere pubbliche232.
A parziale e ipotetico bilanciamento di tale riduzione di garanzie, l’art. 6 ha introdotto, un “nuovo” organismo con cui le Stazioni appaltanti e gli operatori economici dovranno imparare a rapportarsi: il Collegio consultivo tecnico233.
xxxxxxxxxxx.xx ove l’A. evidenzia che l’emergenza Covid 19 ha reso il processo amministrativo «oggetto di un attacco concentrico, arrecato ab externo, dalla tendenza a depotenziarne efficacia e incisività nei confronti dell’attività contra jus della pubblica amministrazione, e, per così dire, dall’interno, attraverso una strisciante ma costante riduzione delle garanzie tipiche di un processo giurisdizionale che tende a ricondurlo nei limiti originari di una procedura paragiurisdizionale».
232 In particolare viene previsto, in deroga all’art. 107 c.c.p., che la sospensione, dell’esecuzione di lavori diretti alla realizzazione delle opere pubbliche di importo pari o superiore alle soglie di cui all’articolo 35 c.c.p., anche se già iniziati, può avvenire, esclusivamente, per il tempo strettamente necessario al loro superamento, unicamente per: a) cause previste da disposizioni di legge penale, dal codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011,
n. 159, nonché da vincoli inderogabili derivanti dall’appartenenza all’Unione europea. In tal caso, viene previsto che si debba provvedere “ai sensi del comma 4”: nel caso in cui la prosecuzione dei lavori, per qualsiasi motivo (ivi incluse la crisi o l’insolvenza dell’esecutore anche in caso di concordato con continuità aziendale ovvero di autorizzazione all’esercizio provvisorio dell’impresa) non possa proseguire con il soggetto designato, la stazione appaltante, previo parere del collegio consultivo tecnico, salvo che per gravi motivi tecnici ed economici sia comunque, anche in base al citato parere, possibile o preferibile proseguire con il medesimo soggetto, dichiara senza indugio (in deroga alla procedura di cui all’articolo 108, commi 3 e 4) del c.c.p. la risoluzione del contratto, che opera di diritto, e provvede secondo le modalità alternative previste dallo stesso comma; b) gravi ragioni di ordine pubblico, salute pubblica o dei soggetti coinvolti nella realizzazione delle opere, xxx incluse le misure adottate per contrastare l’emergenza sanitaria globale da COVID-19; c) gravi ragioni di ordine tecnico, idonee a incidere sulla realizzazione a regola d’arte dell’opera, in relazione alle modalità di superamento delle quali non vi è accordo tra le parti. In questa ipotesi è stabilito che il collegio consultivo tecnico “entro quindici giorni dalla comunicazione della sospensione dei lavori ovvero della causa che potrebbe determinarla, adotta una determinazione con cui accerta l’esistenza di una causa tecnica di legittima sospensione dei lavori e indica le modalità, tra quelle di cui al comma 4, con cui proseguire i lavori e le eventuali modifiche necessarie da apportare per la realizzazione dell’opera a regola d’arte. La stazione appaltante provvede nei successivi cinque giorni”; d) gravi ragioni di pubblico interesse. Di particolare rilievo risulta poi il comma 6 ove è stabilito che “salva l’esistenza di uno dei casi di sospensione di cui al comma 1, le parti non possono invocare l’inadempimento della controparte o di altri soggetti per sospendere l’esecuzione dei lavori di realizzazione dell’opera ovvero le prestazioni connesse alla tempestiva realizzazione dell’opera”. Al secondo periodo viene precisato che in sede giudiziale, sia nella fase cautelare che in quella di merito, il giudice deve tenere conto “delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale o locale alla sollecita realizzazione dell’opera”. Inoltre, l’accoglimento della domanda cautelare viene sottoposto alla previa valutazione circa ai “la irreparabilità del pregiudizio per l’operatore economico, il cui interesse va comunque comparato con quello del soggetto pubblico alla celere realizzazione dell’opera”.
233 Il CCT sarebbe finalizzato, da quanto si evince anche dalla Relazione illustrativa al Decreto semplificazioni, “a prevenire controversie relative all'esecuzione dei contratti pubblici” e operante anche quest’ultimo fino al 31 luglio 2021 (poi 31 dicembre) (art. 6). Anche su tale istituto può rintracciarsi un atteggiamento del legislatore alquanto ondivago. Se da un lato, infatti la l. delega del 2016 (art. 1 comma 1, lett. aaa)), aveva impedito l’introduzione di nuove forme di ADR, in sede di esercizio della delega, il Governo aveva inserito l’articolo 207 che introduceva la figura del Collegio consultivo tecnico (CCT), istituto non teso a risolvere le controversie ma a prevenirle. Tale previsione è stata tuttavia abrogata in sede di Correttivo per poi essere nuovamente reintrodotta a distanza di due anni e per di più all’interno di una normativa emergenziale tesa alla semplificazione
Nel complesso, le modifiche intervenute234 sono state di così forte impatto sulla disciplina generale della materia che, parte della dottrina togata, ha posto un semplice (quanto vero) interrogativo: esiste ancora un Codice dei contratti pubblici?235
Il legislatore della “semplificazione” ha infatti, ancora una volta, sottratto organicità alla disciplina dei contratti pubblici236 prevedendo sia modifiche a regime, sia modifiche destinate ad operare solamente per un determinato periodo di tempo, aumentando ancora di più la frammentazione della normativa e dei diversi regimi temporali237 di applicazione della stessa, già differenziati dal precedente decreto rilancio.
234 Oltre ai citati articoli si ricordano anche l’art. 3 che ha delineato una disciplina derogatoria e semplificata in materia di controlli antimafia e ha dettato disposizioni a regime sui Protocolli di legalità; l’art. 7 che ha istituito un “Fondo per la prosecuzione delle opere pubbliche” con il fine di «garantire la regolare e tempestiva prosecuzione dei lavori diretti alla realizzazione delle opere pubbliche di importo pari o superiore alle soglie di cui all’articolo 35 del decreto legislativo 18 aprile 2016 n. 50, nei casi di maggiori fabbisogni finanziari dovuti a sopravvenute esigenze motivate nel rispetto della normativa vigente, ovvero per temporanee insufficienti disponibilità finanziarie annuali (…)”; L’art. 8 che ha previsto invece “altre disposizioni urgenti” che si applicheranno non solo alle procedure che saranno avviate dalla data di entrata in vigore del decreto fino al 31 luglio 2021 (poi diventato 31 dicembre 2021), ma a tutte le procedure pendenti i cui bandi o avvisi sono già stati pubblicati alla data di entrata in vigore del decreto. L’art. 9, norma di chiusura, ha dettato alcune «Misure di accelerazione degli interventi infrastrutturali», tra le quali rientra quella di individuare “con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, da adottare entro il 31 dicembre 2020, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, sentito il Ministro dell’economia e delle finanze, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, sono individuati gli interventi infrastrutturali caratterizzati da un elevato grado di complessità progettuale, da una particolare difficoltà esecutiva o attuativa, da complessità delle procedure tecnico - amministrative ovvero che comportano un rilevante impatto sul tessuto socio-economico a livello nazionale, regionale o locale, per la cui realizzazione o completamento si rende necessario la nomina di uno o più Commissari straordinari che è disposta con i medesimi decreti.
235 C. CONTESSA, Le novità del “Decreto semplificazioni”, ovvero: nel settore dei contratti pubblici esiste ancora un “Codice”?, in Urb. app., 2020, 6, 757 ss. Di pari avviso anche X. XXXXXXXXX, Contratti pubblici ed economia, in Trattato sui contratti pubblici, a cura di M.A SANDULLI - R. DE NICTOLIS, vol. I, Xxxxxxx, 2019, 57, ove l’A. evidenzia che (anche) nel settore dei contratti pubblici
«l’idea classica di codice – quella ottocentesca legata alla creazione di una soggettività giuridica uniforme – è tramontata con la rinuncia ad una pretesa di stabilità della normazione».
236 In senso contrario all’applicazione di una normativa “per deroghe” si era espressa anche l’Anac sia nel Documento illustrativo e nel Vademecum pubblicati in data 9.4.2020, che nelle Osservazioni presentate nel mese di agosto 2020 alla Commissione Lavori pubblici del Senato. In tale ultimo intervento, l’Autorità, preso atto delle diverse soluzioni adottate nel c.d. decreto semplificazioni, ha analizzato le disposizioni in materia di contratti pubblici, evidenziandone le criticità. Sul punto sia consentito il rinvio a A. XXXXXXX, Il decreto semplificazioni e le osservazioni dell'ANAC, in xxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 10 agosto 2020.
237 In merito ai differenti regimi temporali previsti nel decreto semplificazioni si richiama ancora una volta C. CONTESSA, ult. op. cit. che individua i seguenti ambiti temporali di applicazione: i) disposizioni che trovano applicazione per le procedure il cui atto indittivo sia stato adottato in una data compresa fra quella di entrata in vigore del decreto e il 31 dicembre 2021 (come ad esempio quelle in materia di affidamenti sotto-soglia di cui all’art. 1 D.L. n. 76 del 2020); ii) disposizioni che trovano applicazione
Se, infatti, l’intento del legislatore era (nuovamente) quello di semplificare la disciplina normativa in materia di contratti pubblici, così da assicurare agli stessi il loro ruolo di “volano” dell’economia238, solamente da tali brevi ed iniziali considerazioni può rilevarsi, sin da subito, che l’obiettivo di semplificazione del quadro normativo non può dirsi raggiunto239.
Il quadro che emerge a seguito della conversione in legge del (primo) “Decreto semplificazioni”, infatti, risulta “aggravato” (anche solo in termini numerici) da nuovi tesi normativi, nuovi regimi giuridici (sia in senso contenutistico che cronologico) e nuovi istituti.
Vieppiù che, a distanza di neanche un anno da tale ultimo decreto e di neanche nove mesi dalla legge di conversione, il legislatore è intervenuto ancora una volta a modificare la disciplina con il decreto semplificazioni- governance (d.l. 31 maggio 2021, n. 77 convertito con modificazioni dalla l. 29
luglio 2021, n. 108).
Come rilevato già dalla richiamata dottrina, in tale contesto, occorre compiere un’ulteriore considerazione in merito al ruolo del “Codice” che, secondo la delega del 2016, come visto, aveva quale primario obiettivo (anche) quello di «ricognizione e riordino del quadro normativo vigente nelle materie
sia per le procedure di gara già indette alla data di entrata in vigore del decreto, sia per quelle indette successivamente - e fino al 31 dicembre 2020 - (come ad esempio quelle in tema di riduzione dei termini procedimentali di cui all’art. 8, comma 1 D.L. n. 76 del 2020); iii) disposizioni che trovano applicazione per le procedure in relazione alle quali il termine di presentazione delle offerte sia scaduto alla data del 22 febbraio 2020 (ci si riferisce, in particolare, all’obbligo di aggiudicare tali procedure entro il 31 dicembre 2020, secondo quanto previsto dall’art. 8, comma 2); iv) disposizioni che trovano applicazione per gli appalti di lavori che fossero già in xxxxx xxxx xxxx xx xxxxxxx xx xxxxxx xxx xxxxxxx (come, ad esempio, la previsione in tema di anticipata adozione dello stato di avanzamento dei lavori ai sensi dell’art. 8, comma 4); v) disposizioni che trovano applicazione per le procedure avviate in una data compresa fra quella di entrata in vigore del decreto e il 31 dicembre 2023 (come la deroga alle previsioni in tema di débat public di cui all’art. 8, comma 6-bis); vi) disposizioni che prorogano nel tempo la sospensione di taluni istituti codicistici che era stata già disposta dal “Decreto sblocca-cantieri” del 2019 (come, ad esempio, quella in tema di sospensione del divieto di appalto integrato di cui all’art. 8, comma 7); vii) disposizioni che modificano a regìme il testo del “Codice dei contratti pubblici” del 2016 (come quelle in tema di regolarità fiscale e contributiva dei concorrenti di cui all’art. 8, comma 5, lett. b).
238 Definiti anche come “volano del rilancio” nel Rapporto che, a giugno 2020, il Comitato di esperti in materia economica e sociale ha presentato al Presidente del Consiglio dei ministri, dal titolo “Iniziative per il rilancio Italia 2020 2022” contenente una serie di obiettivi e di iniziative per il rilancio “post crisi Covid-19”. Per approfondimenti sia consentito il rinvio a A. XXXXXXX, Il futuro del Codice dei contratti pubblici, in xxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 20 giugno 2020.
239 Si vedrà meglio la complessità delle modifiche intervenute nel capitolo III, ove verranno analizzati gli interventi che hanno inciso sulla disciplina delle procedure di gara (sia sopra che sotto la soglia comunitaria) e i conseguenti riflessi sulla garanzia della concorrenza.
degli appalti pubblici» (…) al fine di perseguire una «razionalizzazione del complesso delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative vigenti e un più elevato livello di certezza del diritto e di semplificazione dei procedimenti (...)»240.
Da qui la domanda se esiste ancora un Codice dei contratti pubblici, inteso come luogo di razionalizzazione e di riordino della normativa di settore dal momento che tali ultime riforme sembrerebbero aver privato (ancora una volta) il Codice della sua intrinseca centralità nell’ambito della disciplina normativa. Infatti, per effetto degli interventi di riforma degli ultimi due anni, l’operatore (ma anche l’interprete) del settore degli appalti pubblici e delle concessioni non può più guardare al testo del Codice con «la ragionevole aspettativa di trovare in esso le risposte di suo interesse, ma deve - al contrario
- andare a ricostruire l’effettivo quadro normativo attraverso un complesso iter di ricomposizione del patchwork normativo nel cui ambito il testo del “Codice” rappresenta uno soltanto degli elementi di riferimento (e non sempre il più importante)» 241.
La disciplina delineata negli ultimi interventi del legislatore nasce teoricamente tesa alla semplificazione, eppure tale obiettivo sembrerebbe doversi raggiungere tramite l’intervento di nuove norme (spesso di non chiara interpretazione) e nuovi organismi, esterni all’amministrazione, ma che probabilmente comporteranno anche costi ulteriori per la stessa.
Nuove norme e nuovi organismi che portano con sé nuove competenze e nuovi ruoli che dovranno andare ad inserirsi all’interno di una “macchina”, quella amministrativa, che dovrà imparare a funzionare con “il nuovo”, a
240 Criterio di delega di cui all’art. 1, comma1, lett. d), l. n. 11 del 2016.
241 Così ancora C. CONTESSA, op. cit. Eppure, le premesse non sembravano puntare in questa direzione. Si pensi alla proposta di riforma che era stata presentata, nel mese di giugno, al Presidente del Consiglio dal “Comitato di esperti in materia economica e sociale” (Per approfondimenti sia consentito rinviare a A. XXXXXXX, Il futuro del Codice dei contratti pubblici, op.cit.) xxx, in risposta all’emergenza da Covid-19, veniva prospettata quale proposta di riforma “emergenziale” di operare: a) nel breve periodo, tramite l’applicazione delle Direttive UE (con possibilità di minime integrazioni per le parti non direttamente applicabili) alle opere di interesse strategico; b) nel lungo periodo, tramite una riforma integrale del Codice dei contratti pubblici, in quanto ritenuto l’unico luogo ove possa avvenire un corretto bilanciamento tra i diversi interessi in gioco.
recepirlo e ad integrarlo. Cosa che, data la complessità della normativa, non sembra un’impresa di poco conto.
Tutto questo in un lasso di tempo ristretto (tra il 2021 e massimo il 2023)242. Vieppiù che ancora non è dato sapere quando (e se) entrerà in vigore il ricordato Regolamento unico che dovrà andarsi ad innestare all’interno di una
nuova normativa e a coordinarsi con le deroghe inserite dalla stessa.
In questo quadro vanno poi ad inserirsi i piani prospettati all’interno del PNRR (Piano nazionale di resistenza e resilienza)243 che lo Stato italiano ha elaborato (e presentato all’UE) al fine di ottenere l’assegnazione e la corresponsione delle misure straordinarie di sostegno stanziate dal Consiglio d’Europa per la ripresa degli Stati colpiti dalla pandemia (Next Generation EU o Recovery Fund).
In merito ai contratti pubblici viene indicata la necessità di una riforma da realizzare in due fasi: una prima – da raggiungere nel breve periodo – tramite l’emanazione di “misure urgenti” da adottare con decreto-legge da approvare entro maggio 2021 (d.l. semplificazioni-governance, adottato il 31 maggio 2021); in secondo luogo, viene prospettata l’introduzione di “misure a regime” da varare utilizzando lo strumento della legge delega.
In merito a queste ultime, viene precisata la necessità di presentare il disegno di legge delega entro il 31 dicembre 2021 prevedendo poi l’emanazione di decreti legislativi da adottare entro nove mesi dall’entrata in vigore della legge delega.
Sul punto vengono poi indicati «i più importanti principi e criteri direttivi della delega legislativa», tra cui, si segnalano i principali: i) Riduzione e razionalizzazione delle norme in materia di appalti pubblici e concessioni; ii) Recepimento delle direttive europee, integrate in particolare là dove non immediatamente esecutive; iii) Previsione della disciplina applicabile ai
242 A ciò si aggiunga la considerazione che possibilmente l’UE, nella prospettiva decennale che ha sin ora portato avanti (2004, 2014), tra tre anni (2024) emanerà un nuovo “pacchetto” di direttive sui contratti pubblici che richiederà una nuova modifica alla disciplina, un nuovo Codice e via dicendo.
243 Consultabile al seguente link: xxxxx://xxx.xxxxxxx.xx/xxxxx/xxxxxxx.xx/xxxxx/XXXX.xxx . Sul PNRR, cfr. gli atti dell’Incontro di studio organizzato dall’Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo (AIPDA) il 28 aprile 2021 consultabili sul relativo sito.
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, nel rispetto dei principi di concorrenzialità e trasparenza;
iv) Piena apertura e contendibilità dei mercati; v) Previsione di specifiche tecniche relative alle gare da espletare, soprattutto in relazione a beni e strumenti informatici e componenti tecnologici, che garantiscano parità di accesso agli operatori e non costituiscano ostacolo alla piena attuazione del principio di concorrenza; vi) Riduzione degli oneri documentali ed economici a carico dei soggetti partecipanti alle procedure di evidenza pubblica; vii) individuazione espressa dei casi nei quali è possibile ricorrere alla procedura negoziata senza precedente pubblicazione di un bando di gara; viii) regolazione espressa dei casi in cui le stazioni appaltanti possono ricorrere, ai fini dell’aggiudicazione, al solo criterio del prezzo o del costo, inteso come criterio del prezzo più basso o del massimo ribasso d’asta; ix) Revisione della disciplina dell’appalto integrato, con riduzione dei divieti; x) Revisione della disciplina del subappalto; xi) Rafforzamento delle strutture pubbliche per il controllo sulle opere stradali e ferroviarie, fermi restando gli obblighi di controllo tramite strutture indipendenti e quello di manutenzione a carico del concessionario, con le relative conseguenti sanzioni in caso di inadempimento.
Da quanto è dato comprendere, dunque, il “cammino” della “semplificazione” nel mercato dei contratti pubblici non può di certo dirsi ultimato.
Xxxx, da quanto prospettato, sembra che stavolta il legislatore non cambierà solo le “carte in tavola” ma modificherà completamente “il tavolo da gioco” dal momento che viene prospettato addirittura di “ripartire dal via” attraverso un nuovo recepimento delle direttive del 2014.
Vieppù che sul punto viene indicata la tecnica del copy out, salvo per le parti delle direttive non direttamente applicabili, richiamando come esempi virtuosi da tenere in considerazione le esperienze di Germania e Regno Unito. Senza qui entrare nel merito dell’assoluta diversità dei suddetti sistemi di contrattazione pubblica rispetto a quello italiano (circostanza di cui anche si dovrà tenere in debito conto per evitare errori ancor più gravi rispetto a quelli
già commessi) un nuovo tentativo di trovare un un’unitarietà del sistema non può che ritenersi apprezzabile data la frammentarietà e l’insostenibile complessità dell’attuale disciplina.
Sono tuttavia preoccupanti le tempistiche.
Viene infatti stabilita come data di presentazione del disegno di legge il 31 dicembre 2021 e ulteriori nove mesi per l’emanazione dei richiamati decreti legislativi.
Entro settembre 2022 dovremmo dunque avere una nuova disciplina unitaria dei contratti pubblici. Tale intervento (e il relativo necessario tempo di rodaggio da parte di Amministrazioni, stazioni appaltanti e operatori) potrebbe essere alquanto ravvicinato e subito superato dal nuovo pacchetto di direttive UE, tenuto conto della loro cadenza decennale (2004, 2014, 2024).
Sarebbe stato quindi forse più fruttuoso sfruttare questo periodo per correggere le altre gravi carenze del nostro sistema, in termini di competenze, capacità e efficienza, in vista del nuovo pacchetto normativo europeo.
La sfida, infatti, non si gioca solo sulle norme, ma anche su coloro che sono tenuti ad applicarle (le Amministrazioni) e a seguirle (gli operatori).
Sembra dunque che, ancora una volta, nel labirinto dei contratti pubblici, si possa parlare solo ed esclusivamente della “semplificazione che verrà”244 e non di certo di quella realizzata.
3. Il ruolo dei principi (nel diritto amministrativo e) nell’evidenza pubblica
Le considerazioni svolte nei paragrafi precedenti consentono di comprendere facilmente il rilievo che i principi assumono (recte: devono assumere) all’interno di un quadro normativo estremamente complesso, mutevole e spesso poco chiaro.
La certezza non assicurata (come, invece, dovrebbe) dalla stabilità e dalla chiarezza delle leggi (o comunque da regole chiare) viene spesso compensata
244 Espressione di R. DE NICTOLIS, Il Codice dei contratti pubblici: la semplificazione che verrà, in
xxxxxxxxxxx.xx. 2016, 5.
dall’utilizzo dei principi, sia per ricondurre a logicità e coerenza il sistema, sia quale parametro di legittimità dell’esercizio del potere pubblico245.
Tale riflessione vale sia per l’azione amministrativa generale, sia nel caso in cui ci si trovi davanti a discipline di settore, quale è quella dei contratti pubblici che, come visto, è sottoposta a continue modifiche che rendono il quadro normativo estremamente complesso, stratificato e spesso contraddittorio.
Con riguardo a tale peculiare ambito, come si vedrà anche nei capitoli successivi, non solo vale l’applicazione dei principi generali dell’azione amministrativa, bensì assumono il loro rilievo anche i principi peculiari della materia, ormai stabiliti, come visto, prima a livello europeo e, in seconda battuta, a livello interno (ove può anche avvenire l’introduzione di principi di matrice nazionale)246.
Nei paragrafi seguenti, dunque, si ripercorreranno i principi generali della materia, che sono qui di interesse, attraverso la disamina sia della normativa europea (con particolar riferimento alle direttive del 2014) che di quella interna di recepimento (Codice dei contratti pubblici).
Tali riflessioni saranno necessarie, anzitutto, per inquadrare il rilievo che detiene la concorrenza (e i suoi corollari) all’interno di tale mercato, ma anche per analizzare diversi principi che dovranno essere tenuti in considerazione per la successiva analisi.
3.1. Il valore dei principi generali nelle direttive europee: la tutela della concorrenza e i “nuovi principi”
245 Cfr. M.A. SANDULLI, Introduzione, in Principi e regole dell’azione amministrativa, III ed., Xxxxxxx, Milano, 2020, 8.
246 Come parte della dottrina ha rilevato, i principi previsti nelle direttive del 2014 e nel Codice del 2016 rappresentano “un’occasione esemplare” (come lo era già stato il codice del 2006) per riscontrare come le disposizioni sui “principi” di un importante settore come i contratti pubblici si riescano ad amalgamare con i “principi generali” validi per tutta l’azione amministrativa, ed anche per verificare se vi sia coerenza tra l’insieme dei principi e le diverse disposizioni che, almeno in via teorica, sono chiamate ad applicarli. In questo senso M. P. CHITI, Principi, in Trattato sui contratti pubblici, a cura di M.A SANDULLI - R. DE NICTOLIS, vol. I, Xxxxxxx, 2019, 285 ss.
La base giuridica delle direttive europee in materia di contratti pubblici si è sempre fondata, non sui principi dei Trattati in materia di concorrenza (art. 101 e ss. TFUE), bensì sui principi di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento e di libera circolazione dei servizi, espressamente richiamati anche nel corpus delle direttive247.
Come visto nell’excursus della normativa compiuto nei paragrafi precedenti, il diritto dell’Unione, nelle prime direttive in materia, infatti, aveva posto l’attenzione unicamente sui principi generali del diritto UE (recte: unicamente sui principi presenti nei Trattati), per poi elaborarne di più particolari solamente con le direttive del 2004 e del 2014248.
In altre parole, se il primo passo per la realizzazione di un mercato unico (anche) degli appalti pubblici è stato quello sancire l’apertura alla concorrenza delle imprese europee nella partecipazione alle commesse pubbliche (indipendentemente dallo Stato membro di originaria appartenenza), il passo successivo è stato quello di declinare il principio di libera concorrenza in più corollari, in grado da renderne effettivo il rispetto.
Esemplificativo in tal senso è il considerando n.1 della direttiva 2014/24 che, come visto, stabilisce che l’aggiudicazione degli appalti pubblici deve rispettare, anzitutto, i principi del TFUE (e in particolare la libera circolazione delle merci, la libertà di stabilimento e la libera prestazione di servizi), nonché i principi che da questi derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza249. Viene poi precisato, come noto, che per gli appalti pubblici sopra-soglia è necessaria, oltre all’applicazione dei suddetti principi, anche l’elaborazione di disposizioni tese a coordinare le procedure nazionali di aggiudicazione degli appalti, così da garantire che a tali principi sia dato effettiva applicazione e che
gli appalti siano aperti alla concorrenza.
247 Così X. XXXXXXX, Contratti pubblici e concorrenza, op. cit., 264 ss.
248 Cfr. M. P. CHITI, Principi, op. cit. 290.
249 Così anche il Considerando n. 2 della previgente direttiva 18/2004. Similmente anche il considerando
n. 4 della direttiva 23/2014 sulle concessioni e il considerando n. 2 della direttiva 25/2014 sui settori speciali.
L’apertura alla concorrenza, o più generalmente il sostantivo “concorrenza”, compaiono in diversi considerando e articoli delle direttive del 2014, sia singolarmente, sia attraverso l’enunciazione dei suddetti corollari, necessari a garantirne una tutela effettiva.
Così, per esempio, nella direttiva 2014/24, il considerando n. 50 (poi riprodotto dall’art. 32 della direttiva) consente il ricorso alle procedure negoziate senza previa pubblicazione di un bando di gara, solo in circostanze del tutto eccezionali e «tenuto conto degli effetti pregiudizievoli sulla concorrenza»250; ma anche il considerando n. 74 che precisa che «le specifiche tecniche fissate dai committenti pubblici devono permettere l’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza nonché il conseguimento degli obiettivi di sostenibilità»; o ancora il considerando n. 92, secondo cui i criteri di aggiudicazione degli appalti devono «garantire la possibilità di una concorrenza effettiva e leale».
Il considerando n. 90, inter alia, richiama i suddetti corollari del principio della tutela della concorrenza, specificando, che l’aggiudicazione degli appalti debba essere svolta nel rispetto dei «dei principi di trasparenza, di non discriminazione e di parità di trattamento per garantire un raffronto oggettivo del valore relativo delle offerte al fine di determinare, in condizioni di effettiva concorrenza, quale sia l’offerta economicamente più vantaggiosa».
In altre parole, la concorrenza tra gli operatori viene garantita anche al momento dell’aggiudicazione degli appalti, attraverso la garanzia di un’amministrazione che operi secondo canoni di trasparenza, che non vada a discriminare gli operatori sul mercato ma sia in grado di riservare agli stessi un eguale trattamento, arrivando così a stabilire “nei binari” della concorrenza, quale sia l’offerta migliore.
250 L’eccezionalità, sempre secondo lo stesso considerando, dovrebbe essere circoscritta ai casi nei quali la pubblicazione non sia possibile per cause di estrema urgenza dovute a eventi imprevedibili e non imputabili all’amministrazione aggiudicatrice, o se è chiaro fin dall’inizio che la pubblicazione non genererebbe maggiore competitività ovvero migliori risultati dell’appalto, non da ultimo perché un solo operatore economico è oggettivamente in grado di eseguire l’appalto.
Se si guarda poi più nel dettaglio agli articoli si deve ricordare, anzitutto, l’art. 18 rubricato “Principi per l’aggiudicazione degli appalti”251.
Tale disposizione prevede che le amministrazioni aggiudicatrici debbano trattare gli operatori economici «su un piano di parità e in modo non discriminatorio», agendo «in maniera trasparente e proporzionata» al fine di non limitare artificialmente la concorrenza252.
Quest’ultima, sempre secondo il dettato dell’art. 18, si considera limitata artificialmente laddove la procedura d’appalto sia effettuata «con l’intento di favorire o svantaggiare indebitamente taluni operatori economici».
Vengono quindi ribadite le caratteristiche generali che devono possedere le singole amministrazioni aggiudicatrici nel loro rapportarsi con gli operatori economici presenti sul mercato: devono essere in grado di garantire parità di trattamento e di agire in maniera trasparente e proporzionata, al fine ultimo di non falsare la concorrenza253.
In altre parole, quindi, il rispetto di tali principi fa sì che le amministrazioni aggiudicatrici possano assicurare “la preferenza” dell’operatore migliore, “scelto” grazie al corretto funzionamento delle regole tese a garantire la concorrenza.
Il citato art. 18 ribadisce poi la finalità di «un’adeguata integrazione», nelle procedure di appalto pubblico, dei requisiti in materia ambientale, sociale e di lavoro e a tal fine la necessità, per gli Stati membri e per i singoli enti aggiudicatori, di adottare «misure pertinenti per garantire il rispetto degli obblighi in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro», ribadendo così l’ulteriore finalità delle direttive del 2014.
251 Parimenti per la direttiva 2014/25 si v. l’art. 36, mentre per la direttiva 2014/23, l’art. 3.
252 Sul tema delle limitazioni artificiali alla concorrenza v. ex multis, X. XXXXXXX XXXXXXX, Public procurement and the EU competition rules, II. Ed., Oxford-Portland, 2015, 207 ss, secondo cui l’art. 18 lascia spazio ad una interpretazione che individua una specifica connotazione nel divieto di limitazione artificiale della concorrenza, aprendo margini per una valutazione secondo “rule of reason” dell’applicazione del divieto stesso.
253 Sul rapporto tra tali principi e sulla loro funzione si è espressa anche la CGUE, secondo cui
«l’obbligo di trasparenza concorre con il principio di non discriminazione e con il principio della parità di trattamento a salvaguardare il libero accesso al mercato rilevante dei contratti pubblici». Così CGUE, 16 aprile 2015, in C-278/14, punto 28.