UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA
SCUOLA DI SCIENZE SOCIALI DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza Tesi di laurea in Diritto Civile
SOPRAVVENIENZE CONTRATTUALI E RINEGOZIAZIONE
Relatore:
Xxxxx.xx Xxxx. Xxxx XXXXX
Candidato: Xxxxx XXXXXX Matricola n. 4666576
Anno accademico 2022/2023
INDICE
Capitolo I – LE SOPRAVVENIENZE CONTRATTUALI TIPICHE E ATIPICHE 1
1. Nozione di sopravvenienza contrattuale. 1
2. Impossibilità sopravvenuta e inesigibilità. 4
3. Impossibilità parziale della prestazione e interesse apprezzabile del creditore
4. Risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta nei contratti di durata. 17
5. La presupposizione e la sua riconducibilità all’art. 1467 c.c 32
6. Irrilevanza delle sopravvenienze auto-indotte. 40
Capitolo II – ADEGUAMENTO DEL CONTRATTO NEL DIRITTO EUROPEO E INTERNAZIONALE 45
1. Rinegoziazione del contratto nei Principles della Commissione Europea e nei Principi Unidroit 45
2. Révision pour imprévision nel Code Civil Francese. 56
3. Inghilterra e principio della sanctity of contract 64
4. Esperienza americana e c.d. doctrine of impraticability 76
1. Le asimmetrie contrattuali nei rapporti di durata e il ruolo del fattore tempo. 83
2. Il recesso e la sua inadeguatezza per talune ipotesi di contratti di durata. 91
3. Rinegoziazione del contratto: obbligo o facoltà? 99
4. Il procedimento rinegoziativo e le conseguenze della mancata rinegoziazione 108
5. Normativa emergenziale conseguente all’epidemia da Covid-19 e arresti giurisprudenziali relativi ai contratti di durata in ambito civilistico. 116
6. La giurisprudenza del Consiglio di Stato e la rilevanza degli interessi pubblicistici sottesi all’esecuzione del contratto con la P.A 124
BIBLIOGRAFIA 128
INTRODUZIONE
Il presente elaborato si prefigge di analizzare l’incidenza delle cc. dd. sopravvenienze nell’esecuzione del contratto nell’ambito del nostro ordinamento e, comparativamente, negli ordinamenti principali. È un tema che involge da una parte la certezza dei contenuti del contratto – che siccome liberamente fissati dalle parti sono tendenzialmente immodificabili – sicché il rimedio più frequentemente previsto dalle norme ordinamentali è quello della risoluzione, qualora una delle prestazioni diventi eccessivamente onerosa o impossibile da eseguirsi. A questo principio cui si sono ispirati gli ordinamenti esaminati, si è talora affiancato, soprattutto nel contesto internazionale, ma anche in alcuni ordinamenti statuali, un principio di conservazione del contratto, anche nel caso di eventi perturbativi molto rilevanti, sopravvenuti e non prevedibili, a tal fine contemplando l’obbligo per le parti di procedere alla rinegoziazione e l’intervento del giudice qualora questa non abbia esito positivo, con definizione di nuove clausole adeguate all’evento perturbativo. In questi casi, tuttavia, sul presupposto che, in attesa dell’intervento del giudice, ciascuna delle parti sia tenuta a dare esecuzione al contratto nella sua originaria configurazione.
Il profilo è venuto in particolare in evidenza nell’ambito dell’ordinamento italiano per i contratti di durata (ad esempio la locazione di immobili) gravemente perturbati dall’evento pandemico di recente verificatosi. Per questa ipotesi i rimedi codicistici della risoluzione sono apparsi non sufficientemente adeguati a tutelare la posizione del contraente più debole – nel caso il locatario – sicché si sono affacciati in giurisprudenza principi ispirati alla buona fede nell’esecuzione del contratto, che suggerivano o talvolta imponevano di rinegoziarne i contenuti, prevedendo la possibilità di intervento del giudice ad eventuale correzione di atteggiamenti non ispirati a buona fede da parte del contraente più forte.
Nel solco di questi orientamenti giurisprudenziali l’ordinamento ha introdotto poi specifiche normative che saranno oggetto di analisi nell’ambito dell’elaborato.
Capitolo I
LE SOPRAVVENIENZE CONTRATTUALI TIPICHE E ATIPICHE
SOMMARIO: 1. Nozione di sopravvenienza contrattuale – 2. Impossibilità sopravvenuta e inesigibilità – 3. Impossibilità parziale della prestazione e interesse apprezzabile del creditore all’adempimento parziale – 4. Risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta nei contratti di durata – 5. La presupposizione e la sua riconducibilità all’art. 1467 c.c. – 6. Irrilevanza delle sopravvenienze autoindotte.
1. Nozione di sopravvenienza contrattuale.
Nel periodo di esecuzione del contratto è possibile che si verifichino accadimenti tali da modificare l’assetto negoziale e l’equilibrio economico stabiliti dalle parti in sede di conclusione: questi eventi sono definiti sopravvenienze contrattuali. Le sopravvenienze possono essere classificate in sopravvenienze di fatto o di diritto. Le prime dipendono da fattori umani o naturalistici (si pensi ad esempio alla pandemia da Covid-19), mentre le seconde discendono da leggi, atti aventi forza di legge o provvedimenti adottati in corso di esecuzione del contratto che modificano la normativa applicabile.
Il significato di sopravvenienza contrattuale da sempre è stato ricondotto all’imprevedibilità e all’eccezionalità del suo evento generatore ma, data la sua natura polivalente, la definizione appare di difficile individuazione.
Una delle definizioni di sopravvenienze che è stata fornita e che forse è tra le più complesse e articolate è la seguente: «eventi riconducibili o meno alla sfera di controllo delle parti, connotati o meno da prevedibilità/prevenibilità ex ante, che incidono su una o più prestazioni dedotte in contratto pregiudicando in tutto o in parte, temporaneamente o in via definitiva, l’attuazione del programma pattizio»1. Sulla base di questa definizione, il presupposto teorico, e dunque il momento in cui
1 LOMBARDI, La risoluzione per impossibilità sopravvenuta, Milano, 2007, 5.
Sulle sopravvenienze contrattuali e sulla loro definizione si veda altresì AL MUREDEN, Le sopravvenienze contrattuali tra lacune normative e ricostruzione degli interpreti, Milano, 2004, 7 ss.; GALLO, Sopravvenienza contrattuale e problemi di gestione del contratto, Milano, 1992, 3 ss.; TUCCARI, Sopravvenienze e rimedi nei contratti di durata, Milano, 2018, 2 ss.
si verificano le sopravvenienze, è il lasso temporale che intercorre tra il perfezionamento del contratto e la sua esecuzione.
Prima di procedere all’analisi delle sopravvenienze contrattuali in senso stretto, è opportuno ripercorrere brevemente le principali tappe che hanno caratterizzato il dibattito dottrinale in materia di circostanze perturbative nel loro complesso. Nel nostro ordinamento esistono una molteplicità di vicende perturbative, le quali sono distinguibili in base a due parametri:
0.xx periodo temporale in cui si verificano: dunque vi sono circostanze che preesistono alla conclusione del contratto e altre che si verificano nel corso della sua esecuzione
2.l’aspetto su cui incidono: scopo contrattuale o equilibrio delle prestazioni dei contraenti.
L’analisi delle circostanze contrattuali ha posto la questione2 dell’opportunità o meno di disciplinare in maniera uniforme ogni tipo di evento perturbativo, indipendentemente dal momento in cui esso si è verificato e dall’elemento del negozio che coinvolge.
Parte della dottrina3 ritiene che le citate distinzioni in materia di vicende perturbative abbiano un mero valore teorico e propone una soluzione neutra e unitaria, sostenendo che il risultato cui portano i diversi eventi, siano essi tecnicamente qualificati come vizi dell’atto (quale l’insussistenza originaria della base negoziale) oppure sopravvenienze contrattuali (venir meno della base negoziale in un momento successivo alla conclusione del contratto) sia lo stesso , ovvero «l’impossibilità di realizzare un interesse dedotto nell’atto di autonomia privata ovvero della non rispondenza dell’assetto negoziale dato al momento della stipulazione con la situazione obiettiva in cui questo verrà a trovare attuazione»4..
Altra parte della dottrina5 ritiene questa teoria non condivisibile per due ordini di motivi. Il primo è che la categoria dei vizi contrattuali (che il legislatore distingue in vizi dell’atto e vizi del rapporto) ricomprende eventi che si manifestano al momento della conclusione del contratto, mentre le sopravvenienze sono tali solo se si manifestano nel corso della sua esecuzione.
2 Si veda sul punto la riflessione di XXXXXXXXX, La sopravvenienza contrattuale, Milano, 2002,166.
3 Cfr. XXXXXXXXXXXX, Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, Padova, 1992,286.
4 SCOGNAMIGLIO, op. cit., 286.
5 x. XXXXXXXXX, op. cit., 166-167.
Sono rari i casi in cui le circostanze possono rilevare quali vizi (si pensi ad esempio all’errore posto in essere da un soggetto nell’acquisto di un terreno che credeva essere edificabile e che in caso di mancata edificabilità non avrebbe mai comprato: in questa ipotesi si ha una falsa rappresentazione di una circostanza originariamente rilevante ai fini della conclusione del contratto).Al contrario tentare di ricondurre la sopravvenienza ad un vizio del consenso appare più complesso poiché si dovrebbe ipotizzare un errore su una rappresentazione di un fatto futuro e ciò è ontologicamente impossibile potendo l’errore avere ad oggetto solo un fatto già conosciuto.
Poste queste premesse di carattere dottrinale, occorre a questo punto stabilire quali circostanze rientrano nella nozione di sopravvenienza contrattuale.
Le sopravvenienze trovano apposita collocazione nel Codice civile ma, non tutte le tipologie di sopravvenienze sono contemplate nel dato normativo e, in alcuni casi, potrebbe non essere chiaro il rimedio corrispondente. Tuttavia, è possibile tracciare una prima distinzione tra sopravvenienze contrattuali tipiche e atipiche. Le sopravvenienze tipiche6 (anche dette nominate), sono quelle espressamente previste da disposizioni di legge o convenute delle parti e che, laddove si verifichino, dispongono di uno specifico rimedio. Esse sono disciplinate dal Codice civile e sono: l’impossibilità sopravvenuta e l’eccessiva onerosità sopravvenuta, per le quali è previsto il rimedio risolutorio, pur avendo campi applicativi differenti: la prima si applica ai contratti sinallagmatici e plurilaterali con comunione di scopo, mentre la seconda ai contratti sinallagmatici non aleatori ad esecuzione continuata, periodica o differita.
Le sopravvenienze atipiche o innominate sono quelle non previste dal dato normativo, né convenute dalle parti e per le quali si pone, dunque, il problema dell’individuazione del rimedio applicabile7 e, in particolare, se sia più adeguato il ricorso ad un rimedio di tipo ablativo o manutentivo (c.d. rinegoziazione del contratto).
6 Sul tema delle sopravvenienze e dei rimedi applicabili si vedano AL MUREDEN, op. cit.,7; XXXXXX, Sopravvenienze tipiche ed atipiche, 17 ottobre 2019 in xxx.xxxxxxx.xxxxxxxxxxxxxx.xx; XXXXXXXX, Revisione delle dottrine sulla sopravvenienza contrattuale, Riv. dir. civ., 1938, 374; 7Cfr. XXXXX, Recesso e rinegoziazione, riflessione sui potenziali rimedi nel caso di sopravvenienze nei contratti di durata, Pisa, 2019, 46. Si veda altresì XXXXXXX, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, 32-33.
2. Impossibilità sopravvenuta e inesigibilità.
Seguendo l’ordine del codice, la prima sopravvenienza disciplinata è l’impossibilità8 sopravvenuta. Collocata nel codice all’art. 1256 c.c., è una causa di estinzione delle obbligazioni diversa dall’adempimento, che produce il venir meno della responsabilità in capo al debitore, di cui all’art 1218 cc.
Secondariamente, è un mezzo per quantificare il grado di responsabilità del debitore per inadempimento, ove risulti a lui imputabile ex art. 1218 x.x. Xxxxxx l’interprete, nel ripartire il rischio, dovrà basarsi sul sistema delineato dal legislatore nell’art. 1218 c.c., che appare in linea con il principio espresso dall’art. 2697 c.c., ai sensi del quale chi vuole far valere in giudizio un diritto deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
Infine, il legislatore, stante la necessità di disciplinare il fenomeno dell’impossibilità non imputabile nei contratti sinallagmatici in senso stretto e nei contratti plurilaterali con comunione di scopo, ha introdotto l’art. 1463 c.c., predisponendo il rimedio contrattuale della risoluzione per impossibilità sopravvenuta. L’art 1463 c.c., rubricato “impossibilità totale”, recita: «nei contratti a prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito». Da questa norma si ricava che, se in un contratto a prestazioni corrispettive, viene meno per impossibilità una delle due prestazioni ex art. 1256 c.c., la parte impossibilitata non potrà ragionevolmente richiedere che venga comunque eseguita la controprestazione, ancora concretamente eseguibile, poiché, in assenza della prima, rimarrebbe priva di causa. Tuttavia, e come si vedrà nel prosieguo, non è escluso che le parti scelgano di non usufruire del rimedio risolutorio9, tentando una rinegoziazione totale o parziale del contratto, in modo che questo torni nuovamente eseguibile.
8 Si veda sul tema dell’impossibilità sopravvenuta CAGNASSO, Impossibilità sopravvenuta della prestazione. Diritto civile, Enc. giur., Roma, 1989; XXXXX, Impossibilità sopravvenuta, eccessiva onerosità della prestazione e frustration of contract, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1973, 1239; XXXXXXX, Dell’impossibilità sopravvenuta – artt. 1363-1366, Milano, 2003; COTTINO, Questioni in materia di impossibilità della prestazione, in Riv. dir. comm. e obbligazioni, 1951, II, 77; TONNI, Estinzione dell’obbligazione per sopravvenuta impossibilità della prestazione, in Giur. completa Cass. civ., 1951, 2, 40;
9 Cfr. JANNOLO, La risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta, in Nuova giur. comm., 1987, II, 82.
Perché l’impossibilità sia qualificata come sopravvenienza contrattuale, deve disporre di quattro requisiti: non originarietà10, non imputabilità, oggettività e assolutezza.
Con riferimento al primo, affinché l’impossibilità possa ritenersi una sopravvenienza, è necessario che intercorra un lasso di tempo tra il perfezionamento del contratto e la sua esecuzione, in cui si inserisca un fatto perturbativo delle prestazioni. D’altronde se l’impossibilità si verificasse in un momento antecedente alla conclusione del contratto, lo renderebbe nullo, inficiando la sua validità. Relativamente alla non imputabilità al debitore, è essenziale il riferimento all’art. 1218 c.c. che dispone che «il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile».
Qualora nel corso dell’esecuzione si manifesti un fatto che determini la non eseguibilità in tutto o in parte del negozio contrattuale, la prima operazione11 che deve essere compiuta dall’interprete è quella di stabilire, l’imputabilità o meno di una delle parti, della sopravvenuta impossibilità. Laddove essa sia esclusa e si accerti che l’impossibilità deriva invece da fattori esterni, che non rientrano nella loro sfera di controllo, attuale o potenziale, allora si procederà alla ripartizione del rischio; rischio che consiste nella possibilità che gli interessi, oggetto dell’iniziale aspettativa dei contraenti, non trovino piena attuazione.
Con riferimento agli ultimi due requisiti (oggettività e assolutezza), nei primi decenni del Novecento, si è aperto in dottrina un dibattito circa il grado di intensità che devono presentare affinché si rientri nell’ambito dell’impossibilità sopravvenuta, sul presupposto che non sia sufficiente che la prestazione sia divenuta più difficile da eseguirsi, ma occorra una vera e propria impossibilità (totale o parziale).
La c.d. dottrina oggettivistica12, sostiene che gli eventi che impediscono l’esecuzione della prestazione dovrebbero essere dotati di oggettività, assolutezza e dimensione e portata tali da produrre l’estinzione della prestazione, ritenendo
10 Cfr. XXXXXX, La gestione delle sopravvenienze contrattuali, rinegoziazione e intervento giudiziale, analisi comparata e prospettive di riforma, Napoli, 2019, 56.
11 Cfr. LOMBARDI, op. cit., 7.
12 Si veda sul punto OSTI, voce Clausola rebus sic stantibus, in Noviss. Dig. It., III, Torino, 1958, 353 ss.
dunque che i requisiti di oggettività e assolutezza debbano essere intesi in maniera rigorosa, nel senso che nessun debitore dovrebbe essere in grado di facere, dare vel prestare13. Questa soluzione troverebbe conferma nell’art. 1256 c.c. che, distinguendo nei due diversi commi tra impossibilità definitiva e temporanea, prevede per la prima ipotesi l’estinzione dell’obbligazione tutte le volte in cui, per causa non imputabile al debitore, la prestazione diventi impossibile da eseguirsi. Questo risalente orientamento trova tra i suoi maggiori sostenitori Xxxxxxxx Osti14, il quale, fornisce una nomenclatura particolarmente precisa e, utilizzando quale criterio discretivo l’estensione dell’impedimento, distingue tra impossibilità obiettiva e subiettiva. La prima deriverebbe da un impedimento non superabile da chicchessia; mentre la seconda dipenderebbe da un impedimento non superabile dal singolo debitore, ma tuttavia ancora suscettibile di esecuzione da parte di altri individui. Sarebbe fondamentale, secondo Xxxx, comprendere la direzione dell’impedimento nel suo rapporto con gli elementi della prestazione, ossia stabilire se l’impedimento si ricolleghi in maniera immediata o mediata al contenuto della prestazione; ne conseguirebbe, dunque, la qualificazione come obiettiva laddove l’impedimento non consenta di eseguire la prestazione nel suo contenuto intrinseco, mentre ricorrerebbe un’impossibilità subiettiva ove derivi da un impedimento causato dalle condizioni personali o economiche del debitore. Si badi che quando Xxxx fa riferimento ai mezzi necessari per poter eseguire la prestazione, non allude a un quid riferibile alle caratteristiche soggettive di ciascun debitore. In altri termini non parla in senso soggettivo di colpa del debitore (dunque del grado di attenzione, cura, diligenza, prudenza o perizia che egli dovrebbe avere nell’esecuzione), bensì dell’onere economico15 che il debitore deve, ed è giusto che debba nel pensiero di Xxxx, sostenere, non potendo invocare la mera facultas praestandi. In questo senso la responsabilità contrattuale, così come configurata, è definibile come oggettiva. Sempre in quest’ottica, l’assolutezza corrisponderebbe all’insuperabilità dell’impedimento con uno sforzo umano diverso da un atto illecito o tale da porre in pericolo l’incolumità, l’integrità fisica o altro attributo della personalità del debitore.
13 LOMBARDI, op.cit, 27.
14 OSTI, Revisione critica della teoria sull’impossibilità della prestazione, in Rivista di Diritto civile, Milano, 1918, 8-9.
15 X’XXXXX, La responsabilità contrattuale e attualità del pensiero di Xxxxxxxx Xxxx, in Rivista di Diritto Civile, Milano, 1965, 2.
In continuità con questa tesi, Xxxxxxx, individua quale fattore dirimente tra impossibilità assoluta e relativa, l’entità dello sforzo16 richiesto al debitore dalla legge per superare l’ostacolo che non gli consente di adempiere. Questo sforzo sarà quello che massimamente può essere preteso dal debitore nella responsabilità assoluta, dal diligente padre di famiglia nell’impossibilità relativa. Invece, sul versante dell’obiettività o soggettività dell’impossibilità, ancora una volta ciò che rileverebbe è l’estensione dell’ostacolo: soggettiva ove riguardante la sfera personale ed economica del debitore, obiettiva se riguardante la sola prestazione in sé e per sé considerata; prestazione che non potrebbe dunque essere eseguita nemmeno da un altro individuo. Questa prima teoria, ha trovato riscontro anche nella giurisprudenza della corte di Cassazione, che ha affermato che
«L'impossibilità che, ai sensi dell'art. 1256 c.c., estingue la obbligazione è da intendere in senso assoluto ed obiettivo e consiste nella sopravvenienza di una causa, non imputabile al debitore, che impedisce definitivamente l'adempimento»17. Un’applicazione giurisprudenziale della dottrina oggettivistica, seppur in ambito lavoristico, da cui emerge chiaramente la distinzione tra impedimenti oggettivi ed assoluti (ad esempio la cessazione dell’attività aziendale) e mere difficoltà soggettive ad eseguire la prestazione, è quella in cui si afferma che il datore di lavoro è esonerato dall’obbligo di assunzione «solo nel caso in cui l'impossibilità di procedere all'adempimento derivi dal sopravvenire di un evento - come la cessazione dell'attività aziendale o la perdita della disponibilità della struttura aziendale - che, oggettivamente e in modo assoluto, impedisca l'esecuzione della prestazione, dovendosi escludere la rilevanza di mere difficoltà finanziarie o produttive, ancorché conseguenti ad una situazione di crisi aziendale regolarmente accertata»18.
Al rigore di questa prima interpretazione di impossibilità, oggettiva ed assoluta, basata sul dato letterale della norma, sono stati proposti correttivi che prendono in considerazione sia la natura della prestazione da eseguirsi, sia le modalità esecutive che sono state concordate. È lo stesso Xxxx ad effettuare una rilettura della teoria tradizionale, proponendo un temperamento secondo cui
16 COTTINO, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del debitore,
Milano, 1955, 22-23.
17 Cass. Civ. Sez. III, 16 marzo 1987, n. 2691, in DeJure.
18 Cass. Civ. Sez. lav., 26 giugno 2009, n. 15073, in DeJure.
sarebbe assoluta non già l’impossibilità che discenda da un ostacolo insuperabile da qualsiasi forza umana, bensì quella «non superabile con le modalità di esecuzione che, secondo il comune apprezzamento, debbono intendersi connaturali alla prestazione medesima nel singolo tipo di rapporto di cui essa forma oggetto».19Non si tratterebbe però di misurare l’esigibilità sulla base alle caratteristiche soggettive del debitore ( dalle quali invece si prescinde), bensì di qualificare come inesigibile la prestazione che non possa essere adempiuta se non con l’impiego di mezzi anormali, tenuto conto - ad esempio in caso di prestazione resa da un soggetto professionale - dell’organizzazione dell’azienda e della qualità della prestazione normalmente necessarie per farvi fronte. Altra parte della dottrina20con riguardo al requisito dell’assolutezza, afferma che l’impossibilità sia caratterizzata da oggettività, ma non da assolutezza nel senso naturalistico del termine. Il grado di impedimento deve essere inteso non in senso assoluto, cioè come impedimento invincibile da qualsiasi forza umana, bensì in termini di convenienza economica dell’individuo nell’adempiere alla prestazione, nel rapporto tra mezzi e risultati, sicché «la prestazione è possibile quando l’impedimento alla sua esecuzione non può essere vinto con l’impegno esigibile dal debitore in quella data specie di obbligazione»21.
Secondo altri Autori22, ulteriore elemento correttivo alle teorie oggettivistiche è il criterio della buona fede, di cui all’art 1175 c.c. che, se letto in combinato disposto con l’art 1218 cc, svolgerebbe un ruolo di misura del contenuto dell’obbligazione ma anche di misura della responsabilità del debitore.
Secondo questa tesi si avrebbe impossibilità «non solo quando lo scopo è divenuto in sé impossibile, ma anche quando il risultato non potrebbe essere realizzato se non con mezzi anormali rispetto al tipo di rapporto obbligatorio considerato, tali che il debitore non può dirsi in buona fede impegnato al loro impiego»23.Secondo l’Autore infatti, l’impossibilità deve qualificarsi come “relativa” nel senso che va messa in relazione con i mezzi necessari per farvi fronte, secondo una valutazione in buona fede: laddove i mezzi per adempiere risultino
19 OSTI, Impossibilità sopravveniente, in Novissimo Digesto Italiano, vol. VIII, Torino, 1957.
20 Cfr. XXXXXXX, Diritto civile e commerciale, II, Padova, 2017, 57.
21 XXXXXXX, op. cit., 57.
22 Tra questi MENGONI, Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi (studio critico), in RDCO, I, 1954, 282-283.
23 MENGONI, op. cit., 282-283.
secondo un giudizio di buona fede, del tutto esorbitanti rispetto al fine perseguito, allora si avrà un’ipotesi di impossibilità oggettiva, ma pur sempre parametrata al caso concreto24. Il criterio della buona fede, tuttavia, ha incontrato difficoltà di applicazione in quanto clausola generale25, sfornita di una chiara e precisa definizione.
Una rilevante parte dell’attuale dottrina26, quella soggettiva, ritiene invece più agevole e opportuno definire caso per caso l’impossibilità e di conseguenza la responsabilità in capo al debitore, in base al criterio di cui all’art. 1176 c.c., secondo il quale: «nell'adempiere l'obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia», diligenza che, nel caso di obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale «deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata». In altre parole, il criterio che consente di distinguere tra obbligazione possibile e impossibile da eseguirsi, è il grado di diligenza esigibile nel caso concreto dal debitore. Questa corrente dottrinaria27, ritiene che l’impossibilità oggettiva e assoluta, così come intesa da Osti nella dottrina oggettivistica, di per sé non sarebbe sufficiente per giustificare ogni tipo di inadempimento, ma sarebbe adatta solo per quei rapporti contrattuali ove compito del debitore sia di agire per evitare il perimento o la sottrazione di un bene. Viceversa, applicando la stessa rigida accezione di impossibilità anche a contratti aventi ad oggetto interessi creditori di tipo diverso, si finirebbe per valutare diversamente la condotta del debitore a seconda che si verifichi o meno un evento sopravvenuto che determini l’impossibilità a adempiere. Cosicché nelle obbligazioni in cui il debitore dovesse impedire un evento che determini l’impossibilità, si applicherebbe il criterio della colpa, mentre nelle altre obbligazioni il criterio della responsabilità oggettiva. A conferma di questa riflessione, dal punto di vista sistematico, il legislatore ha previsto che in caso di inadempimento, non dipendente da impossibilità, ma da inesatta esecuzione della prestazione, si applichi il criterio di imputazione della colpa. Dunque, il fondamento della responsabilità debitoria sarebbe l’elemento
24 MENGONI, La responsabilità contrattuale (diritto vigente), in Enc. dir., Milano, 1988.
25 BIANCA, Dell’inadempimento delle obbligazioni, artt. 1218-1229, in Commentario del codice civile, Roma, 1979, 93.
26 Si veda sul punto XXXXXXX, op. cit., 57 e XXXXXXXXXX, L’inadempimento, Milano, 1975, 228 ss. In voce Inadempimento in Enc. Dir., XX, Milano,1973, 873 ss.
27 Cfr. XXXXXX, op. cit., 94.
soggettivo della colpa. Debitore che dovrebbe comportarsi con la diligenza28 del buon padre di famiglia, non solo nel momento dell’esecuzione della prestazione, ma anche nel prevenire ed eventualmente attenuare gli effetti di un evento sopravvenuto che ne impediscano l’esecuzione. A fronte di qualsiasi impedimento, la ricostruzione in chiave soggettiva consente di sollevare da ogni tipo di responsabilità il debitore inadempiente che, pur essendo ancora nelle condizioni di eseguire la prestazione, non vi adempia poiché per farlo dovrebbe utilizzare una diligenza superiore a quella normalmente richiesta, cioè superiore alla diligenza del buon padre di famiglia.
È infine opportuno richiamare il pensiero di Trimarchi29, secondo cui l’art. 1218 x.x. xxxxxxxx interpretato di volta in volta alla luce dell’una o dell’altra teoria dottrinale, svolgendo «un’interpretazione variabile del termine impossibilità». Non sarebbe possibile, secondo l’Autore, stabilire in via definitiva e preventiva un criterio univoco, sia esso oggettivo o soggettivo, valido per ogni genere di impossibilità sopravvenuta: occorrerebbe un certo grado di elasticità e flessibilità, necessari all’interprete per ricercare la soluzione più adatta al contesto fattuale considerato.
3. Impossibilità parziale della prestazione e interesse apprezzabile del creditore all’adempimento parziale.
Prima di procedere all’analisi dell’impossibilità parziale, è preliminarmente necessario affrontare, al fine evitare fraintendimenti di ordine terminologico, la distinzione tra impossibilità definitiva30 e temporanea, per poi distinguere ulteriormente tra quest’ultima e l’impossibilità parziale, di cui ci occupiamo. Tra i vari criteri esperibili per distinguere tra impossibilità definitiva e temporanea, parte della dottrina31 ha qualificato come definitiva quell’impossibilità irreversibile o della quale non si prospetti il venir meno, mentre come temporanea quella che dipende da causa che si preveda essere transitoria.
28 Cfr. XXXXX, Impossibilità sopravvenuta della prestazione, voce in Enciclopedia del diritto, Milano, 1970, 421.
29 TRIMARCHI, Istituzioni di diritto privato, XVII ed., Milano, 2007, 293 ss.
30 Sulla distinzione tra impossibilità definitiva e temporanea si veda TRAPUZZANO, Art. 1256 codice civile-Impossibilità definitiva e impossibilità temporanea, Codice civile commentato in DeJure.
31 Cfr. XXXXXX, Diritto civile, IV, Milano, 1995, 537.
Secondo altra dottrina32 invece, criterio di carattere cronologico non risulterebbe adatto a perseguire questo fine, in quanto può accadere che si qualifichi come temporaneo un impedimento che si protragga a lungo nel tempo, così come che si qualifichi come definitivo un impedimento di breve durata, sicché sarebbe più confacente l’utilizzo del criterio teleologico-funzionale, che consentirebbe all’interprete di stabilire la reversibilità o meno dell’evento impediente mediante l’analisi del titolo dell’obbligazione, della natura del bene oggetto di prestazione, degli interessi perseguiti dalle parti per mezzo del contratto. Dunque, la valutazione non si baserebbe su elementi temporali, bensì sull’interpretazione del regolamento contrattuale nel suo complesso e degli interessi del debitore e del creditore a ricevere le reciproche controprestazioni.
La differenza tra impossibilità temporanea e definitiva rileva ai fini della disciplina applicabile dato che, ai sensi del secondo comma dell’art 1256 c.c., la parte inadempiente – ove temporaneamente impossibilitata – non è responsabile per il ritardo e non può pretendere la prestazione di controparte; sicché l’efficacia del contratto rimane dunque temporaneamente sospesa33. Tuttavia, l’impossibilità da temporanea può trasformarsi in definitiva34 se l’impedimento, avuto riguardo al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, perdura fino a quando il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione35 oppure il creditore non ha più apprezzabile interesse a riceverla36 (art. 1256 c. 2 c.c.). Chiarito come dovrebbe procedere l’interprete per verificare se l’impedimento è transitorio o definitivo, occorre verificare le differenze tra impossibilità temporanea e parziale; le quali, pur collocandosi su piani differenti (la prima su quello cronologico, la seconda su quello quantitativo), mostrano talune affinità nelle riflessioni giurisprudenziali. Infatti, e con riferimento ai contratti di durata, talvolta la giurisprudenza tende a qualificare come parziale un’impossibilità che incide sul fattore tempo, come nel caso di un contratto con cui una parte si procura un servizio
32 Cfr. PERLINGIERI, Dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, in
Comm. Scialoja-Branca, sub artt. 1230-1259, Bologna-Roma, 1975, 496-497.
33 Da questo punto di vista si ricorda quanto affermato da Xxxx. Civ. 28 gennaio 1995, n. 1037, secondo cui qualora si verifichi un’impossibilità temporanea non imputabile al debitore, si determina la sospensione del contratto e il debitore è esente da responsabilità per il ritardo nell’esecuzione.
34 Si può parlare a tal proposito di impossibilità temporanea perdurante.
35 Sul punto si veda la riflessione di CABELLA-PISU, Impossibilità sopravvenuta, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca a cura di XXXXXXX, art. 1463-1466, Bologna, 2002,139-140. 36 Sul tema DI MAJO, in Comm. Scialoja- Branca, 1988, 273 evidenzia come l’interesse del debitore a ricevere la prestazione debba essere valutato sulla base dell’oggetto e del titolo dell’obbligazione, non rilevando invece interessi di carattere soggettivo che non trovano fondamento nell’obbligazione.
di giardinaggio per tutta l’estate, ma il prestatore di lavoro è impossibilitato per la metà dei mesi concordati. In altre occasioni, invece, la giurisprudenza37 tende a creare un ibrido tra le due figure, denominato «impossibilità parziale ratione temporis»38, per definire quegli impedimenti in grado di operare tanto sul piano cronologico che su quello quantitativo. In tema di carcerazione del lavoratore per fatti estranei allo svolgimento del rapporto di lavoro, ad esempio, la Suprema Corte ha affermato che essa «si traduce in un fatto oggettivo che determina l'impossibilità sopravvenuta parziale (ratione temporis) della prestazione lavorativa, a norma dell'art. 1464 c.c., rispetto alla quale l'apprezzabile interesse del datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente deve essere valutato in base a criteri oggettivi, riconducibili alla previsione di cui alla seconda parte dell'art. 3 della legge n. 604 del 1966, cioè con riferimento alle esigenze dell'impresa che configurino un giustificato motivo obiettivo di licenziamento (ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa)». Valutazione che deve essere condotta in una prospettiva «ex ante e non ex post, cioè con riguardo non solo al periodo intercorso dall'inizio della carcerazione alla data del licenziamento ma anche all'ulteriore durata della forzata assenza, secondo una previsione ragionevole nel caso di carcerazione preventiva ed in relazione invece alla pena detentiva inflitta nel caso di carcerazione in esecuzione di sentenza di condanna, tenendo altresì conto delle mansioni del lavoratore in relazione all'organizzazione del lavoro ed alla struttura aziendale, ai fini dell'accertamento della tollerabilità, da parte del datore di lavoro, della mancata esecuzione della prestazione lavorativa»39. Sul piano degli arresti di merito, ed in tema di contratti di locazione di locali commerciali ad uso non abitativo, oggetto di chiusura nel periodo pandemico, è stato affermato che la conduttrice avrebbe «sofferto un’impossibilità di godimento dell’immobile non assoluta, ma di una mera – per quanto significativa – impossibilità soltanto parziale, dal momento che l'unità immobiliare è rimasta pur sempre nella disponibilità della conduttrice ed è stata utilizzata quantomeno con funzione di ricovero delle attrezzature e delle materie prime relative all'attività di ristorazione»
37 Cass. Civ. Sez Lav. 25 agosto 1993 n.8947 in DeJure; Cass. Civ. sez. lav.11 gennaio 1995 n.266 in DeJure.
38 Si veda sul punto LOMBARDI, op. cit., 147.
39 Cass. Civ. sez. lav., 23 giugno 1992, n.7668 in DeJure
; sicché la sentenza in esame ha concluso ritenendo «pertinente non tanto il richiamo all’art. 1463 c.c., ma piuttosto alla figura dell’impossibilità parziale temporanea, che giustifica nei contratti a prestazioni corrispettive o la riduzione della controprestazione o il recesso»40
Illustrate le sovrapposizioni tra la figura dell’impossibilità temporanea e di quella parziale, occorre soffermarsi con maggiore attenzione su quest’ultima41. L’art 1258 c.c. stabilisce al primo comma che «se la prestazione è divenuta impossibile solo in parte, il debitore si libera dell’obbligazione eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta possibile». Dunque, non si produce un effetto liberatorio della parte inadempiente, così come avviene nel caso di impossibilità totale, ove l’interesse creditorio risulti ormai irrealizzabile, ma il debitore è tenuto ad eseguire la prestazione residua e l’altra parte non può rifiutarsi di riceverla. Le ipotesi in cui può verificarsi impossibilità parziale sono molteplici: perimento di una parte della cosa o delle cose dovute, verificarsi di un factum principis che ha effetti impeditivi solo su una porzione della prestazione di dare/fare ovvero qualora oggetto di obbligazione siano molteplici prestazioni tra loro connesse e una o alcune di esse divengano impossibili da eseguirsi.
Così come si è visto a proposito dell’impossibilità totale, anche quella parziale richiede quali requisiti essenziali la non imputabilità, l’imprevedibilità e la definitività dell’evento impediente. Tuttavia, quale requisito aggiuntivo, l’impossibilità parziale prevede l’ulteriore elemento dell’intrinseca divisibilità42della prestazione contrattuale, ovvero la presenza di più prestazioni singolarmente indivisibili, ma nella loro considerazione complessiva e connessioni reciproche, divisibili. Laddove invece le prestazioni siano indivisibili per natura o per volontà delle parti, l’art. 1258 c. 2 estende l’operatività dell’impossibilità parziale anche alle ipotesi di deterioramento o perimento del bene dovuto (purché ne residui almeno una parte), non richiedendo come necessario requisito la divisibilità delle prestazioni.
L’estensione della disciplina anche alle prestazioni indivisibili, ha portato la dottrina43 a chiedersi se per queste prestazioni permanga, nei contratti
40 Trib. di Venezia sez. I, 28 luglio 2020 in DeJure.
41 Cfr. XXXXX, L’impossibilità parziale della prestazione nei contratti sinallagmatici, in Giust. civ., 1953, 717.
42 Sul requisito di divisibilità della prestazione si rimanda a LOMBARDI, op. cit., 147 ss.
43 Cfr. CABELLA-PISU, op. cit., 146 ss.
sinallagmatici, un margine di applicabilità dell’art. 1464 c.c. (proporzionale riduzione della controprestazione con diritto di recesso del creditore che non intraveda una residua utilità nel contratto) oppure se si applichi sic et simpliciter l’art 1463 c.c., che determina la risoluzione automatica del contratto. La prospettiva non è dunque di tipo quantitativa, ma qualitativa, posto che è necessario stabilire se la prestazione residua di per sé sia funzionale al raggiungimento dello scopo del contratto, oppure se abbia subito una riduzione tale da qualificarsi come un aliud rispetto alla prestazione originariamente dovuta. Problema che peraltro si potrebbe porre anche per le prestazioni divisibili, la cui diminuzione di utilità sia talmente estesa da rendere quella residua altro rispetto a quella inizialmente pattuita. Per rispondere all’interrogativo sul rimedio applicabile (art. 1463 c.c. o 1464 c.c.) per le prestazioni indivisibili, occorre constatare caso per caso, se si tratta di impossibilità parziale o totale e stabilire il criterio applicabile per la distinzione.
A titolo esemplificativo, in ambito locatizio (in particolare in caso di distruzione parziale degli edifici locati per cause naturali o belliche), la Cassazione44 si è pronunciata ponendo in essere una valutazione di carattere funzionale. Solo laddove vi sia un’oggettiva inidoneità della prestazione residua a soddisfare gli interessi che si volevano perseguire con la prestazione originariamente concordata, allora vi sarà impossibilità totale e conseguente applicazione dell’art 1463 c.c.
Occorre a questo punto approfondire i rimedi esperibili dalla parte la cui prestazione attesa, sia colpita da impossibilità parziale. Lo squilibrio contrattuale trova rimedio, ai sensi dell’art. 1464 c.c., nel diritto dell’altra parte alla riduzione della prestazione dovuta alla controparte parzialmente impossibilitata, salvo – ove
44 Sul punto la Cass. Civ. Sez. III, 10 aprile 1995 n. 4119 in DeJure si è pronunciata sulla distruzione a seguito di un incendio, di un immobile locato e ha dichiarato, utilizzando un criterio qualitativo, la risoluzione per impossibilità totale e non parziale. Siffatta distruzione, che esime il locatore dall’obbligo di manutenzione, circoscritto alle sole riparazioni sulla cosa e non anche sulla ricostruzione totale o parziale dell’immobile in forza dell’impossibilità sopravvenuta (totale o parziale). Circostanza che “ricorre non solo quando il bene locato sia totalmente distrutto ma anche quando la rovina, pur essendo parziale, riguardi gli elementi principali e strutturali del bene in modo che, con riferimento alla sua organica individualità ed alla sua destinazione ne sia pregiudicata definitivamente la funzionalità e l’attitudine a prestarsi al godimento previsto dalle parti con il contratto”. Ne consegue, secondo la Corte che, “la distruzione di un singolo elemento essenziale e strutturale non equivale a distruzione parziale dell’immobile locato, solo se gli altri elementi, rimasti in efficienza, assicurino la consistenza complessiva dell’immobile e la sua funzionalità, in modo che l’esecuzione delle opere di riparazione riguardi un bene che, non avendo perduto la propria complessiva e definitiva funzionalità, possa considerarsi sostanzialmente quello originario”.
la prima non abbia interesse all’adempimento parziale – il diritto di recedere dalla pattuizione (recesso in autotutela)45.
Per quanto attiene alla facoltà di richiedere la riduzione della controprestazione, parte della dottrina46 subordina il rimedio alla formulazione di un’esplicita domanda creditoria. Secondo altra dottrina47 invece, la riduzione si produrrebbe automaticamente nel momento in cui si verifica impossibilità parziale, sicché il rimedio alternativo, cioè il recesso dal contratto, assumerebbe carattere successivo e residuale. Questa seconda impostazione dottrinale trova riscontro nell’automaticità che caratterizza il rimedio risolutorio di cui all’art. 1463 c.c., non ponendo in capo al creditore alcun onere di esprimere la volontà di risolvere il contratto.
Nonostante questa contrapposizione, secondo altra dottrina48 sarebbe possibile osservare come, anche in questo caso, il risultato cui si perviene sia lo stesso. Infatti, anche se la riduzione operasse automaticamente, così come sostiene parte della dottrina, nella sostanza ci dovrebbe essere comunque l’iniziativa creditoria a richiedere la riduzione, tenuto conto anche del fatto che non sempre le parti sono d’accordo sulla quantità di riduzione che deve essere effettuata, rendendo così indispensabile l’intervento del giudice.
Si giunge così alla problematica della misura della riduzione. Tale operazione presuppone un calcolo di non semplice soluzione, non solo quando si tratti di prestazioni di fare, ma anche per le prestazioni che prevedono la dazione di un corrispettivo in denaro. Al giudice spetterebbe la delicata operazione consistente nella riduzione del corrispettivo equilibrante, che dovrebbe porre rimedio al disequilibrio economico prodottosi in conseguenza della sopravvenienza, tenuto conto delle specificità e dei valori economici che le prestazioni assumono a seconda dell’operazione economica in cui sono inserite (si parla infatti non di riduzione oggettiva, bensì soggettiva della controprestazione). Non si tratterebbe di un mero accertamento di equivalenza economica tra la riduzione domandata dal creditore e
45 x. XXXXX, Il contratto, Milano, 2011, 941.
46 Cfr. DELMARTELLO, in Noviss. Dig. It., voce Risoluzione del contratto, Torino,1969,130. 47Cfr. VERDERA SERVER, Inadempimento e risoluzione del contratto, Padova, 1994,186; SACCO DE NOVA, Il contratto, Torino, 2016, 654;GENTILI, La risoluzione parziale, Napoli,1994,35.
48 Si veda in proposito le conclusioni formulate da CABELLA-PISU, op. cit., 156 secondo il quale si tratterebbe di una contrapposizione meramente teoriche, che però non avrebbero implicazioni dal punto di vista pratico.
la parte di prestazione divenuta impossibile, ma, come ha sottolineato parte della dottrina49, il ruolo del giudice dovrebbe essere novativo, poiché implicherebbe una modifica del contratto.
Venendo al rimedio alternativamente prospettato dall’art. 1464 c.c., il legislatore non impone al creditore di accettare in ogni caso la prestazione residua, consentendo l’esercizio del diritto di recesso, negozio unilaterale ricettizio che provoca lo scioglimento del contratto. È un rimedio di natura legale, essendo previsto dalla legge, al verificarsi del venir meno di un apprezzabile interesse del creditore a ricevere la prestazione residua.
Secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione50, unico legittimato a esercitare il recesso in autotutela sarebbe il creditore, mentre il debitore avrebbe, nel quadro dell’art 1464 c.c., solo diritto a contestare la misura della riduzione o la presenza dei presupposti per recedere dal contratto. La ratio dell’esclusione del debitore51 dalla legittimazione ad agire appare limpida: evitare atteggiamenti speculativi del debitore, laddove si trovasse di fronte ad un impedimento che renda solo parzialmente eseguibile la prestazione, ma pur sempre eseguibile, cui il creditore abbia ancora interesse. La discrezionalità nel recedere dal contratto non implica mero arbitrio del creditore: tale scelta dovrà essere preceduta da un giudizio di ragionevolezza e non potrà mai essere contraria a buona fede52. Dalla comparazione tra impossibilità totale e parziale si coglie la diversa ratio delle norme che vi pongono rimedio: nel primo caso, a fronte della presumibile ormai inutilità del contratto, questo si risolve automaticamente; nel secondo caso, invece, il contratto viene mantenuto ove conservi un’utilità apprezzabile53 (con un conseguente riequilibrio delle reciproche prestazioni mediante la riduzione di quella a carico della parte pregiudicata) e solo laddove tale utilità venga definitivamente meno, si procederà in ultima istanza allo scioglimento della convenzione per
49 Cfr. DELMARTELLO, op. cit., 130.
50 Cfr. Cass. Civ., sez. III, 27 febbraio 2004, n. 3991 in DeJure. Nel caso di specie l’immobile locato per cause non imputabili al debitore era divenuto inagibile a seguito di infiltrazioni d’acqua dovute a tubature fatiscenti dell’edificio. Il conduttore, essendo stato convenuto in giudizio per il pagamento del canone per intero, qualora non possa opporre eccezione di inadempimento, “ha comunque diritto ad ottenere una riduzione del canone, proporzionale alla riduzione dell’utilità che il conduttore consegue, a causa dei limiti esistenti al pieno godimento del bene come contrattualmente previsto”. 51 Tale esclusione è constatabile ad esempio in Cass. Civ. Sez III, 23 aprile 2020, n. 8112 in cui si dice che è solo la parte creditrice ad avere “il diritto di avvalersi dei rimedi previsti dall’articolo 1464 c.c.”.
52 Cfr. CABELLA-PISU, op. cit., 149.
53 Si vedano a tal proposito le riflessioni di XXXXXX, op. cit., 66.
recesso. Xxxxxxx tuttavia chiedersi – così come visto a proposito della facoltà di richiedere la riduzione della controprestazione – se tale valutazione sia esclusivamente rimessa alla discrezionalità del creditore o se, invece, possano ravvisarsi dei limiti.
Risalente giurisprudenza54 sosteneva che “l’apprezzabile interesse all’adempimento parziale” fosse rimesso all’esclusiva valutazione del creditore. Tuttavia, seguendo questo ragionamento, l’impossibilità parziale sarebbe valutata in astratto, attribuendo in sostanza al creditore uno ius poenitendi. La dottrina55 ha criticato questa impostazione: sebbene il recesso sia un diritto potestativo esercitabile stragiudizialmente dal creditore, esso troverebbe un limite – esattamente come avviene nella risoluzione di diritto ai sensi dell’art. 1463 c.c. – nell’accertamento giudiziale, qualora sorga una controversia tra le parti. La valutazione ultima spetterebbe dunque al giudice, che dovrebbe procedere ad un accertamento in concreto56 e non in astratto dei presupposti del recesso, tenendo conto delle circostanze del singolo contratto e dell’apprezzabile interesse del creditore, valutato mediante criteri oggettivi, riferibili allo specifico sinallagma.
4. Risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta nei contratti di durata.
Il principio in forza del quale un contratto è risolubile o modificabile al verificarsi di un evento che renda eccessivamente onerosa la prestazione del debitore, è relativamente recente: sotto la vigenza del codice del 1865, pur essendo oggetto di studio da parte della dottrina57, non era un principio espressamente previsto. I commentatori del codice civile del 1865 infatti, non hanno ravvisato come implicita nel codice la possibilità di recedere in forza del principio espresso
54 Si veda ad esempio Xxxx. Civ. 8 marzo 1960 n. 430, in Massimario Giurisprudenza italiana, 1960, 110.
55 BIANCA, La responsabilità, Milano, 1994, 37.
56 PETTI, La simulazione e l’invalidità del contratto, art 1414-1469, Novara,1984,712.
57 Il primo ad occuparsi della questione fu Bersanti, il quale sosteneva che, in forza del principio di vincolatività del contratto, il debitore fosse sempre tenuto ad eseguire la prestazione, ma nei limiti della volontà da lui originariamente manifestata, limiti che egli definisce “auto limitazioni del volere”, che, se applicati ai contratti di durata, richiedono che il nesso di corrispettività e, dunque, l’accordo debba rinnovarsi in tutti i momenti in cui il contratto deve essere eseguito. In un negozio così concepito, la clausola rebus sic stantibus, secondo Bersanti costituirebbe clausola risolutiva espressa. Per l’approfondimento di questo Autore e di altre teorie di carattere dogmatico si rimanda a BRACCIANTI, Degli effetti della eccessiva onerosità sopravveniente nei contratti, Milano, 1946,16 ss.
dalla clausola rebus sic stantibus, poiché in contrasto con l’art. 1226 c.c., il quale stabiliva che solamente un’impossibilità assoluta e oggettiva58 del debitore e non una mera difficultas prestandi, avrebbe avuto effetto liberatorio. A conferma della mancanza di siffatta clausola, il decreto luogotenenziale del 27 maggio del 1915 n. 739, introdotto in occasione della Prima Guerra Mondiale, sancì la liberazione del debitore dalla propria obbligazione che fosse divenuta per cause belliche, non solo impossibile, ma anche eccessivamente onerosa.
L’interpretazione letterale della norma tuttavia, aveva avuto inizialmente, quale effetto negativo, la paralisi di ogni ulteriore efficacia dei rapporti giuridici che, pur essendo divenuti maggiormente onerosi, fossero ancora possibili di esecuzione. Per questo motivo si decise di adottare un’interpretazione anti- letterale59, che non equiparasse l’eccessiva onerosità a una causa di forza maggiore ma, al contrario, escludesse che l’aggravio economico, anche se causato dalla guerra, evento per eccellenza non prevedibile, potesse giustificare l’inadempimento del debitore. Si rinviava così al principio espresso dalla clausola rebus sic stantibus, per cui “stando così le cose”, cioè essendo mutate le condizioni fattuali a causa di un evento sopravvenuto, il contratto non sarebbe potuto proseguire se non tramite una revisione dei suoi termini. È infine con la relazione al Re del Ministro Guardasigilli al Codice civile del 16 marzo 1942 che venne introdotta in maniera espressa il principio di soggezione di tutti i contratti a questa clausola, così escludendo l’idea dell’automatica risolubilità del contratto affetto da eccessiva onerosità. Si giunse così alla disciplina del codice oggi vigente.
Nonostante la dottrina abbia tentato di attribuire all’eccessiva onerosità una definizione il più possibile esaustiva, si è rilevato come si tratti di un concetto estremamente elastico, il cui significato è di volta in volta rimesso all’interprete. Questo dipende infatti dal rapporto sussistente tra alcuni parametri normativi di riferimento (il tipo contrattuale e l’alea normale di quel tipo di contratto) e il singolo contratto così come configurato nella fattispecie concreta. A seconda della relazione intercorrente tra questi elementi, si avrà una diversa interpretazione della nozione di eccessiva onerosità sopravvenuta. Nonostante ogni tentativo esperito dalla dottrina nel fornirle una definizione completa non sia mai stato considerato
58 Cfr. BRACCIANTI, op. cit.,47.
59 Sul punto si veda OSTI, Xxxxxxxx rebus sic stantibus, cit., 359 e FERRI, Dalla “clausola rebus sic stantibus” alla risoluzione per eccessiva onerosità, in Quadrimestre, 1988, 58.
pienamente soddisfacente, tuttavia, per eccessiva onerosità sopravvenuta60 si intende l’ipotesi in cui, tra il momento della conclusione e quello dell’esecuzione del contratto, si sia verificato un mutamento delle circostanze di fatto, tale da rendere eccessivamente onerosa l’esecuzione della prestazione oggetto di obbligazione di una delle due parti, determinando così un disequilibrio rispetto all’assetto contrattuale convenuto al momento del suo perfezionamento. Quanto invece all’alea normale del contratto, si tratta di «quel rischio che il contratto comporta a causa della sua peculiarità: rischio al quale ciascuna parte implicitamente si sottopone concludendo il contratto»61 .Il superamento dell’alea normale del contratto costituisce uno dei presupposti di applicazione dell’art. 1467 c.c., xxxxx che predispone i rimedi al verificarsi dell’eccessiva onerosità sopravvenuta.
Circa il valore sistematico di questo istituto sono state proposte varie funzioni:
• tutela della parte debitrice contro un evento imprevedibile, il cui superamento richiederebbe uno sforzo da lui non esigibile (funzione ricavabile dall’interpretazione letterale della norma);
• esigenza di mantenimento di equilibrio tra le reciproche prestazioni; Nessuna di queste due ricostruzioni, secondo una parte della dottrina62, sarebbe però convincente: la prima sarebbe ritenuta opinabile data l’equiparazione operata dalla giurisprudenza tra eccessiva onerosità e svilimento della controprestazione, facendo emergere come ciò che si tutela non sia il solo sforzo debitorio; la seconda ricostruzione sarebbe invece criticabile prendendo in considerazione l’art 1468 c.c., che prevede la tutela di riduzione ad equità anche per quei contratti le cui obbligazioni siano a carico di una sola delle parti, ove dunque non si pone l’esigenza di proteggere il nesso di corrispettività. L’ipotesi più convincente63sarebbe, invece, quella formulata alla luce di una considerazione complessiva del contratto, che
60 Cfr. VIOLA, Il contratto, Tomo I, Capitolo III, La risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, a cura di PLANTEDA, Torino, 2003, 1089. Sul tema si veda altresì BRACCIANTI, Osservazioni in tema di eccessiva onerosità, in Dir. mar., 1950, 49; BUFFA, Di alcuni princìpi interpretativi in materia di risoluzione per onerosità eccessiva, in Xxx. xxx. xxxx. x xxxxxxxxxxxx, 0000, XX, 00; XXXXXXXXX, Eccessiva onerosità e inadempimento, in Riv. dir. comm. e obbligazioni, 1953, II, 84.
61 Relazione al Guardasigilli n. 245 in GABRIELLI, L’eccessiva onerosità sopravvenuta, Torino, 2012, 9.
62 Cfr. AMBROSOLI, op. cit., 216.
63 Cfr. AMBROSOLI, op. cit.,213 ss.
tenga conto sia degli interessi della parte debitrice che di quella creditrice, volta a tutelare il valore del contratto, quale mezzo per la realizzazione degli interessi delle parti contraenti.
Perché possa applicarsi l’art. 1467 c.c., sarebbe necessario che l’interprete compiesse una valutazione di insufficienza64 del negozio giuridico rispetto ai fini perseguiti; insufficienza che non dovrebbe riguardare i soli aspetti oggettivi del contratto (la causa) ma anche quelli soggettivi (ciò che le parti volevano e avevano prospettato di conseguire per mezzo del negozio). Inoltre, si porrebbe in questa diversa ottica anche un problema di ingiustificato arricchimento del creditore, rischio che il legislatore vorrebbe, secondo tale dottrina, arginare con strumenti di cui all’art 1467 c.c. Funzione dell’onerosità sopravvenuta sarebbe piuttosto quella di tutelare la razionalità del negozio giuridico nel suo complessivo rapporto costi- benefici.
I presupposti indefettibili65 perché possano essere azionati i rimedi di cui all’art 1467 c.c. sono quattro:
• almeno una delle prestazioni deve essere differita rispetto al momento della conclusione del contratto, con la conseguenza che si deve trattare di un contratto “a esecuzione continuata o periodica” oppure “a esecuzione differita”;
• la prestazione non deve essere ancora stata esaurita nella sua esecuzione nel momento in cui si verifica la sopravvenienza;
• l’onerosità sopravvenuta deve essere “eccessiva”, dunque superare l’alea normale del contratto;
• infine, l’onerosità deve essere stata causata da eventi “straordinari e imprevedibili”;
Solo laddove il rapporto presenti tutte queste caratteristiche si potrà ricorrere alternativamente alla sua risoluzione o alla riduzione ad equità.
Partendo dal primo presupposto, l’art 1467 c.c., con riferimento ai soli contratti a prestazioni corrispettive, chiarisce come esso trovi applicazione «nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita». È necessario, dunque, che vi sia un intervallo di tempo rilevante tra il perfezionamento del contratto e la sua totale esecuzione, dunque che si tratti di un
64 Cfr. AMBROSOLI, op. cit., 216.
65 Cfr. XXXXX, op. cit., 945 ss.
contratto di durata (sia esso a esecuzione continuata o periodica) oppure di un contratto ad esecuzione istantanea ma differita. La dottrina66 e la giurisprudenza ammettono l’applicazione del rimedio risolutorio anche per i contratti in cui vi sia differimento parziale della prestazione.
Con riferimento agli approdi giurisprudenziali in tema, la Cassazione67 ,in un caso avente ad oggetto la vendita a consegne ripartite, si è espressa nel senso che
«la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta può esser pronunciata anche per contratti ad esecuzione differita dell'intera prestazione o di una parte economicamente rilevante di essa, sempre che fra il momento della conclusione e quello dell'esecuzione si siano verificati avvenimenti straordinari o imprevedibili tali da rendere l'adempimento della prestazione, in tutto o in parte, ancora dovuta, eccessivamente oneroso per uno dei contraenti».
Un problema che si potrebbe verificare riguarda i contratti che in origine dovevano trovare immediata esecuzione, e che, per causa non imputabile al debitore, potrebbero rimanere temporaneamente sospesi (ad esempio in caso di evento bellico o a causa di una calamità naturale). Cessato l’evento impeditivo, il debitore sarà nuovamente tenuto all’adempimento dell’obbligazione, che però nel frattempo potrebbe essere divenuta eccessivamente onerosa68. Una lettura prima facie dell’art. 1467 x.x. xxxxxxxxxxx restringere l’operatività dell’istituto ai soli contratti che nel momento in cui sono stati conclusi si era stabilito fossero a esecuzione differita. Ciononostante, anche nel caso in cui non fosse stata pattuita originariamente l’esecuzione protratta nel tempo, il debitore potrebbe essere esposto ad un aggravio economico eccessivo. Per tali ragioni, secondo parte della dottrina69,sia quando il differimento della prestazione sia stato deciso dalle parti, sia quando si verifichi per causa non imputabile al debitore (per esempio laddove vi sia stato un aumento dei prezzi conseguente allo scoppio di una guerra o di una pandemia), potrebbe trovare applicazione l’art. 1467 x.x. Xxxxxx l’applicabilità del rimedio risolutorio in tale ipotesi sarebbe infatti del tutto incompatibile con la ratio sottesa alla norma.
66 Cfr. XXXXXXXXX, L’eccesssiva onerosità nei contratti, Milano,1995,60.
67 Cass. Civ., 18 febbraio 1999, n. 1371, in DeJure.
68 Su questa problematica si rimanda alle riflessioni di BRACCIANTI, op. cit., 62-63.
69 Cfr. BRACCIANTI, op. cit., 63-64.
Il secondo requisito richiesto dal codice perché scattino i rimedi di cui all’art. 1467 c.c. è temporale: l’eccessiva onerosità, deve verificarsi in un momento antecedente all’esaurimento della prestazione. Non vi sarebbe infatti ragionevole motivo per far scattare questi rimedi per prestazioni già completamente eseguite, trattandosi di una norma volta a porre rimedio a un fatto sopravvenuto, per definizione imprevedibile.
Una questione oggetto di discussione in dottrina è se costituisca condizione necessaria il fatto che entrambe le prestazioni non siano ancora state esaurite oppure se si possa invocare questo rimedio anche laddove una delle due sia già stata completamente eseguita.
Sul punto la dottrina prevalente70 ha ritenuto che fosse ammissibile accedere a tali rimedi anche qualora una delle due prestazioni sia stata esaurita; e ciò per molteplici ragioni: anzitutto, perché anche nel momento in cui una parte adempie, dal punto di vista funzionale il sinallagma comunque permane; in secondo luogo perché escludere questa soluzione interpretativa significherebbe violare la ratio della norma, ovvero quella di porre rimedio alle situazioni di disequilibrio dipendente da evento perturbativo, che può colpire anche solo una delle due prestazioni; infine, tale corrente dottrinale ritiene che, se la norma non fosse interpretata in questo senso, ne discenderebbe l’automatica inapplicabilità a tutta la categoria di contratti in cui solo la prestazione di una parte sia differita, continuata o periodica.
Venendo alla terza condizione di applicabilità della disciplina, ovvero il superamento dell’alea normale del contratto, occorre segnalare che la definizione presente nella Relazione al Guardasigilli di cui si è detto in precedenza, non fornisce un sicuro criterio per stabilire se di volta in volta, vi sia stato il suo superamento. Soltanto nel contratto di appalto, il legislatore indica la misura del rischio che l’appaltatore assume e per il quale non può richiedere nulla al committente (art. 1664 c.c.). Salvo per questa specifica tipologia contrattuale, non sussiste un criterio
70 Tra i vari esponenti di questa corrente maggioritaria: XXXXX, Gli effetti giuridici della svalutazione monetaria, Milano, 1948, 110 ss.; in questo senso BRACCIANTI, op. cit. sostiene come a livello normativo il legislatore non abbia distinto il caso in cui l’eccessiva onerosità colpisca l’unica prestazione o le molteplici prestazioni ad esecuzione continuata o periodica dal caso in cui colpisca le prestazioni di entrambe le parti. Per chiedere che si proceda alla risoluzione basterebbe dunque dimostrare che anche solo una delle prestazioni è stata colpita da eccessiva onerosità sopravvenuta, proprio perché, secondo l’Autore, il legislatore sarebbe partito dall’idea nel predisporre l’art. 1467 c.c. tale per cui è sufficiente anche una parziale eccessiva onerosità sopravvenuta di una delle due prestazioni per giustificarne l’applicazione.
generale che consenta di verificare il superamento dell’alea normale del contratto, trattandosi di una nozione relativa e sarà dunque l’interprete a dover stabilire, caso per caso, secondo un’interpretazione in buona fede, se l’evento sopravvenuto ha generato uno squilibrio economico eccessivo dell’operazione posta in essere dalle parti.
La Cassazione71 in diverse occasioni ha svolto un ruolo cruciale nel fornire, di volta in volta, una più chiara interpretazione di alea normale del contratto, costituita «dalle oscillazioni di valore delle prestazioni, originate dalle normali fluttuazioni del mercato, non potendosi mai escludere che costi e benefici realizzati siano diversi dalle originarie previsioni dei contraenti ed essendo la risoluzione ex art. 1467 c.c. giustificata solo da una sopravvenienza che alteri l’andamento normale dell’affare». Dagli orientamenti espressi dalla Suprema Corte si può rilevare che ciascuna parte, nel concludere un contratto di durata, assuma su di sé un rischio che è implicito in un mercato soggetto a continue oscillazioni che, avuto riguardo alla natura e tipologia contrattuale, ordinariamente si verificano. Si parla infatti di superamento dell’alea normale del contratto solo laddove vi siano andamenti di mercato non fisiologici, che le parti non potevano ragionevolmente prevedere al momento della conclusione del negozio. Solo in queste ipotesi la risoluzione potrà trovare applicazione.
Autorevole dottrina72 ha desunto che, ai fini dell’operatività della tutela ex art. 1467 c.c., non occorra che il debitore si trovi, in una situazione di rovina economica irreversibile, ma l’evento sopravvenuto deve avergli comunque cagionato un danno economico grave. Dunque, pur non essendo sufficiente il semplice conseguimento di un profitto ridotto da parte del debitore, non sarebbe neppure necessario un azzeramento di esso; infatti, l’interprete dovrebbe verificare la sussistenza di una perdita grave, sotto il profilo del danno emergente o del lucro cessante.
Le considerazioni svolte consentono di individuare il motivo dell’esclusione dalla disciplina della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, dei contratti
71 Cass. Civ., 7 marzo 2002, n. 3296, in Giust. civ., 2003, I, 196; seguendo lo stesso orientamento
Cass. Civ., 21 aprile 2011, n. 9263, in Contratti, 2011, 7, 705 ove definisce l’alea normale del contratto come comprendente «anche le oscillazioni di valore delle prestazioni originate dalle regolari e normali fluttuazioni del mercato».
72 Cfr. BRACCIANTI, op. cit., 71-72.
aleatori73 (art. 1469 c.c.), siano essi tipici74 (tali per natura) o atipici75 (per volontà delle parti). Trattandosi di una categoria di contratti implicanti un intrinseco rischio giuridico e/o economico che rende incerto l’adempimento delle obbligazioni, la ratio di siffatta esclusione è intuibile: trattandosi di contratti in cui si ha marcata e cosciente assunzione del rischio insito nel contratto, non avrebbe senso fornire alle parti contraenti un rimedio per liberarsi del vincolo per un rischio che era già stato ritenuto a priori verificabile.
Si badi però che, l’esclusione dalla disciplina ai sensi dell’art. 1469 c.c. opera per i contratti aleatori, soltanto quando l’evento sopravvenuto incida proprio sul rischio che costituisce l’alea di quel contratto. Se, invece, provocasse un rischio diverso, allora l’esclusione non opererebbe e il contratto potrebbe essere sottoposto ai rimedi predisposti dal codice per l’eccessiva onerosità sopravvenuta.76
Quarto e ultimo presupposto è che l’eccessiva onerosità sia stata causata da eventi straordinari e imprevedibili. Potrebbe trattarsi di avvenimenti naturali77 o umani e, più nello specifico, di eventi tecnici, economici, politici o normativi. Il fatto che il legislatore si serva di un’endiadi non deve indurre a credere che si tratti due sinonimi. La straordinarietà ha natura oggettiva78: un evento assume carattere di straordinarietà quando, avuto riguardo a diversi parametri (quali frequenza, intensità, incidenza), un evento si verifica eccezionalmente dal punto di vista statistico. La straordinarietà del verificarsi dell’evento in un certo lasso di tempo dipenderà da una valutazione di tipo probabilistica.
Maggiori difficoltà ermeneutiche comporta la definizione di imprevedibilità. Parte della dottrina79 ha definito la prevedibilità come «la
73 Essi sono stati definiti sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza contratti in cui, al momento della conclusione, non è predeterminabile il rapporto tra vantaggi e sacrifici; dunque, tra vantaggio e rischio cui si espone ciascun contraente all’atto di stipula. Si rimanda a CARIOTA-FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto civile italiano, Napoli,209 e Cass. Civ. 28 aprile 2008 n. 10798, in Giust. Civ,2009, I,711 in materia di rendita vitalizia.
74 Ad esempio, i contratti assicurativi, ove l’assicurato sarà certamente tenuto al pagamento periodico della polizza, mentre la prestazione dell’assicuratore sarà solo eventuale, cioè subordinata ad un evento incerto (produzione di un danno).
75 Le parti contraenti infatti potrebbero trasformare in contratti aleatori contratti che per natura non sono tali, modificandone la disciplina, semplicemente esponendo a un rischio giuridico ed economico la clausola contenente la prestazione da eseguirsi. Un esempio di contratto aleatorio atipico è la vendita di cosa futura, in cui le parti decidono di addossare il pagamento del prezzo al compratore anche nel caso in cui la cosa no venga ad esistenza (emptio spei).
76 Cfr. XXXXX, op cit., 960-961.
77 Si veda ROPPO, op. cit., 953.
78 Per un avvallo giurisprudenziale della concezione di straordinarietà si veda Xxxx. Civ. Sez. III, 19 ottobre 2006, n. 22396 in DeJure;
79 BOSELLI, La risoluzione del contratto per eccessiva onerosità, Torino, 1952,132.
possibilità di rappresentarsi mentalmente un dato evento come conseguenza o sviluppo di un determinato atto, fatto o di una determinata situazione». La stessa dottrina sottolinea però come questa nozione di prevedibilità muti a seconda del parametro di riferimento, che può essere duplice. Da un lato, si potrebbe far riferimento all’oggettiva prevedibilità e, dunque, alla rappresentazione mentale dell’evento in senso strettamente obiettivo, tale da ricomprendere ogni possibile evento, anche quello straordinario; dall’altro, ed è questa l’opzione preferita dalla citata dottrina, si potrebbe optare per una nozione di prevedibilità dal punto di vista dell’uomo comune, utilizzando la normale diligenza.
Anche la giurisprudenza80 ritiene più idonea una valutazione soggettiva e relativa: «con riguardo ad un preliminare di vendita di un fabbricato da costruire, ove la svalutazione − considerando la capacità di previsione di un uomo medio alla stregua della situazione in atto al momento del preliminare, nonché la sua incidenza sui costi di costruzione e sul guadagno ripromesso − presenti i connotati di un avvenimento straordinario ed imprevedibile, va riconosciuta al promittente venditore la possibilità di chiedere la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta in relazione alla svalutazione monetaria, determinatasi dopo la conclusione del contratto».
Venendo ora all’approfondimento dei rimedi esperibili al verificarsi dei quattro presupposti di cui si è detto precedentemente, il solo debitore, in quanto unica parte gravata, la cui prestazione sia colpita da eccessiva onerosità sopravvenuta, ha azione per richiedere la risoluzione del contratto ex art. 1467 c.c.
La risoluzione può essere richiesta con una domanda in via principale, allo scopo di ottenere una pronuncia giudiziale avente effetti costitutivi. Circa l’efficacia della risoluzione, l’art. 1458 c.c., rubricato “effetti della risoluzione”, distingue a seconda che si tratti di contratti a esecuzione continuata o periodica e contratti a esecuzione differita. Per questi ultimi è previsto che la risoluzione abbia efficacia retroattiva, mentre per i primi la risoluzione «non si estende alle prestazioni già eseguite» e ha efficacia ex nunc (cioè dal giorno della pronuncia giudiziale di risoluzione). Non travolgendo le prestazioni già eseguite, non si dovrà procedere alle restituzioni che normalmente seguono la risoluzione: si tratterebbe di un caso di risoluzione parziale, che, come si è già evidenziato in uno dei paragrafi
80 Cass. Civ., 13 febbraio 1995 n.1559, in Riv.Not.,1996,601.
precedenti, è configurabile non solo laddove la prestazione sia di per sé indivisibile, ma anche quando oggetto dell’obbligazione siano più prestazioni funzionalmente collegate tra di loro, le quali, una volta separate, conservino propria funzione giuridico- economica, abbiano cioè «una loro individualità fisica a prescindere dall’aggregato»81.Dato che la pronuncia di risoluzione emessa dal giudice ha effetti costitutivi, il debitore non può considerarsi liberato dall’obbligazione prima che la pronuncia produca i suoi effetti. Sorge però a questo punto un problema di carattere pratico, che, peraltro, accomuna l’eccessiva onerosità all’impossibilità sopravvenuta, cioè quello di evitare che gli effetti della risoluzione vengano vanificati dall’altrui adempimento. Se per l’impossibilità sopravvenuta il legislatore ha predisposto uno specifico rimedio per ovviare a questa evenienza (eccezione d’inadempimento ex art. 1460 c.c.), lo stesso non è stato fatto per l’eccessiva onerosità.
Parte della dottrina82 per far fronte a questo problema, ritiene che la parte gravata possa sospendere l’esecuzione della propria prestazione, per il solo fatto e già dal momento in cui, rivolge una domanda di pronuncia giudiziale, sicché la pronuncia di risoluzione produrrà i suoi effetti dal momento in cui ne è stata fatta richiesta. L’Autore ritiene non condivisibile sostenere che «il debitore gravato dalla sopravvenienza debba attendere la sentenza di risoluzione del rapporto per potersi esimere dall’adempimento, né che egli, convenuto con l’azione di adempimento, non possa in alcun caso eccepire l’eccessiva onerosità»83. Ciò che viene sostenuto da questa dottrina è che, in base a un principio generale vigente nel nostro ordinamento giuridico, gli effetti delle sentenze (non solo dichiarative ma anche costitutive) retroagiscano al momento della richiesta di pronuncia giudiziale.
Dunque, il debitore in attesa di una pronuncia da parte del giudice potrebbe non adempiere in attesa della decisione. Laddove la pronuncia avesse esito positivo (il giudice dichiara la risoluzione del contratto) l’inadempimento del debitore, in astratto fonte di responsabilità, verrebbe sanato dalla stessa pronuncia risolutiva. Viceversa, qualora il giudice non dichiarasse il contratto risolto perché non ve ne sono i presupposti, mancando l’effetto sanante della pronuncia, il debitore sarebbe
81 Cass. Civ., 15 aprile 2002, n. 5434, in Archivio Civile, 2003, 2, 193.
82 Cfr. DE XXXXXXX, L’eccessiva onerosità nell’esecuzione dei contratti, Milano, 1950,108.
83 Ibidem,108.
responsabile dell’inadempimento, dato che, l’attesa di una pronuncia non è causa di giustificazione del mancato adempimento.
Questa seconda impostazione è però stata criticata da un’altra parte della dottrina84 secondo cui, la domanda che il debitore rivolge al giudice perché pronunci la risoluzione del contratto, non costituirebbe motivo sufficiente per sottrarre la parte inadempiente da responsabilità. Inoltre, così come si evince dall’analisi del primo orientamento dottrinale, la mancata pronuncia di risoluzione da parte del giudice esporrebbe inevitabilmente la parte inadempiente a responsabilità, per il solo fatto di aver confidato nell’attesa.
Entrambe le dottrine convengono sul fatto che la soluzione sia riposta nell’art 700 c.p.c., rimedio avente carattere generale per tutte le situazioni non singolarmente disciplinate dalla legge, accomunate dal rischio che durante il tempo necessario perché si faccia valere in via d’azione il proprio diritto, questo sia
«minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile». La norma consente alla parte che teme di subire un pregiudizio, di richiedere, con ricorso al giudice, «i provvedimenti d’urgenza che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito».
Le condizioni perché l’art. 700 c.p.c. possa trovare applicazione sono essenzialmente tre:
• il pericolo nel ritardo
• la minaccia di un pregiudizio grave e irreparabile al diritto alla risoluzione che si sta facendo valere in via d’azione
• l’inapplicabilità di altri provvedimenti cautelari nominati (sequestro conservativo o giudiziario).
Altra questione che si pone, in relazione alla domanda di risoluzione, è se questa possa altresì essere richiesta dal punto di vista processuale, in via d’eccezione. La risposta in senso positivo a questo interrogativo era pervenuta, in passato in giurisprudenza85 , anche se oggi l’orientamento giurisprudenziale prevalente secondo cui «l’eccessiva onerosità sopravvenuta può essere invocata solo a fondamento di una domanda di risoluzione, ai sensi dell’art. 1467 c.c., e non quale mera eccezione per contrastare l’altrui richiesta di adempimento»86. Il fatto
84 Cfr. XXXXXXX, op. cit, 255.
85 Cass. Civ., 2 agosto 1950 n. 2315, in Xxxxxxxxxxxxxx Xxxxxxxx,0000.
86 Cass. Civ., 10 febbraio 1990, n. 955, in Giust. civ. Mass. 1990.
che, la parte gravata abbia diritto a richiedere la risoluzione del contratto, non significa che la parte non inadempiente non abbia alcun potere: a fronte della richiesta di risoluzione del debitore, il contraente fedele, gode, ai sensi dell’art. 1467 c.3, di un rimedio manutentivo consistente nel diritto ad offrire una riduzione ad equità del contratto, a fronte del rimedio ablativo. Se il legislatore avesse previsto quale rimedio solo quello risolutivo, avrebbe ingiustamente tutelato solo una delle parti contraenti, ovvero la parte gravata dall’eccessiva onerosità, fornendo così una tutela parziale.
Nel meccanismo di riduzione ad equità, la parte non inadempiente, è l’unica legittimata ad offrire una modifica dei termini contrattuali, tale da porre rimedio agli effetti gravosi determinati dall’evento perturbativo che ha colpito il negozio: il legislatore riconosce87 così l’interesse contrapposto a quello della parte debitrice; interesse a mantenere in vita il vincolo obbligatorio per mezzo di un’equa modifica delle sue condizioni, evitando così che si pervenga alla caducazione del contratto. Il rimedio non è del tutto sovrapponibile alla riduzione ad equità che viene esperita nel contratto rescindibile, dato che lo squilibrio viene recuperato in misura diversa: mentre nei contratti rescindibili deve essere recuperato l’intero squilibrio di valori, in quelli risolubili è sufficiente che l’offerta di riduzione sia tale da portare lo squilibrio nei limiti dell’alea normale del contratto.
Dal punto di vista processuale, la riduzione ad equità è una “eccezione” da proporsi dinanzi al giudice, il quale dovrà in primis verificare che il contratto sia risolubile. Questa fase del giudizio è essenziale, dato che, la domanda di riduzione può essere proposta sino a quando non si sia formato il giudicato sulla risoluzione. Di conseguenza se il giudice ritiene il contratto non risolubile, respingerà conseguentemente la domanda di riduzione ad equità. Viceversa, laddove il giudice verifichi la sussistenza dei presupposti per la risolubilità del contratto, compirà un ulteriore accertamento: dovrà verificare l’adeguatezza dell’offerta perché si ritorni entro i limiti dell’alea normale del contratto.
Il ruolo del giudice in queste fasi procedimentali non è però di “mero arbitratore”88, potendo lui stesso incidere sulla misura della reductio ad equitatem.
87 Su questa riflessione si rimanda a BRACCIANTI, op. cit., 77.
88 GABRIELLI, op. cit., 82-83.
Parte della dottrina89 in passato ha messo in dubbio se fosse configurabile in capo al giudice, a seguito di una richiesta generica di riduzione ad equità, una delega in bianco nello stabilire le specifiche modifiche da apportare al contratto. Questo orientamento dottrinale propende sul punto per un’ipotesi restrittiva, dato che, nonostante l’art. 1467 c.c. consenta una formulazione generica dell’offerta, essa rimane nella disponibilità delle parti, poiché attiene alla costituzione di un rapporto contrattuale, per definizione basato sull’accordo dei contraenti per il raggiungimento dei reciproci interessi, raramente sindacabile da un terzo, quale un giudice. La stessa dottrina ritiene che solo eccezionalmente il giudice possa infatti modificare il contenuto di un rapporto contrattuale e peraltro, solo entro certi limiti. Altra dottrina90 , al contrario, sostiene che il convenuto nel giudizio di risoluzione possa stabilire in modo specifico le nuove condizioni contrattuali che è disposto ad accettare o, alternativamente, limitarsi a porre una richiesta generica, rimettendo al giudice la decisione circa le concrete modifiche da apportare al contratto per ricondurlo ad equità: troverà in quest’ultimo caso applicazione la regola di cui all’art. 114 c.p.c, ai sensi del quale il giudice decide secondo equità su
accordo delle parti.
È presumibile che, laddove sia maggiore l’interesse della parte a mantenere il contratto in vita (quindi evitare che il giudice propenda per la risoluzione), la parte rimetta la valutazione della congruità dell’offerta e sua rideterminazione all’organo giudicante, quale mediatore dei reciproci interessi; riconoscendo in capo al giudice non solo il potere di giudicare come adeguata l’offerta prospettata dalla parte non gravata, ma anche quello di modificare ex officio le condizioni contrattuali.
In ogni caso, che sia la parte a formulare un’offerta specifica o il giudice a stabilire l’entità della riduzione d’ufficio, il contratto potrebbe essere riequilibrato tramite riduzione quantitativa o qualitativa della prestazione, aumento della controprestazione o per mezzo della commistione91 di queste soluzioni. L’orientamento dottrinale da ultimo illustrato, nella parte in cui configura un potere di determinazione del giudice ex officio, è stato condiviso dalla Cassazione, che ha ritenuto che colui che sia convenuto in giudizio per la risoluzione del contratto per
89 Cfr. DE MARTINI, op. cit., 136.
90 Si veda BRACCIANTI, op. cit., 79-80.
91 Ibidem, 78.
eccessiva onerosità «offra di modificare equamente le condizioni del contratto, chiedendo in via subordinata che l’equo corrispettivo (nella specie, il residuo prezzo da versare alla stipula del definitivo) sia determinato giudizialmente, il giudice, se ritiene l’offerta inidonea a modificare equamente il contratto, deve provvedere alla determinazione dell’equo corrispettivo».92
Per valutare la congruità dell’offerta volta a inibire la risoluzione del contratto, il giudice dovrà stabilire il valore delle reciproche prestazioni al momento della sentenza, servendosi di criteri prettamente oggettivi93, che tengano conto dei valori di mercato. La Cassazione si è espressa puntualmente circa i criteri utilizzabili dal giudice, chiarendo come, nel riportare il contratto ad un giusto rapporto sinallagmatico, il corrispettivo debba essere uniformato, nei limiti del possibile «ai valori di mercato, così che venga eliminato lo squilibrio economico e le prestazioni siano ricondotte ad una piena equivalenza obiettiva» sicché
«l’indagine del giudice deve, pertanto, essere condotta attenendosi a criteri estimativi oggettivi di carattere tecnico», dunque non solo ad un criterio di equità. L’eccessiva onerosità è una sopravvenienza che può presentarsi, non solo nei contratti sinallagmatici, ma anche nei contratti “con obbligazioni di una sola parte”, formula linguistica che richiama l’art. 1333 c.c., concernente invece i contratti conclusi senza accettazione (essenzialmente i contratti gratuiti). Data l’unilateralità della prestazione, l’art. 1468 c.c. stabilisce che la parte su cui grava l’obbligazione
«può chiedere una riduzione della sua prestazione ovvero una modificazione nelle modalità di esecuzione, sufficienti per ricondurla ad equità». La disciplina di cui all’art. 1468 c.c. è applicabile ai soli contratti e non agli atti mortis causa e, data l’assimilazione con i contratti di cui all’art 1333 c.c., è applicabile ai contratti di donazione94, alla promessa unilaterale e alla promessa del fatto altrui a titolo gratuito. La giurisprudenza95 si è pronunciata in merito, nel senso che «alla clausola penale prevista, sia pure a carico di una sola delle parti, in un contratto a prestazioni corrispettive non è riferibile in alcun modo la disciplina della
92 Cass. civ., 18 luglio 1989, n. 3347.
93 Si rimanda alla riflessione svolta da PLANTEDA, La risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, in Il contratto, tutte le questioni operative immaginabili con gli indirizzi giurisprudenziali consolidati e di rottura, utili per l’avvocato, tomo II, a cura di BUFFONEDE XXXXXXXX-XXXXXX, Milano, 2013, 1468-1469.
94 NAVARRETTA-ORESTANO, Commentario del codice civile, dei contratti in generale, artt. 1435- 1469 bis-leggi collegate, Contratto con obbligazioni di una sola parte di XXXXXXXXX, Torino, 2011, 675.
95 Cass. Civ. Sez II, 16 giugno 1983, n. 4141 in DeJure.
sopravvenuta eccessiva onerosità della prestazione dovuta in dipendenza di contratto dal quale sorgono obbligazioni a carico di uno solo dei contraenti, di cui all’art. 1468 c.c.».
La principale differenza rispetto ai contratti a prestazioni corrispettive è che nei contratti con obbligazione di una sola parte, il legislatore consente alla parte onerata esclusivamente di richiedere la riduzione ad equità, escludendo invece la possibilità di risolvere il contratto. Il fatto che non si possa ricorrere96 alla risoluzione del contratto dipende dal fatto che, a differenza dei contratti sinallagmatici, il bilanciamento tra le reciproche prestazioni non costituisce causa del contratto e dunque, non si pone l’esigenza di ricorrere ad un rimedio estremo, quale quello risolutorio, che invece ha la funzione di eliminare un contratto il cui equilibrio sia stato alterato. L’esclusione del rimedio ablativo impedisce che l’eccessiva onerosità che colpisca il contratto diventi occasione di arricchimento ingiustificato della parte inadempiente, a carico del creditore. Il debitore infatti, tramite questo rimedio, sarebbe liberato senza subire alcuna perdita economica (non avendo la prospettiva di ricevere alcuna controprestazione).
A differenza dei contratti a prestazioni corrispettive, la mancanza di un termine di paragone (la prestazione dell’altro contraente) provoca maggiori difficoltà nello stabilire se effettivamente vi sia uno squilibrio tale da ritenere il contratto eccessivamente oneroso. Non essendo ravvisabile sul punto un orientamento giurisprudenziale univoco, parte della dottrina97 ha quindi proposto, al fine di stabilire la sussistenza di onerosità sopravvenuta, un raffronto tra il valore della prestazione al momento in cui il contratto è stato concluso e il maggior valore che ha assunto nel corso della sua esecuzione. La riduzione ad equità si esercita tramite un’apposita richiesta al giudice, cui spetta la determinazione delle nuove condizioni contrattuali. Anche in questo caso la riduzione può consistere in una modifica quantitativa oppure qualitativa della prestazione dovuta (ad esempio è possibile modificare il luogo, i tempi98 o le modalità di esecuzione della stessa).
96 Per queste riflessioni si veda PLANTEDA, op. cit, 1474.
97 Xxx. XXXXXXXXX, xx. xxx, 00 xx.
00 Xx rimanda a XXXXXXXXX, op. cit, 94-95.
5. La presupposizione e la sua riconducibilità all’art. 1467 c.c.
I rimedi contrattuali sino ad ora esposti, previsti per le sopravvenienze, potrebbero non essere sufficienti99 per far fronte agli innumerevoli eventi verificabili nel corso dell’esecuzione del contratto, per due ordini di motivi:
• in primis per la mancanza di puntualità del legislatore nel descrivere le fattispecie cui possono essere applicati i rimedi codicistici;
• in secondo luogo, perché i rimedi previsti dal codice sono perlopiù rimedi ablativi, che eliminano il contratto, nonostante nella maggior parte dei casi l’interesse delle parti possa essere soddisfatto più efficacemente ricorrendo a rimedi manutentivi;
Al fine di porre rimedio all’insufficienza dei rimedi predisposti del codice, la dottrina e la giurisprudenza hanno elaborato nel tempo l’istituto giuridico della presupposizione, la cui analisi appare particolarmente complessa, non solo per le molteplici correnti dottrinali100 che si sono sviluppate sul tema, ma soprattutto per la mancanza di una definizione codicistica che ne stabilisca i caratteri: infatti la presupposizione non è stata oggetto di interesse del legislatore del 1942, sulla scorta del principio secondo cui, i motivi interni, a differenza della volontà negoziale, non possono incidere sull’efficacia del contratto.
Storicamente la presupposizione è il frutto dell’elaborazione dottrinale dell’inizio del secolo scorso derivante dal coronation case Xxxxx vs Henry101, ove si dirimeva sulla sorte di un contratto di locazione di un balcone per il giorno dell’incoronazione del Re Xxxxxxx XXX, annullata per malore del sovrano. In questa fattispecie i giudici ritennero legittimo il fatto che il locatario non avesse voluto pagare la somma inizialmente pattuita per l’affitto del balcone da cui era possibile vedere il corteo reale.
Nei sistemi di common law questi tipi di interessi contrattuali sono denominati “frustration of purpose”, mentre in Germania sono ricondotti alla nozione di Zweckvereitelung. Nell’ordinamento italiano si è iniziato a discutere
99 Si veda ROPPO; op. cit., 963.
100 Per un approfondimento sul tema della presupposizione si vedano: COMPORTI, Rassegna di dottrina e giurisprudenza sulla teoria della presupposizione, in Studi senesi, 1960, III, 492; PIETROBON, La presupposizione, in Quadrimestre, 1987, 590; SCOGNAMIGLIO, Presupposizione e comune intenzione delle parti, in Riv. dir. comm. e obbligazioni, 1985, II, 130; SEGRETO, La presupposizione nella dottrina e nella giurisprudenza, in Giust. civ., 1996, II, 57; 101 Per questa ricostruzione di carattere storico si veda LOMBARDI, op. cit., 353.
della sua configurabilità sulla base delle teorie esposte da Windsheid102,, cui va riconosciuto il merito di aver portato il tema all’attenzione prima della dottrina tedesca e poi di quella europea. Il celeberrimo giurista tedesco in una serie di scritti ha sostenuto che una supposizione su circostanze influenti sul contratto e determinante per la sua conclusione, costituisca limitazione alla «volontà dichiarata»103. Si tratterebbe di una «limitazione inespressa», una «condizione non sviluppata», ma giuridicamente rilevante. Di conseguenza, secondo Xxxxxxxxxx la volontà dichiarata non corrisponderebbe alla volontà reale del soggetto e di ciò è necessario tenere conto.
Questa teoria, coerente con l’impostazione di negozio giuridico prospettata dalla scuola pandettistica, è simbolo dell’esaltazione del dogma della volontà. Tuttavia non fu esente da critiche: in primo luogo questa concezione mal si conciliava con le esigenze di certezza del diritto e dei traffici commerciali, principi che sarebbero stati inevitabilmente vanificati tutte le volte in cui la ratio decidendi fosse dipesa da analisi di carattere psicologico e da supposizioni non espresse dalle parti; in secondo luogo attribuire rilevanza a condizioni inespresse, si riteneva essere in contrasto con il principio di irrilevanza dei motivi puri e semplici, spingendosi così più in là di quanto affermato anche dalle teorie pandettistiche, le quali invece consideravano i motivi quale limite massimo per poter circoscrivere la volontà rilevante; infine siffatta concezione si poneva in contrapposizione al principio di tutela dell’affidamento delle parti, incompatibile con l’attribuzione di rilevanza dei motivi, così come prospettata dall’Autore.
Altro giurista tedesco che si dedicò all’approfondimento della nozione di presupposizione fu Oertmann104, il quale recepì e riuscì a contrastare solo in parte105le critiche rivolte a Windscheid. Ciò che conta106,non sarebbe più, secondo questo Autore, la volontà delle parti in senso assoluto, bensì un vizio obiettivo consistente nella mancanza o nel successivo venir meno della base negoziale del
102 Cfr. AMBROSOLI, op. cit., 272-273.
103 Per una più approfondita ricerca sulle origini storiche della presupposizione nella dottrina tedesca si xxxx XXXXXXX, Rilevanza della presupposizione, le teorie di Xxxxxxxxxx e di Xxxxxxxx, gli obiter dicta della giurisprudenza, in Il Foro Italiano, vol. 101, 1978, 283.
104 Si veda anche per le teorie di Xxxxxxxx: XXXXXXX, op. cit, 285-286.
105 Egli individuava quale fondamento della presupposizione le circostanze motivanti la proposta o l’accettazione, oggetto di aspettativa di entrambe le parti oppure di una sola parte ma con la consapevolezza dell’altra.
106 Cfr. PELLICANÒ, La presupposizione, in Riv. Trim. di diritto e proc. civ., 1976, 1637.
regolamento di interessi predisposto dalle parti. Anche se con minor intensità, anch’essa è una teoria di stampo volontaristico.
In seguito all’affermarsi delle teorie volontaristiche, la dottrina tedesca ha cercato di trovare, tramite criteri maggiormente oggettivi107, il giusto equilibrio tra la valorizzazione dei motivi soggettivi delle parti e la loro totale irrilevanza ai fini dell’efficacia dei negozi.
Il primo riconoscimento nel nostro ordinamento di carattere giurisprudenziale della presupposizione, ne fornisce anche una, seppur parziale, definizione dei suoi caratteri, affermando che «presupposizione è quella circostanza od evento che, sebbene non svolto, fornisce pur sempre parte od elemento del contenuto volitivo, circoscrivendone l’efficacia”. Cosa diversa dalla presupposizione è il motivo intimo che “non è influente, quando esso sia rimasto nella sfera intima dell’autore della dichiarazione di volontà, senza tradursi in apparente e concreto contenuto volitivo, noto come tale, alla parte cui la dichiarazione era diretta»108. In un primo momento, dunque, ciò che è stato sottolineato dalla giurisprudenza è l’eccezionale rilevanza109 dei motivi, a condizione però che entrambe le parti siano a conoscenza che tali motivi sono stati determinanti ai fini della conclusione del contratto, nonostante non risultino espressamente dalle clausole dello stesso. L’insieme di interessi per il soddisfacimento dei quali le parti ricorrono al contratto non è determinabile110 a priori. Da ciò si pone l’esigenza di distinguere gli interessi oggetto di tutela, da quelli giuridicamente irrilevanti nel nostro ordinamento.
Un primo aspetto che, ai fini dell’analisi della presupposizione, occorre prendere in considerazione è il fatto che, da un lato il nostro codice civile predispone una disciplina ad hoc per i contratti nominati (contratti tipici), selezionando così in via preventiva gli interessi che il legislatore ritiene meritevoli di tutela; dall’altro, lo stesso legislatore consente ai contraenti di stipulare contratti atipici, la cui costituzione in via convenzionale, permette alle parti di rendere
107 Le successive evoluzioni dottrinali tedesche hanno tentato di allontanarsi da questa prospettiva basata sul dogma della volontà giungendo alla distinzione tra subjective Geschäftsgrundlage e objective Geschäftsgrundlage, cioè tra le rappresentazioni mentali, intenzioni, che hanno spinto le parti a concludere l’affare e dall’altra parte le circostanze che appaiono indefettibili perché l’affare si realizzi, la cui mancanza compromette le intenzioni delle parti e il negozio nel suo complesso.
Sul punto si rimanda a PELLICANÓ, op. cit., 1638 ss. 108 Cass. civ. sez. I, 15 febbraio 1931, n. 531 in DeJure. 109 Si veda sul punto LOMBARDI, op. cit., 354.
110 Si rimanda a BELFIORE, La presupposizione, Torino, 2000, 2.
giuridicamente rilevanti interessi che non erano stati valutati dal legislatore meritevoli di tutela. Ne consegue che, un interesse possa assumere rilevanza giuridica grazie ad una valutazione compiuta in via preventiva dal legislatore, che tutelerà questo interesse predisponendo un’apposita disciplina nel codice; o, in alternativa, potrà assumere rilevanza giuridica grazie al principio di libertà contrattuale vigente nel nostro ordinamento e, dunque, in via pattizia111.
La presupposizione, partendo da queste premesse, è stata definita da una parte della dottrina112 come la situazione di fatto o di diritto, presente, passata o futura, che le parti ritengono certa nel suo verificarsi, di carattere obiettivo e che, nonostante non venga espressamente inserita nelle clausole contrattuali, costituisce presupposto comune e determinante dei contraenti per la conclusione dell’affare.
Si deve alla giurisprudenza113 il merito di aver ricavato i requisiti al verificarsi dei quali i rimedi possono trovare applicazione. Più nello specifico il presupposto (sia esso passato, presente o futuro) dovrebbe presentare i seguenti caratteri:
• dovrebbe trattarsi di un fatto obiettivo ed esterno al contratto, che non dipenda dalla volontà dei contraenti e che non costituisca obbligazione nel contratto;
• non dovrebbe essere stato menzionato espressamente dalle parti nelle clausole contrattuali;
• dovrebbe essere conosciuto e condiviso dalle parti contraenti, pur non essendo esplicitato;
• dovrebbe avere avuto valore determinante ai fini della conclusione del negozio;
• inoltre le parti dovrebbero considerarlo come certo nel suo verificarsi (non devono accettare il rischio che questo presupposto non si verifichi); Si badi che il termine “presupposizione” può essere inteso in due diverse accezioni114: può concretarsi nella situazione di un contratto concluso sulla base di un presupposto comune che si riveli inesistente (erronea supposizione circa l’esistenza di una circostanza); oppure si parla di presupposizione anche nel caso in
111 Cfr. BELFIORE, op. cit., 3.
112 Ibidem, 82.
113 Cass. Civ. 21 novembre 2001, n. 14629 in Dejure.
114 Cfr. XXXXX, op. cit., 966.
cui la condizione sia effettivamente sussistente nel momento in cui il contratto è stato concluso, ma venga meno o sia alterata nel corso dell’esecuzione dello stesso. Occorre a questo punto procedere alla disamina delle molteplici correnti dottrinali che si sono affermate in tema di presupposizione, al fine di giustificare il ricorso a rimedi invalidatori nel caso di assenza ab origine del presupposto, o risolutori nel caso in cui il presupposto sia alterato o venga successivamente meno. Superato l’ostruzionismo115 al riconoscimento giuridico della presupposizione, inizialmente ritenuta in irrimediabile contrasto con il principio di irrilevanza dei motivi116, la dottrina iniziò ad elaborare tesi dapprima di stampo
soggettivistico, per poi passare a teorie di carattere oggettivistico.
Una delle prime dottrine117 di stampo soggettivistico, superando la tradizionale teoria della tassatività delle ipotesi di essenzialità dell’errore ai sensi dell’art. 1429 c.c., ha elaborato l’idea secondo cui la falsa rappresentazione della circostanza oggetto di presupposizione dovrebbe essere qualificata come errore sui motivi118 individuali, normalmente irrilevanti. Dunque, in base a questa tesi, potrebbero divenire eccezionalmente rilevanti i motivi che integrino i presupposti del contratto, a condizione che siano riconoscibili o condivisi dall’altra parte contraente. Il rimedio accordato da questo orientamento per la presupposizione sarebbe l’annullamento del contratto.
Questo orientamento ha subito delle obiezioni di un’altra dottrina119, secondo la quale l’irrilevanza dei motivi (salvo gli errori sui motivi nella disposizione testamentaria e nella donazione) nel nostro ordinamento dipenderebbe dalla parallela rilevanza di ciò che è stato espressamente recepito nell’accordo. L’elenco tassativo di cui all’art. 1429 c.c. sarebbe dunque, secondo questo Autore,
115 Tra coloro che non riconobbero la rilevanza giuridica della presupposizione si ricorda XXXXX, in Teoria Generale del negozio giuridico, II, Torino 1994, pag 512 ss., che, riconducendo la presupposizione ai motivi, automaticamente afferma la sua irrilevanza nel nostro ordinamento; XXXXXXXXXX, Dottrine generali di diritto civile, Napoli, 1957, 194. In particolare, Xxxxxxxxxx, ha definito la presupposizione quale «modalità non sviluppata» che, pur avendo dominato la volontà della parte contraente, non risulterebbe né implicitamente, né esplicitamente dalla dichiarazione contrattuale: da qui ne discenderebbe l’irrilevanza della presupposizione quale mero motivo individuale.
116 A proposito di questo ostruzionismo si veda XXXXXXX, Il contratto, Padova, 2007, 553 ss.
117 Cfr. XXXXXXXXX, “Presupposizione” ed errore sui motivi nei contratti, in Riv. Dir. Civ., 1958, 69 ss.; XXXXX, Presupposizione ed errore sui motivi negli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza, in Giust. civ., 1998;
118 Cfr. XXXXXXXXX, L’errore nella dottrina del negozio giuridico, Padova, 1963, 502 ss.
119 Cfr. CAMARDI, Economie individuali e connessione contrattuale, saggio sulla presupposizione,
Milano, 1997, 335 ss.
insuperabile. Inoltre, l’errore sui motivi sarebbe sempre irrilevante, salvo essi siano divenuti parte dell’autoregolamentazione contrattuale.
In affinità alla dottrina sui motivi, altra corrente dottrinaria120 definisce l’assenza originaria della condizione oggetto di presupposizione quale errore bilaterale comune, che, essendo appunto condiviso dalle parti, non richiederebbe, perché rilevi, il requisito della riconoscibilità di controparte. Per errore comune sul motivo non ci si riferirebbe alla somma di due errori individuali su aspetti diversi, bensì un errore che in astratto potrebbe far sorgere tra le parti un conflitto di interessi. Laddove, dunque, si verifichi un errore di una sola delle parti, il contratto sarebbe semplicemente annullabile; qualora invece si configurasse un errore bilaterale comune, ovvero una falsa rappresentazione del fatto presupposto proprio di ambedue le parti contraenti, sarebbe configurabile la presupposizione. Altro orientamento121 di stampo soggettivo che risale al tempo in cui il codice del 1865 era vigente, si basava sul presupposto per cui in ciascun contratto fosse tacitamente apposta la clausola rebus sic stantibus, sicché qualsiasi modificazione o alterazione del contratto comporterebbe lo scioglimento del vincolo.
Con l’entrata in vigore del nuovo codice si è ipotizzato di ricondurre la presupposizione all’art. 1467 c.c.
Secondo parte della dottrina122 nell’ipotesi in cui venga meno una circostanza presupposta, il rimedio che potrebbe essere esperito è quello risolutorio, a condizione ovviamente però che lo squilibrio economico venutosi a creare sia significativo. Peraltro, anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha applicato questa soluzione interpretativa: «L’istituto della presupposizione, cui l’art. 1467 x.x. xxxxxxxxx un’ipotesi di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, ricorre allorché le parti, nella formazione del contratto, abbiano tenuto presente una situazione di fatto o di diritto rimasta inespressa, come condizionante l’accordo negoziale»123.
La presupposizione così configurata, al verificarsi di determinati presupposti, determinerebbe lo scioglimento del contratto e la conseguente perdita di efficacia dei suoi effetti.
120 Cfr. PIETROBON, Errore, Volontà e affidamento nel negozio giuridico, 469 ss., voce
Presupposizione, in Enc. giur., XXVII, Roma, 1991, 4 ss. 121 Cfr. OSTI, voce clausola rebus sic stantibus, cit. 353 ss. 122 Cfr. AMBROSOLI, op. cit., 365.
123 Cass. Civ., 17 maggio 2005, n. 10340 in DeJure.
Nonostante vi sia stato un riconoscimento giurisprudenziale della possibile riconducibilità della presupposizione alla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, non si può non rilevare come anche questa ricostruzione sia stata criticata da parte della dottrina, che si è dimostrata scettica nell’accoglierla. Parte della dottrina124 ha sottolineato infatti come la presupposizione non possa rientrare dal punto di vista normativo nel solo art. 1467 c.c. , eccedendone la portata: si dovrebbe procedere, normalmente, a risoluzione per eccessiva onerosità solo ove lo squilibrio economico dipenda da eventi straordinari e imprevedibili; viceversa l’istituto della presupposizione dovrebbe operare anche qualora gli eventi non siano straordinari e imprevedibili, a condizione che l’evento presupposto abbia influito in misura rilevante sull’economia dell’affare. Inoltre, la presupposizione riguarderebbe non solo gli eventi futuri, ma anche le circostanze presenti o passate. Ne discenderebbe che la presupposizione possa operare anche in assenza delle condizioni di operatività dell’art. 1467 c.c. e che, a sua volta, si possa configurare eccessiva onerosità anche laddove non sia stato presupposto il verificarsi di un evento dalle parti. La stessa dottrina ne ha desunto inoltre che qualora entrambi i rimedi possano operare, dovrebbe prevalere quello che dispone di specifica normativa all’interno del codice, cioè la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.
Altri Autori125 sostengono che «la radice logica della teoria della presupposizione debba essere ricercata, e ritrovata, nell’ambito della volontà dei contraenti». L’evento presupposto corrisponderebbe a ciò che ha spinto i contraenti a concludere l’affare, elemento essenziale della loro psiche che ha determinato siffatta scelta.
Ad escludere la riconducibilità della presupposizione all’eccessiva onerosità vi è sia la citata dottrina volontaristica della presupposizione, quella contenutistica- economica126.
Le dottrine più recenti, si sono progressivamente allontanate dal versante soggettivistico, cioè fondato sul dogma della volontà quale fondamento degli effetti
124 CATAUDELLA, Eccessiva onerosità sopravvenuta e presupposizione in Riv. Trimestrale di diritto e procedura civile, 2016, 789.
125 GENTILI, Presupposizione, eccessiva onerosità sopravvenuta e sopravvenienza, nota a Xxxx. Sez. III, 9 maggio 1981, n. 3074 in Giurisprudenza Italiana, 1983, 1737 ss.
126 Cfr. SEGRETO, op. cit., 57.
giuridici di ogni atto umano, per rivolgere lo sguardo ad una concezione maggiormente oggettiva.
Una corrente dottrinale127 riconosce nel canone della buona fede di cui agli artt. 1175 c.c. e 1375 c.c. il criterio principale per la verifica della compatibilità tra gli assetti contrattuali stabiliti dalle parti al momento della conclusione del contratto e le circostanze sussistenti nel momento in cui devono adempiere. La buona fede dovrebbe, in quest’ottica, costituire parametro per comprendere entro quale limite la prestazione del debitore sia esigibile nel momento in cui risultino mutate le circostanze sul presupposto delle quali il contratto è stato concluso. Aspetto proprio del principio di buona fede, trattandosi di una clausola generale, è che non sia possibile stabilire a priori in che cosa consista e secondo quali parametri debba svolgersi un giudizio secondo buona fede. Tale giudizio dovrebbe essere svolto caso per caso secondo direttive e criteri che dovrebbero variare in funzione del tipo di rapporto su cui occorre decidere. Data l’ampiezza del criterio, il giudice qualora ritenga che lo squilibrio sia tale da travolgere l’intero negozio e che non sia sufficiente una semplice modifica delle circostanze per riportare il rapporto ad equilibrio, dovrebbe procedere all’applicazione del rimedio risolutorio. Secondo una corrente dottrinale128 tuttavia, questa teoria è criticabile poiché comporterebbe un controllo sui traffici giuridici secondo una logica dirigistica, che il nostro ordinamento non accoglie.
In assenza di un criterio univoco che consenta di comprendere quale di queste teorie, siano esse soggettive o oggettive, sia la più fondata alla luce delle riflessioni sino ad ora esposte, è tuttavia possibile costatare in conclusione come il profondo interesse suscitato dal tema tra gli studiosi del diritto, abbia reso un istituto non previsto dal codice, consolidato nel diritto vivente.
Nonostante la giurisprudenza sia stata in grado, come si è visto, di definire i caratteri della presupposizione nella sentenza sopracitata, non è stata altrettanto chiara e precisa nello stabilire i criteri esperibili alla stessa presupposizione. Diversi
127 Si veda BESSONE, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1969, 18 ss.
128 Cfr. XXXXXXX, op cit., 392 ss.
sono stati infatti i rimedi che, nel corso degli anni, sono emersi quali applicabili: annullamento129, nullità e inefficacia130,recesso131 o risoluzione132.
Da una considerazione dei diversi approdi in materia, si può ricavare che in giurisprudenza la presupposizione sia, per un gran numero di casi, oggetto di contenziosi concernenti contratti di compravendita, ove peraltro non può trovare applicazione l’eccessiva onerosità di cui all’art. 1467 c.c., trattandosi di un tipo di contratto ad esecuzione istantanea. Ciò può avvenire per i motivi più disparati, ove si ha la risoluzione o la nullità del contratto, ad esempio, per mancanza dei permessi per costruire o per mancata edificabilità sul terreno oggetto di compravendita. Un esempio in tal senso è ravvisabile negli arresti di merito, ove il Tribunale di Perugia ha dichiarato «in applicazione dell’istituto della c.d. presupposizione, la risoluzione del contratto di compravendita di un immobile che le parti abbiano concluso nel comune presupposto della sua edificabilità, sempreché il fatto presupposto non abbia costituito oggetto di espressa regolamentazione»133.
Anche la Cassazione134 si è espressa in materia di presupposizione in un contratto di compravendita, confermandone la risoluzione dichiarata nel precedente giudizio di merito, secondo la quale avendo le parti, subordinato l’efficacia del contratto alla condizione sospensiva del rilascio di una concessione edilizia, la
«realizzabilità del complesso immobiliare” non poteva assumere autonoma rilevanza quale “fatto presupposto».
6. Irrilevanza delle sopravvenienze auto-indotte.
Per concludere questa panoramica sulle sopravvenienze, appare opportuno definire in quali circostanze e al verificarsi di quali presupposti, le sopravvenienze siano auto-indotte e, di conseguenza, non rilevanti ai fini dell’applicazione dei rimedi sino ad ora illustrati.
Classico esempio di sopravvenienza auto-indotta, è ravvisabile nella giurisprudenza inglese, in particolare si ricorda il caso Ocean Tramp Tankers Corporation v. V\O Sovfracht (The Xxxxxxx): nel caso di specie il vettore,
129 Trib. Milano, 11 ottobre 1948, in Foro It., 1948, I, 994.
130 Cass., 6 luglio 1971, n. 2104, in Giur, It., 1973, I, 283 ove si parla solo di inefficacia.
131 Cass.,25 maggio 2007, n. 12235, in DeJure.
132 Cass., 14 agosto 2007, n. 17698, in DeJure, ove la presupposizione è stata ricondotta alla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta di cui all’art. 1467 c.c.
133 Trib. Perugia sez. II, 21 ottobre 2021, n. 1383 in DeJure.
134 Cass. Civ. Sez III, 10 febbraio 2003, n. 1952 in DeJure.
nonostante in forza di una “general war clause”, contenuta in un contratto di trasporto di ferro e acciaio, si sarebbe dovuto astenere dal percorrere acque pericolose, decise comunque di attraversare il canale di Suez, in quel momento storico considerato zona pericolosa per gli eventi politico- militari in corso; l’alternativa, che, secondo quanto stabilito dalla clausola avrebbe dovuto essere prescelta dal vettore, era quella di navigare intorno al Capo di Buona Speranza, nonostante comportasse il percorrere una tratta decisamente più lunga, poiché non pericolosa. Nel momento in cui la nave si trovò ad attraversare il canale, questo venne chiuso e fu sequestrata: a fronte di ciò il vettore, riteneva questo evento quale “frustration” nella terminologia anglosassone, con cui auspicava di sottrarsi ai danni da lui cagionati per non aver rispettato la clausola del contratto; tuttavia, trattandosi di una sopravvenienza self- induced, cioè causata dal soggetto che l’aveva provocata, risultò irrilevante ai fini dell’esenzione dal risarcimento danni.
Per comprendere se si è in presenza di una sopravvenienza auto-indotta, in generale, è necessario comprendere se una, o entrambe le parti, attraverso la loro condotta, abbiano cagionato l’evento perturbativo.
Nonostante inizialmente si sia tentato nel nostro ordinamento di risolvere il problema del nesso di causalità con gli stessi criteri adottabili in materia penale (teoria condizionalistica che subisce i correttivi della sussunzione sotto leggi scientifiche e della causalità adeguata), in giurisprudenza si è evidenziata la differenza di fondo tra responsabilità civile e penale. La Cassazione ha infatti affermato che, affinché si configuri responsabilità aquiliana (dunque un nesso di causalità tra un fatto antecedente a un successivo evento lesivo) occorrono due condizioni: deve trattarsi di un «antecedente necessario all’evento, nel senso che questo rientri tra le conseguenze normali ed ordinarie del fatto, e che l’antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l’evento»135. La condotta di una delle parti inoltre, potrebbe non aver direttamente causato l’evento perturbativo, ma comunque averne accelerato il sopravvenire: la giurisprudenza in tema di causalità è pacifica nel ritenere necessario il ricorso136 ad un giudizio controfattuale, volto a comprendere se l’evento si sarebbe comunque verificato anche in assenza della
135 Cass. Civ. Sez III, 15 febbraio 2003, n.2312.
136 Cass. pen. sez. IV, 14 gennaio 2003, n.15461.
condotta considerata, tenuto ovviamente conto, nel compiere questo giudizio, di una regola di esperienza generalizzata e/o di una legge scientifica.
Sarà dunque necessario comprendere se la condotta di una delle parti, nel causare l’evento perturbativo, sia stata sorretta da dolo o colpa137. Si deve infatti escludere come sussistente una sopravvenienza nelle ipotesi in cui la condotta di un soggetto sia sorretta da un qualsiasi elemento psicologico, sia esso dolo o colpa, fatta eccezione per i casi di responsabilità oggettiva.
Circa l’applicabilità del rimedio risolutorio al verificarsi di sopravvenienze autoindotte, si sono sviluppate correnti dottrinali contrastanti.
In generale, in forza del principio generale “nemo potest venire contra factum proprium”, si dovrebbe escludere la possibilità di ricorrere a siffatto rimedio in tutte le ipotesi in cui l’impossibilità sia stata causata dal debitore. Ciò può essere desunto, a contrariis, dalla considerazione delle norme sull’impossibilità sopravvenuta. In particolare, l’art. 1218 c.c. esenta il debitore dall’obbligo di risarcire i danni laddove dia prova che l’impossibilità dipende da causa a lui non imputabile, sicché l’obbligazione si estingue (art. 1256 c.c.) e il contratto si risolve (art. 1463 c.c.).
Tuttavia, le norme fin qui considerate, non prendono in analisi specificamente l’ipotesi in cui sia stato il creditore ad aver causato la sopravvenienza. Se si ammettesse la risoluzione del contratto nelle ipotesi in cui ad aver causato l’impossibilità della prestazione sia stata la parte che deve riceverla, cioè la parte creditrice, si potrebbero verificare due effetti negativi138:
• l’impossibilità del debitore di ricevere la prestazione del creditore, ancora possibile di esecuzione
• l’occasione della parte creditrice, cagionando l’impossibilità dell’altrui prestazione, di liberarsi in ogni momento del contratto quando non abbia più alcun interesse a mantenerlo in vita.
Su questo interrogativo, un primo orientamento dottrinale139, ha ritenuto applicabile la risoluzione ai sensi dell’art. 1463 c.c., anche nel caso in cui
137 Su queste rifessioni in tema di accertamento di dolo e colpa si veda MARCHESINI, op. cit., 69 ss.
138 Su questi aspetti negativi si rimanda a AL MUREDEN, op. cit., 104.
139 A proposito dell’obbligo in capo al debitore di risarcire i danni si rimanda a COTTINO, L’impossibilità di ricevere o di cooperare del creditore e l’impossibilità della prestazione, in Riv.Dir. Comm., 1948, 444; COTTINO, Questioni in materia di impossibilità della prestazione, in Riv. Dir. Comm., 1951, 78 ss; XXXXXXX, Diritto civile e commerciale, cit., 465; ROPPO, op. cit.,
l’impossibilità sia imputabile al creditore, facendo salvo però il diritto al risarcimento dei danni in capo al debitore che non abbia potuto ricevere la prestazione da lui attesa a causa dello scioglimento del contratto. Il risarcimento dovrebbe essere pari all’interesse positivo, comprendendo il mancato guadagno, cioè la differenza tra il corrispettivo inizialmente pattuito e le spese che non sono poi state più sostenute dal debitore in ragione della risoluzione.
Altra parte della dottrina140 ha qualificato il comportamento del creditore quale violazione del dovere di cooperazione nell’esecuzione del contratto ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., dunque come inadempimento. Ne conseguirebbe la possibilità per il debitore di richiedere l’adempimento o, in alternativa, la risoluzione del contratto per inadempimento ai sensi dell’art.1453 c.c. Infine, altri Autori141, escludono l’applicabilità del rimedio risolutorio qualora l’impossibilità sia imputabile al creditore per le ragioni che seguono:
• dalla considerazione complessiva delle norme del nostro ordinamento si evince che la parte che ha cagionato l’impossibilità, non possa utilizzare questa evenienza a proprio favore per liberarsi del contratto senza incorrere in responsabilità142;
• così come il rischio della sopravvenuta impossibilità grava sul creditore qualora egli sia in mora (art. 1207 c.c.), non si vede perché tale rischio non dovrebbe essere a lui accollato laddove l’impossibilità sia stata da lui stesso provocata per fatto proprio o per aver rifiutato di cooperare a tal fine.
• infine, escludere l’applicabilità del rimedio risolutorio per i casi di impossibilità imputabili al creditore semplificherebbe l’onere probatorio in capo al debitore, il quale dovrebbe solamente fornire prova del corrispettivo inizialmente
887-888, ove si specifica che il risarcimento si fonda su di una responsabilità contrattuale ai sensi dell’art. 1218 c.c. e dunque anche il conseguente risarcimento dovrà essere calcolato secondo questi criteri: l’interesse positivo corrisponde infatti al danno emergente sommato al lucro cessante.
140 Cfr. XXXXXXXX, Incapacità naturale e adempimento, Napoli, 1950, 144 ss; ROLLI,
L’impossibilità sopravvenuta della prestazione imputabile al creditore, Torino, 2004, 216.
141 Cfr. TRIMARCHI, op.cit., 326; XXXXXXXX, in LUMINOSO, CARNEVALI, COSTANZA,
Della risoluzione per inadempimento, in
Comm. Cod. civ., Scialoja- Branca, a cura di XXXXXXX, Bologna- Roma, 1990, 154-155; CATTANEO, voce Mora del creditore, in Dig. disc. priv., sez. civ. XI. Torino, 1994, 439;
142 Cfr. XXXXXX, Impossibilità della prestazione per fatto imputabile al debitore, Milano, 1995,335, ove, facendo leva su altre disposizioni presenti nel nostro ordinamento, si rileva come una parte non possa giovare dell’impossibilità da lei causata (ad esempio l’art 406 del codice navale stabilisce che laddove il viaggio sia interrotto per fatto imputabile al passeggero, lo stesso debba essere pagato interamente dal passeggero stesso).
concordato. Viceversa, spetterebbe al creditore l’onere di provare risparmi e arricchimenti conseguiti dal debitore.
Il quesito circa la rilevanza delle sopravvenienze auto-indotte si pone non solo per l’impossibilità sopravvenuta ma anche per la presupposizione e l’eccessiva onerosità sopravvenuta. Anche in questo caso, parte della dottrina143 si è espressa ritenendo presente nel nostro ordinamento un principio generale in forza del quale, la parte che ha dato origine alla sopravvenienza non possa richiedere la risoluzione per sciogliere il contratto e quindi sottrarsi dal suo obbligo ad adempiere. Ciò peraltro non è altro che il frutto del principio dapprima richiamato, il divieto di venire contra factum proprium144.
Così come non è concesso al debitore, nemmeno il creditore, può richiedere la risoluzione del contratto per impossibilità a lui imputabile. La stessa ratio è dunque, secondo questa dottrina, applicabile laddove sia la parte creditrice ad aver determinato l’eccessiva onerosità della prestazione, lo svilimento della controprestazione o il venir meno dell’evento oggetto di presupposizione nel contratto.
In conclusione, è poi possibile, alla luce delle considerazioni sino ad ora svolte, evincere l’irrilevanza giuridica delle sopravvenienze auto-indotte, facendo riferimento alla stessa definizione di sopravvenienza, la quale dipende dalla presenza di “eventi straordinari e imprevedibili”, posti al di fuori della sfera di controllo delle parti. Dunque, il quesito che occorre risolvere per comprendere se una sopravvenienza rilevi, è se l’evento sia straordinario e imprevedibile. Escludere la rilevanza di eventi non straordinari e prevedibili/prevenibili dalle parti implica logicamente l’irrilevanza degli eventi perturbativi causati dalla parte che li fa valere ai fini della risoluzione del contratto.
143 Cfr. AL MUREDEN, op. cit., 108-109.
144 In particolare, circa il divieto di venire contra factum proprium si veda SALVI, voce Abuso del diritto in Enc. Giur. XXI, Roma, 1999, 1 ss.; PATTI, voce Abuso del diritto, in Dig. disc. Priv. sez. civ., I, Torino, 1987, 1 ss.;
Capitolo II
ADEGUAMENTO DEL CONTRATTO NEL DIRITTO EUROPEO E INTERNAZIONALE
SOMMARIO: 1. Rinegoziazione del contratto nei Principles della Commissione Europea e nei Principi Unidroit – 2. Révision pour imprévision nel Code Civil Francese – 3. Inghilterra e principio della sanctity of contract – 4. Esperienza americana e c.d. doctrine of impraticability.
1. Rinegoziazione del contratto nei Principles della Commissione Europea e nei Principi Unidroit.
L’analisi delle sopravvenienze è stata sino ad ora compiuta in un’ottica esclusivamente nazionale, riferendosi al solo ordinamento italiano. Perché però questa disamina acquisisca carattere di completezza e coerenza, si deve ora volgere lo sguardo verso altri ordinamenti, a partire da quelli c.d. sovranazionali, tenuto conto che, da circa un decennio, si è rilevato un accresciuto interesse da parte degli organi internazionali all’adozione di rimedi di carattere manutentivo, quali la rinegoziazione dei contratti (in alternativa ai rimedi ablativi), al fine di regolarne le modalità di utilizzo per gli scambi che coinvolgono paesi di tutto il mondo145. Parte della dottrina ha infatti rilevato come la nazionalizzazione del diritto privato, iniziata nell’Ottocento, abbia avuto quale esito positivo la concentrazione della sovranità degli Stati moderni; tuttavia ne è conseguito anche un effetto negativo, cioè il fatto che la nazionalità del diritto privato si sia «rivelato un ostacolo ai rapporti economici, sempre più intensi, tra cittadini di Stati diversi: un ostacolo, soprattutto per le imprese che agiscono su mercati internazionali e che collocano merci in Stati diversi, aventi ciascuno un proprio diritto»146.
Partendo dalla Comunità Economica Europea, oggi Unione Europea, essa nasce con l’obiettivo di costruire un mercato unico europeo, ove fossero predisposte uguali condizioni per tutti gli operatori giuridici dei diversi paesi membri. In questo senso la realizzazione di un diritto europeo dei contratti costituisce nella storia
145 Si veda sul punto XXXXXXX, cit.,95.
146 Ibidem, 90.
dell’UE uno degli ostacoli più grandi, date le difficoltà di coordinazione linguistica e culturale dei diversi paesi. A fronte di questi ostacoli, inizialmente nasce nel legislatore europeo l’idea di intervenire settorialmente su singole tipologie di contratto, utilizzando quale strumento principale la direttiva, così delegando ai singoli stati il compito di dare attuazione alla disciplina sovranazionale, ma talvolta servendosi anche di strumenti di soft law, pur non avendo quest’ultimi forza giuridica vincolante.
Data la frammentarietà della normativa europea, il legislatore ha poi successivamente deciso di adottare normative concernenti interi settori del diritto (ad esempio la normativa a tutela dei consumatori, oggi contenuta nel codice del consumo, e quella in materia di franchising). Grazie a queste iniziative ha così portato alla luce principi giuridici comuni a tutti gli stati, anche se appare ancora lontana la realizzazione di un Codice civile Europeo, che non sembra essere ancora tra le opzioni plausibili dell’Unione, anche e forse soprattutto, per le resistenze dei singoli stati membri alla sua realizzazione. Ciononostante, il processo di uniformazione e di coordinamento tra le discipline statali, si sta a mano a mano realizzando, percorrendo vie alternative: il progressivo superamento delle barriere statali con la conseguente nascita di una coscienza giuridica comune, si sta realizzando attraverso un costante dialogo tra dottrina, giurisprudenza, operatori giuridici e organi comunitari. In questo senso, uno dei contributi dottrinali di maggior rilievo a livello comunitario in materia di sopravvenienze e non solo, è stato fornito dalla Commission Of European Contract Law147, anche denominata Commissione Lando (dal nome del suo presidente): progetto che ha visto la collaborazione di giuristi di provenienza giuridico-culturale diversa che, grazie ad un serrato dibattito, ha portato alla nascita e alla predisposizione di principi comuni in materia di diritto contrattuale europeo. Sono stati così elaborati i Principles Of European Contract Law (PECL), norme rivolte ad un numero rilevante e indefinito di destinatari (tra cui le imprese e i consumatori), le quali non solo consentiranno ai giuristi di operare nel contesto europeo con maggior certezza, ma costituiranno anche la base per un ipotetico futuro Codice civile europeo.
147 Cfr. XXXXXXX, DE XXXXXXXX, XXXXXX, Il contratto, Tomo Primo, 2013, 120 ss.
La norma principe a livello comunitario in materia di sopravvenienze è l’art. 6:111 PECL rubricato “mutamento delle circostanze”148, in cui è stabilito che
«ciascuna parte è tenuta ad adempiere le sue obbligazioni anche quando la prestazione sia divenuta più onerosa o perché il costo ne sia aumentato o perché sia diminuito il valore della prestazione alla quale ha diritto». L’articolo prosegue poi specificando che «se però la prestazione è divenuta eccessivamente onerosa per il mutamento delle circostanze, le parti sono tenute a intavolare trattative per modificare o sciogliere il contratto, nel caso in cui: (a) il mutamento di circostanze si verifichi dopo la conclusione del contratto, (b) il mutamento di circostanze non fosse una possibilità suscettibile ragionevolmente di essere presa in considerazione al momento della conclusione del contratto, e (c) il rischio di mutamento delle circostanze non sia uno di quelli che, in relazione al contratto, la parte che lo subisce possa essere tenuta a sopportare. Se le parti non riescono a raggiungere un accordo in un tempo ragionevole, il giudice può (a) sciogliere il contratto a far data da un termine e alle condizioni che il giudice stesso stabilirà o (b) modificare il contratto in modo da distribuire tra le parti in maniera giusta ed equa le perdite e i vantaggi derivanti dal mutamento di circostanze. Nell’un caso e nell’altro il giudice può condannare al risarcimento dei danni per la perdita cagionata dal rifiuto di una parte di intavolare trattative o dalla rottura di esse in maniera contraria alla buona fede e alla correttezza».
Dalla lettura dell’articolo, si coglie come laddove la prestazione sia divenuta “eccessivamente” onerosa, e non soltanto maggiormente onerosa, le parti saranno tenute a porre in essere trattative per modificare il negozio o scioglierlo.
Questa disposizione descrive un’ipotesi di sopravvenienza contrattuale sovrapponibile all’eccessiva onerosità sopravventa di cui all’art. 1467 c.c. italiano: in particolare dopo aver sancito l’obbligo delle parti di adempiere il contratto, anche se divenuto maggiormente oneroso, stabilisce una serie di requisiti al verificarsi dei quali le parti potranno giovare di un apparato rimediale.
A tal fine la sopravvenienza, cioè il mutamento delle circostanze deve:
• essere sopravvenuto, cioè verificarsi dopo il perfezionamento del contratto;
148 Per una visione più completa sul tema del mutamento delle circostanze nei Principi in materia di diritto europeo dei contratti si rimanda a BARCELLONA, Appunti a proposito di obblighi di rinegoziazione e gestione delle sopravvenienze, in Eur. Dir. Priv., 2003, 467 ss.
• non deve essere un’eventualità plausibile nel suo verificarsi al momento della conclusione dell’accordo;
• non deve trattarsi di uno di quei rischi che le parti hanno consapevolmente assunto con la conclusione del contratto;
Soddisfatte queste tre condizioni149, le parti avranno a disposizione un apparato rimediale consistente nella seguente alternativa: lo scioglimento del contratto oppure la sua rinegoziazione.
La disposizione in esame chiarisce poi le modalità150 con cui i contraenti dovranno procedere alla rinegoziazione, tra le due opzioni la favorita dal legislatore, stabilendo il rispetto dei principi di buona fede e correttezza ma anche il rispetto di un requisito temporale “ragionevole” nello svolgere le trattative, tenuto conto della singola fattispecie.
Alternativamente sarà il giudice ad intervenire, sciogliendo il contratto oppure riconducendolo ad equità, riportandolo in equilibrio.
Infine, la normativa europea prevede la possibilità di richiedere il risarcimento del danno nei confronti di colui che abbia interrotto o addirittura rifiutato sin dal principio di condurre le trattative, ponendosi in contrasto con il principio di buona fede. La norma, dunque, in continuità, come si vedrà in seguito, con i principi internazionali, prevede quale elemento di novità la possibilità, laddove la rinegoziazione tra i contraenti ottenga esito negativo, l’intervento integrativo del giudice che potrà, in base alla singola fattispecie su cui è tenuto a decidere, sciogliere il contratto oppure modificarlo151, mantenendolo in essere.
Parte della dottrina italiana152, ha tuttavia sottolineato come, affinché vi sia l’intervento giudiziale occorre che il mutamento delle circostanze abbia «cagionato un importante squilibrio del contratto» sicché «il modello della eccessiva onerosità entra in gioco soltanto quando il contratto è completamente ribaltato dagli eventi, in modo che se pure esso può essere ancora adempiuto, questo comporterà costi del tutto esagerati per una delle parti». Aspetto importante sottolineato dall’Autore è dunque che «il giudice non deve interferire quando vi sia un puro e semplice squilibrio delle prestazioni». Si evince dalla stessa dottrina come l’intervento del
149 Cfr. GIUSTI, op. cit., 111.
150 Cfr. XXXXXXX, DE XXXXXXXX, XXXXXX, op. cit., 163-164.
151 Cfr. GIUSTI, op. cit., 113.
152 Cfr. XXXXXXXXXX, Principi di diritto Europeo dei Contratti, Milano, 2001, 363 ss.
giudice sia da considerarsi eccezionale, anche dal fatto che si sottolinei come egli possa apportare delle modifiche, ma non «riscrivere il contratto nel suo insieme”, non potendo creare “un contratto nuovo tra le parti»153.
Analogamente ai PECL, il tema delle sopravvenienze è stato affrontato a livello europeo altresì nel Draft Common Frame of Reference, un progetto di Codice civile Europeo elaborato da una commissione accademica coordinata da Xxxxxxxxx Xxx Xxx. La versione finale154 del progetto accademico del quadro comune di riferimento (DCFR) è stata consegnata nel 2008, poi modificata nel 2009. Attualmente la Commissione sta effettuando una selezione interna, il cui scopo è stabilire quali parti del DCFR saranno integrate in un quadro comune di riferimento politico.
Non vi sono dubbi sul fatto che la sussistenza di ventisette sistemi giuridici nazionali diversi produca problemi nei mercati interni, anche perché le norme di diritto internazionale non forniscono alle parti contraenti una totale libertà di scelta circa la legge applicabile. Nonostante la Commissione Europea, tramite lo strumento delle direttive, abbia tentato di superare le barriere nazionali, questo strumento non si è dimostrato totalmente efficace e non ha sortito gli effetti sperati. In quest’ottica, si sostiene155 come le direttive abbiano come effetto indesiderato la frammentazione del diritto nazionale, rendendo così il diritto privato eccessivamente complesso.
Di fronte a questa problematica, il Draft Common Frame of Reference propone, in alternativa all’armonizzazione perseguita dalla Commissione Europea, “an optional instruments”, che non frammenta e non ha effetti diretti sul diritto nazionale, non richiedendo conciliazione alcuna tra il diritto nazionale e quello europeo. In particolare, nel libro III, all’art. 1:110 DCFR, rubricato “mutamento delle circostanze essenziali”156, dopo la specificazione per cui un’obbligazione deve essere comunque eseguita anche se divenuta più onerosa157, è espresso il principio per cui, qualora l’adempimento del contratto sia divenuto, a causa di un mutamento
153 Ibidem, 366.
154 Cfr. The common frame of reference: an optional instument? In xxx.xxxxxxxx.xxxxxx.xx.
155 Cfr. Ibidem, p.7.
156 Sul DCFR si vedano le riflessioni di XXXXXXX, Il diritto all’esatto adempimento e i suoi limiti nel diritto privato europeo, in Persone e Mercato, 272 ss.
157 La norma specifica che può essere divenuta maggiormente onerosa o perché è aumentato il costo della prestazione oggetto di obbligazione, oppure perché è diminuito il valore della prestazione da eseguirsi.
successivo delle circostanze, così oneroso per il debitore da considerarsi “manifestly injust” costringerlo ad adempiere158, è possibile invocare l’ intervento del giudice il quale potrà, alternativamente:
• modificare il contenuto della prestazione rendendola equa e ragionevole nel suo contenuto;
• sciogliere il contratto o estinguere l’obbligazione a partire da un termine e alle condizioni decise dallo stesso giudice;
Dunque, il DCFR, così come si è potuto osservato nella normativa predisposta dai PECL, propende per un adempimento in forma specifica, in conformità alle previsioni dei sistemi di Civil Law, anche laddove la prestazione sia divenuta maggiormente onerosa. Allo stesso modo, tuttavia, sempre in continuità a quanto si è visto nei PECL, il DCFR adotta la prospettiva dei sistemi di Common Law, predisponendo dei xxxxxx000: è infatti esente da responsabilità per inadempimento (excuse) il debitore dipenda da fattori che non rientrano nella sfera di controllo di quest’ultimo160.
Quale aspetto unificante con i PECL è rilevabile, dunque, l’intervento integrativo del giudice, ogni volta in cui le parti contraenti non siano in grado, al verificarsi di un’eccessiva onerosità causata da un mutamento delle circostanze, di raggiungere un nuovo accordo riequilibrante.
Così come in ambito europeo, anche a livello internazionale ci si è preoccupati di disciplinare le sopravvenienze che si verificano nei contratti di commercio internazionale, per mezzo dei Principi Unidroit161 . Preliminarmente, occorre evidenziare come siffatte clausole162 siano il frutto delle prassi nei contratti internazionali, a seguito del diffondersi dei cc. dd. long term contracts163 (letteralmente contratti di lunga durata), nel corso della cui esecuzione è più frequente si verifichi una sopravvenienza contrattuale. In questi tipi di contratti
158 Sul punto MIKELSEN-K. XXXXXXXXX, The DCFR Rules on Unexpected Difficulties in Performance, in European Review of Private Law, 2009, p. 573.
159 XXXXXXX, op. cit., 271.
160 Si veda l’art. 3:104 DCFR.
161 Questi principi risalgono al 1994 e si costituiscono di 211 regole volte ad armonizzare il diritto commerciale internazionale. La necessità di siffatti principi si era peraltro palesata già nel 1984, quando un gruppo di lavoro internazionale dell’UNIDROIT, aveva già predisposto norme per l’armonizzazione delle legislazioni statali.
162 Per un approfondimento sulle hardship clauses si rimanda a FRIGNANI, Hardship Clause, in
Dig. Disc. Priv., sez. comm., XX, Xxxxxx,0000, 446 ss; FRIGNANI, Le clausole di hardship, in AA.
VV. Inadempimento, adattamento, arbitrato, Milano,1992, 323 ss.
163 Cfr. AMBROSOLI, op. cit., 326-327.
tuttavia, le parti contraenti, qualora si produca un evento perturbativo, preferiscono rinunciare alla risoluzione, il rimedio ablativo per eccellenza, e rinegoziare invece i termini del contratto, in modo tale che questo risulti confacente alla realtà sopravvenuta in cui si inserisce. Parte della dottrina ha peraltro sottolineato che il rifiuto nel ricorrere al rimedio risolutorio, dipende da esigenze strettamente pratiche dato che, soprattutto nel commercio internazionale, vedersi risolvere un contratto, ad esempio, con un fornitore di beni può risultare catastrofico per l’attività economica dell’acquirente, poiché spesso si tratta dell’unico fornitore del bene di suo interesse presente sul mercato (si tratta dei cc. dd. mercati oligopolistici164).
In questo contesto, il fine principale delle parti contraenti non consiste nel caducare il contratto, ma nel rinegoziarne165 i termini, in modo tale che continui a produrre gli effetti che si erano proposte di realizzare dal momento della sua conclusione: obiettivo perseguibile tramite l’inserimento espresso nel contratto di una clausola di hardship.
Il termine “hardship” (che letteralmente significa difficoltà, avversità), si riferisce166 infatti a quelle circostanze sopravvenute del contratto che ne complicano sensibilmente l’esecuzione. La hardship clause in generale predispone un apparato rimediale consistente nell’alternativa che segue:
• sospensione del contratto (anche se questa soluzione non è sempre attuabile);
• rinegoziazione dei termini del contratto
Tuttavia, le hardship clauses non hanno contenuto standardizzato: può infatti variare a seconda del settore economico in cui il singolo contratto si inserisce, dell’obiettivo che si vuole realizzare per il suo tramite, ma anche in base alla cultura giuridica di riferimento. Si è infatti rilevato in dottrina167 come nei sistemi anglo- americani, rispetto ai sistemi continentali, le clausole siano maggiormente dettagliate nel loro contenuto e ciò deriva dalla tendenza della giurisprudenza di
164 Cfr FRIGNANI, La hardship clause nei contratti internazionali e le tecniche di allocazione dei rischi negli ordinamenti di civil e di common law, in Riv. Dir. Civ, 1979, 684.
165 Sulla rinegoziazione dei contratti in una prospettiva comparatistica e internazionale si veda TRAISCI, Sopravvenienze contrattuali e rinegoziazione nei sistemi di civil e di common law, Napoli, 2003; XXXXXXXX, Sopravvenuto squilibrio delle prestazioni (hardship) e adattamento dei controli nel commercio internazionale, in ALPA-CAPILI, Lezioni di diritto privato europeo, Padova, 2007.
166 Cfr. XXXXXXX, La rinegoziazione del contratto, strumenti legali e convenzionali a tutela dell’equilibrio negoziale, Padova, 2006, 61.
167 Cfr. XXXXX, L’adaption convenuta dalle parti, in AA. VV., Il conflitto del golfo e i contratti d’impresa; esecuzione, adattamento e risoluzione in uno scenario di crisi, Milano, 1992, 48.
common law di intendere in modo assoluto il principio pacta sunt servanda, ogni qualvolta vi sia la mancanza di un’espressa clausola contrattuale che disciplini la gestione di una sopravvenienza.
Parte della dottrina168 ha definito la hardship clause, quale «strumento contrattuale tendenzialmente idoneo a porre rimedio a qualsiasi circostanza sopravvenuta, quale ne sia l’origine o la natura, nella prospettiva di assicurare la continuazione del rapporto giuridico ed economico colpito dalla sopravvenienza». Lo stesso Autore169, rileva peraltro che le clausole di hardship non sono inserite nei contratti solo per porre rimedio alle sopravvenienze imprevedibili, ma anche quelle che le parti avrebbero potuto prevedere, ricomprendendovi così anche quelle ipotesi di sopravvenienza riconducibili alla presupposizione. Unico requisito perché tali clausole possano rimediare agli eventi perturbativi è che essi modifichino in misura rilevante l’equilibrio del negozio.
Il tema delle hardship clause è stato oggetto di specifico interesse dell’Unidroit, il quale ha elaborato un corpo di principi generali applicabili a tutti i contratti nell’ambito del commercio internazionale, con una duplice funzione: dirimere le controversie sorte nel commercio internazionale e orientare i privati e i legislatori statuali e internazionali. Nonostante tali principi siano privi di vincolatività normativa immediata, essi finiscono per trovare concreta attuazione tutte le volte i cui siano oggetto di richiamo dei singoli contratti internazionali.
I sopracitati Principles Of International Commercial Contracts170 tuttavia, nel confermare il principio di vincolatività dei contratti (pacta sunt servanda) non lo interpretano in maniera assoluta, ma lo contemperano con il principio rebus sic stantibus, che permette, come si è più volte rilevato, di derogare il contenuto del contratto laddove si verifichino eventi perturbativi sopravvenuti.
In questo senso, l’art 6.2.1 dei Principi Unidroit, rubricato “obbligatorietà del contratto” sancisce che «se l’adempimento del contratto diviene più oneroso per una delle parti, tale parte rimane ugualmente obbligata ad adempiere alle sue obbligazioni, salvo quanto previsto dalle seguenti disposizioni sull’hardship». Dalla lettura della norma si può ricavare, come si è detto, che il principio secondo
168 GALLETTO, La clausola rebus sic stantibus, in ALPA E BESSONE, I contratti in generale, in
Giur. Sist. Civ. e Comm., Torino, 1991, 563.
169 Cfr. FRIGNANI, op. cit., 701.
170 Cfr. XXXXXXX, op. cit., 73.
cui i patti devono essere rispettati, non è inderogabile, ma viene meno laddove sopravvenga un fatto non prevedibile che incida sull’equilibrio del contratto, dunque eccezionale171, definibile appunto, nel lessico anglosassone, di hardship. La cui definizione è contenuta nell’articolo successivo dei Principi Unidroit (art. 6.2.2) in base al quale sussiste hardship «quando si verificano eventi che alterano sostanzialmente l’equilibrio del contratto, o per l’accrescimento dei costi della prestazione di una delle parti, o per la diminuzione del valore della controprestazione, e (a) gli eventi si verificano, o divengono noti alla parte svantaggiata, successivamente alla conclusione del contratto; (b) gli eventi non potevano essere ragionevolmente presi in considerazione dalla parte svantaggiata al momento della conclusione del contratto; (c) gli eventi sono estranei alla sfera di controllo della parte svantaggiata; e (d) il rischio di tali eventi non era stato assunto dalla parte svantaggiata».
Dunque, la norma ipotizza due possibili cause del disequilibrio: l’aumento dei costi per una parte nell’eseguire la prestazione oppure, in alternativa, la diminuzione o l’azzeramento del valore della prestazione ricevuta da una delle parti. Inoltre, emerge che, ai fini della rinegoziazione, non sia rilevante qualsiasi evento perturbativo, bensì solo quello che “in modo grave e sostanziale (foundamentally) altera l’equilibrio contrattuale”172.
Parte della dottrina173 ha rilevato come, la nozione di “hardship” contenuta nella norma, si riferirebbe a difficoltà a adempiere esclusivamente economiche.
Una seconda accezione174 della clausola individuerebbe invece il mutamento in fenomeni – siano essi nazionali o sovranazionali – di carattere non solo economico, ma anche finanziario, monetario, commerciale, politico, normativo, dunque derivante ad esempio dall’inflazione monetaria, dalle continue modifiche delle normative in materia di importazione o esportazione o negli eccezionali rialzi del costo delle materie prime, delle imposte o dei dazi doganali.
L’ultimo articolo che rileva di questo corpus è l’art. 6.2.3, che regola gli “effetti dell’hardship”, stabilendo come, la parte colpita da sopravvenienza e per
171 Su queste riflessioni si rimanda a GIUSTI, op. cit., 97-98.
172 XXXXXXX, op. cit., 74
173 Cfr. XXXXXXXXXX, Clausole negoziali, Profili teorici e applicativi di clausole tipiche e atipiche, Clausola di hasrdship, a cura di XXXXXXXXXX, 2017, 1038.
174 Cfr. XXXXXXXX, Arbitrato e «hardship clause»: una prassi internazionale nuova per una diversa allocazione e gestione del rischio contrattuale, in Rass. arbitrato, 1980, p. 36 ss.
questo motivo svantaggiata, possa richiedere la rinegoziazione del contratto, indicandone i motivi, senza la possibilità però di addurre un ingiustificato motivo. La parte richiedente la rinegoziazione non potrà, nel frattempo, considerare sospesa la sua prestazione, se non per circostanze straordinarie. Laddove poi i contraenti, non riescano entro un termine congruo ad accordarsi, potranno rivolgersi al giudice, il quale, qualora verifichi la sussistenza di un’hardship175 potrà alternativamente risolvere il sinallagma oppure modificarlo, riequilibrandolo.
Un caso176 che, a livello esemplificativo, consente di mettere in luce gli orientamenti giurisprudenziali in relazione all’applicabilità dei Principi Unidroit riguarda un contratto concluso tra una società francese ed una spagnola, al fine di costruire una strada in Algeria, paese che, in quel momento, si trovava in una difficile situazione politica, al punto da rendere molto più complicato l’adempimento della società francese. Quest’ultima decise quindi di invocare gli artt. 6.2.2 e 6.2.3 in materia di hardship, considerandolo quale principio applicabile ad ogni contratto di natura internazionale. La Corte arbitrale, tuttavia, ha ritenuto che la rinegoziazione del contratto volta a riequilibrarlo, sarebbe un principio eccezionale dal punto di vista applicativo, attuabile solo laddove siano le parti a richiamare siffatto principio in una specifica clausola contrattuale, che definisca a quali condizioni sia configurabile l’hardship. Così facendo la Corte arbitrale ha escluso che i principi Unidroit possano considerarsi quali usi del commercio internazionale33, trattandosi invece di principi che si applicano solo eccezionalmente per espresso richiamo dei singoli contratti internazionali. Ciò non significa però vi sia una giurisprudenza consolidata: a titolo esemplificativo, infatti, si può ricordare un caso avente ad oggetto la vendita e l’installazione di attrezzature militari, ove invece la Corte Arbitrale fece riferimento all’art. 6.2.3 dei principi Unidroit considerando siffatti principi come impliciti in ciascun contratto, sicché
175 Si rileva come le sentenze aventi ad oggetto le modalità di redazione o gli effetti delle clausole sono perlopiù straniere e pronunziate da collegi arbitrali, proprio per la loro diffusione nei commerci internazionali. Tra esse, si segnalano: Georgia Power Co. x. Xxxxxxxx Coal Corp., 526 F. 2d 101 (U.S. Court of Appeals, 6th Circ., 9.12.1975); Cass. 28.3.1976, in J.C.P., 1976, II, n. 18810, con nota di XXXXXX X.; Mc Xxxxx Oil and Gas Co., Freeport – Mc Xxxxx Inc. and FMP Operating Co. v. KN Energy Inc., 942 F. 2d 765 (U.S. Court of Appeals, 10th Xxxx., 00.0.0000.
176 Lodo CCI n.8873/1997, in Bulletin de la Cour international d’arbitrage CCI, 10(2), 1999, 81-
84. Nello stesso senso si veda il lodo arbitrale CCI n.9029/1998, in Bulletin de la Cour internationale d’arbitrage de la CCI 10(2), 1999, 91 ove si dice che “non vi è allo stato attuale la possibilità di considerare il richiamo ad alcune disposizioni dei Principi come equivalente al riferimento agli usi commerciali realmente esistenti nella pratica internazionale”. 34Cfr. lodo CCI n.7365/FMS/1997, in xxx.xxxxxx.xxxx.
“le parti non sono vincolate ad adempiere alle rispettive prestazioni, se un evento imprevisto alteri sensibilmente i termini contrattuali”34. La Corte si sofferma anche sui concetti di hardship e di clausola rebus sic stantibus considerabili “come espressione della lex mercatoria, in quanto riconosciuta in molti sistemi giuridici”177.
Dall’analisi delle norme contenute nei Principi Unidroit si possono svolgere alcune riflessioni. In primo luogo, è possibile ravvisare l’evidente differenza nel porre rimedio alle sopravvenienze in ambito nazionale, ove si predilige la risoluzione, dal contesto internazionale, ove il rimedio ablativo è visto quale extrema ratio e la soluzione privilegiata è costituita dalla rinegoziazione dei contratti. In secondo luogo, si osserva come le parti possano rivolgersi al giudice solo laddove abbiano esperito un tentativo di rinegoziazione secondo buona fede178 conclusosi con esito negativo: così come si è visto nei PECL, anche in questo caso il giudice potrà, a seconda delle circostanze, far cadere il contratto oppure modificarne il contenuto per riequilibrare il sinallagma.
Il principio di buona fede nel negoziato delle parti, peraltro, è stato definito da parte della dottrina come una fase che «non si esaurisce con la conclusione del contratto, ma è destinata a continuare ogni qualvolta il mutamento delle circostanze rimetta in gioco l’equilibrio tra le prestazioni delle parti»179.
Infine, quale ultima riflessione, è necessario precisare quanto detto in apertura. È indubbio, infatti, che le clausole di hardship abbiano un ruolo centrale nel diritto commerciale internazionale e ciò perché sono in grado di attuare un principio cardine per tutti gli ordinamenti del diritto: quello della stabilità180 dei rapporti contrattuali. Data l’unitarietà d’intenti degli ordinamenti nel voler concretizzare questo principio, non stupisce il fatto che la rinegoziazione sia uno strumento che trova riscontro nella prassi del diritto commerciale internazionale, ove sussiste un’esigenza di armonizzazione181 delle normative statuali, che non sono adatte a risolvere problemi di così ampia portata.
177 Ibidem.
178 Principio che trova espressione nell’art 1.7 dei Principi UNIDROIT;
000 Xxx. XXXXXXX, Xx diritto dei contratti internazionali, La patologia, Padova, 1988, 108.
180 Si rimanda per queste riflessioni a MARASCO, op. cit., 71.
181 Su questa esigenza di armonizzazione si rimanda a CESARO, Xxxxxxxx di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000, 31.
2. Révision pour imprévision nel Code Civil Francese.
A differenza dell’ordinamento italiano, storicamente la Francia ha sempre dimostrato una certa riluttanza nel predisporre una specifica disciplina sulle sopravvenienze. Il principio della vincolatività del contratto è infatti sancito dall’art. 1134 del Code Napoléon, ai sensi del quale «i contratti non possono essere modificati o risolti che per mutuo consenso dei contraenti». Soltanto laddove vi sia un’oggettiva impossibilità ad adempiere per causa di forza maggiore (force majeure) il codice francese riconosce un limite al principio pacta sunt servanda, non rilevando in alcun modo a livello normativo l’eccessiva onerosità sopravvenuta.
Per comprendere le implicazioni pratiche che il principio di intangibilità del contratto, così come affermato nell’art. 1134 del codice francese, occorre porre attenzione sulla giurisprudenza civilistica. In questo senso, un’esemplificazione significativa dell’atteggiamento perlopiù ostile della giurisprudenza civile con riguardo all’imprévision, si rinviene nella sentenza “Capronne”182. Il caso riguardava un canale di irrigazione costruito da Xxxx Xxxxxxxx, il cui canale era considerato come un’opera ingegneristica per l’epoca, in quanto in grado di fornire acqua a tutta la pianura limitrofa, consentendo così l’irrigazione di frutteti, viti e prati, i cui proprietari pagavano una tassa fissa di circa tre centesimi al proprietario dell’impianto, somma inizialmente sufficiente al signor Xxxxxxxx per coprire i costi di manutenzione e di approvvigionamento idrico. Tuttavia, il deprezzamento monetario che si venne a verificare nei secoli successivi, rese quella tassa fissa irrisoria, non essendo nemmeno più sufficiente a coprire le sole spese di manutenzione. Tali motivi spinsero gli eredi del canale a rivolgersi al Tribunale civile d’Aix, al fine di ottenere un adeguamento del contratto alle sopravvenute circostanze. Il caso arrivò sino alla Cour de Cassation, ove tuttavia, fu pronunciata una sentenza di segno opposto rispetto a quella del Tribunale dell’Aix – che aveva riconosciuto agli eredi del canale il diritto alla rinegoziazione – in quanto venne respinta l’ipotesi di revisione del contratto da parte del giudice, anche laddove si fosse verificato un mutamento delle circostanze che avesse reso il contratto non più
182 Cass. Civ. 6 marzo 1876, DP 76.11.195. Questa sentenza è esemplificativa della rigida applicazione da parte della Corte della regola della forza di legge.
congruo: fu così affermato il principio di intangibilità e immutabilità del contratto, in forza dell’art. 1134 del Code Civil: in tal modo la giurisprudenza francese escluse la possibilità che i singoli tribunali potessero modificare i contratti liberamente conclusi dalle parti. Secondo la Corte, dunque, visto l’art. 1134183, che non è altro che la riproduzione di vecchi principi seguiti costantemente in materia di obbligazioni contrattuali, il fatto che i contratti dalla cui esecuzione sorga una controversia siano anteriori rispetto alla promulgazione del Codice non può costituire un ostacolo all’applicazione di detto articolo. Aggiunse poi che in nessun caso spetterebbe ai singoli tribunali, per quanto eque possano apparire le loro decisioni, considerare i tempi e le circostanze sopravvenute al fine di modificare gli accordi delle parti, sostituendo alle clausole liberamente inserite dalle parti, nuove clausole.
Questo atteggiamento di rifiuto da parte della giurisprudenza civile è stato oggetto di critica di parte della dottrina184, che ha valutato il comportamento ostativo della corte estremamente contraddittorio, tenuto conto del riconoscimento da parte della stessa Corte, dei vizi originari del rapporto. Non si ravvisa un valido motivo che giustifichi una disparità di trattamento nel riconoscere quali lesioni che costituiscono vizi del consenso, anche eventi non espressamente richiamati nel codice e nel negare invece la rilevanza a fatti che si verificano nel corso dell’esecuzione del contratto, definibili quali “lesioni successive o sopravvenute”.
Diverso è l’atteggiamento della giurisprudenza amministrativa francese, ove invece si riscontra maggiore apertura verso le sopravvenienze, e ciò a fronte dell’esigenza di mantenere contratti amministrativi per mezzo dei quali vengono forniti i servizi pubblici. La dottrina185 riconosce infatti la scelta della giurisprudenza amministrativa di adottare rimedi manutentivi, anziché ablativi a fronte della necessità di garantire “le principe de la continuité du service public”: l’obiettivo che si cerca di perseguire è di evitare con ogni mezzo che l’impresa o qualsiasi soggetto incaricato di eseguire la prestazione, scelga di non adempiere, poiché questo comporterebbe un pregiudizio per tutta la collettività che usufruisce di quel servizio.
183 Si veda sul punto la ricostruzione di GIUSTI, op. cit., 127.
000 Xxx. XXXXXXXXX, Xxxxx Civil, Les Obligations, Le Contrat, Parigi, 1996, 393 ss.
000 Xxx. XXXXXXX, Xxx effets du contract, in Traité de Droit Civil, Parigi, 1994, 331.
Un caso importante che ha inaugurato la teoria dell’imprévision in Francia, è quello che si è posto dinanzi al Consiglio di Stato: si tratta della sentenza “Gaz de Bordeaux”186, dal nome di una società francese che forniva gas naturale e altri servizi correlati. Si trattava di una società concessionaria che, fornendo appunto gas ed elettricità, vide, con l’avvento della guerra, un aumento dei costi delle materie prime (in particolare del carbone), necessarie per la produzione. La Compagnie Générale d'Eclairage de Bordeaux tentò in questa sede di attribuire alla città di Bordeaux l’onere di sostenere questi costi aggiuntivi. La richiesta fu respinta dal Conseil de Préfecture de Gironde, per poi essere accolta dinanzi al Conseil D’État. Questa sentenza ebbe un impatto innovativo rilevante in quanto, nonostante il Consiglio di Stato abbia ribadito come in linea di principio il contratto di concessione regoli in via definitiva gli obblighi dei contraenti e che generalmente le variazioni di prezzo costituiscano un rischio di mercato che la parte concessionaria è tenuta ad assumersi, tuttavia una variazione che sia dipesa da aventi che le parti non potevano prevedere (in questo caso lo scoppio della Prima Guerra Mondiale), non possono in nessun caso implicare un obbligo di garantire comunque il servizio del concessionario alle condizioni originariamente pattuite. Il concessionario aveva invece diritto, secondo il Consiglio di Stato, al risarcimento per le conseguenze finanziarie dipendenti dalla causa di forza maggiore che di gran lunga superavano il rischio economico standard, insito in ogni contratto. Il principio affermato fu dunque quello della prevalenza dell’interesse al buon andamento dei servizi pubblici a fronte del principio di vincolatività e immutabilità dei contratti.
Tutto ciò ha spinto la dottrina a ritenere riconosciuto, anche a livello giurisprudenziale, l’esistenza di un istituto che tenesse conto delle circostanze sopravvenute e che fosse in grado di superare la rigidità del codice francese: a tale fine è stato elaborato l’istituto dell’imprévision187. L’imprévision troverebbe dunque applicazione quando «des circostances économiques imprévues, posteérieures à la conclusion du contrat, rendent son exécution extremement difficileou beaucoup plus onéreuse, sans pour autant qu’elle soit impossible”188. Tuttavia «il y a imprévision lorsque le prix d’un bien ou d’un service, fixé dans une
186 Per la lettura integrale della sentenza si rimanda a xxx.xxxxxxx-xxxx.xx.
187 Su queste riflessioni di carattere generale si veda XXXXXXX, op. cit., 91.
188 XXXXXXX, op.cit., 310.
convention, ne correspond plus à sa valeur vénale objective appréciée par le juge en se plaçant au moment de l’execution du contrat»189.
Dalla lettura di queste due nozioni di imprévision si può cogliere come siffatto istituto sia volto a porre rimedio a due generi di situazioni diverse190:
• quando per adempiere un’obbligazione occorre un aumento dello sforzo richiesto al debitore;
• quando si verifica un disequilibrio tra prestazione e controprestazione così come erano state inizialmente stabilite nel contratto;
Più nello specifico, in dottrina191 si è sottolineato che questo istituto, in primo luogo, trova applicazione soltanto nei contratti di durata, non trattandosi di un difetto originario del contratto (che trova rimedio invece in altri istituiti giuridici quali la lesione e l’errore).
La stessa dottrina192 ha poi ribadito come si tratti di un istituto la cui applicazione ha natura eccezionale, non essendo sufficiente che la sopravvenienza provochi uno squilibrio economico (maggior sforzo per la parte gravata o diminuzione di profitto per l’altra parte): occorrerà invece uno stravolgimento (bouleversement) dell’economia dell’affare.
A fronte del principio di intangibilità del contratto che si andava affermando in Francia, iniziò dunque in dottrina193 ad affermarsi la teoria dell’imprévision, che implicava l’obbligo delle parti a rinegoziare i termini del contratto o di affidare la modifica dello stesso al giudice ogni volta in cui un evento perturbativo imprevedibile comportava lo stravolgimento economico del negozio stesso. Il problema nell’ammettere una modifica del contratto direttamente da parte del giudice è che questa soluzione, secondo parte della dottrina194, entrerebbe in netto contrasto con quanto xxxxxxx nell’art 1134 del codice civile francese, avente ad oggetto il principio di vincolatività e immutabilità del contratto. Perché queste esigenze possano essere conciliate dunque, i giudici amministrativi adottano una soluzione intermedia, invitando in prima battuta le parti a rinegoziare il contratto: solo laddove il negoziato conduca ad esito negativo, interverrà in via equitativa il
189 Ibidem, 311.
190 Si veda sul punto AMBROSOLI, op. cit. 121.
000 Xxx. XXXXXXXXXX, Xxxxx Civil, Les Obligations, Parigi, 1972, 217.
192 Cfr. Ibidem, 331.
193 Tra coloro che invece non condividevano questa teoria vi erano Xxxxxxx e Domat.
000 Xxx. XXXXXXX, op. cit., 331.
giudice, riconoscendo il diritto ad un indennizzo alla parte onerata, così da riequilibrare il rapporto.
Nonostante vi fosse stato un riconoscimento espresso da parte della giurisprudenza amministrativa dell’imprèvision, la dottrina maggioritaria195 riteneva comunque prevalente l’interesse ad assicurare la certezza e stabilità dei traffici giuridici, principi che avrebbero potuto essere compromessi da un istituto che consentisse di modificare in itinere il contenuto del contratto.
È proprio con il processo di integrazione europea e internazionale, che si è posta in Francia, a partire dalle celebrazioni del bicentenario del codice civile francese nel 2004, l’esigenza di codificare il principio dell’imprèvision nel Code civil, rendendo necessaria una modifica di quest’ ultimo. Fu lo stesso Presidente della Repubblica, Xxxxxxx Xxxxxx a lanciare la sfida di riscrivere il diritto dei contratti in soli cinque anni.
Parte della dottrina196 ha peraltro messo in luce i tre elementi che hanno fortemente influito sulla modifica del Code civil francese:
1) la possibile costituzionalizzazione del diritto privato: in Francia, infatti, da più parti si ritiene che le nozioni fondamentali del diritto privato possano essere elevate a valori di carattere costituzionale.
2) i vari progetti di codificazione europea che sono stati proposti negli ultimi anni;
3) la sempre maggiore influenza del diritto comunitario;
Secondo la stessa dottrina, infatti, il diritto comunitario ha inciso sotto due diversi punti di vista: non soltanto l’Unione Europea implica una modifica e un rinnovo della normativa francese sulla base della cessione di parte della sovranità nazionale ad un ordinamento c.d. sovranazionale, ma anche una modifica della disciplina interna in attuazione delle direttive comunitarie, sicché si perviene ad “un’influenza espansiva del diritto civile” anche nelle materie che non sono competenza del solo ordinamento comunitario.
195 Tra coloro che non condividevano la teoria dell’imprèvision si ricorda XXXXXXXXXX, Xxxxxxx et pratique des obligations, ou Commentaire aux titres III e IV du Code Napoléon, art 1101-1386, Parigi, 1858, art. 1234 n.4; DEMOLOMBE. Cours de Code Napoléon, Traité des contrats ou des obligations conventionelles in général, Parigi, 1872, 8.
196 Cfr. ALPA, Presentazione,in L’avant-projet Xxxxxx, Xxxxxxxx xxxxxxx-xxxxxxxx, Xxxxxx,0000, 12 ss.
Una delle prime proposte di riforma del Code Civil francese viene ricordato come l’avant-projet Catala197. Un piccolo gruppo di accademici civilistici inaugurò il processo di modernizzazione del diritto contrattuale e delle obbligazioni. È lo stesso Xxxxxx Xxxxxx, nella prefazione al progetto, a rivelare l’impulso che ha spinto a quest’iniziativa: durante un convegno universitario tenutosi a Seaux, il diritto francese insieme ai suoi principi civilistici fu messo in comparazione con alcuni progetti della Commissione Europea, i quali misero in luce la necessità di riformare il codice francese in materia di obbligazioni e prescrizione. L’avant projet de réforme du droit des obligations et de la prescription aveva due obiettivi principali: in primo luogo rimodernare il Code Civil, per poi pervenire ad un diritto francese dei contratti non solo compatibile ma anche in grado di incidere sul diritto privato europeo. Questo progetto198, richiamando l’art. 1134 del codice, pone l’attenzione sul principio di forza vincolante dei contratti e sulla loro intangibilità: ciononostante è possibile rinvenirvi la possibilità per i contratti di durata di procedere ad una revisione pattizia, sia essa spontanea o indotta dal giudice, su richiesta di una delle parti. Il ruolo del giudice appare però particolarmente ristretto, in quanto considerato quale mero promotore di una rinegoziazione dei termini del contratto che spetta sempre e solo alla volontà delle parti.
Al progetto Catala, ne seguirono poi altri, tra cui il progetto Terré e il progetto della Chancellerie. Per quanto attiene al primo progetto199, esso fu proposto ne L’Academie des Sciences xxxxxxx et politiques dal professor Xxxxx, nel dicembre del 2008. L’art. 93 stabilisce che le parti possano discrezionalmente risolvere o rinegoziare il contratto qualora sia divenuto eccessivamente oneroso per circostanze imprevedibili. Rispetto al progetto prima citato, esso prevede tuttavia quale elemento innovativo un maggior intervento della figura del giudice, il quale, in caso di mancato accordo tra le parti entro un termine ragionevole, può procedere direttamente alla revisione dei termini del contratto che, per le sopravvenute circostanze, sia divenuto eccessivamente oneroso da eseguirsi o, in alternativa, alla sua risoluzione. Si badi che, a differenza dei precedenti progetti, la risoluzione non opera retroattivamente, ma solo per il futuro.
197 Cfr. XXXXXXXXX XXXXXX-XXXXX, Il nuovo diritto francese dei contratti, Torino, 2021.
198 Sulla ricostruzione storica dei vari progetti di riforma del codice si veda GIUSTI, op. cit., 131 ss.
199 Cfr. GIUSTI, op. cit., 132-133.
L’altro progetto di riforma del diritto contrattuale francese è il c.d. Projet de la Chancellerie, del luglio del 2008 e sulla cui base è stata poi elaborata la più recente riforma francese del diritto dei contratti. Il progetto200 era stato posto in essere sulla base della sentita esigenza di revisionare il modello fondato sull’art 1134 del Code Civil. Si prese in considerazione la questione dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, prevedendo, oltre alla facoltà di rinegoziare il contratto, anche la possibilità per la parte onerata di propendere per la risoluzione del negozio. Dalla lettura degli articoli del progetto si coglie, anche in questo caso, una spiccata valorizzazione della volontà delle parti: ciò emerge dal fatto che l’adeguamento del contratto fosse subordinato ad un accordo pattizio, in mancanza del quale, l’unica soluzione adottabile era la risoluzione. L’importanza della volontà delle parti, inoltre, viene confermata dal fatto che, durante la rinegoziazione delle parti, esse erano comunque tenute ad eseguire le reciproche prestazioni. Infine, quale novità rispetto alle proposte precedentemente esposte, il ruolo del giudice201 diviene sempre più centrale: egli, infatti, ha il compito di guida delle parti verso lo scioglimento o la rinegoziazione del contratto, fermo restando che egli non può apporvi alcuna modifica se non quando i contraenti concordino sul punto. Il testo fu tuttavia oggetto di aspre critiche202 nell’ambito della consultazione pubblica apertasi a seguito della presentazione ufficiale del progetto, nel 2015. Da un lato un primo rilievo mosso riguardava il fatto che, la nuova disciplina così predisposta potesse incidere negativamente sulla certezza dei traffici commerciali; dall’altro si reclamava un maggior ruolo del giudice nell’adeguamento delle condizioni del contratto colpito da eccessiva onerosità sopravvenuta.
A conclusione della consultazione pubblica, la nuova disciplina dell’imprévision fu predisposta nell’ambito del nuovo articolo 1195 del Code Civil, che prevede quali presupposti per la sua applicabilità «un changement de circonstances imprévisible lors de la conclusion du contrats»203 che renda l’esecuzione del contratto eccessivamente onerosa.
200 Cfr. XXXXXXX, Prime considerazioni sulla “Révision pour imprévision”, in Persona e Mercato, 2018.
201 Cfr. GIUSTI, op. cit., 134.
202 Si veda sul punto TUCCARI, ult op. cit.
203 Trad.: «un cambiamento delle circostanze imprevedibile al momento della conclusione del contratto». 62Viene definito come un «processus fait de plusieurs étapes» da FAGES, Droit des obligations, Paris, VI ed., 2016, 295.
L’apparato rimediale previsto dal nuovo art. 1195 del codice francese prevede un sistema rimediale “a tappe”62:
• una prima fase, definibile di “rinegoziazione volontaria delle parti”, ove la parte onerata, pur dovendo comunque nel frattempo continuare ad eseguire le prestazioni, può richiedere la rinegoziazione;
• una seconda fase, esperibile laddove la prima abbia sortito esito negativo, con cui le parti possono, di comune accordo, fissare i criteri (data e modalità) con cui si perverrà alla risoluzione del contratto: sempre in questa seconda tappa il giudice potrà, su richiesta e secondo i criteri orientativi concordati dalle parti, adeguare il contratto.
• La terza e ultima tappa presuppone una totale mancanza di accordo tra le parti, circostanza che consente anche ad una sola delle due di rivolgersi al giudice che, trascorso un intervallo di tempo ragionevole, potrà modificare o sciogliere il contratto «à la date et aux conditions qu’il fixe»204.
L’aspetto maggiormente rivoluzionario di questa riforma è dunque il potere di intervento del giudice nell’adeguamento del contratto, il cui ruolo è purtuttavia subordinato ad una mancata intesa dei contraenti sulle sorti del contratto. In tal modo è stato codificato il principio di c.d. “révision pour imprévision”, che comporta un adeguamento del giudice al verificarsi dell’eccessiva onerosità sopravvenuta nel contratto.
Parte della dottrina205, ha mosso delle critiche verso questa riforma, poiché indiscutibilmente tutelerebbe la parte onerata dalla sopravvenienza, la quale potrebbe scegliere tra lo scioglimento del contratto o una sua rinegoziazione, mettendo però da parte la tutela della parte non svantaggiata, la quale sarebbe, in quest’ottica, esposta in merito alle sorti del contratto alla sola scelta della parte gravata.
Altra parte della dottrina65 invece, ritiene che l’istituto della “révision pour imprévision” costituisca un vantaggio per entrambe le parti contraenti: in primo luogo perché il codice all’art. 1195 prevede, quale primo rimedio, una loro mediazione per la modifica del contratto. Secondariamente, la stessa dottrina, evidenzia come non sempre sia considerabile avvantaggiata dalla disciplina solo la
204 Trad.: «alla data e alle condizioni da esso previste».
205 Cfr. TUCCARI, ult, op. cit.
65Cfr.GIUSTI, op. cit., 139.
parte gravata, potendo la circostanza imprevedibile incidere negativamente su entrambi i contraenti, xxx compreso il creditore che «laddove non venisse trovata una soluzione potrebbe risultare penalizzato dal punto di vista economico, giungendo a perdere la convenienza dell’affare originariamente concluso»206.
3. Inghilterra e principio della sanctity of contract.
Anche l’Inghilterra può essere annoverata, così come si è visto per la Francia, tra i paesi che hanno mostrato storicamente – soprattutto avuto riguardo alle sopravvenienze contrattuali che colpiscono i contratti di durata – una notevole rigidità nell’applicazione del principio “pacta sunt servanda”.Questo atteggiamento della dottrina e della giurisprudenza è riassunto in common law dal principio di “sanctity of contract”207, che impedisce al debitore onerato di liberarsi dell’obbligazione contrattualmente assunta, anche nelle ipotesi di impossibilità sopravvenuta o causa di forza maggiore. Tuttavia, in epoca moderna, come si è più volte sottolineato, non può essere considerato quale principio assoluto, bensì suscettibile di eccezioni che giustificano il mancato adempimento di una delle parti contraenti, al verificarsi di specifiche condizioni.
Per ripercorrere al meglio il processo di evoluzione del sistema inglese in tema di sopravvenienze, pare opportuno prendere sin d’ora in considerazione il leading case “Canary Wharf vs European Medicines Agency”208, reso il 20 febbraio del 2019 dinanzi alla High Court of Justice, che prende in considerazione l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea (c.d. Brexit) quale causa sopravvenuta in un contratto di “lease”. Il caso nasce da un contratto di long-lease stipulato nel 2011 (ma con efficacia a partire dal 2014) dall’Agenzia Europea per i medicinali (EMA) – la cui sede era stata stabilita nel Regno Unito – per la locazione di un complesso immobiliare di Londra, di proprietà della Canary Wharf Limited. Trattandosi di un contratto di long-lease, il cui scopo era stabilirvi gli uffici dell’EMA, esso prevedeva un termine di durata di venticinque anni, dunque fino all’anno 2039. In seguito al referendum tenutosi il 23 giugno del 2016 e alla
206 GIUSTI, op. cit.,139.
207 Sul principio di sanctity of contract si veda GIUSTI, op. cit., 161.
208 Per la ricostruzione di questo leading case si rimanda a VENTURA, La rilevanza giuridica delle sopravvenienze contrattuali tra il rafforzamento della “sanctity of contract” nel diritto inglese e l’affievolimento del principio “pacta sunt servanda” negli ordinamenti di civil law, 2020 in xxx.xxxxxxxxx.xxxxx.xx.
conseguente procedura di cui all’art 50 TUE209, l’EMA avvisava il locatore del fatto che, qualora la Brexit avesse sortito effetto positivo e si fosse verificata l’effettiva uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, non avrebbe più avuto alcun interesse a mantenervi la sua sede principale, qualificando tale evento quale causa della frustration del contratto di locazione stipulato. Per siffatti motivi la Canary Wharf Limited decise di adire la High Court per richiedere l’accertamento che lo scopo per cui era stato stipulato il negozio non dovesse considerarsi “frustrated” e che, dunque, l’EMA fosse comunque tenuta ad assolvere, anche a seguito della Brexit, gli obblighi derivanti dal contratto di lease, in particolare il pagamento del canone di locazione. Per contro l’EMA sosteneva che fossero configurabili, due distinte tipologie di frustration nel caso di specie: la c.d. “frustration for supervening illegality” e la “frustration of common purpose”. Con la prima l’EMA sosteneva che l’uscita del paese ove era situato l’immobile locato dall’UE, avrebbe reso “illegale” l’occupazione dei locali, non potendo più aver sede nel Regno Unito e dunque non potendo più usufruire dei locali in base alla legge. Infatti, l’EMA per rispettare gli obblighi derivanti dall’Unione Europea, avrebbe dovuto spostare la sua sede principale ad Amsterdam, perdendo la capacità giuridica occorrente per utilizzare gli uffici di Londra e adempiere alle obbligazioni nascenti dal contratto, in quanto atti ultra vires. Ne discende che non avrebbe più potuto nemmeno adempiere agli obblighi scaturenti dal contratto, ivi compreso il pagamento del canone locatizio. Con la frustration of common purpose invece, trattandosi del fine implicito per cui le parti concludono un contratto, l’EMA sosteneva che anche lo scopo comune e implicito del contratto risultava ormai frustrato, e che dunque non poteva ritenersi obbligata ad adempiere al contatto perché aveva perduto l’interesse a mantenervi la sede principale sino all’anno 2039.
La decisione della High Court è esplicativa della rigida applicazione del principio di sanctity of contract propria del Regno Unito. La Corte ha infatti affermato come in realtà il contratto di locazione stipulato dall’EMA non potesse considerarsi vanificato per il verificarsi della Brexit, in quanto teoricamente – anche se per ragioni di carattere politico ciò non sarebbe sicuramente avvenuto – l’Unione Europea avrebbe potuto mantenere la sede dell’EMA in un paese terzo. Da ciò ne discendeva, secondo la Corte, che non sarebbe stato illegale per l’EMA mantenere
209 L’art 50 del trattato dell’Unione Europea regola il meccanismo di recesso unilaterale di un paese membro.
il contratto di locazione e usufruirne, tenuto conto che la legge applicabile per comprendere se l’esecuzione del contratto fosse stata illegale era la legge del luogo di esecuzione del contratto oggetto di controversia (dunque la legge del Regno Unito). Inoltre, la Corte ha chiarito che, anche qualora il contratto fosse stato vanificato da questo evento sopravvenuto, l’Unione Europea non avrebbe dovuto limitarsi a trasferire l’Agenzia ad Amsterdam, ma avrebbe potuto ad esempio prevedere delle disposizioni per la liquidazione dell’EMA e la sua partenza da Londra. Infine, la High Court210 nella sentenza ha evidenziato come non vi sia stato il fallimento dello scopo comune e implicito per cui le parti hanno concluso il contratto: esso era infatti stato stipulato dall’EMA al fine di disporre di locali su misura ad un canone molto basso con flessibilità dei termini di durata; viceversa, il locatario aveva come fine quello di ottenere liquidità per un periodo di tempo prolungato, al canone più alto possibile. Nonostante non fosse prevedibile lo specifico fenomeno della Brexit, la Corte ha ritenuto invece prevedibile che in un arco di tempo così lungo (25 anni) l’EMA, per cause indipendenti dalla sua volontà, avrebbe dovuto lasciare i locali siti nella città di Londra. Inoltre, ha rilevato come le parti non abbiano inserito un’apposita clausola contrattuale che stabilisse che lo scopo del contratto locatizio sarebbe stato vanificato in caso di mancata possibilità di occupare i locali ma, al contrario, conteneva delle clausole che consentivano al locatario di assegnare o subaffittare l’immobile, dunque di usufruirne, seppur indirettamente. Con ciò si è rilevato come non vi fosse alcuno scopo comune delle parti nel concludere il negozio, bensì una trattativa sfociata nella conclusione del contratto, nascente da obiettivi e interessi diversi dei contraenti.
Con la citata pronuncia la Corte, condividendo la posizione della Canary Wharf Group, ha peraltro evitato che si verificasse un possibile effetto negativo scaturente dalla Brexit: tale decisione ha superato il pericolo di un potenziale numero di contenziosi che sarebbero stati portati all’attenzione della Corte da locatari che presentavano rilevanti collegamenti con l’Unione Europea, nei confronti dei locatori. Si è dunque assicurato un certo grado di certezza e stabilità nel mercato immobiliare inglese, pur essendosi verificata la c.d. Brexit.
Questa pronuncia, particolarmente recente, trova le sue “radici” storiche nel
leading case Paradine v. Jane211 del 1647: un terreno di proprietà del signor
210 Per la lettura integrale della sentenza si rimanda a xxx.xxxxxxxxx.xx.
211 Cfr. GIUSTI, op. cit., 162.
Xxxxxxxx veniva dato in locazione al signor Xxxx, il quale, nonostante ammettesse di non aver pagato i canoni di locazione, giustificava la sua inadempienza adducendo che il terreno era stato occupato dal nemico del re, in particolare dalle truppe nemiche, impedendone il godimento. La questione da risolvere era la seguente: stabilire se il conduttore fosse ciononostante tenuto al pagamento del canone di locazione, oppure potesse ritenersi esente da tale obbligo. Convenuto in giudizio, Xxxx fu condannato al pagamento del canone locatizio sulla base del principio affermato dal King’s Bench, secondo cui «where the party by his own conduct creates a duty or charge upon himself, he is bound to make it good, if he may, notwithstanding any accident by inevitable necessity, because he might have provided against it by his contract. And therefore if the lessee covenant to repair a house, thought it be burn by lighting, or thrown by enemies, yet ought to repair it»212. Con queste parole il King’s Bench ha espresso un orientamento figlio del principio della c.d. sanctity of contract in base alla quale, qualora una parte assuma su di sé un onere o dovere, è tenuto ad adempiervi correttamente anche qualora si verifichi un evento imprevedibile ed inevitabile (nello specifico l’impossibilità di godere del terreno), e ciò in quanto le parti avrebbero potuto a priori inserire una clausola contrattuale che regolasse l’ipotesi di inutilizzabilità temporanea del terreno da parte del locatario. Con l’estrema conseguenza che se, ipoteticamente un affittuario si impegnasse ad esempio a riparare una casa da lui locata, sarebbe tenuto ad adempiere a quest’obbligo anche qualora sia stata bruciata da un fulmine o dai nemici.
È stato così cristallizzato il principio dell’absolute contract213 e, dunque, la regola di rigorosa responsabilità contrattuale214 ,tale per cui gli obblighi derivanti dal contratto devono sempre essere adempiuti indipendentemente dal verificarsi di eventi perturbativi, salvo che le parti non abbiano regolato tale evenienza tramite apposita clausola contrattuale. Da tale caso può essere, secondo parte della dottrina215, ritenuto sussistente anche in common law il principio pacta sunt servanda anche se nella sua versione più estrema. L’obiettivo perseguito era certamente quello di evitare che l’applicazione del principio rebus sic stantibus
212 Per la lettura integrale della sentenza si veda xxx.xxxxx-xxx.xxx.
213 Cfr. CABELLA- PISU, La responsabilità contrattuale in common law, in Atlante di diritto comparato, p. 138.
214 Cfr. AMBROSOLI, op. cit., 139.
215 Ibidem, 138.
fosse utilizzata quale pretesto per sciogliere il contratto nelle ipotesi in cui uno dei contraenti non volesse più esservi vincolato.
È tuttavia opportuno specificare come parte della dottrina inglese216 abbia ritenuto come tale regola probabilmente non abbia mai trovato applicazione ove il contratto prevedesse l'esecuzione personale da parte di soggetto deceduto o permanentemente incapace o nei casi di sopravvenuta illegittimità. Il principio della sanctity of contract e dell’assolutezza del contratto è stato per la prima volta riconosciuto in dottrina217 da Chitty, il quale, distinguendo tra obbligazioni legali e contrattuali, sosteneva che solo le prime potevano estinguersi a seguito di un “Act of God”, mentre le seconde devono comunque essere adempiute anche nel caso in cui siano divenute oggettivamente impossibili da eseguirsi per la parte onerata.
Il caso giurisprudenziale che ha dato avvio allo sviluppo giuridico e al conseguente superamento dell’assolutezza di questo principio è la sentenza “Xxxxxx
x. Xxxxxxxx” del 1863, che vede un progressivo avvicinamento tra common law ed equity e tra diritto inglese e diritto continentale. Peraltro, questa sentenza costituisce un punto cruciale nella storia del diritto inglese proprio perché da qui trae origine la c.d. “doctrine of frustration”, che è stata in grado, seppur parzialmente, di mitigare il principio della sanctity of contract. In common law il termine frustration è un’espressione che presenta più di un significato, poiché descrive tre diversi tipi di situazioni218:
• l’impossibilità della prestazione (impossibility)219;
• l’eccessiva onerosità della prestazione (impraticability);
• la perdita di valore della controprestazione per il creditore e il conseguente venir meno della causa del contratto o della sua utilità (c.d. frustration of purpose);
Il termine frustration, dunque, indica in generale nel lessico anglosassone tutte quelle circostanze eccezionali e non prevedibili, indipendenti nel loro verificarsi da una condotta colposa o dolosa delle parti contraenti, che rendono
216 Cfr. XXXXXXX, The law of contract, Londra, IX ed., 1995, 778.
217 Per questa distinzione si rimanda a CHITTY, On contracts, Londra, 1826.
218 Cfr. GIUSTI, op. cit., 163.
219 Esemplificativo della frustration for impossibility è proprio la sentenza Xxxxxx x. Xxxxxxxx, e si manifesta in tutte le ipotesi in cui il bene necessario per eseguire il contratto sia andato distrutto oppure laddove sia morta o divenuta incapace una persona fondamentale nell’eseguire il contratto. 80Cfr. MAZZACANO, Force Majeure, Impossibility, Frustration and the Like: Excuses for Non Performance; The Historical Origins and Development of an Autonomous Commercial Norm in the CISG, in Nordic Journal of Commercial Law, 2011, 16.
impossibile una delle prestazioni o determinano la modifica dell’equilibrio economico del contratto.
Tornando al caso sopracitato, si trattava della distruzione di una sala concerti di proprietà del signor Xxxxxxxx a seguito di un incendio accidentale che ne impedì l’utilizzo da parte del signor Xxxxxx, che aveva locato la sala per quattro serate al prezzo di cento sterline al giorno. Quest’ultimo agiva in giudizio per richiedere il risarcimento dei danni per inadempimento del proprietario, oltre che per costi sostenuti per pubblicizzare gli eventi che aveva organizzato nella music hall per le quattro serate. Si badi che le parti non avevano inserito nel contratto alcuna clausola che regolasse questa ipotesi, ma solo la frase finale “God’s will permitting”80 (letteralmente volontà di Dio permettendo). La Corte, operando un revirement rispetto all’orientamento precedente, ha ritenuto sussistente nel contratto una “implied condition” relativa all’esistenza della sala, tenendo conto del fatto che la sala da ballo era venuta meno a seguito di un incendio accidentale. Il giudice Xxxxxxxxx ha così riconosciuto per la prima volta la frustration per impossibility dichiarando la termination del contratto; dunque, attribuendo all’impossibilità sopravvenuta derivante da evento estraneo ai contraenti effetto liberatorio e, conseguentemente, dichiarando illegittima la pretesa risarcitoria e invece legittima la domanda di risoluzione del contratto (“discharge of the contract”).
Il carattere eccezionale che presenta l’applicazione della frustration theory, si evince, secondo parte della dottrina220, dall’applicazione restrittiva che essa ha trovato nel corso delle crisi che hanno caratterizzato il ‘900. A titolo esemplificativo, la stessa dottrina ricorda come tale teoria si sia applicata solo in rari casi sia durante il secondo conflitto mondiale, ma anche in occasione della chiusura del canale di Suez o della crisi energetica causata dai conflitti mediorientali degli anni Settanta del secolo scorso.
Nonostante la rigidità della giurisprudenza nel riconoscere la rilevanza delle turbative del contratto, la dottrina inglese non si è tuttavia astenuta dall’elaborare teorie in grado di giustificare il ricorso a tale rimedio. Dapprima occorre ricordare che una parte della dottrina221 si è occupata di stabilire se fossero rilevanti per accedere a siffatto rimedio soltanto le circostanze imprevedibili, oppure anche
220 Cfr. XXXXXXX, op. cit., 781.
221 Cfr. CHITTY, op. cit., 1104.
quelle che, seppur prevedibili, non erano state considerate come verificabili e, di conseguenza, accettate quale rischio implicito al contratto dalle parti contraenti. In particolare, tale dottrina ha affermato che il fatto che le parti, al momento della conclusione del contratto, avessero preveduto l’effettiva possibilità che si verificasse l’evento o nuove circostanze, non impedisce necessariamente l’applicazione della doctrine of frustration222.
Un altro Autore223, si è invece occupato di definire con maggior precisione il termine frustration, che comprenderebbe al suo interno la “frustration of the purpose” del contratto, la “frustration of the adventure” o la “frustration of the voyage”. La frustration of purpose (o consideration) è un’espressione che indica normalmente quei contratti in cui una delle due obbligazioni, pur essendo ancora possibile da eseguirsi, non è più utile alla controparte. In tal senso, lo stesso Xxxxxxx ritiene che la frustrazione del contratto normalmente generi l’inadempimento delle obbligazioni quando la prestazione, seppur ancora fisicamente impossibile, sia divenuta sostanzialmente e radicalmente più onerosa da eseguirsi. In tal modo l’evento perturbativo non inciderebbe dunque sulla possibilità, bensì sulla convenienza e utilità economica di una delle parti a ricevere la prestazione. Peraltro, anche questa tipologia di frustration, denominata anche frustration of the common venture, ha trovato applicazione nei c.d. “coronation cases”: non solo nel caso Xxxxx x. Xxxxx, di cui si è parlato nel capitolo precedente, ma anche nel caso Herne Bay Steam Boat Co v. Xxxxxx000.Xx signor Xxxxxx aveva infatti concluso un contratto per il noleggio di un’imbarcazione al fine di organizzare gite a pagamento per tutti coloro che avessero interesse ad assistere all’incoronazione di Xxxxxx XXX, ma anche al fine di osservare le navi militari presenti in zona nel corso dell’incoronazione. La malattia del monarca determinò l’annullamento dell’incoronazione, cui conseguì la richiesta da parte di Xxxxxx, di essere liberato dal vincolo contrattuale, in particolare dall’obbligo di pagare quanto stabilito contrattualmente per il noleggio dell’imbarcazione. Tuttavia, in sede di decisione, i giudici ritennero come la sopravvenienza (malattia del sovrano) avesse
222 Tale dottrina afferma infatti che: “the fact that the parties, at the time of contracting, actually foresaw the possibility of the event or new circumstances in question does not necessarily prevent the doctrine of frustration for applying”.
223 Cfr. TRACKMAN, Winner Take Some: Loss Sharing and Commercial impraticability, Minnesota Law Rev., 1985, 471 ss.
224 Si veda sul punto CHITTY, op. cit. 1111.
impedito di assistere alla parata, ma non anche di osservare le navi circostanti: mancando il requisito del radicale sconvolgimento del contratto dal punto di vista economico, respinsero dunque la domanda proposta.
Allo stesso modo la frustration of common purpose non è stata riconosciuta nel caso Amalgamated Investment and Property Co. ltd. v Xxxx Xxxxxx & Sons: quest’ultima aveva venduto un deposito e fabbrica per l’imbottigliamento al prezzo di 1.710.000 sterline, assicurando alla Amalgamated che non si trattava di un edificio storico o architettonico. Tuttavia, il Dipartimento dell’Ambiente, prima della completa esecuzione del contratto, aveva imposto un vincolo architettonico che, vietando ogni tipo di ristrutturazione, ne diminuì drasticamente il valore di mercato a 200.000 sterline, motivo per il quale l’acquirente chiese l’annullamento del contratto, in quanto le parti lo avevano concluso nella comune ed erronea convinzione che tale vincolo non vi fosse. Ciononostante, la Corte d’Xxxxxxx ha ritenuto che il contratto non potesse considerarsi “frustrated” in quanto, tenendo conto delle richieste precontrattuali, l’acquirente si sarebbe nei fatti assunto il rischio poi verificatosi, non essendo divenuto inoltre il contratto qualcosa di radicalmente differente rispetto a quanto contemplato originariamente dalle parti. Il giudice Xxxxxxx affermò come «non ci fosse alcun errore reciproco quanto alle circostanze che circondavano il contratto al momento in cui il contratto è stato stipulato. L'unico errore che c'era era quello relativo alle aspettative delle parti. Si aspettavano che l'edificio sarebbe stato sottoposto solo alle ordinarie procedure di autorizzazione urbanistica e tale aspettativa è stata delusa. Ma alla data in cui il contratto è stato stipulato non vedo che vi sia alcun motivo per affermare che le parti fossero allora soggette a qualche reciproco errore di fatto relativo alle circostanze del contratto»225.
Da più parti in dottrina si è tentato, tramite l’elaborazione di diverse teorie, di attribuire fondamento giuridico alla frustration, con un progressivo superamento delle concezioni volontaristiche, per pervenire a teorie maggiormente fondate sull’economia dell’affare226: simbolo delle iniziali teorie soggettive era l’idea di responsabilità contrattuale assoluta, che poteva essere derogata solo laddove le parti avessero introdotto una specifica clausola contrattuale, al fine di contenere la rigidità di questo principio.
225 Per un approfondimento della sentenza si veda xxx.xxxxx.xx.xx
226 Cfr. AMBROSOLI, op. cit., 149.
In tal senso, parte della dottrina227, come si è potuto osservare dall’analisi del caso Xxxxxx, ha elaborato la “implied term theory” o “implied condition theory”, in base alla quale all’interno di ciascun contratto vi sarebbe una condizione implicita riferita all’esistenza di uno specifico fatto o circostanza, il cui venir meno per cause sopravvenute, provocherebbe l’estinzione delle obbligazioni. Questa teoria non è stata tuttavia esente da critiche, in quanto si baserebbe su una fictio, cioè su una volontà dei contraenti artificialmente inserita nel contratto, idonea a superare il principio di libertà contrattuale delle parti, le quali invece avrebbero potuto inserire specifiche ed espresse previsioni per siffatte evenienze. Si ravvisa infatti la difficoltà derivante dalla ricerca a posteriori dell’effettiva volontà dei contraenti, poiché secondo parte della dottrina228, la volontà delle parti non sarebbe un dato storico oggetto di indagine, bensì il frutto dell’attività interpretativa: in questo senso tale volontà dovrebbe definirsi “artificiale”.
A fronte delle critiche mosse, vi fu un’evoluzione di siffatto orientamento dottrinale, nell’attribuire al giudice229 l’onere di individuare gli implied terms che sarebbero stabiliti da un reasonable man nel prevedere l’evento perturbativo: anche questa modifica tuttavia porterebbe a sovvertire la volontà effettiva delle parti – di conseguenza pregiudicando il principio di certezza del diritto – poiché prevederebbe l’intervento del giudice, la cui discrezionalità rischierebbe di eccedere in arbitrio, non trattandosi, secondo parte della dottrina230 di un’attività meramente interpretativa, bensì integrativa.
Seguirono poi due ulteriori impostazioni dottrinali: la “foundation or basis of the contract theory” e la “common mistake theory”231. La prima consentirebbe alle parti di liberarsi del contratto qualora ne siano venuti meno i presupposti; la seconda invece si fonderebbe sull’errore comune delle parti nel ritenere come sussistenti alcuni presupposti, che hanno determinato entrambe a concludere il contratto, per poi scoprire essere inesistenti.
La più recente teoria dottrinale ha definitivamente superato il riferimento alla volontà storica delle parti, prevedendo la possibilità in capo ai giudici di
227 Cfr. GRUNFEL, Frustration. Decline of the implied Term Theory, The Modern Law Review,
1956, 696 ss.
228 Cfr. CHITTY, op. cit., 1100.
229 Cfr. ALPA- DELFINO, Il contratto nel common law inglese, Padova, 1997,166.
230 Cfr. XXXXXXX. op. cit., 783.
231 Sula ricostruzione di tali teorie dottrinali si rimanda a GIUSTI, op. cit., 168.
individuare le lacune contrattuali e di colmarle232. Secondo tale orientamento un contratto potrebbe considerarsi “frustrated” in tutte le ipotesi di “radical change in the obligation”:il c.d. radical change test è stato teorizzato per la prima volta nel caso Xxxxx Contractors Ltd x. Xxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx000.
Il test è composto da tre parti234: in primo luogo deve verificarsi un cambiamento radicale dell’obbligazione che sorge in base al contratto, con la specificazione che non basta per soddisfare questo primo “step” del test un mero aumento della spesa o un ritardo nell’adempimento; secondariamente il contratto non deve implicitamente o esplicitamente (dunque tramite specifiche clausole) distribuire il rischio nascente dalla sopravvenienza, poiché in tal caso si farà ricorso a quanto previsto nel contratto che non potrà essere sciolto; infine il verificarsi dell’evento perturbativo non deve dipendere dall’opera delle parti.
In quest’ottica la “Construction Theory”, tecnica apprezzata dai giudici inglesi per la sua estrema flessibilità, prevederebbe che spetti al giudice stabilire, tenuto conto della natura e dei presupposti presenti al momento in cui il contratto è stato perfezionato, se vi sia stato un radicale mutamento delle circostanze iniziali, tali da consentire ai contraenti di liberarsi del vincolo. Nonostante il ricorso alla construction da parte dei giudici potrebbe ipoteticamente pregiudicare il principio di certezza del diritto nella particolare forma della prevedibilità dei giudicati, i giuristi inglesi235 ritengono come tale pericolo possa essere contenuto tenendo conto del fatto che l’attività ricostruttiva e, più in generale, la formazione dei giudici è condivisa, sicché si può pervenire ad un’omogeneità nello stabilire ciò che è giusto e ciò che non lo è.
Alla luce delle teorie dottrinali sopra esposte circa il significato e il fondamento giuridico della “frustration” è possibile a questo punto affrontare le conseguenze dell’applicazione di questa dottrina: qualora il contratto risulti
232 Sul punto CRISCUOLI, ne Il contratto nel diritto inglese, Padova, 1990, 123, sottolinea come nei sistemi di common law non vi sia una netta demarcazione tra interpretazione e di integrazione del contratto
233 La Xxxxx Contractors aveva concordato con la Fareham la costruzione di settantotto abitazioni in soli otto mesi per la somma di 92.425 sterline: in realtà La Xxxxx impiegò ventidue mesi per terminare la costruzione, in quanto si era resa conto che i costi di manodopera e dei materiali ammontavano a 115.223 sterline. A fronte di tale difficoltà di natura economica, sosteneva che il contratto doveva considerarsi vanificato e di aver diritto ad un quantum per il lavoro sino ad allora svolto. Nel caso di specie, tuttavia, la House of Lords, pur riconoscendo che l’esecuzione del contratto fosse divenuta maggiorsmente onerosa, questo non potesse ritenersi vanificato.
234 Cfr. xxx.xxxxxxxxxxxxx.xx.xx
235 Su queste riflessioni si rimanda ad ATIAH, Essays on Contract, Oxford, 1986, 270.
vanificato236, ciascuna parte potrà richiedere la risoluzione (termination) del contratto con la conseguente liberazione di entrambe dai reciproci obblighi (c.d. discharge). Per quanto riguarda la termination del contratto, parte della dottrina237, ritiene come essa si verifichi immediatamente, automaticamente e che operi solo per il futuro, a differenza di un contratto viziato che invece è nullo ab initio.
È poi dibattuto in dottrina238 se la frustration possa essere fatta valere da entrambe le parti, oppure solo da quella pregiudicata dalla sopravvenienza: potrebbe infatti accadere che sia la parte non pregiudicata ad aver interesse a far valere la frustration, così come avvenuto nel caso Xxxxxxx Steamship Co. Ltd. v. Anglo-Mexican Petroleum Products Co. Ltd239: il proprietario di una nave cisterna stipulò un contratto di concessione in godimento della petroliera per un periodo di cinque anni, ma poco tempo dopo la stipula del contratto, essa fu requisita dal governo britannico. In questo caso era il proprietario, cioè la Anglo-Mexican Petroleum Products Co. Ltd ad aver interesse a far valere la frustration del contratto, al fine di far valere la caducazione dello stesso e ottenere il considerevole indennizzo governativo connesso alla perquisizione: tuttavia la House of Lords non accolse tale domanda in quanto ritenne come la foundation del contratto non fosse stata stravolta.
La frustration of the contract è stata inoltre oggetto di un intervento normativo, la Law Reform Act del 1943, che sostanzialmente enuncia i seguenti principi101:
1. Le somme che sono state pagate anteriormente alla frustration del contratto non sono più dovute dalla parte onerata dal momento in cui si verifica “the time of discharge”;
2.Le somme pagate anteriormente possano essere oggetto di ripetizione e che la Corte possa autorizzare la parte che ha ricevuto240 il pagamento a trattenere tale somma, interamente o parzialmente, quale indennizzo per le spese sostenute per l’affare.
236 Cfr. GIUSTI, op. cit.,168.
237 Cfr. CHESHIRE, FIFOOT & FURMSTON’S, Law of Contract, Londra, XIII ed. 1996,596.
238 Si veda sul punto XXXXXXX, op. cit., 821.
239 F.A. Xxxxxxx steamship Co v. Anglo Mexican Petroleum Products Co Ltd 1916 2 AC 397 at 403. 101Per l’analisi del contenuto della Law Reform Act si rimanda a GIUSTI, op. cit., 170 ss. E AMBROSOLI, op. cit.,387 ss.
240 Cfr. CHESHIRE. FIFOOT &FURMSTON’S, op. cit., 599.
0.Xx Corte può, tenendo conto delle circostanze del caso, attribuire ad una parte una somma di denaro nell’ipotesi in cui l’altra abbia da lei ricevuto un vantaggio di carattere non necessariamente economico, ma comunque suscettibile di valutazione monetaria (ad esempio un’attività svolta da una parte a favore dell’altra), così operando una compensazione.
Da questi principi si può rilevare il ruolo centrale assunto dai giudici di common law, potendo essi intervenire su contratti impossibili, oppure le cui circostanze essenziali siano mutate. Dunque, nonostante parte della dottrina241 lamenti il fatto che questa legge attribuisca poteri limitati al giudice – il quale può recuperare o compensare le spese per le prestazioni eseguite prima della risoluzione
– si può comunque rilevare come essa introduca una discrezionalità del giudice nello stabilire se sia più giusto (“just”) restituire quanto versato dalla controparte o operare una compensazione secondo criteri che riguardano il personale sentimento di giustizia del singolo giudice, potendo peraltro incidere, con le sue convinzioni su ciò che è giusto, anche sul successivo giudizio.
Questo ruolo attribuito ai giudici di common law, tuttavia, secondo parte della dottrina104, darebbe origine ad un problema rilevante: il potere di determinare il discharge delle parti, farebbe sì che tra i rimedi manutentivi e quelli ablativi, siano i secondi quelli prescelti, potendo i giudici determinare la sola termination del contratto e non una sua revisione, ritenuta invece da tale dottrina come la soluzione auspicabile ai fini della stabilità dei contratti. La stessa dottrina, tuttavia, ritiene come la strada verso un rimedio manutentivo a fronte della risoluzione, sia ostacolata dall’affermazione di principio secondo cui «the Courts have no power to modify contracts in the light of supervening events»242. Peraltro, la scelta della risoluzione, sottolinea questa dottrina, comporterebbe un problema di carattere pratico, consistente nel dover addossare sulla parte che ha sostenuto delle spese per predisporre il proprio adempimento tali costi, qualora l’attività da lui svolta non abbia ancora costituito alcun tipo di vantaggio per la controparte. Problema che peraltro non riguarda solo l’ordinamento inglese, ma tutti gli ordinamenti che storicamente propendono per la risoluzione, in particolar modo quello italiano.
241 Tra questi si xxxx XXXXXXX, Frustrated Contracts and Legal Fictions,The Modern Law Review, vol. 46 n.1, 39 ss. in xxx.xxxxx.xxx
104Cfr. AMBROSOLI, op. cit., 382.
242 XXXXXXX, op. cit., 781.
4. Esperienza americana e c.d. doctrine of impraticability.
Rispetto a quello inglese, il sistema giuridico americano, nel corso del XX secolo, a seguito dell’accrescimento dei traffici commerciali, conobbe uno sviluppo più ampio della c.d. doctrine of frustration, in ragione della necessità di attribuire rilevanza anche a quelle sopravvenienze che determinavano un’eccessiva onerosità nell’eseguire le prestazioni. Da questo punto di vista si iniziò a parlare sia
in dottrina che in giurisprudenza non solo di “impossibility”, ma altresì di “impraticability”. Con il termine impraticability (o commercial impraticability) ci si riferisce a quelle circostanze sopravvenute che, pur non rendendo impossibile la prestazione, ne rendono molto più gravosa l’esecuzione, tenuto conto del fatto che non assumono rilevanza tutti gli eventi che determinano un trascurabile incremento dei costi. Sul tema parte della dottrina243 ha ritenuto di poter avvicinare le due figure della frustration e impraticability, dato che entrambe determinano il verificarsi di eventi sopravvenuti che hanno reso una prestazione impossibile da eseguirsi244 (dove il termine impossibile deve essere inteso non come impossibilità in senso stretto, ma in senso lato). Da questo punto di vista è già possibile sin d’ora anticipare come il sistema statunitense non mantenga la rigidità propria del sistema inglese, ma che tenda invece a contenerla, dando la possibilità al debitore inadempiente di accedere ad un sistema rimediale, non solo quando la prestazione non possa più essere materialmente eseguita, ma anche qualora diventi insostenibile dal punto di vista economico per il debitore eseguirla.
Partendo dagli arresti di merito, molteplici sono le sentenze che confermano il riconoscimento nel sistema americano della c.d. impraticability: un caso particolarmente noto è il Mineral Park Land Co v. Howard245 del 1916. Si trattava di un imprenditore che, dopo aver stipulato con le autorità pubbliche un contratto in base al quale avrebbe dovuto costruire un ponte di cemento nella contea di Los Angeles, decise di stipulare un ulteriore contratto per procurarsi della ghiaia per costruirlo con il proprietario di un giacimento. Con quest’ultimo negozio,
243 Cfr. JOSKOW, Commercial Impossibility, the Uranium Market and the Westinghouse Case in
Journal of Legal Studies, 1977, 144.
244 Riprendendo le parole di XXXXXX: «both situations involve the occurence of supervening events that have made soething impossible», ibidem, 144.
000 Xxxxxxx Xxxx Xxxx Xx x. Xxxxxx, 172, Cal. 289,293,156, p. 458,460, L.R.A. 1916F,1. Per un maggior approfondimento della sentenza si veda xxx.xxxxxxxx.xxx
l’imprenditore si obbligava ad estrarre tutta la ghiaia e raccogliere la terra del giacimento necessarie per costruire il ponte, pagando una determinata somma. La controversia nacque nel momento in cui l’imprenditore decise di non estrarre la ghiaia che si trovava sotto il livello dell’acqua, poiché questo avrebbe aggravato le spese da sostenere, che sarebbero state ben dieci volte superiori a quelle da lui preventivate. Il proprietario del giacimento adì la Corte Suprema della California per far accertare l’inadempimento contrattuale di colui che aveva estratto e pagato solo parte della ghiaia concordata (le parti avevano infatti pattuito che la quantità di ghiaia da estrarre era tutta quella necessaria alla costruzione del ponte), ma questa respinse la domanda e riconobbe per la prima volta l’impraticability, che ricomprendeva non solo l’impossibilità materiale, ma anche l’eccessiva onerosità sopravvenuta, determinata da eventi perturbativi non prevedibili dalle parti al momento della stipulazione del contratto. La corte in quella circostanza affermò che «(a) thing is impossible in legal contemplation when it is not praticable; and a thing is impraticable when it can only be done at an excessive and unreasonable cost»246.
Dunque, si può parlare di impossibilità anche laddove una prestazione, seppur eseguibile, abbia un costo irragionevole, eccessivo o proibitivo.
Un altro caso in cui si è fatto riferimento a questa tipologia di sopravvenienza contrattuale è quello che ha coinvolto la società Westwing house Electric Corporation247 nel 1975. Si trattava di una società che costruiva apparecchiature elettriche, ma che si occupò principalmente della produzione e trasporto di energia elettrica. I contratti che stipulava erano conclusi perlopiù con soggetti istituzionali, alcuni dei quali richiedevano la sola fornitura di combustibile per produrre energia ed altri invece anche la costruzione di reattori nucleari. Il problema risiedeva nella mancanza di un meccanismo di indicizzazione dei prezzi all’interno di questi contratti, che portarono la Westwing a dover fornire 60.000 tonnellate di uranio avendone a disposizione solo poco più di 20.000, peraltro ad un prezzo inferiore rispetto a quello che doveva essere applicato al momento della fornitura. Per questi motivi la società si rese inadempiente, giustificando tale comportamento tramite il ricorso all’impraticability.
246 Trad.: «una cosa è impossibile nella contemplazione giuridica quando non è praticabile; e una cosa è impraticabile quando può essere fatta solo ad un costo eccessivo e irragionevole».
247 Cfr. XXXXXX, op. cit., 119 ss.
Dall’analisi di queste due decisioni, nasce l’interrogativo sul motivo per cui la giurisprudenza statunitense abbia mostrato una maggiore apertura nell’attribuire rilevanza anche all’eccessiva onerosità e non alla sola impossibilità. La risposta più plausibile non può che risiedere in ragioni di carattere economico: premesso che le parti non potessero prevedere al momento della conclusione l’evento perturbativo che avrebbe poi causato uno squilibrio economico delle rispettive prestazioni e che, in ragione di ciò, non si sono adoperate per stabilire una soluzione al suo verificarsi,
«si deve poter consentire sia la risoluzione del contratto sia la possibilità per la Corte di modificarlo»248. Evidentemente escludere la possibilità di applicare rimedi, siano essi ablativi o conservativi, ad affari commerciali non eseguiti dalle parti per eventi sopravvenuti, sarebbe risultato irragionevole249, dato il maggior interesse, peraltro, a mantenere la stabilità, nei contratti commerciali.
A livello normativo, l’impraticability è stata per la prima volta riconosciuta con il Restatement of Contract250 del 1932, ove si afferma che «impossibility means not only strict impossibility but impracticability because of extreme and unreasonable difficulty, expense, injury or loss involved»251, così ricomprendendo la nozione di impraticability all’interno della generale figura di impossibility.
Anche l’Uniform Commercial Contracted (UCC) e il § 261 del Restatement (Second) of the Contract del 1981 stabiliscono la possibilità, qualora vi sia un aumento dei costi eccezionale252 e imprevedibile di applicare il rimedio risolutorio, con l’unica differenza che mentre il secondo si applica a tutti i contratti, l’UCC riguarda solamente i contratti di vendita di merci.
Partendo dalla section 2-615253 degli UCC, riferendosi ai soli contratti di vendita di merci, questa stabilisce che «il ritardo nella consegna o la mancata
000 XXXXXXXX, Xxxxx Adjustement Of Long-Term Contracts: An Analysis Under Modern Contract Law, Duke Law Journal, 1987.
249 Per queste riflessioni si veda GIUSTI, op. cit., 179.
250 Cfr. CABELLA-PISU, op. cit., 136 ss.
251 Cfr. § 454 Restatement of Contract, 1932; Trad:«Per impossibilità si intende non solo l'impossibilità assoluta, ma anche l'impraticabilità a causa di difficoltà, spese, danni o perdite estreme e irragionevoli».
252 Cfr. GIUSTI, op. cit., 179.
253 Cfr. UCC § 2-615 – Excuse by Failure of Presupposed Conditions: «Except so far as a seller may have assumed a greater obligation and subject to the preceding section on substituted performance: (a) Delay in delivery or non-delivery in whole or in part by a seller who complies with paragraphs (b) and (c) is not a breach of his duty under a contract for sale if performance as agreed has been made impracticable by the occurrence of a contingency the non-occurrence of which was a basic assumption on which the contract was made or by compliance in good faith with any applicable foreign or domestic governmental regulation or order whether or not it later proves to be invalid. (b) Where the causes mentioned in paragraph (a) affect only a part of the seller's capacity
consegna totale o parziale da parte di un venditore (…) non costituisce una violazione dei suoi obblighi derivanti da un contratto di vendita se l’inadempimento, come concordato, è stato reso impraticabile dal verificarsi di una contingenza, il cui mancato verificarsi era un presupposto di base su cui è stato stipulato il contratto»000.Xx discende che non sia qualificabile quale inadempimento del contratto la mancata o ritardata consegna delle merci da parte del venditore determinate da una “contingency”255 (non prevedibile al momento del perfezionamento del contratto) la cui mancata verificazione costituiva presupposto del contratto (c.d. “basic assumptions”)256.
Con riferimento al Restatement of the Law Second – compilazione di common law realizzata dall’American Law Institute, ma che non assume valore codicistico – il §265 sancisce che «allorché, dopo la conclusione di un contratto, lo scopo principale avuto di mira da uno dei contraenti, venga sostanzialmente frustrato, senza che vi sia colpa, dal verificarsi di un evento la cui non verificazione aveva costituito un assunto di base per la conclusione del contratto, il dovere di adempiere viene meno, salvo che il testo del contratto o le circostanze indichino il contrario». Sicché è ricavabile da tale disposizione l’attenuazione della responsabilità contrattuale dipendente dagli scopi contrattuali, la cui rilevanza può tuttavia essere esclusa convenzionalmente dalle parti257.
Altra disposizione fondamentale del Restatement of the Law Second è § 261, con il quale si ha l’estensione della regola dell’UCC del criterio del mutamento delle basic assumptions a tutti i tipi di contratti e non solo a quelli di vendita di merci, stabilendo che «se, dopo la conclusione del contratto, la prestazione di una parte diviene impraticabile, senza sua colpa, a causa del sopravvenire di un evento la cui verificazione aveva costituito un assunto di base nella stipulazione del contratto, la parte è liberata dall’obbligo di eseguire la prestazione, a meno che dal testo del contratto o dalle circostanze risulti diversamente»258. La definizione
to perform, he must allocate production and deliveries among his customers but may at his option include regular customers not then under contract as well as his own requirements for further manufacture. He may so allocate in any manner which is fair and reasonable. (c) The seller must notify the buyer seasonably that there will be delay or non-delivery and, when allocation is required under paragraph (b), of the estimated quota thus made available for the buyer.».
254 Per il testo di questo articolo si rimanda a xxx.xxx.xxxxxxx.xxx.
255 Cfr. GIUSTI, op. cit., 180.
256 Cfr. AMBROSOLI, op. cit., 161.
257 Cfr. Ibidem, 162.
258 Restatement (second) of contracts §261 (1981).
di “impraticable” è ricavabile dal commento della norma, ove si dice che una prestazione diviene tale in caso di «extreme and unreasonable difficulty, expense, injury, or loss to one of the parties»259, cioè quando non può essere eseguita se non con irragionevole difficoltà rispetto a quanto si era preventivato in sede di conclusione del contratto, non essendo tuttavia sufficiente un mero mutamento dei costi da sostenere, occorrendo invece una significativa alterazione degli stessi, di carattere eccezionale, come nel caso in cui vi sia una carenza notevole di materie prime o di fonti di approvvigionamento260. Da tale commento emerge inoltre che, affinché sia qualificata come impraticable, il debitore deve aver posto in essere ogni ragionevole sforzo (“reasonable efforts”) al fine di superare l’impedimento e, ciononostante non essere stato in grado di eseguire la prestazione.
Dall’analisi della sopracitata disposizione e del relativo commento da cui è ricavabile l’interpretazione da attribuire al termine “impraticable” è poi possibile, secondo parte della dottrina261, ricavare i tre elementi necessari perché il contratto possa essere considerato frustrato:
1. oggetto di frustrazione deve essere stato lo scopo principale del contratto, cioè il fine ultimo in assenza del quale le parti non avrebbero concluso il negozio;
2. deve trattarsi di una frustrazione totale, non essendo sufficiente quella parziale, cioè quella che rende solo economicamente meno conveniente l’affare, ma la cui esecuzione non comporta danni economici rilevanti alla parte debitrice (perdite);
3. l’evento sopravvenuto deve essere tale, cioè non doveva essere previsto o prevedibile dalle parti contraenti che non devono essersi assunte, anche implicitamente, il rischio del suo verificarsi;
Va precisato che, nonostante vi sia stato riconoscimento dell’impraticability anche a livello normativo, essa continua a trovare applicazione eccezionale, nonostante la dottrina abbia dimostrato per molto tempo un certo favor per la revisione del contratto: la giurisprudenza adotta un atteggiamento restrittivo nel
259 Dunque, con «estrema e irragionevole difficoltà, spesa, pregiudizio, o perdita di una delle parti».
260 Si veda Restatement (Second) of Contract (1981), §261, Comment d: «[a] severe shortage of raw materials or of supplies due to unforeseen shutdown of major sources of supply, or the like, which either causes a marked increase in cost or prevents performance altogether may bring the case within the rule stated in this Section.»
261 Cfr. AMBROSOLI, op. cit.,162.
riconoscerla, negando la possibilità per le ipotesi di impraticability di ricorrere alla rinegoziazione da parte dei contraenti o alla revisione giudiziale262 del contratto.
Tuttavia, da una parte della giurisprudenza di common law è emersa, seppur in rare occasioni, la volontà di incentivare le parti alla rinegoziazione nei contratti a lungo termine263 rispetto ai quali prevedibilità delle sopravvenienze è più complessa a causa della loro durata. Con riguardo a questi tipi di contratti, la giurisprudenza ad esempio nel caso Staffordshire Area Health Autority v. South Staffordshire Waterwords Co.264, riconobbe la facoltà del contraente onerato da circostanze sopravvenute di sciogliere, con congruo preavviso, il contratto: si trattava di un contratto di fornitura d’acqua a misura fissa, il cui prezzo a seguito dell’inflazione verificatasi circa sessant’anni dopo divenne insufficiente. La Corte riconobbe come implicito il diritto di recesso della parte svantaggiata, sicché le parti a seguito della sentenza dovettero rinegoziare i termini contrattuali rendendo il prezzo adeguato e non più irrisorio.
In altri contesti la giurisprudenza, quale alternativa al rimedio risolutorio, ha riconosciuto la facoltà del giudice di revisionare il contratto: ciò si è verificato ad esempio nel caso Alcoa v. Essex265, ove in base ad un contratto di lunga durata la Aluminium Company of America avrebbe dovuto fornire alla Essex Group Inc. una certa quantità di alluminio per fonderlo e rifornirlo nuovamente alla prima una volta fuso. Il prezzo di rivendita di Alcoa era stato inizialmente stabilito anche sulla base di elementi variabili (quali ad esempio i costi di produzione lavorativi): nello specifico la formula che stabiliva il prezzo da applicare all’alluminio conteneva il WPI, sicché l’aumento del prezzo dipendeva dai prezzi all’ingrosso; il contratto inoltre conteneva il prezzo massimo che l’Essex avrebbe dovuto pagare in caso di aumento rilevante del WPI al verificarsi di eventi sopravvenuti, costo massimo che avrebbe esposto la situazione economico-finanziaria di Alcoa a pesanti perdite: l’alluminio sarebbe stato acquistato da Alcoa a 36 centesimi per libbra, per poi essere veduto dalla Essex a 73 centesimi sul mercato. La corte Distrettuale della Pennsylvania, in tale occasione, decise di revisionare giudizialmente il corrispettivo originariamente pattuito, ormai non più congruo rispetto alla situazione economica
262 Cfr. XXXXXXX, op. cit., 90 e CABELLA PISU, op. cit., 142.
263 Cfr. XXXXXXX, op. cit., 90.
264 Staffordshire Area Health Autority v. South Staffordshire Waterwords Co., 1978, 1 WRL 1387, 3 All ER 769, CA.
corrente al momento in cui è stato instaurato il giudizio, affermando che «un rimedio che modifichi il corrispettivo contrattuale alla luce delle circostanze che hanno inciso sulla formula per l’indicizzazione originariamente divisata garantirà meglio di qualunque altra forma di tutela gli scopi e le aspettative delle parti»266.
266 Aluminum Co. of America vs. Essex Group Inc., United States District Court, Western District of Pennsylvania ne Il Foro Italiano, vol. 104 n. 9, 1981, 363 ss.
Capitolo III
RAPPORTO TRA DIRITTO DI RECESSO E C.D. OBBLIGO DI RINEGOZIAZIONE: RIMEDI
ESTINTIVI E MANUTENTIVI A CONFRONTO
SOMMARIO: 1. Le asimmetrie contrattuali nei rapporti di durata e il ruolo del fattore tempo – 2. Il recesso e la sua inadeguatezza per talune ipotesi di contratti di durata – 3. Rinegoziazione del contratto: obbligo o facoltà? – 4. Il procedimento rinegoziativo e le conseguenze della mancata rinegoziazione – 5. Normativa emergenziale conseguente all’epidemia da Covid-19 e arresti giurisprudenziali relativi ai contratti di durata – 6. La giurisprudenza del Consiglio di Stato e la rilevanza degli interessi pubblicistici sottesi all’esecuzione del contratto con la P.A.
1. Le asimmetrie contrattuali nei rapporti di durata e il ruolo del fattore tempo.
L’analisi sino ad ora svolta, avente ad oggetto le sopravvenienze nei contratti di durata, evidenzia come la caratteristica propria degli ordinamenti giuridici, in particolare quello italiano, sia quello di ricorrere a rimedi perlopiù ablativi, nonostante non si tratti dell’unica soluzione adottabile e, soprattutto, di quella più conveniente per le parti, le quali, nel contesto moderno di scambi commerciali continuamente colpiti da sopravvenienze, sarebbero più efficacemente tutelate da rimedi di tipo manutentivo, la cui trattazione è al centro di questo capitolo.
I rapporti commerciali, a causa della crisi economica267 manifestatasi negli ultimi anni, sono profondamente mutati: la più evidente tra le differenze, constatabile rispetto al sistema produttivo di un tempo, è una sempre maggiore tendenza verso il consumismo che, per quanto non sostenibile né dal punto di vista etico che ambientale, è un tratto caratterizzante nel rapporto tra imprese e consumatori, talvolta vittime di prevaricazioni della parte economicamente più forte e, per questo motivo, maggiormente bisognose di tutela. In realtà va precisato
267 Cfr. LA ROSA, Tecniche di regolazione dei contratti e strumenti di tutela, Milano, 2012, 1; XXXXXXX, op. cit., Napoli, 1996, 15, ove è presente un’analisi economica dei fenomeni giuridici.
come la “patologia”268 consistente nelle asimmetrie contrattuali269, imponga la tutela non solo del consumatore, ma di tutte le categorie pregiudicate da tale fenomeno, incluse le imprese concorrenti, professionisti effettivi o potenziali. Dunque, la regolamentazione del mercato non è finalizzata alla protezione del solo contraente debole uti singulis, in passato incasellato nelle più diverse categorie (ad esempio consumatore, imprenditore, etc.), bensì del contraente quale categoria unitaria, cui si applicano regole e rimedi uniformi, indipendentemente dalla posizione giuridica rivestita (dunque sia che si tratti di un contraente debole, che un imprenditore ad esempio).
Parte della dottrina270, evidenzia in questa prospettiva come le regole giuridiche applicabili agli squilibri contrattuali, siano esse di matrice legislativa o giurisprudenziale, debbano essere contestualizzate nel sistema economico oggi vigente: in particolare si sostiene come dal confronto tra siffatte regole e le esigenze legate all’organizzazione dell’attività di impresa scaturirebbe una sorta di “moto circolare”, sicché l’inserimento della disciplina del contratto nel mondo degli affari si rifletterebbe nell’inquadramento dell’affare nelle regole e nei principi che sono a fondamento della costruzione delle categorie giuridiche. A condividere la reciproca influenza tra regole contrattuali e sistema economico in cui si inseriscono, altra parte della dottrina271 ha infatti affermato come scegliere il tipo contrattuale di cui servirsi per perseguire un certo fine, non sarebbe una scelta legata al solo “diritto” inteso in senso astratto, ma una scelta giuridico-economica, soprattutto per i contratti di durata, tipici dell’attività di impresa «che vive di atti economici giuridicamente rilevanti»272.
268 Cfr. XXXXX, op. cit., 7. Sul punto si veda anche NIVARRA, Tutela dell’affidamento e apparenza nei rapporti di mercato, in Europa dir. priv., 2013, 835; ASTONE, Rimedi e contratti del consumatore nella prospettiva del diritto privato europeo, in Europa dir. priv., 2014, 9.
269 Per un maggior approfondimento sul tema delle asimmetrie contrattuali si xxxx XXXXX, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, in Riv. dir. priv., 2001, p. 769 ss; CAMARDI, Contratti di consumo e contratti tra imprese. Riflessioni sull’asimmetria contrattuale nei rapporti di scambio e nei rapporti “reticolari”, in Riv. crit. dir. priv., 2005, p. 581 ss.; X’XXXXX, Giustizia contrattuale e contratti asimmetrici, in Eur. dir. priv., 2019, 1, p. 1 ss.
270 Si veda SANTINI, Il commercio, Bologna, 1979, 14: egli sostiene come la scelta da parte dei soggetti economici di un tipo contrattuale in alternativa ad un altro, non sia priva di rilevanza non solo dal punto di vista giuridico, ma anche economico.
271 Cfr. SANTINI, op. cit., 14. L’Autore sostiene dunque che il diritto va analizzato «tenendo conto che l’intero sistema di norme, gravita attorno a fenomeni economici, ossia a scelte pratiche precise, che costituiscono anch’essi un sistema, più reale, eventualmente, da quello ricavabile dal codice (o da categorie astratte da questo tradizionalmente ricavate». Per un maggior approfondimento sul tema si veda anche XXXXXXXXX, Errore, volontà e affidamento del negozio giuridico, cit., 8 ss.; 272 Ibidem.
Nell’ultimo decennio, sia l’ordinamento interno che il sistema europeo, hanno visto la nascita di contratti sempre più complessi273, il che porta a due principali riflessioni274: in primo luogo, la nascita di nuovi tipi contrattuali segna inesorabilmente la sempre maggiore incidenza rivestita dall’autonomia privata nella predisposizione dei negozi giuridici; in secondo luogo, si osserva un progressivo affermarsi di profonde asimmetrie tra le parti nei nuovi tipi contrattuali, rischio che ha portato alla nascita di sistemi rimediali alternativi a quelli ablativi.
Come si è accennato in apertura, il sistema economico attuale, di stampo capitalista e fortemente consumistico, ha innescato rapporti economici – dunque contrattuali – ove il c.d. contraente forte può ottenere vantaggi economici rilevanti a discapito del c.d. contraente debole: il fattore in grado di spiegare perché tale effetto si produca è la c.d. “asimmetria informativa”275 in capo al contraente debole il quale, avendo meno conoscenze sulle logiche che governano il mercato e sulle valide alternative cui potrebbe accedere, può incorrere altresì in una situazione di asimmetria economica. Tale asimmetria può però verificarsi anche qualora entrambe le parti siano imprese e dunque professionisti, che hanno tuttavia forze economiche diverse: in questo caso è invece il fattore tempo, sottolinea parte della dottrina276, a svolgere un ruolo cruciale, in quanto i contratti di durata o di lungo termine consentirebbero all’impresa debole di dilatare nel tempo l’attività svolta a favore dell’impresa forte, sicché la frattura temporale tra la nascita del contratto e la sua attuazione assumerebbe rilevanza, ammortizzando lo sforzo richiesto alla parte debole.
Al di fuori delle ipotesi di asimmetria informativa o di diversa forza economica tra le parti, lo squilibrio contrattuale è però in primo luogo, come si è evidenziato più volte, il frutto delle sopravvenienze contrattuali nella loro generalità, poiché rendono il contratto inidoneo a perseguire gli interessi per cui è stato stipulato: in tal senso l’equilibrio fra prestazione e controprestazione,
273 Si rimanda a XXXXX, Economia e Società, Milano, 1995, 19 sostiene come «con ogni ampliamento del mercato questi negozi giuridici diventano sempre più numerosi e complessi». Sul tema si veda anche XXXXXXXXXXXX, Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli, 1969, 94 ss. il quale afferma che «come cresce il traffico, così l’autonomia privata si adegua ad esso, avvalendosi di strumenti sempre più numerosi e, al contempo, più duttili ed elastici».
274 XXXXX, op. cit., 3.
275 Ibidem, 10 ss. Xxxx’asimmetria informativa si rimanda alle riflessioni di XXXXXXXXXX, Xxxx e ombre nell’immagine del terzo contratto, in Il terzo contratto, Bologna, 2008, 319 ss., secondo la quale è l’asimmetria informativa il fattore che limita il potere di negoziazione del consumatore (contraente debole), che potrebbe non accedere così alle alternative presenti sul mercato.
276 Cfr. TERRANOVA, op. cit., 238.
inizialmente affidato all’autonomia contrattuale, sottintendendo un assetto di fatto non più corrispondente alla realtà, viene meno. L’ordinamento, laddove tale equilibrio risulti dunque pregiudicato da eventi sopravvenuti, predispone due categorie di rimedi: ablativi, con cui il contratto cessa di avere efficacia, e manutentivi, volti a rinegoziare le condizioni inizialmente pattuite affinché il contratto possa essere conservato. L’ordinamento interno presenta infatti, quale principio inderogabile nell’ambito dei contratti a prestazioni corrispettive, il necessario mantenimento dell’equilibrio sinallagmatico277, inteso come rapporto di valore che le parti hanno attribuito alle reciproche prestazioni e che le ha spinte a concluderlo. Parte della dottrina278 tuttavia, precisa come l’equilibrio tra le prestazioni non sia rilevante per il sistema «almeno fin tanto che l’alterazione della corrispettività non attinga forme inaccettabili, dinanzi alle quali l’ordinamento consenta al soggetto leso la possibilità di agire per paralizzare gli effetti dell’atto»279.
I rimedi manutentivi, di cui si dirà meglio in seguito, si applicano ai soli contratti di durata, sui quali occorre svolgere un maggior approfondimento. Si tratta di quei contratti «destinati a durare nel tempo»280. Parte della dottrina ha sottolineato che «come tutto ciò che esiste, anche il diritto si esplica nello spazio e nel tempo»281:anche i contratti, infatti, si sviluppano in una dimensione non solo spaziale, ma anche temporale282, rilevando in particolare tre momenti: il momento in cui nasce, viene svolto e cessa il contratto. Altra parte della dottrina283 sostiene in tal senso come un fenomeno possa avere rilevo giuridico solo quando inserito in un determinato contesto temporale. Ciò in quanto, essendo il mondo giuridico un
«sistema coerente di fatti ed effetti»284, ove ad ogni mutamento ed alterazione dei fatti corrisponde una modificazione dei relativi effetti, non si potrebbe attribuire carattere di giuridicità se non a quei fatti che rientrano nell’automatico succedersi di cause ed effetti giuridici. Ne discenderebbe, secondo l’Autore, che ogni fatto non collocabile nel tempo –e dunque atemporale –sia giuridicamente indifferente.
277 Si veda XXXXXXX, op. cit., 31.
278 Cfr. XXXXXXXXX, Revisione del rapporto, in Enc. Dir., Milano, 1989, 128.
279 Ibidem.
280 XXXXXXX, op.cit. 13.
281 RAMPONI, La determinazione del tempo nei contratti, in Arch. Giur., 1890, 295.
282 Cfr. XXXXXXX, op. cit., 19.
283 Cfr. XXXXX, voce Termine, in Enc. Giur., Milano.
284 Ibidem.
L’attività giuridica, dunque, in quanto attività umana, si dipana ed è scandita dal tempo285: i fatti presi in considerazione dai giuristi si collocano in un preciso momento e ciò è rilevante, come si vedrà di seguito, non solo da un punto di vista meramente teorico, ma anche pratico-applicativo.
Nell’ambito dei contratti di durata, altra parte della dottrina286, evidenzia come il tempo svolga una duplice funzione: si tratterebbe di un elemento essenziale del negozio ma anche di un fattore in grado di mettere in luce gli interessi perseguiti dalle parti tramite il contratto e, dunque, la causa dello stesso. Il tempo sarebbe lo strumento che consente di stabilire la funzione economico-sociale del contratto, tramite il quale le parti cercano di perseguire i reciproci interessi e, più nello specifico, un utile287, proporzionale alla durata stessa del negozio stipulato. Il carattere temporale assumerebbe così rilevanza causale del contratto, in quanto consentirebbe di individuare il tipo288 cui appartiene.
Autorevole dottrina289 sostiene che «la causa nei contratti di durata, non consiste nell’assicurare ad una parte una singola prestazione isolata, ancorché tale prestazione possa pretendere dal debitore una precedente attività continuativa (locatio operis), o possa essere effettuata in parti e in momenti diversi (contratti ad esecuzione ripartita), ma nell’assicurarle la ripetizione di una prestazione per una certa durata, o la prestazione di un’attività continuativa , come tale, del debitore, per una certa durata»290. Essendo infatti la durata l’elemento definitorio della causa contrattuale, nelle ipotesi in cui oggetto di obbligazione sia la ripetizione di prestazioni – che, isolatamente considerate, potrebbero costituire oggetto di un contratto ad esecuzione istantanea– il tempo diverrebbe fattore atipico rispetto ai contratti ad esecuzione istantanea e consentirebbe di distinguere quest’ultimi da quelli di durata.
Dal punto di vista storico, i contratti di durata nascono nel XX secolo dalla necessità di perseguire interessi a lungo termine, dunque tramite una lunga fase
285 Cfr. RAMPONI, op. cit., 295.
000 Xxx, XX XXXX, Xx tipo contrattuale, Xxxxxx, 0000.
287 Si rimanda a OPPO, I contratti di durata, in Riv. Dir. Comm., 1943, 174 ss.
288 Si veda DE NOVA, op. cit., Padova, 1974, 107. Fondamentale in tal senso risulta essere anche quanto affermato da SANGIORGI, Rapporti di durata e recesso ad nutum, Milano, 1965, p. 19 secondo il quale «il tempo concorre a determinare la struttura del rapporto, ponendosi quale nota individuatrice della prestazione, che si attua attraverso un adempimento continuato, adeguando il mezzo giuridico all’interesse da tutelare».
289 OPPO, op. cit., 174 ss.
290 Ibidem.
esecutiva291 del contratto, che tuttavia accresce la probabilità che si verifichi una delle sopravvenienze sino ad ora analizzate e, di conseguenza, uno squilibrio contrattuale. Tali contratti hanno avuto una notevole diffusione, in quanto da sempre concepiti quali strumenti negoziali maggiormente affidabili.
La dottrina si è da sempre occupata della distinzione tra le diverse categorie di contratti di durata e, tra i tanti autori, sembra opportuno affrontare preliminarmente la classificazione adottata da Giorgio Oppo292, il quale in uno scritto redatto subito dopo l’entrata in vigore del codice del 1942, mise in luce come il fattore temporale, svolgesse un ruolo diverso nelle tre categorie, da lui individuate, di contratti di durata. Il primo tipo di contratto di durata sarebbe il c.d. “contratto a esecuzione differita”, ove il fattore tempo svolgerebbe da termine per l’esecuzione di una o di entrambe le prestazioni dei contraenti. Secondo Oppo, tali contratti sarebbero ricompresi nella più ampia categoria dei contratti istantanei, che però rimandano l’esecuzione delle prestazioni ad un momento successivo rispetto alla sua stipulazione.
Il secondo tipo di contratto di durata, si distinguerebbe dal primo in quanto richiederebbe un certo lasso di tempo per la sua esecuzione: si tratterebbe di quei contratti che implicherebbero «un’attività continua del debitore, diretta a permettere l’esecuzione di un’unica prestazione finale ad un certo termine»293, cosicché pur non essendo un contratto la cui esecuzione è immediata, il tempo svolgerebbe anche in questo caso il ruolo di termine ultimo per adempiere all’obbligazione assunta. La terza e ultima tipologia individuata è quella dei cc. dd. “contratti di durata”294, nei quali il tempo non costituirebbe il termine per adempiervi, ma l’estinzione dell’obbligazione avverrebbe svolgendo una certa attività per un periodo di tempo continuativo: in tal modo ad essere di lunga durata non sarebbe il solo contratto, ma anche le singole prestazioni oggetto di obbligazione, che verrebbero eseguite ripetutamente nel tempo. Si tratterebbe di prestazioni per loro stessa natura continuative e ripetute nel tempo, sicché quest’ultimo diverrebbe l’elemento necessario e sufficiente per determinare se il contratto è stato effettivamente adempiuto. Secondo l’Autore dunque, il tempo, o
291 Cfr. TUCCARI, Sopravvenienze e rimedi nei contratti di durata, cit., 1.
292 Cfr. OPPO, op. cit., 1943, 143 ss.
293 Ibidem, 155.
294 Su siffatta distinzione si veda anche PAGLIANTINI, La risoluzione dei contratti di durata, Milano, 2006, 364 ss.
meglio «la durata dell’adempimento»295 e non la durata del rapporto, svolgerebbe un ruolo imprescindibile al fine di individuare la categoria dei cc. dd. contratti di durata.
In realtà la dottrina si è da sempre occupata di tale distinzione di carattere dogmatico e, una parte di essa296, ha ritenuto che la ricostruzione operata da Xxxx, rischierebbe di escludere dalla categoria dei contratti di durata alcuni contratti quali il mutuo297 – poiché l’interesse del mutuatario non verrebbe perseguito mediante l’esecuzione portata avanti nel tempo di una prestazione – e il contratto di assicurazione298 ove l’assicurato non vedrebbe eseguita la prestazione da lui attesa tramite un’obbligazione di durata. A confermare l’importanza del tema, va ricordato quanto affermato da Xxxxxxxx, il quale sostiene come occorra «distinguere tra i contratti che si perfezionano in un unico momento e riguardano solo il tempo in cui si sono fatti, dai contratti che hanno tratto successivo e dipendono dal futuro»299. Secondo l’Autore i primi contratti citati sarebbero considerati dai giuristi come immediatamente consumati, a differenza dei secondi che si rinnoverebbero in un momento successivo, di prestazione in prestazione.
Più di recente la dottrina300 ha sostituito la tripartizione di Oppo, con una bipartizione nei contratti di durata, distinguendoli in sole due categorie: i contratti ad esecuzione differita e i contratti ad esecuzione continuata o periodica. Peraltro, questa distinzione appare maggiormente fedele a quella operata nell’ambito del Codice civile del 1942301, il quale si riferisce ai soli “contratti ad esecuzione differita” e ai “contratti ad esecuzione continuata o periodica”, riservando a ciascuna categoria una disciplina giuridica differente. Partendo dalla loro definizione rientrano nella categoria dei contratti ad esecuzione differita tutti quei contratti in cui l’adempimento della prestazione oggetto di obbligazione deve
295 In realtà la teoria di Xxxx è stata condivisa da molti Autori e, tra questi si ricorda XXXXXXXXX, op. cit., 19 ss.
296 Si veda sul punto LUMINOSO, Il rapporto di durata, in Riv. Dir. Civ., 2010, 501. ss. e LONGOBUCCO, Rapporti di durata e divisibilità del regolamento contrattuale, Napoli, 2012, 12 ss.
297 Cfr. FRAGALI, Del mutuo, artt. 1813- 1822, in Comm. Cod. Civ., a cura di XXXXXXXXXXXXX, 1966, 20 ss.
298 Cfr. OPPO, op. cit., 229 ss; XXXXXXXXXX, L’assicurazione contro i danni, Napoli, 1949, 14 ss; XXXXXXXXX, op. cit., 71 ss.
299 XXXXXXXX, Risolubilità dei contratti a lungo termine nel successivo mutamento dello stato di fatto, 1899, 5.
300 Cfr. XXXXX, op. cit. 511-512.
301 Si vedano ad esempio i seguenti articoli: artt. 1373 c.c., 1467 c.c., 1458 c.c.
avvenire in un momento successivo alla stipula del contratto (ad esempio la vendita di un bene con pagamento dilazionato o frazionato nel tempo o la vendita priva di effetto traslativo immediato). Venendo ora alla seconda categoria, essa prevede due ulteriori sottocategorie:
1. I contratti ad esecuzione continuata, ove la prestazione viene svolta nel tempo, senza che vi sia soluzione di continuità302: ciò avviene ad esempio nel contratto di deposito, per la prestazione del depositario;
2. I contratti ad esecuzione periodica, ove «la prestazione si attua con erogazioni di beni o attività ripetute a intervalli di tempo»303 (come avviene per la retribuzione dovuta dal datore di lavoro al lavoratore dipendente).
I contratti di durata vanno infine distinti dai contratti sottoposti ad un termine per la loro esecuzione, che pur prevedendo l’esecuzione delle prestazioni collocate nel tempo, non soddisfano, a differenza dei primi, l’interesse delle parti all’esecuzione continuativa delle prestazioni nel tempo. È la durata delle prestazioni da eseguirsi a distinguere i contratti di durata da quelli istantanei, ove però l’adempimento non è immediato, ma deve verificarsi entro un termine stabilito in sede di conclusione.
Peraltro, già la dottrina più risalente304 si era occupata di stabilire se la durata fosse un elemento qualificante del rapporto (obbligazione unica), oppure se semplicemente determinasse la suddivisione del contratto in più obbligazioni autonome, da svolgersi nel tempo. Si è sostenuto a tal proposito che mentre il contratto svolge il ruolo di strumento per mediare gli interessi contrapposti delle parti e che perciò non richiede una particolare strutturazione temporale, l’obbligazione unica e continuata nel tempo soddisfa un diverso interesse, consistente nella realizzazione di un bisogno durevole nel tempo.
Il ruolo rivestito dalla durata dell’obbligazione contenuta nel contratto ha dei risvolti normativi rilevanti: il legislatore, infatti, nelle singole disposizioni codicistiche dedicate ai contratti di durata, mette in luce il “carattere relazionale”305di siffatti negozi, dedicando loro una specifica disciplina in tema di
302 Cfr. XXXXX, op. cit., 512.
303 Ibidem.
304 In primis si ricorda OSTI, Appunti per una teoria della sopravvenienza. La cosiddetta clausola rebus sic stantibus nel diritto contrattuale odierno in Riv. dir. civ., 1913, 484 e SANGIORGI, op. cit., 23.
305 XXXXXXX, op. cit., 84.
recesso, impossibilità sopravvenuta, eccessiva onerosità sopravvenuta e, soprattutto per il mantenimento di un equilibrio tra le reciproche prestazioni per mezzo dello strumento rinegoziativo, di cui si vedrà in seguito.
2. Il recesso e la sua inadeguatezza per talune ipotesi di contratti di durata.
La bipartizione appena esposta dei contratti di durata non ha valore meramente dogmatico, ma incide sulla possibilità delle parti di esercitare il diritto di recesso, che, insieme alla risoluzione, rientra negli strumenti cc. dd. “estintivi” e tranchant dei contratti.
Prima di procedere ad esaminare i risvolti pratico-applicativi del diritto di recesso, si ritiene necessario tracciarne preliminarmente i caratteri306. In primo luogo, il recesso è un negozio unilaterale con cui una parte si scioglie da un vincolo contrattuale, di secondo grado (in quanto incide su un contratto preesistente), irrevocabile e recettizio, che dunque non produce effetti sino a quando tale dichiarazione non sia giunta all’indirizzo del destinatario, secondo quanto stabilito dall’art. 1334 c.c.307.
Per quanto attiene alla forma308 del recesso, un quesito che si è posto è se debba rivestire la stessa forma del contratto di cui dispone lo scioglimento. Analizzando il dato normativo, l’art. 1373 c.c. non impone alcuna forma vincolata309: tuttavia la giurisprudenza ha chiarito come la volontà di recedere dal contratto debba, comunque «essere sempre redatta in termini inequivoci, tali da non lasciare alcun dubbio circa la volontà dei contraenti di inserirla nel negozio da loro sottoscritto»310. Nonostante il nostro ordinamento non contenga quindi una norma che disciplini la forma del recesso, la dottrina311 ritiene pacificamente come questa debba rivestire forma vincolata se ciò è previsto dalla fonte che attribuisce il diritto di recedere (ad esempio la legge o una clausola del contratto) e che, anche in mancanza di tale vincolo, si applichi il principio generale di simmetria delle forme,
306 Cfr. XXXXX, op. cit., 53. Per un maggior approfondimento sul diritto di recesso si veda anche XXXXXXXXX e PADOVINI, Recesso (dir. priv.), in Enc. Dir., Milano, 1988, 41.
307 L’art. 1334 c.c. stabilisce infatti che gli atti unilaterali producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona ai quali sono destinati.
308 Cfr. XXXXX, op. cit., 510 e XXXXX, op. cit., 52.
309 Si veda Cass. Civ. Sez. I, 21 aprile 1983, n. 2741.
310 Cass. Civ. Sez. II, 26 novembre 1987 n. 8776 in DeJure.
311 Cfr. XXXXX, op. cit., 510.
in forza del quale se la legge richiede per un determinato contratto la forma scritta ad substantiam, tale forma dovrà essere applicata anche ai negozi estintivi e modificativi dello stesso (dunque anche al recesso). La conferma di siffatto orientamento è ravvisabile in un arresto giurisprudenziale, avente ad oggetto un contratto preliminare di compravendita di immobili, ove la Cassazione ha stabilito come nei contratti formali «le cause modificative o estintive del rapporto debbono risultare da fattori prestabiliti dalle parti nello stesso contratto e debbono essere, comunque, espresse nella forma del contratto al quale si riferiscono». Di conseguenza, continua la Corte «l’accordo solutorio e la dichiarazione di recesso debbono rivestire la stessa forma scritta richiesta per la stipulazione del contratto preliminare»312.
Questo maggior rigore, richiesto per esercitare il recesso, che non si osserva nel caso di mutuo consenso nello sciogliere il contratto, si giustifica proprio con la natura unilaterale di questo diritto potestativo, poiché si vuole garantire una maggior tutela in termini di certezza del diritto alla parte che subisce gli effetti del recesso.
La prima classificazione in materia di recesso era stata operata all’indomani dell’entrata in vigore del Codice civile da Mancini313, il quale partendo dalla distinzione di matrice tedesca tra ordentliche e außerordentliche Kündigung314, aveva distinto tra recesso315 ordinario e recesso straordinario. Il recesso ordinario (o determinativo)316, opera nei contratti di durata, privi di un termine finale, impedendo così che il negozio si protragga indefinitamente nel tempo. In questo caso si tratta di un recesso ad nutum317 in cui le parti per qualsiasi motivo e in qualunque momento, possono sciogliersi unilateralmente dal vincolo. Il recesso ordinario, incidendo dunque su contratti a tempo indeterminato, privi di termine
312 Cass. Civ. Sez. III, 18 febbraio 1994 n. 1609 in DeJure. Conforme a questa giurisprudenza si veda anche Xxxx. Civ. Sez. II, 14 agosto 1986 n. 5059 in DeJure.
313 Cfr. XXXXXXX, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro. Il recesso ordinario, Milano, 1962, 209: qui l’Autore sostiene come «la facoltà di recesso ordinario non tollera, di regola, limiti reali che non siano puramente temporali, [poichè] l’insorgenza del relativo potere non può, in linea di principio, venir fatta dipendere dall’avverarsi di eventi incerti a meno di rendere illusoria la tutela della temporaneità che con esso si è intesa assicurare».
000 XXXXXXX, Xxx Xxxxxxxxx, Xxxxxxx, 0000.
315 Per un maggior approfondimento sul tema del recesso si veda TOMMASINI, Lo scioglimento del contratto preliminare, in AA. VV., Recesso e risoluzione dei contratti, a cura di DE NOVA, Milano, 1994, 87 e SANGIORGI, Recesso, in Enc. Giur., Roma, 1991, 2-3.
316 Cfr. CHECCHINI-COSTANZA-XXXXXXXX-GENTILI-XXXXXXX-VETTORI, Effetti del contratto, Torino, 2002, 686.
317 Cfr. XXXXX, op. cit., 56.
finale, secondo una dottrina più risalente318, svolgerebbe una funzione integrativa319del contratto attuando quel principio per cui nessuno può ritenersi vincolato ad un contratto in modo perpetuo320; secondo la dottrina321 più recente invece, il recesso determinativo svolgerebbe una diversa funzione: dato che nei contratti ad esecuzione continuata o periodica l’oggetto della prestazione varia in base alla durata, il recesso consentirebbe di stabilire a posteriori l’oggetto, e dunque, il contenuto del contratto, potenzialmente perpetuo.
Si tratterebbe di una tipologia di recesso esercitabile, dunque, anche in mancanza di una specifica norma o clausola del contratto che attribuisca al contraente tale facoltà, indipendentemente dal verificarsi di un’alterazione contrattuale e senza che sia dovuto alcun risarcimento del danno a favore della controparte. Vi sono tuttavia specifici tipi contrattuali per i quali il codice prevede espressamente tale facoltà: ciò avviene ad esempio per il contratto di locazione (art. 1596 c.c.), affitto (art. 1616 c.c.), agenzia (art. 1750 c.c.) o deposito (art. 1771 c.c.), per i quali tuttavia è richiesta, quale condizione per l’esercizio del recesso, il rispetto di un congruo preavviso322, salvo che la giusta causa di recesso sia così grave da impedire lo svolgimento del contratto anche solo per il periodo necessario ad assicurare il rispetto di tale termine: in tal caso il recesso avrà efficacia senza il rispetto del termine di preavviso e il contratto si scioglierà con effetti immediati (art. 1725, comma 2° e art. 1727, comma 1°).
Il recesso straordinario323 invece, a differenza del recesso ordinario, opera solo nei casi espressamente previsti dalla legge (recesso legale) o dal contratto (recesso convenzionale) ed è una figura individuata perlopiù in giurisprudenza55,
318 Cfr. XXXXX, Il contratto, cit., 550; XXXXXXXX, Degli effetti del contratto, cit., 339 s.; XXXXXXXXX, Dei contratti in generale, 3ª ed., in Comm. cod. civ. Utet, Torino, 1980, 297; XXXXXXX, Il recesso unilaterale, cit., 236 ss.; XXXXXXXXX, Il recesso unilaterale dal contratto, Torino, 1939, 186 ss.
319 Cfr. ROPPO, ibidem.
320 A proposito del recesso determinativo si ricorda quanto affermato da XXXXX, Il contratto, cit., 518, secondo il quale il recesso determinativo sarebbe un recesso di liberazione consentendo al contraente di liberarsi dal vincolo che «peserebbe in modo intollerabile sulla sua libertà». Si richiama altresì PAROLA, Il recesso determinativo di fonte legale, in Obbl. contr., 2011, 209, ove si afferma come il recesso ordinario sia espressione di un principio di ordine pubblico a tutela della libertà del singolo, ma anche della collettività poiché assicura una più celere e semplice circolazione dei beni sul mercato.
321 Cfr. XXXXXX, Xxxxxxx e vincolo, cit., 117; DE NOVA, voce Recesso, cit., 319; XXXXXXXXX, Vincolo contrattuale e recesso, cit., 16; XXXXXXXXX e XXXXXXXX, voce Recesso, cit., 29; XXXXXXXXX, op. cit., 184 ss.; ID., voce Recesso, cit., 5.
000 Xxx. XXXXXXX, Xx recesso dal contratto in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 19 dicembre 2002.
323 Si veda Cass. 16 maggio 1962, n. 1098, in Xxx. xxx. xxx., 0000, XX, 000.
che opera nei contratti a tempo determinato, a condizione che vi sia una giusta causa o un giustificato motivo per poterlo esercitare: esempio tipico è quello in cui si verifichi l’inadempimento altrui, che costituisce giusta causa di recesso, ma può costituire altresì il mezzo di impugnazione per vizi generici o su sopravvenienze oggettive, anche se «il contratto abbia avuto un principio di esecuzione»324.
In realtà, con l’entrata in crisi325 della concezione del recesso come strumento esclusivamente deputato alla liberazione di una parte dal contratto, parte della dottrina326 ha modificato la bipartizione in recesso ordinario e straordinario in una tripartizione, mantenendo fermo il recesso ordinario e ritenendo, invece, che per i contratti a tempo determinato non si debba parlare di una categoria unica, quale quella dei recessi straordinari, ma si debba ulteriormente distinguere tra recesso in autotutela e recesso di pentimento.
Partendo dal primo327il recesso può svolgere, in alcune ipotesi, una forma di autotutela laddove emergano vizi originari o sopravvenuti alla conclusione del contratto: in tal caso si parla di recesso in autotutela o di protezione. Trattandosi tuttavia di un rimedio esperibile solo laddove si verifichino eventi tali da modificare l’originario equilibrio contrattuale, parte della dottrina328 ha evidenziato come esso sia subordinato ad alcuni presupposti: giusta causa, giustificato motivo o comunque sopravvenienze oggettive. L’esempio329 per eccellenza di recesso in autotutela è rinvenibile nella disciplina dell’impossibilità parziale, di cui si è detto nel primo capitolo: all’art. 1464 c.c. è infatti sancito che, se la prestazione è divenuta parzialmente impossibile, il recesso è esercitabile dal creditore solo laddove non abbia più apprezzabile interesse all’adempimento parziale.
Per quanto attiene invece al recesso di pentimento o discrezionale, si tratta di uno ius poetendi330 che il codice concede per alcune tipologie di contratti di
324 Art 1373 c.1 c.c.
325 Sul declino del recesso ad nutum si rimanda a GIUGNI, La disciplina interconfederale dei licenziamenti nell’industria. Verso il tramonto del recesso ad nutum dell’imprenditore, Milano, 1954.
326 XXXXXXXXX-XXXXXXXX, voce «Recesso (diritto privato)», cit., 29 ss.
327 Per una più completa ricostruzione si veda XXXXX, op. cit., 67-68.
328 Cfr. LA ROSA, Clausola di gestione delle sopravvenienze e giudizio di vessatorietà, in Sopravvenienze e dinamiche di riequilibrio tra controllo e gestione del rapporto contrattuale, a cura di XXXXXXXXX, Torino, 2003, 255.
329 Un altro esempio di recesso in autotutela è quello in cui si ha recesso con ritenzione della caparra confirmatoria.
330 Sul punto ROPPO, ne Il contratto del duemila, Torino, 2003, 35 osserva come il valore del
vinculum sia stato “attaccato” dalla disciplina consumeristica, non solo perché ha introdotto delle
durata, sul presupposto che una delle parti potrebbe, sulla base di una mera valutazione di convenienza, non avere più interesse a mantenersi vincolato al contratto precedentemente concluso: le ragioni del recesso attengono dunque alla sola sfera interna del contraente che esercita tale facoltà. Si tratta di una forma di recesso che riguarda, per la maggior parte dei casi, contratti aventi ad oggetto obbligazioni di facere e che, a differenza degli altri tipi di recesso, non è subordinato ad una specifica motivazione o giustificazione, ma che è invece rimesso alla libera scelta della parte legittimata: questo è il motivo per cui lo stesso legislatore stabilisce come, trattandosi di un recesso ad nutum, colui che lo subisce abbia diritto al risarcimento commisurato all’interesse positivo331, comprendente dunque sia il danno emergente (spese sostenute), che il lucro cessante (mancato guadagno), poiché la parte pregiudicata da tale scelta deve essere rimessa nella stessa posizione in cui si sarebbe trovata se il contratto fosse stato eseguito per intero. L’obbligazione principale non risulta estinta, ma è invece sostituita con una di carattere risarcitorio: parte della dottrina332 ha sottolineato come la ratio della trasformazione dell’obbligazione originaria in risarcitoria consisterebbe nell’evitare da un lato che la parte che subisce il recesso non patisca alcun pregiudizio, ma dall’altro che vi sia un risparmio e diversa allocazione delle risorse, che la parte che recede potrà utilizzare altrove.
Un esempio di recesso di pentimento è ravvisabile in materia di contratto d’appalto, all’art. 1671 c.c., in base al quale «Il committente può recedere dal contratto, anche se è stata iniziata l’opera o la prestazione del servizio, purché tenga indenne l’appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno».
Tale indennizzo non è invece dovuto nei contratti consumeristici, ove invece il consumatore non deve, nel caso decida di recedere dal contratto, indennizzare il professionista per il danno subito, sul presupposto che, tale tipologia di contratti non è basata su un principio di parità delle parti, bensì da un’asimmetria informativa ed economica dovuta alle logiche di mercato oggi vigenti.
nullità relative, ma anche perché emergono dalle massime giurisprudenziali i cc.dd. “recessi di pentimento”.
331 Si rimanda a DELLACASA, Recesso discrezionale e rimedi contrattuali, Torino, 2008, 82 ove si evidenzia come sia rimesso all’autonomia privata la determinazione della misura del danno conseguenti al recesso.
332 Cfr. XXXXXXXXX e PADOVINI, op. cit., 27 ss.