Cass. civ., sez. I, 21 dicembre 2012, n. 23713
Cass. civ., sez. I, 21 dicembre 2012, n. 23713
È valido il contratto, stipulato dai nubendi prima del matrimonio, dove si prevede che, in caso di suo fallimento, uno di essi cederà all’altro un immobile di sua proprietà quale indennizzo delle spese sostenute da quest’ultimo per la ristrutturazione di altro immobile da adibirsi a casa coniugale.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza in data 14 dicembre 2005 il Tribunale di Macerata dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio tra P.M. e O.L.; affidava alla madre i figli minori, ponendo a carico del padre un contributo periodico al loro mantenimento; rigettava altresì la domanda riconvenzionale dell' O., volta ad ottenere sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., per la esecuzione in forma specifica dell'impegno assunto, con scrittura privata, dalla P., prima del matrimonio, di trasferire all' O. stesso la proprietà di immobile, in caso di "fallimento" del matrimonio stesso.
Avverso tale sentenza proponeva appello l' O., limitando il gravame alla questione della validità ed eseguibilità del predetto impegno, assunto dalla moglie. Costituitasi, la P. chiedeva rigettarsi l'appello. La Corte di Appello di Ancona, con sentenza in data 28/02/2007 - 14/03/2007, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Macerata, dichiarava valido ed efficace, nei confronti dell' O., il predetto impegno negoziale della P., omettendo peraltro pronuncia ex art. 2932 c.c., ed invitando la parte interessata ad attivarsi, al riguardo, in separata sede.
Ricorre per cassazione la P.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente sostiene che la scrittura privata in questione trarrebbe il proprio titolo genetico dal matrimonio e integrerebbe violazione dell'art. 160 c.c., ove si precisa che i coniugi non possono derogare ai doveri e diritti nascenti dal matrimonio.
Con il secondo lamenta la ricorrente insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata all'interpretazione della predetta scrittura. La scrittura privata. sottoscritta dai nubendi il giorno prima della celebrazione del matrimonio, prevede che, in caso di suo fallimento (separazione o divorzio), la P. cederà al marito un immobile di sua proprietà, quale indennizzo delle spese sostenute dallo stesso per la ristrutturazione di altro immobile, pure di sua
proprietà, da adibirsi a casa coniugale; a saldo, comunque, l' O. trasferirà alla moglie un titolo BOT di L. 20.000.000.
E' evidente che la ricorrente inquadra la predetta scrittura tra gli accordi prematrimoniali in vista del divorzio, molto frequenti in altri Stati, segnatamente quelli di cultura anglosassone, dove essi svolgono una proficua funzione di deflazione delle controversie familiari e divorzili.
Come è noto, la giurisprudenza è orientata a ritenere tali accordi, assunti prima del matrimonio o magari in sede di separazione consensuale, e in vista del futuro divorzio, nulli per illiceità della causa, perché in contrasto con ì principi di indisponibilità degli status e dello stesso assegno di divorzio (per tutte, Cass. N. 6857 del 1992). Tale orientamento è criticato da parte della dottrina, in quanto trascurerebbe di considerare adeguatamente non solo i principi del diritto di famiglia, ma la stessa evoluzione del sistema normativo, ormai orientato a riconoscere sempre più ampi spazi di autonomia ai coniugi nel determinare i propri rapporti economici, anche successivi alla crisi coniugale. (E' assai singolare che invece siano stati ritenuti validi accordi in vista di una dichiarazione di nullità del matrimonio, perché sarebbero correlati ad un procedimento dalle forti connotazioni inquisitorie, volto ad accertare l'esistenza o meno di una causa di invalidità del matrimonio, fuori da ogni potere negoziale di disposizione degli status: tra le altre, Cass. N. 348 del 1993).
Giurisprudenza più recente di questa Corte ha invece sostenuto che tali accordi non sarebbero di per sé contrari all'ordine pubblico:
più specificamente il principio dell'indisponibilità preventiva dell'assegno di divorzio dovrebbe rinvenirsi nella tutela del coniuge economicamente più debole, e l'azione di nullità (relativa) sarebbe proponibile soltanto da questo (al riguardo, tra le altre, Xxxx. N. 8109 del 2000; n. 2492 del 2001; n. 5302/2006).
Va peraltro precisato che la sentenza impugnata, sorretta da motivazione ampia, articolata e non illogica, ha fornito un preciso inquadramento della scrittura privata in esame. Si tratta, all'evidenza, di valutazione di merito, insuscettibile di controllo in questa sede, ove immune da errori di diritto.
L'impegno negoziale della P., una sorta di datio in solutum, viene collegato alle spese affrontate dall'O. per la sistemazione di altro immobile adibito a casa coniugale, e il fallimento del matrimonio non viene considerato come causa genetica dell'accordo, ma è degradato a mero "evento condizionale". Prosegue la Corte di merito precisando che, ove causa genetica fosse il matrimonio (e il suo fallimento), l'impegno predetto, una sorta di sanzione dissuasiva volta a condizionare la libertà decisionale degli sposi anche in ordine all'assunzione di iniziative tendenti allo scioglimento del vincolo coniugale, sarebbe sicuramente nullo.
Ma indice di tale ipotesi potrebbe essere soltanto una notevole sproporzione delle prestazioni, al contrario non provata.
L'argomentazione è censurata dalla ricorrente, ma, al contrario, la Corte territoriale ha fatto buon uso delle regole di ermeneutica contrattuale, in particolare con riferimento all'art. 1363 c.c., per cui le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell'atto.
Si tratterebbe in definitiva - si può aggiungere - di un accordo tra le parti, libera espressione della loro autonomia negoziale, estraneo peraltro alla categoria degli accordi prematrimoniali (ovvero effettuati in sede di separazione consensuale) in vista del divorzio, che intendono regolare l'intero assetto economico tra i coniugi o un profilo rilevante (come la corresponsione di assegno), con possibili arricchimenti e impoverimenti. Nella specie, dunque un accorcio (rectius: un vero e proprio contratto) caratterizzato da prestazioni e controprestazioni tra loro proporzionali, secondo l'inquadramento effettuato dal giudice a quo.
Come si è detto, una motivazione adeguata e non illogica, e immune da errori di diritto.
Come è noto, ai sensi dell'art. 1197 c.c., il debitore non può liberarsi eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, salvo che il creditore vi consenta; l'obbligazione si estingue quando la diversa prestazione è eseguita. Nella specie, il trasferimento di immobile può sicuramente costituire adempimento, con l'accordo del creditore, rispetto all'obbligo di restituzione delle somme spese per la sistemazione di altro immobile, adibito a casa coniugale.
La condizione, nella specie sospensiva (il "fallimento" del matrimonio) non può essere meramente potestativa ai sensi dell'art. 1355 c.c., e cioè dipendere dalla mera volontà di uno dei contraenti (ciò che, nella specie, non potrebbe verificarsi, considerando, evidentemente, le parti tale "fallimento", come fattore oggettivo, indipendentemente da eventuali responsabilità addebitabili all'uno o all'altro coniuge).
La condizione neppure può porsi in contrasto con norme imperative, l'ordine pubblico, il buon costume (in tal caso renderebbe nullo il contratto, ai sensi dell'art. 1354 c.c.). Dunque nulla sarebbe una condizione contraria all'art. 160 c.c., sopra indicato. E tuttavia, nella specie, essa appare pienamente conforme a tale disposizione.
ove si consideri che in costanza di matrimonio (e prima della crisi familiare) opera tra i coniugi il dovere reciproco di contribuzione di cui all'art. 143 c.c.: il linguaggio comune spiega il significato ad esso attribuito dal legislatore, è la parte che ciascuno conferisce, con cui si concorre, si coopera ad una spesa, al raggiungimento di un fine. Con la contribuzione si realizza dunque il soddisfacimento reciproco dei bisogni materiali e spirituali di ciascun coniuge, con i mezzi derivati dalle sostanze e dalle capacità di ognuno di essi.
Può sicuramente ipotizzarsi che, nell'ambito di una stretta solidarietà tra i coniugi, i rapporti di dare ed avere patrimoniale subiscano, sul loro accordo, una sorta di quiescenza, una "sospensione" appunto, che cesserà con il "fallimento" del matrimonio, e con il venir meno, provvisoriamente con la separazione, e definitivamente con il divorzio, dei doveri e diritti coniugali.
Condizione lecita dunque nella specie di un contratto atipico, espressione dell'autonomia negoziale dei coniugi, sicuramente diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai sensi dell'art. 1322 c.c., comma 2.
Vanno pertanto rigettati i due motivi, in quanto infondati e, conclusivamente, il ricorso stesso. Non è ravvisabile alcun provvedimento sulle spese non avendo l'intimato svolto alcuna attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
A norma del D.L. n. 196 del 2003, art. 52, in caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri atti identificativi delle parti, dei minori e dei parenti, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 14 novembre 2012. Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2012
Cass. civ., sez. I, 20 agosto 2014, n. 18066
In caso di separazione consensuale o divorzio congiunto (o su conclusioni conformi), la sentenza incide sul vincolo matrimoniale ma, sull’accordo tra i coniugi, realizza - in funzione di tutela dei diritti indisponibili del soggetto più debole e dei figli - un controllo solo esterno attesa la natura negoziale dello stesso, da affermarsi in ragione dell’ormai avvenuto superamento della concezione che ritiene la preminenza di un interesse, superiore e trascendente, della famiglia rispetto alla somma di quelli, coordinati e collegati, dei singoli componenti; ne consegue che i coniugi possono concordare, con il limite del rispetto dei diritti indisponibili, non solo gli aspetti patrimoniali, ma anche quelli personali della vita familiare, quali, in particolare, l’affidamento dei figli e le modalità di visita dei genitori.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza non definitiva in data 03.11.2010, il Tribunale di Treviso dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario tra Xx. Gi. e Fr. El. . Con sentenza definitiva in data 16.05.2012, su conclusioni comuni delle parti, il Tribunale affidava il figlio minore X. ad entrambi i genitori, con collocazione presso la madre, determinava il regime di visita del padre, disponeva che la casa coniugale venisse trasferita in proprietà al figlio, con obbligo per il Ru. di procedere al trasferimento stesso, e di corrispondere alla moglie la somma di euro 2.500 mensili di cui euro 700, quale assegno divorzile ed euro 1800 per contributo al mantenimento del figlio. Con ricorso depositato in data 11.07.2012, il Ru. impugnava la sentenza definitiva, chiedendo, in parziale riforma, l'aumento delle possibilità di visita al minore, la riduzione del contributo per il mantenimento del figlio e l'esclusione dell'assegno divorzile. Costituitosi il contraddittorio, la Fr. eccepiva la inammissibilità dell'appello e ne chiedeva il rigetto, con conferma della sentenza di primo grado; in subordine, proponeva appello incidentale condizionato, chiedendo la riduzione delle visite paterne e l'aumento dell'assegno divorzile. La Corte di Appello di Venezia, con sentenza in data 23.01.2013, dichiarava inammissibile l'appello principale e quello incidentale. Ricorre per cassazione il Ru. , che pure deposita memoria difensiva. Resiste con controricorso la Fr. .
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, il ricorrente lamenta violazione della X. Xxxxxxxx, articolo 5, articoli 100 e 112 c.p.c., in quanto la sentenza poteva essere impugnata, anche indipendentemente dalla soccombenza delle parti. Con il secondo, violazione degli articoli 100, 112 e 132 c.p.c. in ragione della sussistenza di diritti indisponibili, per i quali l'interesse ad impugnare prescinderebbe dalla condotta processuale delle parti. Con il terzo, violazione degli articoli 100, 112 e 132 c.p.c., in quanto il trasferimento immobiliare a favore del figlio delle parti, non assicurava il suo interesse alla conservazione dell'habitat domestico. Con il quarto, violazione degli articoli 155 quater, 1021, 1022, 2643 e 2645 c.c., non essendo stata disposta la assegnazione della casa coniugale al genitore, collocatario del figlio. Con il quinto, violazione degli articoli 1173, 1174, 1321, 1325 e 1987 c.c., per nullità della clausola relativa al trasferimento della abitazione al figlio, essendo l'impegno del padre giuridicamente irrilevante. Con il sesto, violazione dell'articolo 1478 c.c., per nullità della predetta clausola, stante la necessità di una delibera assembleare della società proprietaria, per autorizzare la vendita. La sentenza impugnata dichiara inammissibile l'appello principale, sostenendo che, ai sensi
dell'articolo 100 c.p.c., per far valere una domanda in giudizio e per proporre impugnazione, occorre avervi interesse, e che difetta totalmente in capo al Ru. tale interesse, non essendo egli risultato soccombente per alcuna delle domande proposte nel primo grado, con le conclusioni definitive da lui rassegnate. Non rinviene il giudice a quo clausole nulle nell'accordo raggiunto tra le parti, non essendovi violazione alcuna di diritti indisponibili, ne' contrasto con l'interesse del minore: valido il trasferimento immobiliare a suo favore della casa coniugale, con impegno del padre all'acquisto della proprietà e al predetto trasferimento, che garantirebbe al minore stesso la permanenza nell'habitat domestico. Va condivisa, seppur con alcune doverose precisazioni, l'affermazione della pronuncia impugnata, per cui non e' ammessa impugnazione se la parte o entrambe le parti, a seguito di accordo, risultino soccombenti. La fattispecie in esame (conclusioni comuni nell'ambito di un procedimento di divorzio originariamente contenzioso) è assimilabile a quella inerente ad un procedimento di divorzio congiunto.
E' bensì vero, come afferma il ricorrente, che la X. Xxxxxxxx, articolo 5, comma 5, prevede, apparentemente senza eccezione, la possibilità di impugnazione, da parte di ciascun coniuge, ma, per il divorzio congiunto, tale previsione riguarda situazioni particolari: il primo giudice non ha recepito o ha recepito solo parzialmente l'accordo tra le parti, magari precisando che erano in questione diritti indisponibili o l'accordo stesso appariva in contrasto con l'interesse del minore, ovvero non era "congrua" la corresponsione una tantum di somma, escludente, per il futuro l'assegno divorzile.
In tali casi ovviamente, ciascuno dei coniugi od entrambi potrebbero impugnare la sentenza. Il Pubblico Ministero, ai sensi del articolo 5, comma 5, predetto, può impugnare limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli. Va interpretata in senso lato tale previsione, con riferimento al patrimonio del minore, al suo mantenimento, ai trasferimenti (immobiliari o mobiliari) che lo riguardano, ecc. E impugnazione potrebbe esservi, da parte di un curatore speciale del minore, in caso di conflitto di interessi con i genitori (questione estranea alla presente fattispecie, non essendovi stata, in corso di causa, istanza alcuna di nomina di un curatore). Si diceva della affermazione condivisibile, per cui non vi è interesse ad impugnare, senza soccombenza, ma, nella specie, vi è una ragione ulteriore per escludere l'impugnazione. Nella separazione consensuale, cosi come nel divorzio congiunto, ma pure in caso di precisazioni comuni che concludano e trasformino il procedimento contenzioso di separazione e divorzio, si stipula un accordo, di natura sicuramente negoziale (tra le altre, Cass.n. 17607 del 2003), che, frequentemente, per i profili patrimoniali si configura come un vero e proprio contratto. Non rileva che, in sede di divorzio, esso sia recepito, fatto proprio dalla sentenza: all'evidenza tale
sentenza è necessaria per la pronuncia sul vincolo matrimoniale, ma, quanto all'accordo, si tratta di un controllo esterno del giudice, analogo a quello di separazione consensuale.
Com'è noto, nell'accordo tra le parti, in sede di separazione e di divorzio, si ravvisa un contenuto necessario (attinente all'affidamento dei figli, al regime di visita dei genitori, ai modi di contributo al mantenimento dei figli, all'assegnazione della casa coniugale, alla misura e al modo di mantenimento, ovvero alla determinazione di un assegno divorziale per il coniuge economicamente più debole) ed uno eventuale (la regolamentazione di ogni altra questione patrimoniale o personale tra i coniugi stessi). Tradizionalmente gli accordi "negoziali" in materia familiare, erano ritenuti del tutto estranei alla materia e alla logica contrattuale, affermandosi che si perseguiva un interesse della famiglia trascendente quello delle parti, e l'elemento patrimoniale, ancorchè presente, era strettamente collegato e subordinato a quello personale. Oggi, escludendosi in genere che l'interesse della famiglia sia superiore e trascendente rispetto alla somma di quelli, coordinati e collegati, dei singoli componenti, si ammette sempre più frequentemente un'ampia autonomia negoziale, e la logica contrattuale, seppur con qualche cautela, là dove essa non contrasti con l'esigenza di protezione dei minori o comunque dei soggetti più deboli, si afferma con maggior convinzione.
Nei verbali di separazione consensuale o in quelli recepiti dalla sentenza di divorzio congiunto, sono assai frequenti le clausole contenenti promesse di trasferimenti, ma pure trasferimenti effettivi di proprietà o altri diritti reali su beni immobili o mobili da un coniuge all'altro. Intenti modalità, contenuti possono essere i più diversi: regolamentazione di tutti o di alcuni rapporti reciproci tra i coniugi, magari anche al fine di prevenire possibili controversie, con un sistema più o meno complesso di concessioni, compromessi, risarcimenti, riconoscimenti, ecc, attribuzioni ed assegnazioni reciproche, talora anche di portata divisoria, ma pure di adempimento dell'obbligo ex lege di mantenimento (o comunque di assistenza) a favore del coniuge economicamente più debole. Questa Corte da tempo ritiene che la clausola di trasferimento di immobile tra i coniugi, contenuta nei verbali di separazione o recepita dalla sentenza di divorzio congiunto o magari, come nella specie, sulla base di conclusioni uniformi, è valida tra le parti e nei confronti dei terzi, essendo soddisfatta l'esigenza della forma scritta (tra le prime pronunce al riguardo, Xxxx. 11 novembre 1992, n.12110 e, ancora recentemente, Cass. n. 2263 del 2014), cosi come il trasferimento o la promessa di trasferimento di immobili, mobili o somme di denaro, quale adempimento dell'obbligazione di mantenimento (o assistenziale) da parte di un coniuge nei confronti dell'altro (tra le altre, Xxxx. 17 giugno 1992 n. 7470). Ma pure questa Corte ha sostenuto la ammissibilità, a titolo di contributo per il mantenimento del figlio minore, del trasferimento
di un immobile a suo favore, quale contratto atipico e gratuito, che si perfeziona per effetto del mancato rifiuto (Xxxx. 21 dicembre 1987, n. 9500).
Va altresì precisato che gli accordi omologati (ovvero recepiti dalla sentenza di divorzio) non esauriscono necessariamente ogni rapporto tra i coniugi) o tra genitori e figli). Si potrebbero ipotizzare (e nella prassi ciò accade frequentemente) accordi anteriori, contemporanei o magari successivi alla separazione o al divorzio, nella forma della scrittura privata o dell'atto pubblico. Al riguardo, la giurisprudenza di questa Corte è variamente intervenuta, con particolare riferimento agli accordi extragiudiziali, in occasione della separazione, attraverso una complessa evoluzione verso una più ampia autonomia negoziale dei coniugi. Dapprima si affermava che tutti i patti intercorsi tra i coniugi, in vista della separazione, anteriori, coevi o successivi, indipendentemente dal loro contenuto, dovevano essere sottoposti al controllo del giudice che, con il suo decreto di omologa, conferiva ad essi valore ed efficacia giuridica. Successivamente si cominciò ad effettuare distinzione sul contenuto necessario ed eventuale delle separazioni consensuali, sui rapporti tra i genitori e figli, riservati al controllo del giudice, e tra coniugi, che, almeno tendenzialmente, rimanevano nell'ambito della loro discrezionale ed autonoma determinazione, in base alla valutazione delle rispettive convenienze, fino a sostenere successivamente l'autonomia negoziale dei genitori, anche nel rapporto con i figli, purché si pervenga ad un miglioramento degli assetti concordati davanti al giudice (tra le altre, Xxxx. 22 gennaio 0000 x. 000; x. 00000 del 2006).
Al contrario, la giurisprudenza di questa Corte è rimasta tradizionalmente orientata a ritenere gli accordi assunti prima del matrimonio o magari in sede di separazione consensuale, in vista del futuro divorzio, nulli per illiceità della causa, perché in contrasto con i principi di indisponibilità degli status e dello stesso assegno di divorzio (tra le altre Cass. N. 6857 del 1992). (Sono stati invece ritenuti validi accordi in vista di una dichiarazione di nullità del matrimonio, in quanto correlati ad un procedimento dalle forti connotazioni inquisitorie, volto ad accertare l'esistenza o meno di una causa di invalidità matrimoniale, fuori da ogni potere negoziale di disposizione degli status: tra le altre Cass. N. 348 del 1993).
Giurisprudenza più recente ha sostenuto che tali accordi non sarebbero di per se' contrari all'ordine pubblico: più specificamente il principio dell'indisponibilità preventiva dell'assegno di divorzio dovrebbe rinvenirsi nella tutela del coniuge economicamente più debole, e l'azione di nullità (relativa) sarebbe proponibile soltanto da questo (al riguardo, Cass. n. 8109 del 2000). Questa Corte più recentemente (Cass. n.23713 del 2012; ma v. pure Cass. n. 19304 del 2013), pur escludendo che nella specie si trattasse di accordi prematrimoniali in vista del divorzio, ha avuto modo di precisare che tali accordi sono molto frequenti in altri Stati, segnatamente quelli
di cultura anglosassone, dove essi svolgono una proficua funzione di deflazione delle controversie familiari e divorzili, e pure ha sottolineato le critiche di parte della dottrina all'orientamento tradizionale, che trascurerebbe di considerare adeguatamente non solo i principi del diritto di famiglia ma la stessa evoluzione del sistema normativo, ormai orientato a riconoscere sempre più ampi spazi di autonomia ai coniugi nel determinare i propri rapporti economici, anche successivi alla crisi coniugale, ferma ovviamente la tutela dell'interesse dei figli minori. Come si e' detto, l'accordo delle parti in sede di separazione o di divorzio (e magari quale oggetto di precisazioni comuni in un procedimento originariamente contenzioso) ha natura sicuramente negoziale, e talora dà vita ad un vero e proprio contratto. Ma, anche se esso non si configurasse come contratto, all'accordo stesso sarebbero sicuramente applicabili alcuni principi generali dell'ordinamento come quelli attinenti alla nullità dell'atto o alla capacità delle parti, ma pure alcuni più specifici (ad es. relativi ai vizi di volontà, del resto richiamati da varie norme codicistiche in materia familiare dalla celebrazione del matrimonio al riconoscimento dei figli nati fuori di esso) (al riguardo, ancora, Xxxx. n. 17607 del 2003).
Tornando alla fattispecie in esame, si deve affermare che i coniugi, in quanto parti dei predetti accordi, non possono impugnare un decreto di omologa o la sentenza che li abbia recepiti. Lo potrebbero, come si diceva, il Pubblico Ministero per gli interessi patrimoniali dei minori ovvero un curatore speciale, nominato dal giudice, in nome e per conto dei minori stesso. Ove l'accordo (o il contratto) sia nullo, tale nullità potrebbe essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, e dunque anche da chi abbia dato causa a tale nullità. Ed esso potrebbe essere oggetto di annullamento da parte del soggetto incapace o la cui volontà risulti viziata (ad es. da un errore pure sulla sussistenza dell'interesse del minore, ma si dovrebbe ricordare che se nell'accordo sia preminente una causa transattiva, non rileverebbe ai sensi dell'articolo 1969 c.c., errore di diritto). Ma nullità o annullamento non potrebbero costituire motivo di impugnazione dei soggetti dell'accordo da cui essi sono vincolati, ma dovrebbero essere fatti valere in un autonomo giudizio di cognizione (In termini generali n. 17607 del 2003).
Vi sono peraltro alcuni equivoci da chiarire, in relazione alla fattispecie dedotta in giudizio. E' vero che l'accordo (o il contratto) collegato alla crisi familiare, potrebbe violare diritti indisponibili. Si pensi ad es. ad una clausola che escluda in perpetuo la possibilità, per il coniuge, di un assegno di mantenimento o divorzile ovvero che impedisca, sempre e comunque, un controllo del genitore sull'esercizio della potestà (oggi "responsabilità") esercitata dall'altro, o magari, addirittura, che limiti la possibilità o vincoli le parti al divorzio. Ma al di là di tali clausole "estreme", che ben difficilmente nella prassi vengono stipulate, i coniugi possono, con reciproche concessioni, raggiungere un accordo sull'affidamento dei figli e modalità di visite
genitoriali nonché su ogni altra questione (personale o patrimoniale) della vita familiare. Altrimenti... non vi sarebbe spazio alcuno per separazioni consensuali, divorzi congiunti o conclusioni comuni. Quanto all'interesse del minore, si e' detto che la giurisprudenza conosce e ha ritenuto pienamente valida la clausola di trasferimento immobiliare da un coniuge al figlio, anche a scopo di mantenimento, utilizzando lo schema del contratto a favore di terzo e/o di quello con obbligazione per il solo proponente, ai sensi dell'articolo 1333 c.c.. (Cass. n. 2500 del 1987). Ne rileverebbe la circostanza che l'immobile in questione non sia di proprietà del genitore obbligato. Si tratterebbe, in sostanza, di fattispecie analoga a quella di vendita di cosa altrui, ai sensi dell'articolo 1478 c.c. e segg.: l'obbligato dovrà acquistare l'immobile e trasferirlo al beneficiario; in caso di inottemperanza, egli sarà tenuto al risarcimento del danno. Il trasferimento immobiliare supererebbe la necessità di assegnazione della casa coniugale al genitore collocatario del minore.
D'altra parte, essendo il Ru. titolare del contratto di locazione della casa coniugale, con il divorzio, si potrebbe configurare una successione del coniuge, convivente con il figlio minore, nel rapporto locatizio, ai sensi della L. n. 392 del 1978, articolo 6, sulla locazione degli immobili urbani. E se il proprietario facesse valere i suoi diritti sull'immobile, sarebbe sempre possibile richiedere, in sede di modifica delle condizioni di divorzio, un'elevazione dell'assegno a favore del coniuge collocatario del figlio, per permettergli di rinvenire una nuova sistemazione abitativa. Non si ravvisa dunque ne' violazione di diritti indisponibili ne' contrasto alcuno con l'interesse del minore. Va pertanto rigettato il ricorso. Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in euro 6000 per compensi, euro 200 per esborsi, oltre spese forfettarie e accessori di legge. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da atto dell'insussistenza dei presupposti per il versamento del contributo unificato, a norma del comma 1 bis, predetto articolo. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52, in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 5 giugno 2014. Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2014
Trib. Torino, 20 aprile 2012
L’accordo concluso sui profili patrimoniali tra i coniugi in sede di separazione legale ed in vista del divorzio non contrasta né con l’ordine pubblico, né con l’art. 160 c.c. (nella specie le parti,
pochi mesi prima della pronuncia di separazione «a conclusioni congiunte», avevano convenuto che l’erogazione dell’importo a titolo di assegno di mantenimento a carico del marito sarebbe venuta a cessare all’atto dell’inizio della causa per la pronunzia della cessazione degli effetti civili del matrimonio, con impegno della moglie a «nulla pretendere dal marito, né a titolo di una tantum né di mantenimento»; in sede di udienza presidenziale di divorzio la suddetta intesa è stata ritenuta valida e vincolante, con conseguente rigetto della domanda della moglie volta ad ottenere un assegno).