TRIBUNALE CIVILE DI ROMA RICORSO EX ART. 702 BIS C.P.C.
Per
TRIBUNALE CIVILE DI ROMA RICORSO EX ART. 702 BIS C.P.C.
1. CONFEDERAZIONE USB - UNIONE SINDACALE DI BASE con sede a Roma in Xxxxx Xxxxxx Xxxxxxxx 000 …....................... in persona del legale rappresentante pro tempore Xxxxx Xxxxxxxx (…........................................................
…..............................)
2. UNIONE SINDACALE DI BASE - LAVORO PRIVATO con sede a Roma in Xxxxx Xxxxxx Xxxxxxxx 000 …....................... in persona del legale rappresentante pro tempore Xxxxx Xxxxxxxx …........................................................ …..............................
3. XXXXX XXXXXXX XXXXXXX nata a …......... il ….......... e residente a
….............;
4. XXXXXXXXX XXXXXXX (nato il …....... a …........ e residente in …................
tutti difesi e rappresentati, anche disgiuntamente, dagli Avvocati Xxxxxx Xxxxxxx
…......................., Xxxxx Xxxxxxxxx …......................., Xxxxxxxx Xxxxxxx ,
Xxxxxxxx Xxxxx Xxxxx …......................., Xxxxxxxx Xxxxxxxx …....................... e Xxxxxx Xxxxxxx …......................., giuste deleghe a margine del presente atto ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell'Avv. Xxxxxx Xxxxxxx ….................., presso cui si chiede di effettuare le notificazioni al numero di ;
Contro
1. CONFINDUSTRIA –CONFEDERAZIONE GENERALE DELL'INDUSTRIA ITALIANA in persona del Presidente Nazionale – legale rappresentante - attualmente Xxxxxxx Xxxxxxx con sede in Roma, con sede in Xxxxx xxxx'Xxxxxxxxxx, 00;
2. C.G.I.L. – CONFEDERAZIONE GENERALE ITALIANA DEL LAVORO in persona del Segretario Generale Nazionale – legale rappresentante - attualmente Xxxxxxx Xxxxxx, con sede in Xxxx, Xxxxx Xxxxxx 00;
3. C.I.S.L. – CONFEDERAZIONE ITALIANA SINDACATO LAVORATORI in persona del Segretario Generale Nazionale – legale rappresentante - attualmente Xxxxxxxx Xxxxxxx con sede in Xxxx, xxx Xx 00;
4. U.I.L. – UNIONE ITALIANA DEL LAVORO in persona del Segretario Generale Nazionale - – legale rappresentante - attualmente Xxxxx Xxxxxxxxx; con sede in Roma, via Lucullo 6 ;
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Oggetto: richiesta di declaratoria di nullità parziale dell’accordo del 10 gennaio 2014 denominato “Testo Unico sulla rappresentanza Confindustria – Cgil, Cisl e Uil” .
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PARTE I
GLI ATTORI 1.
La Confederazione USB, Unione Sindacale di Base (in breve Usb), è stata costituita il 23 maggio 2010 dall'unificazione di alcuni soggetti sindacali preesistenti, ed in particolare RdB (Rappresentanze di Base) e SdL (Sindacato dei Lavoratori), oltre a consistenti realtà della CUB (Confederazione Unitaria di Base), che - insieme ad altre organizzazioni sindacali – hanno concluso un processo costituente iniziato con l'assemblea milanese del maggio 2008. Nasce quindi dalla storia, dal radicamento e dalla rappresentatività delle suddette organizzazioni, già firmatarie di numerosi contratti collettivi di lavoro.
USB è dotata di una struttura articolata sul territorio nazionale, attraverso organismi confederali regionali e provinciali, e composta da due organizzazione sindacali di settore, le quali rappresentano due macro-aree intercategoriali (il settore pubblico e il settore privato), sulla scia di quanto già avvenuto in diversi paesi europei come Germania e Grecia. USB ha un forte radicamento nei luoghi di lavoro e predispone la sua presenza nei territori in modo da rispondere adeguatamente alle istanze ed ai bisogni provenienti non più solo dai segmenti classici del mondo del lavoro, ma anche da quelli di “nuova generazione”, i precari, i migranti, i disoccupati e coloro che non hanno un reddito o sono senza casa.
Alla Confederazione aderiscono in forma associativa l'AS.I.A. (Associazione Inquilini e Abitanti), associazione per il diritto alla casa, e USB Pensionati. USB ha costituito un proprio CAF (CAF Servizi di Base), riconosciuto ed operativo su tutto il territorio nazionale. Un membro dell'Esecutivo nazionale confederale, Xxxxxxxxx Xxxxxxxx, è membro del Consiglio Nazionale dell'Economia del Lavoro, a seguito di designazione del Presidente della Repubblica e di deliberazione del Consiglio dei Ministri. Attraverso una capillare diffusione sul territorio nazionale con 85 sedi provinciali in 19 regioni (la Val D'Aosta è
2.
L’ Unione sindacale di Base - Lavoro Privato (denominata in forma abbreviata USB Lavoro Privato), è nata il 21 maggio 2010, data in cui il Congresso Nazionale del Sindacato Nazionale dei Lavoratori, SdL Intercategoriale, riunitosi a Rocca di Papa (Roma) approvava la modifica della propria denominazione, mantenendo tutti i diritti e gli obblighi di qualsiasi natura già in capo all'organizzazione, senza soluzione di continuità.
In USB Lavoro Privato confluivano in pari data tutte le articolazioni della Federazione delle Rappresentanze Sindacali di Base dell'Industria, dei Trasporti e dei Servizi. In data 22 maggio 2010, il Congresso di USB - Lavoro Privato, deliberava altresì l'adesione alla Confederazione Unione Sindacale di Base. Lo Statuto di USB Lavoro Privato enuncia gli obiettivi e gli scopi dell'Organizzazione sindacale, che si propone la rappresentanza, la difesa e la promozione dei diritti economici e sociali, professionali, sindacali e culturali dei lavoratori e delle lavoratrici, da perseguire con un forte radicamento nei luoghi di lavoro, nel territorio e nella società, fondando la sua azione nella contrattazione a tutti i livelli e sul conflitto come mezzo di regolazione democratica dei diversi interessi presenti nella società. raccogliendo in un progetto organico le domande che nascono dalle istanze di base organizzate nei luoghi di lavoro e nella società. USB Lavoro Privato è un sindacato indipendente da partiti e organizzazioni politiche. Come la Confederazione USB, anche USB LAVORO PRIVATO è presente in 19 regioni e almeno 85 province, con oltre centomila iscritti, il 30% circa dei quali nel settore industria, distribuiti sull'intero territorio. Ha eletto propri r.s.u. in centinaia di aziende ed ha sottoscritto accordi nazionali, territoriali,
aziendali e di gruppo sull'intero territorio nazionale (come da documenti riprodotti sul supporto telematico allegato).
3.
Il ricorrente Xxxxxxxxx XXXXXXX è un lavoratore dipendente dell'Ilva di Taranto (società affiliata a Federmeccanica, federazione di categoria Confindustria) e si è presentato con la lista proposta da Xxx Xxxxxx Xxxxxxx alle elezioni per la nomina della Rappresentanza Sindacale Unitaria tenutesi lo scorso 28 novembre 2013. E' attualmente membro delle Rsu avendo ottenuto la Lista Usb 1844 voti risultando complessivamente la terza organizzazione sindacale in azienda (20%dei voti) e la seconda tra gli operai (21%dei voti), essendo il sig. YYYYYYY il rappresentante con più preferenze tra i candidati dei della lista (110 preferenze). Si rileva come prima dello svolgimento delle elezioni USB contava in ILVA 122 iscritti mentre nei due mesi successivi si è arrivati a più di 400..
4.
La ricorrente Xxxxx XXXXXXX è dipendente della …............. di ...…..., società anch'essa affiliata a Confindustria, e si è candidata alle elezioni del …......... 2014 delle Rsu, risultando eletta. E però con ricorso dell'................. la si opponeva alla
sua elezione in quanto USB non risulta firmataria del protocollo del 10 Gennaio 2014 e la commissione elettorale accoglieva tale ricorso dichiarando la decadenza della stessa a far parte delle Rappresentanze Sindacali Unitarie (Rsu);
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PARTE II
L’ODIERNA CONTROVERSIA E L’ADESIONE DI USB ALL’ACCORDO DEL 10 GENNAIO 2014 CONDIZIONATA ALL’ACCOGLIMENTO DEL PRESENTE RICORSO
1. IL TESTO UNICO SULLA RAPPRESENTANZA
In data 10 gennaio 2014 le confederazioni convenute hanno stipulato un accordo interconfederale denominato “testo unico sulla rappresentanza” (allegato al presente ricorso ed a cui si rinvia il Giudicante) che riprende ed innova l'accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e il protocollo applicativo d'intesa firmato il successivo 31 maggio 2013 (pure allegati). A chi scrive non pare opportuno dilungarsi nella presente trattazione in ordine agli stessi in quanto essi - firmati dalle stesse parti – o riportano esattamente il medesimo contenuto poi trasfuso ed incorporato nell'accordo del 10 gennaio 2014 oppure
ne riportano uno parzialmente differente che è evidentemente superato dal nuovo testo concordato dalle medesime parti sulla stessa identica materia e quindi tali precedenti testi negoziali vanno pertanto ritenuti assorbiti e comunque novati dal testo del 10 gennaio e come tali non più vigenti (né suscettibili di resurrezione in caso di declaratoria parziale o totale di nullità dell'accordo del 10 gennaio 2014). Al riguardo si evidenzierà comunque - in ordine alle singole clausole di cui con il presente atto si chiede la nullità – l'esistenza di eventuali analoghe statuizioni sulla medesima materia contenute nei precedenti accordi del 28 giugno 2011 e del 31 maggio 2013 che all'evidenza sono affette dagli stessi vizi qui denunciati ed a cui – qualora si ritenesse gli stessi non assorbiti e novati dall'accordo del 10 gennaio 2014 – va quindi estesa l'invocata declaratoria di nullità parziale o totale.
Tornando all'accordo del 10 gennaio 2014 tale testo è così suddiviso
- PARTE PRIMA: misura e certificazione della rappresentanza ai fini della contrattazione collettiva nazionale di categoria.
- PARTE SECONDA: regolamentazione delle rappresentanze in azienda.
- PARTE TERZA: titolarità ed efficacia della contrattazione collettiva nazionale di categoria e aziendale.
- PARTE QUARTA: disposizioni relative alle clausole e alle procedure di raffreddamento e alle clausole sulle conseguenze dell’ inadempimento.
- CLAUSOLE TRANSITORIE E FINALI
Davvero in estrema sintesi si può dire che a fondamento della PARTE PRIMA vi è la previsione di un meccanismo di rilevazione certa dei dati relativi al numero degli iscritti demandata ad un'apposita convenzione con l'Inps e dei voti nelle elezioni delle Rappresentanze sindacali Unitarie (Rsu) rimesso alla collaborazione del Cnel. Si prevede poi che – al fine di certificare l'effettivo dato della rappresentanza nazionale di ciascun sindacato – “entro il mese di aprile il CNEL provvederà alla ponderazione del dato elettorale con il dato associativo …..determinando la media semplice fra la percentuale degli iscritti (sulla totalità degli iscritti) e la percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle
r.s.u. sul totale dei votanti” (prevedendo poi la parte terza dell'accordo una soglia del 5% per poter essere considerati sindacati rappresentativi a livello nazionale in ogni singolo comparto contrattuale).
Mentre, sempre con uguale estrema sintesi, la PARTE SECONDA è principalmente dedicata a disciplinare le modalità di elezione delle Rappresentanze Sindacali Unitarie (cd Rsu) e ad armonizzare tale disciplina con le prerogative delle organizzazioni sindacali firmatarie di contratto. Va qui subito rilevato come l'accordo del 10 gennaio consenta la partecipazione alle elezione per le Rappresentanze Sindacali Unitarie (Rsu) solo le organizzazioni firmatarie dell'accordo del 10 gennaio o quelle esse “accettino espressamente, formalmente ed integralmente i contenuti del presente accordo” (ed è proprio per la mancata accettazione di tale accordo da parte di Usb che la ricorrente De Xxxxx è stata dichiarata decaduta dalla sua funzione di Rsu per cuie ra stata eletta dai lavoratori della sua azienda).
2. L'ADESIONE CONDIZIONATA DELLA CONFEDERAZIONE USB
Relativamente a tali due primi capi gli attori tutti hanno molte ragioni di dissenso che non è il caso qui di illustrare. Ma non è certo per questo che si agisce innanzi all'adito Giudicante ed infatti nonostante tali gravissimi (agli occhi di chi scrive) difetti la breve illustrazione introduttiva - per altro, nei suoi elementi essenziali, tutta documentale - illustra come
- La confederazione Usb ha ragione di ritenere che, limitando la platea degli iscritti ai soli lavoratori con rapporto in essere nelle imprese con oltre 15 dipendenti (eliminando cioè sia i pensionati che l'enorme numero di persone che si iscrivono alle organizzazioni sindacali solo per godere dei servizi offerti quali Caaf, Patronato, ufficio vertenze, convenzioni commerciali ecc.), ed effettuando una verifica effettiva, già ora essa sia per dimensione e diffusione la quarta organizzazione sindacale del Paese ritenendo non irragionevole la propria ambizione di migliorare ancora nel breve e medio termine;
- Usb Lavoro privato – così come avviene nel pubblico impiego - già adesso, rispetto alla platea di vari ccnl ha certamente oltre il 5% degli iscritti e, nelle votazioni per le Rsu laddove si sono tenute, ha sempre avuto un numero di preferenze ben superiore al numero degli iscritti;
- Il sig. YYYYYYY è Rsu dell'Ilva e il numero di preferenze ricevute sia dalla lista che personali attestano oltre ogni ragionevole dubbio la sua amplissima rappresentatività a livello aziendale, e così la signora Xxxxx XXXXXXX (ancorché la sua nomina è stata annullata stante la mancata accettazione di Usb dell'accordo cd
“testo unico sulla rappresentanza” firmato il 10 gennaio 2014 dalle odierne confederazioni convenute).
- da sempre il principale valore su cui i ricorrenti sindacati hanno costruito la propria identità e su cui hanno imperniato il proselitismo è proprio quello del diritto di scelta consapevole dei lavoratori a monte con l'elezione diretta dei rappresentanti e a valle con la validazione democratica dell'eventuale accordo da questi raggiunto con la controparte;
Pertanto tutti i ricorrenti, ciascuno dal proprio differente ruolo e nella propria distinta soggettività giuridica, non possono che vedere con favore il passaggio della rappresentatività da un meccanismo di accreditamento datoriale a regole oggettive e non presunte di misurazione del numero di lavoratori iscritti e di votanti. Ed è per questo che la Confederazione Usb, con il consenso di Usb Lavoro - nonostante una contrarietà di fondo all'intero impianto dell'accordo del 10 gennaio che pospone i diritti dei lavoratori a quelli del sindacato e rimanendo convinta della necessità di una legge sulla rappresentanza sindacale - ritiene possibile aderire, come in effetti con la presente aderisce, alle parti 1 e 2 dell'accordo rimettendo ogni altra propria contrarietà alla fisiologia del confronto, e se del caso del conflitto, intersindacale.
Il punto è che invece la Confederazione attrice non vuole né può aderire nella loro attuale stesura ed interezza ai successivi capi III, IV e alle clausole transitorie e finali. Al riguardo è noto che un'accettazione difforme dalla proposta valga come controproposta e quindi non risulti idonea a fondare il vincolo contrattuale, e tanto più nel presente caso in cui è lo stesso accordo del 10 gennaio 2014 a porre quale condizione per accedere da parte delle organizzazioni sindacali non firmatarie (come sono le ricorrenti) al sistema regolativi da esso previsto che esse “accettino espressamente, formalmente ed integralmente i contenuti del presente accordo”. Ma le clausole che Xxx non vuole né può accettare sono radicalmente nulle (come si illustrerà a seguire) e pertanto scopo della presente azione è proprio richiedere al Giudicante la declaratoria di nullità delle stese da cui discende come – rispetto al testo conseguente a tale declaratoria - l'adesione di Usb risulti “integrale” e pertanto pienamente efficace. O in ogni caso – qualora l'accoglimento della domanda fosse solo parziale – può comunque condurre ad una successiva adesione al testo giudizialmente emendato. O ancora – qualora dovesse esserne dichiarata la nullità totale ai sensi dell'art. 1419 c.c. – ciò lascerebbe immutata la situazione quo ante e consentendo così ai ricorrenti di
poter concorrere alle elezioni delle Rsu, attività che non le è più concessa dall'accordo del 10 gennaio che espressamente prevede tale diritto solo in favore dei sindacati che abbiano firmato o integralmente aderito all'accordo stesso.
3. LA NATURA DELL'ACCORDO DEL 10 GENNAIO 2014
Prima di illustrare quali sono i contenuti che si reputano nulli pare opportuno brevemente rilevare come - premessa la peculiarità dell'accordo (che ha natura interconfederale non ripromettendosi di disciplinare direttamente il trattamento dei lavoratori ma di concordare regole generali di struttura sulla contrattazione e sulla rappresentanza sindacale oltre che sulle modalità della sua azione diretta) - riteniamo che sia una sintesi comprensibile e giuridicamente corretta affermare come esso faccia parte della famiglia dei contratti collettivi. Al riguardo nuovamente si ritiene non sia questa la sede per analizzare e confrontare le differenti tesi in ordine alla natura “pluriordinamentale” della contrattazione collettiva con distinzione tra parte normativa e obbligatoria1 in cui essi solitamente si distinguono, volendosi qui ritagliarne il contenuto minimo e comune a tutte le teorie e a tutti gli atti negoziali di esplicazione dell'autonomia collettiva: il contratto collettivo è un contratto atipico di diritto comune riconosciuto e tutelato anche nell'interesse generale (altrimenti il costituente non si sarebbe attardato a trattarne). Nel presente caso, stante la forma prescelta e i relativi contenuti, esso è un contratto normativo (nel senso che ha attitudine a regolare una serie aperta di rapporti negoziali intercorrenti tra soggetti differenti da quelli stipulanti) ed stato concordato aperto alla successiva adesione di terzi ai sensi dell'art. 1322 c.c., sia pure con spiccate limitazioni e peculiarità che analizzeremo a seguire.
4. LA NULLITA' DELL'ACCORDO
Riteniamo non possano esservi dubbi che se effettivamente le parti sociali siano chiamate dall'inerzia del Legislatore e dalla incandescenza sociale della materia ad agire talvolta “extra ordinem” non vi è davvero nessun dubbio che esse non possano agire “contra ordinem”, a partire proprio dal divieto assoluto di violare i precetti costituzionali che ne rappresentano il fondamento tipico. Trattandosi quindi pacificamente di un contratto privatistico non vi è dubbio innanzitutto che l'autonomia contrattuale può essere esercitata
1 In base alla manualistica più diffusa, il contratto collettivo consta di clausole normative finalizzate a “regolare le relazioni giuridiche esterne rispetto alle parti contraenti” e di clausole obbligatorie “destinate a introdurre un assetto regolativo che riguarda gli stessi soggetti stipulanti”, cfr. XXXXXXXX, O., Diritto sindacale, Torino, Giappichelli, 2012, 123. Alcuni autori distinguono, così, la parte normativa e la parte obbligatoria (BALLESTRERO, M.V., DE XXXXXX, G., Diritto del lavoro, Torino, Xxxxxxxxxxxx, 2012), altri la funzione normativa e la funzione obbligatoria del contratto collettivo.
solo “nei limiti imposti dalla legge” (art. 1322 c.c.) e che il conseguente accordo deve rispettare tutti i precetti di cui all'art. 1418 c.c., che individua le fattispecie di nullità del contratto ed in particolare:
- illiceità della causa (art. 1343) per contrarietà a norme imperative e/o all'ordine pubblico, per frode alla legge (art. 1344) o illiceità dei motivi (art. 1345).
- mancanza di un requisito essenziale ex art. 1325: in particolare la mancanza dell'oggetto (o di suoi requisiti ex art. 1346)
Ebbene si vuole qui rilevare che diverse clausole dell'accordo del 10 gennaio 2014 – come si illustrerà – sono certamente nulle per frode alla legge (in particolare dell'art. 19 della Legge 300/70), sono sostenute da motivi illeciti (la realizzazione di un accordo ad exlcudendum dei possibili competitori), e o sono prive di oggetto e/o di causa oppure sono contrarie norme imperative sia di rango ordinario (ad esempi gli art. 19 e 15 della L.300/70 e tutta la disciplina codicistica dell'arbitrato per quanto applicabile al lodo irrituale ex art. 808 ter comma 5 cpc) sia di rango costituzionale (art. 2,3, 21, 24, 39, 40, 111).
Quanto alla violazione dei precetti costituzionali si rileva come non solo ovviamente esse siano norme “inderogabili” 2 ma loro violazione ha portato spesso la Giurisprudenza a rivelare l'illiceità del contratto per contrarietà all'ordine pubblico. Ed infatti ad esempio “il contratto con il quale più imprenditori si obbligano a non contrattare con determinati terzi…è sempre stato considerato illecito perché lede principi di ordine pubblico come la pari dignità di tutti i cittadini senza distinzione di razza o di condizione personale”3.
In particolare si rileva come
nella parte terza
1. la clausola di cui al comma 2 della parte terza (pag. 19) limita la titolarità alla contrattazione nazionale alle sole organizzazioni sindacali “firmatarie” escludendo le organizzazioni “aderenti”, con cui Confindustria si vincola a non far trattare le proprie federazioni qualsivoglia livello di rappresentatività esse abbiano o raggiungeranno (foss'anche pari al 99%), ed è nulla per illiceità dei motivi e della causa oltre che per contrasto con le norme imperative dettate dagli articoli 2, 3, e 39 della Costituzione così come emerge dalla sentenza della Corte Costituzionale 231 del 2013;
2 FERRI, G.B., Ordine Pubblico, 110
3 XXXXXXX, X., Il Contratto, Cedam, 2011, 305
2. la clausola di cui al quinto comma sempre della parte terza che definisce la griglia selettiva per il godimento “per il godimento dei diritti sindacali previsti dalla legge, ai sensi dell’art. 19 e ss della legge 20 maggio 1970” escludendo non solo tutti i sindacati non firmatari dell'Accordo ma anche le eventuali federazioni delle organizzazioni firmatarie eventualmente dissenzienti, prescindendo da qualsiasi criterio di verifica della rappresentatività a livello aziendale, non solo è affetta dai medesimi vizi sopra denunciati ma è nulla anche ai sensi dell'art. 1344 c.c. essendo chiaramente finalizzata ad eludere una norma imperativa ovverosia proprio “l’art. 19 e ss della legge 20 maggio 1970”
nella parte quarta
L'intera parte quarta, finalizzata a “a prevenire e a sanzionare eventuali azioni di contrasto di ogni natura, finalizzate a compromettere .... l’esigibilità e l’efficacia dei contratti collettivi” con la previsione di un obbligo di inserire il relativo divieto/sanzione per tutti in ogni contratto nazionale e di inserirlo ”per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori nonché per le associazioni sindacali espressioni delle confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo, o per le organizzazioni che ad esso abbiano formalmente aderito, e non per i singoli lavoratori” nei contratti aziendali, è nullo per contrasto con gli art. 2,3, 21, 24, 39 e 40 della Carta Costituzionale nonché 1 e 15 della Legge 300/70:
nelle clausole transitorie e finali
Esse impongono un arbitrato obbligatorio (a cui devono sottostare anche i meri aderenti) per reprimere “eventuali comportamenti non conformi agli accordi” ed una “Commissione Interconfederale” (composta dai firmatari con l'aggiunta di esperti da essi nominati) istituita al fine di “ stabilire, con proprio regolamento.....i poteri di intervento per garantire l’esigibilità dei contenuti del presente accordo, definendo ogni controversia anche attraverso lo svolgimento del giudizio arbitrale”. Tali clausole del tutto nulle per violazione degli art. 24 e 111 della Carta Costituzionale nonché della disciplina codicistica sull'arbitrato nella misura applicabile tramite il comma 5° dell'art. 808 ter cpc.
5. SULL'INTERESSE AD AGIRE
Ai sensi dell'art. 1421 c.c. “la nullità può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse”. Come si è illustrato, e come meglio si illustrerà a seguire, rimanere fuori da tale accordo comporta l'esclusione dalla rappresentanza e dalla negoziazione, ma la contrarietà a norme imperative, l'illiceità della causa e la carenza di oggetto di cui è viziato l'accordo del 10
gennaio 2014 rendono alle ricorrenti O.O.S.S. impossibile (e comunque non bastevole) aderire e conseguentemente ai lavoratori ricorrenti impossibile (da subito per la signora De Xxxxx, e alla scadenza del mandato per il sig. YYYYYYY) esercitare il proprio ruolo di rappresentanti sindacali in azienda.
Si vuole infatti qui evidenziare come Xxx abbia messo nei propri valori statutari – e su di esso abbia improntato per intero il proprio proselitismo – proprio
a. difendere il diritto di sciopero (art. 2 lett. d);
b. battersi contro il monopolio forzato della rappresentanza sindacale, per l'estensione dei dritti sindacali, perchè siano i lavoratori a scegliere da chi essere rappresentati” (art. 2 lett. K)
Per essa quindi
- aderire alle parti III, IV e alle clausole finali comporterebbe la violazione dello statuto, il crollo della propria linea di politica sindacale (con la disaffezione e l'esodo di iscritti e militanti che ne deriverebbe), e comunque comporterebbe in ogni caso – a prescindere da qualsiasi sua rappresentatività nazionale o aziendale – il rimanere esclusa sia dalla titolarità negoziale dei c.c.n.l. che dalla possibilità di costituire rappresentanze sindacali aziendali sui luoghi di lavoro per di più con l'obbligo di sottostare all'apparato sanzionatorio previsto dall'accordo;
- non aderire significherebbe non solo essere esclusa dai diritti sopra detti ma anche dalla possibilità di partecipare alle elezioni delle Rsu come la situazione della signora De Xxxxx plasticamente descrive;
Insomma - per quanto già detto e per quanto si dirà nella disamina delle singole clausole dell'accordo che si farà nella successiva parte IV - si rileva come per le organizzazione sindacali oggi attrici addirittura la declaratoria di nullità parziale o integrale dell'accordo del 10 gennaio si appalesa quale ragione di sopravvivenza stessa dell'organizzazione (quantomeno con le sue attuali caratteristiche), e per le persone fisiche ricorrenti quale discrimine in ordine alla possibilità stessa di proseguire nell'esercizio dei propri diritti attivi e passivi di scelta dei propri rappresentati a livello aziendale.
;. SULLA COMPETENZA
Ed infine, quanto alla determinazione dell'organo giudiziario competente, si rileva come altrettanto pacificamente “la controversia avente ad oggetto l'accertamento della nullità di clausole di un contratto collettivo, proposta da un'associazione sindacale di lavoratori non
firmataria del contratto stesso contro le associazioni sindacali firmatarie, sia dei datori di lavoro che dei lavoratori, non è qualificabile come controversia individuale di lavoro e ricade nella competenza del tribunale in sede ordinaria” (Cass. civ. Sez. lavoro, 03-11- 1995, n. 11444, si veda anche Tribunale di Roma, Sez. III Civile sent. nrg 75422/12 del 13.5.2013).
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Ciò detto, e prima di passare alla disamina delle singole clausole si ritiene indispensabile premettere una sintetica ricostruzione dell'evoluzione della normativa legale e pattizia in materia di Rappresentanza Sindacale. Al riguardo si darà dei principali fatti una lettura quanto più possibile sintetica e neutra sia per non tediare il Giudicante con questioni fin troppo note, sia per evitare che le convenute costituendosi si sentano in dovere di controproporre una propria differente lettura su tale passo che non rappresenta certo la res controversa del presente giudizio ma la sua pacifica premessa. Si invita però il giudicante a porre particolare attenzione all'ultimo argomento trattato nella presente parte (punto 4 lett. C) ovverosia la sentenza della Corte Costituzionale 231/2013 in quanto verrà posta a fondamento dell'intera successiva trattazione.
PARTE III
L’EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA LEGALE E PATTIZIA DELLA RAPPRESENTANZA
1.
La nostra Carta Costituzionale all'art 39 prevede che :
“L'organizzazione sindacale è libera.
Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.
Ma come è noto tale articolo è rimasto ad oggi completamente inattuato (per una lunga serie di motivi che non è certo opportuno qui affrontare).
2.
La materia è stata pertanto rimessa ad accordi interconfederali sino al 1970 quando con la legge 300/70 (“Lo Statuto dei Lavoratori”), pur rimanendo del tutto non normata la legittimazione a stipulare i contratti collettivi nazionali, si provvedeva però a disciplinare per legge la Rappresentanza Sindacale Aziendale. In particolare lo Statuto prevede al capo terzo una serie di diritti minimi di agibilità sindacale (diritto di bacheca, permessi retribuiti, potere di indire l'assemblea, tutela dai trasferimenti ecc ecc) disponendo all'art. 19 nella sua originale versione la griglia selettiva per determinare quali organizzazioni sindacali potessero accedere a tali previsioni di sostegno, consentendo la costituzione di “rappresentanze sindacali aziendali” (Rsa)
• “nell’ambito delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale” (e cioè la cosiddetta rappresentatività presunta),
• oppure “nell’ambito delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nella unità produttiva”.
La Corte Costituzionale già nella sua prima lettura di detto articolo (sent.. 6 marzo 1974, n. 54, Foro it., 1974, I, 963), pur riconoscendo la costituzionalità della scelta di adottare criteri selettivi ammoniva dicendo come ai poteri riconosciuti alle r.s.a. doveva comunque far
«riscontro un’effettiva capacità di rappresentanza degli interessi sindacali»; inoltre evidenziava che ciò doveva corrispondere ad “una reale effettività rappresentativa” e che i requisiti che la definivano non erano «attribuibili né dal legislatore né da altre autorità», ma dovevano essere «conseguibili e realizzabili da ogni associazione sindacale per fatto proprio o in base a propri atti concreti».
3.
Evitando qui ogni analisi sociologica è un fatto che quel modello di rappresentatività di cui si è sopra detto entrava profondamente in crisi nel corso degli anni 80 a cui conseguiva la nascita e l'affermarsi delle istanze del sindacalismo di base (tra cui proprio alcune delle forze confluite nel 2010 in USB). In questo contesto la Giurisprudenza di merito e legittimità si trovava a navigare a vista ed ecco il reiterato contrasto tra la Cassazione (sez. lav. nn. 783 e 1913 del 1986, id., Rep. 1986) e i giudici sia dei precedenti gradi che del rinvio attorno alla natura definitoria o permissiva dell'art. 19. Proprio su tale scontro
interveniva la Corte Costituzionale con la sentenza 30/90. In essa si reiterava la costituzionalità dell'art. 19 aggiungendo però come: “La corte è tuttavia ben consapevole che, anche a causa delle incisive trasformazioni verificatesi nel sistema produttivo, si è prodotta in anni recenti una forte divaricazione e diversificazione degli interessi, fonte di più accentuata conflittualità; e che anche in ragione di ciò – nonché delle complesse problematiche che il movimento sindacale si è perciò trovato a dover affrontare – è andata progressivamente attenuandosi l’idoneità del modello disegnato nell’art. 19 a rispecchiare l’effettività della rappresentatività…..Si tratta….di dettare nuove regole idonee ad inverare, nella mutata situazione, i principî di libertà e di pluralismo sindacale additati dal 1° comma dell’art. 39 Cost.; prevedendo, da un lato, strumenti di verifica dell’effettiva rappresentatività delle associazioni, ivi comprese quelle di cui all’art. 19 dello statuto; dall’altro la possibilità che le misure di sostegno – pur senza obliterare le già evidenziate esigenze solidaristiche – siano attribuite anche ad associazioni estranee a quelle richiamate in tale norma, che attraverso una concreta, genuina ed incisiva azione sindacale pervengano a significativi livelli di reale consenso Non spetta a questa corte individuare gli indici di rappresentatività...ma essa non può mancare di segnalare che l’apprestamento di tali nuove regole – ispirate alla valorizzazione dell’effettivo consenso come metro di democrazia anche nell’ambito dei rapporti tra lavoratori e sindacato – è ormai necessario per garantire una più piena attuazione, in materia, dei principî costituzionali”.
Parimenti con alcune pronunzie la Cassazione offriva una lettura innovativa dell'art. 19 suggerita, con l'assumere a discrimine della titolarità dei diritti di partecipazione a commissioni aziendali il criterio selettivo della reale rappresentatività sindacale (si veda Cass. 11442/91).
4.
Conseguentemente accadevano “fatti” (normativi) di estrema rilevanza per la trattazione che qui ci è propria e cioè
a. l'accordo interconfederale del 20 dicembre 1993 per la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali.
b. il referendum del 1995 ed il conseguente nuovo testo dell'art. 19 della L.300/70
c. la sentenza della Corte Costituzionale 231/2013
A. l’accordo interconfederale del 20 dicembre 1993
Le organizzazioni confederali qui convenute, a fronte della “crisi” di modello sopra detto, ritenevano (assai opportunamente) come l'unico modo di affrontarla fosse quello di ricercare nuovamente la legittimazione, quanto meno in sede aziendale, nel voto degli stessi lavoratori. E, dopo alcuni accordi rimasti inattuati (del 19 maggio 1989 e del 1 marzo 1991), con l'accordo del 20 dicembre 1993 firmato anche dal Presidente del Consiglio e dall'Intersind (allora centrale negoziale delle aziende Iri) introducevano l'istituto delle Rappresentanze Sindacali Unitarie (RSU) a cui gli stessi pattiziamente cedevano i diritti previsti in proprio favore dell'art. 19 della L.300/70. In particolare veniva prevista l'elezione universale da parte dei dipendenti a tempo indeterminato ogni tre anni dei propri rappresentati, senza però introdurre alcun cd “dual channel” nella rappresentanza (ovvero una distinzione tra quella elettiva come quotidiano contropotere aziendale da un lato e quella più propriamente sindacale-negoziale dall'altro) disponendo come il potere di impulso e di presentazione di liste non fosse rimesso all'iniziativa di gruppi spontanei di lavoratori ma solo di organizzazioni sindacali formalmente costituite come tali, che avessero raccolto almeno il 5% delle firme degli aventi diritto al voto e che fossero o firmatarie dell'accordo del 20 dicembre 2013 o che vi avessero espressamente aderito. Non è questa la sede per valutare le luci e le ombre di tale accordo, sta di fatto che – soprattutto nel comparto industriale (ovverosia quello direttamente impattato dall'accordo del 10 gennaio 2014 oggi al vaglio) - progressivamente dal 1993 la rappresentanza aziendale diveniva per lo più elettiva (pur rimanendo molte aziende ove tutt'ora le forze sindacali convenute non le hanno attuate). E sta di fatto che la confederazione Usb da subito ha ad esso aderito - come prima avevano fatto le organizzazioni sindacali che in essa si sono fuse - risultando sempre più votata nelle elezioni a cui ha partecipato.
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E' appena il caso, dato che si sta passando in rapidissima rassegna l'evoluzione normativa della rappresentanza, di dare atto qui come l'art. 28 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea stabilisca che “i lavoratori e i datori di lavoro, o le rispettive organizzazioni, hanno, conformemente al diritto dell'Unione e alle legislazioni e prassi nazionali, il diritto di negoziare e di concludere contratti collettivi, ai livelli appropriati, e di ricorrere, in caso di conflitti di interessi, ad azioni collettive per la difesa dei loro interessi, compreso lo sciopero”.
Insomma la previsione di una rappresentanza elettiva contenuta nel protocollo sulle Rsu del 1993 (poi diffuso in ogni comparto e recepito da ogni contratto collettivo ed applicato nell'ultimo ventennio), non è un qualsiasi contenuto di un semplice accordo privatistico di cui i firmatari possono farne il governo che meglio credono ma costituisce oramai quanto meno “una prassi nazionale” non meramente abrogabile in assenza di idoneo intervento del legislatore pena la compromissione dei diritti sanciti dalla Carta di Nizza.
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B. Il referendum del 1995 ed il conseguente nuovo testo dell’art. 19 della L.300/70
Senza qui tediare il Giudice su valutazioni attorno all'eterogenesi dei fini basti dire che il cd “movimento dei consigli” (ovverosia la sinistra sindacale confederale ) che si era battuto contro ogni privilegio in materia di democrazia sindacale raccoglieva le richieste 500 mila firma attorno ad un quesito di liberalizzazione assoluta della normativa di sostegno sindacale (eliminando ogni griglia selettiva) ma si faceva persuaso dell'opportunità di presentare anche un quesito più “morbido” di integrale abrogazione del comma primo e di abrogazione solo parziale del comma secondo dell'art. 19 L.300/70, nella convinzione che comunque ciò andasse nella direzione dell'ampliamento della platea legittimata e avrebbe costretto il legislatore ad attuare l'art. 39 della Costituzione con un'apposita legge sulla rappresentanza. Il quesito “radicale” però non passava per lo 0,5% dei voti mentre veniva approvato dalla consultazione il quesito morbido a cui non è però conseguito alcuna nuova legge. Quindi dal 28 luglio1995 il nuovo testo dell'art. 19 diveniva il seguente: “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell'ambito: delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità produttiva”. Da tale data pertanto la norma di legge escludeva qualsivoglia riferimento alla reale “rappresentatività” (reale o presunta) delle organizzazioni sindacali per cui diveniva del tutto irrilevante il numero di iscritti nell'unità produttiva o nel comparto contando solo l'avvenuta firma del contratto anche solo a livello aziendale per poter costituire una Rappresentanza Sindacale Aziendale (Rsa) e godere così dei diritti rpevisti dal titolo III dello statuto dei Lavoratori. Tale norma da subito si appalesava come foriera di possibili distorsioni potendosi dare casi (ed essendosi poi effettivamente dati) in cui sindacati privi di qualsivoglia seguito e connotati solo dalla loro consonanza con i voleri aziendali risultassero titolati ad avere Rsa per il solo fatto di esser stati ammessi alla firma del contratto. E, specularmente, casi in cui sindacati
rappresentativi pur volendo firmare il contratto non venivano fatti sedere al tavolo della trattativa per scelta datoriale, o in cui pur facendo essi parte della delegazione trattante ma non condividendo l'opportunità di firmare il contratto, si vedevano esclusi dall'accesso ai diritti di agibilità sindacale per il solo fatto di aver espresso il proprio diritto costituzionale al dissenso rispetto alle pattuizioni proposte. Ma la situazione rimaneva in qualche modo in equilibrio per un ulteriore quindicennio anche grazie alla parallela disciplina pattizia delle Rsu potendo le suddette organizzazioni sindacali rappresentative ma non firmatarie comunque supplire (almeno nel reparto industriale di cui oggi si parla) alle mancanze della legge accedendo alla rappresentanza aziendale per via elettiva.
Ma il castello crollava nel 2010 con il rifiuto della Fiom di firmare gli accordi proposti dal gruppo Fiat e la contestuale uscita di questo da Confindustria e pertanto anche dall'obbligo di soggezione dall'accordo del 20 dicembre1993. E pertanto la Fiom – pur risultando essere un sindacato certamente dotato di elevata rappresentatività effettiva sia nella categoria dei metalmeccanici in generale che nelle aziende Fiat in particolare - non poteva costituire Rsa in quanto non firmataria di contratto, e non poteva promuovere l'elezione delle Rsu in quanto la Fiat non recepiva (e non recepisce) l'accordo del 20 dicembre 1993. E pertanto non le restava altra strada che rivolgersi alla magistratura e dallo scontro giudiziario che ne seguiva usciva una rilevante pagina di diritto sindacale.
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C. la sentenza della Corte Costituzionale 231/2013
Non è questa la sede per analizzare i due orientamenti della Giurisprudenza di merito relativi al predetto contenzioso (se non per rilevare come sia stato ben maggioritario quello favorevole alle tesi della Fiom) e ciò in quanto ogni conflitto veniva risolto e superato dall'intervento nel luglio del 2013 della Corte con la sentenza 231/2013. In essa la Corte afferma: come “nel momento in cui viene meno alla sua funzione di selezione dei soggetti in ragione della loro rappresentatività e, per una sorta di eterogenesi dei fini, si trasforma invece in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale o comunque significativamente rappresentativo, sì da non potersene giustificare la stessa esclusione dalle trattative, il criterio della sottoscrizione dell'accordo applicato in azienda viene inevitabilmente in collisione con i precetti di cui agli artt. 2, 3 e 39 Cost. Risulta, in primo luogo, violato l'art. 3 Cost., sotto il duplice profilo della irragionevolezza intrinseca di quel criterio, e della disparità di trattamento che è suscettibile di ingenerare
tra sindacati. Questi ultimi infatti nell'esercizio della loro funzione di autotutela dell'interesse collettivo - che, in quanto tale, reclama la garanzia di cui all'art. 2 Cost. - sarebbero privilegiati o discriminati sulla base non già del rapporto con i lavoratori, che rimanda al dato oggettivo (e valoriale) della loro rappresentatività e, quindi, giustifica la stessa partecipazione alla trattativa, bensì del rapporto con l'azienda, per il rilievo condizionante attribuito al dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa. E se, come appena dimostrato, il modello disegnato dall'art. 19, che prevede la stipulazione del contratto collettivo quale unica premessa per il conseguimento dei diritti sindacali, condiziona il beneficio esclusivamente ad un atteggiamento consonante con l'impresa, o quanto meno presupponente il suo assenso alla fruizione della partecipazione sindacale, risulta evidente anche il vulnus all'art. 39, primo e quarto comma, Cost., per il contrasto che, sul piano negoziale, ne deriva ai valori del pluralismo e della libertà di azione della organizzazione sindacale. La quale, se trova, a monte, in ragione di una sua acquisita rappresentatività, la tutela dell'art. 28 dello Statuto nell'ipotesi di un eventuale, non giustificato, suo negato accesso al tavolo delle trattative, si scontra poi, a valle, con l'effetto legale di estromissione dalle prerogative sindacali che la disposizione denunciata automaticamente collega alla sua decisione di non sottoscrivere il contratto. Ciò che si traduce, per un verso, in una forma impropria di sanzione del dissenso, che innegabilmente incide, condizionandola, sulla libertà del sindacato in ordine alla scelta delle forme di tutela ritenute più appropriate per i suoi rappresentati; mentre, per l'altro verso, sconta il rischio di raggiungere un punto di equilibrio attraverso un illegittimo accordo ad excludendum. Va, pertanto, dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 19, primo comma, lettera b), della legge n. 300 del 1970, nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell'ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell'unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell'azienda”.
Ebbene la Corte non solo con pronuncia additiva ha trasformato l'art. 19 mettendo quale criterio selettivo per la costituzione di una rappresentanza sindacale aziendale nella pienezza dei diritti del titolo III dello statuto non più l'aver firmato il contratto ma l'aver “partecipato alla negoziazione” ma ha fatto tre passi ulteriori
1. dapprima ha chiarito come per la costituzione della rappresentanza sindacali aziendali ciò che realmente ed unicamente conta è la rappresentatività a livello aziendale dell'organizzazione sindacale che le esprime;
2. quindi ha prevenuto il rischio che il nuovo testo dell'art. 19 così come emergente dalla sentenza possa dare luogo a prassi applicatrici con i medesimi requisiti di anticostituzionalità di quelle precedenti;
3. ed infine ha dettato i criteri guida di costituzionalità di qualsiasi normativa (legale o patrizia) che intenda nomare la materia
1.
Laddove la Corte – nell'affrontare la norma uscita dal referendum del 1995 – afferma come “per una sorta di eterogenesi dei fini, si (è) trasforma(to) in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale” non ci ricorda solo l'ovvio, e cioè che le “rappresentanze aziendali” vanno costituite da chi è rappresentativo a livello aziendale. Ma ci dice che è conseguentemente anticostituzionale qualsiasi meccanismo che si traduca invece “in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale” (foss'anche a favore di un sindacato maggiormente rappresentativo a livello nazionale ma ciò non di meno privo di adeguato seguito in azienda).
2.
Quindi la Corte, nell'affermare l'anticostituzionalità del sistema che prevedeva l'accreditamento datoriale per il tramite della firma del contratto, ha compreso perfettamente che spostare il focus dalla firma alla partecipazione alla negoziazione avrebbe potuto aprire identici problemi, essendo bastevole che il datore selezioni anticipatamente i soggetti da ammettere alla trattativa producendo così uguale esclusione del sindacato rappresentativo ma sgradito. E a tale vulnus pone rimedio affermando – quale requisito di costituzionalità della norma – un vero e proprio obbligo a trattare con i soggetti rappresentativi e ciò lo ripete (a scanso di ogni equivoco) ben due volte
a. dapprima al capo 6.6 laddove analizza i diritti del “sindacato non firmatario di alcun contratto collettivo, ma dotato dell'effettivo consenso da parte dei lavoratori” affermando come tale consenso “ne permette e al tempo stesso rende non eludibile l'accesso alle trattative”;
b. quindi, nel passo sopra trascritto (sub 7 in sentenza) al fine di evidenziare come tale partecipazione non sia una costante sociale o una mera aspettativa ma un vero e proprio diritto cogente e giustiziabile, afferma come esso nasca dai “valori del pluralismo e della libertà di azione della organizzazione sindacale” prevedendo la ricorribilità da parte del sindacato effettivamente rappresentativo “alla tutela dell'art. 28 dello Statuto nell'ipotesi di un eventuale, non giustificato, suo negato accesso al tavolo delle trattative”
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Insomma dopo la sentenza 231 del 23 luglio 2013 ( e sino al 10.1.2014, come si illustrerà a seguire) il ricorrente sindacato Usb Lavoro privato si è trovato nella condizione normativa di avere diritto in tutte le aziende ove essa, pur non firmando, aveva partecipato alle trattative di poter costituire una propria Rsa. E in quelle ove esso è effettivamente rappresentativo, quand'anche non avesse partecipato per il passato, il diritto di pretendere ed ottenere la partecipazione per il futuro alle negoziazioni da cui il medesimo risultato di poter accedere in forza del proprio effettivo consenso tra i lavoratori alla rappresentanza aziendale degli stessi.
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3.
Ugualmente fondamentali sono i criteri di costituzionalità che la Corte detta e che evidentemente parlano sia al Legislatore che alle parti sociali che vorranno disciplinare la materia, dicendo come una normativa che escluda in qualsivoglia modo dalla rappresentanza “un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale o comunque significativamente rappresentativo…viene inevitabilmente in collisione con i precetti di cui agli artt. 2, 3 e 39 Cost.” ed in particolare
- dall'art. 3 è vietata ogni “disparità di trattamento che è suscettibile di ingenerare tra sindacati” (ugualmente sufficientemente rappresentativi a livello aziendale).
- dall'art. 2 è vietato ogni “privilegio” o “discriminazione” sulla base “non già del rapporto con i lavoratori ….. bensì del rapporto con l'azienda”
- dall'art. 39 è vietato ogni pattuizione tesa a “condiziona(re) il beneficio esclusivamente ad un atteggiamento consonante con l'impresa” traducendosi ciò “ per un verso, in una forma impropria di sanzione del dissenso, che innegabilmente incide, condizionandola, sulla libertà del sindacato in ordine alla scelta delle forme
di tutela ritenute più appropriate per i suoi rappresentati; mentre, per l'altro verso, sconta il rischio di raggiungere un punto di equilibrio attraverso un illegittimo accordo ad excludendum”.
E sono proprio questi tre principi (divieto di discriminazione di sindacati adeguatamente rappresentativi a livello aziendale, divieto di selezione in base a criteri di consonanza con la controparte datoriale e divieto di accordi ad excludendum) con cui si dovrà quindi valutare l'accordo del 10 gennaio 2014 che esplicitamente si propone il compito di ridefinire integralmente la rappresentanza intervenendo non solo su quella pattizia ma anche su quella legale.
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PARTE IV
LA NULLITA’ PARZIALE DEL TESTO UNICO SULLA RAPPRESENTANZA DEL 10 GENNAIO 2014
1.
LA NULLITA DELLA PARTE TERZA SULLA “TITOLARITA’ ED EFFICACIA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NAZIONALE DI CATEGORIA E AZIENDALE”.
Va dapprima evidenziato come da sempre il diritto del lavoro distingue lo status dei soggetti sindacali firmatari da quelli meramente aderenti e al riguardo pare opportuno solo evidenziare - per autorevolezza della fonte e chiarezza della sintesi – la stessa sentenza 213/2013 della Corte Costituzionale che, richiamando la propria precedente sentenza (di opposto segno) n. 244 del 1996, ha ribadito come per avere la pienezza dei diritti conseguente allo status firmatario di contratto collettivo «non è sufficiente la mera adesione formale a un contratto negoziato da altri sindacati, ma occorre una partecipazione attiva al processo di formazione del contratto».
Né la circostanza che in questo caso sia espressamente prevista in diversi passaggi dell'accordo la possibilità di adesione è sufficiente per rendere gli aderenti equiparati ai sottoscrittori. E ciò in quanto nell'accordo del 10 gennaio 2014 le parti hanno previsto con precisione quali siano i diritti/doveri rimessi alle sole parti firmatarie e quali invece quelle delle altre organizzazioni che avrebbero successivamente aderito. Per ben sei volte infatti
l'accordo laddove affronta prerogative ed obblighi delle parti firmatarie li estende espressamente ai sindacati “aderenti”4
Insomma le parti hanno avuto particolare cura di precisare, ogni volta che si parlava di prerogative/obblighi, la loro estensione anche alle “organizzazioni che abbiano formalmente aderito” all'accordo, oppure la loro non estensione (ad esempio nella determinazione dei soggetti incaricati di presiedere alla costruzione del meccanismo di rilevazione della rappresentatività con Inps e Cnel e per altri due casi che si esamineranno a seguire). Per usare insomma uno stantio brocardo “ubi voluit dixiti, ubi noluit non dixit” e cioè dove hanno voluto l'hanno detto, se non l'hanno detto è perchè non lo vogliono!
Ciò davvero pacificamente premesso possiamo ora vagliare il
PRIMO motivo di nullità
dell'accordo al secondo comma della parte terza recita come segue:
“Sono ammesse alla contrattazione collettiva nazionale le Federazioni delle Organizzazioni Sindacali firmatarie del presente accordo e dell’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 e del Protocollo del 31 maggio 2013, che abbiano, nell’ambito di applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando a tale fine la media fra il dato associativo (percentuale delle iscrizioni certificate) e il dato elettorale (percentuale voti ottenuti su voti espressi) come risultante dalla ponderazione effettuata dal Cnel”.
4 Si veda a) nella parte seconda: pag. 8 punto 1 al comma 5° laddove di affida il potere di iniziativa per le elezioni delle Rsu sia ai firmatari che “alle organizzazioni sindacali...che abbiano comunque effettuato adesione formale” all'accordo, alla pag. 11 punto 8 laddove si dispone la rinuncia, in caso di partecipazione alle elezioni delle Rsu, a costituire Rsa sia per i firmatari che per gli “aderenti”, alla pag. 13 punto 4 si prevede che le liste possano essere presentate dai firmatari e dalle altre organizzazioni “a condizione che: accettino espressamente, formalmente ed integralmente i contenuti del presente accordo”; b) nella parte terza: alla pag. 21 comma 4° laddove si prevede che “I contratti collettivi aziendali per le parti economiche e normative sono efficaci ed esigibili per tutto il personale in forza e vincolano tutte le associazioni sindacali, espressione delle Confederazioni sindacali firmatarie ...o che comunque tali accordi abbiano formalmente accettato”; c)alla parte quarta pag. 23 comma 5° secondo cui “i contratti collettivi aziendali...che definiscono clausole di tregua sindacale e sanzionatorie, ...hanno effetto vincolante per le associazioni
sindacali espressioni delle confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo, o per le organizzazioni che ad esso abbiano formalmente aderito,”; d) Nelle disposizioni transitorie e finali alla pag. 24 laddove si afferma che “ le organizzazioni di categoria appartenenti ad una delle Confederazioni firmatarie del presente accordo, ovvero che comunque tale accordo abbiano formalmente accettato, sono obbligate a richiedere alle rispettive Confederazioni la costituzione di un collegio di conciliazione e arbitrato”
E questo è quanto (invitandosi all'uopo il giudicante a verificare personalmente che la trascrizione sopra effettuata sia corretta e completa). Siamo di fronte ad uno dei tre soli casi nel corpo dell'intero accordo (del primo, ovverosia delle convenzioni con Inps e Cnel, si è già detto mentre del terzo si parlerà nella parte finale della presente trattazione) ove si prevede il diritto delle “Federazioni delle Organizzazioni Sindacali firmatarie del presente accordo” ma NON quello delle “organizzazioni che ad esso abbiano formalmente aderito”
Insomma con l'accordo del 19 gennaio 2014 i firmatari
- hanno imposto a qualsivoglia organizzazione sindacale effettivamente rappresentativa sul posto di lavoro di aderire formalmente all'accordo per poter partecipare alla elezione dei rappresentati sindacali in azienda;
- in forza di tale adesione anche ad essi si estende (come si vedrà meglio a seguire) la soggezione
a. alle “clausole di tregua sindacale e sanzionatorie, finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva” a livello aziendale,
b. alla “procedura arbitrale da svolgersi a livello confederale” per la repressione di
“eventuali comportamenti non conformi agli accordi”
ma, qualsivoglia effettiva rappresentatività essi abbiano o avranno (finanche in ipotesi maggioritaria), essi rimarranno comunque esclusi “dalla contrattazione collettiva nazionale”.
E attenzione, l'accordo del 10 gennaio non è un mero patto tra le confederazioni storiche dei lavoratori ma è firmato anche da Confindustria e ciò significa che nessuna della sue Federazioni, - neppure se lo ritenesse giusto o comunque conveniente per far cessare un diffuso conflitto – potrebbe autonomamente convocarla pena la violazione di un preciso obbligo contrattuale (ovviamente giustiziabile coattivamente innanzi alla giustizia arbitrale e/o ordinaria).
Al riguardo per evidenziare l'assoluta nullità dell'accordo ci pare davvero sufficiente rinviare a quanto detto nella parte seconda (punto quattro, lett. C) in ordine alla sentenza della Corte Costituzionale 231/2013 che vieta
- per contrasto con l’art. 3 della Carta ogni “disparità di trattamento che è suscettibile di ingenerare tra sindacati” (ugualmente sufficientemente rappresentativi a livello aziendale).
- per contrasto con l’art. 2 ogni “privilegio” o “discriminazione” sulla base “non già del rapporto con i lavoratori ….. bensì del rapporto con l'azienda”
- per contrasto con l’art. 39 ogni pattuizione tesa a “condiziona(re) il beneficio esclusivamente ad un atteggiamento consonante con l'impresa” traducendosi ciò “ per un verso, in una forma impropria di sanzione del dissenso, che innegabilmente incide, condizionandola, sulla libertà del sindacato in ordine alla scelta delle forme di tutela ritenute più appropriate per i suoi rappresentati; mentre, per l'altro verso, sconta il rischio di raggiungere un punto di equilibrio attraverso un illegittimo accordo ad excludendum”.
Ed infatti
- la previsione normativa con cui tra due sindacati ugualmente rappresentativi si differenzia il diritto alla rappresentanza tra chi, avente lo status di firmatario, ha la pienezza della titolarità alla contrattazione nazionale e chi invece, neppure invitato alla definizione dell'accordo, ne è completamente espulso cos'altro è se non un'anticostituzionale “disparità di trattamento”?
- e cos'altro è prevedere per i sindacati solo aderenti la soggezione alle sanzioni in caso di “comportamenti non conformi agli accordi” ma non il diritto a negoziare quegli stessi accordi a prescindere da qualsivoglia effettiva rappresentatività essi abbiano se non “una forma impropria di sanzione del dissenso”
- e come si può chiamare un accordo che esclude, su richiesta originaria proprio di Xxxx Xxxx ed Uil, il principale competitore se non un “un illegittimo accordo ad excludendum”?
Ed ovviamente ciò che non è concesso al legislatore non può esserlo neppure alle parti private, e se è una legge che confligge con la Carta va annullata dalla Corte costituzionale, se a confliggere è invece un contratto va dichiarato nullo dal Giudice Ordinario per contrasto con norme imperative, e illiceità per contrarietà all'ordine pubblico!.
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Al riguardo si rileva come tale esclusione sia del tutto congrua con l'accordo del 31 maggio 2013 (di cui quello oggi al vaglio è l'espresso prosecutore) in cui si dettava una diversa
disciplina, superata dall'accordo del 10 gennaio 2014, ma con i medesimi effetti di esclusione. Xx infatti allora non si negava espressamente il diritto ai non “firmatari” di partecipare alla negoziazione nazionale ma si raggiungeva il medesimo risultato affermando come potessero negoziare solo le forze che raggiungevano il 5%, rifiutandosi al contempo di contare i voti dei non firmatari prevedendosi come “ai fini della misurazione del voto …. varranno esclusivamente i voti assoluti espressi per ogni Organizzazione Sindacale aderente alle Confederazioni firmatarie della presente intesa”. Ciò per altro era una delle tre espresse richieste avanzate dal Cgil Cisl e Uil con la Piattaforma Unitaria del 30 aprile 2013 con cui esse si dicevano disponibili ad un accordo con Confindustria (poi firmato il 31 maggio 2013 e novato il 10 gennaio 2014) che prevedesse “la titolarità della contrattazione nazionale per le OO. SS. firmatarie, che raggiungano il 5% della rappresentanza per ogni CCNL”. Sul punto non vi è quindi dubbio che detta previsione dell'accordo del 31 maggio 2013 sia affetta dalla medesima nullità qui denunciata.
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Chiarito pertanto come
- aderendo all'accordo del 10 gennaio 2014 nella sua attuale stesura Usb ed i suoi rappresentanti sarebbero sottoposti ad ogni sanzione per ogni tipo di “comportamenti non conformi agli accordi” aziendale ma senza mai poter negoziare quegli accordi qualsivoglia effettiva rappresentanza essa oggi abbia o domani avrà;
- non aderendo all'accordo Usb verrebbe esclusa dalla possibilità stessa di concorrere alle elezioni delle Rsu, ed i lavoratori ricorrenti perderebbero quindi il proprio diritto di voto passivo ed attivo (non potendosi essi né candidarsi né votare la lista della propria organizzazione);
resta da analizzare se quanto meno gli stessi possano almeno, ai sensi dell'art. 19 L.300/70, costituire la propria Rsa laddove essi risultino particolarmente rappresentativi a livello aziendale (ed il caso del sig. YYYYYYY esclude in radice che ad esempio nell'Ilva ciò non sia). E ciò ci conduce al
SECONDO motivo di nullità
Ed infatti anche tale diritto è annullato, se non tramite azione giudiziaria , dall'accordo del 10 gennaio 2014 che sul punto afferma come segue:
“ai fini del riconoscimento dei diritti sindacali previsti dalla legge, ai sensi dell’art. 19 e ss della legge 20 maggio 1970, n. 300, si intendono partecipanti alla negoziazione le
organizzazioni che abbiano raggiunto il 5% di rappresentanza, secondo i criteri concordati nel presente accordo, e che abbiano partecipato alla negoziazione in quanto hanno contribuito alla definizione della piattaforma e hanno fatto parte della delegazione trattante l’ultimo rinnovo del c.c.n.l. definito secondo le regole del presente accordo. Fermo restando quanto previsto al secondo paragrafo, in assenza di piattaforma unitaria, la parte datoriale favorirà, in ogni categoria, che la negoziazione si avvii sulla base della piattaforma presentata da organizzazioni sindacali che abbiano complessivamente un livello di rappresentatività nel settore pari almeno al 50% +1”
I motivi di nullità di tale clausola sono davvero molteplici e vanno affrontati separatamente A.
Dato che per poter costituire una Rappresentanza Sindacale Aziendale “ai sensi dell’art. 19 e ss della legge 20 maggio 1970, n. 300” si pone come primo requisito l'avere i requisiti “concordati nel presente accordo” per accedere alla “negoziazione” del “c.c.n.l.” e che, come si è appena detto, tale accesso a Usb è comunque negato, ne deriva che qualsivoglia effettiva rappresentanza esso abbia o avrà Usb non potrà mai in forza di detto accordo costituire una Rsa ai sensi dell’art. 19 L.300/70. Non vi è dubbio sul punto (non ricorrendo certo la fattispecie dell'art. 8 L.142/2011) che l'art. 19 dello Statuto sia una norma inderogabile e comunque fondi per Usb e per i suoi iscritti un diritto non disponibile dai firmatari dell'accordo del 10 gennaio 2014. Ma dato che tra di essi vi è anche Confindustria ciò significa che tutte le aziende sono ora contrattualmente tenute ad attenersi a tale griglia selettiva e pertanto nessun altra strada Usb avrà se non quella di azionare un contenzioso giudiziario azienda per azienda, oppure un contenzioso unico ed immediato non sull'applicazione della clausola nei confronti dei singoli datori ma sul contenuto stesso della clausola nei confronti delle parti che l'hanno sottoscritta (ovverosia proprio l’odierna azione). Sulla nullità della clausola null'altro vi è da dire se non ricordare ancora come l'art. 19 sia una norma imperativa la cui violazione comporta la nullità, e tale nullità consegue all'esclusione di Usb non solo dalla rappresentanza nazionale ma anche da quella aziendale per i motivi tutti esposti al capitolo che precede.
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Ma se il vizio sopra detto riguarda in particolare le organizzazioni ricorrenti o comunque più in generale i sindacati non firmatari dell'accordo del 10 gennaio 2014 (a prescindere se
essi aderiscano o meno allo stesso) ve ne sono altri che riguardano TUTTI ivi incluse le organizzazioni aderenti alle confederazioni firmatarie e che si evidenzieranno a seguire
B.
Il secondo vizio riguarda l'intrinseca contraddittorietà dell'accordo e la conseguente sfasatura temporale e di livello. Ricordiamo infatti a noi stessi come “l’art. 19 e ss della legge 20 maggio 1970, n. 300” , la cui applicazione è oggetto della clausola ora al vaglio, disciplina la Rappresentanza AZIENDALE. Pare altresì non irrilevante segnalare come lo stesso accordo del 10 gennaio 2014 affidi a tale sede aziendale, rilevantissimi compiti negoziali (anche derogativi in peggio della contrattazione nazionale in corso di effetto), così come prima aveva fatto l'accordo interconfederale del 28 giugno 2011, prevedendo per la loro validità “erga omens” il prevalente consenso a livello aziendale dei lavoratori (iscritti se contrattato dalla Rsa, votanti se contrattato dalle Rsu). E ricordiamo ancora come con la stessa sentenza 231/2013 la Corte Costituzionale abbia dichiarato l'anticostituzionalità dell'art. 19 nella sua versione uscita dalle urne del referendum del 1995 in quanto “per una sorta di eterogenesi dei fini, si (è) trasforma(to) in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale”. Insomma si ripete come la Corte, nel ricordarci l'ovvio e cioè che le “rappresentanze aziendali” vanno costituite da chi è rappresentativo a livello aziendale, ci dice che è conseguentemente anticostituzionale qualsiasi meccanismo che si traduca invece “in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale”. Ebbene è allora evidente il contrasto tra l'art.19 così come emerge dalla lettura additiva fornita dalla Corte Costituzionale e la clausola dell'accordo del 10 gennaio 2014 ora al vaglio che ricollega invece la possibilità di costituire una Rappresentanza Sindacale Aziendale non già all'essere “un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale” bensì all'avere i requisiti “concordati nel presente accordo” per accedere alla “negoziazione” del “contratto collettivo NAZIONALE di lavoro”. E ciò con il doppio risultato di escludere la ricorrente Usb dalla rappresentanza aziendale laddove essa sia “un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale”, e di tenerla esclusa anche nell'ipotesi essa sia pure “un soggetto maggiormente rappresentativo a livello nazionale” dato che in base a “ i criteri concordati nel presente accordo” Usb non potrà mai accedere alla negoziazione dei c.c.n.l. qualsivoglia rappresentatività effettiva essa abbia o avrà.
Ma, come si è detto, tale clausola esclude dalla costituzione di una rappresentanza sindacale aziendale anche qualsivoglia sindacato aderente ad una delle confederazioni firmatarie che magari in un certo ambito di applicazione di un determinato c.c.n.l. (mettiamo il c.c.n.l. delle imprese artigianali degli orafi, argentieri ed odontotecnici) non raggiunga il predetto 5% e pertanto non risulti firmatario di contratto (non potendo esso neppure accedere alla relativa negoziazione) ma che in determinate aziende del comparto risulti fortemente rappresentativo e financo maggioritaria. E ciò in quanto neppure essa avrebbe i requisiti “concordati nel presente accordo” per accedere alla “negoziazione” del “c.c.n.l.”, essendosi voluto scambiare la rappresentatività aziendale con quella nazionale.
Ma c'è ancora di più! Ed infatti, il rinvio operato dalla clausola ora al vaglio del diritto a costituire una Rsa alla previa partecipazione alla negoziazione del precedente c.c.n.l. (che ha durata almeno triennale ma che spesso vede passare molti più anni tra un rinnovo e l'altro) fa si che neppure un sindacato aderente ad una delle confederazioni firmatarie e che abbia nell'attualità l'effettiva rappresentatività NAZIONALE richiesta dall'accordo ma che risulti non firmatario del precedente contratto (magari perché allora non aveva sufficienti iscritti) può accendere una Rsa perché deve prima attendere la negoziazione del prossimo c.c.n.l. che potrebbe giungere molti anni dopo.
Insomma nuovamente emerge la nullità della clausola per l'evidente contrasto con l'art.19 così come emerge dalla lettura additiva fornita dalla Corte Costituzionale.
C.
Da ultimo la previsione di legare la facoltà di costituire una Rsa solo a quei sindacati che abbiano “partecipato alla negoziazione in quanto hanno contribuito alla definizione della piattaforma e hanno fatto parte della delegazione trattante l’ultimo rinnovo del c.c.n.l.” va letta unitamente alla clausola successiva ove si afferma come “in assenza di piattaforma unitaria, la parte datoriale favorirà, in ogni categoria, che la negoziazione si avvii sulla base della piattaforma presentata da organizzazioni sindacali che abbiano complessivamente un livello di rappresentatività nel settore pari almeno al 50% +1” . Ebbene ciò significa che un sindacato che pure soddisfi tutti i requisiti previsti dall'accordo del 10 gennaio risultando sia aderente ad una delle Confederazione che hanno sottoscritto l'accordo sia dotato da sempre di adeguata rappresentanza nazionale ( e magari, il che non guasta, pure a livello aziendale) rischia ugualmente di non potere costituire una Rsa. Al riguardo, per meglio farci comprendere, riteniamo utile ed opportuno avanzare un'ipotesi.
Prendiamo la Fiom (aderente alla Cgil e certamente rappresentativa sul piano nazionale), e ipotizziamo – alla luce dei rapporti burrascosi con le altre federazioni di categoria dei meccanici di Cisl e Uil – che ella rilevi come non sia possibile avanzare una “piattaforma unitaria” di rinnovo del c.c.n.l. Ipotizziamo poi che la piattaforme della Fiom sia sostenuta dal consenso del 49% dei lavoratori e quella di Fim e Uilm dal 51%. Ne consegue che la piattaforma che andrà in discussione non sarà quella dalla Fiom e che pertanto ella non potrà essere considerata soggetto partecipante “alla negoziazione in quanto ha(..) contribuito alla definizione della piattaforma” e come tale – nel più che prevedibile caso poi non sottoscriva il contratto raggiunto sulla base della piattaforma concorrente – essa non potrà costituire una Rappresentanza sindacale aziendale. Certo potrebbe quanto meno rappresentare a livello aziendale i propri iscritti e simpatizzanti partecipando alla procedura di elezione delle Rsu, ma neppure questo è certo né probabile dato che lo stesso “51%” che la esclude dalla possibilità di trattare la propria piattaforma la può escludere anche dalle Rsu. Ed infatti l'accordo del 10 gennaio 2014 prevede espressamente che “alla scadenza della rsa, l’eventuale passaggio alle r.s.u. potrà avvenire se deciso dalle organizzazioni sindacali che rappresentino, a livello nazionale, la maggioranza del 50%+1 come determinata nella parte prima del presente accordo” (parte seconda, sezione prima , lett. C). Ebbene si potrebbe allora sostenere come la Fiom potrebbe peròavere almeno la possibilità di costituire una Rsa laddove (dopo la stipula del contratto nazionale in cui la sua piattaforma è rimasta di minoranza) ella riesca nello sforzo titanico di raggiungere “la maggioranza del 50%+”1 nel comparto contrattuale di riferimento. Ma neppure in tale caso potrà costituire una Rsa in quanto l'accordo del 10 gennaio 2014 aggiunge una “clausola di salvaguardia” (parte seconda, sezione seconda, articolo 8, ultimo comma) che afferma come quand'anche il sindacato che abbiamo preso ad esempio raggiunga il 51% a livello nazionale in ogni caso non potrebbe chiedere il passaggio alle Rsu in quanto “il passaggio dalle r.s.a. alle r.s.u. potrà avvenire solo se definito unitariamente dalle organizzazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie del Protocollo 31 maggio 2013”
Insomma non solo ad Usb è impedito di accedere ai benefici previsti dalla legge, ma qualsivoglia federazione di categoria aderente alle parti firmatarie se non avrà “unitarietà” di azione con le altre due firmatarie non potrà negoziare la propria piattaforma a livello anzionale, non potrà quindi creare rappresentanze sindacali aziendali e non potrà neppure ottenere “il passaggio dalle r.s.a. alle r.s.u.”, del tutto a prescindere dalla propria
rappresentatività aziendale o nazionale. Ebbene ci troviamo con assoluto nitore nella fattispecie descritta dalla pluricitata sentenza 231 della Corte Costituzionale laddove dichiara anticostituzionale qualsivoglia “forma impropria di sanzione del dissenso, ... incide.....sulla libertà del sindacato in ordine alla scelta delle forme di tutela ritenute più appropriate …(e)…per altro verso, sconta il rischio di raggiungere un punto di equilibrio attraverso un illegittimo accordo ad excludendum”.
Pertanto la clausola di cui al quinto comma sempre della parte terza che definisce la griglia selettiva per il godimento “per il godimento dei diritti sindacali previsti dalla legge, ai sensi dell’art. 19 e ss della legge 20 maggio 1970” escludendo non solo tutti i sindacati non firmatari dell'Accordo ma anche le eventuali federazioni delle organizzazioni firmatarie eventualmente dissenzienti, prescindendo da qualsiasi criterio di verifica della rappresentatività a livello aziendale,
• non solo è ed è nulla per illiceità dei motivi e della causa stante il contrasto con gli articoli 2, 3, e 39 della Costituzione così come emerge dalla sentenza della Corte Costituzionale 231 del 2013 (così come la clausola sopra denunciata);
• ma è nulla anche ai sensi dell'art. 1344 c.c. essendo chiaramente finalizzata ad eludere una norma imperativa ovverosia proprio “l’art. 19 e ss della legge 20 maggio 1970” di cui al comma 2 della parte terza (pag. 19).
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2.
LA NULLITA DELLA PARTE QUARTA5 E DELLE “CLAUSOLE TRANSITORIE E FINALI “6
Il focus di tale ultima porzione è innanzitutto comprendere cosa intendano “le parti firmatarie” laddove
• “convengono sulla necessità di definire disposizioni volte a prevenire e a sanzionare eventuali azioni di contrasto di ogni natura, finalizzate a compromettere il regolare
5 In particolare la Parte Quarta recita come segue :
“Le parti firmatarie dell’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 ovvero del presente Accordo convengono sulla necessità di definire disposizioni volte a prevenire e a sanzionare eventuali azioni di contrasto di ogni natura, finalizzate a compromettere il regolare svolgimento dei processi negoziali come disciplinati dagli accordi interconfederali vigenti nonché l’esigibilità e l’efficacia dei contratti collettivi stipulati nel rispetto dei principi e delle procedure contenute nelle intese citate.
Pertanto i contratti collettivi nazionali di categoria, sottoscritti alle condizioni di cui al Protocollo d’intesa 31 maggio 2013 e del presente accordo, dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti con il contratto collettivo nazionale di categoria e a prevenire il conflitto.
I medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro dovranno, altresì, determinare le conseguenze sanzionatorie per gli eventuali comportamenti attivi od omissivi che impediscano l'esigibilità dei contratti collettivi nazionali di categoria stipulati ai sensi della presente intesa.
Le disposizioni definite dai contratti collettivi nazionali di lavoro, al solo scopo di salvaguardare il rispetto delle regole concordate nell'accordo del 28 giugno 2011, del Protocollo del 31 maggio 2013 e nel presente accordo, dovranno riguardare i comportamenti di tutte le parti contraenti e prevedere sanzioni, anche con effetti pecuniari, ovvero che comportino la temporanea sospensione di diritti sindacali di fonte contrattuale e di ogni altra agibilità derivante dalla presente intesa.
I contratti collettivi aziendali, approvati alla condizioni previste e disciplinate nella parte terza del presente accordo, che definiscono clausole di tregua sindacale e sanzionatorie, finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva, hanno effetto vincolante, oltre che per il datore di lavoro, per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori nonché per le associazioni sindacali espressioni delle confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo, o per le organizzazioni che ad esso abbiano formalmente aderito, e non per i singoli lavoratori.”
6 Ed invece le clausole transitorie e finali dispongono che
“Le parti firmatarie della presente intesa si impegnano a far rispettare le regole qui concordate e si impegnano, altresì, affinché le rispettive organizzazioni di categoria ad esse aderenti e le rispettive articolazioni a livello territoriale e aziendale si attengano a quanto pattuito nel presente accordo.
In via transitoria, ed in attesa che i rinnovi dei contratti nazionali definiscano la materia disciplinata dalla parte quarta del presente accordo, le parti contraenti concordano che eventuali comportamenti non conformi agli accordi siano oggetto di una procedura arbitrale da svolgersi a livello confederale.
A tal fine, le organizzazioni di categoria appartenenti ad una delle Confederazioni firmatarie del presente accordo, ovvero che comunque tale accordo abbiano formalmente accettato, sono obbligate a richiedere alle rispettive Confederazioni la costituzione di un collegio di conciliazione e arbitrato composto, pariteticamente, da un rappresentante delle organizzazioni sindacali confederali interessate e da altrettanti rappresentanti della Confindustria, nonché da un ulteriore membro, che riveste la carica di Presidente, individuato di comune accordo o, in mancanza di accordo, a sorteggio fra esperti della materia indicati in una apposita lista definita di comune accordo, entro 30 giorni, dalle parti stipulanti il presente accordo.
Nella decisone del collegio, che dovrà intervenire entro dieci giorni dalla sua composizione, dovranno essere previste le misure da applicarsi nei confronti delle organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro in caso di inadempimento degli obblighi assunti con il presente accordo e, in particolare, dell’obbligo di farne rispettare i contenuti alle rispettive articolazioni, a tutti i livelli.
Viene poi istituita, a cura delle parti firmatarie del presente accordo, una Commissione Interconfederale permanente con lo scopo di favorirne e monitorarne l'attuazione, nonché di garantirne l’esigibilità.
La Commissione sarà composta, pariteticamente, da sei membri, designati da Confindustria e dalle tre organizzazioni sindacali più rappresentative al momento della composizione della Commissione, tra esperti in materia di diritto del lavoro e di relazioni industriali. Un settimo componente della Commissione Interconfederale, che assumerà funzioni di Presidente, sarà individuato fra esperti della materia indicati in una apposita lista definita di
svolgimento dei processi negoziali nonché l’esigibilità e l’efficacia dei contratti collettivi stipulati” (pag. 23 comma 1°);
• aggiungendo poi come “i contratti collettivi nazionali di categoria .. dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti con il contratto collettivo nazionale di categoria e a prevenire il conflitto” (pag. 23 comma 2°)7
• e quindi dovranno “determinare le conseguenze sanzionatorie per gli eventuali comportamenti attivi od omissivi che impediscano l'esigibilità dei contratti collettivi nazionali di categoria stipulati ai sensi della presente intesa” (pag. 23 comma 3°)
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Al riguardo va dapprima rilevato come le parti abbiano espressamente distinto le azioni “finalizzate a compromettere il regolare svolgimento dei processi negoziali” da quelle invece volte a contrastare “l’esigibilità dei contratti collettivi stipulati” .
Ci pare quindi di poter dire come esse
comune accordo. La Commissione potrà avvalersi della consulenza di esperti. Ai componenti non spetta alcuna indennità.
La Commissione è nominata per un triennio e i suoi membri possono essere confermati una sola volta.
Fatte salve le clausole che disciplinano l’esigibilità per i singoli contratti collettivi nazionali di categoria, la Commissione Interconfederale stabilisce, con proprio regolamento, da definire entro tre mesi dalla stipula del presente accordo, le modalità del proprio funzionamento ed i poteri di intervento per garantire l’esigibilità dei contenuti del presente accordo, definendo ogni controversia anche attraverso lo svolgimento di un giudizio arbitrale.
7 Pressochè eguali clausole erano inserite nell'accordo del 31 maggio laddove al terz'ultimo comma si afferma “le Parti firmatarie e le rispettive Federazioni si impegnano a dare piena applicazione e a non promuovere iniziative di contrasto agli accordi così definiti” e al successivo comma laddove si afferma che “i contratti collettivi nazionali di categoria, approvati alle condizioni di cui sopra, dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti e le conseguenze di eventuali inadempimenti sulla base dei principi stabiliti con la presente intesa”
8 e così nell'accordo del 28 giugno 2011 al punto 6 pag. 2 che prevede come “ i contratti collettivi aziendali, approvati
alla condizioni di cui sopra, che definiscono clausole di tregua sindacale e sanzionatorie, finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva, hanno effetto vincolante esclusivamente per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori nonché per le associazioni sindacali espressioni delle confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo, e non per i singoli lavoratori.””
- laddove vietano azioni “finalizzate a compromettere il regolare svolgimento dei processi negoziali” facciano riferimento alla consueta regola per cui durante la trattativa si evita il conflitto, se la trattativa invece si rompe o si trascina vanamente oltre un preciso e limitato termine di ragionevolezza le parti riprendono la propria libertà di azione, regola da sempre in vigore nell'ordinamento sindacale confederale9.
- ed invece laddove si vietano le azioni volte a contrastare “l’esigibilità dei contratti collettivi stipulati”, e si sanzionano “gli eventuali comportamenti attivi od omissivi che (la) impediscano”, si fa chiaro riferimento al comportamento delle organizzazioni sindacali dopo la sottoscrizione dell'accordo e per tutta la vigenza dello stesso, passando così dalla tregua al disarmo (unilaterale), e questa è la reale novità dell’accordo.
Ciò che rileva ai fini della presente trattazione non è quindi la mera “tregua” in pendenza di trattativa (che ha un oggetto quanto meno determinabile, e trova nella sua necessaria temporaneità funzionalizzata a ricercare il miglior accordo possibile un possibile balance tra gli opposti sacrifici, e , soprattutto, non è accompagnata nel testo del 10 gennaio da alcuna previsione sanzionatoria apparendo esso un mero “gentlement agreement”) bensì il divieto accompagnato da sanzione di attentare alla “esigibilità” dei contratti stipulati
E allora va compreso
- cosa significhi “l’esigibilità dei contratti collettivi stipulati” ;
- quali siano “gli eventuali comportamenti attivi od omissivi che (la) impediscano” e che i contratti collettivi “devono” sanzionare;
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Tutto ciò premesso si ritiene che affermare “l’esigibilità” di un vincolo obbligatorio significa che le condizioni di efficacia di tale obbligo (legale o contrattuale) si siano avverate e che quindi i destinatari dello stesso ne risultino vincolati con ogni conseguenza in caso di inadempimento. Prevedendo l'accordo del 10 gennaio 2014 una proceduralizzazione nella formazione del consenso (con la “validazione certificata” dei lavoratori dopo la sottoscrizione dell'accordo) postulare “l’esigibilità” degli stessi significa dire che prima della corretta fine della procedura essi sono non “esigibili” mentre a seguito della stessa,
9 Già nell'accordo del 20 dicembre 1993 ve ne era un chiaro esempio (art. 4): “ le piattaforma ..per il rinnovo del CCNL saranno presentate in tempo utile per consentire l’apertura della trattativa te mesi prima della scadenza dei contrttti, durante tale periodo e per il mese successivo alla scadenza del contratto le parti non assumeranno iniziative unilaterali né procederanno ad azionai dirette; la violazione di tale periodo di raffreddamento comporterà come conseguenza a carico della parte che vi avrà dato causa l'anticipazione o lo slittamento di tre mesi del termine a partire dal quale decorre l'indennità di vacanza contrattuale”.
essendosi verificata la condizione di efficacia, i medesimi esplicano la loro ordinaria efficacia normativa e obbligatoria.
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Ciò chiarito va provato ad analizzare allora quali siano quali siano “gli eventuali comportamenti attivi od omissivi che impediscano l’esigibilità” e che i contratti collettivi “devono” sanzionare. E per comprenderlo (vista la vaghezza ed oscurità della formula prescelta) è indispensabile dapprima evidenziare quali essi NON siano
a.
Innanzitutto si ricorda come, nonostante la inattuazione dell'art. 39 della Costituzione, è ius receptum davvero da nessuno mai messo in discussione il principio secondo cui, non incorporandosi il contratto collettivo in quello individuale ed essendo esso sempre suscettibile di mutazioni anche in pejus (tranne che per i diritti quesiti), il contratto collettivo sia immediatamente ed automaticamente applicabile al datore affiliato all'organizzazione che lo ha stipulato in base agli ordinari principi codicistici (ovverosia quello dettato dell'art. 1372 c.c. secondo cui “il contratto ha forza di legge tra le parti” e quello di cui all'art. 1388 c.c. secondo cui “il contratto concluso dal rappresentante in nome e nell'interesse del rappresentato, nei limiti delle facoltà conferitegli, produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato”). E tale contratto vincola non solo – per i medesimi principi – i lavoratori dipendenti di tale datore e stesso iscritti alle organizzazioni sindacali che lo hanno firmato ma è parimenti pacifico come tali effetti (sia migliorativi che peggiorativi) sul complessivo trattamento economico normativo si applichino a tutti i lavoratori ivi inclusi quelli affiliati a organizzazioni non firmatarie dell'accordo così come a quelli non iscritti ad alcuna sigla in forza dell'art. 16 l.300/70 che dispone il divieto di concedere trattamenti retributivi o normativi difformi in base all'affiliazione sindacale.
Ciò detto “gli eventuali comportamenti attivi od omissivi che impediscano l’esigibilità de contratto” non possono certo consistere nel rifiuto dei lavoratori di adempiere correttamente agli obblighi contrattuali in quanto condotta già prevista e sanzionata dalla legge (con sanzioni crescenti dettate dall'art. 7 L.300/70 sino la risoluzione del rapporto ai sensi degli art. 2119 c.c. e comunque con l'integrale risarcimento del danno ai sensi dell'art. 1223 c.c.).
b.
Spostando il focus allora su “tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori nonché (sul)le associazioni sindacali” possiamo subito dire come, per i medesimi motivi, la clausola ora al vaglio sarebbe priva di causa qualora intendesse vietare comportamenti già vietati e sanzionati dalla legge (quali la decisione di attuare il conflitto tramite il sabotaggio degli impianti o forme di sindacalismo armato come è avvenuto gli albori del brigatismo o tramite
- come più recentemente accaduto in Francia - il temporaneo “sequestro” nei locali aziendali dei membri della direzione, o comunque tramite la commissione di altri reati o illeciti civili).
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Ciò chiarito riteniamo davvero indubitabile che ove vengano vietati o sanzionati i “gli eventuali comportamenti attivi od omissivi che impediscano l’esigibilità de contratto” non si possa che fare riferimento a quelle sole “azioni di contrasto di ogni natura, finalizzate a compromettere l’esigibilità dei contratti collettivi” LECITE, o meglio che erano lecite sino al 10 gennaio 2014.
Ed esse sono
o fare campagne di informazione e mobilitazione con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di comunicazione (quali assemblee, convegni, volantini, appelli pubblici, partecipazione a programmi televisi o radiofonici, documentari di inchiesta, “postaggio” di immagini, parole e suoni sui social network ecc.) finalizzate a chiedere una anticipata rinegoziazione di un accordo collettivo non gradito;
o agire in giudizio chiedendo l'annullamento e/o la disapplicazione di un contratto da parte dell'associazione sindacale che lo ritenga viziato e comunque non conforme alle previsioni sia legali che endosindacali;
o scioperare;
Ebbene, prima di affrontarle nello specifico, va qui detto che
- se le controparti nel costituirsi vorranno sostenere che le condotte vietate con l'accordo del 10 gennaio sono solo quelle già vietate dalla legge sarebbe notizia assai gradita ma il contratto è comunque nullo per carenza di causa (ex artt. 1325 e 1418 c.c.);
- se invece sosterranno che le condotte vietate fanno sì riferimento a comportamenti di per se leciti (sino alla firma dell'accordo del 10 gennaio 2014) ma non sono le tre sopra indicate ma altre, il contratto è comunque nullo per assoluta carenza di
oggetto (ex art. 1345 c.c. per cui “l’oggetto del contratto deve essere determinato o determinabile”); ed infatti – escluso il divieto di campagne di opinione, azioni giudiziarie e sciopero – davvero nessun altra condotta tipizzabile è ricavabile dal testo contrattuale.
1.
Quanto al sanzionato divieto di fare campagne di informazione e mobilitazione con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di comunicazione esso è talmente discordante con le regole minime dell'assetto costituzionale che ci si può davvero limitare rilevare il frontale in contrasto con l'art. 21 della Carta che impone come “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” e
– in relazione allo specifico ruolo delle “rappresentanze sindacali dei lavoratori” – con l'art. 1 dello Statuto dei Lavoratori per cui “i lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge” (e tanto più i lavoratori che al contempo siano anche rappresentanti sindacali aziendali, direttamente sanzionati dall'accordo del 10 gennaio anche a livello aziendale). Né riteniamo neppure le controparti potranno negare l'imperatività di tali norme né l'illiceità di qualsivoglia negozio teso a conculcare tale basilare diritto, per altro duplicemente lesivo sia del diritto inviolabile dell'organizzazione sindacale di quello del “singolo” che aderisce alle “formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” ai sensi dell'art. 2 della Costituzione.
2.
Quanto invece al divieto di agire in giudizio ci pare non malizioso immaginare come esso rappresenti la prima e più rilevante attività che l'accordo intenda vietare. E ciò dato che nella lunga controversia intercorsa tra la Fiom e Fiat e Federmeccanica (che oggettivamente si pone quale uno degli antecedenti causali dell'accordo oggi al vaglio) ben più sgradite sono risultate le iniziative giudiziarie (che per lo più hanno dato ragione all'organizzazione dei lavoratori) che non altre forme di autotutela collettiva come gli scioperi (stante la fase di profonda stagnazione della produzione già di per se quasi ferma in molte aziende a prescindere dall'astensione collettiva degli addetti, che pure vi è stata).
Ed infatti
o mentre le campagne di opinione attentano solo indirettamente all'esigibilità del contratto (che comunque finché non verrà rinegoziato rimane vigente),
o e mentre gli scioperi attentano solo provvisoriamente all'esigibilità del contratto (ovverosia solo per la durata degli stessi),
l'unico reale strumento lecito per “compromettere l’esigibilità dei contratti collettivi” è quella di chiederne l'annullamento/disapplicazione alla magistratura ordinaria. Ed infatti se è vero che - come sopra detto - l'applicazione del c.c.n.l. è automatica e soggettivamente estesa a tutti i dipendenti del datore affiliato a Confindustria, è anche vero che vi è stato (proprio tra Fiom e Federmeccanica) un rilevante contenzioso sulla “esigibilità” del contratto, reso possibile dal fatto che si è sovrapposta una nuova normativa contrattuale ad una vecchia ancora in corso di effetti che – stante la mancata coincidenza tra i firmatari dell'una e dell'altra – ha consentito ai lavoratori aderenti all'organizzazione sindacale firmataria del vecchio accordo e non del nuovo, di adire le competenti sedi giudiziarie per chiedere l'applicazione della precedente disciplina sino alla sua naturale scadenza. E la nuova proceduralizzazione nella formazione del consenso attuata proprio con l'accordo del 10 gennaio 2014 potrebbe portare a nuovi contenziosi nel caso sia stata privilegiata dalla Federazione datoriale la piattaforma minoritaria, o se non sia stata compiuta la “validazione certificata” ad opera dei lavoratori o se essa sia stata alterata o inquinata da brogli o violenze.
Ciò detto, anche relativamente a tale previsione quindi ci si potrebbe limitare a rilevare come essa si ponga in insanabile ed insuperabile contrasto con l'art 24 della Carta laddove impone che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”.
E però si rileva come la controparte – presumibilmente per superare tale eccezione - ha previsto nelle “clausole transitorie e finali” un vero e proprio arbitrato obbligatorio de iure teso a sostituirsi alla magistratura ordinaria nella risoluzione di tali controversie e nella conseguente repressione di “eventuali comportamenti non conformi agli accordi”.
Al riguardo va qui detto come effettivamente l'arbitrato risulti in astratto compatibile con la disciplina di cui all'art. 24 Cost. Ed in effetti la Corte Costituzionale afferma che – pur essendo irrinunciabile la tutela dei propri diritti – il titolare ben può disporre (purché
volontariamente) che le controversie siano rimesse ad un organo giudicante differente rispetto a quello giurisdizionale10
E però o “a prescindere dall’annosa questione sulla natura privatistica o meno dell’arbitrato, quest’ultimo si incanala, quasi ontologicamente, nei dettami del giusto processo e nelle sue naturali declinazioni, quali il criterio del contraddittorio e la terzietà del giudice. Criteri che ispirano spontaneamente il processo arbitrale, tanto da potersi affermare che il giudizio arbitrale non sarebbe tale sen non fosse inserito nell’alveo dell’art. 111, commi 1 e 2, della Costituzione”11. E allora pare il caso di ricordare qui quale sia il contenuto di tale articolo 111: “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”.
E ciò che più conta è che la contrarietà a costituzione di qualsivoglia regolamento che disciplini l'arbitrato in violazione di tali principi è stato già definitivamente acclarato e sancito dalla Corte costituzionale. Ed infatti la stessa, affrontando un caso in cui una legge regionale con “regolamento nel prevedere come - nello stabilire che i collegi arbitrali, per la risoluzione delle controversie relative ai lavori pubblici realizzati nel territorio regionale, siano composti da due magistrati, da due funzionari della regione (uno tecnico ed uno amministrativo), nominati dal presidente della regione, e da un libero professionista, nominato dall'appaltatore, - determina con tale composizione una evidente disparità di trattamento tra la posizione dell'ente locale committente, quando esso sia diverso dalla regione, "rispetto all'altro contraente che può includervi un professionista di propria fiducia".12.
Forti di tali principi possiamo allora esaminare l'arbitrato previsto dall'accordo del 10 gennaio 2014. In tale accordo si prevede come “le organizzazioni di categoria appartenenti ad una delle Confederazioni firmatarie del presente accordo, ovvero che comunque tale accordo abbiano formalmente accettato, sono obbligate a richiedere alle
10 Si veda Corte Cost 14 luglio 1977, n127; Xxxxx Xxxx. 0 giugno 2005, n. 221
11 X. Xxxxxx in “La Prassi dell’arbitrato”, AA.VV., Xxxxxxxxxxxx, 2012, 5
12 Corte Cost. 6 gennaio 1995, n. 33. Pare utile aggiungere come la Corte - a fronte dell'eccezione della Regione che sosteneva come la posizione del Comune fosse comunque tutelata dal fatto che la “Regione” potesse nominare ben due arbitri su 5 - concludeva ribadiva il carattere “assoluto” della norma detta dall'art. 111 Cost dicendo “ciò che dunque viene censurato nell'ordinanza di rinvio non è che il comune sia privato della possibilità di nominare un arbitro scelto fra i propri dipendenti o fra i propri cittadini - il che, sia pure su di un piano di mero fatto, avrebbe potuto far riconoscere qualche fondamento alla tesi difensiva della regione - bensì che non gli sia consentito di nominare un arbitro di propria scelta alla pari della controparte della controversia, onde la fondatezza della censura per violazione del principio di eguaglianza”
rispettive Confederazioni la costituzione di un collegio di conciliazione e arbitrato composto, pariteticamente, da un rappresentante delle organizzazioni sindacali confederali interessate e da altrettanti rappresentanti della Confindustria, nonché da un ulteriore membro, che riveste la carica di Presidente, individuato di comune accordo o, in mancanza di accordo, a sorteggio fra esperti della materia indicati in una apposita lista definita di comune accordo, entro 30 giorni, dalle parti stipulanti il presente accordo”.
Ebbene ipotizziamo allora come Usb Lavoro Privato contesti un contratto firmato con Confindustria dalle omologhe organizzazione di categoria di Cgil, Cisl e Uil. Pare indubitabile che le “organizzazioni sindacali confederali interessate” in tal caso sarebbero 4 (Usb, Cgil, Cisl e Uil) e che ciascuna di esse potrebbe/dovrebbe nominare un arbitro. A questi quattro vanno poi aggiunti “altrettanti rappresentanti della Confindustria” ovverosia altri 4 arbitri nominati da quest'ultima, per un totale di 8 arbitri che poi eleggono a maggioranza il nono che svolgerà anche le funzioni di presidenza.
Ciò significa che su 9 arbitri ben 8 saranno nominati direttamente (7) o a maggioranza (1) dalle controparti di Usb!
Il dato, nella sua crudezza, è talmente eloquente in relazione alla violazione del principio costituzionale per cui “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale” da non meritare ulteriore approfondimento in ordine alla nullità dell'arbitrato previsto nelle clausole transitorie e finali per contrasto con l'art. 111 Cst e quindi sul divieto sanzionato di agire in giudizio per contrasto con l'art. 24 Cost. Pare solo il caso di aggiungere come, anche da tale significativo passaggio, emerga in tutto il suo nitore la già richiamata violazione dell'art. 39 realizzando l'accordo del 10 gennaio 2014 una “forma impropria di sanzione del dissenso”13.
3.
Ed infine si può e si deve passare al divieto di sciopero. Al riguardo dapprima va evidenziato come l'accordo del 10 gennaio distingua tra le norme che dovranno presiedere alla difesa dell'esigibilità del contratto nazionale dalle loro omologhe per il contratto aziendale.
o Quanto al contratto nazionale si prevede come:” i contratti collettivi nazionali di categoria, ….dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate
13 Corte Cost. sent. 213/2013 cit.
a garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti con il contratto collettivo nazionale di categoria e a prevenire il conflitto. I medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro dovranno, altresì, determinare le conseguenze sanzionatorie per gli eventuali comportamenti attivi od omissivi che impediscano l'esigibilità dei contratti collettivi nazionali di categoria stipulati ai sensi della presente intesa. Le disposizioni definite dai contratti collettivi nazionali di lavoro, al solo scopo di salvaguardare il rispetto delle regole concordate nell'accordo del 28 giugno 2011, del Protocollo del 31 maggio 2013 e nel presente accordo, dovranno riguardare i comportamenti di tutte le parti contraenti e prevedere sanzioni, anche con effetti pecuniari, ovvero che comportino la temporanea sospensione di diritti sindacali di fonte contrattuale e di ogni altra agibilità derivante dalla presente intesa.
o Quanto al contratto aziendale invece si dispone che “i contratti collettivi aziendali, approvati alla condizioni previste e disciplinate nella parte terza del presente accordo, che definiscono clausole di tregua sindacale e sanzionatorie, finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva, hanno effetto vincolante, oltre che per il datore di lavoro, per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori nonché per le associazioni sindacali espressioni delle confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo, o per le organizzazioni che ad esso abbiano formalmente aderito, e non per i singoli lavoratori.”
L'evidente differenza è
- i contratti nazionali impongono il divieto solo “alle parti contraenti” gli stessi ma non escludono dalle sanzioni i “lavoratori” (che in realtà anzi sono, unitamente alle aziende loro datrici di lavoro ed affiliate a confindustria, i PRIMI contraenti dato che è per loro ed in forza della loro delega che il contratto può essere sottoscritto)
- i contratti aziendali invece dispongono che le sanzioni (e quindi il divieto) “hanno effetto vincolante… non per i singoli lavoratori” ma la loro applicazione coinvolge non solo le organizzazioni che li stipuleranno ma anche le “associazioni
sindacali espressioni delle confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo, o … le organizzazioni che ad esso abbiano formalmente aderito”14
La ratio di tale norma è resa assai evidente dalla lettura dell'intero accordo che , nella parte terza (sulla titolarità ed efficacia della contrattazione)
- laddove affronta la contrattazione nazionale afferma come “le parti firmatarie e le rispettive Federazioni si impegnano a dare piena applicazione e a non promuovere iniziative di contrasto” (pag. 21, 2° comma) nei confronti di detti ccnl, ed è il secondo e ultimo caso in cui non viene riportato alcuna estensione alle “organizzazioni che abbiano formalmente aderito” (in coerenza con l'avvenuta esclusione di esse da qualsivoglia titolarità a tale livello di contrattazione di cui abbiamo a lungo parlato nella parte precedente del presente atto);
- laddove invece affronta la contrattazione aziendale afferma come “i contratti collettivi aziendali…..sono efficaci ed esigibili per tutto il personale in forza e vincolando tutte le associazioni sindacali espressioe delle Confederazioni firmatarie
…..o che comunque tale accordo abbia espressamente accettato” (pag. 21), concludendo nel dire che tali accordi (quand'anche derogativi in peius delle previsione del contratto nazionale) “esplicano efficacia generale” (pag. 22)15.
Insomma il meccanismo delineato per assicurare la “esigibilità” dei contratti dai dissidenti (primi tra essi i sindacati non “firmatari” dell'accordo) viene così articolato:
- a livello nazionale in caso di sciopero si sanzionano i lavoratori ed eventualmente quei sindacati (o rappresentanze sindacali di essi) che, pur “contraenti/aderenti alle confederazioni firmatarie”, pongano in essere “iniziative di contrasto”;
- a livello aziendale si sanzionano solo “le rappresentanze sindacali (e cioè i lavoratori con ruolo di Rsa o Rsu)” e non gli altri lavoratori, ma allora per garantire la “pace sociale” si deve prevedere (ed infatti viene previsto) l'allargamento dell'obbligo non solo alle “associazioni sindacali….contraenti l’accordo” o “firmatarie del testo del 10 gennaio” ma anche tutte le altre organizzazioni sindacali che - per non essere escluse dalla elezione delle Rsu – abbiano aderito all'accordo.
14 estensione espressamente effettuata dall'accordo del 10 gennaio 2014 rispetto al testo – per il resto identico – del 28 giugno 2011 che faceva salvi dalle conseguenze sanzionatorie i sindacati aderenti.
15 Al fine di evidenziare come non vi sia alcun refuso o non ponderata enunciazione si rileva come tali brani sono stati ripresi alla lettera quanto alla contrattazione nazionale dall'accordo del 31 maggio 2013 e quanto alla contrattazione aziendale dall'accordo del 28 giugno 2011 che riportavano esattamente con le stesse parole identica distinzione di disciplina.
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Chiarito quindi il meccanismo delineato pare opportuno trattare disgiuntamente
a. la nullità della clausola di divieto di sciopero relativa ai contratti nazionali;
b. la nullità della clausola di divieto di sciopero relativa ai contratti aziendali;
A.
Quanto al divieto di sciopero nei contratti nazionali, la sola circostanza che per essi non è prevista alcuna esclusione “per i lavoratori” (unita al fatto che esso è invece sancita nella medesima pagina per i contratti aziendali, a riprova del fatto che ove le parti hanno voluto hanno detto) rende insanabile ed autoevidente il contrasto con l'art. 40 della Cost. laddove sancisce “il diritto di sciopero” si limitandosi ad affermare che esso “si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano” (e non certo di accordi privatistici). E ciò tanto più che, quand'anche poi non si provvedesse poi ad irrogare le relative sanzioni, in ogni caso la mancata esplicita esclusione “dei lavoratori” attesta come l'obbligo di non scioperare ricada anche su di essi e pertanto la violazione di tale obbligo contrattuale in ogni caso – secondo l'ordinaria disciplina dei contratti – facoltizzerebbe il datore ad agire nei loro confronti per il risarcimento del (solitamente ingentissimo) danno. E se anche nessun datore vorrà procedere in tal senso è in ogni caso innegabile l'estremo metus che ciò ingenera nei lavoratori da cui sicuramente una condizione di inaccettabile coartazione del loro diritto costituzionale del tutto originato al di fuori “delle leggi che lo regolano”.
Ed infatti, sia che si voglia aderire alla tesi della titolarità individuale del diritto di sciopero sia a quella “congiunta” (nelle sue moltissime varianti, di cui brevemente si parlerà a seguire) non residuano dubbi né in dottrina né in giurisprudenza del fatto che lo sciopero sia comunque una situazione giuridica soggettiva individuale di vantaggio, riconosciuto al massimo livello della scala gerarchica delle fonti ed in quanto tale non disponibile da terzi. Pare appena il caso di ricordare come anche la dottrina più apertamente sostenitrice della liceità delle clausole di divieto di sciopero, commentando il famoso contratto Fiat di Pomigliano, abbia detto come “i lavoratori, organizzandosi attraverso altri sindacati e/o occasionalmente al di fuori di un contesto sindacale strutturato, possono sempre scegliere di esercitare il diritto di sciopero, anche nel caso in cui altre realtà sindacali hanno scelto di utilizzare un'altra “strategia” meno conflittuale o di non aprire alcuna vertenza sindacale. In questo caso, i lavoratori iscritti ai sindacati stipulanti non sono giuridicamente (e indirettamente) obbligati alla tregua, ma vengono disincentivati
all'esercizio del diritto di sciopero, in via di fatto dalla circostanza che le loro organizzazioni di riferimento si sono impegnate a non esercitare la loro libertà di deliberazione/proclamazione/promozione dello sciopero1 e da eventuali previsioni di una disciplina sanzionatoria di natura endoassociativa”16
Insomma pure per l'autore che ha dovuto difendere nelle aule dei tribunali la legittimità della famosa “clausola di responsabilità” (del tutto omologa a quella qui al vaglio) di Pomigliano sostiene come il divieto di sciopero
- può vincolare solo i sindacati che sottoscrivono il contratto che la contiene;
- e che non può mai impedire ai lavoratori “ di esercitare il diritto di sciopero anche nel caso in cui altre realtà sindacali hanno scelto di utilizzare un'altra “strategia” meno conflittuale o di non aprire alcuna vertenza sindacale”, quand'anche tali sigle essi fossero iscritti.
Ed infatti il diritto di sciopero è storicamente un diritto sociale, nel senso che è un diritto di “seconda generazione”, riconosciuto in conseguenza delle lotte operaie e non delle precedenti rivoluzioni borghesi, ma esso è strutturalmente un diritto di libertà, autosufficiente e che vede perfezionati i suoi effetti attraverso l'esercizio del suo titolare. E' stato infatti definito, diritto sociale di libertà17. Il diritto individuale di sciopero è dunque (anche) un diritto della personalità. Poiché tale diritto è riconosciuto a livello costituzionale e svolge un ruolo centrale nelle dinamiche economico-sociali e democratiche del nostro ordinamento, esso può essere senza remore qualificato quale diritto (o libertà) fondamentale18, e il già citato art. 28 della Carta di Nizza ce ne dà una conferma19. Come tutti i diritti personali fondamentali14, esso non è nella piena disponibilità dei suoi titolari. Ciò a tutela dello stesso titolare, che può trovarsi in situazioni tali da disporre dei suoi diritti senza una piena consapevolezza o senza una sufficiente libertà di scelta, ma anche a tutela dell'ordinato svolgimento dei rapporti giuridico-sociali nel quadro dei valori accolto dalla Costituzione, quindi a tutela di un interesse generale – l'ordine pubblico – che prescinde da quello del singolo titolare. Insomma l'obbligo dei lavoratori di soggezione alle previsioni
16 DE XXXX XXXXXX, R., Accordo di Pomigliano e criticità del sistema di relazioni industriali italiane, RIDL, I, 2010, 797
17 XXXXXXX, M., Diritto di sciopero, forma di Stato e forma di governo, cit., 6.
18 CALAMANDREI, P., Significato costituzionale del diritto di sciopero, cit., 221 e GRASSELLI, S.,Indisponibilità del diritto di sciopero, RDL, 1965, 207.
19 “I lavoratori e i datori di lavoro, o le rispettive organizzazioni, hanno, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali, il diritto di negoziare e di concludere contratti collettivi, ai livelli appropriati, e di ricorrere, in caso di conflitti di interessi, ad azioni collettive per la difesa dei loro interessi, compreso lo sciopero”.
del contratto collettivo nazionale applicato nell'unità produttiva non può mai tradursi nella privazione del loro diritto costituzionalizzato di astensione collettiva, e (come affermeremo nella parte seguente) meno che mai quando tra i sottoscrittori del contratto contente la clausola di divieto non vi sia l'organizzazione a cui gli stessi hanno conferito il mandato (come accadrà a tutti gli iscritti Usb sia per l'esclusione della stessa dalla contrattazione nazionale, sia per l'assoluta indisponibilità della medesima a firmare una tale clausola prevista addirittura come obbligatoria dall'accordo del 10 gennaio 2014).
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Nell'accingersi a passare allora alla trattazione dei contratti aziendali si vuole qui rilevare come qualora mai le controparti costituendosi volessero provare a sostenere come – nonostante l'espressa differenziazione di disciplina – ciò che viene dettato per i contratti nazionali debba essere inteso come valido anche per quelli aziendali e viceversa, questa sarebbe una dichiarazione in parte gradita (l'esclusione dei lavoratori dalle sanzioni dei contratti nazionali) ed in parte sgradita (l'inclusione delle organizzazioni sindacali meramente aderenti nel sistema sanzionatorio dei ccnl) ma in ogni caso non bastevole in quanto per raggiungere tale fine ci pare occorra un nuovo testo e non certo una semplice memoria di costituzione stante il suddetto tenore letterale dell'accordo. Ma si rileva come anche in tale caso sia in ogni caso da rilevare la nullità della previsione sui contratti nazionali qui al vaglio alla luce di quanto si dirà a seguire della disciplina per i contratti aziendali. Notazioni sulla contrattazione aziendale che in ogni caso vanno predicate anche al divieto/sanzione prevista per la contrattazione collettiva nazionale in quanto, a prescindere o meno dall'estensione anche ai lavoratori, è indubitabile che tale divieto/sanzione è comunque previsto sia per le “rappresentanze sindacali” che per le “organizzazioni sindacali” sia nella contrattazione collettiva nazionale che in quella aziendale e su tali temi - pertanto - la trattazione del successivo ed ultimo paragrafo sarà unitaria.
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B.
Ciò chiarito va ora affrontata la disciplina degli accordi aziendali ove invece le sanzioni (e pertanto il divieto) sono espressamente predicate “per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori nonché per le associazioni sindacali espressioni delle confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo, o per le organizzazioni che ad esso abbiano formalmente aderito, e non per i singoli lavoratori.”
Al riguardo vanno quindi distinte
1. le sanzioni “per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori”
2. da quelle per “ le associazioni sindacali”
1.
Con la locuzione “rappresentanze sindacali dei lavoratori” si fa riferimento nel nostro ordinamento legale a pattizio o alle RSA o alle RSU che – come noto e sopra illustrato – sono composte per l'appunto da lavoratori dipendenti della singola azienda nominati o eletti dai propri colleghi per rappresentarli a livello aziendale. Ciò detto non vi pare possa essere dubbio alcuno che anche essi siano “lavoratori” che - al pari di tutti gli altri – siano soggetti sia all'applicazione del contratto che al metus disciplinare condividendo la medesima condizione di debolezza contrattuale dei propri compagni di lavoro e per cui è stato costruito il corpus di tutele costituzionali e legali che formano il diritto del lavoro. E' appena il caso di rilevare come mai nessuna disciplina di tutela della condizione di debolezza del lavoratore (ad esempio l'annullabilità di transazioni e rinunce ex art. 2113 c.c. ecc) sia stata esclusa nei confronti di tale particolare categoria di lavoratori dipendenti che anzi, in ragione proprio della possibile maggiore esposizione che comporta il loro ruolo sindacale, sono stati fatti oggetto dalla Statuto dei Lavoratori di tutela rafforzata (ad esempio con il divieto di trasferimento in carenza di nulla osta da parte dell'organizzazione sindacale di riferimento ex art. 21). E allora la nullità della previsione sanzionatoria nei loro confronti emerge direttamente da quanto sopra detto in ordine alla nullità sempre e comunque di qualsivoglia clausola che vieti lo sciopero. Al riguardo si vuole qui solo provare ad anticipare una possibile eccezione (che gli scriventi hanno già rilevato nelle dichiarazioni di parte della dottrina più propensa ad appoggiare tali previsioni) che in tali casi la norma fa riferimento solo a “sospensione di diritti sindacali di fonte contrattuale e di ogni altra agibilità derivante dalla presente intesa” e quindi non si tratterebbero di vere e proprie “sanzioni” ma solo della decadenza da un beneficio (che, evidentemente, si ritiene concesso non in forza della rielvanza del ruolo e delle passate battaglie ma del nuovo compito dei rappresentati sindacali di tutori della pace aziendale).
Sul punto è agevole dapprima ribattere come
- la previsione della “sospensione di diritti sindacali di fonte contrattuale” è dettata espressamente per il livello nazionale e non per quello aziendale si prevedono “sanzioni”senza alcuna tipizazione/limitazione;
- non vi pertanto è alcuna espressa previsione per cui, oltre che la “sospensione di diritti sindacali di fonte contrattuale e di ogni altra agibilità derivante dalla presente intesa”, ai lavoratori facenti parte della Rsa o delle Rsu non siano irrogabili ulteriori “sanzioni, anche con effetti pecuniari”; ed anzi, pur volendo applicare le norme per i contratti nazionali a quelli aziendali, la scelta di inserire l'avverbio “anche” ci dice come da un lato siano possibili e previste sanzioni ulteriori rispetto a quelle “pecuniarie” e di “sospensione” dei diritti sindacali di fonte contrattuale, e dall'altro che proprio tali differenti sanzioni siano destinate ai lavoratori (sia rappresentanti che non rappresentanti) in quanto nei confronti di “un’associazione sindacale” nessuna altra sanzione è immaginabile se non quelle o “pecuniarie” o di ”sospensione” dei diritti sindacali (e ciò, per altro, a ulteriore riprova che le parti hanno voluto come - nella disciplina del ccnl - le sanzioni fossero rivolte anche ai lavoratori sia rappresentanti che non rappresentanti);
Ma quand'anche si volesse ipotizzare che nei contratti (sia nazionali che aziendali) ai lavoratori facenti parte della Rsa o delle Rsu non siano irrogabili ulteriori sanzioni se non la “sospensione di diritti sindacali di fonte contrattuale e di ogni altra agibilità derivante dalla presente intesa”, la norma sarebbe ugualmente nulla in quanto in aperto contrasto con la norma imperativa dettata dall’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori che dispone come: “è nullo qualsiasi patto od atto diretto a…..licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero”. Ed è davvero impossibile che togliere i diritti di agibilità sindacale ad un lavoratore Rsa o Rsu costringendolo ad utilizzare le propri ore di ferie e permesso per svolgere la propria attività di rappresentante sindacale a causa della sua partecipazione ad uno sciopero (ed anzi in tale caso, punendosi pure le condotte “omissive”, per non essere riuscito egli ad impedirlo) rappresenti quanto meno proprio quel “pregiudizio” che la legge vieta. E, attenzione, tale articolo 15 ovviamente non distingue tra le ragioni degli scioperi o le modalità della sua attuazione (se non quella di tutelare diritti costituzionali di apri rango quale l'integrità degli impianti, o la sicurezza delle persone). Ed anzi la Corte Costituzionale con la sentenza 344/96 si è pronunciata sulla legge regolatrice dello sciopero nei servizi pubblici essenziali in relazione al rinvio da essa effettuata per la determinazione delle prestazioni ritenute indispensabili ai contratti collettivi,
rilevandone la costituzionalità in quanto a rendere cogente l'obbligo “ non sono i contratti collettivi, bensì l'ordinanza emessa dall'autorità indicata dall'art. 8 della legge, sentite le organizzazioni sindacali, allo scopo di garantire le prestazioni indispensabili” e”in nessun caso, dunque, l'obbligo dei singoli lavoratori e' un effetto direttamente collegabile al contratto collettivo”
Insomma la Corte ci ricorda come neppure nell'unico caso uno sciopero sia certamente “illegittimo” (in quanto effettuato in violazione dell'unica fattispecie vietata dalla legge, ovverosia l'interruzione del pubblico servizio in violazione della speciale procedura dettata per tali settori) l'obbligo dei lavoratori di non parteciparvi non potrà mai essere un effetto “ direttamente collegabile al contratto collettivo” e ciò in quanto “nella sua funzione tipica di mezzo di composizione del conflitto di interessi tra datori e prestatori di lavoro, il contratto collettivo e' "impermeabile a qualsiasi controllo di razionalità" a cui quindi non potrà mai venire affidata – in assenza di un successivo vaglio pubblicistico - l'irrogazione di alcuna sanzione, pena l'anticostiuzionalità della norma. E ci ricorda anche come la “riserva di legge” per la limitazione del diritto di sciopero vada sì intesa in senso relativo ma “purchè con condizioni che garantiscano le finalità per le quali la riserva e' stata disposta” .
Insomma sia l'estensione del divieto e delle sanzioni a tutti lavoratori (nel contratto nazionale) che la loro limitazione ai soli lavoratori che ricoprano il ruolo di rappresentante sindacale (nel contratto aziendale) sono irrimediabilmente nulle per contrasto con l'art. 3, 39 e 40 della Costituzione e con l'art. 15 dello Statuto dei Lavoratori.
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2.
Tutto ciò detto, e davvero da ultimo, si può e si deve passare ad affrontare il divieto sanzionato di sciopero dettato per “le organizzazioni sindacali” (per quanto attiene ai contratti nazionali solo quelle “firmatarie” dell'accordo del 10 gennaio 2014 e/o “contraenti” del c.c.n.l. , per quanto attiene ai contratti aziendali anche quelle che abbiano semplicemente “aderito”)
Al fine si deve indagare
la titolarità e le modalità di esercizio del diritto di sciopero
Al riguardo si vuole qui dapprima rilevare l'erroneità delle due tesi estreme ovverosia
- che lo sciopero sia unicamente un diritto del singolo lavoratore20;
- che lo sciopero sia un diritto unicamente dell'organizzazione sindacale 21che lo proclama;
che conducono entrambe – per strade opposte ma convergenti – all'esito della possibile liceità di una clausola che obblighi il sindacato a non proclamare scioperi (la prima tesi in quanto il diritto di sciopero tutelato dall'art. 40, e quindi inderogabile, è solo quello del lavoratore e non del sindacato, la seconda tesi in quanto essendo lo sciopero di titolarità del sindacato esso ha pari rango con la libertà sindacale prevista dall'art. 39 della Carta e quindi ben può essere “libero” oggetto di disposizione).
Ed invero la Giurisprudenza, che si è occupata molto poco della titolarità, ha sempre dato per scontato che quello di sciopero fosse un diritto ANCHE del singolo lavoratore ma non da SOLO affermando “secondo l'orientamento di questa Corte avallato dalla dottrina, il diritto di sciopero, che l'art. 40 Cost. attribuisce direttamente ai lavoratori, non incontra - stante la mancata attuazione della disciplina legislativa prevista da detta norma - limiti diversi da quelli propri della ratio storico-sociale che lo giustifica e dell'intangibilità di altri diritti o interessi costituzionalmente garantiti. Pertanto, sotto il primo profilo, non si ha sciopero se non in presenza di un'astensione dal lavoro decisa ed attuata collettivamente per la tutela di interessi collettivi - anche di natura non salariale ed anche di carattere politico generale, purché incidenti sui rapporti di lavoro - e, sotto il secondo profilo, ne sono vietate le forme di attuazione che assumano modalità delittuose, in quanto lesive, in particolare, dell'incolumità o della libertà delle persone, o di diritti di proprietà o della capacità produttiva delle aziende. (E'), invece, priv(a) di rilievo (…) la mancanza sia di proclamazione formale sia di preavviso al datore di lavoro sia di tentativi di conciliazione sia d'interventi dei sindacati, mentre il fatto che lo sciopero arrechi danno al datore di lavoro, impedendo o riducendo la produzione dell'azienda, è connaturale alla funzione di autotutela coattiva propria dello sciopero stesso”22. E ciò in coerenza con le pronunce della
20 Per una storia della dottrina sulla titolarità individuale del diritto di sciopero fino al 1990 si veda soprattutto GAETA, L., Lo sciopero come diritto, in D'ANTONA, M. (a cura di), Letture di diritto sindacale, Jovene, 1990 e più recentemente XXXXXXXX, A., (a cura di), La titolarità del diritto di sciopero, Xxxxxxx, Bari, 2008.
21 Si veda PERA, G., Il diritto di sciopero, cit., 426 rispetto a quanto affermato in PERA, G., Lo sciopero e la serrata, in RIVA XXXXXXXXXXX, L., XXXXXXX, G., (a cura di), Nuovo trattato di diritto del lavoro, I, Padova, CEDAM, 1971, 547
22 Così Cass., 17 dicembre 2004, n. 23552, XXX, 0000, voce “sciopero”, n. 19 e conf. Cass., 27 luglio 1984, n. 4260,
NGL, 1984, 431 e Cass., 8 agosto 1987, n. 6831, Impresa, 1987, 3133.
Corte Costituzionale che hanno definito lo sciopero come “un’astensione dal lavoro di una pluralità di lavoratori a difesa di interessi che siano ad essi comuni”23.
Quello che pragmaticamente la giurisprudenza ha compreso – superando la macerazione della dottrina – è che partendo dalla nota definizione del 1956 secondo cui “il diritto di sciopero è un diritto a titolarità individuale ma ad esercizio collettivo”24, e passando per la “plurioffensività” della condotta datoriale di repressione dello sciopero prevedendo lo Statuto dei lavoratori all'art. 15 una sanzione individuale (con la nullità degli atti del datore) e all'art.28 una sanzione collettiva (ovverosia la rimozione degli effetti delle condotte “antisindacali”), non può che giungersi alla nozione di doppia titolarità. Ma non “doppia” nel senso di attribuita sia al lavoratore che al sindacato ma nel senso di attribuita al lavoratore sia individualmente che quale proiezione del suo diritto ad organizzarsi collettivamente, e ciò non solo tramite forme organizzative transitorie ed informali (eccezione) ma tramite i propri sindacati di categoria (regola) per la tutela dei propri diritti a partire proprio dallo strumento principe dello sciopero. Ed infatti – ancorché privo di necessarie formalità – il momento collettivo della decisione (per quanto spontanea e transitoria sia l'organizzazione dei lavoratori che lo proclama) non può non assurgere funzione tipica sindacale.25 E a tale conclusione spinge la stessa Costituzione che se da un lato non inserisce lo sciopero all'art. 39 tra i diritti dei sindacati, dall'altro all'art. 40 non introduce nessun soggetto titolato al loro posto. E ciò a riprova nuovamente di come esso sia un diritto che concerne le prerogative dei sindacati ma non è dei sindacati, specularmene a quanto abbiamo sopra detto in ordine alle pronunce della Giurisprudenza per cui esso è un diritto anche del lavoratore ma non del solo lavoratore coinvolgendo un necessario e previo momento collettivo. Ed infatti i lavoratori, senza il momento collettivo sindacale della decisione e proclamazione, non possono realizzare la fattispecie tipica dello sciopero che richiede esattamente quel previo (ancorchè informale) negozio autorizzativo. I sindacati invece certamente possono – essendo l'ente esponenziale proprio di quella collettività - decidere e proclamare scioperi ma ugualmente la fattispecie non si realizza senza l'autonoma ed inculcabile scelta dei singoli lavoratori di aderirivi o meno.
Insomma
23 Corte Cost. sent. 1 del 14 gennaio 1974.
24 SIMI, V., Il diritto di sciopero, Milano, Xxxxxxx, 1956, 125.
25 In questo senso CARINCI, F., Il diritto di sciopero: la nouvelle vague all’assalto della titolarità individuale, DLRI, 2009., 464.
- l'art. 39 Cost., è certamente anche il riconoscimento del diritto dei lavoratori di svolgere attività sindacale individualmente e/o collettivamente, tutelando l'interesse collettivo tramite l'esercizio del diritto di sciopero, ovvero tramite la negoziazione collettiva.
- l'art. 40 Cost., invece, senza dubbio, intende tutelare il lavoratore che si astiene dalla prestazione, consapevole di farlo per uno scopo comune ad altri lavoratori.
Le dimensioni individuale e collettiva, ancorché riferibili a due disposizioni costituzionali diverse, rimangono connesse nella struttura e nei fini, perché trovano unità nel c.d. potere di autotutela collettiva, il cui fondamento poggia, infatti, in ambedue le disposizioni costituzionali e il fine sta nella soddisfazione effettiva degli interessi in gioco26.
Va affermato quindi come non sia possibile colpire il diritto del sindacato di sciopero senza al contempo colpire quello dei lavoratori, e viceversa, essendo essi inscindibili ed entrambi tutelati da norme di rango costituzionale. E quindi l’accordo qui impugnato è nullo – per i motivi sin qui illustrati – anche nella parte in cui prevede sanzioni per le sole associazioni sindacali.
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Insomma il contenuto che si ottiene dal combinato disposto tra la Parte Quarta e l'arbitrato previsto delle Clausole Transitorie e Finali è nullo per contrasto con gli art. 2,3, 21, 24, 39, 40 e 111 della Carta Costituzionale nonché 1 e 15 della Legge 300/70 e della disciplina codicistica sull'arbitrato nella misura applicabile tramite il comma 5 dell'art. 808 ter cpc.
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CONSIDERAZIONI FINALI
Il ripensamento di CGIL-CISL e UIL sulle c.d. “clausole di tregua” e la “rottamazione” dei principi fondamentali dell’ordinamento e della pluridecennale prassi sindacale
Il tema dei limiti al diritto di sciopero o, più precisamente, del divieto di esercitarlo per tutto il periodo di vigenza delle c.d. clausole di tregua che coincide con la durata triennale o quadriennale dei CCNL (o atempo idneterminato coema ccade solitamente per i contratti aziendali), non è nuovo. Nel1962 infatti il Protocollo stipulato tra Intersind, Asap e Sindacati dei metalmeccanici introduceva una clausola tesa a “non promuovere azioni o
26 Si veda tra i molti XXXXXXXXX, F., Lavoratore subordinato e autotutela collettiva, Milano, Xxxxxxx, 1993, spec. 205 e 225 e più recentemente CORAZZA, L., Il nuovo conflitto collettivo, Milano, Xxxxxx Xxxxxx, 2012.., 110 che fa rinvio al primo.
rivendicazioni intese a modificare,integrare, innovare, quanto ha già formato oggetto di accordi ai vari livelli”. E tale clausola per tutti gli anni 60 è stato oggetto di un ampio dibattito tra i giuristi e di una aspra contrapposizione tra CGIL-CISL e UIL da una parte e CONFINDUSTRIA dall'altra, anche in sede giudiziaria. E l'esito di tale scontro è ben riportato nel volume “Potere Sindacale e Ordinamento Giuridico: diritto di sciopero, consigli di fabbrica, forme della contrattazione” (De Donato editore 1973) che ha pubblicato gli atti di un Convegno di studi di Diritto sindacale promosso nel luglio 1972 dalla Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FIOM-CISL, FIOM-CGIL e UILM-UIL) dedicato a tale specifica questione.
Ed infatti, pur non essendo detta clausola mai realmente attivata dalla controparte nella vigenza di detto accordo, dato che esso era stato richiamato nelle premesse del nuovo c.c.n.l., alcune aziende affiliate al sindacato datoriale firmatario pretendevano di far rivivere dette clausole anche con azioni giudiziarie pilota con ingentissime richieste di risarcimento del danno.
La risposta di Cgil, Cisl e Uil e dei costituzionalisti e giuristi del lavoro da esse chiamati a confrontarsi sul tema fu davvero definitiva (tanto che poi mai più nessuno provò a sostenere le vigenza di tale clausola). Un giurista di riferimento della CISL il Xxxx. Xxxxxxx XXXX nella sua Relazione “Strutture sindacali aziendali il problema del riconoscimento” ha negato in modo netto che le regole della rappresentanza sindacale e del conflitto potessero essere definite con la controparte datoriale.
Il xxxx. Xxxx XXXXXX e X. XXXXXXX nella Relazione “Movimento sindacale e contrattazione collettiva” al punto 6 (pag. 10) hanno affrontato anche il problema della sussistenza/validità/vincolatività delle clausole di tregua. Gli stessi, dopo aver evidenziato come il mero richiamo nella premessa dell'accordo del 1962 non era idoneo a far rivivere detta clausola hanno aggiunto “……La tregua, insomma, non esiste più. Ma esiste la richiesta di farla rivivere; e, oltre alle questioni esaminate fin qui, tale richiesta pone un problema di politica contrattuale rispetto al quale il contributo del giurista rischia di apparire secondario. In realtà, esso lo è fino a un certo punto. Certo, al giurista non compete istruire il sindacato sugli orientamenti contrattuali. Ma l’analisi dei dati della struttura giuridico-contrattuale può fornire elementi utili, da un lato, per chiarire gli inconvenienti di determinate soluzioni, dall’altro, per identificare i termini veri del problema. Abbiamo visto come dal contratto collettivo non discenda alcun obbligo di pace.
Ciò esclude che il contratto sia concluso al fine di prevenire i conflitti futuri. A qualcuno questa osservazione è sembrata paradossale. Ma si consultino i testi più diffusi, vecchi e nuovi, di diritto sindacale. La causa del contratto – vi si afferma per solito – sta nel comporre un conflitto; e nessuno o quasi nessuno, aggiunge: nell’impedirne l’insorgenza. Tutti avvertono, cioè, più o meno oscuramente, che, nella sua forma tipica, elementare il contratto dispiega la propria funzione quando chiude la controversia in atto”.
Ma a porre parole davvero ultimative sulla nullità di tale clausole è stato Il xxxx. Xxx XXXXXX, nella Relazione “Sullo sciopero per fini contrattuali” 27 con specifico riferimento alle clausole di tregua che così afferma “Non è raro sentir dire che quel che potrebbe essere fatto con legge, potrebbe esserlo anche con un accordo negoziale; che, anzi, in via convenzionale sarebbe possibile attuare anche ciò che neanche una legge potrebbe validamente introdurre, non starò in questa sede a contestare il fondamento di una simile affermazione, che evidentemente ha alla sua base una concezione della autonomia sindacale (o collettiva) assai elastica e libera da qualsiasi vincolo. Non differente, del resto, da quella che, da un certo tempo a questa parte, per fini facilmente comprensibili, si va predicando un ordine alla autonomia negoziale dei privati, dimenticando per l’occasione ogni riferimento al diritto privato comune, cioè al Codice civile, che contiene in proposito una norma (l’art. 1322) non troppo all’unisono con una simile concezione.
Senza riaprire la discussione su questo delicato argomento, mi limiterò ad osservare che qualunque sia l’ampiezza che si voglia attribuire all’autonomia collettiva, non si potrà fondatamente affermare che essa comporti la possibilità di disporre validamente dei diritti fondamentali che la legge riconosce ai lavoratori. Non vi può essere dubbio, a mio avviso, che se per assurdo un contratto collettivo fissasse il livello delle retribuzioni al di sotto del minimo richiesto dalla necessità di soddisfacimento delle esigenze indicate nell’art. 36 della Costituzione, le relative clausole non potrebbero essere considerate valide e impegnative per i lavoratori, anche se iscritti ai sindacati stipulanti; e lo stesso vale anche per quelle clausole che, in contrasto con il principio di parità di trattamento fissato nell’art. 37, prevedessero, a parità di mansione, un diverso trattamento retributivo, in considerazione del sesso e dell’età dei lavoratori.
Allo stesso modo, io penso, non potrebbe avere alcun valore per i lavoratori, anche iscritti ai sindacati stipulanti, una clausola con la quale questi rinunziassero, sia pure
27 X. Xxxxxx, in “Potere Sindacale e Ordinamento Giuridico”, AAVV, De Donato, 1973, 117
temporaneamente, a valersi del diritto di sciopero. Si tratta, come è noto, delle clausole cosiddette di pace sindacale...... Basta pensare alla natura del diritto di sciopero, che, anche se si voglia definire collettivo, in considerazione del fatto che tale è quella manifestazione che, appunto, si denomina sciopero, non spetta perciò meno al singolo lavoratore – e al particolare carattere che ad esso attribuisce la garanzia costituzionale, per dover concludere per la assoluta indisponibilità e per la conseguente inidoneità di qualsiasi atto di disposizione del diritto stesso ad «impegnare» i lavoratori interessati, di fronte ai quali un simile atto non può che apparire tanquam non esset. Il che porta anche ad escludere che i singoli lavoratori possano essere considerati – come è stato invece affermato in un recentissimo convegno romano dedicato a questo argomento - responsabili disciplinarmente o anche per i danni nei confronti delle associazioni stipulanti, alle quali abbiano aderito, ove tengano un contenuto difforme da quello prescritto in esecuzione del patto di tregua. Ammessa la non impegnatività di questo per i singoli lavoratori, nulla potrebbe, infatti giustificare la conclusione accennata. Se questo è vero – e, a mio parere non può ciò negarsi se non negando, del tutto arbitrariamente, la premessa - l’unico problema che può prospettarsi è quello relativo al se le clausole suddette impegnino, e in che senso, l’associazione sindacale che le abbia stipulate. Si potrebbe rispondere subito – con ugual fondamento – che la indisponibilità dell’oggetto comporta la nullità e, quindi, la non «impegnatività» delle «clausole di pace» anche per le associazioni stipulanti. Sul qual punto, del resto, a parte recenti dissensi, la prassi sindacale sembra aver mostrato, almeno per un certo tempo, una pressoché comunanza di convinzioni, mettendo in evidenza il carattere di mero stile della relativa previsione.
E’, tuttavia, noto che si tende a sfuggire a questa conclusione spostando la questione con l’affermare che l’atto non comporta rinuncia al diritto di sciopero, ma ha efficacia meramente obbligatorio. Esso, infatti, lascerebbe intatto il diritto di sciopero ed obbligherebbe soltanto le associazioni stipulanti ad astenersi dal proclamarlo e, in più, ad adoperarsi perché i lavoratori non partecipino ad eventuali scioperi proclamati aliunde. Che in questo modo si raggiunga lo stesso risultato pratico che potrebbe ottenersi con una rinuncia, non sfugge a nessuno, a maggior ragione poi quando, dai più, si pretende di considerare illegittimo lo sciopero che, ciò nonostante, sia stato proclamato ed attuato, scaricandone le conseguenze sui singoli lavoratori nei modi che tutti conoscono, con un
trasferimento arbitrario della controversia dal piano collettivo a quello dei rapporti individuali di lavoro.
Non è ovviamente possibile, in questa sede, un riesame analitico delle varie argomentazioni che si vanno escogitando sul piano tecnico per affermare la validità delle varie specie di clausole di tregua o di pace e la conseguente legittimità di risultati capaci di bloccare l’attività sindacale e di togliere ad essa ogni efficacia ai vari livelli, tra l’altro con la incombente minaccia di azioni di responsabilità contro le associazioni, i loro dirigenti e gli stessi singoli lavoratori. Vorrei osservare come particolarmente illusoria appaia, a mio avviso, la giustificazione che di quella validità si è creduto di poter dare, affermando che le clausole in questione adempiono ad una tipica funzione di scambio, e debbono essere per ciò stesso considerate positivamente in quanto «impegnano l’altra parte ad una diversa prestazione», quale deriverebbe, appunto, dall’obbligo di promuovere la contrattazione collettiva a «livelli inferiori». Xxxxxxx un intervento dell’«altra parte» in questo senso non potrebbe che ritenersi espressione naturale della funzione che essa esplica come associazione professionale, per sua natura interessata a mantenere un clima di tregua, e non avrebbe senso come oggetto di un preteso obbligo, per di più di contenuto assai evanescente e indeterminato e che, a ben guardare, non la impegnerebbe a niente di particolare, pur avendo la virtù di neutralizzare l’unica arma a disposizione della controparte per aggiungere, non che la prima scenda dal suo piedistallo di supremazia e si degni di intavolare trattative, da far durare possibilmente per intere stagioni procrastinando al massimo l’introduzione di tale regolamento, Il che, sta, tra l’altro, a mettere in evidenza come sia assurdo pretendere, già in linea di principi, che basti l’inizio di trattative per far sospendere o comunque cessare lo sciopero. Quasicchè lo sciopero per fini contrattuali avesse per scopo la semplice trattativa e non il contratto; fosse destinato, cioè, soltanto a sfiorare la incerta soglia che dovrebbe aprire il passaggio ad un quid, la cui realizzazione poi dipenda dalla mera «buona disposizione dell’altra parte». A ben guardare, allora, si finisce con lo scoprire un ulteriore aspetto della sostanziale irrilevanza delle «clausole di pace», che si rivelano – nonostante tutti gli sforzi per giustificarle – come irrimediabilmente prive di causa”.
H H H H
Ebbene gli attori tutti della presente controversia continuano a condividere la posizione tenuta allora dai sindacati di categoria affiliati a Cgil, Cisl e Uil e lo fanno sostenuti da due argomenti:
1.
Il primo è che la generazione di giuristi allora raccolti attorno ai sindacati confederali sono stati anche i “padri” della stagione più alta del riformismo in Italia, e le loro riflessioni sono divenute non solo principi dottrinali consolidati ma legge (in particolare con lo Statuto dei lavoratori che tanto deve proprio alla penna dei citati Xxxxxxx e Xxxxxx). E proprio la legge 300/70 ha definitivamente vietato ogni futura clausola di divieto di sciopero sanzionando con la nullità qualunque “……patto od atto diretto a licenziare un lavoratore, discriminarlo …… o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua …… partecipazione ad uno sciopero……” (art. 15 l. 300/70). Ci si trova insomma di fronte ad una radicale “abiura” di CGIL - CISL e UIL dei propri principi e prassi applicative pluridecennali.
2.
Ma la posizione di chi scrive è sorretta anche dalla lettura disposta dello schema disegnato dalla Carta Costituzionale con l'attuale situazione economica e sociale del paese. Ed infatti appare agli scriventi del tutto attuale il disegno della nostra Costituzione, e di quella parte comune ai costituzionalismi europei, basato sul riconoscimento del potere di "autorganizzazione" sociale con la legittimazione effettivamente democratica dei principali protagonisti (i sindacati), con l'arma di pressione fondamentale (lo sciopero), e con l'introduzione infine di un organo supremo di controllo (la Corte costituzionale), garante sia del fatto che la competizione si mantenga corretta, sia del fatto che, nello svolgimento in concreto della dialettica sociale, si abbia comunque un'attuazione e precisazione del contenuto dei nuovi "diritti" e non la loro cancellazione. Questo è il quadro costituzionale oggi come nel 1970, e va allora brevemente indagato se a Costituzione invariata sia la situazione economica e sociale del paese ad imporre richiedere - nel confronto con tale periodo – una riforma della Costituzione materiale. Ebbene, mentre negli anni '60 le c.d. clausole di tregua rappresentavano manifestazioni di mero auspicio di pace sociale, clausole programmatiche, oggi esse diventano non solo pattuizioni obbligatorie per tutte le categorie affiliate alle confederazioni, convenute ma è addirittura previsto per la loro inottemperanza e violazione “sanzioni anche pecuniarie” per i dirigenti sindacali ed i lavoratori (anche ma non solo RSA o RSU)!
Tale sorprendente e radicale mutamento appare inspiegabile.
Cosa è avvenuto, oggi, rispetto agli anni ‘60-'70, nel mondo del lavoro per giustificare un cambiamento, così gravido di conseguenze sul piano sociale?
Eppure in quegli anni in cui non si tolleravano limitazioni al conflitto (oggi addirittura vietato con sanzioni) la contrattazione collettiva era generalmente acquisitiva di nuovi diritti e tutele (si veda, fra tutta la c.d. “legislazione di sostegno”, la l. 300/70 – Statuto dei Lavoratori) ed il valore reale delle retribuzioni era costantemente accresciuto.
Oggi nemmeno il potere di acquisto delle retribuzioni è conservato tant'è che milioni di lavoratori hanno redditi prossimi alla soglia di povertà pur…… lavorando!
Tale drammatica condizione del mondo del lavoro è costantemente denunciata proprio dalle Confederazioni convenute, che riportano statistiche impietose quasi che i datori di lavoro non applicassero i contratti collettivi stipulati con le medesime!
E quanto ai diritti ed alle tutele il confronto con gli anni '70 è semplicemente insostenibile: ai milioni di lavoratori a tempo indeterminato oggi sulla soglia di povertà si affiancano circa 4 milioni di precari la cui condizione è ancora più penosa: ad un presente di lavoro servile e malpagato si prefigura anche un futuro senza previdenza (il livello delle loro pensioni, se rivelato nel concreto, porrebbe rischi di “rivolta sociale”, come ha ammonito l'ex Presidente dell'INPS Mastrapasqua).
Per non parlare del livello scandaloso della disoccupazione giovanile (circa il 40%) a dispetto del costante abbattimento dei diritti e tutele normative realizzate proprio per consentire ed aumentare l'occupazione giovanile! (legge “Biagi”, “collegato lavoro” Xxxxxxx, riforma “Fornero” e da ultimo l'annunciato decreto dell'attuale ministro Xxxxxxx su contratti a termine ed apprendistato).
Insomma: oggi, rispetto agli anni '70, c'è bisogno di mobilitazione e di conflitto sociale e non del suo contrario!
Il Testo Unico, nella parte qui impugnata, sembra porsi nella prospettiva seguente: i lavoratori sono ridotti in una drammatica condizione di bisogno, precarietà, privazione di diritti; bisogna evitare il conflitto per …… mantenerceli!
H H H H
L'aspetto meno accettabile delle clausole di tregua e della intera parte quarta del Testo Unico (“procedure di raffreddamento e clausole sulle conseguenze dell’inadempimento”) è che esse sono configurate come un vero e proprio “disarmo unilaterale”: non c'è nessun
scambio – a parte il mero rinnovo del CCNL – idoneo a fornire una qualche giustificazione/legittimazione di esse.
Infatti, normalmente, la c.d. “moderazione rivenditicativa salariale”, ovvero la diffusa accettazione sindacale della c.d. “flessibilità”, (che ha prodotto – come già rilevato – crollo del potere di acquisto delle retribuzioni ed una spaventosa precarietà) è giustificata dal mantenimento e incremento della occupazione, soprattutto giovanile (il ritornello che accompagna tutte le normative di abbattimento delle tutele – innanzi richiamate – “è per i giovani” ovvero “tagliamo ai genitori per dare ai figli”).
Senonchè, sorprendentemente, le “clausole di tregua” non sono previste come corrispettivo del divieto datoriale di procedere ai licenziamenti collettivi per riduzione di personale, oppure di non effettuare “delocalizzazioni” ; nemmeno sono predisposte a fronte del mantenimento del potere di acquisto delle retribuzioni pattuite: è noto infatti che i datori di lavoro privati e pubblici, come proprietari e detentori dei beni e dei servizi che “vendono “ alla collettività che comprende soprattutto i loro dipendenti, possono determinare a loro piacimento il “prezzo”; e ciò senza che sia prevista alcuna forma di indicizzazione delle retribuzioni idoneo a salvaguardare il potere di acquisto.
Dunque, clausole di tregua, divieto di sciopero per molti anni, senza alcun scambio e/o contropartita: per l'appunto un “disarmo” unilaterale dei lavoratori.
Che ciò rappresenti il “bene del Paese”, la condizione dello sviluppo economico è smentito oramai da tutti gli economisti.
A partire dai premi Nobel (Xxxxxxx – Xxxxxxxx) tutti riconoscono che è la diminuzione costante del potere di acquisto delle retribuzioni che ha causato il crollo della domanda e innestato la recessione e la crisi economica e occupazionale dell'Italia.
Dunque “moderazione salariale” e precarietà sono causa della crisi economica e non la sua soluzione; il divieto di conflitto, sanzionato anche economicamente, a prescindere dalla sua nullità/illegittimità, rappresenta la condanna ad una duratura recessione: queste sono le ragioni anche sostanziali della presente azione giudiziaria.
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Ai sensi dell'art. 702 bis I comma c.p.c. si avvertono i convenuti che la costituzione oltre il termine previsto dal decreto di fissazione della udienza di comparizione delle parti implica le decadenze di cui agli art. 38 e 167 c.p.c.
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Tutto ciò premesso si
RICORRE
all'xxxxx Xxxxxxx affinché – convocate le parti ai sensi dell'art. 702 bis c.p.c. con espresso avvertimento – voglia accogliere le seguenti
CONCLUSIONI
1. accertare e dichiarare la nullità della clausola di cui al comma 2° della parte terza dell'accordo del 10 gennaio 2014 laddove limita la titolarità alla contrattazione nazionale alle sole organizzazioni sindacali “firmatarie”; e - se ritenuta non assorbita e novata - anche della clausola dell'accordo del 31 maggio 2013 laddove, alla pag. 1 comma 7, si afferma che “ai fini della misurazione del voto espresso da lavoratrici e lavoratori nella elezione della Rappresentanza Sindacale Unitaria varranno esclusivamente i voti assoluti espressi per ogni Organizzazione Sindacale aderente alle Confederazioni firmatarie della presente intesa”;
2. accertare e dichiarare la nullità della clausola di cui al 5° comma della parte terza dell'accordo del 10 gennaio 2014 che definisce la griglia selettiva “ai fini del riconoscimento dei diritti sindacali previsti dalla legge, ai sensi dell’art. 19 e ss della legge 20 maggio 1970 n.300”
3. accertare e dichiarare la nullità dell'intera parte quarta dell'accordo del 10 gennaio 2014; e- se ritenute non assorbite e novate – anche
• delle clausole dell'accordo del 31 maggio 2013 previste al terz'ultimo comma laddove si afferma “le Parti firmatarie e le rispettive Federazioni si impegnano a dare piena applicazione e a non promuovere iniziative di contrasto agli accordi così definiti” e dal successivo comma laddove si afferma che “i contratti collettivi nazionali di categoria, approvati alle condizioni di cui sopra, dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti e le conseguenze di eventuali inadempimenti sulla base dei principi stabiliti con la presente intesa”
• della clausola contenuta nell'accordo del 28 giugno 2011 punto 6 pag. 2 che prevede come “i contratti collettivi aziendali, approvati alla condizioni di cui sopra, che definiscono clausole di tregua sindacale e sanzionatorie, finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva, hanno effetto vincolante esclusivamente per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori
nonché per le associazioni sindacali espressioni delle confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo, e non per i singoli lavoratori.”
4. accertare dichiarare la nullità delle clausole transitorie e finali dell'accordo del 10 gennaio 2014 nella parte in cui viene prevista la clausola compromissoria per devolvere ad arbitrato ogni contenzioso connesso ad “eventuali comportamenti non conformi agli accordi”
In alternativa
5. accertare e dichiarare la nullità integrale dell'accordo del 10 gennaio 2014 e - se ritenuti non assorbiti e novati – la nullità integrale degli accordi del 18 giugno 2011 e 31 maggio 2013 o delle parti di essi sopra indicate ai punti 1 e 3 delle conclusioni;
Con vittoria di spese, competenze ed onorari di lite. IN VIA ISTRUTTORIA
Si allegano:
…...........................................
(…............seguono allegati )
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…...........................
Roma 19 marzo 2014
avv. ti Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx
Xxxxxxxx Xxxxx Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxx