INDICE.
INDICE.
Introduzione. (IV)
Capitolo I Inquadramento e categoria legali. (p.1)
1.1 Mansioni come oggetto del contratto di lavoro. (p.1)
1.2 Le mansioni di assunzione. (p.2)
1.3 L’inquadramento del lavoratore e i suoi limiti formali. (p.3)
1.3.1 Criteri di inquadramento utilizzati dalla contrattazione collettiva. (p.6)
1.3.2 Clausole di riconoscimento formale. (p.9)
1.4 Le categorie legali dei lavoratori. (p.13)
1.4.1 Operai e impiegati: due categorie a confronto. (p.15)
1.4.1.1 Operai. (p.20)
1.4.1.2 Impiegati. (p.22)
1.4.2 Quadri. (p.24)
1.4.3 Dirigenti. (p.26)
Capitolo II La modifica delle mansioni. (p.33)
2.1 Le modifiche della disciplina dello jus variandi del datore di lavoro. (p.33)
2.2 Analisi della stesura originaria dell’art. 2103 c.c. (p.36)
2.3 Considerazioni generali sull’art. 13 dello Statuto dei lavoratori.
(p.37)
2.4 L’equivalenza delle mansioni. (p.39)
2.4.1 I criteri di equivalenza professionale utilizzati nell’art. 13 Stat. Lav. (p.39)
2.4.2 La nuova concezione di equivalenza. (p.43)
2.5 Adibizione unilaterale a mansioni inferiori. (p.50)
2.5.1 La modifica dell’oggetto della prestazione lavorativa. (p.50)
2.5.2 L’adibizione a mansioni inferiori prima della riforma del 2015. (p.51)
2.5.3 L’adibizione a mansioni inferiori nel caso di modifica degli assetti aziendali che incidano sulla posizione del lavoratore. (p.54)
2.5.4 Le ipotesi di demansionamento presenti all’interno della contrattazione collettiva. (p.60)
2.5.5 Le motivazioni che possono aver spinto il legislatore a riformare la disciplina. (p.63)
2.6 I patti contrari. (p.65)
2.6.1 la nullità dei patti contrari ex art. 13 Stat. Lav. (p.66)
2.6.2. La nuova disciplina dei patti di demansionamento. (p.67)
2.7 L’adibizione a mansioni superiori. (p.72)
2.7.1 L’adibizione a mansioni superiori ex art.13 Stat. Lav. (p.73)
2.7.1.1 I criteri per il computo del periodo utile ai fini della promozione automatica. (p.79)
2.7.1.2 La sostituzione del lavoratore avente diritto alla conservazione del posto. (p.82)
2.7.2 La nuova disciplina dell’adibizione a mansioni superiori. (p.83)
2.8 L’obbligo di formazione. (p.86)
2.9 Mansioni promiscue. (p.92)
2.10 La disciplina delle mansioni nella legge delega 10 dicembre 2014 n. 183. (p.95)
2.10.1 I dubbi in merito alla legittimità costituzionale del nuovo art. 2103 c.c. (p.97)
2.11 Ulteriori ipotesi di assegnazione a mansioni “differenti”.
(p.102)
2.11.1 La disciplina del pubblico impiego. (p.106)
Capitolo III Gli ulteriori utilizzi dell’art. 2103 c.c. nella giurisprudenza. (p.110)
Considerazioni preliminari. (p.110)
3.1. Il diritto all’inquadramento e alla qualifica. (p.111)
3.2 Il demansionamento e la sua possibile configurazione come mobbing. (p.114)
3.2.1 Il mobbing. (p.115)
3.3 Il danno da demansionamento. (p.119)
3.3.1 La sottrazione delle mansioni. (p.119)
3.3.2 La configurazione del demansionamento di dottrina e giurisprudenza. (p.122)
3.3.3 Il danno da demansionamento. (p.124)
3.3.3.1 La liquidazione del danno. (p.131)
3.3.3.2 L’onere della prova. (p.132)
3.4 Il repêchage. (p.136)
3.5 L’irriducibilità della retribuzione. (p.139)
Conclusioni. (p.143)
Bibliografia. (p.147)
INTRODUZIONE.
La regolamentazione della prestazione lavorativa è stata sempre al centro dell’analisi della dottrina e della giurisprudenza e costituisce senza dubbio uno degli argomenti più importanti in assoluto nell’ambito del diritto del lavoro.
Nel corso del tempo, la disciplina in materia ha subito notevoli cambiamenti, passando da un regime particolarmente liberale (1942) ad uno parecchio restrittivo (1970), per arrivare oggi ad un regime che si potrebbe definire intermedio.
La presente trattazione si propone di analizzare le modifiche sulla disciplina delle mansioni intervenute con il Jobs act, attraverso tre capitoli incentrati rispettivamente su:
1. categorie legali e livelli di inquadramento,
2. possibilità e limiti del mutamento di mansioni,
3. gli ulteriori utilizzi fatti dalla giurisprudenza dell’art. 2103 c.c.
In particolare, nel primo capitolo saranno analizzati gli strumenti di inquadramento, con particolare riferimento alle categorie legali e alle modalità di suddivisione dei lavoratori all’interno delle singole categorie.
Si vedrà quale importante ruolo abbia svolto nel tempo la contrattazione collettiva, che ha spesso ed ampiamente derogato alla previsione dell’art. 2095 del codice civile, in alcuni casi con la creazione di nuove categorie (si pensi all’introduzione della categoria dei quadri, inserita nell’elencazione dell’art. 2095 soltanto con la l. 190/1985) ed in altri casi, invece, con l’eliminazione delle stesse (si pensi all’inquadramento unico, adottato negli anni settanta in svariate realtà produttive); fino ad arrivare alla recente
riforma, che invece sembra rivitalizzare la necessità di definire efficientemente tali categorie legali1.
Nel primo capitolo saranno poi compiutamente analizzati i cosiddetti “livelli di inquadramento”, che costituiscono articolazioni interne alle categorie legali, ponendo l’attenzione sulle motivazioni che possono indurre il datore di lavoro a inquadrare il lavoratore in un livello anziché in un altro, e sulla necessità che la valutazione sia svolta attraverso parametri oggettivi (nonostante l’assenza – nel nostro ordinamento - del principio di parità di trattamento).
Nel secondo capitolo si analizzeranno, nel dettaglio, le possibilità e i limiti del mutamento di mansioni, con particolare attenzione alle modalità con cui la giurisprudenza ha interpretato il concetto di equivalenza professionale; si vedrà, infatti, che i criteri interpretativi si siano modificati ed evoluti nel tempo, tanto che oggi si parla di equivalenza sostanziale piuttosto che di mera equivalenza 2, la quale è basata su criteri risolutamente oggettivi (o quantomeno conoscibili a priori), finendo per coincidere spesso con i livelli d’inquadramento professionale.
In questo capitolo, inoltre, si analizzerà l’evoluzione legislativa in merito alla possibilità di adibire il lavoratore a mansioni che la contrattazione collettiva colloca ad un livello inferiore: da divieto pressoché assoluto, a possibilità (seppur strettamente controllata) per il datore di lavoro.
Si illustreranno, inoltre, poteri derogatori concessi alla contrattazione collettiva (comma IV) e alla contrattazione individuale.
Si darà conto, inoltre, delle incertezze formulate in dottrina riguardo la legittimità costituzionale della norma contenuta nel decreto attuativo (atteso che riforma è stata adottata mediante legge delega) e dell’attesa di un intervento giurisprudenziale che possa dirimere la controversia.
1La nuova norma, infatti, consente al datore di lavoro di demansionare il lavoratore, a talune condizioni, solamente nel limite della categoria legale.
2Secondo alcuni vi è stata addirittura la soppressione del concetto di equivalenza, vista la necessità di ritrovare nelle mansioni di destinazione solo una “riconducibilità”.
L’ultimo capitolo è dedicato agli effetti che gli interventi giurisprudenziali hanno prodotto in materia, in particolare per quel che riguarda la valutazione dei danni scaturenti dal demansionamento. A tal proposito si vedrà come la magistratura abbia interpretato la “vecchia” norma nell’ambito dello Statuto dei Lavoratori, configurando la dequalificazione del lavoratore all’interno di fattispecie più complesse quali quella del mobbing, aprendo di fatto alla possibilità di qualificare il danno da demansionamento come danno non patrimoniale3.
Infine si esamineranno due istituti di derivazione giurisprudenziale, recepiti dal legislatore: il repêchage e l’irriducibilità della retribuzione; il primo recepito quale mera possibilità, in quanto fornisce al datore di lavoro la possibilità di realizzare i medesimi effetti dell’istituto4; il secondo recepito con l’inserimento all’interno della nuova norma dei medesimi criteri interpretativi utilizzati dalla giurisprudenza di legittimità.
3In tal caso al datore di lavoro potranno essere richiesti i danni patrimoniali sia non patrimoniali.
4Tuttavia tale istituto non deve intendersi come abrogato.
Capitolo I Inquadramento e Categorie legali
1.1 Mansioni come oggetto del contratto di lavoro.
Tra gli elementi fondamentali del contratto uno dei più importanti è senza dubbio l’oggetto.
L’oggetto dell’obbligazione contrattuale scaturente dal contratto di lavoro è rappresentato, per quanto riguarda il dipendente, dalla prestazione lavorativa, normalmente definita dal termine “mansione”; è, infatti, necessario che per soddisfare il requisito fondamentale della determinazione o determinabilità dell’oggetto (art.1346 cc) a pena di nullità (art.1418 cc) si faccia riferimento all’interno del contratto di lavoro alle mansioni tecniche che identificano i vari compiti del lavoratore5.
Con tale termine quindi si fa riferimento al tipo di attività che il lavoratore deve svolgere e che il datore di lavoro può esigere.
Sempre al fine di individuare l’oggetto del contratto di lavoro, autorevole dottrina6 definisce la mansione come «unità elementare di un facere» la quale combinata in modo tendenzialmente stabile con altre singole operazioni, dà vita ad un insieme tipico e perciò unitario di compiti che vengono così a formare un determinato tipo di prestazione lavorativa.
Considerata anche la libertà di forma accordata dal legislatore al contratto di lavoro, l’oggetto dell’obbligazione può anche emergere da fatti concludenti, in quanto l’obbligo di informativa scritta sancito dal decreto
5Pessi R., Lezioni di diritto del lavoro, Torino, 2012, p. 269
6Giugni G., Xxxxxxxx e qualifica, in Enc. Dir., XXV, Milano, 1975, p.545
categorie e livelli d’inquadramento
legislativo 152/1997, costituisce solamente un onere a carico del datore di lavoro, e non invece un requisito per la valida formazione del contratto7.
Può quindi desumersi che la mansione rappresenti il sinallagma che lega il lavoratore al datore di lavoro; da parte del lavoratore appunto come obbligazione di facere mentre da parte del datore di lavoro l’obbligazione principale è senz’altro il trattamento retributivo.
Per quanto riguarda la principale obbligazione del datore di lavoro, questa è senza ombra di dubbio la retribuzione e, in tale ambito, la norma più importante è rappresentata dall’art. 36 Cost. nella quale si fa riferimento, oltre al fatto che essa «deve garantire al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa», alla proporzionalità quantitativa e qualitativa della prestazione con la remunerazione.
Tale retribuzione, almeno per quanto riguarda la sua componente principale8 risulta essere irriducibile9.
1.2 Le mansioni di assunzione.
Come detto sopra, costituisce elemento fondamentale del contratto di lavoro la determinabilità delle mansioni da svolgere da parte del lavoratore. È obbligo del datore di lavoro far conoscere, con precisione, al momento dell’assunzione, quali siano le mansioni alle quali il lavoratore sia
stato adibito.
Ciò, tuttavia, come sopra anticipato, costituisce solo un onere a carico del datore di lavoro, posto che l’oggetto del contratto di lavoro può ben essere determinato mediante una adibizione operata per fatti concludenti,
7il decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152, di attuazione della direttiva 91/533/CEE all’art.1 c.1 lett. f) include l’obbligo da parte del datore di lavoro di informare il lavoratore rispetto l’inquadramento, il livello e la qualifica attribuiti al lavoratore, oppure le caratteristiche o la descrizione sommaria del lavoro.
8Ovvero la retribuzione tabellare.
9vd cap. III.
Capitolo I
consistente nella consensuale adibizione del lavoratore a determinati compiti10; in tal caso l’indicazione delle mansioni svolte dal lavoratore può anche essere considerata come non esaustiva ai fine dell’individuazione dell’oggetto del contratto di lavoro, poiché esse costituiscono più frequentemente solo una parte del più ampio modello voluto dalle parti11, in quanto le mansioni convenute sono comunque da considerarsi come un modello di prestazione che comprendano una pluralità di compiti, anche accessori e complementari.
Nella prassi, inoltre, in special modo nelle aziende che occupano un gran numero di lavoratori, è molto frequente che al prestatore di lavoro sia attribuita solamente una qualifica (ovvero livello d’inquadramento) tra quelle previste nella contrattazione collettiva di riferimento, ove saranno effettivamente attribuiti, a ciascun livello e a ciascuna figura professionale, gli effettivi compiti da svolgere.
Tale pattuizione iniziale è di fondamentale importanza; poiché essa costituisce il livello minimo12 d’inquadramento per il lavoratore; tutte le stesure dell’art. 2103 cc prevedono, infatti, la seguente dicitura «il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto…».
1.3 L’inquadramento del lavoratore ed i suoi limiti formali.
L’art. 96 delle disp. att. c.c. prevede il diritto per il lavoratore di essere inquadrato, con il relativo trattamento, nella categoria legale e nel livello contrattuale corrispondenti alle mansioni effettivamente e stabilmente svolte. Tale inquadramento è generalmente operato mediante rimando alla contrattazione collettiva di riferimento, la quale suddivide le varie categorie
10Vallebona X., Istituzioni di diritto del lavoro (il rapporto di lavoro), Padova, 2012, p.161
11Giugni G, cit. p.116
12Si noti com’è sempre stata comunque concessa al datore di lavoro almeno l’adibizione a mansioni equivalenti.
categorie e livelli d’inquadramento
di lavoratori secondo i compiti e del grado di collaborazione all’interno dell’impresa.
Tale suddivisione ha l’ulteriore scopo di regolamentare eventuali differenze contrattuali tra i vari lavoratori; a partire dal livello di retribuzione tabellare ed alcune tutele proprie del lavoratore, anche di fonte prettamente legislativa (es. assicurazione per gli operai).
Già in epoca prerepubblicana era radicata nella contrattazione collettiva e nella prassi lavoristica in generale una divisione in macrocategorie; tale suddivisione era talmente presente all’interno della realtà sociale da essere definita nella relazione del Guardasigilli al codice civile13 come una regola di diritto; tale relazione infatti recita: «riconoscere tali distinzioni è necessario perché si tratta di forme fondamentali che con ogni verosimiglianza non potranno mai essere superate».
Tale relazione inoltre riconosce la parità di dignità tra i vari lavoratori e presuppone una parità tra i principi che ne assicurano la tutela.
Il primo comma dell’articolo 2095 c.c. recitava (prima della riforma di cui alla l. 190/1985): “le categorie di prestatori di lavoro subordinato si distinguono in dirigenti impiegati e operai.”
L’articolo in questione sancisce quindi definitivamente l’aggregazione del lavoro operaio con quello impiegatizio e dirigenziale; si può quindi affermare che la funzione originaria dell’art. 2095 c.c. sia di unificare (assoggettando indifferenziatamente alla disciplina comune del codice civile14) e non quella di dividere i lavoratori15.
Tale articolo è stato successivamente novellato dalla l. 190 del 13 maggio del 1985 con l’inserimento della categoria legale dei quadri, costituente un livello intermedio tra quella impiegatizia e quella dirigenziale.
13In G.U., 4 .4. 1942, anno 83°, n 79 bis, p.189
14Ciononostante permangono differenze legislative tra le varie categorie, anche con l’inquadramento unico.
15Ichino P., Il contratto di lavoro I, in Trattato di diritto civile e commerciale, XVII, Milano, 2000, p. 610
Capitolo I
La concreta determinazione dei requisiti per appartenere ad una delle suddette categorie è affidata alla contrattazione collettiva, all’interno della quale, talvolta, possono rinvenire previsioni volte a creare categorie ulteriori rispetto a quelle legali (es. intermedi nel settore industriale posti tra gli operai e gli impiegati), in altre a unificare il sistema delineato dalla legge.
La massima espressione dell’unificazione delle categorie legali dei prestatori di lavoro si ebbe a partire dagli anni 70 con la previsione contrattuale dell’inquadramento unico nel quale operai e impiegati erano distribuiti in un’unica scala classificatoria articolata in livelli, svuotando di significato l’art. 2095 c.c.
Ciononostante il legislatore ha ritenuto necessario riconoscere con la l. 190 del 13 maggio 1985 una categoria di lavoratori «costituita dai prestatori di lavoro subordinato che, pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgano funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell'attuazione degli obiettivi dell’impresa» denominata “quadri”.
Tale legge si pone in forte contrasto con la realtà dell’epoca, dove autorevole dottrina16 riteneva tale legge inadeguata, poiché la norma avrebbe meritato in virtù della propria vetustà di essere, al limite soppressa, piuttosto che rinnovata.
Tuttavia le bozze preparatorie della legge in questione inducono a escludere che con questa legge si sia voluto rendere inderogabile la distinzione tra le varie categorie legali17, o che si volesse limitare la possibilità contrattuale di aggiungere ulteriori categorie legali.
Tale normativa tuttavia sarà revitalizzata dal d.lgs 81/2015, il quale riformando la disciplina dello jus variandi pone come limite più forte per il
16Mengoni L., Osservazioni e proposte sull’art. 2095 c.c., in Riv. Trim. dir. e proc. civ.,1985, p. 458 ss
17Risulta invero un tentativo di soppressione delle categorie legali ed un rinvio puro e semplice alla contrattazione collettiva, poi non attuato vista la mancanza nella lingua italiana di un termine adatto a comprendere le categorie impiegatizie e quelle operaie.
categorie e livelli d’inquadramento
demansionamento unilaterale proprio quello dell’inderogabilità della categoria legale.
1.3.1 Criteri d’inquadramento utilizzati nella contrattazione collettiva.
Preliminarmente si nota come non vi sia alcun obbligo legale da parte del datore di lavoro di utilizzare sistemi d’inquadramento; l’obbligo invece sussiste quando si attua una differenza di trattamento tra i lavoratori18.
Per quanto riguarda i possibili sistemi d’inquadramento utilizzabili dal datore di lavoro essi possono attenersi a diversi criteri, i quali non necessariamente devono essere allegati all’effettivo valore sinallagmatico della prestazione lavorativa19.
Ciò non esclude, come si vedrà dopo, la possibilità del giudice di riconoscere inquadramenti differenti a seconda delle mansioni effettivamente svolte, di altri criteri presenti all’interno della contrattazione collettiva ovvero tramite l’applicazione di taluni principi fondamentali, anche costituzionali.
Eccellente dottrina20ritiene che tali criteri siano essenzialmente 4. 21
Il primo non può che essere il contenuto della prestazione, e, quindi. gli effettivi compiti svolti dal prestatore di lavoro all’interno della azienda che, come noto, delimitano anche l’area delle mansioni ai cui lo stesso lavoratore potrà essere in futuro adibito (in tale ottica si ritiene comunque opportuno far riferimento alla stesura dell’art. 2103 c.c. oggi in vigore, poiché essa ha
18Sentenza Corte di giustizia 6 luglio 1982 c. 61/1981, Commissione c. Regno Unito il quale trasgredendo all’art. 141 del Trattato istitutivo in materia di parità tra lavoratori e lavoratrici, direttiva n. 117/1975, e quindi impedendo la conoscibilità dei criteri utilizzati dal datore di lavoro, non forniva gli elementi necessari ai lavoratori per contestare un’eventuale illegittimità degli stessi.
19Greco P., Il contratto di lavoro, Torino, 1939, p.102; nel presente testo l’autore fa riferimento a 5 criteri: effettiva difficoltà del lavoro e valore gerarchico dello stesso, durata e stabilità del rapporto di lavoro, posizione gerarchica dei lavoratori, condizioni fisiche degli stessi e talune condizioni ambientali in cui si svolga il lavoro in questione.
20Ichino P., cit, p.529.
21la c.d. job related.
Capitolo I
radicalmente modificato il concetto di equivalenza delle mansioni, portandolo da un’equivalenza sostanziale delle mansioni a un’equivalenza prettamente formale delle stesse22).
Altri elementi inerenti a questo criterio possono essere individuati nella gerarchia aziendale rispetto agli altri lavoratori impiegati nell’azienda, nella disponibilità del lavoratore a essere soggetto a un orario flessibile ovvero alla disponibilità dello stesso a effettuare trasferte.
Sono inoltre elementi caratterizzanti della tipologia della prestazione talune indennità specifiche (indennità per maneggio denaro).
Altro criterio utilizzato per l’inquadramento del lavoratore da parte della contrattazione può essere quello riferito al titolo di studio del lavoratore ovvero all’iscrizione ad albi professionali.
Tale criterio utilizza solamente la c.d. “qualifica soggettiva del lavoratore”, la quale viene in rilievo, all’interno della contrattazione collettiva, non soltanto per le c.d. professioni intellettuali (per le quali la legge stesse impone determinanti titoli abilitanti), ma anche in altre ipotesi, nelle quali – a prescindere dalla sussistenza di un obbligo normativo cogente
- il possesso di un determinato livello formativo viene posto quale conditio sine qua non per accedere a superiori livelli di inquadramento.
Un esempio di tale criterio può essere fornito dal ccnl Aris-Aiop per il personale non medico delle strutture sanitarie, il quale, all’art. 51, inquadra nella posizione economica B3 (tra gli altri) l’impiegato Educatore senza titolo, mentre l’educatore in possesso del relativo diploma di laurea, in virtù della maggiore professionalità acquisita, viene inquadrato nella categoria D posizione economica D1.
Ai fini dell’inquadramento sono utilizzati anche criteri che non sia attengano alle mansioni svolte dal lavoratore né al titolo o abilitazione da lui in possesso.
22 Per una trattazione più ampia dell’argomento si veda cap. II.
categorie e livelli d’inquadramento
Esempio chiaro di questa tipologia di criteri è l’anzianità di servizio, la quale è in maniera evidente un fattore che non sempre ha a che fare con fattori soggettivi del prestatore di lavoro come invece può dirsi delle specifiche mansioni o dei titoli e abilitazioni.
Tale criterio risulta comunque essere molto apprezzato all’interno della contrattazione collettiva (come si evince dal fatto che quasi tutti i contratti prevedano promozioni a livelli di inquadramento superiori in base all’anzianità di servizio) e in alcuni casi anche dalla legge stessa23 (seppur ovviamente di là delle questioni contrattuali).
Il grande successo di tale criterio è di facile comprensione, essendo, lo stesso, caratterizzato sia da una grande facilità applicativa, sia da una stretta correlazione all’esperienza maturata dai lavoratori ed al legame creatosi tra gli stessi e l’azienda datrice di lavoro.
Utilizzando un simile criterio si verifica una promozione a livelli di inquadramento superiore, nonostante le effettive mansioni svolte e la modalità di svolgimento delle stesse rimanga immutata.
Nel già utilizzato come esempio contratto Aris, l’educatore senza titolo che abbia maturato un’anzianità di servizio pari a 15 anni all’interno della stessa struttura verrà automaticamente inquadrato nella categoria C in posizione economica C1.
La stessa dottrina in esame individua un quarto gruppo di criteri di riferimento per inquadrare i lavoratori nelle varie categorie: criteri volti a dividere i lavoratori in categorie non comunicanti tra di loro; ovvero quei lavoratori che pur lavorando nella stessa unità produttiva (e talvolta svolgendo in concreto mansioni sovrapponibili) sono soggetti a una contrattazione collettiva diversa in virtù di particolari ruoli ricoperti dai lavoratori o da altre vicissitudini aziendali.
23Es. il contratto a tutele crescenti introdotto dal d.lgs 23/2015 prevede in caso di licenziamento un’indennità pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio all’interno dell’azienda.
Capitolo I
L’ultimo criterio è quello basato su una diversa contrattazione collettiva all’interno della stessa unità produttiva; ove ovviamente tale contrattazione non sia in concorrenza neanche potenziale.
Sempre prendendo ad esempio la contrattazione della sanità privata religiosa, sono presenti il contratto per il personale non medico, quello per il personale medico e quello per l’area dirigenziale; tali lavoratori svolgono la loro prestazione lavorativa nelle stesse strutture sanitarie (in particolar modo il personale infermieristico con quello medico, i quali svolgono addirittura mansioni complementari tra di loro).
Tale criterio trova maggiore applicazione quando la distinzione contrattuale nella diversa contrattazione tra operai impiegati e quadri con la classe dirigente, la quale essendo una categoria che si pone a essere in alcuni casi addirittura come alter ego del datore e quindi con un vincolo fiduciario molto più stringente, richiede un apparato normativo e contrattuale differente rispetto al resto del personale, con la conseguente tendenza che le associazioni sindacali possano essere diverse e specializzate a seconda della categoria legale che intendano rappresentare.
1.3.2 Clausole di riconoscimento formale.
Dalla trattazione sopra svolta, emerge con sufficiente chiarezza come la contrattazione collettiva abbia ampi poteri di determinare i criteri di inquadramento dei lavoratori, dovendo unicamente assicurare che tali criteri non diano luogo a situazioni di mero arbitrio.
La Corte Costituzionale nella sentenza del 9 marzo 1989, n. 198924 prendendo in esame il secondo comma dell’art 41 Cost.25ha sancito che «per tutte le parti, anche quelle sociali, vige l’obbligo di rispettare i precetti
24Pubblicata in RIDL, 1989, p. 394-395.
25(l’iniziativa economica privata) non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
categorie e livelli d’inquadramento
costituzionali. Essi assicurano…la pari dignità sociale anche dei lavoratori…proprio in virtù del precetto costituzionale di cui all’art. 41 della Costituzione, il potere d’iniziativa dell’imprenditore non può esprimersi in criteri di pura discrezionalità o addirittura di arbitrio, ma deve essere sorretto da una causa coerente con i principi fondamentali dell’ordinamento…
È demandato al giudice l’accertamento ed il controllo dell’inquadramento dei lavoratori nelle categorie e nei livelli retributivi in base alle mansioni effettivamente svolte… con il rispetto dei richiamati precetti costituzionali e dei principi posti in via generale dall’ordinamento giuridico».
La portata di questa sentenza è, almeno dal punto di vista formale, senza dubbio molto ampia.
Altro corollario della sentenza è l’introduzione di una sorta di principio di parità di trattamento (concetto che, in senso assoluto, è estraneo al diritto del lavoro, il quale ha storicamente preferito un principio di non discriminazione), meglio definibile come un «criterio di ragionevolezza e trasparenza»2627; in tale ottica si ritiene possibile ricondurre un trattamento differente qualora sia ricollegabile a talune situazioni, anche in virtù del fatto che nel lavoro privato, a differenza del lavoro pubblico, non vi è un obbligo assoluto di parità di trattamento, con la conseguenza che anche normali esigenze di mercato28ovvero poste a garanzia di un alto livello di
26Ferraro X., Xxxxxx imprenditoriali e clausole generali, in DRI, 1991, p.165
27Cass. 17 febbraio 1994 n.1530, in GI, 1995, I, 1, p. 464, con nota di Xxxxxxx S. «differenziazioni retributive dissociate dal contenuto delle mansioni non costituiscono di per sé una violazione». 28Giugni G., in AA.VV., Presentazione del volume “Questioni attuali di diritto del lavoro”, Suppl.
NGL, n. 5/1990, proposta a contrario: «La parità retributiva può essere assunta…a condizione che non esista un mercato del lavoro e che per assumere in un’impresa di piccole dimensioni, supponiamo, un buon operaio specializzato sia impossibile fare ricorso a quella che è una normale operazione di mercato: sottrarlo ad altre imprese offrendogli un salario superiore».,p. 10.
Capitolo I
produttività2930 possano essere addotte come motivazione di differenziazione del trattamento.
Il requisito fondamentale è che tali ragioni siano ostensibili, ovvero soggette a verbalizzazioni in modo tale che non risultino vincolate al solo arbitrio dell’imprenditore (fermo restando quanto disposto dal primo comma dell’art. 41 Cost.), ma anzi possano formalizzare i criteri leciti d’incentivazione e/o valutazione.
Ciò non significa che esse debbano in ogni caso essere utilizzate come strumento probatorio di fronte al giudice; infatti il giudice non può sostituirsi al datore di lavoro nella gestione dell’impresa, se non quando le scelte dell’imprenditore possano irragionevoli.31
La necessità di rendere tali criteri ostensibili fa si che nel caso in cui il datore svolga correttamente tale compito, l’onere della prova in merito alla non veridicità dei criteri ricade sul lavoratore.
Se la formalizzazione dei criteri quantitativi appare di facile lettura, maggiori difficoltà si riscontrano nella formalizzazione di quei criteri qualitativi che il datore di lavoro può utilizzare al fine di giustificare una disparità di trattamento che non leda il principio costituzionale della dignità del lavoratore espresso dall’art. 41 Cost., giacché la prova di tale fattispecie può essere solamente di natura testimoniale32, oltre al fatto che «tale principio può operare con sempre maggiore difficoltà man mano che il lavoro diventa, per così dire, più personalizzato»33; in altre parole al salire
29Cass. 8 marzo 1990 n. 1888, in RIDL, 1990, II, p. 804 «la differenza o la parificazione retributiva debbono corrispondere a criteri predeterminati e collegabili, anche attraverso la sollecitazione del dipendente a una maggiore produttività, al proseguimento degli obbiettivi previsti dall’attività imprenditoriale».
30Tale motivazione può essere utilizzata anche dagli stessi prestatori di lavoro al fine di ottenere trattamenti di maggior favore.
31Concetto simile alla Band of reasonableness britannica, Xxxxxx N., in Dictionary of Employment law, Londra, 1985, nel quale si fa riferimento a tale principio nell’ottica della discrezionalità del licenziamento: «il compito del giudice…è determinare se, nelle particolari circostanze del caso, la decisione del licenziamento cada entro la banda delle risposte ragionevoli che un datore di lavoro ragionevole può adottare; soltanto se la scelta del datore cada al di fuori di tale banda il licenziamento è scorretto»., p. 15.
32Ma il testimone non ha facoltà di esprimere valutazioni, ma solamente quella di enunciare i fatti.
33Ventura X., Il problema della parità di trattamento retributivo, in DLRI, 1990, p. 585.
categorie e livelli d’inquadramento
della gerarchia aziendale si ravvisa una sempre maggiore necessità di lasciare all’imprenditore maggiori discrezionalità in merito ai criteri da utilizzare, senza il pericolo di una censura giurisprudenziale.
Dopo la sentenza della Corte Costituzionale, anche la giurisprudenza ha dichiarato nulle queste clausole di mero arbitrio, prevedendo che l’inquadramento effettivo del lavoratore possa dipendere solamente (oltre agli altri criteri espressi nel paragrafo) dalle mansioni effettivamente svolte; anche perché una clausola che rimettesse alla mera volontà del datore di lavoro svuoterebbe sostanzialmente di significato le indicazioni fornite dalla contrattazione collettiva34.
Conseguenze radicalmente diverse sono invece ravvisate nel caso in cui il datore di lavoro attribuisca al lavoratore una qualifica superiore a quella inerente alle mansioni svolte da quest’ultimo.
Generalmente la giurisprudenza ha ritenuto legittima tale fattispecie, tuttavia vi sono dei casi in cui è stato ritenuto opportuno dagli organi giudicanti fare delle dovute precisazioni.
È il caso degli “pseudo-dirigenti”, essi sono dei lavoratori che nonostante siano stati qualificati dal datore di lavoro come dirigenti35, non svolgono mansioni di tale livello; in tal caso, a parte i casi di demansionamento (ovvero quando il lavoratore già dirigente viene adibito, più o meno legittimamente, a mansioni inferiori) il lavoratore conserverà i trattamenti economici (presumibilmente) migliori della classe dirigenziale con le maggiori tutele riservate ai lavoratori di fasce inferiori.
34Cass. 18 aprile 1975 n. 1497, in Foro It. Rep., 1976, I, p. 438 la quale enuncia chiaramente «la clausola di riconoscimento formale che ha l’effetto di sostituire al potere-dovere del giudice di determinare la qualifica spettante al lavoratore in base all’accertamento delle prestazioni effettivamente svolte, un criterio classificatorio fondato su un atto unilaterale e, eventualmente, arbitrario del datore di lavoro».
35Il possibile ingiusto svantaggio del lavoratore in tal caso è la mancanza di tutela reale per il dirigente.
Capitolo I
1.4 Le categorie legali dei lavoratori.
Come già visto, ai sensi dell’art. 2095 c.c. i lavoratori sono divisi in quattro categorie legali.
Lo stesso art. 2095 c.c. ai commi successivi, tuttavia, fa esplicito rimando alle leggi speciali e in epoca prerepubblicana alle norme corporative36(è opinione comune che i rinvii alle norme corporative debbano essere intesi come rinvii alla contrattazione collettiva)37 per determinare i requisiti di appartenenza alle categorie, in relazione alla produzione e alla particolare struttura dell’impresa.
L’assenza di leggi speciali in materia è uno dei fattori che determina la possibilità da parte dei contratti collettivi di sancire quelli che siano gli effettivi criteri e livelli d’inquadramento e addirittura la possibilità di derogare il numero delle categorie legali (come avvenuto con l’inquadramento unico ovvero con l’introduzione degli intermedi nei contratti del settore bancario).
È la particolarità e, in alcuni casi addirittura, unicità delle realtà aziendali abbia riconosciuto alla contrattazione collettiva di regolare gli inquadramenti contrattuali38.
Si ravvisa inoltre l’impossibilità da parte del giudice di distaccarsi dai criteri d’inquadramento considerati determinanti dalle parti sociali e di
36Nella già citata relazione al codice civile il legislatore dell’epoca esprime l’impraticabilità di una definizione esaustiva di ogni categoria: «Perché qualunque definizione, che non tenga conto dei particolari atteggiamenti assunti da dette figure nei diversi rami della produzione, sarebbe imperfetta» ritenendo quindi opportuno «rimettere la determinazione delle varie figure alle massime d’esperienza, che possono essere rispecchiate, con maggiore approssimazione possibile, dalle leggi speciali e ancor di più dalle norme corporative».
37Assanti C., Rilevanza e tipicità del contratto collettivo, Milano, 1967, p. 56
38Tra le tante Xxxx. 5 maggio 1999 n. 4520, in DPL, 1999, p.2856; Cass. 28 gennaio 0000, x. 000, xx XXXX, 0000, II, p.699 ed ancora Xxxx. 30 agosto 1988, in DL, 1988, II, p. 441 « L’appartenenza del prestatore di lavoro ad una delle categorie di dirigente, impiegato e operaio fissate nel primo comma dell’art. 2095 c.c. deve essere accertata non solo sulla base di un’astratta definizione della categoria stessa, ma alla stregua della disciplina nazionale applicabile , il cui secondo comma dell’articolo rimanda, in relazione, in relazione al ramo di produzione e alla particolare struttura dell’impresa, risultante dai suoi peculiari criteri di auto-organizzazione».
categorie e livelli d’inquadramento
utilizzare differenti criteri39; ponendo come limite unico alla contrattazione l’obbligo di fornire elementi oggettivi d’identificazione per ciascuna categoria.
È evidente in tal senso come la mancata attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost.40abbia fornito alla contrattazione collettiva una maggiore autonomia.
Sono tuttavia presenti all’interno dell’ordinamento alcune differenze di carattere legislativo tra le varie categorie; ad esempio storicamente per l’art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604 in materia di licenziamenti individuali fa espresso riferimento alle categorie d’impiegati e operai; ovvero la differenza tra impiegati e operai in materia di trattamento di fine rapporto fino all’entrata in vigore della l.297/1982.
Una forte autonomia collettiva, ovviamente, non presuppone l’impossibilità da parte del giudice di non intervenire in caso di contenziosi in materia d’inquadramento.
A tal proposito occorre rilevare come la mancanza di una definizione puntuale dei termini come “categorie” e “mansioni” largamente utilizzate dal legislatore abbia portato notevole incertezza nella dottrina riguardo alla ricostruzione di una precisa nozione di qualifica portandone addirittura, da parte della stessa dottrina, «a negare l’autonomia della figura della qualifica, essendo più agevole dissolverne il contenuto nella considerazione esclusiva di talune (principali) sue componenti»41 come possono essere ad esempio le mansioni effettivamente svolte.
Difatti quando il risultato dalla contrattazione collettiva, sia contrario alle norme di legge (ad esempio il funzionario di banca ai fini legislativi non può che risultare impiegato)4243 eccellente dottrina ritiene infatti che: «se così
39Cass. 18 gennaio 1983, n. 217, in Not. Giuris. Lav., 1983, p.144.
40Un’ipotetica attuazione della norma costituzionale in questione porterebbe senz’altro a un numero minore di contratti collettivi nazionali, aumentandone la distanza tra i destinatari effettivi.
41Santoro-Xxxxxxxxxx G., Diritto dei Lavori, Torino, 2013, p.271
42Cfr. Pera G., Diritto del lavoro, Padova, 1984, p. 548.
43In senso contrario Pret. Milano, 7 luglio 1982, in Orient. Giur. Lav., 1983, p. 300.
Capitolo I
non fosse, avremmo la possibilità di un curioso effetto di spiazzamento delle norme di legge da parte dell’autonomia collettiva, in ragione del quale dovremmo allora affermare che quest’ultima, creando nuove categorie, sarebbe indirettamente legittimata ad incidere sul concreto ambito di applicazione di determinate normative che il legislatore abbia emanato a beneficio di particolari categorie di prestatori di lavoro… se ne deve desumere, pertanto, che il rinvio alla contrattazione collettiva, contenuto nella seconda parte dell’art. 2095 c.c., va ritenuto operante solo quando sulla base di esso sia possibile operare un giudizio di inclusione nelle categorie ivi previste e non vada ritenuto operante, invece, quando esso porti ad un semplice giudizio di esclusione»44.
L’inquadramento effettivo non può quindi risultare, fermo restando quanto visto nel paragrafo precedente, come un qualcosa che sia del tutto estraneo dalle mansioni effettivamente svolte.
Come detto sopra la modifica dell’art. 2103 c.c. ha riportato fortemente in auge la differenziazione in categorie legali; per tale motivazione si ritiene opportuno analizzare le varie categorie legali presenti nell’art. 2095 c.c.
1.4.1 Operai e impiegati, due categorie a confronto.
La categoria legale degli operai si colloca alla base della scala gerarchica aziendale.
Non sono presenti nell’ordinamento italiano delle definizioni legali della categoria operaia; per tale definizione quindi risulta necessario fare riferimento ad escludendum utilizzando la legge sull’impiego privato45la quale definisce il lavoratore con mansioni impiegatizie come colui che non
44Liso F., Categorie e qualifiche del lavoratore, in Enciclopedia giuridica Treccani, VI, 1989, p. 7., l’autore fa riferimento in questo caso alle norme sul licenziamento ex l. 604/1966.
45 R.D.L. n. 1825/1924
categorie e livelli d’inquadramento
svolge mansioni prevalentemente di manodopera, presupponendo quindi che il lavoratore che svolge tali mansioni sia da considerare operaio.
Sembrerebbe proprio, e, in effetti, storicamente si è ritenuto accettabile considerare, che nella prevalenza del lavoro manuale debba intendersi la caratteristica principale della categoria operaia.
Nei primi 30 anni di vigenza della norma la giurisprudenza ha ritenuto quindi opportuno l’utilizzo del criterio della manualità pur se questo risultasse altamente professionale46-
Si potrebbe ritenere, pertanto, corretto dire che l’operaio collabora nell’impresa, mentre l’impiegato collabora all’impresa47.
Tuttavia tale definizione appartiene al periodo corporativo, e oggi deve intendersi come superata a causa delle innumerevoli innovazioni tecnologiche, che hanno portato ad alcune attività manuali a un livello di specializzazione particolarmente elevato, che non sembrerebbe essere compatibile con l’idea di configurare questo genere di attività manuali come quello gerarchicamente più bassa.
La dottrina maggioritaria, infatti, è concorde nel ritenere che l’effettiva portata dell’art.1 del R.D.L. 1825/24 sia appunto nell’individuazione della collaborazione del lavoratore all’interno dell’impresa.
Anche tale criterio distintivo risulta tuttavia essere particolarmente complesso in virtù delle numerose mansioni e compiti soprattutto “di confine” tra le due categorie, causando una corposa giurisprudenza sull’argomento.
Altro tentativo di differenziazione è rappresentato dall’utilizzo del criterio della “sostituzione” dell’imprenditore da parte dell’impiegato; tuttavia tale criterio può ricomprendere solamente l’ipotesi delle mansioni
46Cass. 4 agosto 1936, in MGL, 1936, p.416: «La materialità dell’opera, escludente l’applicabilità del X.X. 00 novembre 1924 n. 1825, non deve limitarsi soltanto ad una prestazione puramente materiale, ma può anche estendersi, senza per questo invadere le categorie impiegatizie, di concetto o di ordine, a delicatissime opere manuali, inducenti solo una specializzazione di coloro che le eseguono».
47 Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx F., Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1995.
Capitolo I
gestionali attribuite alla categoria impiegatizia, ma non si capisce come sia invece possibile ritenere valido tale criterio quando il lavoratore svolga mansioni impiegatizie senza alcuna facoltà di iniziativa (es. centralinista, pacificamente inquadrato come impiegato), in aggiunta al fatto che per alcuni settori, come quello agricolo, il datore di lavoro svolge in prima persona azioni che sarebbero attribuite a mansioni operaie.
La possibilità o meno d’iniziativa e di prendere decisioni discrezionali, laddove questa fosse maggiore nella categoria impiegatizia che in quella operaia potrebbe essere utilizzata come specificazione del criterio precedente; ma con l’analoga conseguenza di risultare troppo indipendente nei confronti della professionalità delle mansioni48.
La difficoltà d’inquadramento è senza dubbio una delle motivazioni che hanno condotto le parti sociali a optare per un inquadramento unico delle categorie impiegatizie e operaie per quanto alla fine una lettura aggiornata dei criteri enunciati dal legislatore del 1924 potrebbe essere considerando l’impiegato come colui che è addetto alla gestione, quindi all’acquisizione elaborazione, studio, memorizzazione e trasmissione di dati e informazioni, mentre l’operaio è prevalentemente addetto alla manovra di macchinari e strumentazioni o alla trasformazione della materia prima4950.
Le differenze sostanziali permangono sul piano sociologico, nell’immaginario comune, e nella maggior parte dei casi, l’operaio è colui
48Cass. 12 febbraio 1990 n. 981, in mass. NGL, 1990, p. 471: «al fine della distinzione tra la categoria operaia e quella impiegatizia non è decisivo il carattere intellettuale o manuale dell’attività lavorativa svolta, ma il grado di collaborazione del lavoratore con l’imprenditore; pertanto rientra nella categoria operaia la prestazione che inerisce direttamente al processo produttivo e che si mantiene nell’ambito della semplice esecuzione senza esercizio di discrezionalità o di poteri decisionali, ancorché si tratti di attività che involga compiti di vigilanza o di controllo su altri operai in ordine ad aspetti meramente esecutivi del lavoro» in concreto la corte ha ritenuto che la qualifica adatta ad un caposquadra debba essere quella operaia.
49Ichino P., cit., p.628.
50es. Cass. 20 settembre 1989 n. 3929, in XXX, 0000, p.190 con la quale veniva riconosciuta la qualifica di impiegatizia ad un gruppo di addetti al controllo di personale viaggiante, vd. anche X. Xxxxxx 9 gennaio 1990, in OGL, 1990, p.51, nella quale si riconosce la qualifica impiegatizia ad una lavoratrice che pur non avendo discrezionalità nello svolgimento del proprio lavoro, svolgeva mansioni caratteristiche “d’ufficio”, ed anche P. Roma 14 aprile 1991, in NGL, 1991, p.286, nella quale veniva negata la qualifica impiegatizia ad un dipendente bancario svolgente mansioni di portineria.
categorie e livelli d’inquadramento
che presta la propria attività lavorativa nella fabbrica, indossando generalmente una divisa51, mentre gli impiegati prestano generalmente la propria attività lavorativa in ufficio e indossando abiti civili52, detenendo quindi uno status di maggior favore.
Riassumendo i vari tentativi di stabilire criteri di differenziazione tra le due categorie si noti come questi siano essenzialmente due: il grado di collaborazione con l’imprenditore e il carattere manuale o intellettuale.
Tali criteri, naturalmente, non risultano sempre concordanti, dando vita, come si è visto, a numerose questioni dottrinali e giurisprudenziali.
La soluzione adottata dalla contrattazione collettiva (alla quale comunque è demandato l’effettivo inquadramento dei prestatori di lavoro) è quella dell’inquadramento unico, la quale sembrerebbe idonea ad appianare la questione.
E’ innegabile che tale soluzione, con la modifica dell’art. 2103 c.c. operata dal governo Xxxxx, fornirebbe al datore di lavoro uno jus variandi53 estremamente ampio; pertanto, nelle successive tornate contrattuali è logico aspettarsi forti pressioni da parte delle associazioni dei lavoratori affinché siano introdotti netti criteri di separazione tra le varie categorie.
In principio le categorie erano fortemente differenziate dal legislatore in merito alla disciplina dell’indennità corrisposta al lavoratore alla fine del rapporto di lavoro.
Il primo esempio di obbligo legale di questa indennità è rappresentato dall’”indennità di anzianità” introdotta dai c. 4 e 5 art. 10 R.D.L. 1825/1924, il quale prevedeva che all’impiegato (quindi non all’operaio) «Oltre al preavviso nei termini come sopra stabiliti, o in difetto, oltre all’indennità corrispondente, è in ogni caso dovuta un’indennità non inferiore alla metà dell’importo di tante mensilità di stipendio per quanti sono gli anni di
51Difatti gli operai vengono anche spesso denominati come “tute blu”.
52Per questo vengono denominati spesso “colletti bianchi”.
53Per una trattazione approfondita sull’argomento si veda cap. II.
Capitolo I
servizio prestati», definendo anche quali siano le voci relative alla retribuzione: «Agli effetti del presente articolo sono equiparati a stipendio e dovranno egualmente computarsi tutte le indennità continuative e di ammontare determinato, le provvigioni, i premi di produzione nonché le partecipazioni agli utili…».
Tale disciplina riconosceva solamente agli impiegati tale indennità, ed escludeva la sua corresponsione quando l’impiegato fosse stato licenziato per giusta causa ovvero per dimissioni volontarie.
Tale disciplina fu estesa anche alla categoria operaia solo nel 1942 con l’art. 2120 c.c.
Altre differenze permangono in materia di trattamento previdenziale, ad esempio nelle ipotesi di malattia l’obbligo di retribuzione per gli impiegati permane, e l’assicurazione presso l’INPS per gli operai.
Tali differenze vengono generalmente appianante dalla contrattazione collettiva.
Contrattazione collettiva che determina anche l’entità del preavviso, il quale prendendo in considerazione la maggiore professionalità, con la conseguente maggiore difficolta di sostituzione e di ricerca di un nuovo posto di lavoro ammette la prassi che tale preavviso sia maggiore nei confronti dei prestatori di lavoro con qualifiche impiegatizie.54
Una delle poche differenze rimaste in vigore rimane la differente quota contributiva relativa all’assicurazione INAIL.
Addirittura in origine il legislatore aveva predisposto l’obbligatorietà dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni ai soli operai (l. 17 marzo 1898 n 80 art.1 poi ripreso nel testo unico del 190455) estendendola solamente
54Ad esempio nel ccnl metalmeccanici gli artigiani metalmeccanici con più di 10 anni di servizio hanno diritto ad un termine di preavviso di 10 giorni di calendario, mentre nel caso in cui fossero inquadrati come impiegati tale termine si eleva dai 2 mesi ai 2 mesi e mezzo a seconda della sottocategoria.
55Dove peraltro la nozione di operaio viene ritenuta implicita.
categorie e livelli d’inquadramento
con l’art. 1 R.D.L. 17 agosto 1935 n. 1765 a tutte le “persone” (superando quindi il limite operaio) addette a determinate lavorazioni e macchine.
Attualmente vi è generalmente solo una differenza di quota tra le varie categorie, la quale non è di fonte legislativa.
Il motivo di questa differenza è di facile lettura: è evidente come delle mansioni generalmente di carattere manuale siano più soggette a infortuni sul lavoro rispetto a delle mansioni intellettuali.
Per quanto riguarda la differenziazione della categoria in merito alla tutela contro la malattia, vi è una differenza dei criteri di calcolo della retribuzione “mensile” portata ad esempio in ragione della storica differenza delle modalità di pagamento per le categorie.
La remunerazione per gli operai veniva (soprattutto in passato) erogata in base ad una tariffazione oraria, mentre per quanto riguarda il trattamento economico previsto per la categoria impiegatizia, questo viene (ancora oggi) erogato su base mensile.
Questo comporta che il calcolo della retribuzione giornaliera per l’erogazione dello stipendio a carico dell’INPS in costanza di malattia sarà calcolata dividendo la retribuzione mensile per 30 per la categoria impiegatizia, e per il numero delle giornate nella quale si è effettivamente prestata attività lavorativa (per un massimo di 26 giorni), poi moltiplicata per un coefficiente legale di 1,2 per la categoria operaia56.
1.4.1.1 Operai.
La classe operaia viene collocata alla base della gerarchia aziendale.
Come detto sopra la storica caratteristica distintiva del lavoro operaio rappresentata dalla prevalente manualità delle mansioni deve intendersi come superata.
56Si noti in tal caso come, nel caso in cui l’operaio abbia prestato attività per tutta la totalità dei 26 giorni lavorativi nel mese di riferimento il risultato percentuale risulti uguale.
Capitolo I
La Suprema Corte di Cassazione ha tentato di dare un’ulteriore definizione al lavoro operaio; infatti, nella sentenza del 13 febbraio 1985 n. 123957 «… non è decisivo il carattere manuale e intellettuale dell’attività svolta, ma il grado di collaborazione del lavoratore con l’imprenditore, con la conseguenza che deve definirsi operaio chi esplica attività che ineriscono al processo produttivo e si mantengono nella sfera della semplice esecuzione e non implicano esercizio di discrezionalità o di poteri decisionali, senza che tali attività possano assumere carattere impiegatizio per il semplice fatto di non essere esclusivamente manuali o perché comportino sporadicamente maneggio di denaro».
Si fa quindi anche in questo caso riferimento alla collaborazione e alla possibilità d’iniziativa.
Naturalmente la categoria operaia è maggiormente articolata nel settore industriale, risultando invece più marginale in altre realtà aziendali (es. settore commercio).
Nel contratto collettivo già portato ad esempio la categoria operaia è ricavata da un’indicazione residuale dell’art.45 il quale qualifica gli impiegati il personale inquadrato dalla posizione B1 ad E2 e gli operai come il personale rimanente.
La contrattazione collettiva è inoltre solita suddividere in sottotipi di operai secondo il grado di specializzazione.
Si distinguono tra questi gli operai specializzati, i quali svolgono mansioni altamente specialistiche di elevata difficolta che rendono quindi al lavoratore un’elevata (e indispensabile) competenza in materia (proprio tale sottocategoria potrebbe secondo i criteri di collaborazione essere addirittura inquadrato nella categoria impiegatizia).
L’importanza di questi lavoratori è stata riconosciuta già in passato con il concordato del 23 maggio 1946 art. 3158, il quale estendeva al centro-sud
57Cass.13 febbraio 1985, n 1239, in Foro It. Rep., 1985.
58Poi reso obbligatorio dal erga omnes dal DPR 28 luglio 1960 n. 1098.
categorie e livelli d’inquadramento
di Italia l’accordo interconfederale del 6 dicembre 1945, il quale stabiliva l’applicazione del R.D.L 1824/1925 anche agli operai che abbiano mansioni di particolare fiducia e responsabilità, che generalmente non siano attribuite agli operai.
Tale categoria prese poi il nome di “intermedi” o “equiparati” collocandosi a metà tra la qualifica impiegatizia e quella operaia, prendendo le migliori condizioni normative e contrattuali riservate alla categoria impiegatizia.
Tale disciplina è stata inoltre spesso applicata anche per i c.d. capireparto, ovvero quegli operai con il compito di vigilare sull’operato di altri operai.
Altro sottogruppo rilevato è quello degli operai qualificati, i quali svolgono mansioni per cui serve comunque una preparazione tecnica, ma non professionale come quella del sottogruppo precedente.
I manovali specializzati e i manovali semplici si collocano alla base della categoria e si differenziano solamente per l’esperienza (comunque non altamente qualificata).
1.4.1.2 Impiegati.
Come visto sopra la categoria impiegatizia trova il principale riferimento nell’art. 1 RDL 15 marzo 1924 n. 1825.
Tale norma definisce la categoria come lavoratori che svolgano funzioni di collaborazione, tanto di concetto che di ordine.
All’interno della norma, all’art. 10 il legislatore enunciando le differenze in merito al periodo di preavviso ha cercato di individuare alcune figure professionali, le quali svolgono mansioni di contenuto corrispondente alle caratteristiche di non manualità e collaborazione espresse dall’art. 1.
Capitolo I
Anche gli impiegati vengono suddivisi in varie sottocategorie, tuttavia questa divisione trova fonte non solo nella contrattazione collettiva, ma anche nello stesso RDL 1825/1924.
La prima sottocategoria è rappresentata dagli impiegati che svolgano funzioni direttive i quali vengono individuati nell’art. 4 della legge sull’impiego privato nelle qualifiche di istitori, procuratori, rappresentanti a stipendio fisso, direttori tecnici o amministrativi e gli impiegati di grado e funzioni equivalenti, alle quali si aggiunge ex art. 10 il commesso viaggatore per l’estero59.
Le particolari funzioni direttive svolte da questa tipologia di lavoratori fanno sì che essi possano essere inquadrati, con le categorie dell’attuale stesura dell’art. 2095 c.c. come quadri.
La seconda sottocategoria di impiegati è denominata “impiegati di secondo livello” o “impiegati di concetto”, tale categoria include i prestatori che svolgono mansioni di carattere intellettuale esercitando anche una sorta di indipendenza nello svolgimento delle stesse, con la conseguenza che il controllo del datore di lavoro nei confronti di questa categorie riguarda il risultato dell’attività lavorativa, e non la modalità con cui questa è eseguita.60 Tale sottocategoria risulta quindi essere pienamente conforme a tutte le caratteristiche individuate dalla dottrina, dalla giurisprudenza e dalla contrattazione, essa infatti non svolge mansioni di carattere prevalentemente manuale, ha una forte componente collaborativa “all’impresa” svolgendo
mansioni di potenziale sostituzione dell’imprenditore.
L’ultima sottocategoria impiegatizia è rappresentata dall’impiegato d’ordine il quale svolgendo attività di natura intellettuale solo in attuazione delle direttive imposte dai superiori e quindi senza alcun potere di iniziativa,
59Categoria poi esclusa con l’elencazione del X.X. 0 luglio 1926 n 1130, vita anche l’istituzione della categoria dei dirigenti come categoria a sé stante sul piano sindacale.
60Cass. 2 dicembre 1982 n.6567, in GC, 1983, I, p. 2051, vd anche Xxxx. 6 febbraio 1984, n. 909 nella quale viene evidenziato l’elemento «intellettuale, culturale e operativo» dell’impiegato di concetto.
categorie e livelli d’inquadramento
ha generato molta confusione nella giurisprudenza e nella contrattazione collettiva61 (subendo di fatto anche un controllo da parte del datore di lavoro in merito alle mere modalità di esecuzione della prestazione lavorativa), con le conseguenze di cui sopra.
1.4.2 Quadri.
Nonostante la possibilità per la contrattazione collettiva di derogare il numero delle categorie legali abbia portato ad una tendenza maggioritaria di riduzione delle stesse con l’accorpamento delle categorie operaie e impiegatizie, il legislatore nel 1985 ha ritenuto opportuno dare attuazione ad un’altra tendenza contrattuale, perpetuata soprattutto nel settore bancario, di riconoscimento di figure professionali con mansioni intellettuali e con autonomie e responsabilità quasi dirigenziali, chiamati in tale settore “funzionari”.
Dal testo della legge 190/1985 si evince la volontà del legislatore di escludere la sovrapponibilità tra la categoria dirigenziale e quella dei quadri. L’art. 3 della legge in questione, infatti, fornisce a questa categoria legale le stesse tutele fornite alla categoria impiegatizia (ad esempio
escludendo tali lavoratori dalla facoltà di recesso ad nutum).
L’art. 2 si occupa invece di indentificare la categoria, definendola come:
«prestatori di lavoro subordinato che pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgano funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa».
Tale formula ha tuttavia generato confusione all’interno della giurisprudenza, la quale ha in alcuni casi inquadrato in tale categoria i
61Si noti a tal proposito come la legge definendo il lavoro impiegatizio come lavoro d’intelletto e quello operaio come lavoro manuale abbia fornito una forte, seppur inadeguato per eccessiva vetustà, un forte criterio discriminante.
Capitolo I
lavoratori c.d. “intermedi” e addirittura alcune tipologie di impiegati specializzati62 ed alcuni dirigenti di fascia più bassa63.
La genericità della norma, tuttavia, consente alla contrattazione collettiva di intervenire ampiamente al fine di definire i requisiti di inquadramento dei lavoratori, posto che, come sopra anticipato, tale facoltà le viene attribuita direttamente dall’art. 2095 (pacifica interpretazione della norma la quale, in realtà prevedrebbe un espresso riferimento alle norme corporative)64; di conseguenza, in un momento appena successivo all’entrata in vigore della legge in esame, la giurisprudenza ha ritenuto illegittime le pretese di alcuni lavoratori che richiedevano il riconoscimento della qualifica di quadro sulla base della sola legge 190/1985, visto anche l’obbligo di adeguare la contrattazione collettiva entro un anno dall’entrata in vigore della legge in esame disposto dall’art. c. 2. 65 (obbligo comunque troppo ambizioso perché fosse adempiuto in un periodo così breve).
Tuttavia sono presenti, anche se in numero assai minore, alcune sentenze che riconoscono la qualifica di quadro anche in assenza di una declaratoria della contrattazione collettiva66.
La norma tuttavia, considerato il forte potere derogatorio in capo alla contrattazione collettiva la quale può legittimamente anche decidere di individuare un’unica categoria di lavoratori, può fornire solamente indicazioni e non obblighi, ai quali le parti sociali possono decidere autonomamente di aderire o no.67
62Cass. 6 giugno 1986 n. 3778, in NGL, 1986, p. 261.
63Vd par. 1.4.4.
64Ichino P., cit., p.649.
65es. Cass. 9 luglio 1987, n. 6006, in OGL, 1987, p. 925, nella quale si sanciva l’onere per il lavoratore di fornire prova tramite il contratto collettivo su cui si fonda la sua pretesa; negando, di fatto, che tale pretesa possa essere sostenuta dalla sola legge.
Decisione almeno curiosa visto il fatto che tale contenzioso trattava di un funzionario di banca, ovvero da una di quelle figure contrattuali che hanno spinto il legislatore a riconoscere la quarta categoria legale.
V.d. anche Cass. 12 gennaio 1999 n. 275, in MGL, 1999, p. 234, la quale ribadisce l’impossibilità di riconoscere un lavoratore come quadro in assenza di una declaratoria di fonte contrattuale.
66In tal senso si veda P. Milano 10 febbraio 1986, in GC, 1987, I, p. 434 con nota di X.Xxxx, Il riconoscimento d’appartenenza alla categoria dei quadri adopera del giudice.
67Scognamiglio R., Diritto del lavoro, Napoli, 1990, p. 217.
categorie e livelli d’inquadramento
1.4.4 Dirigenti
La categoria di prestatori di lavoro gerarchicamente più elevata è senza dubbio quella dirigenziale.
Tale categoria riserva molte particolarità in virtù delle peculiarità delle mansioni richieste a questi ultimi.
Le origini di questa categoria sono senza dubbio più recenti rispetto a quelle delle categorie operaie (per le quali è quasi impossibile identificare un punto d’inizio per via della manualità della prestazione) e impiegatizie all’interno delle quali si presuppone che sia nata e evoluta la categoria dirigenziale in particolar modo con l’avvento delle realtà industriali dove era necessario che alcuni lavoratori sviluppassero funzioni organizzative con la conseguente investitura di particolari poteri da parte dell’imprenditore a questi ultimi; infatti si può dire che «mentre la figura dell’impiegato ha origine lontana nell’impresa mercantile, il dirigente appare piuttosto a seguito dell’esperienza progressiva dell’impresa industriale».68
In un primo momento tale categoria di lavoratori, non solo è stata esclusa dalle leggi sul lavoro privato, ma era addirittura previsto che tale categoria fosse inserita nelle liste imprenditoriali69.
Successivamente, dopo la regolamentazione della categoria impiegatizia ad opera del R.D.L. 1825/1924, il legislatore decise di regolare anche la categoria dirigenziale, in maniera distinta rispetto alla categoria impiegatizia, con il X.X. 0 luglio 1926 n. 113070 nella quale, inquadrando tutta la realtà sindacale e sottoponendola a disciplina pubblicistica, si
68Giugni G., il dirigente di azienda nel diritto, in Il dirigente di azienda nell’evoluzione della società,
Roma, 1974, p.302.
69Già previsto in L. n. 295 del 15 giugno 1893, la quale prevedeva che «i direttori e gli amministratori tecnici e amministrativi e gli altri capi di uffici e servizi con funzioni analoghe, gli institori e in generale gli impiegati muniti di procura» dovessero essere appunto iscritti nelle liste degli imprenditori.
70In attuazione della legge 3 aprile 1926 n. 536.
Capitolo I
imponeva ai lavoratori che fossero «direttori tecnici e amministrativi, e gli altri capi d’ufficio, di servizi con funzioni analoghe, gli institori in generale e gli impiegati muniti di procura» la costituzione di associazioni sindacali che risultino diversificate rispetto a quelle degli altri lavoratori, e che tali associazioni aderiscano alle federazioni delle associazioni sindacali datoriali71.
Tale regolamentazione, pur non essendo affatto esaustiva nell’individuare i lavoratori che sul piano formale dovessero ricoprire cariche dirigenziali, ha l’effetto di delimitare fortemente la categoria in base alla associazione sindacale di appartenenza; in altre parole per verificare se un lavoratore sia o meno inquadrato nella categoria dirigenziale sarà sufficiente verificare a quale associazione sindacale egli sia iscritto72.
Tale separazione sindacale aveva inoltre l’effetto indiretto di favorire una contrattazione collettiva differente per la categoria dirigenziale, facilitando così la creazione di un trattamento economico superiore per la categoria in questione.
Tuttavia tale norma in virtù dell’entrata in vigore dell’art. 39 Cost. (ovvero con il principio di libertà sindacale, anche negativa) deve ritenersi come abrogata.
In tal senso già negli anni 30 si risconta una forte tendenza giurisprudenziale a ritenere illegittimo l’obbligo da parte del lavoratore, svolgente già mansioni dirigenziali in un’azienda di medie o grandi dimensioni, di iscrizione ad una specifica associazione sindacale.
Tale giurisprudenza73 affermava che «non è l’inquadramento (sindacale), ma l’effettiva attività svolta, che fa attribuire la qualifica di dirigente; la convenzione del 26 aprile 1932 per i dirigenti d’aziende industriali si applica quindi anche a quelli non iscritti alla rispettiva
71Art. 34 R.D. 1130/1926.
72Principio naturalmente rafforzato dall’obbligo di iscrizione alle associazioni sindacali vigente durante il periodo corporativo.
73Cass. 25 febbraio 1935, in RL, 1937, p. 12.
categorie e livelli d’inquadramento
Associazione, e nessuna clausola contrattuale in senso contrario è efficace a privarli dei diritti relativi, perché contra legem».
Naturalmente la giurisprudenza era intervenuta varie volte in vigenza del R.D. 1130/1926 anche per meglio specificare le caratteristiche della categoria apicale, si passa quindi da un’elencazione tassativa di figure professionali contenute nel decreto del ’26 ad un’individuazione del “tratto distintivo” del dirigente, ovvero come colui che svolge delle mansioni attribuibili al “capo” dell’impresa; con i conseguenti criteri identificativi74:
- ampia discrezionalità;
- autonomia operativa;
- esercizio di un particolare potere di gestione;
- predisposizione gerarchica a tutto il personale ovvero a un settore rilevante della stessa, con la titolarità anche del potere disciplinare;
- subordinazione diretta ed esclusiva all’imprenditore o al consiglio di amministrazione;
- carattere strettamente fiduciario della collaborazione.
Xxxxxx dottrina75 ritiene che proprio a questa giurisprudenza abbia fatto riferimento il legislatore del 1942 per l’identificazione al rimo comma dell’art. 2095 c.c. dei «dirigenti amministrativi o tecnici».
Da questa tendenza giurisprudenziale si arriverà quindi alla definizione, tuttora largamente utilizzata anche nel linguaggio comune, di dirigente come alter ego dell’imprenditore76, posizione di grande fiducia che giustifica anche l’esclusione delle forti tutele contro il licenziamento illegittimo introdotte dal legislatore a partire dagli anni 60.
74Cfr. Pergolesi F., Dirigente di azienda, in Enc. Dir., XII, 1964, pp. 617-619.
75Pergolesi F., Il contratto individuale di lavoro nella nuova codificazione, Bologna, 1942, pp. 105- 106.
76Cfr Giugni G., cit, p.306: «Restando in piedi la teoria dell’impiegato sostituto (dell’imprenditore), non poteva crearsi un terreno di differenziazione che sul piano quantitativo, arrivandosi quindi ad affermare che un dirigente è un super sostituto e cioè soltanto chi ha compiti di alter ego». Sulla definizione del dirigente come alter ego dell’imprenditore si veda anche Xxxx., sez. un., 29 maggio 1995, n.6041, in Foro It., 1995, I, p. 1778.
Capitolo I
Giova comunque ricordare che la formalizzazione legislativa di questa categoria legale sia avvenuta solamente con il codice civile del 1942, prima di allora, nonostante il diverso inquadramento sindacale e le particolari mansioni e responsabilità attribuite a tali lavoratori, una parte rilevante della dottrina continuò a considerarli come un’esplicazione degli impiegati77.
La particolare disciplina della categoria porta successivamente ad ulteriori contrasti (anche interni) giurisprudenziali e dottrinali in materia di inquadramento dirigenziale; in particolare risulta molto interessante l’analisi di due tendenze giurisprudenziali, le quali possono talvolta apparire in contraddizione tra di loro78, nelle quale si ebbe un ampliamento della categoria dirigenziale sia verso l’alto che verso il basso.
Verso l’alto si registra una tendenza della cassazione ad accettare un cumulo tra le posizioni di dirigente e gli incarichi di amministratore della società79.
In questo caso di estensione “verso l’alto” della qualifica dirigenziale si pone un problema anche di natura previdenziale, in quanto il dirigente- amministratore potrebbe risultare come lavoratore dipendente nel solo caso in cui prenda comunque ordini da un consiglio di amministrazione, «per l’ovvia ragione che nessuno può essere dipendente di se stesso»80; è talvolta possibile che il dirigente possa esercitare entrambe le cariche nel caso in cui le funzioni di dirigente e di amministratore devono riguardare compiti diversi.81
Viceversa si registra anche la tendenza a riconoscere l’inquadramento dirigenziale anche a personale impiegatizio non dipendente direttamente
77Tra tutti Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx F., Impiego privato, in Nss.D.I., VIII, Torino, 1962, p.261.
78Ichino P., cit., pp. 641-642.
79Cass. 24 marzo 1956, n. 845, in Mgl, 1956, p. 73, avallata successivamente (tra le tante) anche da Xxxx. 22 dicembre 0000 x. 0000, xx XXX, 0000, x.000.
00Xxxxxxxxx A., cit., p. 172.
81 Cass. 26 febbraio 2002 n.2861, in MGL, 2002, p. 727, nella quale si manifestava che si distingue il rapporto organico da cui deriva il potere di rappresentanza presso terzi, dal rapporto interno con la società amministrata configurato quale lavoro coordinato e continuativo al fine della competenza del giudice del lavoro.
categorie e livelli d’inquadramento
dall’imprenditore o dal C.D.A. e/o non investito di forte potere gerarchico (c.d. “low management”)82.
Questa estensione giurisprudenziale della categoria legale ha portato inevitabilmente alla possibile inclusione delle categorie impiegatizie più elevate, con funzioni direttive (sia quadri che impiegati83).
A sostegno di tale tendenza autorevole dottrina ritiene che «la specialità della funzione dirigenziale, trova in sostanza, forme di estrinsecazione molteplici e non predeterminabili a priori in termini compiuti».84
La questione in tal senso è stata risolta dalla giurisprudenza con la previsione che l’inquadramento nella categoria dirigenziale al “low manager” possa essere concesso solamente quando siano previste dal contratto collettivo come tali85, ovviamente nel caso in cui queste non siano riconosciute come clausole formale (le quali come visto sopra rimangono comunque illegittime), con il conseguente mantenimento delle maggiori tutele previste per gli impiegati.86
Tale figura sembrerebbe ricomprendere anche lavoratori che svolgano compiti caratterizzati solamente da un elevato contenuto tecnico- professionale di importanza ai fini degli obbiettivi dell’impresa87, in questo caso tali dirigenti sarebbero probabilmente sottoposti ad un vincolo
82Cass. 12 agosto 1997 n.7495, in NGL, 1997, p. 55, nella quale si fa comunque riferimento al fatto che il dirigente comunque deve una discrezionalità e un’ampiezza di funzioni tale da influire sulla conduzione dell’intera azienda o di un ramo autonomo di legge.
83In realtà la categoria legale dei quadri potrebbe essere idonea a ricomprendere la figura dell’impiegato con funzioni direttive.
84Cfr. Balletti E., Definizione della categoria e amministrazione congiunta dell’inquadramento nella contrattazione collettiva: i dirigenti, in RGL, 1988, I, pp. 345 ss.
85Cass. 24 ottobre 1995, n. 11051, in RIDL, 1996, II, p.359, con nota di Calafà L., Parità di trattamento e inquadramento dirigenziale alla Rai.
86Vd anche Xxxx. 1 marzo 1985, n. 1785, in Foro It. Rep. ,1985, voce Lavoro (rapporto), n. 672, nella quale si afferma che <<Il tratto distintivo della qualifica di dirigente rispetto a quella di impiegato di prima categoria con funzioni direttive, è dato non tanto dal potere di supremazia gerarchica e dalla collaborazione attiva con l’imprenditore – che possono essere comuni a entrambe le qualifiche – servizio, nonché dall’idoneità ad influenzare l’andamento dell’intera azienda, ancorché nell’ambito quanto all’estensione dei suoi poteri all’intera azienda o ad un ramo autonomo, anziché ad un singolo ramo o delle direttive eventualmente impartite dal titolare>>.
87Tosi P., Il dirigente d’azienda. Tipologia e disciplina del rapporto di lavoro, Milano, 1974, p. 77 ss.
Capitolo I
gerarchico non solo nei confronti del datore di lavoro ma anche di altri dirigenti88
Alcuni autori in merito a queste figure di “bassa dirigenza” hanno espresso alcune perplessità, in quanto con questa proliferazione della categoria dirigenziale non è più possibile identificare il dirigente come alter ego dell’imprenditore, se non ai massimi livelli della categoria89, con la conseguenza che l’esclusione dalla disciplina in merito al licenziamento individuale debba essere rivolta solamente ai dirigenti alter ego del datore di lavoro.90
Come si è detto prima la qualifica dirigenziale presenta alcune differenze normative e contrattuali rispetto alle altre categorie; ad esempio si registra ancora oggi una forte tendenza ad una contrattazione collettiva separata (il che potrebbe avallare la tesi del quarto criterio citato ad inizio capitolo) in modo da agevolare la regolamentazione delle diverse tutele e dei diversi trattamenti91.
Alla categoria dirigenziale non sono inoltre applicabili le discipline in materia di orario di lavoro, apposizione del termine e licenziamento.
Per quanto riguarda l’applicabilità delle norme di garanzia procedimentali contenute nell’art. 7 l. 20 maggio 1970 n. 300, la giurisprudenza in passato ha sostenuto in maniera molto marcata92 l’inapplicabilità della norma in ragione del carattere strettamente fiduciario del rapporto di lavoro.
Successivamente tale orientamento è stato sovvertito dalla stessa Corte di Cassazione la quale ha affermato l’applicabilità delle garanzie procedimentali nel caso in cui il dirigente abbia tenuto un comportamento
88Per tali lavoratori si deve comunque ritenere legittima la qualifica dirigenziale, se prevista dalla contrattazione collettiva, Xxxx. 26 aprile 2005 n. 8650, in MGL, 2005, p. 760, in senso contrario si veda Cass. 4 febbraio 1998 n. 1151, in RGL,1999, II, p.71.
89 Cfr. Xxxxx E., Diritto del lavoro, Torino, 2015, p.180.
90Cfr. Tosi P., cit., pp.168 ss.
91Alcuni dirigenti apicali hanno addirittura la determinazione del proprio trattamento in un contratto individuale, a prescindere dalla grandezza dell’impresa.
92Cass., Sez. Un., 6041/1995, cit.
categorie e livelli d’inquadramento
negligente ovvero quando vi siano state condotte che abbiano leso definitivamente il rapporto fiduciario necessario per il proseguo del rapporto di lavoro93.
93Cass. Sez. Un., 30 maggio 2007 n. 7880, in Guida Lav., 2007, pp.44 ss, Cass. 21 marzo 2011 n.6367, in Rep. Foro It., 2012, voce Lavoro (rapporto), p.381.
Capitolo II
La modifica delle mansioni
2.1 Le modifiche della disciplina dello jus variandi del datore di lavoro.
L’art. 2103 c.c. ha sempre previsto la possibilità per il datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti a quelle da egli svolte; proprio il concetto di equivalenza ha suscitato innumerevoli questioni giurisprudenziali e dottrinali.
La prima stesura dell’articolo in esame prevedeva (fermo restando la dicitura “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto” poi riportata in ogni novella del testo dell’articolo) la possibilità per il datore di lavoro di adibire il lavoratore in caso di necessità dell’impresa a mansioni differenti «purché ciò non comporti un mutamento sostanziale nella posizione di lui»; in tale ottica il potere di variare le mansioni in capo al datore di lavoro risultava essere notevole in quanto non erano presenti dei chiari limiti (se non quello di irriducibilità della retribuzione) al “livello professionale” delle mansioni alle quali il lavoratore poteva essere adibito.
Tale modestia di tutele risultava in linea con il panorama giuslavorista dell’epoca; non erano, infatti, ancora entrate in vigore le forti tutele contro il licenziamento illegittimo introdotte con lo statuto dei lavoratori, per tale motivo si era creata la tendenza da parte dei lavoratori ad accettare mutamenti di mansioni per non rischiare di perdere il proprio posto di lavoro.
Fu con la legge 23 maggio 1970 n. 300 che la situazione risultò notevolmente mutata; l’art. 13 della suddetta legge novellò completamente la disciplina, introducendo lo jus variandi orizzontale come unico possibile.
La modifica delle mansioni
Tale testo, infatti, prevedeva il diritto del lavoratore ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto ovvero a mansioni equivalenti alle ultime svolte94.
La comprensione del concetto di equivalenza ha presentato sin dall’inizio notevoli difficoltà, anche per effetto della nullità dei patti contrari espressa dall’ultimo comma della versione in esame della norma.
Importante dottrina riconobbe, infatti, che il limite dell’equivalenza sarebbe divenuto estremamente rigido nei vari orientamenti giurisprudenziali95.
Primo requisito dell’equivalenza rilevato dalla giurisprudenza è rappresentato dalla necessità che entrambe le mansioni che si intende considerare come equivalenti siano collocate allo stesso livello di classificazione dalla contrattazione collettiva96.
Già solamente con questo limite si esclude la possibilità che sia lecita l’adibizione a mansioni inquadrate in livelli inferiori97, nonostante talune autorevoli dottrine ritenessero possibile non escludere aprioristicamente l’eventuale adibizione dei lavoratori anche a mansioni inquadrate in un livello salariale inferiore98 (c.d. “equivalenza formale”).
Tuttavia non si ritenne sufficiente il mero rispetto dei livelli contrattuali; la nozione di equivalenza, infatti, si approfondì nel tempo, assumendo connotati sostanziali più che formali, cosicché gli interpreti si convinsero ben presto della necessità, ai fini dell’individuazione delle
94In tal caso si fa riferimento ad una eventuale promozione del lavoratore.
00Xxxxxxx X., I poteri dell’imprenditore, relazione all’Accademia dei lincei a Roma, 24-25 novembre 1975, poi riportato in Diritto e valori, Bologna, 1985, p. 404.
96In tal senso si veda Cass. 24 giugno 2014 n. 15769, in Riv. Giur. Lav., 2013, II, 611; Cass., Sez. Un., 24 novembre 2006, n. 25033, in Mass. Giur. Lav., 2007, p. 17; Cass. 8 giugno 2009 n.13173, in Rep. Foro it., 2009, Lavoro (Rapporto), n.1071.
97tra le tante Xxxx. 25 gennaio 2006 n. 1388, in Guida al lav., 2006, 36; Cass. 6 giugno 1995 n. 6333, in Not. Giur. Lav.,1995, 732.
98Persiani M., Prime osservazioni sulla disciplina delle mansioni e dei trasferimenti dei lavoratori,
in Dir. Lav., 1971, I, p. 16 ss.
mansioni alle quali il lavoratore possa essere adibito, di ricercare un’equivalenza della professionalità99.
In tal modo si cercava di superare la concezione di tutela solamente del trattamento retributivo del lavoratore, ma anche del suo patrimonio professionale tutelandolo come fosse “un bene infungibile da tutelare in forma specifica”100101.
Questa opzione interpretativa risulta certamente idonea a tutelare la professionalità, anche in senso extraeconomico, del lavoratore in quanto garantisce il completo utilizzo del corredo professionale acquisito durante tutta la propria esperienza lavorativa; tuttavia la comprensione di quelle che sono le effettive competenze lavorative risulta di estrema complessità, a maggior ragione nel momento in cui si vada a confrontare delle mansioni che pur essendo inquadrate in posizione analoga dalla contrattazione collettiva (e che magari richiedano entrambe lo stesso titolo specifico come conditio sine qua non per l’adibizione) siano completamente differenti nello svolgimento. Una tutela così stringente (arricchita col divieto pressoché assoluto di adibizione a mansioni considerate inferiori ovvero alla nullità dei patti contrari analizzati in seguito) porta all’assurda conseguenza di rendere più agevole al datore di lavoro l’intimazione licenziamento per giustificato motivo oggettivo piuttosto che la riqualifica del lavoratore nel caso di
esaurimento delle mansioni svolte da quest’ultimo.
99Tra le tante Xxxx. 29 settembre 2008 n. 2493, in Guida al lav., n. 42, p. 23 (nella quale si è ritenuta inammissibile l’equivalenza poiché con le nuove mansioni vi è era un forte rischio di fossilizzazione delle competenze del lavoratore); Cass. 26 luglio 2006 n. 17022, in Mass. Giur. Lav. , 2007 p.17; Cass. 4 ottobre 1995 n. 10405, in Foro it. ,1995, p. 3133; Cass. 13 febbraio 1980 n. 102, in Riv.
Giur. Lav., 1980, II, p. 619.
100Pisani C., La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Torino, 2015, p.16.
101Per una trattazione in materia di tutela giurisprudenziale contro il demansionamento illegittimo si veda cap. III
La modifica delle mansioni
2.2 Analisi della stesura originaria dell’art. 2103 c.c.
La prima stesura dell’art. 2103 c.c. enunciava sicuramente una disciplina molto liberale per quanto riguarda lo jus variandi consentendo al datore di lavoro di gestire il personale dell’impresa con ampi margini di autonomia.
In primo luogo la stesura originaria enunciava il principio della contrattualità delle mansioni102 (principio poi riportato in tutte le stesure successive dell’articolo).
Successivamente esso prevedeva la possibilità di modificare unilateralmente le mansioni senza modificare l’oggetto del contratto ai sensi degli artt. 1321 e 1372 c.x., xx xxxxx xxx xxxxxxxxx xxxxxxxxxxxx xxxxxxxx xxx xxxxxxxxx xx xxxxxx (xxxxxx xecondo la prevalente dottrina)103.
Le limitazioni preposte all’utilizzo di questo potere sono di due tipi: uno “positivo”, l’altro “negativo”104.
Per quanto riguarda il criterio positivo, questo si concretizzava nell’obbligo da parte del datore di utilizzare tale potere solamente a causa di esigenze dell’impresa (criterio che avrebbe dovuto escludere i rapporti di tipo personale tra il datore e i lavoratori); tuttavia tale disciplina si è dimostrata eccessivamente sbilanciata in favore del datore di lavoro105.
Il criterio negativo prevedeva la necessità di non arrecare al lavoratore alcun pregiudizio di carattere economico106, ovvero il diritto del lavoratore di mantenere (o acquisire) il trattamento retributivo migliore tra quelli relativi alle mansioni svolte in precedenza e quelle a cui sia stato successivamente
102«il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto».
103Giugni G., Xxxxxxxx e qualifica nel rapporto di lavoro, Napoli, 1963, p. 239, Liso F., La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, Milano, 1982, p. 142.
104Cfr. Xxxxxx X., Xxxxxxxxx X., Le mansioni del lavoratore: inquadramento e jus variandi. Mansioni, qualifiche, jus variandi, in Trattato di diritto del lavoro, a cura di Pexxxxxx X., Xxxxxxx X., XX, 0, p. 523.
105Giugni X. Xxxxxxxx e qualifica nel rapporto di lavoro, cit., p. 318.
106Primo esempio di irriducibilità della retribuzione.
adibito, e che la nuova adibizione non costituisse un «mutamento sostanziale nella posizione di lui».
Tale criterio è stato interpretato ritendendo che comportasse la possibilità di esercitare lo jus variandi da parte del datore di lavoro solamente quando l’adibizione fosse temporanea e che non fosse troppo differente da quella originaria107.
La tutela nei confronti del lavoratore era quindi circoscritta all’irriducibilità della retribuzione, tutela che risultava indebolita dalla possibilità di stipulare patti contrari108 e dalla prassi giurisprudenziale di considerare accettazione tramite fatti concludenti ex art. 1362 c.c. la mancata contestazione del lavoratore al mutamento delle mansioni109 (considerando la disparità del potere contrattuale tra datore di lavoro e lavoratore, il quale sarà successivamente ritenuto meritevole di tutele per il solo fatto di essere considerato come parte debole).
2.3 Considerazioni generali sull’art. 13 dello Statuto dei lavoratori.
La riforma del 1970 ha modificato fortemente la disciplina dello jus variandi del datore “blindando” il livello di inquadramento d’entrata del lavoratore, che doveva quindi essere considerato come un livello minimo al di sotto del quale il lavoratore non poteva essere assegnato; questo ha fatto sì che l’individuazione delle mansioni di “entrata” del lavoratore divenisse (come peraltro è ancora oggi) un fatto di estrema importanza, pur considerando che essa rappresenta solamente una ricostruzione contrattuale e non necessariamente un’elencazione esaustiva dei compiti del lavoratore all’interno dell’azienda110.
107Giugni X., Xxxxxxxx e qualifica nel rapporto di lavoro, cit., p. 327.
108«se non convenuto diversamente».
109Cass. 12 ottobre 1968 n. 3243, in Mass. Giur. Lav., p. 205.
110Cfr. Giungi G., Xxxxxxxx e qualifica nel rapporto di lavoro, cit., p. 116.
La modifica delle mansioni
Nonostante la mancata previsione di una forma specifica per il contratto di lavoro, è fatto obbligo del datore di lavoro il rendere conoscibile al lavoratore il proprio livello di inquadramento nella contrattazione collettiva111, anche attraverso consegna della comunicazione telematica inviata ai competenti servizi per l’impiego112.
La stesura “intermedia” presentava, inoltre, una formulazione differente per quanto riguarda le mansioni attribuibili al lavoratore: mentre nella stesura originaria era (letteralmente) l’imprenditore che poteva adibire il lavoratore a mansioni differenti, nella formulazione del 1970 si fa riferimento al fatto che il «lavoratore deve essere adibito...» sollevando una questione dottrinale in merito all’abrogazione o meno dello jus variandi113
La riformulazione sintattica della disciplina ha infatti portato una parte della dottrina a ritenere che l’adibizione a mansioni differenti non possa avvenire che per mutuo consenso114.
Tale (autorevole) corrente dottrinale è senza dubbio da considerarsi come fortemente minoritaria rispetto a quella che sostiene l’unilateralità del potere in capo al datore di lavoro, in quanto tale potere deve essere giustificato da «insopprimibili esigenze organizzative e direzionali»115.
L’ultima considerazione preliminare in merito all’art. 13 Stat. Lav. riguarda la sua posizione; il legislatore ha infatti inserito tale articolo nel titolo I dello Statuto, il quale essendo intitolato “della libertà e della dignità del lavoratore” fa comprendere l’importanza che il legislatore ha inteso attribuire all’istituto116.
111Ai sensi dell’art. 96 comma I disp. Att. C.c. e dell’art. 1 lett. f) d.lgs. n. 152/1997, che prevede l’obbligo di informare il lavoratore, seppur sommariamente, anche in merito alle caratteristiche e alle modalità di svolgimento del lavoro.
112Ex art. 40 II comma l. 133/2008.
113Brollo M., Vendramin M., xxx variandi, cit., 530-531.
114Suppiej G., Il potere direttivo dell’imprenditore e i limiti derivanti dallo statuto dei lavoratori, in
Riv. Dir. Lav., 1972, I, p. 35.
115Tra i tanti Romagnoli U., La disciplina del mutamento di mansioni e dei trasferimenti dei lavoratori, in Riv. It. Dir. Proc. Civ., 1971, p. 336, in giurisprudenza Cass. 23 gennaio 1988 n. 539, in Not. Giur. Lav., 1988, p. 313.
116Cfr. Xxxxxx M., Xxxxxxxxx X., xxx variandi, cit., p. 540.
2.4. L’equivalenza delle mansioni.
2.4.1. I criteri di equivalenza professionale utilizzati nell’art. 13 Stat. Lav.
Come espresso sopra la lettura giurisprudenziale del concetto di equivalenza delle mansioni ai fini dello jus variandi orizzontale, nella stesura del 1970, dà particolare peso all’equivalenza professionale delle mansioni.
Per questo motivo è necessario analizzare taluni fattori che pur non essendo direttamente attinenti con il mero effettuarsi delle mansioni che s’intendono confrontare in un eventuale giudizio di equivalenza svolgono un ruolo di centrale importanza.
Nella prassi è, infatti, spesso accaduto che la giurisprudenza abbia considerato non equivalenti posizioni simili per ciò che attiene alle mansioni svolte, ma dissimili con riferimento alle modalità di svolgimento.
Non sono ad esempio state ritenute equivalenti posizioni che differivano per la possibilità di progressione sia di carriera117 o in relazione al mero “bagaglio professionale”118; di particolare rilevanza è in tal senso l’opzione interpretativa espressa dalle Sezioni unite della Suprema Corte con sentenza n. 9408/2006, con la quale è stato esplicitato il diritto per il prestatore di lavoro (con il conseguente onere per il datore di lavoro) ad un costante accrescimento della propria esperienza lavorativa119.
Tale indirizzo era quindi atto a tutelare la c.d. “professionalità statica”, ovvero il saper fare del lavoratore indentificato come insieme di attitudini e competenze acquisite dal lavoratore nell’esercizio delle precedenti mansioni120.
117Cass. 10 giugno 1993 n.6464, in Giust. Civ., 1993, I, p. 2333; Cass. 16 marzo 1992 n. 3213, in
Not. Giur. Lav.,1992, p. 493.
118Cass. 29 settembre 2008 n.24293, in Giuda al lav., 2008, n. 42, p. 23 119Cass. S.U. novembre 2006 n.9408, in Mass. Giur. Lav., 2007, p. 17. 120Brollo M., Vendramin M., Jus variandi, cit., p. 542.
La modifica delle mansioni
Questa corrente giurisprudenziale era giustificata dalla circostanza che durante il primo periodo di vigenza dello statuto era ancora presente un modello produttivo di tipo “fordista-taylorista”, fortemente rigido e incline al garantismo121.
Tuttavia, nonostante questo apparente obbligo di crescita, non si è comunque considerato effettivo l’obbligo di formazione (ove ovviamente non sia quello l’oggetto del contratto) per adibire il lavoratore a mansioni equivalenti122; effettivamente nel caso di jus variandi orizzontale l’oggetto del contratto non si ritiene essere stato modificato e l’incapacità di una delle parti a adempiere alle obbligazioni che ne scaturiscano potrebbe essere già di per se un valido motivo di recesso.
La crescita professionale del lavoratore consentirebbe, tuttavia di adibirlo a mansioni di contenuto differente.
Sfruttando questo fattore, e considerando anche il momento di crisi economica degli anni ’70, si è tentato di passare ad una concezione “dinamica” della professionalità, improntata non più solo sul mero “saper fare”, ma anche sul “saper come fare”123.
Oltre alle innumerevoli pronunce di merito e, soprattutto, di diritto espresse dalla giurisprudenza in favore di una disciplina particolarmente rigida, si registrano taluni orientamenti, giurisprudenziali e dottrinali a sostegno di una maggiore flessibilità della disciplina.
In particolare si è tentato di eliminare quella situazione, quasi paradossale, per la quale risulta più agevole licenziare il lavoratore piuttosto che demansionarlo.
Come ad esempio alcune sentenze della Corte Suprema di Cassazione nelle quali si riteneva accettabile lo jus variandi orizzontale tra mansioni
121Brollo M., Vendramin M., Jus variandi, cit., p. 543.
122Obbligo che potrebbe invece essere constituito nel caso in cui il lavoratore sia adibito a mansioni superiori.
123Pizzoferrato A., Tutela della professionalità e organizzazione produttiva, in Riv. It. Dir. Lav.,
1994, II, p. 151.
impiegatizie e operaie (inquadrate comunque nel medesimo livello dalla contrattazione collettiva) quando i lavoratori fossero in possesso di una preparazione tecnica specifica (anche acquisita tramite la frequenza di corsi professionali) che consentisse loro di svolgere le mansioni in questione124.
In tal senso si è ritenuta legittima anche l’adibizione a mansioni non equivalenti, temporaneamente, con lo scopo di far acquisire al lavoratore una professionalità che permettesse un’adibizione a mansioni differenti (equivalenti alle prime)125.
Con sentenze di questo genere si esplicita che lo svolgimento di differenti mansioni, nell’ottica di una formazione professionale, potesse assumere forte rilevanza per stabilire l’equivalenza delle differenti mansioni con un incremento della mobilità consentita126.
In aggiunta vi sono pronunce127 che accettano un “baratto” tra una migliore posizione aziendale e la perdita di professionalità; in altre parole valutando entrambe le posizioni in toto128.
In questo senso correnti minoritarie hanno riconosciuto l’insussistenza dell’infrazione della norma di equivalenza quando il lavoratore conservi nel mutamento delle mansioni la medesima autonomia e le medesime responsabilità129.
Sono, inoltre, registrate talune sentenze che hanno dichiarato dequalificante lo svolgimento di mansioni con una percentuale di rischio e con un aggravio fisico maggiore130; nell’ultimo caso l’orientamento giurisprudenziale può essere condivisibile vista la particolare funzione delle
124Cass. 16 ottobre 1985 n.5098, in Giust. Civ., 1986, I, p.412.
125Cass. 1 settembre 2000 n. 11457, in Giuda al lav., 2000, n.41, p. 29; Cass. 2 maggio 2006 n.
10091, in guida al lav., 2006, nn. 32- 34.
126Pisani C., Formazione professionale «continua», equivalenza delle mansioni, giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in Mass. Giur. Lav., 2004, n.5, p. 36.
127Cass. 15 giugno 1983 n. 4106, in Giust. Civ., 1984, I, p. 233.
128Cfr. Pisani C., l’equivalenza delle mansioni nella giurisprudenza, in Mass. Giur. Lav., 2005, 8-9,
p. 599, nel quale si fa riferimento all’utilizzo di contesti desumibili dalla realtà aziendale.
129Cass. 16 giugno 2009 n. 13941, in Mass. Giur. Lav., 2010, n. 4, p. 122.
130Cass. 29 novembre 1984 n. 5921, in Riv. It. Dir. Lav., 1985, II, p.703, P. Milano 3 maggio 1994, in Orient. Giur. Lav., 1994, p. 278.
La modifica delle mansioni
indennità collegate alla particolare natura di talune mansioni; indennità che in virtù del propria particolare natura non sono neanche soggette al principio di irriducibilità della retribuzione espresso dall’articolo di cui questa trattazione è ad oggetto131.
Un orientamento più moderno della giurisprudenza, avallato da un’importante sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte di cassazione132, ha riconosciuto alla contrattazione collettiva (in questo caso addirittura di prossimità) la possibilità di prevedere delle “clausole di fungibilità funzionale”, adottando una nozione di “equivalenza professionale elastica”, dando la possibilità di attuare meccanismi rotativi nell’attuare lo svolgimento di mansioni differenti133.
Le difficoltà relative alla concezione di equivalenza espresse dall’art.
13 Stat. Lav. sono notevoli.
Esse risultano rafforzate, inoltre, dalla mancata possibilità, in concreto, per le parti sociali di definire chiaramente tutte le posizioni con una professionalità analoga (per quanto giurisprudenza e dottrina maggioritaria ritengono che come requisito minimo affinché due mansioni risultino equivalenti esse siano ricomprese nel medesimo livello all’interno della contrattazione collettiva134), unite alla nullità di patti contrari espressa dall’ultimo comma dell’articolo in questione, hanno, come tutte le norme ad efficacia vincolante a precetto generico.
Xxxxxxxx è inoltre riportare come questa concezione per certi versi evanescente della concezione di equivalenza professionale sia stata
131Vd. Cap. III.
132Cass., S.U., 24033/2006, in xxx.xxxxx.xx.
133Tiraboschi M., Xxxxxxxxx M., Disciplina delle mansioni, in Le nuove regole del lavoro dopo il Jobs act, Milano, 2016, p. 92.
134Nei primi anni di vigenza della norma si registrano accettazioni in merito alla possibilità che posizioni equivalenti possano essere individuate all’interno di livelli inferiori Persiani M., Prime osservazioni sulla nuova disciplina delle mansioni e dei trasferimenti dei lavoratori, in Dir. Lav., 1971, I, p. 16; Assanti C., Commento allo Statuto dei lavoratori, Padova, 1972, p. 143; in giurispudenza Pret. Monza 18 aprile 1972, in Mass. Giur. Lav., 1972, p. 611.
considerata come eccessivamente complessa dal Cnel già nel 1985135, il quale riteneva necessario che nell’art. 2103 c.c. «in ordine al concetto di equivalenza delle mansioni…dovrebbe essere inserito un esplicito rinvio alla contrattazione collettiva per la definizione in concreto del rapporto di lavoro di equivalenza».
Opinione che, a distanza di trent’anni, sarà effettivamente recepita all’interno del Jobs Act.
La corte con questa tipologia di pronunce ha senza dubbio tutelato anche la “professionalità extraeconomica” del lavoratore, evitando che sia adibito a mansioni che «non lo danneggino altrimenti nell’ambito del settore o socialmente»136 arrivando ad una concezione del tutto particolare del danno scaturente da un simile atteggiamento del datore di lavoro.
La giurisprudenza ha, infatti, oltrepassato il confine del danno derivante dalla non corretta esecuzione del contratto considerando, nello specifico, il danno da demansionamento come danno biologico esistenziale137; tale concezione rappresenta ovviamente una necessità di rilettura completa della disciplina, la quale assume un’importanza maggiore in quanto diviene quasi assimilabile ad un diritto fondamentale dell’individuo, e non solo del lavoratore andando quindi per certi versi oltre quello che è il mero diritto del lavoro.
2.4.2 La nuova concezione di equivalenza.
La modifica dell’art. 2103 c.c. effettuata dal governo Xxxxx ha come scopo (come tutto il “jobs act”) quello di semplificare la disciplina giuslavoristica.
135Cnel, Osservazioni e proposte sulla revisione della legislazione sul rapporto di lavoro, 4 giugno 1985, xxx.xxxx.xx , p. 748, sotto la presidenza di Xxxxx Xxxxxxx.
136Cass. 17 agosto 1998 n.7040, in Riv. It. Dir. Lav., 1998, II, p.276.
137vd cap. III.
La modifica delle mansioni
Tale semplificazione è stata operata mediante la riscrittura integrale dell’articolo, il quale con la sua lunghezza di ben nove commi (contro il precedente di soli tre) si pone come scopo quello di semplificare attraverso la previsione, e la conseguente regolamentazione, di più fattispecie possibili nel medesimo articolo in modo tale da avere una sola legge a cui fare riferimento per la materia, quasi come a voler avere un “testo unico” (interessante notare come il legislatore abbia abrogato, tuttavia, solamente l’art. 13 Stat. Lav. e non le altre norme in materia).
Il governo, dopo aver definitivamente superato (per i nuovi assunti) l’art. 18 Stat. Lav., è intervenuto modificando fortemente (per tutti i lavoratori) la disciplina dello jus variandi, cercando di “armonizzarla” con le altre novità introdotte con i decreti attuativi del “jobs act” e recependo taluni orientamenti giurisprudenziali (es. “patto di demansionamento” espresso nel sesto comma dell’articolo, di cui si tratterà più avanti).
Sembra inoltre opportuno sottolineare come la disciplina sia immediatamente applicabile all’entrata in vigore della norma e come questa si applichi anche ai “vecchi assunti” (al contrario del contratto a tutele crescenti) causando inevitabilmente dibattiti giurisprudenziali in merito ai fatti avvenuti “a cavallo” tra le due ultime stesure138.
Si avverte fin da subito la volontà del legislatore delegato di adempiere lo scopo enunciato al comma 7 dell’art. 1 della l. 10 dicembre 2014, il quale prevedeva l’esigenza di una riforma che rendesse i contratti di lavoro
«maggiormente coerenti con le esigenze del contesto occupazionale e produttivo».
Contesto fortemente diverso rispetto al passato per vari fattori: primo tra tutti l’avvento dell’era digitale la quale modifica profondamente le prestazioni e le modalità di lavoro, distaccandosi dal modello “taylorista- fordista”, sul quale trova fondamento lo Statuto dei lavoratori.
138Si veda cap. III.
Con il nuovo testo si cerca quindi di andare incontro alle nuove esigenze del contesto occupazionale e aziendale, con la “sacrificabilità” della professionalità dei lavoratori divenuti inutili ai fini della produttività dell’azienda a fronte di una maggiore salvaguardia occupazionale e retributiva139.
In primo luogo si evince un forte tentativo di rendere agevole l’individuazione delle mansioni a priori che possano essere considerate equivalenti, attraverso la nuova dicitura «mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento» la quale risulta essere, in concreto, molto più precisa rispetto al concetto di mansioni “equivalenti” tanto apprezzato dalla giurisprudenza maggioritaria.
In questo modo sarà quindi possibile ridurre il contenzioso, in quanto sarà esclusa la possibilità da parte del giudice di effettuare controlli “soggettivi” in merito alla professionalità delle singole mansioni140.
Tale modifica si evince dal primo comma del nuovo testo: «il prestatore di lavoro deve essere adibito… a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte»; il testo quindi, sostanzialmente, demanda alla contrattazione collettiva quello che è l’individuazione della gerarchia delle mansioni «qualunque sia il loro contenuto oggettivo»141.
Nella visione della disciplina del Governo la prestazione di lavoro esigibile dal datore di lavoro deve essere delimitata per relationem dal livello di inquadramento del contratto collettivo142.
A livello formale quindi non sembrerebbe esserci una forte modifica rispetto alla stesura del 1970 (in quanto anche con la precedente norma alcuni
139cfr. Brollo M., Disciplina delle mansioni, in Commento al d.lgs. 15 giugno 2015 n.81: le tipologie contrattuali e lo jus variandi, ADAPT Labour Studies e-book series. N.48.
140Cfr. Xxxxxxx A., Mutamento di mansioni e disciplina dello jus variandi, in Dir. E Prat. Lav., 2015, n.27/2015, p. 1685.
141Racchi L., Collaborazioni continuate e continuative e disciplina delle mansioni, in Diritto e pratica del lavoro, 29/2015, p. 1778.
142Amendola F., La disciplina delle mansioni nel d. lgs. 81/2015, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx, 291/2016, p. 8.
La modifica delle mansioni
autori erano arrivati ad un’analoga concezione di equivalenza143), ma a livello sostanziale si evince fortemente la volontà del legislatore di abbandonare la rigida concezione giurisprudenziale di equivalenza professionale trattata nel sottoparagrafo precedente.
Si passa quindi da un concetto di equivalenza sostanziale ad un concetto di equivalenza inteso in senso formale; simile a come già avveniva per il pubblico impiego a norma dell’art. 52 d.lgs n. 165/2001144.
In questo senso è possibile considerare il concetto di equivalenza anche come eliminato145 (in effetti il termine nella nuova norma non compare), in quanto non viene fatto alcun giudizio in merito, riducendo fortemente la funzione del giudice in materia, il quale non potrà più effettuare un controllo di merito146.
Cambia quindi l’oggetto della tutela: da una professionalità “acquisita” e maturata nel tempo in un determinato contesto aziendale ad una professionalità «contrattuale e calata nell’alveo dell’organizzazione aziendale e del mercato di riferimento»147.
In un certo senso cambia anche l’oggetto del contratto di lavoro poiché il lavoratore è obbligato ad una prestazione ricompresa nel proprio livello di inquadramento e non più ad una prestazione che richieda una professionalità specifica.
In questo senso vi è una forte ampiamento del concetto di “chiarezza” dell’oggetto poiché essa rimane comunque «l’unica garanzia a disposizione delle parti per prevedere e misurare i confini e le modalità delle obbligazioni rispettivamente assunte»148.
143Tra tutti Persiani M., Prime osservazioni sulla nuova disciplina delle mansioni e dei trasferimenti dei lavoratori, cit., p. 16
144«Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento…».
145Amendola F., La disciplina delle mansioni nel d. lgs. 81/2015, cit., p. 8.
146Speziale V., Processo del lavoro, certezza del diritto, certezza del diritto ed effettività delle tutele, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”, 257/2015, p. 12.
147Brollo M., Disciplina delle mansioni, cit., p. 51.
148Pessi R., Diritto del lavoro e categorie civilistiche, in Diritto del lavoro e categorie civilistiche
a cura di Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx G., Atti del Seminario di studio svoltosi a Roma il 26 maggio 1990,
Questo in virtù del fatto che il datore di lavoro può richiedere una pluralità di mansioni in virtù del proprio potere di specificazione149
È quindi il contratto collettivo150, sia che esso sia nazionale o di secondo livello, il vero limite che sarà utilizzato ai fini della mobilità orizzontale, limite tuttavia accresciuto dalla rinnovata importanza alle categorie legali attribuita dal legislatore all’interno dell’articolo151.
Suggestiva, in questo senso la ricostruzione di parte autorevole della dottrina152, la quale afferma che «per superare le rigidità e le incertezze del passato (il legislatore) scommette su un cambio di protagonista principale: dal giudice alle parti collettive».
In questo modo il sistema di inquadramento della contrattazione collettiva supera definitivamente il mero scopo di determinazione del trattamento corrispondente ad ogni lavoratore; arrivando ad essere considerato come «strumento di determinazione dell’area del debito di prestazione del lavoratore»153 .
Naturalmente tale disposizione fornisce ulteriore centralità alla contrattazione collettiva la quale sembra essere procedere sempre di più in due direzioni: verso una maggiore autonomia nella regolamentazione degli istituti e verso una maggiore decentralizzazione154 che dovrebbe consentire una regolamentazione maggiormente idonea alle vicissitudini lavorative
presso l’Istituto di Diritto del Lavoro della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università “La Sapienza” di Roma, Torino, 1992, p. 136.
149Pessi R., Contributo allo studio della fattispecie del lavoro subordinato, Torino, 1989, p. 47. 150Il quale con la sua natura di atto di concerto tra datore di lavoro e sindacato dovrebbe essere idoneo a evitare abusi dell’istituto.
151la quale, come si vedrà in seguito, è il più limite legale, non derogabile alle parti, per il mutamento unilaterale delle mansioni.
152Brollo M., Disciplina delle mansioni, cit., p.57.
153Liso F., Xxxxx osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta nel decreto legislativo n. 81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, Working Paper CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx, 2015, p.8.
154Favorita anche da interventi normativi, come ad esempio la previsione di un welfare aziendale non cumulabile tra i redditi da lavoro.
La modifica delle mansioni
delle singole aziende155, giustificando in tal senso gli ampi poteri in materia di regolamentazione dello jus variandi in capo alle parti sociali156.
L’utilizzo del contratto collettivo per la determinazione dei livelli di inquadramento, così come voluto dal legislatore, necessiterà probabilmente di talune modifiche ai livelli di inquadramento di alcuni contratti collettivi, nonché alle categorie legali (la cui declinazione concreta, come noto, è demandata dall’art. 2095 c.c. alle parti sociali157); ed infatti, la contrattazione collettiva ancora utilizza – in alcuni casi158– un sistema unico d’inquadramento, e da ciò potrebbe derivare, attraverso il combinato disposto dei commi 1, 2 e 4 della nuova stesura dell’art. 2103 c.c., un potere di modifica unilaterale delle mansioni estremamente ampio.
Le ragioni che hanno portato il legislatore all’utilizzo di un sistema obsoleto della classificazione del personale quale l’art. 2095 c.c. possono essere individuate nella volontà di superare una corrente giurisprudenziale159 la quale riteneva equivalenti alcune mansioni operaie con quelle impiegatizie nei sistemi di inquadramento unico160.
Secondo parte della dottrina, tuttavia, è probabile che la giurisprudenza (la quale è stata ormai privata del proprio giudizio di sindacabilità della professionalità) intenderà soffermarsi sulla corretta applicazione dell’art. 2095 c.c., in virtù di differenti tutele proprie di alcune categorie legali,
155 Proposto un nuovo modello per la contrattazione collettiva da parte delle confederazioni sindacali, xxxx://xxx.xxxxxxxxxxxxxxxx.xx/xxxxxxxx-xxxx/xxxxxxx-xxxxxxxxx/xxxxxxxx-xx-xxxxx- modello-per-la-contrattazione-collettiva-da-parte-delle-confederazioni-sindacali.
156A tal proposito, si noti come la contrattazione di prossimità sia anche idonea ad arginare le problematiche relative all’efficacia soggettiva del contratto collettivo, per quanto come enunciato da Xxxx. 16 gennaio 1986 n. 260, l’accettazione da parte del lavoratore del contratto collettivo attraverso il contratto individuale vincola il lavoratore all’accettazione anche delle modifiche contratto collettivo, anche quando egli sia dissenziente.
157Si veda cap. I.
158es. contratto collettivo Fiat.
159Cass. 2231/1984, cit.
160cfr. Xxxxxx X., Appunti irriverenti sui nuovi decreti attuativi della riforma del lavoro, in xxx.xxxxxxxxxxxx.xx, nel quale si fa riferimento al fatto che il concetto di “irriducibilità della categoria legale” non fosse presente all’interno della bozza di decreto.
dichiarando «la nullità della clausola collettiva che abbia erroneamente inquadrato una certa mansione in una categoria anziché in un’altra»161.
Tale lettura della norma, seppur condivisibile nel momento in cui prevede limitazioni nello jus variandi quando esso possa essere utilizzato (affiancato ad una contrattazione collettiva con un sistema di inquadramento molto scarno) quasi come un mezzo strumentale da parte del datore di lavoro162.
Tuttavia, affinché il giudice possa pronunciarsi su l’illegittimità di clausole simili dovrebbe infatti essere varata una riforma dell’art. 2095 c.c. nella quale vengano individuati dei criteri oggettivi per l’individuazione delle varie categorie (riforma tuttavia impossibile da attuare in quanto una norma simile porterebbe ad un eccessivo formalismo e non sarebbe comunque idonea alla regolamentazione di tutte le figure di prestatori di lavoro163), ovvero il giudizio di legittimità dovrebbe mantenersi a “controlli interni”164. Questa eventuale interpretazione giurisprudenziale potrebbe quindi trovare solamente un fondamento sociale nell’intento di limitare l’arbitrarietà del datore di lavoro nell’adibizione alle mansioni equivalenti dovuta al fatto che tali cambiamenti non necessitano di giustificazioni165, salvo il rispetto
dei principi di correttezza e buona fede.
Con questa nozione di equivalenza, la norma favorisce senza dubbio la capacità del lavoratore di saper fare “altre” cose, e quindi l’entrata nel mercato del lavoro di individui propesi al cambiamento e all’adattamento; con l’evidente conseguenza di minori casi in cui il lavoratore si troverebbe ad essere “inutilizzato” all’interno dell’azienda166.
161Pisani C., La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, cit., p. 39.
162Ichino P., il lavoro ritrovato, Milano, 2015, p.112.
163Per una trattazione più esaustiva dell’argomento si rinvia al cap. I.
164Fermo restando l’assenza di un assoluto principio di parità di trattamento nella regolamentazione dell’impiego privato.
165Le motivazioni del mutamento sono da considerarsi insindacabili, se riferite a mansioni equivalenti.
166Cfr. Xxxxxx M., disciplina delle mansioni, cit., p. 32.
La modifica delle mansioni
2.5 Adibizione unilaterale a mansioni inferiori.
2.5.1 La modifica dell’oggetto della prestazione lavorativa.
Rimanendo nell’ottica che il contratto di lavoro è comunque un normale contratto di diritto civile e, come tale, stipulato nella sua interezza da almeno due parti (con la necessità di rendere l’oggetto dello stesso determinato ovvero determinabile), non può prescindersi dal fatto che la modifica dell’oggetto è da considerarsi legittima solamente quando solamente quando vi è il mutuo consenso delle parti167.
Lo stesso jus variandi del datore di lavoro, pertanto - in tale ottica – potrebbe, secondo una interpretazione molto restrittiva, considerarsi illegittimo poiché l’adibizione a mansioni differenti sarebbe una modifica dell’oggetto del contratto e come tale necessiterebbe del consenso del lavoratore.
Tale problematica travolgerebbe anche l’adibizione a quelle che sono mansioni equivalenti; la giurisprudenza, tuttavia, ha sempre ritenuto legittimo un potere del datore di lavoro di modifica orizzontale della posizione lavorativa, ritenendo, infatti, che l’adibizione a mansioni equivalenti non debba essere considerata come una modifica del contratto.
La nuova disciplina dello jus variandi “orizzontale”, con la differenza della concezione di inquadramento così come espressa nel comma I dell’articolo in esame, fa sì che si possa ritenere, a partire dall’entrata in vigore della norma, ampliato (per effetto della legge e non per volontà delle parti) l’oggetto del contratto, il quale ora ricomprende tutte le mansioni inquadrate in un medesimo livello.
167Cfr. Xxxxx X., Lezioni di diritto del lavoro, Torino, 2012, p. 273.
2.5.2 L’adibizione a mansioni inferiori prima della riforma del 2015.
L’adibizione a mansioni inferiori è senza dubbio la questione più importante espressa all’interno di ogni stesura dell’art. 2103 c.c.
La concezione di questa possibilità da parte del datore di lavoro ha subito nel corso del tempo delle sostanziali modifiche.
In un primo momento essa era consentita nella maggior parte dei casi: la formula estremamente generica contenuta nella stesura del 1942 consentiva al datore di lavoro di adibire il lavoratore a «ad una mansione diversa, purché essa non comporti una diminuzione della retribuzione o un mutamento sostanziale della posizione di lui».
Appare evidente che la norma non faceva alcun riferimento alla gerarchia delle mansioni, fornendo al datore di lavoro uno jus variandi quasi illimitato; si osservi, infatti, come gli unici limiti erano rappresentati dal principio della irriducibilità della retribuzione e dalla dicitura «mutamento sostanziale della posizione di lui», la quale era interpretata nel senso della necessità del rispetto della categoria legale di appartenenza.
Come già detto sopra tale norma risultava essere in linea con le altre tutele previste all’epoca nei confronti dei lavoratori.
Con l’avvento dello Statuto dei lavoratori l’adibizione a mansioni inferiori è divenuta illegittima, anche nel caso di esaurimento delle mansioni di appartenenza ovvero di volontà dello stesso lavoratore ad essere adibito alle mansioni in questione168, con le conseguenze di cui sopra.
Sempre nel caso di esaurimento ovvero di riduzione della professionalità della mansione, il testo previgente non prevedeva alcuna possibilità per il datore di lavoro di ridurre la posizione del lavoratore, trovandosi in questo modo tra un licenziamento per giustificato motivo oggettivo e un demansionamento illegittimo; solo orientamenti più moderni
168in realtà la giurisprudenza ha ammesso talune ipotesi nelle quali il demansionamento può essere considerato legittimo, di cui si tratterà in seguito.
La modifica delle mansioni
hanno concesso deroghe alla illegittimità della dequalificazione quando questo rappresenti l’unica alternativa al licenziamento169.
Si fa riferimento a tal proposito, per quanto riguarda la tutela del diritto alla salute espresso dall’art. 32 Cost., al diritto della lavoratrice madre ad essere adibita a mansioni che non risultino essere pregiudizievoli alla salute sua e del bambino170 e a quello del lavoratore divenuto inidoneo allo svolgimento della mansione a causa di infortuni o malattie171 di essere adibito a mansioni differenti in alternativa al licenziamento.
In un primo momento anche l’adibizione temporanea a mansioni inferiori era considerata illegittima172; possibilità che tuttavia è stata concessa nel caso in cui ci si trovi in situazioni di emergenza e l’adibizione deve essere comunque temporanea e episodica173.
Successivamente, come anticipato in precedenza, l’adibizione a mansioni inferiori è stata ritenuta legittima ove finalizzata a far acquisire una differente professionalità al lavoratore.
La Suprema Corte di cassazione ha in questo senso ha osservato che può risultare legittima una rotazione di mansioni, anche non equivalenti, allo scopo di “aggiornare” il personale poiché «per il riferimento dell’equivalenza al patrimonio professionale del lavoratore, non è vietata la rotazione su mansioni tipicamente non equivalenti. Intesa la rotazione secondo il significato comune del termine, come avvicendamento secondo un ordine ciclico, essa può comportare, se la durata del ciclo è sufficientemente breve, un arricchimento professionale; il carattere ciclico dell’alternanza implica, se le mansioni non sono tipicamente equivalenti, che a mansioni più
169Vd. dopo repechage.
170Art. 3 l. 1204/1971 assorbita dall’art. 7 d. lgs. n. 151/2001, di cui si tratterà più approfonditamente in seguito.
171Art. 42 d. lgs. 81/2008.
172Cass. 19 giugno 1982 n. 3767, in Mass. Giur. Lav., 1983, p. 27; Cass. 16 luglio 1986 n. 4602, in
Not. Giur. Lav., 1986, p. 722.
173Cass. 20 gennaio 1987 n. 491, in Juris data.
elevate succedano dopo un certo numero di spostamenti mansioni inferiori»174.
Tale ipotesi risulta essere particolarmente innovativa, in quanto consente la possibilità di “imparare” e quindi di “progredire” per il lavoratore, senza che il datore di lavoro possa essere soggetto ad un contenzioso per dequalificazione illegittima.
Autorevole dottrina175, nell’analizzare la sentenza, sostiene la necessità che «la finalità formativa non si esaurisca nel meccanismo di avvicendamento tra i lavoratori interessati, ma faccia parte di un processo di riqualificazione esteso, presumibilmente contenente anche un’adeguata quantità di ore di formazione teorica o teorico-pratica».
Tale orientamento è stato recepito dal governo all’interno del VI comma dell’art. 3 d. lgs. 81/2015 nel quale si prevede la possibilità di stipulare patti modificativi dell’oggetto del rapporto allo scopo di far acquisire al lavoratore un differente livello di professionalità; riservando la disciplina al solo mutuo consenso delle parti.
Sono state previste anche alcune deroghe al divieto di demansionamento a tutela dell’occupazione, in accordo con l’art. 4 Cost.; l’art. 4 l. 223/1993, infatti, prevede la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni “differenti” (quindi anche inferiori) nei casi in cui questi sarebbe altresì soggetto a procedure di mobilità ovvero di riduzione del personale, tuttavia solamente nel caso in cui ciò sia definito da un accordo sindacale ad hoc176, il quale si ritiene possa regolamentare anche un adeguamento del trattamento economico177.
Anche la giurisprudenza ha alla fine ammesso delle ipotesi di deroga, questa volta considerando l’adibizione a mansioni inferiori come definitiva,
174Cass. 9 aprile 1992 n. 4314, in Riv. It. Dir. Lav., 1993, II, p. 287.
175Gargiulo U., La revisione della disciplina delle mansioni nel Jobs act, 2014, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx Collective Volumes 3/2014, p. 107.
176Cass. 7 settembre 2000 n. 11806, in RIDL, 2001, II, p. 275.
177Brollo M., La mobilità interna del lavoratore, in Commentario al codice civile, diretto da Xxxxxxxxxxx P., Milano, 1997, p. 216-233.
La modifica delle mansioni
al divieto imposto dall’art. 13 Stat. Lav. nel caso in cui «giustificati motivi di deroga»178 rappresentino il male minore179.
Il nuovo testo varato dal d.lgs. 81/2015, pur mantenendo inalterato il principio di irriducibilità della retribuzione, prevede tre ipotesi nelle quali il lavoratore può essere adibito a mansioni inquadrate in un livello inferiore dalla contrattazione collettiva: al comma II si prevede che nel «caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidano sulla posizione del lavoratore» egli possa essere adibito a mansioni di un livello di inquadramento inferiore; nel IV comma si prevede invece la possibilità che la contrattazione collettiva possa individuare ulteriori fattispecie al verificarsi delle quali sia possibile adibire il lavoratore a mansioni inferiori; e infine al VI comma si prevede la possibilità di stipulare accordi con il lavoratore nei quali sia possibile modificare totalmente gli elementi del rapporto (la giurisprudenza aveva già predisposto una fattispecie analoga ricorrendo all’istituto civilistico della novazione del contratto ex art. 1230 c.c.)180.
2.5.3 L’adibizione a mansioni inferiori nel caso di modifica degli assetti aziendali che incidano sulla posizione del lavoratore.
La nuova disciplina appare innovativa per il solo fatto di regolamentare l’adibizione a mansioni inferiori; le stesure precedenti, infatti, o regolamentavano l’adibizione a mansioni differenti o prevedevano il divieto di tale ipotesi.
000Xxxxxx X., La qualità del lavoro dovuto e il suo mutamento, in xxxx://xxx.xxxxxx.xx.xx/Xxxxxxxxxxxx/xxxx/xx_xxxxx.xxx/0/000000000X000X00X0000XX0000XX0 E1/$FILE/Ichino_qualità%20del%20lavoro.pdf
179cfr. Amoroso G., Commento all’art. 13, in Amoroso G., Di Cerbo V. e Xxxxxxx A., Il diritto del lavoro. Statuto dei lavoratori e disciplina dei licenziamenti, II, Milano, 2004.
Vd. Dopo e cap. III
180Vd. infra.
Tale ipotesi è evidentemente finalizzata ad agevolare i mutamenti organizzativi delle imprese181.
L’art. 3 d. lgs. 81/2015 risulta essere una regolamentazione esaustiva della materia182.
Come detto sopra, una delle maggiori novità del nuovo testo dell’art. 2103 c.c. è rappresentata dalla possibilità di adibire unilateralmente il lavoratore a mansioni inquadrate in un livello inferiore.
Il II comma stabilisce che nel caso di «modifica degli assetti aziendali che incidano sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere adibito a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore»; tale norma – seppur con tutte le incertezze derivanti dalla sua recente emanazione183 – appare consentire un superamento dei confini dell’equivalenza in tutti i casi in cui ciò sia richiesto da modifiche degli assetti aziendali.
L’incidenza delle modifiche sulla posizione del lavoratore secondo
«dovrebbe indurre a ritenere che il presupposto di tale modifica sia in ogni caso quello dell’impossibilità di continuare a far svolgere il prestatore le mansioni assegnate, per esempio nell’ipotesi in cui dal riassetto organizzativo derivi la soppressione del posto di lavoro»184, e quindi presupporre l’alternatività della misura al licenziamento.
Secondo altri la genericità della definizione non presupporrebbe la necessità di utilizzare tale forma in alternativa al licenziamento né che vi sia una comprovata crisi aziendale185
181Zumbo A. D., Xxxxxxxx E., Il nuovo regime dei contratti flessibili e la disciplina delle mansioni,
in Pessi R., Sigillò Xxxxxxx G. Jobs act. Prime riflessioni e decreti attuativi, Roma, 2015, p. 49.
182Tiraboschi M., Xxxxxxxxx M., Disciplina delle mansioni, cit., p. 95.
183Vi sono già alcune pronunce giurisprudenziali che utilizzano il nuovo testo, tuttavia data la complessità della materia per avere dei riscontri oggettivi (anche in merito alla legittimità costituzionale della norma) sarà comunque necessario aspettare il formarsi di orientamenti consolidati.
184Mimmo G., Xxxxxxxx, La riscrittura di uno dei capisaldi del diritto del lavoro, in Speciale Sole24ore, luglio 2015, p. 20.
185Voza R., Autonomia privata e norma inderogabile nella nuova disciplina del mutamento di mansioni, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”, 262/2015, p. 7.
La modifica delle mansioni
Questa nuova possibilità per il datore di lavoro risulta essere l’effettiva novità apportata dal Governo Xxxxx; infatti, mentre il primo comma sembra rappresentare solamente una specificazione del testo previgente, il secondo, il terzo e il sesto rappresentano delle effettive novità in quanto l’inquadramento inferiore delle nuove mansioni avrebbe già rappresentato un’illegittimità dell’attribuzione con la vecchia normativa in quanto è evidente che una mansione inquadrata ad un livello inferiore non possa essere considerata come equivalente186.
Anche qui, come la nuova regolamentazione dell’equivalenza delle mansioni di cui al comma I, si intende utilizzare ai fini dell’individuazione delle mansioni alle quali il lavoratore possa essere adibito criteri oggettivi e formali: infatti, in primo luogo è necessario che sia succeduto un evento tale da rendere necessarie modifiche aziendali (tuttavia tale evento può essere determinato dalla mera volontà dell’imprenditore la quale non può essere sindacata se non violando l’art. 41 Cost.) in secondo luogo devono essere presenti delle mansioni in solo livello inferiore e che tale livello non sia attribuito a una differente categoria legale.
Il lavoratore avrà inoltre diritto a mantenere la retribuzione precedente (ad eccezione degli elementi legati alle particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa) e il precedente livello di inquadramento (seppur in questo caso diverrebbe incongruente con quello a cui il lavoratore sia effettivamente adibito).
Non è tuttavia utilizzabile qualunque mutamento aziendale per utilizzare lo jus variandi in pejus; infatti il plurale utilizzato (mutamenti degli assetti aziendali) fa presupporre che le modifiche non si debbano esaurire con la modifica di una singola posizione ma che comportino vari mutamenti aziendali i quali dovrebbero un intervento di carattere generale , sul lay-out
186Sono tuttavia presenti pareri contrari in dottrina (come espresso sopra).
dell’impresa187, anche se nulla vieta che sia un solo lavoratore a subire gli effetti del cambiamento188.
Le ipotesi alle quali (considerando la legge di delega)189 si ritiene che il legislatore faccia riferimento sono quelle della crisi aziendale190 ovvero della soppressione della posizione lavorativa occupata dal lavoratore in questione, fattispecie che secondo l’art. 3 l. 604/1966 poteva legittimare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo (licenziamento per motivi economici), per il quale la giurisprudenza aveva previsto l’obbligo del tentativo di repêchage191, il quale poteva dare risultati simili alla nuova stesura dell’art. 2013 c.c.
Ci si potrebbe chiedere a questo punto dove sia l’effettivo elemento innovativo apportato dalla riforma.
In primo luogo non si dovrebbe sottovalutare come un orientamento giurisprudenziale, seppur molto consolidato, abbia efficacia solamente sino a quando gli stessi giudici decidano di non disattendere tale orientamento, non fornendo certezze assolute (fornendone comunque alcune ragionevoli) in merito all’interpretazione e all’applicazione delle disposizioni legislative. In secondo luogo la norma come riformulata dalla riforma garantisce il potere di adibire unilateralmente a mansioni inferiori anche quando non sia
un’alternativa all’extrema ratio del licenziamento.
Sono, infatti, presenti delle incongruenze tra il nuovo art. 2103 c.c. e la legge di delega del 10 dicembre 2014, n. 183; l’art. 1 c. VII, alla lettera e) prevedeva, infatti, la delega al Governo all’adozione di norme che consentano la «revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati
187Racchi L., Collaborazioni continuate e continuative e disciplina delle mansioni, in Dir. E Prat. Lav., 2015, 29/2015, p. 1779.
188Pisani C., La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, cit., p.71.
189Si veda più avanti.
190Nel testo entrato in vigore non risulta obbligatorio che il mutamento degli assetti aziendali sia dovuto a crisi aziendali.
191Il repêchage sarà analizzato più approfonditamente nel corso del III capitolo.
La modifica delle mansioni
sulla base di parametri oggettivi…», in quanto tale terminologia sembra richiamare l’art.1 comma 3 della l. 223/1991, con l’(almeno) apparente scopo di utilizzare la futura riforma quasi come misura alternativa al licenziamento collettivo, necessità che non appare obbligatoria nei requisiti per esercitare i poteri di cui al comma II.
La precisione degli elementi giustificatori per l’utilizzo della disciplina individuati nella legge delega potrebbe non essere compatibile con il generico «modifica degli assetti aziendali» presente nel testo definitivo192, non sembra quindi essere necessaria ai fini del demansioniamento unilaterale una situazione di crisi aziendale superando la possibile causa giustificatrice di questa modifica unilaterale dell’oggetto del contratto individuata nell’alternativa al licenziamento, in aggiunta al fatto che non sono stati individuati dei parametri oggettivi così come richiesti dalla norma.
Tornando all’analisi della nuova normativa, il singolare utilizzato dalla norma in merito alla quantità di livelli inferiori ai quali risulta possibile ricondurre delle mansioni attribuibili al lavoratore (al livello di inquadramento inferiore) lascia presupporre che il lavoratore possa “retrocedere” di solamente un livello all’interno della scala classificatoria presente nella contrattazione collettiva, sempre che tale livello non sia attribuibile ad una categoria legale inferiore.
Il comma III, oltre alla già citata irriducibilità della retribuzione prevede anche il diritto per il lavoratore di mantenere il precedente inquadramento scindendo, di fatto, in questo modo l’inquadramento formale del lavoratore e quello effettivo.
Ciò potrebbe essere intrepretato, tuttavia in tal caso vi sarebbe un forte aumento del contezioso non conciliabile con l’esigenza di semplificazione espressa dalla riforma, nel senso che l’adibizione a mansioni inferiori ex comma II art. 2103 c.c. sia da considerarsi come temporanea, con il
192Per un giudizio di costituzionalità sulla norma si veda più avanti.
conseguente diritto del lavoratore a essere riassegnato alle precedenti mansioni quando queste siano di nuovo disponibili193, anche se su tale ipotesi sono vi sono delle opinioni discordanti194.
Altro limite all’utilizzo di tale potere da parte del datore di lavoro è rappresentato dall’obbligatorietà di comunicazione, mediante forma scritta ad substantiam, senza, tuttavia, alcun obbligo espresso di fornire la motivazione.
Nel caso di mancanza di forma scritta l’assegnazione a mansioni inferiori sarebbe da considerarsi nulla, con la conseguenza che il lavoratore potrebbe legittimamente rifiutarsi di svolgere la propria prestazione lavorativa poiché essa risulterebbe non dovuta in ragione della nullità dell’atto di assegnazione.
Naturalmente la causa giustificatrice potrebbe essere richiesta in un eventuale giudizio195.
Il lavoratore che fosse adibito alle nuove mansioni solo oralmente potrebbe tuttavia svolgere la prestazione di caratura inferiore, in questo caso il lavoratore avrebbe un regime diverso di retribuzione.
Il principio di irriducibilità della retribuzione viene confermato in questa stesura dell’articolo, risultando peraltro ancor più vincolante, in quanto applicabile anche qualora il lavoratore svolga mansioni inferiori, con conseguente differenza tra quantità e qualità del lavoro prestato e retribuzione percepita dal lavoratore (inerente ad una posizione superiore).
Tuttavia, la norma esclude dalla retribuzione tutti quegli elementi che siano strettamente legati alla natura della prestazione; nel caso di nullità della prestazione tale norma non interverrebbe e il lavoratore avrebbe diritto al pieno mantenimento della retribuzione196.
193Gargiulo U., Lo jus variandi nel “nuovo” art. 2103 x.x., xx xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx, x.0.
000Xxxxxx C., la nuova disciplina del mutamento delle mansioni, cit., p. 77, nella quale si afferma la non necessità di costituire una sorta di diritto di “repechage” delle mansioni svolte in precedenza. 195La mancanza di obbligatorietà della motivazione comunque non derogherebbe all’obbligo della sua sussistenza.
196Cfr. Pisani C., La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, cit., p.73.
La modifica delle mansioni
Il datore di lavoro potrebbe comunque sanare tale vizio di forma comunicando per iscritto la modifica dell’inquadramento al lavoratore, tuttavia perché ciò sia lecito la condizione di cui al comma II deve essere ancora persistere.
Ultimo limite è rappresentato dal III comma del nuovo art. 2103 c.c. il quale, oltre a regolamentare l’adibizione a mansioni inquadrate dal contratto collettivo ad un livello superiore, sancisce anche l’obbligo di formazione (ove essa fosse necessaria) nel caso in cui il lavoratore fosse adibito a mansioni non equivalenti197, tuttavia senza che il mancato adempimento di tale obbligo possa rendere l’adibizione alle nuove mansioni nulla.
2.5.4 Le ipotesi di demansionamento presenti all’interno della contrattazione collettiva.
Il quarto comma dell’art. 2103 c.c. ha amplificato notevolmente l’autonomia collettiva in materia.
Nel comma in esame si prevede, infatti, che «ulteriori ipotesi di mansioni appartenenti ad un livello di inquadramento inferiore, possono essere previste da contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».
Alcuni autori hanno sostenuto come questa ulteriore ipotesi di adibizione unilaterale a mansioni inferiori potesse risultare come complementare alla prima ipotesi contenuta nella legge delega198; nel senso che dovesse ampliare gli orizzonti di modifica degli assetti aziendali che non siano ristrutturazione, riorganizzazione o conversione199
197Dell’obbligo formativo si tratterà in seguito.
198Si veda 2.9.
199Amendola F., La disciplina delle mansioni nel d. lgs. 81/2015, cit., p. 20.
I limiti al demansionamento per questa ipotesi sono gli stessi dell’ipotesi di modifica degli assetti aziendali.
La nuova norma prevede quindi la possibilità che la contrattazione collettiva preveda più ipotesi nelle quali sarà possibile adibire il lavoratore a mansioni inferiori, con l’unico limite che la previsione di tali ipotesi sia fatta in concerto con delle delegazioni che abbiano una forte rappresentatività sul piano nazionale.
Benché non espressamente citato dall’articolo in esame, il d.lgs. 81/2015 prevede all’art. 51 talune disposizioni in merito ai criteri che i contratti collettivi devono avere per essere considerati idonei ai fini dell’applicazione del decreto; in tale norma si considerano contratti collettivi, quelli stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quelli stipulati dalla rappresentanza sindacale aziendale e dalla rappresentanza sindacale unitaria, aumentando il potere del contratto di II livello in modo tale da evitare (o quanto meno arginare) il crescente fenomeno del dumping sociale sulla contrattazione collettiva nazionale200.
Senza dubbio il legislatore ha voluto prevedere per la contrattazione collettiva un simile potere in virtù del suo generale scopo di « realizzare il miglior con temperamento possibile delle esigenze del lavoro e di quelle della produzione»201
La stesura di una norma del genere è di per sé molto innovativa, in quanto “rompe” il divieto di patti contrari contenuto nell’art. 13 Stat. Lav. che aveva portato tante problematiche (di cui si tratterà in seguito).
Tuttavia tale normativa ha già un precedente storico nell’art. 8 d.l. n.
138/2011, convertito in l. n. 148/2011.
200Costantino&partners, Proposto una nuova piattaforma per la contrattazione collettiva, cit. 201Pessi R., L’efficacia del diritto del lavoro e l’autonomia privata collettiva, in RIDL, 2009, I, p. 69.
La modifica delle mansioni
Tale articolo prevedeva la possibilità da parte della contrattazione di prossimità di realizzare specifiche intese, a talune condizioni202, con il datore di lavoro nei confronti di tutti i lavoratori, anche quelli non sindacalizzati, in deroga alla legge in talune materie (tassativamente indicate nel II comma dell’articolo) tra le quali le mansioni, l’inquadramento e la classificazione del personale203.
Tuttavia tale ampiezza di discrezionalità da parte della contrattazione collettiva ha sollevato alcuni dubbi in dottrina204circa la legittimità costituzionale della norma.
Inoltre la norma non ha raggiunto i risultati sperati, in quanto si registrano pochissimi casi di utilizzo dell’art. 8 e ancor meno della deroga sulla disciplina delle mansioni205; un esempio di utilizzo potrebbe essere l’accordo Trelleborg Wheel Systems Italia S.p.A. del dicembre 2011.
La volontà da parte delle parti sociali di attuare una contrattazione collettiva più agile si era già avvertita con la firma da parte di Confidustria, Cisl e Uil di un accordo interconfederale avvenuta il 16 novembre 2012 nel quale venivano fatte delle richieste al Governo e al Parlamento al fine di far crescere la produttività e la competitività in Italia.
In tale documento le parti sociali si impegnano, al punto VII, a ridefinire in sede di contrattazione collettiva l’affidamento alla stessa contrattazione
«una piena autonomia negoziale rispetto alle tematiche relative all’equivalenza delle mansioni, all’integrazione delle competenze, presupposto necessario per consentire l’introduzione di modelli organizzativi più adatti a cogliere e promuovere l’innovazione tecnologica e
202La norma fa riferimento all’emersione del lavoro sommerso, ad una maggiore occupazione, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, a incrementi di produttività e salario all’avvio di nuove attività e soprattutto alla gestione di crisi aziendali e a sostegno dell’occupazione.
203Tale norma è da considerarsi assorbita dal nuovo art. 2013 c.c.
204Vallebona A., Dubbi di costituzionalità per la nuova disciplina del mutamento delle mansioni, in
Massimario di giurisprudenza del lavoro, n. 1-2, p.7.
205Tiraboschi M., Xxxxxxxxx M., La disciplina delle mansioni, in Le nuove regole del lavoro dopo il Jobs act, a cura di Xxxxxxxxxx M., Milano, 2016, p. 91.
la professionalità necessarie a alla crescita della produttività e della competitività aziendale».
Impossibile non percepire in questo testo come, oltre alla maggiore associazione datoriale, anche due delle maggiori confederazioni sindacali abbiano riconosciuto l’importanza di derogare alla contrattazione collettiva, e non ad un giudice, le norme in merito all’organizzazione aziendale e, di conseguenza, la forte obsolescenza della norma contenuta nello Statuto dei lavoratori.
2.5.5 Le motivazioni che possono aver spinto il legislatore a riformare la disciplina.
Come si è visto la riforma ha senza dubbio fornito molti mezzi di modifica unilaterale delle mansioni, rompendo quasi totalmente con la disciplina estremamente stringente dello Statuto dei lavoratori.
La vecchia norma, infatti, forniva un carattere di forte incertezza alla disciplina in quanto si fondava su un parametro generale a contenuto obbligatorio.
In altri termini il datore di lavoro non aveva mai la possibilità di gestire esaurientemente la forza lavoro della propria impresa, poiché ogni mutamento poteva essere considerato come una violazione della professionalità da parte del giudice206.
Le fortissime tutele previste dallo statuto dei lavoratori avevano portato all’attuazione di un meccanismo particolare in cui vi era un sovra utilizzo di contratti precari207 per le nuove assunzioni (in quanto forme contrattuali come la XX.XX.XX., tempo determinato, ecc. hanno senza dubbio una disciplina molto più flessibile, e pertanto favorevole per il datore di lavoro).
206Si noti come ciò comportava sia una sorta “di spada di Xxxxxxx” per l’imprenditore, che come minimo doveva sostenere le spese legali scaturenti dal contenzioso circa l’atto di adibizione.
207Con i relativi svantaggi previdenziali per i lavoratori.
La modifica delle mansioni
Si era dunque creata quindi una situazione in cui si richiedevano
«sacrifici alla generazione futura per la protezione di quella esistente»208.
Pertanto il Governo, nel riformare la disciplina del lavoro, ha tentato di creare un apparato legislativo che dia dei risultati quantomeno prevedibili.
La nuova disciplina, infatti, punta sempre su dei fattori oggettivi, pertanto il datore di lavoro oggi può effettivamente conoscere quali siano le mansioni assegnabili ad ogni dipendente.
Ciò rappresenta, senza dubbio, un forte tentativo da parte del legislatore di andare verso un regime di certezza e conoscibilità del diritto209.
Inoltre la riforma sembra aver rafforzato moltissimo la contrattazione collettiva con la conseguenza che «forse può prospettarsi un inizio rinnovato, in cui la riattribuzione dei ruoli determini il recupero dell’efficienza originaria dell’ordinamento sindacale, nell’equo bilanciamento degli interessi in campo»210.
È comunque innegabile che uno degli scopi della riforma sia quello di ritrovare un equilibro «tra persona e impresa nel Diritto del lavoro»211
Per quanto riguarda la disciplina dell’adibizione a mansioni inferiori, questa è in primo luogo un recepimento degli ordinamenti giurisprudenziali che hanno derogato il 2103 c.c. per alcune motivazioni inerenti alla configurazione del licenziamento come extrema ratio.
Senza dubbio la contrattazione collettiva potrebbe non “essere pronta” ad utilizzare il nuovo apparato normativo.
208Pessi R., Il notevole inadempimento tra fatto materiale e fatto giuridico, in Pessi R. Sigillò Xxxxxxx G. Jobs act. Prime riflessioni e decreti attuativi, Roma, 2015, p. 2.
209Per quanto riguarda la conoscibilità del diritto si veda Xxxxx Xx Xxxxx, La certezza del diritto, Roma 1942, mentre per quanto riguarda la necessità di adoperare fattori oggettivi nel diritto del lavoro Ichino P., Il lavoro ritrovato, cit.
210così Pessi R., Prime riflessioni sui decreti attuativi del Jobs act, in Pessi R., Pisani C., Xxxxx G., Vallebona A., Jobs act e licenziamento, Torino, 2015, p. 15, a proposito del d. lgs. 23/2015.
211Pessi R., Persona e impresa nel diritto del lavoro, in Aa. Vv. Diritto e libertà: studi in memoria di Xxxxxx Xxxx’Xxxx, Torino, 2008, pp. 1238 ss.
Alcune contrattazioni, come quella della FIAT, hanno predisposto il
c.d. inquadramento unico (nel caso specifico si autodefinisce inquadramento unico sperimentale).
La contrattazione in esame ad esempio, pur avendo una composizione senza le categorie legali con le relative problematiche, utilizza moltissime declaratorie le quali potrebbero risultare di facile lettura per quanto riguarda l’individuazione di un livello specifico su cui fondare un confronto di equivalenza formale.
La contrattazione per le “imprese di pulizia servizi integrati- multiservizi, attua un sistema di raggruppamento di figure professionali piuttosto che delle vere e proprie declaratorie, infatti pur non avendo formalmente un inquadramento unico pone impiegati e operai sul medesimo piano, ciò potrebbe comportare una maggiore difficoltà nel riconoscere l’effettiva appartenenza ad un livello piuttosto che ad un altro.
2.6 I patti contrari.
La disposizione dell’art. 13 dello statuto dei che ha senza dubbio creato più problematiche è senz’altro il II comma, nel quale si prevede la nullità dei patti contrari.
Le conseguenze di questa nullità sono già state parzialmente illustrate all’inizio del presente capitolo.
Il legislatore del 1970 ha senza dubbio ritenuto opportuno porre tale divieto nell’interesse del lavoratore, con l’effettivo risultato di una tutela molto efficace212; tuttavia vi sono taluni casi in cui è lo stesso lavoratore che potrebbe necessitare un’adibizione a mansioni di caratura inferiore.
212Per la trattazione in merito alla tutela giurisprudenziale e alla sua evoluzione si veda il capitolo seguente.
La modifica delle mansioni
La giurisprudenza213 proprio per venire incontro a queste potenziali esigenze del lavoratore è ricorsa all’utilizzo dell’istituto civilistico della novazione del contratto ex art. 1230 x.x.
0.0.0 xx xxxxxxx xxx xxxxx contrari ex art. 13 Stat. Lav.
Il II comma dell’art.13 Stat. Lav. prevedeva la nullità di ogni patto, che sia esplicito ovvero implicito, che realizzi direttamente una variazione in pejus del livello delle mansioni del lavoratore, sia rispetto a quelle di assunzione che a quelle acquisite successivamente durante il rapporto di lavoro214.
Una tale rigidità ha tuttavia portato anche a situazioni non convenienti a lavoratore, pregiudicandone o quantomeno mettendone a rischio la permanenza presso la struttura aziendale.
Dottrina e giurisprudenza hanno quindi cercato di individuare delle fattispecie particolari nelle quali sia possibile derogare la disciplina, nonostante il divieto previsto espressamente dalla norma.
La più formale di queste correnti215 ritiene comunque tali patti nulli, prospettando come unica soluzione il licenziamento del lavoratore al quale dovrebbe seguire una successiva riassunzione con un contratto di lavoro nel quale sia prevista la nuova qualifica; ammesso che il datore di lavoro riesca a superare la presunzione del carattere fittizio di questo nuovo contratto216.
Una seconda corrente ritiene, invece, lecita tale previsione di demansionamento solamente nell’eventualità che il lavoratore non risulti più fisicamente idoneo alla mansione precedente, evidenziando come la rilevanza costituzionale del bene della salute debba essere considerata
213Es. Cass. 26 febbraio 2009 n. 4670, in xxx.xxxxxxxxxxxx.xx. Analizzata nel xxxxx xxx xxxxxxxxx. 000Xxx. Liso F., la mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, Milano, 1982, p.187 ss. 215Scognamiglio R., Osservazioni sull’art. 13 sullo statuto dei diritti del lavoratore, in Orient. Giur. Lav., 1972, p.499; Grandi M., La mobilità interna, in strumenti e limiti della flessibilità, Milano, 1986, x.000 xx.
000Xxxx. 25 febbraio 1988 n. 2007, in Xxxx xx., Xxx., 0000, xxxx Xxxxxx (xxxxxxxx).
prevalente rispetto al divieto di dequalificazione, anche perché le nuove mansioni non dovrebbero essere considerate dequalificanti poiché corrispondenti alla nuova capacità professionale del lavoratore217.
Tale fattispecie è stata successivamente disciplinata dal legislatore con la legge 688/1999 e con il d.lgs. 81/2008218.
Un’ulteriore tesi utilizzata per consentire un’adibizione a mansioni di livello inferiore è quella teleologica, secondo questi patti sono legittimi in quanto stipulati nell’esclusivo interesse del lavoratore219 (sempre per lo scopo di conservazione del posto di lavoro)220.
Anche la giurisprudenza, dopo un’iniziale tendenza all’applicazione formale del divieto dei patti di demansionamento, anche nei casi in cui sia il lavoratore a richiedere l’adibizione a mansioni inferiori221; ha riconosciuto la legittimità di utilizzare patti “novativi” del rapporto nell’interesse del lavoratore222.
2.6.2 La nuova disciplina dei patti di demansionamento.
Il nuovo art. 2103 c.c. recepisce l’esigenza (sovraesposta) di rendere legittimi degli accordi personali tra il datore di lavoro ed il lavoratore con i quali sia possibile modificare completamente l’inquadramento, con i suoi relativi effetti, del lavoratore223.
000Xx Xxxx Xxxxxx X., La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Napoli, 1976, p. 231; una dottrina più specifica di questa corrente è rappresentata da Pessi R., Accertamento dell’idoneità psicofisica del lavoratore allo svolgimento delle mansioni contrattuali e legittimità del patto modificativo in pejus delle stesse, in Dir. Lav., 1978, II, p. 12, nel quale si individuano anche modalità d’accertamento dell’inidoneità attraverso l’art. 5 Stat. Lav.
218Vd. Infra.
219Rispetto all’ipotesi precedente, il lavoratore non ha una sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione ma un mero interesse professionale.
000Xxxxxx X., Interesse dell’impresa, progresso tecnologico e tutela della professionalità, in Riv. Giur. Lav., 1976, I, p. 490.
221Tra le tante Xxxx. 6 giugno 1985 n. 3372, in Not. Giur. Lav., 1985, p. 648; Cass. 5 aprile 1984 n. 2231, in Giust. Civ., 1985, I, p.163.
222Cass. 23 gennaio 1988 n. 539, in Not. Giur. Lav., 1988, p. 313.
223Si noti come la legge delega non aveva previsto una modifica simile.
La modifica delle mansioni
La nuova norma sembra che, per certi versi, riporti in auge la disciplina in vigore prima dell’avvento dello statuto dei lavoratori, nella quale s’indicava chiaramente una liberalità pressoché assoluta nello stipulare simili patti tra datore e prestatore di lavoro.
Sembra comunque opportuno ricordare come nel testo del 1970 era in vigore anche la dicitura «salvo che ciò non comporti un mutamento sostanziale della posizione di lui», limite eliminato nel caso di utilizzo di quest’ipotesi.
Difatti tali patti possono comportare un décalage del livello di inquadramento, senza i limiti dei commi II e IV (un solo livello nel limite della categoria legale e senza riduzione della retribuzione)224
Il legislatore delegato, tuttavia, sembra comunque riconoscere la diversa forza contrattuale del datore di lavoro rispetto a quella del lavoratore e per questo motivo ha cercato di inserire dei limiti (come nei casi precedenti), personali e procedurali, che dovrebbero servire a evitare (o almeno limitare) l’abuso di questo istituto.
I limiti “personali” sono rappresentati dalle diciture «nell’interesse del lavoratore», il quale può corrispondere solamente, pena nullità del patto225, alla «conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o miglioramento delle condizioni di vita»; con tale impostazione si ravvisa come la tutela dei degli interessi indicati debba essere considerata prevalente rispetto alla tutela della professionalità e della posizione lavorativa226.
Affinché il patto sia valido, è sufficiente che sia presente anche una sola motivazione tra quelle previste dall’articolo, tuttavia, tali motivazioni devono essere chiaramente espresse dall’accordo, per consentire un eventuale
224Cfr. Zumbo A.D., Xxxxxxxx E., Il nuovo regime dei contratti flessibili e la disciplina del mutamento delle mansioni, cit., p. 50.
225Pisani C., La nuova disciplina sul mutamento delle mansioni, cit., p. 87, in cui la mancanza dell’interesse del lavoratore corrisponderebbe alla nullità del patto ex art. 2103 c.c. IX comma.
226Cfr. Brollo M., Disciplina delle mansioni, cit., p.77.
giudizio di corrispondenza della nuova posizione con le esigenze del lavoratore227.
È evidente come in questo modo si cerchi di mettere tale strumento nelle mani del lavoratore e solo indirettamente nelle mani del datore (al quale sono stati già attribuiti poteri di modifica unilaterale delle mansioni in caso di esigenze aziendali).
In merito all’«interesse alla conservazione dell’occupazione» il legislatore delegato (termine improprio vista l’assenza nella legge delega di una disposizione simile) ha ritenuto quindi opportuno l’utilizzo di patti simili ai patti di novazione sovra esaminati per fornire al datore di lavoro una concreta alternativa al licenziamento, per questo motivo si ritiene che debba essere data prova all’interno del patto dell’altrimenti inevitabilità del licenziamento, il quale secondo eccellente dottrina dovrebbe essere per giustificato motivo oggettivo228, in quanto sarebbe un recepire il vecchio orientamento giurisprudenziale; tuttavia, per quanto la ratio della norma sia presumibilmente questa, un’interpretazione letterale del testo non preclude l’alternatività del patto ex comma VI di qualsiasi forma di licenziamento, anche per giusta causa; sarà poi onere del lavoratore dimostrare l’illegittimità del licenziamento al fine di evitare che venga fatto un abuso dell’istituto.
Per quanto riguarda l’acquisizione di una “nuova professionalità” il legislatore ha ritenuto opportuno inserire quest’ipotesi nel nuovo testo normativo, nonostante l’adibizione a mansioni gerarchicamente superiori sia un potere che è sempre stato concesso al datore di lavoro (potere arricchito da quello di adibizione a mansioni formalmente equivalenti introdotto nel comma I), pertanto si ritiene che anche tali patti debbano intendere l’adibizione a livelli di inquadramento inferiori; per tale motivo potrebbe risultare difficile comprendere come una dequalificazione possa essere compatibile con il concetto di professionalità (sia formale che sostanziale);
227Pisani C., La nuova disciplina sul mutamento delle mansioni, cit., p. 88.
228Pisani C., La nuova disciplina sul mutamento delle mansioni, cit., p. 89.
La modifica delle mansioni
tuttavia la norma fa riferimento non ad una “maggiore” ma ad una “diversa” professionalità, dicitura che fa invece comprendere come un lavoratore possa avere interesse a stipulare patti modificativi dell’oggetto del proprio contratto di lavoro229.
Ultima causa giustificatrice individuata dal comma IV è quella rappresentata dall’esigenza del lavoratore di migliorare le proprie esigenze di vita.
Il legislatore ha, senza dubbio, concesso al lavoratore un mezzo alternativo alle dimissioni nel caso in cui il livello di stress derivante dall’eccessiva fatica o dalle troppe responsabilità derivanti da una posizione lavorativa fosse eccessivo per il lavoratore.
In questo caso l’onere della prova è completamente diverso rispetto alle ipotesi precedenti (soprattutto rispetto alla prima) in quanto il datore di lavoro non potrebbe essere in alcun modo obbligato a provare le esigenze del lavoratore, le quali essendo personali (e potenzialmente non oggettive) risulterebbe impossibili da provare.
Il lavoratore in questo caso potrebbe eccepire in giudizio i tipici vizi del consenso.
Oltre alla limitazione dell’utilizzo dell’istituto alle sole ipotesi prospettate il Governo ha inserito l’ulteriore requisito dell’obbligatorietà di stipulare tali accordi solamente nelle c.d. “sedi protette”, configurabili nelle sedi di conciliazione di cui all’art. 2113 c.c.230 ovvero avanti alle commissioni di certificazione.
229Anche in questo caso l’interesse del lavoratore dovrebbe configurarsi nel preservare la propria posizione lavorativa.
230«Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’art. 409 del codice di procedura civile, non sono valide.
L’impugnazione deve essere preposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima.
Le rinunzie e le transazioni di cui ai commi precedenti possono essere impugnate con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a renderne nota la volontà.
Le disposizioni del presente articolo non si applicano alla conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185, 410, 411, 412-ter e 412-quater del codice di procedura civile».
Anche tale requisito è stato introdotto per la necessità di tutelare il lavoratore in quanto “parte debole” dell’accordo.
La sede protetta, infatti, è idonea a garantire almeno la correttezza formale del patto.
L’articolo prevede inoltre la possibilità (e non l’obbligo che invece sussiste per la stipulazione dell’accordo in sede protetta) per il lavoratore di farsi assistere per la firma del patto da un avvocato, da un consulente del lavoro o da un rappresentate dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato231; in questo modo dovrebbe essere garantita non la convenienza del patto (la quale, tuttavia, non può dirsi neanche scoraggiata) per il lavoratore, ma almeno la piena conoscenza degli effetti derivanti dello stesso, con la conseguenza di eliminare, o quanto meno ridurre fortemente, il contenzioso che potrebbe derivare da tali patti.
Per quanto riguarda l’effettiva portata di questi patti l’assenza di una norma analoga nella legge di delega unita alla recenza della norma, fanno sì che non si conoscano gli effettivi limiti di questi patti.
Nulla vieta, ad esempio, una funzione analoga al secondo comma (adibizione a mansioni inferiori, senza diminuzione della retribuzione) quando non siano pervenute modifiche dell’assetto aziendale, o che esse non incidano sulla posizione del lavoratore232.
Inoltre questi patti potrebbero anche non essere considerati come definitivi; si potrebbe ritenere, ad esempio che la validità del patto possa persistere (in analogia all’ipotesi di cui al comma II) solamente in costanza della condizione giustificatrice233; tuttavia la norma, non prevedendo alcun limite temporale, sembra lasciare ampi margini alle parti in merito alla durata del patto.
231Tale elenco è da considerarsi come esaustivo.
232In questo potrebbe anche essere utilizzato come mezzo alternativo per non dover provare la sussistenza dei requisiti di cui al xxxxx XX (accettando la tesi secondo cui l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro sia intesa come più generale).
233Pisani C., La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, cit., p.89., l’autore in questo caso non condivide tale ipotesi ma la prospetta.
La modifica delle mansioni
Anche in questo caso si ritiene che la soluzione più razionale sia quella di considerare tali accordi come definitivi (a maggior ragione in questa ipotesi, considerata la forte assistenza prevista per la parte contrattuale ritenuta più debole).
Tuttavia anche in questo caso l’emanazione ancora troppo recente della norma e la sua genericità sui limiti che questi patti possano avere (non si rileva nella norma alcun limite “contrattuale”) portano a considerare lecito qualsiasi cambiamento (nei limiti della contrattazione collettiva e della legge) nel rapporto di lavoro (orario, retribuzione, inquadramento ecc.).
La possibilità di patti contrari (sia per la contrattazione collettiva che per gli accordi individuali) rappresenta senza dubbio una grande novità; tuttavia si ritiene auspicabile un’azione, mediante interpretazioni autentiche e/o decreti attuativi, di chiarificazione da parte del legislatore al fine di evitare la possibilità che in giurisprudenza si ricada nel formalismo che, con la riforma della normativa sul lavoro, si è tentato di eliminare.
2.7 L’adibizione a mansioni superiori.
Come visto sopra, il legislatore e la giurisprudenza si sono sempre interrogati su come preservare la professionalità del lavoratore.
Per questo motivo sarebbe incoerente porre dei limiti (o degli ostacoli) all’adibizione a mansioni che apportino una maggiore professionalità al lavoratore.
Anche in questo caso la nuova adibizione deve essere considerata come una modifica dell’oggetto del contratto e, come tale, soggetta al mutuo consenso di tutte le parti cui si rivolge la modifica; tuttavia la legge ha sempre regolato la materia con la presunzione (nella maggioranza dei casi fondata)
che il lavoratore (che anche in questo caso è considerato come parte debole) abbia interesse a essere inquadrato in una posizione superiore234.
Si riscontrano, tuttavia, talune correnti dottrinali che sostengono che il mutamento dell’oggetto avvenga solamente quando si ravvisi una volontà novativa delle parti235, non essendo incompatibile con il permanere del rapporto originario236.
La volontà novativa può essere anche tacita, ma deve risultare palese; la mancanza del Tfr ad esempio potrebbe essere un elemento che certifica la sua inesistenza237.
La prima stesura dell’art. 2103 c.c., rimanendo sempre in un’ottica di grande liberalità, non disciplinava espressamente la fattispecie ma, in maniera analoga alle mansioni inferiori, concedeva la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni differenti rispetto a quelle di assunzione, senza che queste potessero comportare un mutamento sostanziale nella posizione del lavoratore, con la garanzia per quest’ultimo di percepire la retribuzione più elevata tra quelle relative alle mansioni precedenti e quelle successive.
La facoltà di stipulare patti contrari, inserita all’inizio dell’articolo, garantiva la possibilità di effettuare qualsiasi mutamento dell’oggetto quando vi fosse il mutuo consenso.
2.7.1 L’adibizione a mansioni superiori ex art.13 Stat. Lav.
Oltre ad aver sancito il divieto di demansionamento e ad aver regolamentato la “mobilità orizzontale”, l’art. 13 Stat. Lav. ha regolamentato anche la “mobilità verticale” la quale poteva, ovviamente, considerato il
234Fermo restando le problematiche derivanti da un inquadramento “eccessivo” espressi nel Cap. I.
235Cass. 2 giugno 1998 n. 5399, in Rep. Foro it., 1998, in Contratti agrari, n. 85.
236Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2004, p. 583, Giugni G., Xxxxxxxx e qualifica nel rapporto di lavoro, Napoli, 1963, p. 387.
237Giugni X., Xxxxxxxx e qualifica nel rapporto di lavoro, cit., p.387.
La modifica delle mansioni
divieto di dequalificazione, avvenire esclusivamente verso l’alto (ovvero verso mansioni inquadrate in livelli superiori).
Nel primo comma, infatti, era stabilito il diritto del lavoratore ad essere adibito a mansioni che fossero «corrispondenti a alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito»; con categoria superiore doveva intendersi non solo la categoria legale ex art. 2095 c.c., ma anche la categoria contrattuale (il livello di inquadramento)238.
La norma regolamentava qualunque modalità di adibizione mansioni superiori, a prescindere dalla modalità di inquadramento e promozioni previste dalla contrattazione collettiva239.
Rientravano in questa disposizione anche quelle adibizioni che non erano ancora avvenute ma a cui il lavoratore avesse diritto240, anche se tale diritto si riferisse solamente un aumento della retribuzione e non una modifica delle mansioni241.
In tale modo si intendeva garantire anche la corrispondenza tra le mansioni effettivamente svolte e inquadramento del lavoratore242.
Le mansioni acquisite, quindi, dovevano intendersi come proprie del lavoratore, con la conseguenza che una successiva adibizione alle mansioni di assunzione doveva intendersi come dequalificazione, e come tale, illegittima.
Lo jus variandi del datore di lavoro si concretizzava anche nella possibilità che il lavoratore possa essere adibito solo temporaneamente a mansioni di livello superiore.
Il III comma infatti prevedeva la possibilità per il datore di adibire il lavoratore a mansioni superiori per un periodo non superiore ai tre mesi
238Liso F., La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, cit., p.144.
239vd. Cap. I.
240Liso F., La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, cit., p.144 ss.
241Scognamiglio R., Xxxxxxxx e qualifiche dei lavoratori, in Nss. D. I., Appendice, IV, Torino, 1983, p. 1103 ss.
242Maresca A., La promozione automatica del prestatore di lavoro secondo l’art.13 dello Statuto dei lavoratori, in Riv. Giur. Lav., 1978, I, p. 413.
(periodo di tempo che poteva essere ridotto dalla contrattazione collettiva), senza che questa potesse considerarsi come definitiva (quasi come fosse un periodo di prova).
Tale deroga sembra quindi lasciar intendere che la dicitura del comma I «ultime mansioni svolte» dovesse intendersi non come ultime mansioni svolte in linea temporale, ma come ultime mansioni alle quali il lavoratore è stato definitivamente adibito243 (anche tacitamente e per fatti concludenti).
La norma prevedeva inoltre delle droghe: in particolare, infatti, la promozione automatica non operava laddove l’adibizione a mansioni superiori fosse avvenuta per ragioni sostitutive244 (es. lavoratrice in maternità).
Come detto sopra, anche l’adibizione a mansioni superiori deve essere considerata come una modifica dell’oggetto del contratto e, come tale, soggetta al mutuo consenso delle parti, per questo motivo dottrina e giurisprudenza si sono a lungo interrogate sulla sussistenza o meno di uno jus variandi attinente alle mansioni superiori, considerando che un’interpretazione strettamente letterale della norma non sembrerebbe consentire al datore di lavoro di esercitare una simile facoltà unilateralmente, consentendo l’adibizione unilaterale a mansioni superiori solamente per esigenze sostitutive o per verificare l’effettiva capacità del lavoratore a svolgere mansioni superiori245.
Si rileva, inoltre, una posizione intermedia246, ma sempre molto affine ad una interpretazione letterale della norma, nella quale si prospetta la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni superiori quando tale spostamento sia da considerarsi come unico possibile, in relazione all’esigenze aziendali.
243Pisani C., Mansioni del lavoratore, in Enc. Giur., XIX, Roma, 1990, p.12.
244v.d. infra.
245Romagnoli U., in Ghezzi G., Xxxxxxx G. F., Xxxxxxxxx L., Romagnoli U., Statuto dei diritti dei lavoratori, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, lib. V, Del lavoro, Bologna-Roma, 1979, p. 244; Pret. Pisa, 27 agosto 1974, in Foro It., 1975, I, p. 1033.
246Sognamiglio X., Xxxxxxxx e qualifiche dei lavoratori, cit., p. 1113.
La modifica delle mansioni
A sostegno dell’unicità di tali ipotesi (con il conseguente mutuo consenso per l’adibizione a mansioni superiori) vi è il fatto che non vi è la presenza di alcuna disposizione che preveda esplicitamente tale potere unilaterale da parte del datore di lavoro.
In senso contrario si rileva247 come il legislatore abbia utilizzato il termine “assegnazione” a mansioni superiori, il quale sembrerebbe presupporre l’unilateralità della decisione sull’adibizione.
Tuttavia essendo lo jus variandi in melius una facoltà del datore di lavoro (la quale è profondamente differente rispetto agli obblighi di promozione, legali e contrattuali), ed essendo la tutela della professionalità uno degli obbiettivi principali dell’art. 13 Stat. Lav. (professionalità che non può che essere arricchita dallo svolgimento di mansioni superiori) unito al fatto che nella maggioranza dei casi vi è comunque un interesse del lavoratore a ricevere un inquadramento di livello superiore, non si registra un forte contenzioso in materia (contenzioso che assume un volume notevole quando il lavoratore voglia mantenere un inquadramento superiore a quello pattuito al momento dell’assunzione).
Non può tuttavia escludersi a priori, anche solo per esigenze di certezza del diritto, l’interesse del lavoratore a mantenere un livello d’inquadramento (con le rispettive mansioni) inferiore.
Considerando infatti che la nuova adibizione diviene definitiva alla scadenza del terzo mese (o del termine più breve fissato dalla contrattazione collettiva) potrebbe essere corretta la ricerca della volontà del lavoratore di accettare questo mutamento, seppur in melius, del proprio contratto di lavoro. Si ritiene infatti che il lavoratore, per evitare l’assegnazione definitiva potesse rifiutarsi di svolgere la prestazione attinente alle mansioni superiori
prima della scadenza del termine fissato dall’articolo in esame248.
247Liso F., La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, cit., p.194.
248Liso F., La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, cit., p. 200; in senso contrario Suppiej G., Il rapporto di lavoro, Padova, 1982, p.332 nel quale si sostiene che in assenza di espressa disposizione l’inquadramento superiore sarebbe definitivo ex tunc.
In questo modo sarebbero garantiti sia lo jus variandi temporaneo del datore di lavoro che il diritto a non avere modifiche non consensuali all’oggetto del rapporto per il lavoratore.
Considerata la difficoltà di dottrina e giurisprudenza a formulare un concetto unico di equivalenza delle mansioni, si ravvisano, di riflesso, difficoltà (seppur molto inferiori) anche nel determinare con certezza quali mansioni siano da considerarsi come superiori.
Tuttavia nella «mobilità verticale interna»249 il potere unilaterale di modifica delle mansioni del datore di lavoro poteva concretizzarsi nell’adibizione a mansioni che pur richiedendo una professionalità maggiore fossero inquadrate dalla contrattazione collettiva nel medesimo livello delle ultime svolte, senza che questa assegnazioni divenga definitiva250; nonostante ciò, nel caso in cui a tali mansioni considerate equivalenti corrispondesse un retribuzione superiore il lavoratore avrebbe diritto a mantenere il trattamento più elevato251.
Analogamente a quanto previsto per le mansioni equivalenti, anche in questo caso il criterio fondamentale non può che essere la contrattazione collettiva; se una mansione inquadrata in un livello più basso non può che essere considerata inferiore una inquadrata in una categoria più elevata non può che essere considerata come superiore252.
E sempre in concordanza con la disciplina delle mansioni equivalenti la giurisprudenza ha cercato di ritenere preminente il profilo professionale rispetto alle declaratorie del contratto collettivo, in quanto tali contratti sono
249Pisani C., Mansioni del lavoratore, cit.
250Cass. 18 gennaio 1983 n. 434, in Giust. Civ. mass., 1983.
251Ghera E., Mobilità introaziendale e limiti dell’art. 13 dello statuto dei lavoratori, in Mass. Giur. Lav., 1984, p. 400; Liso F., La mobilità del lavoratore: il quadro legale, cit. p. 203; in giurisprudenza Cass. 22 gennaio 1979 n. 496, in Foro It. 1979, I, p. 874; in senso contrario si veda Grandi M., la mobilità interna, cit., p. 271.
252Cass. 25 gennaio 1984 n. 603, in Giust. Civ., 1984, p. 3102; Cass. 10 dicembre 1982 n. 6765, in
Not. Giur. Lav., 1983, p. 24.
La modifica delle mansioni
improntati più sull’individuazione di figure professionali che sulla base di astratti contenuti professionali253.
La differenza fondamentale con le mansioni equivalenti risiede nel fatto che la giurisprudenza non ha oltrepassato i confini “formali” dei livelli di inquadramento della contrattazione collettiva, ma si è limitata a garantire al lavoratore il trattamento retributivo più elevato254.
Si esclude, generalmente, che la comparazione con lavoratori inquadrati in livelli superiori possa essere utilizzata per conferire il diritto alla promozione al lavoratore255, essendo assente nel nostro ordinamento un principio assoluto di parità di trattamento (fermo restando la proporzionalità della retribuzione ex art. 36 Cost. e quanto esposto nel cap.I).
Altro ostacolo alla comparazione è il fatto che oltre all’adibizione a mansioni superiori, per essere riconosciuto un livello di inquadramento maggiore, risulti necessario che al lavoratore devono essere attribuite anche le responsabilità e l’autonomia derivanti dalla posizione256.
Le problematiche espresse sino ad ora, in merito allo jus variandi in melius, sono naturalmente valide solamente fino a quando l’adibizione può essere considerata temporanea; infatti decorsi tre mesi (esclusi i casi di sostituzione esaminati più avanti) il lavoratore avrà comunque diritto a mantenere il livello di inquadramento (e la relativa retribuzione) corrispondente alle mansioni alle quali il lavoratore sia stato adibito.
Inoltre la stessa giurisprudenza si è espressa in merito ritenendo configurabile lo jus variandi in melius solamente quando il mutamento sia di natura temporanea257.
253Così Pisani C., La nuova disciplina sul mutamento delle mansioni, cit., p. 173 commentando Xxxx. 23 gennaio 2003 n. 1093, in Mass. Giur. Lav., 2003, p. 412.
254Cass. 12 marzo 2004 n. 5137, in Mass. Giur. Lav., 2004, p. 539.
255Liso F., La mobilità del lavoratore: il quadro legale, cit., p. 203; in giurisprudenza Cass. 23 settembre 1986 n. 5725, in Foro It. Rep., 1986, voce Lavoro (rapporto), n.777.
256Cass. 15 giugno 1987 n. 5285, in Xxxx xx., Xxx., 0000, xxxx Xxxxxx (xxxxxxxx), n. 967.
257Cass. 13 aprile 1996 n. 3494, in RIDL, 1996, II, p. 812.
Tra le conseguenze del mantenimento di questo livello impossibile trascurare il fatto che un eventuale giudizio di equivalenza per un’adibizione unilaterale a mansioni equivalenti sarà fatto sul nuovo livello di inquadramento e non sul quello corrispondente «alle mansioni per le quali (il lavoratore) è stato assunto».
2.7.1.1 I criteri per il computo del periodo utile ai fini della promozione automatica.
Tenendo conto delle conseguenze di un’adibizione definitiva, dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sui criteri di calcolo del periodo in cui il lavoratore possa essere riassegnato alle mansioni precedentemente svolte.
Come riportato sopra, la norma fissa un periodo massimo (la contrattazione collettiva ne può fissare uno più breve, ma per i quadri e i dirigenti l’art. 6 legge 13 maggio 1985 n.190) di tre mesi, non si fa tuttavia riferimento alla necessità continuità che questi siano o meno continui né al fatto che questi siano lavorativi (in questo caso sarebbero stati 90 giorni) o a tre mesi di calendario.
Almeno per quanto riguarda il primo interrogativo, giurisprudenza e dottrina sono concordi nel ritenere ragionevole che tale periodo debba essere continuativo258.
Naturalmente nel caso il datore di lavoro adibisca il lavoratore a mansioni superiori per periodi più brevi al solo scopo di impedire la maturazione del diritto del lavoratore a mantenere la qualifica, tale condotta sarà intesa come un negozio in frode alla legge259.
258Liso F., La mobilità del lavoratore: il quadro legale, cit., p. 206, Xxxxxxx A., La promozione automatica del prestatore di lavoro secondo l’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, cit., p. 442; in giurisprudenza Cass. 23 dicembre 1983 n. 7596, in Xxxx xx., Xxx., 0000, xxxx Xxxxxx (xxxxxxxx), n. 1092, Xxxx. 27 marzo 1982 n.1912, in Foro it., 1982, I, p. 1583; in senso contrario si veda Romagnoli U., Statuto dei diritti dei lavoratori, cit., p.244.
259Suppiej G., Il rapporto di lavoro, cit., p.333, Scognamiglio R., Xxxxxxxx e qualifiche dei lavoratori, cit., p. 1131, in giurisprudenza Cass. 29 ottobre 1976 n. 3985, in Mass. Gir. Lav., 1977, p.629.
La modifica delle mansioni
In casi analoghi si ritiene che l’onere della prova dell’intento fraudolento del datore di lavoro ricada sul lavoratore260, il quale dovrà fornire la prova in via diretta mediante almeno la programmazione iniziale delle attribuzioni e che essa sia premeditata, non essendo sufficiente la semplice ripetizione delle adibizioni, ma ciò può essere provato anche mediante presunzioni (frequenza, sistematicità e brevità degli intervalli)261.
Una differente corrente giurisprudenziale sostiene, invece, che considerato il fatto che sia il conferimento che la revoca delle mansioni superiori deve essere considerato come un potere attribuito al datore di lavoro dalla legge (e quindi un diritto per quest’ultimo); pertanto non potrebbe mai comportare la costituzione di un negozio giuridico in frode alla legge non essendo già di per sé un atto negoziale, al massimo potrebbe essere considerata una violazione dei principi di buona fede e correttezza262.
La giurisprudenza si è espressa in maniera più affine a questa seconda tesi, ritendendo sufficienti per decretare la definitività delle adibizioni delle indicazioni presuntive individuate nella sistematicità dal tempo intercorso tra le stesse263.
Le sezioni unite della Cassazione hanno successivamente risolto la questione affermando l’inammissibilità del cumulo dei periodi di adibizione, quando il datore di lavoro dimostrasse di aver provveduto almeno a selezioni per ricoprire il posto vacante264.
Per quanto riguarda il secondo problema, la soluzione più razionale risulta sicuramente nel considerare tale periodo come lavorativo, in virtù del fatto che uno degli scopi della fattispecie è quello di “testare” le capacità del
260Cass. 6 febbraio 1986 n.752, in Not. Giur. Lav., 1986, p.814.
261Ghera E., Mobilità introaziendale e limiti dell’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, cit., p. 401, in giurisprdenza Cass. 8 aprile 1987 n. 3462, in Foro it., Rep., 1987, voce lavoro (rapporto), n. 962. 262Liso F., La mobilità del lavoratore: il quadro legale, cit., p. 207.
263Cass. 20 ottobre 1980 n. 4598, in Giust. Civ., 1981, I, p.101, Cass. 28 aprile 1987, n. 4108, in Not.
Giur. Lav., 1987, p. 570.
264Cass. S.U. 28 gennaio 1995 n.1023, in Foro it., 1995, I, p. 494, più recentemente Cass. 23 aprile 2007 n. 9550, in Mass. Giur. Lav., 2007, p. 811.
lavoratore265, analogamente a quanto stabilito dall’art. 2096 in merito al “patto di prova” nel quale vengono contati solamente i giorni in cui il lavoratore abbia effettivamente prestato attività lavorativa266.
Xxxxxx, pertanto, considerarsi esclusi nel computo i giorni di assenza del lavoratore (a prescindere dalla loro legittimità o meno)267, le giornate di sabato e domenica (se non lavorative) e il periodo di ferie (il quale tuttavia non può essere considerato idoneo a azzerare il computo dei tre mesi)268.
Sono ritenuti invece utili ai fini del computo le giornate in cui il lavoratore abbia partecipato a corsi di formazione/aggiornamento relativi alle mansioni superiori alle quali egli sia stato assegnato269.
Qualora allo scadere del termine legale ovvero contrattuale il lavoratore non venga riassegnato alle mansioni precedenti l’adibizione deve considerarsi come definitiva (purché non sia in sostituzione di un lavoratore avente diritto alla conservazione del posto).
Tale evento viene comunemente definito come “promozione automatica”270 e causa una modifica irreversibile (almeno fino alla riforma del 2015) dell’oggetto del contratto di lavoro271.
Tale promozione non deve essere considerata ex art. 1359 c.c. se il mancato avveramento è imputabile all’altra parte272.
Si è dibattuto sulla natura di questo istituto; se fosse da considerare come un atto sanzionatorio nei confronti del datore di lavoro per il sovra utilizzo del lavoratore273 o se fosse il solo recepire la volontà, espressa tacitamente, delle parti di modificare definitivamente l’inquadramento del lavoratore274.
265Cfr. Ghera E., Mobilità introaziendale e limiti dell’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, cit., p. 401.
266Cass. 20 agosto 1987 n. 6982, in Giust. Civ., 1987, p. 106. 267Liso F., La mobilità del lavoratore: il quadro legale, cit., p. 210. 268Cass. 6 giugno 1989 n. 2744, in Not. Giur. Lav., 1989, p. 407.
269Cass. 6 giugno 1989 n. 2744, ivi.
270Pisani C., Mansioni del lavoratore, cit., p.14.
271Suppiej. G., Il rapporto di lavoro, cit., p. 332.
272Cass. 8 novembre 2004 n. 21243, in Mass. Giur. Lav., 2005, p. 61.
273Grandi M., La mobilità interna, in Strumenti e limiti della flessibilità, Milano, 1986, p. 272.
274Ghera E., Mobilità introaziendale e limiti dell’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, cit., p. 339.
La modifica delle mansioni
2.7.1.2 La sostituzione del lavoratore avente diritto alla conservazione del posto.
Come visto sopra l’unica ipotesi in cui il lavoratore possa essere riassegnato alle mansioni precedenti allo scadere del termine legale o contrattuale è quella prevista dall’art. 13 Stat. Lav. nel quale si fa riferimento ad una sostituzione di un lavoratore avente diritto alla conservazione del posto.
L’onere della prova in merito alla sussistenza del carattere sostitutivo dell’adibizione è a carico del datore di lavoro275.
La genericità della disposizione ha indotto la giurisprudenza a fornire diverse correnti in merito alle ipotesi nelle quali il lavoratore può dirsi
«assente con diritto alla conservazione del posto».
La prima, sicuramente più restrittiva, considera tali lavoratori solamente quelli che siano nelle situazioni previste dagli artt. 2110 e 2111 c.c.: ovvero coloro che si trovino in stato di malattia, infortunio, maternità, puerperio e servizio militare, e coloro che sostituiscano personale assente per adempimento di funzioni pubbliche elettive276.
Per questa corrente il lavoratore non deve quindi essere presente in azienda per cause legali o per cause difficilmente prevedibili da parte del datore di lavoro; non potranno essere causa di deroga, ad esempio, le ferie del lavoratore277 e la temporanea adibizione a mansioni differenti per questioni di salute (in questo caso la differenza con il lavoratore infortunato di cui sopra è la presenza in azienda del lavoratore) che si intendere sostituire. Una corrente meno restrittiva ritiene, invece, che la presenza del lavoratore che si intende sostituire in azienda non sarebbe idonea a far
275Vallebona X., L’onere della prova nel diritto del lavoro, Padova, 1988, p.105.
276Cass. 7 febbraio 1989 n. 757, in Not. Giur. Lav., 1989, p.133, Cass. 29 gennaio 1988 n. 811, in
Foro it. Rep., 1988, voce Lavoro (rapporto), n. 895.
277Cass. 3 giugno 1976 n. 2010, in Riv. Giur. Lav., 1976, II, p. 1115.
acquisire al lavoratore la qualifica superiore, se questi stesse svolgendo temporaneamente mansioni differenti per ragioni di salute278; tuttavia si intendono assenti quei lavoratori i quali stiano svolgendo mansioni differenti per l’acquisizione di una differente professionalità, se in adempimento a quanto previsto dalla contrattazione collettiva279, e i lavoratori in ferie280.
Si registrano, orientamenti differenti in merito alla “sostituzione a cascata”281, ovvero se la sostituzione di un lavoratore che stia sostituendo un altro lavoratore sia idonea a produrre gli effetti di cui sopra (la giurisprudenza maggioritaria tuttavia risulta essere favorevole)282.
Infine per quanto riguarda i lavoratori trasferiti, questi non si considerano come «assenti con diritto alla conservazione del posto» in quanto il trasferimento deve essere considerato come un atto definitivo e la ratio della norma è quella di non consentire l’acquisizione di una posizione appartenente ad un altro lavoratore283.
2.7.2 La nuova disciplina dell’adibizione a mansioni superiori.
La normativa in merito alla adizione unilaterale mansioni inquadrate in un livello superiore è senza dubbio quella che ha subito minori modifiche; sono stati aggiunti, infatti solamente taluni chiarimenti in merito all’interpretazione della disciplina, «che peraltro si potevano evincere anche dalla precedente norma, se correttamente interpretata»284.
Sicuramente la nuova norma rende facile individuare i livelli delle varie mansioni in quanto utilizza solamente elementi derivati dalla contrattazione
278Cass. 1 agosto 1986 n. 4972, in Giust. Civ., 1897, I, p. 111.
279Cass. 1 agosto 1986 n. 4972, cit.
280Cass. 17 ottobre 1987 n. 7702, in Not. Giur. Lav., 1988, p.13.
281Pisani C., Enc. dir., cit.
282a favore Xxxx. 11 qnovembre 2003 n. 16958, in Guida al lav., 2004, II, p. 25, Cass. 18 ottobre
1982 n. 5374, in Giust. Civ., 1983, I, p. 878, Cass. 12 ottobre 1983 n. 5945, in Not. Giur. Lav., 1983,
p. 567; contrari Pret. Palermo 28 maggio 1975, in Riv. Giur. Lav., 1976, II, p. 996. 283Pisani C., La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, cit., p. 170. 284Pisani C., La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, cit., p. 155.
La modifica delle mansioni
collettiva e non elementi astratti, utilizzati dalla giurisprudenza, come la professionalità.
L’individuazione delle mansioni che siano da considerarsi superiori sarà dunque, al pari di quelle equivalenti e inferiori, di facile lettura.
La prima differenza che si riscontra è di natura “stilistica”; nella precedente stesura dell’articolo erano; infatti, presenti tre fattispecie diverse: la mobilità “verticale”, quella “orizzontale” e il trasferimento, la nuova stesura dedica, invece, un unico comma (il VII) alla regolamentazione della disciplina.
Il nuovo articolo prevede inoltre una differenziazione tra le varie modifiche in melius dell’oggetto del contratto; nel comma I stabilisce che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni «corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito», riferendosi a tutti i casi di promozione definitiva del lavoratore, senza tener conto quindi delle modalità con cui questa adibizione sia avvenuta285.
Il nuovo testo ha modificato la norma sostituendo la parola “categoria” con “livello”, senza che questo comporti una modifica sostanziale della disciplina poiché tal termine non fa riferimento alle categorie legale ex art. 2095 c.c. bensì alle categorie contrattuali286, pertanto si ritiene che in questo caso il legislatore abbia solamente effettuato una precisazione terminologica. Ulteriore novità introdotta dalla riforma è rappresentata dalla dicitura, sempre del comma I, «il lavoratore deve essere adibito a mansioni… corrispondenti al livello di inquadramento superiore che abbia
successivamente acquisito».
Un’interpretazione letterale della norma sembrerebbe che sancisca una sorta di divieto alle qualifiche convenzionali287 e a tutti i sistemi di
285Grandi G., La mobilità interna, in AA. VV., Strumenti e limiti della flessibilità, Milano, 1986, p. 270.
286Pisani C., La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, cit. p. 157.
287Pisani C., La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, cit., p. 159.
progressione automatica di carriera che non prevedano mutamento di mansioni.
Naturalmente tale interpretazione non è accettabile essendo solamente una eccessiva formalizzazione della nuova norma288, la quale porterebbe, con una lettura simile, un contenzioso insostenibile.
La giurisprudenza ha infatti ribadito molte volte la legittimità di tali qualifiche convenzionali289, quando queste non siano contrarie all’interesse del lavoratore.
La disciplina in merito alle ragioni sostitutive che comportino la non definitività dell’adibizione, anche dopo lo scadere del periodo legale o contrattuale, è stata leggermente modificata.
La nuova norma richiama, infatti, le «ragioni sostitutive di un altro lavoratore in servizio»; disposizione molto meno chiara rispetto alla precedente che potrebbe in alcuni casi allargare le eccezioni sostitutive, le quali potrebbero ora ricomprendere anche la sostituzione del lavoratore in ferie, rotazione e distacco; restringendo, di fatto, le ipotesi di maturazione del diritto alla promozione con conseguenti maggiori flessibilità gestionali, in altri casi potrebbe restringere tali eccezioni poiché il lavoratore che ricopra cariche sindacali ovvero pubbliche elettive lascerebbe maturare al sostituto la maturazione del diritto alla promozione290.
La riforma ha inoltre recepito la possibilità del lavoratore di non accettare la nuova qualifica, il potere di modifica unilaterale delle mansioni in verticale può, dunque essere utilizzato solamente quando comporti effetti temporanei.
Il nuovo testo infatti prevede espressamente che sono fatte salve le
«diverse volontà del lavoratore»; la norma, tuttavia non prevede alcun obbligo di forma per quanto riguarda l’espressione della volontà del
288Pisani C., La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, cit., p. 160. 289Cass. 22 settembre 2002 n. 13326, in Riv. It. Dir. Lav., 2003, II, p. 298. 290Brollo M., Disciplina delle mansioni, cit., p. 84.
La modifica delle mansioni
lavoratore di non essere adibito definitivamente a mansioni superiori291, si ritiene pertanto che sarebbe stato più idoneo a garantire la genuinità della volontà l’utilizzo dei mezzi di cui al comma VI292.
La nuova norma non prevede, infatti, alcuna garanzia in merito alla genuinità del consenso del lavoratore, sarà anzi difficile la “convivenza” con il comma IX il quale prevede la nullità dei patti contrari, nel quale non si prevede il VII comma tra le deroghe a tale divieto293.
Altra differenza rispetto al passato è rappresentata dall’allungamento del termine legale nel quale il lavoratore può essere riassegnato al precedente livello di inquadramento da tre a sei mesi294, la contrattazione collettiva può prevedere un termine diverso, il quale vista formulazione della norma è da considerarsi come “termine principale”.
La norma specifica anche la continuità di questo periodo, recependo il sopracitato consolidato orientamento giurisprudenziale295.
Non si rileva alcuna novità in merito al diritto all’adibizione definitiva alle mansioni superiori.
2.8 L’obbligo di formazione.
La possibilità di adibire unilateralmente il lavoratore a mansioni di livello inferiore e il passaggio dalla tutela dell’equivalenza intesa in senso sostanziale a quello di equivalenza in senso formale, rappresentano, senza dubbio le parti più innovatrici del nuovo art. 2103 c.c.
291In tal caso non sarebbe corretto qualificare questa volontà come una rinuncia, poiché nessun diritto è stato ancora acquisito.
292Liso F., brevi osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta nel decreto legislativo n. 81/2015 E su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporti di lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx, IT-275/2015.
293Brollo M., Disciplina delle mansioni, cit., p. 84.
294L’art. 6 della l. 190/1985 deve, pertanto, ritenersi come abrogato.
295Vd. Sopra.
Il legislatore, sebbene abbia aumentato lo jus variandi del datore attenuando le tutele sulla professionalità del lavoratore intesa come “saper fare”, ha previsto la normativa cercando di evitare che il lavoratore si trovasse ad essere adibito a compiti che non sia, incolpevolmente, in grado di svolgere.
Tale obbligo è espresso dal comma III: «il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dell’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni».
La genericità del testo lascia presupporre che tale obbligo possa sussistere in qualsiasi ipotesi di mutamento delle mansioni, sia orizzontale che verticale.
A sostegno di questa ipotesi vi è anche il dato testuale «ove necessario» il quale sembrerebbe non consentire l’esclusione a priori dell’obbligo di formazione per alcune mansioni.
Tuttavia il fatto che la norma sia collocata immediatamente dopo il II comma dell’art. 3 d.lgs. 81/2015 e l’utilizzo del singolare nel definire il mutamento potrebbero far ritenere che tale obbligo sussista solamente nel caso di mansioni inferiori296.
Nondimeno il fatto che la nuova disciplina ex art. 2103 c.c. renda, di fatto, esigibili un numero molto ampio di mansioni, lascerebbe supporre che tale obbligo formativo sussista, «ove necessario», in tutte le ipotesi di mutamento delle mansioni, anche se di pari livello ai sensi del comma I297.
Tale obbligo, tuttavia, non sembra essere effettivo per alcune motivazioni.
In primo luogo il testo non sembra individuare le modalità con cui questa formazione debba essere svolta, il che per certi aspetti potrebbe anche
296Cfr. La relazione del presidente della commissione lavoro del Senato, Xxxxxxxx Xxxxxxx, sullo schema di decreto legislativo recante il testo organico delle tipologie contrattuali e revisione della disciplina delle mansioni (AG n.158) in Bollettino ADAPT , 20 aprile 2015, n. 15.
297Brollo M., Disciplina delle mansioni, cit., p. 87.
La modifica delle mansioni
sembrare vantaggioso nei confronti non solo del datore ma anche per il lavoratore, il quale potrebbe ricevere solamente la formazione necessaria allo svolgimento effettivo delle nuove mansioni (se il legislatore avesse, ad esempio, previsto un obbligo di formazione teorica questa sarebbe potuta anche essere “dannosa” per il lavoratore poiché potrebbe, per ragioni economiche e temporali, escludere o quanto meno limitare quella pratica).
Il termine formazione, infatti, deve considerarsi come improprio in ragione del fatto che «la formazione non è la stessa cosa né dell’addestramento né dell’aggiornamento professionale»298.
Si rileva, quindi, anche un problema terminologico: parlare di obbligo “formativo” non sembra fornire sufficienti mezzi per esaurire l’argomento.
La “formazione” è solamente uno dei mezzi attraverso i quali è possibile accrescere le competenze del lavoratore; tale mezzo ha lo scopo di
«modificare comportamenti e atteggiamenti del lavoratore per metterlo in grado di assolvere meglio ai propri incarichi o per consentirgli di assolverne nuovi»299.
Pertanto è da considerarsi come un intervento a medio-lungo termine con una concreta possibilità di non raggiungere l’obbiettivo, cosa la renderebbe un mezzo inidoneo per essere reso obbligatorio a norma di legge.
Potrebbe essere più idoneo il termine “addestramento”300.
Tale termine è generalmente utilizzato per indicare interventi di breve durata che hanno lo scopo di permettere al lavoratore di compiere determinate azioni, con una più ampia possibilità di riuscita.
Inoltre la dicitura «ove necessario» può senza dubbio essere intesa in innumerevoli modi diversi, facendo scaturire con molta probabilità un forte contenzioso con conseguenze imprevedibili in quanto il giudice sarebbe
298Goffredo M.T. Xxxxxx X., Il mutamento di mansioni: nuove possibilità per il datore di lavoro, in
Dir. & prat. Lav., 2015, n. 32-33, p. 1928.
299Goffredo M.T., Xxxxxx X., Il mutamento di mansioni: nuove possibilità per il datore di lavoro,
cit., p. 1932.
300Goffredo M.T., Xxxxxx X., Il mutamento di mansioni: nuove possibilità per il datore di lavoro,
cit., p. 1932.
reinvestito di potere discrezionale (in questo modo si andrebbe a contraddire lo scopo del legislatore di fornire oggettività e “semplicità” alla materia).
Una possibile soluzione, anche se non prospettata direttamente dalla norma, sarebbe quella di delegare ancora una volta la contrattazione collettiva ad individuare quali siano i mutamenti di qualifica che necessitino di formazione301, anche in virtù del fatto che per acquisire le competenze per svolgere una determinata mansione potrebbero essere necessari anni, con un costo eccessivo per il datore di lavoro in termini economici e in termini di fatica per il lavoratore.
Altra problematica che rende complesso l’obbligo in esame è quella in merito all’individuazione del soggetto sul quale grava l’obbligo di formazione.
Tale obbligo, interpretando la norma in maniera razionale, dovrebbe ricadere sul datore di lavoro; tuttavia il fatto che l’assenza della formazione espressamente non comporta la nullità della nuova adibizione lascia presupporre una mancanza di interesse da parte del datore di lavoro a provvedere alla formazione “obbligatoria” del lavoratore qualificato in maniera differente.
A tal proposito autorevole dottrina, prospetta che tale obbligo possa ricadere sul lavoratore, tuttavia si ritiene che «sarebbe assurdo prevedere che il soggetto inadempiente possa vantare una pretesa la prestazione»302.
Con tali presupposti l’obbligo di formazione non avrebbe ragione di essere considerato tale.
301Cfr. Pisani C., La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, cit., p. 146.
302Liso F., Xxxxx osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta nel decreto legislativo n. 81/2015 e e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporti di lavoro, cit.
La modifica delle mansioni
In tal senso, per rendere effettivo tale obbligo, ottima dottrina ritiene che sarebbe opportuno ritenere la fattispecie come un onere per il datore di lavoro e un obbligo per il lavoratore in questione303.
In questo modo il datore di lavoro sarebbe condizionato all’esercizio del potere dall’assolvimento dell’onere, tuttavia tale impostazione non risulta in concreto condivisibile dal momento che la legge prevede espressamente che la mancata formazione non comporti la nullità dell’atto di assegnazione. Ciò comporterebbe una carenza di sanzione al mancato adempimento dell’obbligo e pertanto «un obbligo che non sia sanzionato finisce per non
essere un obbligo»304
Tale dottrina si interroga, inoltre, sull’adempimento di una prestazione per la quale il lavoratore non abbia ricevuto adeguata formazione.
Il lavoratore può rifiutarsi di adempiere tale prestazione, nonostante l’adibizione a queste mansioni è espressamente legittima?
La dottrina in esame risponde affermativamente nel caso in cui il lavoratore proponga la prestazione dovuta ponendo il datore di lavoro in un stato di mora accipiendi305.
In questo caso, infatti, «non si è al cospetto di un inadempimento di un obbligo; il lavoratore, più semplicemente, si limita a rifiutare l’esecuzione di una prestazione non dovuta, in quanto richiesta in forza di un potere non riconosciuto dall’ordinamento per il mancato assolvimento dell’onere informativo a cui era condizionato»306.
Nel caso in cui il lavoratore non rifiuti la prestazione, si ritiene che l’eventuale inadempimento non solo non possa essere addebitato al
303Pisani C., La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, cit., p. 146; il quale sostiene, in aggiunta, che tale obbligo dovrebbe essere considerato come implicito, senza la necessità che questo sia previsto.
304Gargiulo U., Lo jus variandi nel “nuovo” 2013 x.x., xxx., x. 00.
000Xx xxxx xxxxx Xxxxxxxxx A., Istituzioni di diritto del lavoro, il rapporto di lavoro, Padova, 2015, p. 173.
306Pisani C., La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, cit., p. 147
lavoratore, ma lo stesso potrebbe avanzare le pretese di risarcimento proprie della fattispecie della sottrazione di mansioni307.
L’obbligo alla formazione ricade anche sul lavoratore interessato.
Egli dovrà infatti utilizzare, presumibilmente, tutti i mezzi che gli vengano messi a disposizione per acquisire la professionalità richiesta dal nuovo inquadramento, poiché nel caso in cui il datore di lavoro fornisca correttamente308 al lavoratore la possibilità di “formarsi” per le nuove mansioni e, nonostante ciò, il lavoratore non risulti idoneo a tali compiti, sarà possibile configurare tale ipotesi come inadempimento del lavoratore309, il quale essendo legato nei confronti del datore con un’obbligazione (almeno) di mezzi310, sarebbe esposto ad un licenziamento per giusta causa (nel caso in cui non risulti idoneo alla mansione).
Tale obbligo da parte del lavoratore deve essere adempiuto con correttezza, buona fede e ordinaria diligenza ai sensi dell’art. 1218 c.c.
Nel caso in cui il lavoratore non risulti idoneo alle mansioni nonostante la formazione (in precedenza si faceva riferimento all’ipotesi in cui il lavoratore non riceva la formazione per causa a lui imputabile), sarà possibile procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per inidoneità professionale sopravvenuta311.
Ciò non toglie che tale obbligo rappresenti una forte novità rispetto alla vecchia disciplina ex art. 13 Stat. Lav.
La nuova norma, pur necessitando evidentemente di modalità di attuazione, legali ovvero contrattualistiche, è la prima a prevedere la necessità di “formazione continua” durante la vita lavorativa del prestatore di lavoro, all’interno della medesima azienda312.
307cfr. Pisani C., La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, cit., p. 147.
308A tal proposito si ribadisce come sarebbe opportuno che la contrattazione collettiva individuasse le modalità di formazione per ogni tipo di mansione.
309Cfr. Xxxx F., Brevi osservazioni, cit., p. 13.
310Cass. 5 agosto 2013 n. 18612, in Rep. Foro it., 2013, Professioni intellettuali, n. 171.
311Cass. 6 aprile 1999 n. 3314, in RIDL, II, p. 843.
312Cfr. Brollo M., Disciplina delle mansioni, cit., p. 85.
La modifica delle mansioni
Discorso differente dovrebbe essere fatto per la modifica dell’oggetto contrattuale di cui al comma VI, in quanto tale disciplina lascia alle parti fortissima autonomia, al contrario dell’adibizione unilaterale dei commi I, II, IV e VII.
In tal caso la formazione si ritiene possa essere considerata come obbligatoria solamente se si evinca dal patto modificativo313.
Si potrebbe, pertanto, dire che il legislatore abbia espressamente previsto la mancata nullità dell’adibizione, nonostante la carenza di formazione, in virtù del fatto che se così non fosse il lavoratore potrebbe rendere inefficace lo jus variandi del datore di lavoro semplicemente non attendendo i corsi di formazione (o attendendoli in maniera molto superficiale).
2.9 Mansioni promiscue.
La trattazione svolta fino ad ora è stata improntata sull’analisi della disciplina delle mansioni principali del lavoratore (le quali costituiscono l’obbligazione principale del contratto).
Il lavoratore, tuttavia, deve ritenersi obbligato a svolgere anche eventuali mansioni secondarie, le quali, ove strettamente collegate alle principali, possono anche essere assegnate al lavoratore in maniera implicita (come nel caso delle mansioni accessorie).
Per mansioni promiscue, altresì dette polivalenti, si intendono
«quell’insieme di compiti lavorativi, dedotti unitariamente e complessivamente nel contratto di lavoro, in sede di pattuizione delle mansioni di assunzione, o anche successivamente, in cui alcuni di essi,
313In senso contrario si veda Brollo M., disciplina delle nazioni, cit., p. 87, nella quale si sostiene la necessità di rendere obbligatoria la formazione almeno nell’ipotesi di demansionamento finalizzato all’acquisizione di una nuova professionalità.
considerati isolatamente, si presentano come inferiori ad altri, ossia, in relazione al nuovo testo dell’art. 2013 c.c., appartenenti ad un livello o categoria inferiore»314.
Tali mansioni possono quindi anche inferiori al livello di professionalità del lavoratore (al livello di inquadramento nella nuova stesura dell’art. 2103 c.c.) poiché essendo compiti strumentali e/o complementari non violano i limiti dello jus variandi315.
Tuttavia è necessario che tali compiti siano accettati dal lavoratore, ovvero questi non possono considerarsi, al contrario di quelli accessori, impliciti.
La dottrina si è interrogata se anche tali mansioni siano o meno soggette alla normale disciplina dello jus variandi.
Sia l’art. 13 Stat. Lav. che l’art. 3 d. lgs. 81/2015 individuano le mansioni da confrontare per un giudizio di equivalenza (a prescindere se questo sia formale o sostanziale)316 nelle ultime mansioni effettivamente svolte.
L’inferiorità delle mansioni sarebbe quindi idonea ad “attivare” il divieto di adibizione a mansioni inferiori.
A tal proposito la dottrina maggioritaria ha tentato di fornire delle giustificazioni all’utilizzo dello jus variandi anche per questa ipotesi.
Innanzitutto si è cercato di considerare le «ultime mansioni effettivamente svolte» quelle che il lavoratore ha svolto in concreto e non la più tradizionale ultime mansioni a cui il lavoratore sia stato adibito317.
In tal senso le mansioni in esame devono considerarsi come compiti assegnati al lavoratore al momento dell’assunzione318 e, come tali, non
314Pisani C., La nuova disciplina delle mansioni, cit., p. 58.
315Cass. 21 febbraio 2013 n. 4301, in Giust. Civ., 2013, I, p. 2633.
316A tal proposito si ricorda come il “nuovo” 2103 c.c. possa regolamentare solamente i fatti accaduti dopo la sua entrata in vigore.
317Persiani M., Prime osservazioni, in Dir. Lav., 1968, n. 3-4, p. 3.
318Pisani C., La modificazione delle mansioni, Milano, 1996, p. 156.