LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE
Vol. LXXVI 2021 N. 1
RIVISTA TRIMESTRALE
DELLA SOCIETÀ ITALIANA PER L’ORGANIZZAZIONE INTERNAZIONALE
INDICE
Nuove forme di estremismo:
STRUMENTI DI PREVENZIONE E CONTRASTO DELLE MINACCE JIHADISTE TRANSNAZIONALI ∗
XXXXXX XXXXXXXX – Prefazione 5
XXXXXX XXXXXXX – Introduzione. La minaccia terroristica nel mondo post Covid-19… 9
XXXXXXX XXXXXXXXXX – Il terrorismo in Europa. Francia, Germania e Italia: tra attacchi, contrasto ed espulsioni 11
XXXXX XXXXXXXXXX XXXXXXXXX DI XXXXXXXXXX – Il COVID-19: un regalo per i gruppi jihadisti? 25
XXXXX XXXXXXXX – Lessons learned dei processi di de-radicalizzazione, riabilitazione e reinserimento sociale adottati in altri contesti internazionali per poter elaborare proposte funzionali alle Istituzioni italiane 37
XXXXXXXXXX XXXXXX – L’integrazione di controterrorismo e prevenzione dell’estremismo 55
XXXXXX XXXXXXX – Estremismo di matrice jihadista: prospettive sul ruolo degli organismi internazionali nella prevenzione 63
XXXXXXX XXXXXXXX – Le muhājirāt italiane: i percorsi della radicalizzazione 75
XXXXXX XXXXXXX – I processi di de-radicalizzazione in Kosovo: un case study di successo 87
XXXXXX XXXXXXX – “Butterfly effect”? Le traiettorie del jihadismo in Siria 99
XXXXX XXXXX – Il Sahel occidentale epicentro dell’insorgenza jihadista in Africa 109
XXXXXX XXXXXXXX – L’insurrezione islamista a Cabo Xxxxxxx, Mozambico: Analisi del ruolo dello Stato islamico 119
XXXXXXX XXXXXXXX – La minaccia jihadista che spaventa il Cairo: la penisola del Sinai e la strategia di contrasto al terrorismo nell’Egitto dei militari (2011-2020) 137
OSSERVATORIO EUROPEO
XXXXXXX XXXXX – L’immunità giurisdizionale dell’Unione europea in Stati terzi nel quadro delle missioni di Politica di sicurezza e di difesa comune 151
∗ Il presente Report è stato redatto con il sostegno finanziario del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, ai sensi dell’art. 23 bis del d.P.R. 18/1967.
Le posizioni contenute nel presente Report sono espressione esclusivamente degli Autori e non rappresentano necessariamente le posizioni del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
NOTE E COMMENTI
XXXXX COLLÀ XXXXXX – L’immunità dalla giurisdizione alla luce del Caso Jam et al. c. International financial corporation: nuove prospettive per le organizzazioni economiche internazionali 175
RASSEGNE
ATTIVITÀ DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI
Nazioni Unite
Assemblea generale (73a e 74a sessione, 2018-2019), p. 197
QUESTIONI SOCIALI, UMANITARIE E CULTURALI
1. Introduzione, p. 197; 2. Le risoluzioni a favore di soggetti particolarmente vulnerabili o esposti: in particolare, donne e bambini, attivisti dei diritti umani e giornalisti, p. 201; 3. La realizzazione degli obiettivi di Agenda 2030 attraverso la promozione e l’attuazione dei diritti all’autodetermina- zione dei popoli, allo sviluppo sostenibile, al cibo, a un nuovo ordine internazionale e del divieto di misure coercitive unilaterali, p. 204; 4. Le risoluzioni sulla situazione dei diritti umani in specifici Paesi, p. 207.
Consiglio di sicurezza (aprile-settembre 2020), p. 213
Egeria Nalin
1. Considerazioni introduttive, p. 213; 2. Il rinnovo dei mandati delle peacekeeping operations, di missioni di osservazione e di altri meccanismi, p. 213; 3. Il rinnovo dei mandati dei meccanismi istituiti ai sensi del capitolo VII della Carta, delle autorizzazioni alle forze multinazionali e delle misure sanzionatorie imposte nei confronti di Stati, altri enti e individui, p. 214; 4. La protezione dei civili nei conflitti armati: il caso della Siria, p. 216; 5. Il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, p. 217; 6. Le donne nelle operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite, p. 218.
Xxxxx X’Xxxxxxx
Istituti specializzati delle Nazioni Unite e altre organizzazioni e istituzioni internazionali
UNIONE AFRICANA
L’attività dell’UA nel 2019: attività dei meccanismi di tutela dei diritti dell’uomo, p. 219
RECENSIONI
Xxxxxxxx Xxxxxxx
XXXXX XXXXXX, Sanzioni delle Nazioni Unite e Organizzazioni regionali, Roma Tre-Press, Collana Diritto internazionale, Diritto internazionale privato e dell’Unione europea, Roma, 2020, pp. 1-195 (Xxxxxxxxxx Xx Xxxxx), p. 235.
Vol. LXXVI 2021 N. 1
QUARTERLY JOURNAL
OF THE ITALIAN SOCIETY FOR INTERNATIONAL ORGANIZATION
SUMMARY
New Forms of Extremism:
Tools For Preventing And Fighting Transnational Jihadist Threats∗
XXXXXX XXXXXXXX – Preface 5
XXXXXX XXXXXXX – Introduction. The Terrorist Threat in the Post Covid-19 World 9
XXXXXXX XXXXXXXXXX – Terrorism in Europe. France, Germany and Italy: Attacks, Counterterrorism, Expulsions 11
XXXXX XXXXXXXXXX XXXXXXXXX DI XXXXXXXXXX – Covid-19: A Gift for Jihadist Groups? 25
XXXXX XXXXXXXX – De-Radicalisation, Rehabilitation and Reintegration Processes. Proposals for the Italian Institutions Based on Lessons Learned from the International Context 37
XXXXXXXXXX XXXXXX – Integrating Counterterrorism and Extremism Prevention 55
XXXXXX XXXXXXX – Jihadist Extremism: Perspectives on the Role of International Organisations in Prevention Programmes 63
XXXXXXX XXXXXXXX – Italian muhājirāt: Paths of Radicalization 75
XXXXXX XXXXXXX – Kosovo’s De-Radicalization Process: A Successful Case Study 87
XXXXXX XXXXXXX – “Butterfly effect”? The Trajectories of Jihadism in Syria 99
XXXXX XXXXX – The West Sahel Epicentre of the Jihadist Insurgency in Africa 109
XXXXXX XXXXXXXX – The Islamist Insurgency in Cabo Xxxxxxx, Mozambique: An Analysis of the Role of the Islamic State 119
XXXXXXX XXXXXXXX – The Jihadist Threat That Scares Cairo: The Sinai Peninsula and the Strategy of Contrast to Terrorism in the Egyptian Armed Forces Decade (2011- 2020) 137
EUROPEAN OBSERVATORY
XXXXXXX XXXXX – Jurisdictional Immunity of the European Union in Third States in the Framework of Its Common Security and Defense Policy Missions 151
∗ This report has been issued thanks to funding granted by the Ministry of Foreign Affairs and International Cooperation, in accordance with the art. 23 bis of the Presidential Decree 18/1967.
The views expressed here are solely of the authors and do not necessarily represent any official position of the Ministry of Foreign Affairs and International Cooperation.
NOTES AND COMMENTS
XXXXX COLLÀ XXXXXX – The Immunity from Jurisdiction After the Jam et Al. v. International Financial Corporation Case: New Perspectives for the International Financial Institutions 175
SURVEYS
ACTIVITY OF INTERNATIONAL ORGANIZATIONS
United Nations
General Assembly (73rd and 74th session, 2018-2019), p. 197
SOCIAL, HUMANITARIAN AND CULTURAL ISSUES
1. Preliminary remarks, p. 197; 2. Resolutions in favour of particularly vulnerable or exposed individuals: in particular, women and children, human rights activists and journalists, p. 201; 3. The achievement of the objectives of Agenda 2030 through the promotion and implementation of the rights to peoples’ self-determination, sustainable development, food, a new international order and the prohibition of unilateral coercive measures, p. 204; 4. Resolutions on the human rights situation in specific countries, p. 207.
Security Council (April-September 2020), p. 213
Egeria Nalin
1. Preliminary remarks, p. 213; 2. The renewal of the mandates of peacekeeping operations, of observatory missions and other mechanisms, p. 213; 3. The renewal of the mandates of the mechanisms established under Chapter VII of the Charter, of the authorizations to multinational forces and of the sanctions imposed against States, other bodies and individuals, p. 214; 4. The protection of civilians in armed conflicts: the case of Syria, p. 216; 5. The maintenance of international peace and security, p. 217; 6. Women and United Nations peacekeeping operations, p. 218.
Xxxxx X’Xxxxxxx
Specialized agencies of the United Nations and other international organizations and institutions
AFRICAN UNION
The activities of the AU in 2019: Activities of human rights protection mechanisms, p.
219.
Xxxxxxxx Xxxxxxx
REVIEW OF BOOKS
XXXXX XXXXXX, Sanzioni delle Nazioni Unite e Organizzazioni regionali, Roma Tre-Press, Collana Diritto internazionale, Diritto internazionale privato e dell’Unione europea, Roma, 2020, pp. 1-195 (Xxxxxxxxxx Xx Xxxxx), p. 235.
NUOVE FORME DI ESTREMISMO: STRUMENTI DI PREVENZIONE E CONTRASTO DELLE
MINACCE JIHADISTE TRANSNAZIONALI∗
PREFAZIONE
XXXXXX XXXXXXXX
Sebbene la caduta dell’ultima roccaforte dello Stato islamico risalga al marzo del 2019, il fenomeno dei gruppi terroristici ancora ispirati al modello del Califfato così come a quello qaedista, continua ad avere una dimensione globale. Oggi, a distanza di anni da quella che tra il 2014 ed il 2015 era stata l’affermazione dello Stato Islamico nel “Siraq”, le sfide che la Comunità internazionale e gli Stati sono chiamati a fronteggiare sono molteplici. Non solo le residue sacche di miliziani dell’Isis ancora operanti in Siria ed Iraq, ma la gestione degli ex combattenti, delle donne e dei minori, così come il loro possibile reinserimento rappresentano un terreno sino ad oggi inesplorato. Ancora più complesso risulta inoltre il tema delle politiche dei singoli Stati in materia di prevenzione e contrasto, così come la perdurante instabilità, legata anche al ruolo di gruppi e attori non statali di natura jihadista, operanti in alcune aree di crisi. Sulla base della multidimensionalità e delle incognite di queste nuove minacce transnazionali, questa parte monografica de “La Comunità Internazionale” si pone l’obiettivo di iniziare a ricostruire, anche in termini quantitativi i numeri del terrorismo negli anni 2014- 2020. Nel saggio di Xxxxxxx Xxxxxxxxxx viene posta particolare attenzione ad un’analisi quantitativa del fenomeno, a partire dalla proclamazione dello Stato islamico, sino allo scorso 2020. I numeri degli attacchi terroristici in Europa, estratti dal database di START Insight, hanno evidenziato una recidività del fenomeno, nonché l’aumento e la comparsa di nuove potenziali minacce. Un dato significativo riguarda la crescita di attacchi terroristici effettuati da immigrati irregolari, che si aggiunge a quella di azioni portate avanti da terroristi già conosciuti dalle forze di
∗ Il presente Report è stato redatto con il sostegno finanziario del Ministero degli Affari
Esteri e della Cooperazione Internazionale, ai sensi dell’art. 23 bis del d.P.R. 18/1967.
Le posizioni contenute nel presente Report sono espressione esclusivamente degli Autori e non rappresentano necessariamente le posizioni del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE FASC. 1/2021 pp. 5-7 EDITORIALE SCIENTIFICA SRL – ISSN 0010-5066
6 LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE
polizia e i servizi di intelligence europei. Il 2020, caratterizzato dalla diffusione della pandemia globale del Covid-19 ha accentuato, anche alla luce dell’impatto sociale ed economico, la ripresa di alcune sigle/forma- zioni. La resilienza come elemento caratterizzante del terrorismo islamico è un dato di fatto, così come l’abilità propagandistica ampiamente utiliz- zata dalle varie formazioni terroristiche. Nel saggio di Xxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxxxxxx di Xxxxxxxxxx, particolare attenzione viene posta proprio su questo tema: sfruttare il pervasivo disagio socio-economico della pande- mia, per avere un ruolo decisivo in un mondo post- Covid-19, riportando in auge il vecchio mantra di ricostituire il Califfato. È pertanto importante analizzare come Al-Qaeda e lo Stato islamico si stiano muovendo nelle diverse aree geografiche, e al contempo prevenire e rafforzare le misure di contrasto.
Difficilmente potrebbero essere individuate delle misure di contrasto
efficaci, senza indagare, capire e prevenire le motivazioni che spingono i singoli, nonché gruppi di persone a radicalizzarsi. Nel saggio di Xxxxxxxx, la radicalizzazione estrema che conduce ad atti di violenza, viene considerata una delle minacce più significative, a livello nazionale ed internazionale. La radicalizzazione è un fenomeno sfaccettato, e può avere luogo ovunque, e attraverso qualsiasi mezzo. Conoscere il feno- meno nelle sue specificità, imparando anche dall’esperienza degli altri Paesi, potrebbe essere altresì utile per rafforzare la strategia italiana, anche in ragione delle nuove sfide poste dal terrorismo per motivazioni razziali ed etniche, dall’aumento delle radicalizzazioni nell’ecosistema cyber e sociale, ed infine da un uso malevolo dell’intelligenza artificiale. Ai processi di de-radicalizzazione, riabilitazione e re-inserimento nel tessuto sociale dei soggetti radicalizzati, Xxxxxxxxxx Xxxxxx aggiunge l’importanza di un approccio operativo integrato tra contro terrorismo (CT) e contrasto dell’estremismo violento (CEV), da sempre impiegati in modo separato, e con un maggior numero di risorse destinate al CT.
A partire dagli anni 2000 il concetto di prevenzione e contrasto
dell’estremismo violento è entrato con maggiore incombenza nel dibattito globale, nonché nella letteratura afferente al fenomeno terroristico. Xxxxxx Xxxxxxx, nel suo saggio spiega l’importanza della prevenzione e del contrasto dell’estremismo violento; esso è considerato un nuovo settore professionale, che si sostanzia di un network interdisciplinare, giacché il fenomeno indagato è oltremodo complesso. Vengono analiz- zate, in ultima istanza le politiche di contrasto dell’estremismo violento, promosse dalle organizzazioni internazionali, ed inquadrate a livello globale. Viene pertanto analizzato il poliedrico processo di globalizza- zione delle politiche di contrasto dell’estremismo violento, promosse dalle organizzazioni internazionali e regionali.
PREFAZIONE 7
Due saggi si concentrato sullo studio di differenti case studies: uno nell’ambito dei processi di radicalizzazione e un altro nell’ambito delle politiche di riabilitazione. Nel primo caso, nel saggio di Xxxxxxx Xxxxxx- la, viene analizzato il percorso della radicalizzazione delle donne italiane evidenziando le motivazioni che le hanno spinte a partire alla volta del Califfato identificandosi come Muhājirāt. Dall’analisi, sono emersi alcuni fattori comuni che hanno motivato tali scelte quali disagi psicologici, familiari, sociali o personali, abilmente sfruttati da una ben studiata pro- paganda. Nell’ambito delle politiche di reinserimento, nel saggio di Mat- xxx Xxxxxxx, viene sviluppato uno studio comparato, in termini di rimpatri di ex combattenti, tra i Paesi europei e i Paesi dei Balcani occidentali. I dati, che si concentrano anche sulle politiche adottate in Kosovo, eviden- ziano come i Paesi dei Balcani occidentali abbiano rimpatriato 485 ex combattenti su circa 1.070 che erano partiti per la Siria e l’Iraq, a fronte di 1.765 fatti rientrare dai Paesi europei su circa 6.000 che ne erano partiti.
Infine, vengono prese in considerazione l’affermazione di alcuni gruppi terroristici e l’evoluzione delle condizioni di sicurezza in alcune aree geografiche quali la Siria, il Sahel, il Mozambico e il Sinai.
Il saggio di Xxxxxx Xxxxxxx, concentrato sul territorio siriano, analizza la nascita e le peculiarità di tre organizzazioni jihadiste principali, la loro evoluzione e differenziazione: al-Qaeda, lo Stato islamico e Hayat Tahrir al-Sham (HTS).
Xxxxx Xxxxx indaga il Sahel, una delle aree più strategicamente rilevanti di tutto il continente africano, caratterizzato da scontri etnici, sociali e politici che hanno favorito l’infiltrazione di gruppi terroristici legati ad al-Qaeda e allo Stato islamico, e che oggi di fatto hanno rafforzato la loro presenza in uno dei territori con più risorse naturali.
Il saggio di Xxxxxx Xxxxxxxx, analizza la presenza dello Stato islamico nell’insurrezione islamista a Cabo Xxxxxxx. Viene pertanto indagato il rapporto esistente tra lo Stato islamico e l’organizzazione ‘Ahlu al-Sunnah Wal-Jamaah’ (ASWJ), e come questo abbia influito sullo sviluppo delle insurrezioni in Mozambico. La risultante dell’analisi viene inserita ed inquadrata all’interno del più ampio contesto politico, economico e sociale che caratterizza il territorio indagato.
Infine, Xxxxxxx Xxxxxxxx analizza il caso egiziano con particolare riferimento alla Penisola del Sinai, una delle sfide più impellenti per la Presidenza al-Sisi. Sebbene siano state dispiegate molteplici e differenti operazioni di contrasto alla minaccia jihadista sul territorio egiziano, la strategia delle forze armate egiziane non è ancora riuscita ad eliminare il problema.
LA MINACCIA TERRORISTICA NEL MONDO POST COVID-19
XXXXXX XXXXXXX
La crisi pandemica del Covid-19, il suo impatto sanitario così come le sue conseguenze economiche e sociali continuano ad occupare l’agenda internazionale e l’azione dei governi. A fronte di un’opinione pubblica prostrata dalle forti limitazioni dovute al contenimento della pandemia e da una condizione sanitaria ancora incerta, l’attenzione per le sfide globali e le minacce transnazionali, quali il terrorismo, sembra esser uscita dalle priorità dei governi e dal dibattito pubblico. Una tale lettura degli eventi sarebbe tuttavia fuorviante e rischierebbe di non farci comprendere i rischi che proprio le conseguenze del covid-19 potrebbero determinare in alcune vecchie e nuove aree di crisi. L’esasperazione economica e le drammatiche condizioni sanitarie di alcuni Paesi nei Balcani occidentali, in Siria, Egitto, Libia e, più in generale in Africa rischiano di generare un terreno fertile per le organizzazioni terroristiche e le organizzazioni criminali transna- zionali. Molte delle sfide antecedenti alla pandemia sono ancora irrisolte: la gestione degli ex combattenti, delle loro mogli e dei loro figli, così come tutte da implementare sono le politiche di prevenzione e reinserimento. Al contempo, l’emergenza pandemica ha solo parzialmente attenuato la capacità di proselitismo delle maggiori sigle del jihadismo globale che, anzi, stanno trovando nuovi spazi di ma- novra potendosi inserire nei più importanti quadranti di crisi. Con questa raccolta di saggi La Comunità Internazionale e la SIOI si pongono l’obiettivo di mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica e della classe politica sui rischi che ancora oggi persistono, anche nel nostro Paese, di forme di estremismo violento, radicalismo ed antisemitismo. Allo stesso tempo, attraverso una serie di dettagliate analisi regionali, abbiamo voluto dimostrare e rappresentare i poten- ziali rischi derivanti da una diffusa instabilità che si è estesa dal qua- drante siriano ed iracheno per andare ad impattare in altri contesti di cri- si a noi ancor più vicini. Infine attraverso una serie di modelli analitici
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE FASC. 1/2021 pp. 9-10 EDITORIALE SCIENTIFICA SRL – ISSN 0010-5066
quantitativi e comparativi a livello europeo, abbiamo voluto portare all’attenzione pubblica alcuni case studies di successo nel campo della prevenzione e delle politiche di reinserimento, come nel caso del Kosovo. L’obiettivo ambizioso, che come gruppo di ricerca ci siamo posti, è contribuire ad accrescere la consapevolezza delle sfide che il nostro Paese dovrà continuare ad affrontare nel campo del contrasto all’e- stremismo e alla radicalizzazione e la necessaria quanto conseguente armonizzazione degli strumenti di prevenzione e contrasto non più rinviabili a fronte di quanto accaduto in Europa negli ultimi anni.
IL TERRORISMO IN EUROPA. FRANCIA, GERMANIA E ITALIA:
TRA ATTACCHI, CONTRASTO ED ESPULSIONI
XXXXXXX XXXXXXXXXX
1. Introduzione: uno sguardo all’Europa.- Le attività terroristiche jihadiste registrate in Europa nel biennio (2019-2020) hanno evidenziato differenze da uno Stato all’altro dell’Unione europea. In alcuni Paesi è stata verificata una riduzione nelle attività di propaganda, reclutamento o formazione, in altri rimane invariato il livello di minaccia e partecipa- zione al fenomeno terroristico.
I jihadisti in Europa sono principalmente collegati attraverso reti “disorganizzate e autonome”, inserite all’interno di un più ampio ambien- te musulmano estremista che svolge il ruolo di facilitatore all’adesione al terrorismo. Tali reti sono, in gran parte, autonome rispetto al terrorismo globale o regionale e prive di legami organizzativi con i principali gruppi terroristici come al-Qa’ida o il gruppo Stato islamico. Inoltre, si osserva che alcuni individui o piccoli gruppi si auto-radicalizzano, principalmente su Internet, senza far parte di reti più ampie. Questi ultimi sono i soggetti che rappresentano la minaccia più incombente in quanto meno individua- bili dalle forze di polizia e intelligence e con un “tempo di attivazione”1 molto più veloce rispetto a chi è parte di una rete fisica di jihadisti2.
La propaganda ufficiale dello Stato islamico è complessivamente diminuita in termini di volume e di impatto rispetto al momento di massima capacità del 2015-2017. Diminuzione che è stata parzialmente integrata dai contenuti generati dai sostenitori e dal materiale riciclato.
Pochi i terroristi rientrati all’interno dell’Unione europea nel 2019- 2020 dalla Siria o da altri Paesi coinvolti dal fenomeno Stato islamico, sebbene non sia da escludere la presenza di soggetti rientrati ma non rilevati dalle forze di polizia. Per quanto non vi siano segnali di un uso sistematico della migrazione irregolare da parte di organizzazioni
1 Con “tempo di attivazione” si intende il periodo di tempo che intercorre tra il primo contatto con l’ideologia violenta del jihad e la conduzione dell’azione che segna l’adesione alla causa jihadista.
2 Per un maggiore approfondimento si veda X. XXXXXXXXX, Radicalizzazione jihadista: il “tempo di attivazione” dei radicalizzati, in X. XXXXXXXXXX (a cura di), #ReaCT2020, Rap- porto sul radicalismo e il terrorismo in Europa, Lugano, 2020.
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE FASC. 1/2021 pp. 11-24 EDITORIALE SCIENTIFICA SRL – ISSN 0010-5066
terroristiche è però accertata la presenza di un numero non marginale di terroristi entrati all’interno della UE in maniera irregolare attraverso i flussi migratori del Mediterraneo e dei Balcani3.
La situazione nelle aree di conflitto al di fuori dell’Unione continua a incidere sulla situazione del terrorismo europeo. Centinaia di cittadini europei e immigrati extra-comunitari regolarmente presenti in Europa, che hanno risposto alla chiamata dello Stato islamico, sono rimasti in Iraq e Siria. Uno Stato islamico che, pur perdendo il controllo del territorio in Siria, è tornato allo stato di “gruppo insurrezionale” – operativo in Iraq e Siria, con gruppi affiliati attivi in – Africa, Medio Oriente e Asia – e continua a rappresentare una minaccia.
Sull’altro fronte jihadista, al-Qa’ida ha nuovamente mostrato l’in- tenzione e l’ambizione di colpire obiettivi occidentali con attacchi com- plessi, mentre i suoi affiliati regionali mirano a integrarsi e coordinarsi con le popolazioni e le fazioni armate nelle aree di conflitto in linea con la sua strategia generale di costruzione di basi di supporto locali. Una mi- naccia, quella qaedista, dimostrata dai sempre più insistenti e recenti ap- pelli a colpire con la violenza, in particolare la Francia, che ad oggi detie- ne il triste primato di paese più colpito dal terrorismo di matrice jihadista.
2. I numeri del nuovo terrorismo in Europa.- 436 attacchi terroristi- ci, compresi quelli falliti e sventati, sono stati registrati nei paesi del- l’Unione Europea dal 2017 al 2019 (erano 895 nel periodo 2014-2017): il 63% sono attribuiti a gruppi separatisti ed etno-nazionalisti, il 16% a movimenti della sinistra radicale (in aumento), il 2,8% a gruppi di estre- ma destra (in diminuzione nel 2019; in aumento nel 2020), il 18% sono azioni di matrice jihadista. Sebbene gli atti riconducibili al jihadismo siano una parte marginale, sono però causa di tutte le morti per terrorismo nel 2019 e di 16 uccisioni nel 20204.
L’onda lunga del terrorismo in Europa, emerso con il fenomeno Stato islamico a partire dal 2014, ha fatto registrare 146 azioni in nome del jihad dal 2014 al 2020: vi hanno preso parte 188 terroristi, dei quali 59 sono morti in azione. Le vittime decedute sono 406 e 2.421 i feriti (database START InSight).
Nel 2020 gli eventi riconducibili alla violenza jihadista sono stati 25, contro i 19 dell’anno precedente e con un raddoppio di azioni di tipo “emulativo”, ossia ispirate da altri attacchi portati a compimento nei giorni precedenti: le azioni emulative nel 2020 sono il 48% del totale;
3 X. XXXXXXXXXX X., Immigrazione e terrorismo. I legami tra flussi migratori e terrorismo di matrice jihadista, Lugano, 2020.
4 Ibidem.
erano il 21% nel 2019. Il 2020 ha inoltre registrato una progressiva diminuzione di azioni strutturate e coordinate che, con il tempo, hanno ceduto il “campo di battaglia” urbano europeo alle prevalenti azioni individuali, non organizzate, spesso improvvisate e fallimentari.
È l’evoluzione di un fenomeno che, nel suo complesso, trova confer- ma nel trend degli arresti, avvenuti in diciotto paesi dell’Unione europea, di soggetti radicalizzati e coinvolti nella pianificazione o nella condotta di azioni terroristiche; una crescita costante fino al 2016, una successiva stabilizzazione nel 2017 e una riduzione nel 2018: 216 arresti nel 2013,
395 nel 2014, 687 nel 2015, 718 nel 2016, 705 nel 2017 (di cui 373 nella
sola Francia)5 e 511 nel 2018 (273 in Francia)6. Nel 2017 la maggior parte degli arresti (354) ha coinvolto soggetti sospettati di essere parte di un’organizzazione terroristica di matrice jihadista; altri soggetti invece perché sospettati di pianificare (120) o preparare (112) un attacco7. Si- tuazione analoga a quella del 2018 dove gli arrestati con la stessa motiva- zione sono più della metà del totale; arresti avvenuti principalmente in Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Germania e Italia (Europol, 2018)8,9.
3. La mappa etno-nazionale del terrorismo in Europa.- La radicaliz- zazione jihadista che porta il terrorismo in Europa affligge alcuni gruppi nazionali/etnici specifici. Vi è un rapporto di proporzionalità tra i principali gruppi di immigrati e i terroristi. La nazionalità dei terroristi, o delle famiglie di origine, è in linea con la dimensione delle comunità straniere in Europa. Prevale l’origine maghrebina: i gruppi etno-nazionali principalmente afflitti dall’adesione al modello jihadista sono quelli marocchino (in Francia, Belgio, Spagna e Italia) e algerino (in Francia).
Nel complesso, le reti jihadiste sono multietniche e multinazionali. Sebbene sembrino avere maggiore vigore e consistenza all’interno delle grandi città e nelle periferie metropolitane, grazie al ruolo giocato dai social network e alla comunicazione via Web, l’area geografica “afflitta” dal jihadismo è molto più ampia.
Il reclutamento di terroristi avviene solitamente attraverso reti informali di amici e familiari, nonché attraverso i social media. Nel
5 Europol, EU Terrorism Situation and Trend Report (TE-SAT) 2018; 2019.
6 Ibidem.
7 Ibidem.
8 Ibidem.
9 Fonte database START InSight, dati aggiornati al 18.01.2021. Si veda #ReaCT2020, 1° Rapporto sul radicalismo e terrorismo in Europa, Osservatorio ReaCT, N. 1 – Anno 1, 2020 e #ReaCT2021, Rapporto sul radicalismo e terrorismo in Europa, Osservatorio ReaCT, N. 2 – Anno 2, 2021.
primo caso, i legami familiari tenderebbero ad aumentare l’efficacia del reclutamento, riducendo al contempo il rischio di tradimento e la fuga di informazioni. È però altresì verificato che singoli soggetti o piccoli grup- pi non direttamente collegati alle reti più grandi tendono a radicalizzarsi esclusivamente attraverso il Web (ReaCT, Europol)10.
L’analisi del terrorismo francese, sviluppata su un campione di 44 soggetti noti su 64 terroristi totali, ci restituisce una fotografia in cui emerge la predominanza di terroristi di origine marocchina (24%) e algerina (18%), così come il Belgio dove i terroristi originari di Algeria e Marocco rappresentano il 31% del totale.
In Germania il gruppo nazionale più attivo è invece quello siriano, con il 23% dei terroristi, seguito da quello marocchino e iracheno, diver- samente dal Regno Unito che offre un quadro molto eterogeneo caratte- rizzato da una sensibile prevalenza – meno del 20% – di terroristi di origine pakistana11. L’analisi ha tenuto conto dei dati informativi relativi a 13 soggetti noti su 17 terroristi (database START InSight).
L’Italia, infine, tra i paesi meno colpito dal terrorismo e dalla vio- lenza jihadista, ha registrato otto terroristi: di questi, due sono marocchini e due senegalesi.
4. Immigrazione e terrorismo e in Europa.- Quando analizziamo il fenomeno terroristico in Europa, lo osserviamo attraverso le azioni com- xxxxx dai terroristi che hanno importato la violenza in Europa, ma anche attraverso la lettura delle azioni commesse da un rilevante numero di individui che invece, nati e cresciuti in Europa, sono cittadini europei o comunque regolarmente residenti all’interno dell’Unione, e che dall’in- terno hanno colpito: si tratta di soggetti prevalentemente immigrati rego- lari o di seconda e terza generazione appartenenti, in prevalenza, alle co- munità marocchina, algerina, tunisina – con un’età mediana di 22 anni (44% di età inferiore ai 26 anni); più ridotta la quantità di soggetti immi- grati irregolarmente12.
L’89% degli attacchi, di cui abbiamo informazioni complete, sono stati portati a termine da “immigrati” di seconda e terza generazione e immigrati di prima generazione, sia regolari che irregolari. Esiste dunque una correlazione meramente statistica tra immigrazione e terrorismo; è però vero che il numero di terroristi rispetto al totale degli immigrati è così marginale da rendere tale correlazione non significativa: l’ordine di misura è dell’unità per milione di immigrati.
10 Cfr. #ReaCt 2021, Rapporto sul radicalismo e il terrorismo in Europa, n. 2, 2020; e EU Terrorism Situation and Trend Report TE-SAT 2020, Europol.
11 Ibidem.
12 Ibidem.
Dei 138 soggetti di cui abbiamo informazioni complete (database START InSight), su un campione complessivo di 189 terroristi, 65 (47%) sono immigrati regolari; 36 (26%) sono discendenti di immigrati (secon- da o terza generazione); gli immigrati irregolari sono 22 (16%): un dato, quest’ultimo, in crescita che si attesta al 25% nel 2020. Significativa an- che la presenza di un 8% di cittadini di origine europea convertiti al- l’islam. Complessivamente il 73% dei terroristi sono regolarmente resi- denti in Europa, mentre il ruolo degli immigrati irregolari si impone con un rapporto di circa 1 ogni 6 terroristi13.
5. Esiste dunque un legame tra l’immigrazione e il terrorismo?- Guardando ai tre Paesi su cui questa analisi si è concentrata, Germania, Italia e Francia, possiamo affermare che gli immigrati sono sì un veicolo per la diffusione del terrorismo da un paese all’altro, ma è improbabile che l’immigrazione di per sé sia una causa diretta del terrorismo. Nessuna prova empirica ha sinora dimostrato che gli immigrati di prima genera- zione in quanto tali siano particolarmente propensi ad aderire al terrorismo. È però vero che l’afflusso migratorio da paesi a maggioranza musulmana in cui il terrorismo è un fenomeno accertato influirebbe in maniera rilevante sul verificarsi di attacchi nel Paese ricevente14.
Da un lato, è difficile sostenere l’esistenza di un nesso di causalità tra i due fenomeni: dunque l’essere migrante non sarebbe una condizione scatenante per l’adesione terrorismo. Dall’altro lato, è però vero che vi sono molteplici legami tra immigrazione e terrorismo e tra immigrati e terroristi. Si evidenzia, in particolare, l’esistenza di molteplici e solidi legami tra forme di criminalità organizzata e le reti di “trafficanti” di esseri umani15, così come l’ampio fenomeno migratorio irregolare, e i gruppi terroristi che sono presenti in alcune aree dei paesi del Nord Africa o dell’Africa sub-sahariana in cui è debole, o del tutto assente, la presenza dello Stato. Vi sono poi i terroristi di “andata e ritorno”: quei soggetti che dall’Europa sono andati a combattere in Siria, il che li rende di fatto “migranti”; un fenomeno che fa dell’Europa, in questo senso, un’esportatrice di terroristi. E ancora, i migranti economici che optano per l’adesione al terrorismo nel corso del loro viaggio. E, infine, vi sono i migranti che aderiscono al jihad o che emigrano per colpire, come conferma l’attacco terroristico di Nizza (Francia) del 29 ottobre 2020,
13 X. XXXXXXXXXX X., Immigrazione e terrorismo, cit.
14 A. XXXXXX, X. GASSEBNER, X. XXXXXXX, The Effect of Migration on Terror - Made at Home or Imported from Abroad?, CESifo Working Paper, No. 6441, 2017.
15 X. XXXX X., X XXXXXXX, Does Immigration Induce Terrorism?, in The Journal of Politics, 2016, 572-588.
portato a termine da un immigrato irregolare partito dalla Tunisia e sbarcato in Italia alcune settimane prima.
I servizi segreti spagnoli, a novembre del 2020, avvertivano del rischio di infiltrazione di terroristi in territorio spagnolo – e da qui ai paesi dell’Unione – sfruttando le rotte marittime verso le isole Canarie (Mogán, Gran Canaria). Così come da tempo i servizi di intelligence dei paesi europei avvertono del crescente rischio di utilizzo delle rotte migratorie illegali, gestite “dalle mafie”, da parte delle organizzazioni jihadiste per entrare nel continente.16
Un analogo allarme era stato lanciato, a partire dal 201817, dall’intelligence italiana mentre un’analisi approfondita è stata sviluppata dall’autore del presente contributo nel libro “Immigrazione e terrorismo. I legami tra flussi migratori e terrorismo di matrice jihadista” (START InSight, 2020).
6. Cresce il rischio potenziale di terrorismo con l’aumentare dei migranti irregolari.- Il 16% dei terroristi sono immigrati irregolari (2014- 2020), il 25% nel 2020.
In Francia è aumentato il ruolo degli immigrati irregolari nella condotta di azioni terroristiche. Se fino al 2017 nessuno degli attacchi aveva visto la partecipazione di immigrati irregolari, nel 2018 il 16% dei terroristi è un irregolare; percentuale che supera il 33% nel 2020.
In Germania dei dieci soggetti di cui si hanno informazioni complete, sui diciassette terroristi totali, otto sono immigrati recenti (cinque regolari e tre irregolari), due sono di seconda generazione.
In Italia su otto soggetti responsabili di azioni violente di matrice jihadista, cinque sono immigrati di prima generazione (quattro irregolari e un regolare); uno è di seconda generazione (figlio di immigrati). Di questi, almeno tre avrebbero agito nel nome dello Stato islamico. Sei azioni su otto hanno colpito forze armate e di polizia.
Alcuni Paesi, tra questi il Belgio, hanno denunciato nel 2019 la presenza di richiedenti asilo collegati con movimenti jihadisti radicali o gruppi terroristi (Europol).
I dati rilevati confermano un rischio statistico, poiché più immigrati significa maggiore probabilità che tra questi vi siano terroristi o soggetti che potrebbero aderire, anche in un secondo momento, al terrorismo jihadista. Ma a fronte di questa correlazione non vi è un evidente nesso di causalità: non è la condizione di migrante ad alimentare il terrorismo, ma
16 X. XXXXXX (2021), El CNI alertó en noviembre del posible uso de los yihadistas de las rutas de inmigración ilegal, El Mundo, 12 gennaio 2021.
17 DIS, Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza, Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica, 2020,
possono contribuire alla scelta di aderire al terrorismo alcuni fattori quali il trascorso individuale, le condizioni di vita al momento dell’arrivo, le reti criminali o jihadiste con cui entrano in contatto o dalle quali tali soggetti vengono intercettati.
7. Aumentano i recidivi e i soggetti già noti all’intelligence.- Cresce il numero di recidivi – soggetti già condannati per terrorismo che com- piono azioni violente a fine pena detentiva e, in alcuni casi, in carcere: dal 3% del totale dei terroristi nel 2018 (1 caso), al 7% (2) nel 2019, al 27% (6) nel 2020. Ciò conferma la pericolosità sociale di soggetti che, a fronte di una condanna detentiva, non abbandonano l’intento violento ma lo posticipano; un’evidenza che suggerisce l’aumento della probabilità di azioni terroristiche nei prossimi anni, in concomitanza con la fine della pena dei molti terroristi attualmente detenuti18.
Parallelamente ai soggetti recidivi, START InSight ha registrato l’aumento di azioni compiute da terroristi già noti alle forze dell’ordine o ai servizi di intelligence europei: 54% del totale nel 2020, contro il 10% nel 2019 e il 17% nel 2018.
In aumento, infine, i soggetti con precedenti detentivi (anche per reati non associati al terrorismo): 33% nel 2020 – erano il 23% nel 2019, 28% nel 2018 e 12% nel 2017; un’evidenza che rafforza l’ipotesi delle carceri come luogo di potenziale radicalizzazione e adesione al terrori- smo.19
In Francia più di un terzo dei terroristi di matrice jihadista ha una pregressa esperienza detentiva a seguito di condanna; mentre in Germa- nia sono tre su diciassette terroristi. In Italia su otto soggetti responsabili di azioni violente di matrice jihadista, quattro hanno una pregressa esperienza detentiva.
8. Focus: radicalizzazione e terrorismo in Italia.- La minaccia diffu- sa e puntiforme rimane dunque elevata in Europa. Il pericolo maggiore è rappresentato dai radicalizzati homegrown, cresciuti all’interno dei contesti nazionali, con spinte individuali ma stimolati dal complesso sistema di coinvolgimento emotivo della propaganda islamista.
Se nel Regno Unito sono circa 850 gli jihadisti che hanno dato il proprio supporto allo Stato islamico o che si sono trasferiti in Siria per unirsi alle forze combattenti del califfato, in Italia – come del resto in molti altri Paesi europei – sono sempre più numerosi gli aspiranti
18 X. XXXXXXXXXX, Immigrazione e terrorismo, cit.
19 X. XXXXXXXXXX, Numeri e profili dei terroristi jihadisti in Europa, in #ReaCT2021, 2° Rapporto sul radicalismo e il contrasto al terrorismo, Lugano, 2021.
jihadisti auto-radicalizzati che vengono fermati poco prima di portare a compimento un attacco terroristico o che sono stati arrestati nel tentativo di lasciare il Paese per unirsi a gruppi jihadisti: sono 51820 i soggetti iden- tificati ed espulsi dall’Italia dall’inizio del 2015 (147 espulsioni emesse dal ministro dell’Interno, 256 dal prefetto, 71 dall’autorità giudiziaria e 5 per riammissione “procedura Dublino”, 3 respingimenti ex art. 24 SIS II), erano 66 nel 2015, stesso numero nel 2016, 105 nel 2017 (un terzo del
totale), 126 nel 2018 e 98 nel 2019 e 57 nel 202021; 21 gli espulsi e rim- patriati alla fine del mese di giugno. La maggior parte degli individui e- spulsi proveniva dall’area del Nord Africa – 110 dal Marocco, 99 dalla Tunisia e 26 dall’Egitto – e dall’area balcanica22 – 13 cittadini albanesi, 15 kosovari e 12 macedoni. Il 37% di questi erano detenuti in carcere.
Aumentano, tra i jihadisti, gli adolescenti e i giovani adulti, con un’età compresa tra i 15 e i 27 anni, giunti in Italia in tenera età con la famiglia di origine; un’evoluzione che obbliga gli organi investigativi (Digos, Ros e servizi segreti) a concentrarsi su un numero sempre maggiore di radicalizzati posti sotto osservazione, ed espulsi dal territorio nazionale nel caso di soggetti non aventi cittadinanza italiana. Numeri che confermano come la minaccia terroristica sia un fenomeno sempre più sociale e sempre meno “militare”.
L’Italia, come il resto d’Europa, subisce l’influenza dell’attività di propaganda on-line, seppur sempre più debole, dello Stato islamico e di gruppi autonomi, spesso minimali, che al “califfato” si richiamano. Una propaganda che, sminuendo la rilevanza delle perdite territoriali da parte del gruppo terrorista, esalta la retorica del martirio e la resilienza dei suoi mujaheddin (DIS, 2019); una narrativa funzionale a motivare gli aderenti spostando l’attenzione dalla sconfitta sostanziale alla lotta, i cui risultati saranno raggiunti in un futuro non definito e solamente attraverso lo sfor- zo individuale e la partecipazione alla guerra. Non mancano i casi di a- zione diretta, sul campo virtuale del Web, di soggetti che sono fisicamen- te in Italia e che sempre più spesso vengono coinvolti in attività di diffusione, traduzione, sotto-titolatura di testi, video e audio di propagan- da jihadista e manuali operativi, periodicamente aggiornati e diffusi attraverso le reti di un’organizzazione sempre più ramificata sul Web: e così si diffondono istruzioni e dettagli su obiettivi da colpire, tecniche, tattiche e procedure operative, preparazione o reperimento di armi ed equipaggiamenti di uso comune (armi bianche e da fuoco, uso dei veicoli
20 Dati aggiornati al 31 dicembre 2020. Fonte Ministero dell’Interno.
21 Ibidem.
22 Cfr. X. XXXXXXX, L’esperienza del Kosovo nel rimpatrio dei foreign fighters: lessons learned, in #ReaCT2021 Rapporto sul radicalismo e il terrorismo in Europa, N. 2, Anno 2, Lugano, 2021.
contro la folla e sostanze nocive o tossiche per azioni di avvelenamento), sabotaggio di infrastrutture idriche, energetiche e di trasporto. Si tratta di appelli il cui obiettivo è quello di indurre i singoli soggetti ad agire come “avanguardie” dello Stato islamico. Dalla radicalizzazione all’azione il passo è breve.
A conferma di quest’ultimo elemento è il caso, di cui si parlerà più oltre, di Xxxxxx Xxxxxxx: il ventitreenne jihadista italo-marocchino di Xxxxx Xxxxxxxx, arrestato il 28 marzo 2018, in seguito alle indagini della Digos di Brescia, con l’accusa di aver firmato il primo testo di pro- paganda dello Stato islamico redatto in italiano e per essere stato in pro- cinto di preparare un attentato con un camion. Xxxxxx, attraverso i social network, era riuscito a creare una rete di jihadisti internauti, in particolare italiani convertiti all’Islam e giovani immigrati di seconda generazione; era inoltre riuscito a raccogliere sul Web materiale jihadista in lingua araba o inglese che aveva poi tradotto e rielaborato in italiano con finalità apologetica e di proselitismo in favore della jihad.
Un caso analogo a quello di Xxxxxx Xxxxxx, marocchino di 19 anni radicalizzatosi molto velocemente attraverso il Web, arrestato a Fossano (Cuneo) dai Carabinieri del Ros per attività criminali, istigazione a delin- quere con finalità di terrorismo e per essere parte di una associazione terroristica. Un terrorista homegrown che sul Web si presentava come Ilyass El Magrebi e inneggiava alle gesta eroiche dei mujaheddin, ai quali si ispirava: «È deprimente morire di vecchiaia…», scriveva sulla propria pagina Facebook, poco prima di essere arrestato.
9. Il caso Xxxxxx Xxxxxxx: l’aspirante “ideologo” italiano dello Sta- to islamico.- «Associazione a delinquere al fine del raggiungimento degli obiettivi dello Stato islamico (…), ai fini dell’eversione dell’ordinamento costituzionale democratico». Con queste parole il Pubblico Ministero Xxxxxx Xxxxx aveva chiesto la condanna per Xxxxxxx Xxxxxx, il giovane jihadista marocchino naturalizzato italiano, condannato a 6 anni e 6 mesi di reclusione per terrorismo – apologia e istigazione a commettere un attentato –, difeso dall’avvocato Xxxxxx Xxxxx (in sostituzione dell’avvo- xxxx Xxxxxx Xxxxx): il giovane marocchino naturalizzato italiano è colpevole, lo ha stabilito il tribunale di Torino il 28 giugno 2019, dopo un processo andato avanti mesi, tra rinvii e cambi di avvocato difensore.23
Chi è Xxxxxx, il terrorista torinese? 23 anni al momento dell’arresto avvenuto nel marzo del 2018, è un personaggio noto agli investigatori dell’Antiterrorismo della Digos; il suo nome compare nella maggior parte dei processi per jihadismo celebrati in Italia: quello a “Fatima” Xxxxxx, la
23 L’Autore del presente articolo ha seguito tutte le fasi del processo.
prima foreign fighter italiana, di origini campane, condannata a nove anni e probabilmente morta in Siria tra le fila del Califfato; e ancora, è prota- gonista di un’altra vicenda legata al terrorismo internazionale che lega l’Italia alla Svizzera: il caso di Xxxxxxxxxx Xxxxxxxxxxx, l’ex campione di kickboxing (di origini marocchine) residente in Lombardia ma che si allenava nel Luganese, poi condannato a sei anni per terrorismo.
Halili – già in precedenza indagato e poi condannato, previo patteg- giamento, a due anni di reclusione con sospensione condizionale della stessa per istigazione a delinquere con finalità di terrorismo per aver redatto e pubblicato via Web alcuni importanti documenti a favore dello Stato Islamico – rappresenta un elemento chiave per comprendere il jihadismo italiano legato al fenomeno dello Stato islamico.
Xxxxxx non è stato un combattente, non ha avuto ambizioni operative, né ha manifestato l’interesse ad immolarsi come soldato nel nome del Califfato del defunto Xxx Xxxx xx-Xxxxxxxx. Xxxxxx è stato molto di più: nelle sue intenzioni lui si è imposto, in parte riuscendoci, come ideologo dello Stato islamico in Italia: esaltando le virtù del movimento terrorista, impegnandosi per l’imposizione della xxxxx’a (la legge coranica) in Italia, incitando soggetti conosciuti prima sul Web – e poi incontrati di persona
– ad agire, a colpire nel nome dell’Islam, giustificando qualunque tipo di violenza nei confronti degli infedeli, degli apostati, ma anche dei musul- mani che si sono lasciati corrompere dalla “religione della democrazia”.
Il suo è stato un lavoro intellettuale molto articolato, sapientemente ricostruito dagli operatori della Digos di Torino il cui lavoro è stato fon- damentale per il Pubblico Ministero Xxxxxx Xxxxx, che in sede di dibat- timento ha chiesto la condanna a cinque anni per Xxxxxx raccomandando la necessità di farlo partecipare a un corso di de-radicalizzazione. Difficile dire quali potranno essere gli sviluppi di tale processo di de-radicalizza- zione: va ricordato come in Italia non esista un percorso articolato e strut- turato, anche a causa del fatto che il progetto di legge che lo avrebbe isti- tuito (promosso da Xxxxxxx Xxxxxxxxx e Xxxxxx Xxxxxxxxx) dopo essere stato approvato alla Camera, si è fermato al Senato alla chiusura della XVII legislatura.
Il lavoro di Xxxxxx, come hanno ben ricostruito gli inquirenti, si è concentrato sull’ideologia jihadista, sulla sua giustificazione religiosa e, cosa più importante, sullo sviluppo di un manuale teologico per gli aspiranti jihadisti italiani. È il “quaderno rosso” di Halili: un elaborato di 64 pagine, meticolosamente compilato ed estremamente ordinato che, in maniera efficace, sintetica e analitica, ripropone i concetti tratti dalle lezioni dei “predicatori dell’odio” reperite sul Web, e da cui sono stati sviluppati i suoi successivi scritti poi condivisi dalla rete jihadista che ne ha fatto un documento di riferimento. Nel suo “quaderno rosso” Halili ha
riportato la sua interpretazione del “dovere di uccidere” anche attraverso gli attacchi terroristici, che lui riconosce come “legittimi atti di guerra”:
«qualsiasi cittadino non musulmano che fa parte della coalizione che bombarda lo Stato islamico è un obiettivo militare per noi» – dice Xxxxxx nel suo scritto. E ancora, sempre nel quaderno, Xxxxxx parla di Islam come elemento politico, e dunque guerra, che deve contrapporsi alla democra- zia e sottometterla.
L’analisi del caso Xxxxxx mette in evidenza la sua estrema intelli- genza e capacità di reclutamento e indottrinamento: è bravo a scrivere, bravo a parlare, convincente e determinato. La sua ambizione personale, oltre al suo contributo nella realizzazione del Califfato globale, è stata quella di crearsi una nuova identità, quella di ideologo e veicolo “critico” del messaggio dello Stato islamico. Una sorta di imam, capo spirituale. Ma è il suo approccio che ne ha dimostrato le indiscusse capacità: “lob- bistico”, improntato a “fare rete”, allagare l’uditorio e i soggetti con cui interfacciarsi e dialogare. Un atteggiamento che si colloca sul piano dell’apologia di xxxxx’a che tende alla radicalizzazione violenta. È in- dubbiamente un islamista, ha contatti radicali e accede a contenuti ideolo- gici radicali che rielabora e diffonde: ma è l’ideologia della xxxxx’a. E questo conferma le preoccupazioni nei confronti di quell’islam politico che dell’applicazione della legge coranica fa la sua battaglia.
Un’analisi, quella degli inquirenti, che si accompagna alle evidenze di anni di indagini da cui emergono le idee, le intenzioni e le azioni di un Halili che si radicalizza sempre di più, attraverso il Web, a da qui ai contatti, prima virtuali e poi fisici con i suoi interlocutori, a loro volta nel mirino di altre procure che indagano sul terrorismo jihadista in Italia. Il giovane jihadista marocchino aumenta sempre più, con il passare del tempo, le ore dedicate allo “studio” del jihad, all’analisi dei testi dello Stato islamico, arrivando a trascorrere anche due ore al giorno leggendo il giornale Dabiq e Amaq, organi di informazione dell’ISIS in Siria e Iraq. Trascorre ore e ore lasciandosi ipnotizzare da video e audio jihadisti che lo alienano e lo motivano sempre più.
Si allontana dalla famiglia, arrivando a picchiare il padre, accu- sandolo di essere un apostata; effettua donazioni di soldi ad organiz- zazioni jihadiste, attraverso la pagina Facebook “musulmani d’Italia”. Fino ad allargare la sua rete virtuale al di là dei confini nazionali, arrivan- do direttamente alla linea del fronte siriano dove è stato in contatto, tra gli altri, con un jihadista combattente, Xxxx xx-Xxxxxx, con cui dialoga a lungo e raccoglie, diffondendole successivamente, le informazioni dal campo di battaglia e sulle truppe che combattono. È con Xxxx xx-Xxxxxx che Xxxxxx si accredita, presentandosi come l’autore del documento-guida tradotto in italiano: un’autodenuncia che ha rappresentato per l’accusa un
elemento forte per confermare il capo di imputazione e definire nel dettaglio il ruolo di Halili a supporto dello Stato islamico.
Il 28 giugno 2019 viene così condannato a sei anni e sei mesi di detenzione per terrorismo, Xxxxxxx Xxxxxx, il jihadista di Xxxxx torinese, l’ideologo dello Stato islamico in Italia; pena poi aumentata a sei anni e nove mesi dalla Corte d’Assise d’Appello di Torino nel processo di secondo grado chiuso nel dicembre 2020: una condanna che conferma ancora una volta la concretezza della minaccia jihadista dello Stato islamico, non solamente nella sua essenza territoriale e fisica, ma ancora più pericolosamente su un piano ideologico e religioso che continua ad auto-alimentarsi e ad adattarsi alle misure di contrasto.
Abstract
Terrorism in Europe. France, Germany and Italy: Attacks, Counterterrorism, Expulsions
The long wave of terrorism which hit Europe following the emergence of the “Islamic State” phenomenon recorded 146 jihadist attacks from 2014 to 2020: 188 terrorists took part in these attacks (59 among them died in action); 406 people lost their lives; 2,421 were injured. Cases of recidivism are on the rise: 3 out of 10 occurred in 2020. START InSight also spotted an increase in actions carried out by terrorists already known to European police forces or intelligence services. An increase in the number of irregular migrants heightens the potential risk of terrorism: 16% of terrorists are irregular immigrants. In France, the number of irregular immigrants involved in terrorist attacks is growing. Until 2017, no attack had seen the participation of irregular immigrants: in 2020, they reached 33%. All data have been extracted from the START InSight Database focused on terror attacks in Europe.
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IL COVID-19: UN REGALO PER I GRUPPI JIHADISTI?
XXXXX XXXXXXXXXX XXXXXXXXX DI MONTEFORTE1
1. Il COVID-19 e i non-state actor.- Gli ultimi sviluppi legati al terrorismo internazionale impongono un approfondimento connesso al tema che più di ogni altro ha influenzato ogni aspetto della vita nel 2020: il COVID-192. Tra le molteplici negative conseguenze dobbiamo infatti annoverare anche le azioni che numerosi non-state actor stanno intra- prendendo per sfruttare al massimo la pandemia e le misure statali adottate per contenere la diffusione del virus. Si tratta di azioni che po- trebbero influire sul ruolo che tali attori andranno ad assumere nel medio e lungo termine e, conseguentemente, sulle modalità di contrasto da adottare.
Tra tali attori, a livello internazionale dobbiamo annoverare gruppi jihadisti, movimenti dell’estremismo violento (soprattutto di destra) e gruppi criminali transnazionali, laddove a vario titolo e con diverse mo- dalità hanno tutti inglobato la pandemia nella propria propaganda e stan- no sfruttando la diffusione del virus per fare nuovi proseliti e acquisire una posizione vantaggiosa in vista di un mondo post-COVID nel quale auspicano avere un ruolo determinante3, se non addirittura centrale. In particolare, sono soprattutto i grandi network intorno ai quali è polariz- zata la galassia jihadista4, Al Qaeda (AQ) e l’Islamic State (IS), a lavora- re intensamente affinché la pandemia si trasformi in un’opportunità per sovvertire l’attuale ordine mondiale in vista della ricostituzione di quel Califfato cui entrambi mirano e che manca dalla fine della Prima Guerra Mondiale5.
1 Le opinioni espresse rappresentano unicamente l’Autore e non corrispondono necessa- riamente a quelle dell’Amministrazione di appartenenza.
2 In tal senso si veda, C.P. XXXXXX, From COVID to the Caliphate: A Look at Violent Extremism Heading into 2021, in United States Institute of Peace, 15 December 2020.
3 Si veda X. XXXXXXXXX DI XXXXXXXXXX, X. XXXXXXXXXX XXXXXXXXX DI XXXXXXXXXX, Il
mondo dopo il COVID-19. Conseguenze geopolitiche e strategiche. Posture dei gruppi jihadisti e dell’estremismo violento, Milano, 2020.
4 Per la struttura della galassia jihadista, si veda X. XXXXXXXXXX XXXXXXXXX DI XXXXXXXXXX,
Perché ci attaccano. Al Qaeda, l’Islamic State e il terrorismo “fai da te”, Roma, 2017.
5 Per analizzare come IS ha organizzato il Califfato nel teatro siro-iracheno tra il 2014 e il 2017,
X. XXXXXXXXXX XXXXXXXXX DI XXXXXXXXXX, Vivere a Mosul con l’Islamic State. Efficienza e brutalità del Califfato, Milano, 2019.
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE FASC. 1/2021 pp. 25-36 EDITORIALE SCIENTIFICA SRL – ISSN 0010-5066
Come sottolineato dai vertici di Nazioni Unite6, Unione Europea7 e numerose forze di polizia e agenzie di sicurezza di tutto il mondo, l’u- tilizzo che gruppi terroristi e movimenti estremisti stanno facendo della situazione rappresenta una minaccia crescente, che rischia di passare in secondo piano davanti alle emergenze sanitarie e economiche.
2. Il diverso contesto regione per regione.- La pandemia ha colpito tutto il mondo, ma le sue conseguenze si sono manifestate in modo diversificato in ogni Regione e ciò ha comportato un duplice effetto: da un lato diverse sono state le reazioni della società civile, dall’altro diverso l’atteggiamento dei vari gruppi e movimenti a seconda della zona del mondo alla quale si rivolgono.
In particolare, come le conseguenze sulla popolazione sono state diverse tra Occidente e Paesi dell’Area MENA, analogamente diverso è stato l’atteggiamento che i principali gruppi jihadisti hanno adottato nei confronti delle popolazioni presenti nei Paesi Mediorientali e Nord Africani rispetto a quello adottato nei confronti degli Occidentali, e, come vedremo, profondamente diverse verso gli occidentali sono state le risposte delle leadership di AQ e IS.
Prima di approfondire tale aspetto, e vedere come IS ha approfittato della situazione per chiedere di attaccare l’Occidente in un momento di difficoltà, mentre AQ ha teso una mano agli occidentali in difficoltà per fare nuovi proseliti, si deve riflettere su alcuni importanti fattori, che stanno favorendo l’azione dei gruppi terroristi in modo differente nei vari ambiti regionali.
In Occidente alla crisi sanitaria si è affiancata una crisi economico- sociale che sta favorendo l’azione di vari tipi di estremismo violento, ad iniziare da quello di destra8, e di sostenitori di numerose teorie cospira- zioniste, fomentate da deliranti fake news che vedono ad esempio connes- sioni tra la diffusione del virus e lo sviluppo della nuova rete veloce 5G9.
6 UN, CTED, Trends Alert about extreme right-wing terrorism, in UN web site, 1 July 2020.
7 EU Counter-Terrorism Coordinator, Terrorism in Times of Corona: The development of the terrorist threat, Council of the European Union, Doc. 7838/20, 7 May 2020.
8 Si veda X. XXXXXXXXX DI XXXXXXXXXX, X. XXXXXXXXXX XXXXXXXXX DI XXXXXXXXXX, Il
mondo dopo il COVID-19, op.cit., 157 ss.
9 I sostenitori delle teorie che legano la pandemia agli effetti negativi della rete 5G sosten- gono che vi siano legami tra la rete (e la presenza di sue antenne) e l’insorgere dei casi. Sono responsabili di numerosi attacchi incendiari contro antenne della rete mobile di ultima ge- nerazione e, probabilmente, anche dell’attacco con pulmino-bomba che ha devastato una parte di Nashville alla Vigilia di Natale 2020. Si veda, E. XXXXXX, Nashville Bombing Suspect Xxxxxxx Xxxxxx'x Possible Ties to 5G Conspiracy Theory Investigated, in Newsweek, 27 December 2020; X. XXXXX, X. XXXXX, X. XXX, X. XXXXXXXXX, When Nashville Bombing Hit a Telecom Hub, the Ripples Reached Far Beyond, in The New York Times, 29 December 2020.
In molti Paesi dell’Area MENA le conseguenze della diffusione del virus e delle misure adottate per il contenimento della sua diffusione hanno esacerbato le divisioni socio-economiche e favorito quelle diffe- renze già presenti tra gruppi etnici o religiosi, creando nuove minoranze e esasperando i preesistenti problemi. Ciò non è dovuto solo ad aspetti che sono ben noti anche da noi, quali i problemi del sistema sanitario o economico, ma anche all’impatto che la pandemia ha ad esempio avuto sul settore della sicurezza e dell’amministrazione della giustizia, con inevitabili pesanti negativi effetti su rispetto dei diritti dell’uomo e rule of law. Ecco che in tali Paesi se da un lato è cresciuta l’insicurezza ed è diminuita la possibilità di veder garantiti i propri diritti, da un altro lato si è spesso creato un vuoto di potere che ha permesso ad alcuni non-state actor, tra cui gruppi criminali e terroristi, di occupare tali spazi e fornire quei “servizi” che il sistema statale non riusciva più a garantire, accapar- randosi così le simpatie di parte della popolazione.
In numerose aree10, gruppi che mai avevano ad esempio manifestato attenzione verso le problematiche sanitarie sono improvvisamente diventati i paladini della salute pubblica. Si pensi in tal senso ai Talebani, storici alleati di AQ e firmatari a febbraio 2020 di un accordo con gli USA11, che nella scorsa primavera hanno diffuso materiale propagandista in cui si vedono loro uomini prestare assistenza e fornire beni di prima necessità12. Si tratta di immagini che contrastano fortemente con quello che è stato sino ad oggi il loro atteggiamento verso ogni forma di assistenza medica e vaccinazione, nonché, come noto, di istruzione, soprattutto femminile.
3. I gruppi jihadisti e la pandemia.- Venendo alla diversa postura dei principali gruppi jihadisti, si può innanzitutto sottolineare come dopo alcune settimane di iniziale confusione tutti, attraverso quella che taluni esperti hanno definito “retorica opportunista”13, hanno trovato quella che
10 Si veda C. P. XXXXXX, Yesterday’s Terrorists Are Today’s Public Health Providers, in Foreign Policy, 8 April 2020.
11 Opinione pressoché unanime di tutti gli esperti del counter-terrorism è che i talebani continuino ad essere strettamente legati al gruppo fondato da xxx Xxxxx. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato a fine maggio, la stessa trattativa tra talebani e americani sarebbe stata condotta dai primi in totale coordinamento con AQ. In tal senso, X. XXXXXXXX, U.N.: Taliban “regularly consulted” with Al Qaeda throughout negoziations with U.S., in Long War Journal, 1 June 2020.
12 A tal proposito, si veda, X. XXXXXXXX, X. XXXXXX, Beware of terrorists offering COVID19 aid, in ORFONLINE, 17 April 2020; A. XXXXXXX, For the Taliban, the Pandemic Is a Ladder. The Islamist group is using the coronavirus crisis for propaganda—with potentially dire consequences for those living under its control, in Foreign Policy, 6 May 2020.
13 X. XXXXXX, Groupes djihadistes et Covid-19: postures et impacts, in Ultima Ratio, 10 avril 2020.
per ciascuno era la strada migliore per approfittare della situazione re- stando fedeli ai propri principi, arrivando nel maggio 2020 a diffondere attraverso i loro canali mediatici ufficiali interventi delle rispettive leadership.
Ricordiamo che i due network intorno ai quali è da anni polarizzata la galassia jihadista, pur essendo molto più simili di quanto normalmente si pensi, manifestano la spiritualità in modo diverso e hanno tempi diversi per raggiungere il comune obiettivo finale della ricostituzione del Califfato: AQ è saggia e paziente, sempre molto attenta alla dottrina, mentre IS è impulsivo, violento e affrettato, campione dell’accettazione immediata di qualsiasi giovane e gruppo voglia giurare fedeltà al Califfato14.
Tutto ciò ha influenzato le risposte che IS e AQ hanno fornito in occasione dello scoppio della pandemia, anche se alcuni elementi hanno però accomunato un po’ tutti gli estremisti islamici, compresi quelli non vicini a AQ o IS.
Innanzitutto, il virus è una punizione divina, e anche se inizialmente diverse sono state le motivazioni addotte, su questo sono stati tutti d’accordo sin dal primo momento e nessuno ha cambiato opinione.
Inoltre, grazie al COVID i comportamenti occidentali non consoni all’Islam sono stati temporaneamente modificati: sono stati chiusi bar, pub, discoteche, cinema e altri “luoghi di perdizione”, mentre il lockdown ha fatto diminuire il consumo di alcolici e tabacco, reso impossibile idolatrare lo sport o l’arte e avere rapporti extraconiugali; esso ha inoltre “velato” le donne con le mascherine, rendendole finalmente non più schiave del trucco e della bellezza esteriore, se non a casa con il proprio coniuge, e facendo sì che si dedicassero h24 a marito, figli e casa, ab- bandonando di contro il loro ruolo di donne in carriera. Il virus ha co- stretto i governi occidentali a imporre una dottrina neo-salafita, vietando abbracci e assembramenti, e imponendo distanziamento e mascherine.
Un ulteriore elemento merita di essere sottolineato: entrambe le leadership hanno parlato con comunicati dei propri vertici, diffusi attraverso canali ufficiali. Si tratta di un qualcosa che avviene molto di rado e indica la centralità che la pandemia ha assunto. AQ e IS, sempre più in aperto contrasto, anche con scontri armati, si stanno fronteggiando a distanza sul piano delle risposte al COVID, ma su una cosa evidentemente concordano: al termine della pandemia ci sarà un nuovo ordine mondiale nel quale l’Occidente sarà più debole e i jihadisti
14 Si veda X. XXXXXXXXXX XXXXXXXXX DI XXXXXXXXXX, Perché ci attaccano, Al Qaeda, l’Islamic State e il terrorismo “fai da te”, op. cit.
potranno giocare un ruolo fondamentale, è pertanto il momento di agire ai massimi livelli per non perdere questa grande occasione.
Quanto alle posizioni di AQ e IS, per entrambi il virus è una punizione divina, ma profondamente differente è stato l’atteggiamento verso i non musulmani: IS con il suo solito approccio ha approfittato della situazione per invitare a colpire il nemico in difficoltà, mentre AQ si è mostrata come sempre saggia e pacata, concentrandosi sugli aspetti spirituali e cercando di ottenere vantaggi invitando a convertirsi all’Islam e mostrandosi attenta alla salute fisica e spirituale di tutti (pur criticando le concezioni e le decisioni politiche di alcuni governi occidentali si è concentrata sul benessere di ogni essere umano)15.
4. Al Qaeda e i suoi affiliati.- AQ ha dimostrato fin dall’inizio pacatezza e lungimiranza, riuscendo a muoversi senza eccessi per ottenere il maggior risultato possibile, come si evince da una rapida analisi delle sue principali prese di posizione della primavera 2020:
- a fine marzo un documento di 6 pagine nel quale si invitano i cittadini occidentali ad approfittare del tempo da trascorrere in casa per studiare l’Islam. Nel documento l’unica frase in grassetto è la seguente
«A General Call for the Masses in the Western World to Embrace Islam». Con toni decisamente conciliatori AQ si rivolge direttamente ai non musulmani dichiarando: «Vorremmo esprimere il nostro forte desiderio che voi diventiate i nostri partner in paradiso... Proprio mentre condividiamo la vita su questa terra. È nostro desiderio e augurio che tutti condividiamo la vita eterna in cielo. Pertanto, ti invitiamo a conoscere l'Islam e convertirti ad esso». Al contempo, nel comunicato AQ indica il virus come una punizione divina per i peccati e l’immoralità che si diffondono nel mondo (musulmano e non), mentre si afferma che l’Islam avrebbe il grande merito di prescrivere da sempre pratiche di igiene personale che ostacolano la trasmissione del virus16;
- il 20 maggio un video dell’organo ufficiale As-Sahab Media17 dai toni meno conciliatori, con un attacco all’approccio statunitense e britannico alla pandemia, definito “darwinista, al confine con l’eugenetica”. Con il video, nel quale si prende in giro il Presidente Xxxxx per aver suggerito di praticare “iniezioni di disinfettante”, AQ dimostra di seguire le notizie internazionali e di riuscire a diffondere
15 In tal senso, M. XX-XXXX, Jihadists see COVID-19 as an Opportunity, in Global Network, 1 June 2020.
16 Quella islamica sarebbe, secondo le parole di AQ, una “hygiene-orientes Religion”.
17 È una cosa piuttosto rara che denota l’importanza che l’organizzazione conferisce al fenomeno e l’attenzione che da sempre il gruppo dimostra tanto per la situazione internazio- nale e le sorti del “nemico Occidente”, quanto per il benessere dei fedeli musulmani.
materiale in pochi giorni18. Le politiche di Xxxxx e Xxxxxxx sono addita- te come “sanguinose politiche razziali”, contrarie al volere di Allah e in contrapposizione alla Sua misericordia e al dovere di curare e aiutare tutti, facendo tutto ciò che si può per la salute di ogni persona;
- il 22 maggio il IV numero del magazine in lingua araba One Ummah, nel quale AQ continua con la linea meno intransigente verso l’Occidente lasciando intendere come nel post-COVID gli Stati Uniti e l’Occidente, colpiti dalle sfide del virus, degli scontri razziali (ricordiamo che nel frattempo negli USA erano scoppiati importanti scontri in seguito alla morte dell’afroamericano Xxxxxx Xxxxx durante un fermo di polizia) e della crisi economica, non guideranno più il mondo;
- l’8 giugno la versione inglese di One Ummah, secondo numero della serie in inglese19, il cui contenuto è stato (come avviene sempre in questi casi)20 adattato al pubblico occidentale: il vero coup de théâtre è l’utilizzazione per la copertina di un’opera del noto artista e writer britannico Xxxxxx, postata appena due giorni prima da questi sul suo account Instagram e raffigurante un volto nero (presumibilmente Xxxxx) in una cornice, accanto ad alcuni fiori freschi e secchi e ad un cero, la cui fiamma brucia un lembo di una bandiera statunitense appesa in verticale. AQ, dimostrando ancora una volta incredibile presenza e capacità nel disseminare rapidamente i suoi materiali, utilizza l’immagine per l’intera copertina, aggiungendo semplicemente il logo dell’organo mediatico ufficiale As-Sahab Media in basso a sinistra e in alto il titolo della rivista (One Ummah), con il numero (Issue 02), mese e anno (June 2020). La rivista, di 83 pagine, si concentra sulle sfide che gli USA devono affrontare: le proteste seguite all’ennesima morte di un nero da parte di un bianco durante un fermo di polizia, la pandemia, e la conseguente crisi economica. Si tratta, scrive AQ, di problemi religiosi causati da regimi infedeli. L’editoriale si sofferma sulla politica interna statunitense e su quelli che definisce i cinque lati della “bara pentagonale americana”: le divisioni, la diffusione del COVID-19, il razzismo, la crisi economica e gli attacchi dei mujahedin21. XX invita i suoi sostenitori a capitalizzare questo momento, mentre a tutti gli oppressi dice di seguire l’esempio di Malcom X22 e abbracciare l’Islam, come suggerito sin dal comunicato di
18 Le parole di Xxxxx risalgono al 24 aprile, AQ ha registrato e disseminato un video ufficiale in meno di un mese.
19 La versione inglese del primo numero era stata pubblicata l’11 settembre 2019, in occasione della ricorrenza degli attacchi del 2001.
20 Per i magazine pubblicati da AQ e IS nelle varie lingue, si veda Quadarella Xxxxxxxxx di Xxxxxxxxxx L., Perché ci attaccano, op. cit., 99 ss.
21 Probabilmente AQ fa riferimento soprattutto all’attacco del dicembre 2019 alla base militare di Pensacola, negli USA, diretto da Al Qaeda nella Penisola Arabica.
22 Già citato in precedenti pubblicazioni da AQ.
fine marzo. AQ, a differenza di IS, tende una mano agli americani in difficoltà e si presenta apertamente come un alleato per gli oppressi e chi è in difficoltà, a prescindere (specifica in modo espresso) dal fatto che siano musulmani.
Tra i gruppi affiliati ad AQ, se escludiamo una strategia leggermente diversa da parte del somalo Al Shabab, che ha accusato i crociati inter- nazionali di aver portato il virus in Africa orientale puntando il dito in particolare contro la Missione dell’Unione Africana in Somalia ed i suoi alleati occidentali, possiamo dire che tutti hanno invitato a pregare e ri- spettare le regole necessarie al contenimento della diffusione del virus, approfittando in taluni casi del momento di difficoltà delle truppe inter- nazionali per attaccarle o liberare propri uomini prigionieri nelle carceri.
5. L’Islamic State e i gruppi a lui vicini.- IS ha sin dai primi giorni dimostrato il suo solito opportunismo nel sapere sfruttare qualsiasi situazione volgendola in proprio favore. Ecco le sue principali azioni e strategie23:
- attraverso il settimanale Al Naba24 ha sin da subito additato la malattia come una punizione divina, ma ha curiosamente mutato la motivazione con lo spostarsi territoriale dell’epicentro della pandemia: nelle primissime settimane era una punizione contro la Cina per il trattamento degli uiguri, quando il virus ha colpito l’Iran una punizione nei confronti degli sciiti per la loro apostasia, poi, arrivato in Occidente, contro gli infedeli e i loro costumi;
- subito dopo IS ha iniziato tramite Xx Xxxx e vari comunicati a promuovere il terrorismo “fai da te” invitando i giovani che risiedono in Occidente a trasformarsi in soldati del Califfato e attaccarlo mentre è in difficoltà, e quelli che si trovano in aree di crisi a colpire come lupi solitari per liberare prigionieri detenuti nelle carceri;
- dal mese di maggio IS ha leggermente cambiato posizione, cercando con consigli igienico-sanitari di farsi vedere attenta ai bisogni delle popolazioni colpite dal virus, presente ormai anche nei Paesi musul- mani. A tutti è stato anche chiesto di limitare gli spostamenti per non
23 Per alcune si veda X. X. XXX XXXXXXXX, The Islamic State and Coronavirus, Time for a Comeback?, in ISPI, 15 May 2020; M. KRONA, Online Jihadi Sympathizers and the Coronavirus Outbreak, 15 May 2020.
24 Il primo numero di Al Naba a citare il virus è stato quello del 12 marzo 2020, il tema diviene poi centrale già dalla pubblicazione del 19: alle deliranti teorie sul fatto che la pandemia sia una punizione divina sono comunque già da questi numeri presenti indicazioni igieniche che si consiglia di osservare. Nei numeri di Al Naba di aprile il tema continua ad essere molto presente e sono citate le conseguenze militari, economiche e securitarie che il COVID avrà sui Paesi occidentali e sul dispiegamento di loro truppe in Medio Oriente.
favorire la diffusione del contagio25, ma IS ha iniziato ad approfittare del- la situazione per incrementare attentati e azioni di guerriglia in varie aree;
- il 28 maggio ha diffuso un video26 del maggiore dei suoi organi mediatici, al Furqan, con un audio-messaggio del nuovo portavoce Xxx Xxxxx al Qurashi incentrato sul COVID, “punizione per i crociati”, che così si troverebbero a dover fronteggiare la stessa misera situazione cui hanno costretto gli uomini di IS, con “corpi per le strade, lockdown e una situazione di assedio”. Il COVID è comparato ai segni che Dio mandò contro il Faraone al tempo di Xxxx, mentre gli effetti della pandemia a quelli della campagna della coalizione anti-IS contro le popolazioni che vivevano nei suoi territori, soffermandosi anche sulla profonda crisi economica che seguirà, invitando i governi del mondo intero a riflettere sul fatto che è la volontà divina: la punizione sarà vera e completa non appena i jihadisti raggiungeranno la vittoria e stabiliranno nuovamente il loro dominio27. Nel messaggio28, che continua parlando dell’Iraq e si con- centra lungamente anche sugli scontri con AQ in Africa Sahelo-sahariana e ed è poi insolitamente citato a lungo il Qatar mentre è per la prima volta ignorata l’Arabia Saudita, al Qurashi parla molto delle prigioni e dei prigionieri29. IS, capitalizzando al massimo la pandemia, lancia un dop- pio messaggio: il coronavirus è una punizione divina per i crociati della coalizione anti-IS e il gruppo continuerà a combattere fino alla vittoria;
- a giugno, dopo i disordini scoppiati negli Stati Uniti in seguito alla
morte di Xxxxx, IS in un lungo editoriale del settimanale al Naba ha previsto la loro diffusione in tutto l’Occidente, paragonandola con quanto avvenuto con il COVID.
Va sottolineato come IS abbia affiancato alla propaganda anche atti- vità operative che però non rientrano propriamente tra quelle assistenziali che invece stanno distinguendo altri gruppi jihadisti, bensì in azioni terroriste (in Medio Oriente, Africa e, attraverso il terrorismo “fai da te”,
25 Sarebbe prescritto da alcune hadith presenti nel Corano.
26 Dal titolo “And the disbelievers will know to whom the final abode belongs”.
27 Per comprendere come IS intenderebbe organizzare il suo dominio, si analizzi come IS ha organizzato il Califfato nel teatro siro-iracheno tra il 2014 ed il 2017: si vedano le testimonianze esclusive raccolte in X. XXXXXXXXXX XXXXXXXXX DI XXXXXXXXXX, Vivere a Mosul con l’Islamic State. Efficienza e brutalità del Califfato, Milano, 2019.
28 La trascrizione completa ufficiale in inglese è stata rilasciata il 31 maggio, per consultarla: A. J. AL-TAMIMI, New Speech by the Islamic State's Official Spokesman: Translation and Analysis, in Xxxxxx Xxxxx website, 1 June 2020.
29 Da un lato, egli invita a organizzare operazioni per liberare i prigionieri, approfittando del coronavirus; dall’altro afferma con forza l’ipocrisia dei governi che promettono di proteg- xxxx la sicurezza e poi abbandonano migliaia di musulmani nelle prigioni, dove sono tormen- tati e rischiano di infettarsi.
Europa) e di vera e propria guerriglia (nel teatro siro-iracheno, soprattutto nel nord dell’Iraq30).
6. La propaganda degli altri gruppi, quella non ufficiale, l’azione dei gruppi criminali.- AQ e IS non sono stati gli unici gruppi a inglobare il COVID nella propria propaganda.
Lasciando il campo dei gruppi ufficialmente affiliati ad AQ o che hanno giurato fedeltà a IS, e guardando anche a quelli che pur non rien- trando propriamente nella categoria delle organizzazioni terroriste sono considerati estremisti da molti, possiamo affermare che quasi nessun gruppo islamico sia stato in silenzio e che tutti abbiano provato a sfruttare la pandemia in proprio favore, anche se con reazioni molto diversificate.
Quanto ad altre organizzazioni jihadiste, come non citare Boko Haram, il gruppo nigeriano che dovremmo considerare tra quelli fedeli a IS, cui nel marzo 2015 ha giurato fedeltà ricevendo immediata acco- glienza (mentre per anni aveva visto respinta da AQ la richiesta di affilia- zione), ma che si è poi diviso rendendo non univocamente identificabile la propria appartenenza. Ad inizio aprile lo storico leader Xxxxxx ha diffuso un video31 in cui afferma che BH è il migliore anti-virus possibi- le, mentre le misure statali che hanno chiuso le Moschee sarebbero un at- tacco alla Fede e il distanziamento è da deridere: la migliore cura è l’Islam di BH.
Al di là dei gruppi terroristi veri e propri, tra le organizzazioni isla- miche radicali che hanno classificato il virus come una punizione divina nei confronti degli infedeli si devono annoverare il Turkistan Islamic Party e in Cina gli estremisti Uiguri32; tra i gruppi che hanno approfittato della situazione per dimostrare proprie doti nel “fornire servizi” ricordiamo talebani, Hezbollah e Hamas33.
30 Nel nord dell’Iraq l’incremento degli attacchi è stato molto rilevante e influenzato da vari fattori legati al COVID: l’attenzione delle Forze Armate e delle Forze di Sicurezza locali focalizzata sulle misure per circoscrivere il contagio; le Forze straniere a vario titolo presenti impegnate a fronteggiare possibili contagi tra il proprio personale, quando non addirittura rimpatriate; il rilascio o l’evasione di numerosi foreign fighter; l’incidenza della crisi econo- mica (con il crollo del prezzo del greggio) che porta i giovani ad unirsi ad IS. Si veda, per alcuni di questi aspetti, C. P.XXXXXX, Remember Us? Islamic State Stays Active During Coronavirus Pandemic, in Foreign Policy Research Instituite, 8 May 2020.
31 Si tratta in realtà di un audio clip con immagine fissa di Xxxxxx, la cui voce di sottofondo parla per più di un’ora. Per leggere alcuni passaggi, X.XXXX, Xxxxxxxx Xxxxxx Mocks World Leaders And Derides Social Distancing In New Audio Message, in Humangle, 15 April 2020.
32 V. R.XXXXXXXX, After the Coronavirus Terrorism won’t be the Same, in Foreign Policy, 22 April 2020.
33 V. in tal senso C. P.XXXXXX, Yesterday’s Terrorists Are Today’s Public Health Providers, in
Foreign Policy, 8 April 2020; X.XXXXXXXX, After the Coronavirus Terrorism won’t be the Same,
Discorso a parte merita poi la c.d. propaganda non ufficiale, quoti- dianamente disseminata in rete da semplici simpatizzanti34. Mentre le linee di condotta dei gruppi in merito al COVID hanno assunto sfumature in linea con le proprie strategie a lungo termine, tutta la propaganda non ufficiale si è appiattita su concetti quali quelli di “COVID come punizione divina” e “arma contro i nemici”, invitando talvolta ad usare il proprio stesso corpo per infettarli. Troviamo una grande quantità di comunicati, infografiche e poster, diffusi soprattutto sui social network35, che molto ricordano per stile e contenuti quelli che in questi mesi sono stati diffusi da numerosi movimenti dell’estremismo violento di destra36.
Alla luce dello stretto legame spesso esistente tra gruppi jihadisti e gruppi criminali non possiamo non aprire una breve parentesi su di essi e evidenziare come dallo scoppio della pandemia il crimine transnazionale abbia fatto un consistente balzo in avanti. Le organizzazioni criminali si sono da subito attivate, ad esempio, per rispondere alle elevatissime richieste di dispositivi di protezione individuale (in primis mascherine) e di prodotti igienizzanti di ogni tipo. Come ogni qualvolta la domanda di un bene supera l’offerta (indipendentemente dal fatto che la commer- cializzazione del bene sia di per sé legale), le filiere criminali si sono attivate per la produzione e la distribuzione di beni falsificati (spesso anche nocivi per la salute), non solo nelle loro classiche piazze, ma anche in mercati ove fino a qualche mese fa non avrebbero mai neanche pensato di operare, o quantomeno di operare con beni del settore sanitario. Il problema si riproporrà con la produzione e distribuzione dei vaccini recentemente iniziata.
Anche in questo caso dobbiamo distinguere tra gli effetti prodotti dal crimine transnazionale in Occidente e quelli in aree ove i gruppi criminali o terroristi che lo gestiscono hanno un certo grado di controllo del territorio (alcune zone di Africa, Asia e America Latina): in queste realtà le organizzazioni criminali, al di là delle proprie finalità politiche o economiche, si sono dimostrate agli occhi delle popolazioni capaci di fornire servizi e posti di lavoro, sostituendosi ai governi e facendosi
in Foreign Policy, 22 April 2020; X.XXXXXXXX, X.XXXXXX, Beware of terrorists offering COVID19 aid, in ORFONLINE, 17 April 2020.
34 Sono normalmente giovani che si rifanno a uno o più gruppi ma agiscono in realtà in modo autonomo e non hanno titolo per parlare a nome di nessuna organizzazione, ancorché poi IS sfrutti il loro lavoro definendoli spesso soldati del Califfato.
35 Tra di essi oltre a Telegram sta tornando in auge Facebook.
36 Gli estremisti di destra hanno molte cose in comune i simpatizzanti jihadisti, tra cui la mancanza di leadership, organizzazione strutturata e programma, e la disseminazione dal basso dei propri messaggi, da parte di semplici simpatizzanti, mentre nei gruppi terroristi viene dall’alto, dai vertici.
accettare dalla società civile, che li ha visti spesso come il solo punto di riferimento davanti alle incapacità statali.
7. Conclusioni.- Se è al momento difficile prevedere quali saranno nel lungo periodo gli effetti della pandemia sui gruppi jihadisti e sul con- trasto al terrorismo, alcuni elementi sembrano delinearsi in modo chiaro: il COVID sarà per molto tempo parte integrante della propaganda jihadista; la paura del bioterrorismo potrebbe influenzare le nostre vite per un lungo periodo37; le crisi economiche e sociali provocate costitui- ranno una grande opportunità per numerosi gruppi; conquisteranno un gran numero di nuovi sostenitori sia i gruppi che agiscono più sapiente- mente online, mostrandosi sensibili ai bisogni di chi soffre, sia quelli che in alcune aree hanno fornito servizi alla popolazione in difficoltà, appa- rendo più preparati dell’apparato statuale.
Ne consegue che molto dipenderà anche dalla tenuta da un lato del- l’Occidente e dei suoi valori, e dall’altro delle istituzioni locali in Africa e parte dell’Asia. Se l’Occidente “barcollerà” dinanzi alla crisi economi- ca e sociale che seguirà quella sanitaria, il pensiero jihadista, e più in generale l’Islam radicale, se ne avvantaggeranno, soprattutto grazie alla “mano tesa” di AQ che potrebbe spingere molti verso l’Islam radicale. D’altra parte, nelle aree ove maggiore si è creato un vuoto di potere è necessario che le Autorità locali, anche grazie al sostegno della Comunità internazionale riescano a riallocare le proprie risorse in favore delle crescenti necessità della popolazione, che altrimenti potrebbe vedere di buon occhio quella creazione di un nuovo ordine mondiale cui le leadership jihadiste mirano.
Seppur diverse, le risposte di AQ e IS sono infatti chiare: quando il
XXXXX sarà sconfitto ci troveremo a vivere secondo un nuovo ordine mondiale, nel quale potrebbero essere invertiti i rapporti di forza attuali e i jihadisti potranno giocare un ruolo fondamentale38. La pandemia sta facendo crollare le certezze dei Paesi occidentali e dei loro alleati, potrebbe svanire la Comunità internazionale così come noi oggi la conosciamo e ci potrebbe essere il riscatto dell’Islam, dei suoi principi, delle sue forme di governo (leggasi “Califfato”).
37 Non ci sono al momento evidenze per parlare di rischi concreti (si veda X. XXXXXXXXX DI
Xxxxxxxxxx, X. Xxxxxxxxxx Xxxxxxxxx di Xxxxxxxxxx, Il mondo dopo il COVID-19,
op.cit., 189ss.), ma di sicuro il COVID ha dimostrato come la biosicurezza sia stata a lungo trascurata. In tal senso, H. DE XXXXXXX-XXXXXX, Biosecurity in the Wake of COVID-19: The Urgent Action Needed, in CTC Sentinel, November/December 2020.
38 In tal senso, M.XX-XXXX, Jihadists see COVID-19 as an Opportunity, in Global Network, 1 June 2020.
Il COVID-19 potrebbe essere un regalo per i gruppi jihadisti e dar loro l’opportunità di realizzare i propri sogni!
La Comunità internazionale deve dunque agire considerando le conseguenze che si potrebbero avere nel breve e nel lungo termine, e lo deve fare guardando ai differenti contesti regionali. Se davanti alle nuove minacce che dobbiamo affrontare è richiesta compattezza a livello inter- nazionale e una piena cooperazione, il diverso impatto che il COVID ha avuto nella società civile, e il diverso atteggiamento che i maggiori grup- pi jihadisti hanno portato avanti, comportano che le azioni di contrasto che gli Stati e le organizzazioni internazionali devono intraprendere dovranno essere diversificate e adattate ai differenti contesti.
Ogni società civile ha bisogno di essere sostenuta dalla Comunità internazionale e dalle proprie Autorità statali, verso cui è importante che torni ad esserci fiducia. Ovunque è essenziale coinvolgere comunità locali, leader etnico-tribali e tutti i settori della società civile, compresi leader religiosi, educatori e quella che è la formazione sociale di base, la famiglia, ove fondamentale è il ruolo delle donne: solo così si potrà favorire la resilienza e si potrà arrestare la crescita di ogni forma di radicalismo e di estremismo violento.
Abstract
Covid-19: A Gift for Jihadist Groups?
All the most important jihadist groups have incorporated the issue of pandemic in their propaganda and are exploiting the spread of the virus to attract new followers and acquire an advantageous position in view of the post-COVID world, in which they wish to have a decisive role and hope to reconstitute the Caliphate. It is therefore useful and interesting to see how Al Qaeda and the Islamic State are acting, in different geographic areas, and to indicate how the international community should counter their actions.
LESSONS LEARNED DEI PROCESSI DI DE- RADICALIZZAZIONE, RIABILITAZIONE E REINSERIMENTO SOCIALE ADOTTATI IN ALTRI CONTESTI INTERNAZIONALI PER POTER ELABORARE PROPOSTE FUNZIONALI ALLE ISTITUZIONI ITALIANE
XXXXX XXXXXXXX
1. Inquadramento semantico.- De-radicalizzazione, riabilitazione e reinserimento sociale si inseriscono nel complesso ambito di strategie, programmi e azioni di contrasto dell’estremismo violento (CVE), che dovrebbero trovare corrispondenza in adeguate e soprattutto correlate strategie di prevenzione dell’estremismo violento (PVE) che vedono coinvolti gruppi o singoli individui per i quali risulta necessario poten- ziare la capacità di sostegno da parte di coetanei e/o persone a loro vicine, anche grazie a politiche comunitarie ed azioni mirate in settori chiave a livello nazionale, quali: welfare, educazione, salute ed econo- mia. Occorre ricordare che tutto ciò deve inserirsi nel framework più esteso delle politiche di sicurezza a livello globale e delle iniziative di carattere religioso.
Per quanto concerne la prevenzione, si individuano tre livelli di
intervento: primaria – volta ad intervenire sulle cause, le cosiddette radici dell’estremismo violento; secondaria – focalizzata sui processi di radicalizzazione e, in senso più generale, su tutto ciò che determina il rischio di coinvolgimento nell’estremismo violento; terziaria – dedicata ai soggetti coinvolti nell’estremismo violento, siano essi autonomi o militanti di un gruppo. Questo è l’ambito di applicazione della de- radicalizzazione che si pone come obiettivo quello di riabilitare e reintegrare soggetti e/o gruppi dell’estremismo violento.
Negli ultimi anni, all’interno dell’Unione Europea lo studio della de- radicalizzazione, così come lo sviluppo dei relativi programmi, si è carat- terizzato per una centralità di applicazione alla matrice jihadista, seguita da un progressivo allargamento a quella dell’estremismo neofascista e neonazista, quindi al marxismo-leninismo violento e all’etnonazio- nalismo.
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE FASC. 1/2021 pp. 37-54 EDITORIALE SCIENTIFICA SRL – ISSN 0010-5066
La Commissione europea, che aveva già definito la radicalizzazione come «il fenomeno per cui le persone abbracciano opinioni, visioni e idee che possono condurre ad atti di terrorismo» (Xxxxxx, 2012), ha confermato che la prevenzione della radicalizzazione e lo sviluppo di programmi di de-radicalizzazione rappresenta una “priorità assoluta” per la sicurezza (EC, 2016).
Il Working Group on Addressing Radicalisation and Extremism that lead to Terrorism, in seno alle Nazioni Unite, evidenziando la comples- sità del fenomeno, aveva già avuto modo di specificare che il contrasto della radicalizzazione fosse da intendersi come «un pacchetto di pro- grammi sociali, politici, normativi, educativi ed economici specificamen- te progettati al fine di scoraggiare gli individui delusi (e forse già ra- dicalizzati) dall’oltrepassare il limite e divenire terroristi» (UN, 2008). Risulta evidente come le Nazioni Unite intendano sottolineare il carattere preventivo di tale prospettiva; lo stesso Working Group distingue, infatti, la de-radicalizzazione come raggiungibile attraverso «programmi che so- no generalmente rivolti ad individui che sono divenuti radicali, con l’o- biettivo di reintegrarli nella società o quantomeno dissuaderli dall’uso della violenza» (UN, 2008). La de-radicalizzazione ha lo scopo, quindi, di invertire il processo di radicalizzazione aiutando così gli individui a rifiutare le ideologie estremistiche al fine di favorire la loro uscita dagli stessi gruppi estremistici. Tale concetto, non deve essere confuso e/o so- vrapposto a quello di disengagement che indica «un cambiamento nel comportamento (l’astensione dall’associarsi con gruppi potenzialmente violenti o che ricorrono all’uso della violenza), ma non necessariamente un mutamento delle convinzioni politiche o ideologiche» (Xxxxxx, 2010).
Occorre, inoltre, segnalare che EUROPOL ha proposto di sostituire
il concetto di radicalizzazione con quello di “violent extremism social trend” (EUROPOL, 2016) al fine di evitare che la radicalizzazione venga di per sé erroneamente identificata come qualcosa di violento e/x xxxxx- nale, ciò potenzialmente determinando l’implicita compressione di diritti fondamentali come in particolare il manifestare liberamente le proprie opinioni e il professare liberamente la propria fede religiosa. In tale quadro l’estremismo violento viene inteso come «l’‘uso o sostegno alla violenza’; la ‘disponibilità’ a usare la violenza; commettere, sostenere o incoraggiare atti di violenza; e ‘promuovere opinioni che fomentino e incitino la violenza a sostegno di particolari credenze e al favorire l’odio che potrebbe portare alla violenza tra comunità’. L’estremismo violento è generalmente concepito come finalizzato al raggiungimento di obiettivi politici, obiettivi ideologici o religiosi, o in quanto mezzi impiegati da gruppi che rifiutano la democrazia, i diritti umani e lo stato di diritto. Alcune definizioni fanno notare esplicitamente che le visioni radicali non
sono affatto un problema in sé, ma che diventano una minaccia per la sicurezza nazionale quando tali visioni sono poste in essere attraverso un’azione violenta. In altri casi, le definizioni impiegate non chiariscono completamente se l’‘estremismo violento’ che presuppone un’azione vio- lenta o l’incitamento all’azione violenta, o se anche le forme minori di comportamento che normalmente non inneschino sanzioni penali, possano essere incluse» (UN OHCHR, 2016).
Specificando che si può avere un comportamento radicale senza tuttavia adottare alcuna forma di violenza, occorre precisare che nel pre- sente scritto si farà riferimento soltanto a quella violenta, in particolare ponendo l’attenzione sul mutamento comportamentale del soggetto che da una condizione di passivismo, o al contrario di attivismo socio-cul- turale, politico e religioso, cambia il proprio comportamento che diviene via via sempre più reazionario, rivoluzionario, militante e/o estremistico, attraverso il ricorso alla violenza, in ognuna delle sue forme.
La riabilitazione, invece, consiste nel facilitare un mutamento nel modo di pensare e nel comportamento dell’offender – colui il quale abbia concretamente commesso atti di terrorismo e/o violenza –, affinché si al- lontani da tale visione della vita e possa così reinserirsi nella società. Per rendere possibile ciò si struttura una routine quotidiana fatta di studio della religione, assistenza sociale, counseling, attività presso specifiche strutture riabilitative per lo sport e l’art therapy. La riabilitazione può avere un approccio centralizzato o più community-based, come nel caso dell’India (Xxxxxx, 2020).
Nell’ambito dei conflitti armati, considerata la specificità di contesto in cui sono inseriti i combattenti e le dinamiche relative alla radicalizza- zione violenta, si sono elaborate prospettive d’intervento in particolare attraverso programmi di disarmament, demobilization and reintegration (DDR) che risultano interessanti da valutare in una prospettiva di gestione dei cosiddetti returnees (Xxxxxx & Boutland, 2020) e di disarmament, demobilization, reintegration, and rehabilitation (DDRR) rivolti soprattutto alla figura dei giovani combattenti nel continente africano (YouthPower, 2018).
Nell’elaborazione di efficaci programmi di de-radicalizzazione, risulta fondamentale tenere conto di quelli che vengono considerati push and pull factors della radicalizzazione violenta (UNOCT, 2018). I push factors, fattori di spinta, sono condizioni che favoriscono la radicalizza- zione per lo più attraverso l’ingresso in un gruppo. In sintesi, essi vengo- no individuati: nella scarsità di opportunità socio-economiche, nella marginalizzazione e discriminazione, nella presenza di governi autoritari che violano sistematicamente i diritti umani, nella partecipazione diretta o indiretta in conflitti prolungati ed irrisolti che comunque condizionano
l’ambiente di vita, nonché nel trovarsi in specifici ambienti che limitano la fruizione autonoma del tempo e dello spazio, come nel caso della detenzione. Come pull factors, fattori di attrazione, motivazioni e proces- si individuali che giocano un ruolo fondamentale nel passaggio dalle idee all’azione, si riconoscono: il vissuto personale, il profilo motivazionale, l’eventuale background criminale, le rimostranze collettive e la vittimiz- zazione data da situazioni di oppressione, sottomissione e/o intervento esterno come nel caso delle occupazioni militari, le leadership e le reti sociali, la distorsione e l’uso improprio di credenze, politiche, ideologie e differenziazioni etniche e/o culturali. Si individuano, inoltre, i drivers individualizzati e contestualizzati di radicalizzazione, che si dividono in: strutturali, individuali e comunitari, nelle differenti traiettorie tracciate dal soggetto e dai livelli di consapevolezza e percezione derivati dai di- versi ruoli che questi ha assunto all’interno del gruppo estremistico in particolare relativamente all’uso diretto della violenza psico-fisica, delle armi, nonché in base all’esperienza più o meno di militanza attiva, se non di following, vissuta nell’ecosistema (cyber-)sociale.
In termini identitari, è possibile individuare quattro categorie di soggetti potenzialmente radicalizzabili: in cerca di identità - si caratte- rizza per il bisogno di appartenenza al gruppo, è alla ricerca di uno status sociale. Tale soggetto è particolarmente sensibile ai trigger factors derivanti dal livello di coesione interna del gruppo stesso. Pertanto, la dissoluzione del gruppo estremistico dovuta a fattori interni, quali la fragilità del legame/vincolo tra gli appartenenti, o la forte delusione derivata a livello orizzontale, dal comportamento dei membri del gruppo che hanno lo stesso status, oppure verticale, dal comportamento del leader del gruppo, possono favorire la de-radicalizzazione (Xxxxxx, 2011); in cerca di giustizia – il soggetto ritiene che il proprio gruppo sociale sia oggetto di ingiustizie, minacce, sottomissione o che comunque non sia messo nelle condizioni di aspirare a ciò cui legittimamente aspiri. Si individuano, pertanto, due elementi utili al processo di de-radicalizza- zione, in termini: percettivi – le attività volte a favorire nel soggetto la percezione “riequilibrante” del rapporto tra in-group e out-group e quindi a depotenziare la conflittualità vissuta dallo stesso come risultante della sua supposta condizione di soccombenza; razionali – il soggetto prende atto in forma “giudicante” dell’incapacità del gruppo estremistico di raggiungere concretamente e con la violenza il proprio obiettivo “emancipatorio”; in cerca di significato – l’individuo è guidato primaria- mente dalla ricerca ad ogni costo del significato profondo di ciò che lo circonda. In tal senso, i fattori di stress come la rottura traumatica di un rapporto sentimentale, la disgregazione familiare, la perdita di una persona cara, la perdita repentina del lavoro, possono farlo sentire attratto
da ideologie che agli occhi dello stesso sembrano fornire lui una compen- sazione esistenziale tale da colmare il vuoto di significato. Sul piano della de-radicalizzazione, l’individuazione di un obiettivo altro può favorire lo spostamento dell’attenzione rispetto al gruppo estremistico e, al con- tempo, veicolare la visione alternativa in prospettiva di un cambiamento sostanziale di rotta rispetto al percorso violento; in cerca di sensazioni – il soggetto è alla ricerca di emozioni forti, di avventura e di rischio. In questi termini, il soggetto può essere attratto dall’”esotismo” che caratte- rizza alcune scelte del cambiamento di vita, soprattutto con il trasferimento in territori caratterizzati da un ambiente socio-culturale distante da quello di provenienza. Qui la de-radicalizzazione può essere innescata sul piano emozionale, dalla delusione provocata dal non coin- volgimento all’azione e/o addirittura dall’essere “relegato” ad un ruolo secondario e/o marginale in termini di routine operativa. Oppure sul pia- no della razionalità, quando il processo avviato o compiuto di disgre- gazione del gruppo può indurre il soggetto a ricercare il soddisfacimento di tali bisogni in modo non violento. Inoltre, anche il mancato riscontro, in termini di aspettative, di quanto ritenuto prima di intraprendere tale “avventura” può favorire il processo di de-radicalizzazione.
Il percorso che porta dalla radicalizzazione all’estremismo violento non risulta essere lineare, anche a causa delle variabili soggettive dei singoli individui. Proprio per tale ragione, quindi dal punto di vista processuale, l’uscita dall’esperienza estremistico-violenta presenta le medesime peculiarità. Inoltre, il solo raggiungimento dell’uscita, non consente di stabilire con certezza che lo stesso non continui ad operare scelte che si fondano sull’attivazione di meccanismi, processi e comportamenti violenti e/o in senso più ampio, di strategie violente per raggiungere obiettivi e/o affrontare le situazioni che gli si pongono innanzi nel corso della propria routine quotidiana. Per tale ragione, il riscontro dell’effettivo reinserimento sociale e abbandono dall’estre- mismo violento, richiede un’osservazione di lungo termine.
Oggi, l’ambiente carcerario e l’ormai ecosistema (cyber-)sociale –
ancora riduttivamente definito come Internet e social media – rappre- sentano a diverso modo due luoghi dove trovano terreno fertile ed ampia diffusione le ideologie estremistico-violente che possono favorire e/o innescare, nei soggetti più vulnerabili, percorsi di radicalizzazione.
2. Specificità.- Considerando la necessità di adottare una prospettiva interculturale e interreligiosa, occorre fondare la progettazione di un programma di de-radicalizzazione sull’imprescindibile superamento della visione monolitica del terrorismo. Ciò significa tenere conto delle diverse matrici ideologiche e, al loro interno, delle specificità pseudo-dottrinali o
sub-ideologiche di riferimento, nonché strutturare programmi ad hoc in relazione al singolo individuo o target group che vi prende parte. Quindi, in estrema semplificazione, un combattente del Daesh che ha operato in teatro non deve partecipare al medesimo programma di un reclutatore qaedista in Occidente, o di un militante del Daesh che nel corso della sua attività criminale ha avuto esclusivamente un ruolo di gestione tecnico- logistica e organizzativa e/o di gestione finanziaria, oppure di un giovane interprete del cyber-jihad.
Inoltre, i programmi di de-radicalizzazione, riabilitazione e reinse- rimento sociale sono creati per motivare, supportare, accompagnare e facilitare il soggetto che di fatto può essere molto diverso di caso in caso
– in quanto terrorista o estremista violento oppure radicalizzato o “radicalizzando” – nel suo percorso di uscita.
2.1. Foreign Terrorist Fighters e Returnees.- Ricordando che l’indottrinamento può raggiungere distinti livelli di profondità tra i soggetti a seconda di un serie di fattori di natura personale, famigliare, socio-relazionale, ambientale e operativo-funzionale, alcuni studiosi distinguono tra un approccio hard e uno soft. Il primo è rivolto ai returnees definiti “radicalizzati”, ossia che si sono macchiati di atti di ter- rorismo e/o che hanno militato attivamente all’interno di un gruppo ter- roristico. Il secondo è indirizzato ai cosiddetti “ingannati”, coloro i quali, attirati dall’illusione del progetto ideologico – come per il Daesh, lo Stato e la rinascita in esso – possono aver mostrato simpatia o sostenuto un atto di terrorismo o un’ideologia che promuove il terrorismo.
Quindi, per quanto concerne i returnees, occorre sviluppare specifici programmi di de-radicalizzazione, che tengano conto di aspetti chiave (RAN, 2019), quali: bidimensionalità - necessità di intervento nella duplice dimensione individuale e famigliare dei soggetti coinvolti, qualora ci si trovi dinnanzi a nuclei famigliari che sono migrati nei territori di guerra; trasparenza - informare il soggetto dell’iter che lo vedrà al centro dell’interesse istituzionale al suo rientro, in termini di costante monitoraggio, azione penale, detenzione e servizi sociali; tempestività - prendere in carico il soggetto immediatamente al suo rientro e per tutta la durata del processo penale; differenziazione - sviluppare programmi specifici per donne e bambini; intervento sanitario
- considerare il fatto che i soggetti possono presentare disturbi mentali derivanti dall’esposizione alla violenza e/o a situazioni di guerra.
2.2 Carcere.- La de-radicalizzazione deve essere intesa come un processo organico in cui si inseriscono i differenti attori, tra cui: operatori, professionisti ed esperti, le comunità locali, la famiglia, le
strutture carcerarie, il supporto sociale, i ministri di culto, chiamati ad intervenire accompagnando il soggetto verso il compimento del suo percorso di riabilitazione e reinserimento.
Appare evidente come sia necessaria, preliminarmente, una specifica formazione per il personale coinvolto in prima linea con l’obiettivo di sviluppare e/o potenziare l’intelligence penitenziaria al fine di: consentire un’adeguata conoscenza delle diverse traiettorie del processo di radicalizzazione; accrescere la capacità di osservazione, riconoscimento tempestivo e interpretazione dei diversi segnali di radicalizzazione, nonché le procedure attraverso cui informare chi di competenza.
Anche alla luce degli studi sul recente fenomeno del Foreign Ter- rorism Figthing, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) risulta attivamente coinvolto nell’europrogettazione, come testi- moniato dal Progetto Raising Awareness and Staff MObility on violent RADicalization in Prison and Probation services (Rasmorad P&P)1. Ciò al fine di raffinare metodologie, tecniche e strumenti di risk assessment, prevenzione della radicalizzazione violenta, tanto a livello intramurario quanto nell’esecuzione penale esterna, anche attraverso misure alterna- tive. L’esperienza personale del detenuto può avere un forte impatto sull’eventuale periodo successivo in area penale esterna e durante la sua reintegrazione nella società. Il non isolamento del detenuto, l’inclusione nel contesto sociale, il mantenimento dei contatti con il mondo esterno, e il corretto insegnamento della pratica religiosa – da qui, ad esempio, la centralità dell’accordo sottoscritto tra l’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia (UCOII) e il DAP – risultano essere fattori chiave non solo della prevenzione della radicalizzazione, ma anche del processo di prisonizzazione in grado trasformare la detenzione in un’esperienza diseducativa e desocializzante, quindi in determinati casi favorire l’ulteriore radicalizzazione del soggetto, rendendo inefficace il percorso di de-radicalizzazione, rieducazione e riabilitazione.
Per quanto concerne il processo di de-radicalizzazione in tale con-
testo, occorre sottolineare il ruolo del mentoring applicato alla gestione della routine quotidiana, in particolare riguardo le situazioni problema- tiche ed i conflitti, proponendo l’individuazione/adozione di risposte al- ternative. Ciò in un quadro in cui risulta necessario incoraggiare il soggetto ad assumere le proprie responsabilità in ordine alla propria condizione e agli impegni assunti/da assumere. Il mentor deve: sostenere lo sviluppo di identità e auto-rappresentazioni positive, mitigare il pensiero dicotomico e l’identificazione del soggetto con il gruppo estre- mistico violento, consentire al soggetto di esprimersi attraverso lo svi-
luppo di comportamenti tolleranti, sviluppare reti di sostegno individuali e favorire la scelta in direzione di formalizzazione e professionaliz- zazione. Per tale ragione, si segnala la necessità di predisporre un’attività di supporto per il mentor concluso il suo operato.
Per quanto concerne la pena detentiva, in diversi Paesi membri questa si è dimostrata inefficace e controproducente ai fini di un’effettiva de-radicalizzazione pertanto si sono implementate le misure di sicurezza o le misure alternative di detenzione per la reintegrazione sociale degli individui radicalizzati, unitamente al tentativo di strutturare un intervento multi-agenzia in area penale esterna.
Infine, per quanto riguarda i detenuti minorenni, l’approvazione della legge sul nuovo Ordinamento Penitenziario per i minori2, prenden- do atto delle Regole di Pechino, della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e della Convenzione europea sull’eserci- zio dei diritti dei minori, disciplina per la prima volta in Italia l’esecu- zione delle pene nei confronti dei soggetti condannati per reati commessi quando erano minorenni. Vengono introdotte delle novità significative per quanto riguarda le misure alternative alla detenzione, tenendo conto della loro personalità in formazione. Si fa, infatti, riferimento alle misure penali di comunità per «favorire l’evoluzione positiva della personalità», si evidenzia il coinvolgimento diretto della comunità, la centralità della dimensione sociale di recupero e reinserimento. Sono, inoltre, consentiti i percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime del reato, nonché un rafforzamento della tutela dell’affettività, anche attraverso l’istituto delle visite prolungate. Tutto ciò non può che costituire un ottimo terreno su cui costruire programmi sempre più aperti e inclusivi nell’ottica di allontanamento definitivo dall’estremismo violento.
3. Comunicazione.- Sul piano Strategico, occorre prima di tutto con- trastare la diffusione delle ideologie estremistico-violente in particolare attraverso la disseminazione della propaganda – anche volta a minare la reputazione istituzionale e il trust con la cittadinanza – garantire la pro- tezione dei cittadini – tanto nella loro dimensione individuale-famigliare, quanto come espressione di eventuali minoranze –, nonché assicurare il sostegno sia a livello nazionale che locale agli attori impegnati in contesti vulnerabili in termini di radicalizzazione. In tale quadro si intende evidenziare il ruolo fondamentale dell’ecosistema (cyber-)sociale come vero e proprio ambiente socio-culturale di potenziale radicalizzazione e auto-radicalizzazione violenta, favorita in particolare dall’accesso in-
2 d.lgs. n. 121 del 2 ottobre 2018, “Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni”.
controllato, dalla disintermediazione e dalla convergenza digitale, nonché dall’incessante propaganda globalizzata attraverso narrazioni multime- diali sempre più seducenti soprattutto per i più giovani.
Per quanto attiene il processo di de-radicalizzazione, riabilitazione e reinserimento sociale, la comunicazione ricopre un ruolo centrale nell’elaborazione dei relativi programmi, in quanto si tratta di elaborare delle efficaci contro-narrazioni off/online, da intendersi come «narrazioni intenzionali e dirette a destrutturare, screditare e demistificare il messag- gio estremistico-violento, sia tramite l’ideologia, la logica, i fatti che l’umorismo, nonché narrazioni e approcci alternativi» (Xxxxxxxx, 2016),
– unitamente ad un più generale storytelling –, efficaci a dissuadere il soggetto dall’aderire alle seducenti narrazioni terroristiche e/o alla suggestione di entrare a far parte del gruppo dei puri, dei valorosi. Da qui la necessità di lavorare attraverso prospettive che vedano protagoniste la comunità, la religione – nel caso della matrice confessionale o pseudo- confessionale dell’estremismo violento – e la famiglia. Per tale ragione, si segnala l’efficacia della Emotionally Based Strategic Communications (EBSC) che grazie al suo carattere interdisciplinare e la sua applicabilità off/online, risulta particolarmente funzionale a raggiungere “i cuori e le menti” degli appartenenti al gruppo estremistico-violento o di coloro i quali ne sono attratti, al fine di influenzarne e favorirne il mutamento delle percezioni, cognizioni e la tendenza ad agire (Xxxxx et alter, 2018).
Conclusioni.- In un’ottica comparativa, tanto a livello europeo quanto globale, si riscontrano sostanziali criticità dovute alla vasta diso- mogeneità dei contesti socio-culturali e politici di riferimento. Ciò consente di sottolineare il fatto che gli interventi sul piano della de-radi- calizzazione violenta, riabilitazione e reinserimento sociale debbano da un lato essere perfettamente disegnati intorno al contesto di riferimento e, dall’altro, avere caratteristiche transculturali, tenendo sempre presente i limiti di applicabilità che possono derivare dall’adozione di modelli e programmi maturati in altri contesti rispetto a quello italiano.
Anche sul piano statistico più o meno tutte le iniziative riportano un certo tasso di recidiva, come ad esempio il celebre programma tedesco Exit Deutschland3 che, attestando, dal 2000 al 2018, il completamento del programma per circa cinquecento soggetti con un tasso di recidiva di circa il 3%, sembra fornire un’informazione chiara sull’efficacia del progetto stesso. Tuttavia, tale dato, seppur importante, non consente di analizzare il programma in termini di criticità e aspetti particolarmente efficaci, in un quadro in cui la criticità nella valutazione dipende anche
3 xxxx://xxx.xxxx-xxxxxxxxxxx.xx/xxxxxxx/
dal fatto che la reiterazione ex-post del comportamento criminale in questione può essere innescata, se non favorita, da problematiche di natura famigliare, stress sociale e/o da concrete minacce che il soggetto si trova a dover affrontare. La “ricaduta” nelle reti dell’estremismo violento e/o l’interesse in nuovi progetti di questo tipo, sono elementi cruciali da rilevare, ma, allo stato attuale, si riscontra l’impossibilità pressoché totale di poter operare in tal senso per assenza di informazioni adeguate. Per quanto riguarda i programmi di de-radicalizzazione, si riscontra, inoltre, una scarsità di dati sia sul piano dell’implementazione che dei risultati, soprattutto perché i risultati sono considerati sensibili in particolare per la sicurezza nazionale e per la privacy dei partecipanti.
Inoltre, risulta necessario, sia sul piano della costruzione del pro- gramma che su quello della sua valutazione, prima di tutto esplicitare con chiarezza le singole problematiche che si intendono affrontare nel corso dell’intervento, nonché concretamente l’obiettivo atteso nel suo complesso. Ciò considerando, la molteplicità dei percorsi di radicaliz- zazione violenta è tra l’altro il riflesso di un numero elevato di fattori soggettivi, socio-culturali e politici che possono rendere difficile indivi- duare e/o restringere, soprattutto a livello individuale, le direttrici d’intervento.
Tuttavia nell’elaborazione di un efficace programma di de-radica- lizzazione, occorre sottolineare che i dati relativi ai programmi devono essere disponibili pubblicamente al fine di consentire, nel rispetto dell’a- nonimato dei partecipanti, l’applicazione di procedure di audit che favoriscano la conoscenza della corrispondenza dei risultati attesi, al contempo consentendo di individuare eventuali criticità utili alla revisio- ne e/o implementazione degli stessi. In merito al coinvolgimento degli attori, l’obiettivo da seguire è quello dell’integrazione bilanciata tra l’approccio top-down che vede protagoniste le istituzioni, e quello bottom-up con il coinvolgimento di professionisti, accademici e consu- lenti negli ambiti ritenuti di interesse ai fini dell’obiettivo ultimo di riabilitazione sociale. Inoltre, si rappresenta la necessità di mettere a disposizione della comunità scientifica i dati raccolti, debitamente anonimizzati, nel corso dei processi di de-radicalizzazione al fine di poter sviluppare frameworks teoretico-interpretativi sempre più raffinati e, di conseguenza, processi, percorsi e azioni più efficaci. Anche in tal senso la formalizzazione del programma, degli obiettivi attesi, del ruolo e delle responsabilità degli stakeholders, nonché dell’implementazione e valutazione sia degli impatti, dei profili giuridici e di finanziamento (Global Counterterrorism Forum, 2012; RAN, 2019), che nei contenuti risultano elementi fondamentali. Infatti, secondo la RAN «[I programmi], sia nuovi che esistenti, dovrebbero essere soggetti a riscontro critico,
indipendente e in tempo reale, così che i relativi obiettivi, le ipotesi sottostanti su come raggiungerli, l’implementazione organizzativa e il grado di successo, possano essere valutati. Questo è fondamentale per progettare e implementare iniziative più efficaci e quindi per ridurre al minimo la [probabilità] di recidiva nel terrorista» (RAN, 2019). Ciò può ottenersi attraverso lo sviluppo di approcci evidence-based utili a misurare: il tasso di recidiva, gli atteggiamenti nei confronti delle ideologie estremistiche e legittimazione del ricorso alla violenza politica e gli eventuali fattori, interni ed esterni, di mutamento di lungo periodo nella condotta del soggetto.
Alla luce di quanto rappresentato in precedenza, sul piano della pro- gettazione occorre individualizzare il programma, in quanto non solo l’esperienza violenta, ma anche il reinserimento sociale avviene attra- verso processi fortemente caratterizzati dalla risposta del singolo in- dividuo. Pertanto occorre acquisire informazioni dettagliate sul target, sia esso individuale o di gruppo, e promuovere un approccio multi-prospet- tico attraverso il coinvolgimento diretto e l’integrazione nello staff, oppure attraverso consulenze ad hoc, di esperti provenienti da diversi ambiti disciplinari convergenti sul fenomeno, in grado da garantire una maggiore efficacia sia nella “lettura” preliminare del soggetto che nel corso dell’intero processo. Risulta, quindi, indispensabile che tutto lo staff abbia un’adeguata formazione relativamente alla gestione dello stress che tale attività può determinare, al fine di allontanare ogni rischio di distorsione analitica che può ripercuotersi sull’efficacia del programma stesso. Appare evidente, quindi, la necessità di favorire la comparazione tra i diversi modelli e programmi di de-radicalizzazione, che non devono risultare come il mero adattamento di pre-esistenti iniziative attuate nei confronti di gang e/o di detenuti tossicodipendenti, quindi ridotti a «un miglioramento generale della gestione e dell’ambiente carcerario» (El Said, 2015), ma sempre più individualmente strutturati ed osservabili in termini di efficacia di lungo termine.
Per quanto concerne l’impegno del target, questi deve essere coin-
volto in attività diverse e individualizzate che concorrano a favorire la de-radicalizzazione e il reinserimento sociale. Per far ciò, risulta indispensabile, ancora una volta, conoscere l’assetto ideologico e religio- so del soggetto, il suo stato di salute mentale – promuovendo l’adozione di approcci transculturali, etnopsichiatrici e clinici attraverso la lingua madre dell’individuo – e aiutarlo a sviluppare capacità cognitive e sociali, costruire reti sociali positive, anche sostenendo la famiglia del soggetto, nonché coinvolgendoli insieme nel processo di reinserimento sociale. Inoltre si dovrà istruire e formare professionalmente il soggetto, assistendolo quindi nella ricerca di un impiego, di un alloggio sicuro e di
quanto necessario al suo reinserimento, anche facilitando il raccordo tra i partecipanti al programma e i servizi sociali competenti. Infine, il reinse- rimento sociale deve avvenire avendo preventivamente informato gli ope- ratori esterni al programma e le autorità locali, affinché possano garantire la sicurezza e protezione della persona. Contestualmente, è opportuno informare – con le dovute cautele per l’identità della stessa – la popo- lazione, dell’aiuto che la comunità sta offrendo, seppure questo possa creare resistenze e criticità, con l’obiettivo di responsabilizzarne sul me- dio-lungo termine il ruolo di “tutrice” in quanto collante socio-culturale.
Una particolare attenzione deve essere riservata alla riservatezza, attraverso la promozione della costruzione di un rapporto fiduciario tra target e staff, fondamentale anche in termini di accettazione, da parte del primo, dell’aiuto che si riceve nel difficile percorso intrapreso. Per tale ragione risulta particolarmente efficace il coinvolgimento diretto nel programma di ex-estremisti che conoscendo il codice di condotta, il rigido sistema di norme – più o meno formalizzate – vigente all’interno del gruppo radicalizzato, la comunicazione verbale e non-verbale, nonché le dinamiche relazionali sottese, contribuiscono ad un efficace assess- ment del livello di radicalizzazione del target, elemento imprescindibile per la riuscita del programma. Inoltre gli ex-estremisti forniscono un modello di ruolo, un esempio concreto del fatto che sia possibile raggiungere un modello di vita diverso. Per via della condivisione esperienziale essi sono in grado di connettersi a livello personale anche con i soggetti più isolati. Tuttavia si riscontrano criticità nell’accettazione di tale figura, derivate anche dalle limitazioni conseguenti al suo precedente status di criminale.
L’efficacia a livello europeo del modello RAN, come luogo di studio, scambio, analisi ed elaborazione strategica sulla radicalizzazione violenta, nonché l’esperienza consolidata di Stati cardine dell’Unione, impone a livello nazionale l’elaborazione di un piano strategico che si fondi su di un’architettura di sistema integrata, in grado di interconnettere i diversi attori – pubblici e privati – operanti a ogni livello, ad un centro nazionale sulla radicalizzazione – di natura fortemente multidisciplinare
– la cui missione sia quella di osservare e analizzare costantemente la complessità e profondità del fenomeno dell’estremismo violento, al fine di: elaborare e promuovere misure, azioni/programmi di prevenzione della radicalizzazione/auto-radicalizzazione violenta e della diffusione – in particolare attraverso l’ecosistema (cyber-)sociale –, dell’estremismo violento nelle sue distinte matrici; elaborare e promuovere progetti e programmi di deradicalizzazione, disengagement, disempowerement, ri- pluralizzazione, riabilitazione e reinserimento, anche attraverso l’ecosi- stema (cyber-)sociale; elaborare e promuovere iniziative di scambio e
collaborazione pubblico-privata sul fronte della ricerca, sviluppo e innovazione tecnosociale per la prevenzione e anticipazione tanto dell’evoluzione delle forme già esistenti di estremismo violento, quanto dell’emersione – in particolare attraverso l’ecosistema (cyber-)sociale – di nuove determinazioni dello stesso anche attraverso l’ibridazione con fenomeni digitalmente convergenti come nel caso della disinformazione o dell’uso malevole dell’Intelligenza Artificiale (MUAI).
Tale struttura si pone al centro di un sistema di intervento e coordi- namento in tema di de-radicalizzazione che può sinteticamente essere descritto nella tridimensionalità del rapporto Soggetto/Relazione – Partners/Cultura – Programma/Conoscenza, di cui di seguito si indicano le best practices da attuare, sulla base delle esperienze italiane e internazionali osservate.
Soggetto/Relazione. I programmi di de-radicalizzazione – salvo specifico provvedimento motivato dell’Autorità Giudiziaria che ne di- spone l’obbligo4 – è opportuno che siano rivolti a soggetti che ne fac- ciano richiesta volontariamente o che mostrino interesse, dimostrando così la loro motivazione al cambiamento. Pertanto è opportuno favorire il più possibile l’inserimento nel programma che deve essere fortemente contestualizzato all’ambito non solo fenomenico, ma anche territoriale di applicazione ossia delle specificità socio-culturali del tessuto sociale di reinserimento del soggetto, nonché del ruolo ricoperto e il tempo trascorso dal soggetto all’interno o meno del gruppo.
Appare interessante segnalare che la “volontarietà” nel partecipare non si riscontra nel sistema francese in cui la partecipazione costituisce un obbligo giudiziario che deve condurre al reinserimento sociale anche attraverso l’introiezione dei valori di cittadinanza.
Risulta rilevante porre l’attenzione non solo sull’ideologia attraverso cui il soggetto si è radicalizzato, ma anche sulle motivazioni sociali ed emotive “favorenti” – al fine di accompagnare il soggetto al ri- conoscimento dell’importanza di ricostruire le proprie reti sociali al di fuori dell’esperienza violenta –, fornendo così ascolto, senza giudicare, formulare pregiudizi e/o stigmatizzare. In tal modo, si ottiene una maggiore fiducia e apertura. Unitamente a ciò occorre integrare le strategie di allontanamento dall’esperienza estremistico-violenta, tenendo conto al contempo della necessità di dover intervenire, qualora
4 In tal senso si veda il caso di specie: Tribunale di Bari, decreto n.71/17, in cui l’A.G. competente ha disposto l’applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. con l’obbligo, per il soggetto gravato da misura, che radicalizzandosi si era auto-adde- strato online, di partecipare ad uno specifico percorso di recupero finalizzato alla de-radicaliz- zazione.
emergesse, anche sul radicamento del comportamento criminale non connesso all’ideologia o pseudo-ideologia di riferimento.
Risulta opportuno, tra l’altro, elaborare programmi di de-radicaliz- zazione per specifiche categorie attoriali, tra cui adolescenti, pre-adole- scenti, giovani, donne. E ancora risulta necessario in termini di reinseri- mento sociale, supportare il soggetto nella ricostruzione di legami fa- migliari e socio-relazionali, così come nell’incoraggiare l’individuo al ritorno nel medesimo ambiente di lavoro che ha abbandonato nel fare ingresso nell’estremismo violento. Un altro obiettivo da promuovere è quello di rafforzare la figura del mentor e progettare specifici training per tale ruolo, che si occupino di tecniche di conversazione, counseling, coaching e gestione dei conflitti, nonché di come coinvolgere attivamente la famiglia e le reti sociali. Queste sono tecniche molto diverse fra di loro che hanno un seguito specifico a seconda dei contesti di applicazione, ad esempio il counseling è posto, insieme all’assistenza sociale, alla base dei programmi di riabilitazione all’interno della strategia saudita denominata Prevention, Rehabilitation and Aftercare (PARC) dove esso è diretta- mente connesso alla religione, al fine di consentire attraverso l’obbedien- za, al-wala wa al-bara, l’acquisizione dei concetti coranici male interpretati (Xxxxx, 2010).
Infine poiché nel contesto italiano la risocializzazione e la riconnes-
xxxxx con il tessuto sociale giocano un ruolo fondamentale sia nell’uscita concreta dall’esperienza estremistico-violenta che nell’affrontare eventi importanti nella vita, si riscontra l’esigenza di stabilire linee di comunicazione privilegiate con i famigliari, in modo che essi possano comunicare tempestivamente alle forze dell’ordine la presenza di eventuali segnali di nuova radicalizzazione e/o isolamento sociale.
In tale ottica rientra anche il favorire la creazione di relazioni perso- nali sane e costruttive tra soggetti target e practitioners in un contesto in cui deve essere per entrambi chiaro che il percorso dalla de-radicaliz- zazione al reinserimento sociale è lungo, e può presentare momenti di empasse, ma che comunque la stabilizzazione del processo di de- radicalizzazione è data imprescindibilmente dalle fasi di reintegrazione, stabilizzazione e riabilitazione.
Partners/Cultura. Sul piano organizzativo-collaborativo, risulta ne- cessario creare stretti rapporti di fiducia tra i diversi partners pubbli- co/privati che sostengono il progetto e gli stakeholder. Al contempo, a livello nazionale risulta importante promuovere iniziative fondanti su di un approccio integrato e multi-agenzia, incentivando altresì la condi- visione e lo scambio informativo tra progetti, per favorire la cultura della de-radicalizzazione, integrazione e del vivere comunitario. Lo sviluppo della collaborazione tra governo centrale e amministrazioni locali è la
prerogativa indispensabile per formare una coalizione costituita da attori a livello locale che contribuiscano ad individuare i soggetti da coinvol- xxxx nella progettazione del programma.
Programma/Conoscenza. Risulta centrale elaborare programmi di formazione che, attraverso un approccio sistemico, forniscano le nozioni necessarie e professionalizzanti nell’ambito della de-radicalizzazione. Prevedere la realizzazione, a livello territoriale, di servizi di ascolto e assistenza sulla radicalizzazione. Inoltre, è auspicabile la strutturazione di programmi di lungo-termine a livello locale mirati al tolerance building.
Strutturare uno spazio digimediale attraverso cui informare e disse- minare materiale informativo multilingua (documenti, ricerche scientifi- che, manuali, contenuti mediali, informazioni relative a specifici inizia- tive, nonché eventi e dibattiti di carattere pubblico) destinato ad una tar- get audience sia locale che nazionale, incoraggiare la partecipazione per lo sviluppo di risorse nell’ecosistema (cyber-)sociale, attraverso il coin- volgimento in particolare del mondo accademico e della ricerca in eventi ad hoc come hackathlon per i quali è indispensabile una robusta base dati.
Nell’ottica di un costante aggiornamento e di un approccio dinamico al fenomeno, è utile provvedere ad una ricognizione periodica a livello locale, nazionale ed internazionale in merito ai programmi attuati ed agli impianti teoretici, metodologici e tecnici di riferimento i cui esiti ven- gano condensati su una pubblicazione periodica open online che possa contribuire all’individuazione rispettivamente di eventuali best practices e lesson learned.
La centralità dell’ecosistema (cyber-)sociale nel fenomeno della radicalizzazione e auto-radicalizzazione soprattutto dei più giovani, pone in evidenza la necessità di predisporsi per tempo all’elaborazione di in- terventi “ibridi”, ossia volti ad operare contemporaneamente sul fronte di due o più fenomeni che si sovrappongono, come la radicalizzazione e le tecnodipendenze, attraverso il gaming, ma non solo, oppure convergenti, come nel caso della radicalizzazione informazionale (Antinori, 2020).
In conclusione, al fine di poter elaborare proposte funzionali alle istituzioni italiane, in un quadro di continuo mutamento della minaccia, soprattutto nell’ecosistema (cyber-)sociale, dato contestualmente dalla proiezione in ambito digitale degli estremismi “tradizionali”, dalla gem- mazione di attori del tutto nuovi in termini di matrici pseudo-ideologiche o pseudo-confessionali, dall’ibridazione tra vecchi e nuovi attori (Xxxxxxxx, 2018), risulta necessario mantenere costantemente l’attenzione sull’evoluzione di fenomeni ritenuti immutati rispetto al passato, ma che presentano al contrario caratteristiche preoccupanti sul piano della ripro- ducibilità e capacità di diffusione. È questo il caso del cosiddetto Racially
and Ethnically Motivated Terrorism (REMT) che incarna in sé l’evo- luzione dell’estremismo violento neo-fascista e neo-nazista nella sua forma più orizzontale, liquida, (cyber-)sociale, in cui attori tra loro molto diversificati – sia in termini strutturali-organizzativi che identitari –, con- vergono sulla condivisione di prospettive interpretative di natura razzista, xenofoba, islamofoba, antisemita e dell’odio nei confronti delle xxxx- xxxxx, sostanziandosi nell’azione violenta eterodiretta. L’elevata criticità risiede qui nella difficoltà di avere una stima precisa e in tempo reale dell’espansione del fenomeno, dovuta alle specificità d classificazione della stessa nei diversi contesti nazionali, in primis a causa del mancato riconoscimento e condivisione su quali attori inserire di fatto nel concetto REMT. Inoltre, il fatto che i confini stessi del fenomeno REMT possono essere tracciati nella complessità di quel magma, spesso imprevedibile, che ribolle – tra hate crime e terrorismo, tra attori solitari e gruppi orga- nizzati – dando vita a nuovi meta-linguaggi di cui emoji e memi sono protagonisti, celando dietro l’apparente superficiale ironia del messaggio, un odio profondo in grado di travolgere soggetti vulnerabili sempre più giovani, esacerbando il conflitto e potenziando la portata della minaccia in uno scenario di crescente incertezza, insicurezza, ineguaglianza, già compromesso dall’innalzamento e radicamento delle tensioni, causato dal persistere della crisi sistemica innescata dalla pandemia. Negli ultimi anni, gli interpreti del REMT hanno già avuto modo di esplicitare la loro forza distruttiva in più continenti. Da qui la necessità cogente di esplorare con grande attenzione, con metodologie e tecniche di analisi nuove, la profondità delle infosfere REMT dove il fenomeno assume sempre più una forma culturale criminale le cui narrazioni genera crescente interesse soprattutto tra i più giovani. Risulta, quindi, impellente intervenire per mitigare, contrastare, prevenire e anticipare tale minaccia alla sicurezza ed elaborare al contempo nuovi ed efficaci modelli di de-radicalizzazione all’epoca della post-verità.
Abstract
De-Radicalisation, Rehabilitation and Reintegration Processes.
Proposals for the Italian Institutions Based on Lessons Learned from the International Context
Radicalisation leading to violent extremism and terrorism represents one of the most significant threats both to public and national security. De- radicalisation, rehabilitation and social re-integration become necessary instruments to strengthen the efforts to combat and prevent this phenomenon
with special reference to specific issues such as foreign terrorist fighters, radicalised children/young people, women and inmates. In such a scenario, best practices and lessons learned from other countries must be considered as the basis for developing tailored proposals and concrete actions to improve the Italian national strategy in the light of new challenges posed by the spread of racially and ethnically motivated terrorism (REMT), the evolu- tion of radicalisation/self-radicalisation in (cyber-)social ecosystem and the malicious use of Artificial Intelligence (MUAI).
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L’INTEGRAZIONE DI CONTROTERRORISMO E PREVENZIONE DELL’ESTREMISMO
XXXXXXXXXX XXXXXX
L’assalto al Campidoglio statunitense (9/17/2021) da parte di esaltati fanatici del presidente uscente non ha soltanto una valenza operativa (come è potuto accadere?), sociale (chi sono i rivoltosi?), politica (chi li ha incitati? A cosa credono? Come si protegge una democrazia? Chi deci- de che un discorso è sedizioso e chi lo interdice? Xxxx deve fare la politica per riprendere un segmento elettorale, la cui minoranza è violen- ta?), ma anche altamente simbolica perché il bersaglio secondario del volo UA93, dirottato l’11 settembre 2021 da un gruppo qaedista, era pro- prio il Congresso e quello primario la Casa Bianca. Un decennio dopo, l’attacco finale ai simboli del potere statunitense non è avvenuto da parte di un antagonista esterno, ma da parte di un attore istituzionale interno.
L’impatto psicopolitico è stato molto forte, specialmente in ambienti dedicati allo studio del terrorismo, e merita riportare le reazioni a caldo di uno specialista1:
«Sintesi su assalto a Congresso.
- Risposta della Legge deve essere dura quanto selettiva. Paga chi ha commesso reati.
- Guai a criminalizzare interi settori di società.
- Ci sono milioni che hanno votato Xxxxx, c’è un pensiero che va oltre Xxxxx.
- Il popolo che si ispira a Xxxxx racchiude molte anime e qui c’è un problema: perché tra queste ve ne è una eversiva/violenta. Minoritaria fin che si vuole, però pericolosa.
- L’errore grave del trumpismo è di non aver isolato - per ragioni elettorali e perché non gli importa tanto - la componente radicale. È un gioco rischioso. La ultra-destra americana si è macchiata di stragi.
- Guai, però, a censurare, a spingere contro il muro. Non servono persone in clandestinità, meglio conoscere e sapere ciò che pensano.
1 X. XXXXXXX, post su Facebook del 9/1/2021, ore 10,41.
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE FASC. 1/2021 pp. 55-61 EDITORIALE SCIENTIFICA SRL – ISSN 0010-5066
- Al tempo stesso non si possono concedere attenuanti a chi viola istituzioni e luoghi. Non si può minimizzare, cavillare se aveva la fionda o il fucile. Conta la sostanza del gesto.
- Gli eventuali abusi della polizia non possono giustificare le reazioni violente di dimostranti, non importa se di destra o di sinistra.
- Questo vale per gli estremisti di qualsiasi colore, a me dell’appar- tenenza importa un bel nulla. L’importante è capire da dove potrà venire la prossima minaccia. In Usa hanno studiato per anni, con risorse impo- nenti, come fermare il qaedismo, la stessa cosa va fatta con altri “ismi”. Che sono sempre più diversi, frastagliati e a volte poco decifrabili».
Se uno sostituisse alla parola Xxxxx e trumpismo le parole Qutb (un intellettuale ispiratore del takfirismo – temine corretto per jihadismo) ed islamismo, comprenderebbe molti degli errori della GWOT (Global War On Terror) tra cui:
- l’amalgama indiscriminato tra estremismo religioso e religioni;
- la criminalizzazione implicita ed esplicita d’interi settori sociali;
- la reintroduzione de facto dei crimini d’opinione;
- la spinta verso la clandestinità di settori dissidenti estremisti ma non violenti;
- l’indifferenza verso le istanze legittime di milioni di persone arabe e/o mussulmane, oscurate dalla propaganda dai gruppi terroristici;
- l’impiego di tattiche spesso indiscriminate nelle operazioni di controterrorismo e repressione;
- la sistematica violazione diretta e per interposta nazione dei diritti umani e legali.
Peraltro, se fortunatamente la cerimonia d’insediamento del presi- dente Xxxxx è passata senza incidenti, grazie a misure molto simili a quel- le del G8 di Genova nel 2001, le prime previsioni a caldo da parte degli specialisti sono assai poco incoraggianti. Xxxxx Xxxxxxx, professore al King’s College e conferenziere di punta in eventi della NDCF, ha anti- cipato che parti del movimento cospirativo QAnon potrebbero essere più pericolosi del jihadismo esistente perché possono contare su più persone ed armi, un maggiore potenziale di polarizzazione politica e su infiltrati nelle forze di polizia e forze armate.
Già in precedenza, su questa rivista, avevamo sottolineato con net- tezza e senza allarmismi inutili la pericolosità del fenomeno emergente:
«È in questo contesto che va letta la negativa novità che gli Stati Uniti sono passati nel 2018 da un livello a medio rischio ad uno ad alto rischio terroristico (Global Terrorism Index 2018) e questo per il passaggio dal “califfato” nelle sue dimensioni fisiche e virtuali al terrorista della porta accanto che non è più solo takfiri, ma di estrema destra. Si tratta di un fenomeno ancora emergente e che può essere represso in tempo, ma che
sarebbe molto pericoloso sottovalutare e che, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa (Russia inclusa) ha già un quarto di secolo di periodo d’incubazione»2.
Questa situazione di maggior visibilità di nuovi tipi di terrorismo ed insurrezione armata, non più classificabili come esterni, ma chiaramente attribuibili all’album di famiglia di gruppi nazionali, pone con maggior forza il tema di un corretto ed efficace impiego degli strumenti del controterrorismo e della prevenzione dell’estremismo.
Prima di discutere su come questi due strumenti vadano impiegati ed integrati, è utile ricordare una definizione di terrorismo, standard nell’in- segnamento dell’Autore in SIOI dal 2016: «Metodo di lotta politica im- piegato da un attore politico militarmente debole e non interessato o inca- pace a sviluppare un’azione politica di massa il cui scopo è, attraverso attacchi contro obiettivi specifici e/o indiscriminati, di aprire canali di comunicazione e negoziato con l’élite al potere».
Le principali conseguenze della realtà riassunta nella definizione sono:
I. Il terrorismo si usa quando non si è in grado, e spesso non si ha intenzione, di provocare un cambio radicale di regime;
II. Il terrorismo è una scorciatoia che salta l’organizzazione delle masse verso una rivoluzione per puntare direttamente al potere politico avversario;
III. Il suo scopo non è di terrorizzare, i civili anche perché le popolazioni hanno un grande resilienza di fronte ad attacchi continuati e pesanti;
IV. Se manca l’accordo politico o viene eluso, il terrorismo fallisce il suo scopo;
V. Il terrorismo riesce di rado nell’intento, spesso rafforza i regimi esistenti ed in ogni caso, pochissimi ex-terroristi sono diventati politici, statisti o premiati con un Nobel per la pace; quasi tutti, invece, sono in fuga, in carcere o morti;
VI. La vera differenza in questa dinamica viene dall’élite stessa, dalle sue reazioni e dalle sue politiche di fronte all’immagine di successo apparente del terrorista. Insomma deriva dalla soluzione politico-sociale al problema che uno specifico terrorismo pone, tra cui la trattativa è uno strumento valido, etico e spesso risolutivo.
Riguardo all’uso dei termini è bene distinguere tra antiterrorismo e controterrorismo perché il primo è la lotta al terrorismo con mezzi eminentemente civili e, in linea di principio legali, mentre il secondo nella pratica è la versione più militarizzata e talvolta platealmente meno
2 A. POLITI, Il terrorismo della porta accanto, in questa Rivista, 2019, 531 ss.
attenta ai diritti dell’imputato e dell’umanità. Ovviamente la preferenza va all’antiterrorismo, generalmente meno invasivo, polarizzante e con minori danni collaterali, ma in questo articolo useremo il termine controterrorismo, riconoscendo che purtroppo è una tendenza molto diffusa, in modo disgraziatamente visibile in diverse democrazie.
Le definizioni per CT (Counterterrorism) e CVE (Countering Violent Extremism) saranno rispettivamente quelle NATO e della Commissione Europea3.
Allo stato attuale delle cose, l’impiego del controterrorismo e della prevenzione dell’estremismo violento è semplicemente scoordinato sin dai tempi della presidenza Xxxxx, anche se la nuova amministrazione Xxxxx potrebbe cambiare registro4. Il motivo è che, salvo eccezioni nel mondo, le attività CVE vengono considerate non solo ancillari rispetto al CT, ma sostanzialmente un esercizio di pubbliche relazioni per dare una nobile patina (in politichese, buonista) alle più concrete, potenti ed apparentemente risolutive operazioni poliziesche e militari. Le stesse azioni di CVE corrono spesso il rischio di deragliare in partenza perché i legami di fiducia all’interno di una comunità per prevenire dinamiche violente vengono spesso dirottati dall’intelligence di polizia verso un banale reclutamento di confidenti.
La dura realtà è che il solo CT non cambia velocemente il dato del fenomeno terrorista perché taglia il tumore, ma non ferma la dinamica degenerativa delle cellule, mentre il CVE cerca o di prevenire la forma- zione di cellule cancerose o di recuperarle, ma non può fornire un quadro politico generale per una soluzione complessiva. Quindi, continuando con la metafora, l’impiego congiunto e sinergico non solo è ovviamente più efficace di uno slegato, ma è comunque al servizio di una soluzione
3 NATO defines counterterrorism as «All preventive, defensive and offensive measures taken to reduce the vulnerability of forces, individuals and property against terrorist threats and/or acts, to respond to terrorist acts. In the frame of the NATO Comprehensive Approach, this can be combined with or followed by measures enabling recovery after terrorist acts». According to the European Commission definition «P/CVE can therefore be considered a broad umbrella term categorising activity that seek to prevent or mitigate violent extremism through various non-coercive measures united by the objective of counteracting the factors of violent extremism. P/CVE is widely understood to include, for instance, community debates on sensitive topics, media messaging, inter-faith and intra-faith dialogues, training of state governance and security actors, and a variety of initiatives with individuals deem6ed to be ‘at risk’ of joining or being attracted to violent extremist groups, such as vocational training and mentorship programmes».
4 Xxxxx said the White House is committed to developing policies and strategies aimed at domestic violent extremism that are «based on facts, on objective and rigorous analysis and our respect for constitutionally protected free speech and activities». Cfr. X. XXXXXXXX, Xxxxx takes steps to confront domestic violent extremism following Capitol riot, in USA Today, 14 hours ago xxxxx://xx.xxxxxxxx.xxx/xxxxx/xxxx/xxxxxxxx/0000/00/00/xxxxx-xxxxxx-xxxxxx- assessment-domestic-violent-extremism/6676776002/ (23/01/2021, 12,44 CET).
politica generale che risponde alle rivendicazioni di cui il terrorismo è un vettore improprio, ma veritiero.
Esistono esempi di vittoria puramente di forza su gruppi terroristici, che però non tengono conto del danno profondo e complesso alla politica e società di un paese, specie se democratico, e che non risolvono co- munque i problemi di fondo. Se, ad esempio, in un territorio occupato e colonizzato la popolazione ricorre a tattiche terroristiche, la tattica sarà sbagliata, ma la rivendicazione è innegabile.
Le raccomandazioni che seguono sono il frutto di una tavola rotonda speciale, organizzata dalla NATO Defense College Foundation, “Closed Round Table on integration of CT and CVE” (10 dicembre 2020), nell’ambito del convegno “Confronting Criminal/Terrorist Threats: The Reshaping of Non-State Actors”, un tema nel quale la Fondazione ha una solida expertise interdisciplinare e multinazionale.
Considerando come eccezioni alcune iniziative CVE di successo (ad Aarhus in Danimarca, Mechelen in Belgio, i programmi cittadini di Los Angeles o quelli EXIT e Germania, oppure quello pilota dello United Na- tions Development Programme in Kossovo), esiste una scarsa diffusione delle buone pratiche in aggiunta alla già citata mancanza di coordi- namento. Quello che molti considerano un problema minore, si traduce invece nel fallimento di una pacificazione in profondità, prolungando le missioni all’estero con considerevole spesa pubblica e perdita di vite.
Se quindi l’integrazione va considerata necessaria, allora essa è possibile solo concependola fin dall’inizio delle operazioni. In linea di principio, la definizione NATO del CT include anche la prevenzione, anche se l’Alleanza non conduce attività di CVE. Poiché il CT è di particolare interesse nella Regione Sud, è essenziale una cooperazione stretta con ONU ed UE, oltre che con i partner del Dialogo Mediterraneo e della Istanbul Cooperation Initiative. Presso quest’ultimo tipo di partner esiste già una sensibilizzazione pratica con esperienze autonome, ma non è detto che le delimitazioni pratiche tra prevenzione ed intelligence general e criminale siano ancora del tutto a punto.
È prevedibile che, soprattutto in ambiti CT, l’integrazione con la prevenzione sia considerata sostanzialmente una perdita di tempo ed un intralcio, mentre, se si adotta un approccio tipico del settore energetico, l’utilità appare evidente. Nel livello upstream, i programmi di preven- zione sono concentrati nell’ostacolare anticipatamente un potenziale re- clutamento terrorista. Nel settore midstream invece, le operazioni di con- trasto al terrorismo entrano in scena, mentre i programmi CVE continua- no ad opporsi alle narrative propagandistiche dei gruppi avversari ed in- tralciare il reclutamento con mezzi non violenti (non-kinetic). Down- stream è la fase in cui il CVE lavora nel facilitare la dissociazione, riabi-
litazione e reintegrazione di terroristi che non sono in posizioni di vertice oppure che non sono irrimediabilmente induriti. È chiaro che il sistema dei delitti, delle pene e della redenzione deve avere la necessaria fles- sibilità per evitare i guasti di condanne indiscriminate o inutilmente lun- ghe, ma è anche evidente che, nel downstream, va incluso il risarcimento delle vittime innocenti dirette e indirette sia delle operazioni controter- roriste che degli atti terroristici.
Sempre restando in questo approccio, la prima (upstream) e la terza fase (downstream) fanno parte chiaramente dell’ambito nazionale. La NATO può in ogni caso proiettare stabilità, utilizzando alcuni suoi punti forti: addestramento, istruzione, interoperabilità mentale, particolarmente nella costruzione e nel consolidamento di fattori di resilienza nelle istitu- zioni militari.
È chiaro che, nell’insieme di questo processo integrato, il manteni- mento della fiducia tra i differenti attori, le autorità e la società civile locali è una questione essenziale. Solo con questo continuum di fiducia si può ottenere il massimo di sinergia ed efficacia. Ciò comporta che ogni attore è responsabile:
- sia delle persone che si sono affidate ad esso e che sono tutelate dal quello specifico ed unico vincolo di confidenza,
- sia nell’evitare di danneggiare la confidenza che altre parti della popolazione locale ripongono in un diverso attore che collabora alle operazioni.
In sintesi bisogna creare e mantenere un clima di reciproca fiducia e rispettare costantemente ogni confine e ambito operativo, evitando usur- pazioni controproducenti. In pratica ciò richiede una forte capacità di sin- tesi e decisione politica per una buona armonizzazione dei diversi strumenti.
La fase midstream è tipicamente quella dove è già cominciata un’operazione NATO di sicurezza cooperativa o di gestione della crisi. Qui il coordinamento tra il comando NATO, le autorità locali ed altri organismi internazionali è più intenso. Oltre alle priorità operative militari, è importante mantenere rapporti di fiducia ed una convergenza di temi e narrazioni tra chi svolge compiti di CVE, information warfare, guerra psicologica e propaganda. Un altro aspetto da tener presente è il mantenimento di una giustizia ragionevolmente credibile e funzionante a livello locale: tante storie di ribellione nascono da un’ingiustizia patita o talvolta solo percepita, cui non è stato dato ascolto. Anche la salute pubblica a livello locale è uno strumento importante da curare.
Il livello locale è, nelle operazioni di pacificazione, decisivo per il successo di CT e CVE, ma è anche chiaro che le divisioni a livello nazio- nale hanno ripercussioni inevitabili verso il basso. Naturalmente l’insie-
me di una campagna di pacificazione spesso deve affrontare situazioni in cui molti territori sono contestati e dove il consenso locale può cambiare di segno per le violenze delle forze di guerriglia e terrorismo avversarie: l’obiettivo generale del coordinamento CVE-CT deve essere quello di u- sare le azioni polarizzanti del nemico (attentati, esecuzioni, stragi, rapi- menti, …) per isolarlo rispetto ad un potenziale consenso locale. Molte campagne di controguerriglia ed antiterrorismo hanno raggiunto il loro scopo esattamente non perdendo di vista questo obbiettivo principale.
Infatti un’efficace integrazione CVE/CT permette una riduzione dell’ostilità popolare, la prevenzione di ulteriori reclutamenti, un relativo freno a crimini di guerra e lo sfruttamento dei punti deboli interni ai gruppi terroristi o di guerriglia.
In conclusione, una delle grandi vulnerabilità dei regimi, governi e stati nazionali è la loro ricorrente frammentazione burocratica e funzio- nale che permette ad organizzazioni molto più deboli e piccole di colpire, danneggiare, sfuggire e prosperare nei vuoti organizzativi e dunque di politica e potere sul territorio.
Il caso dell’invasione del Campidoglio è da manuale per l’irrile- vanza di una grossa macchina come il Homeland Security Department in quanto è fallita l’integrazione (con tutte le attenzioni democratiche e legali del caso) fra diversi tipi d’intelligence (criminale, di sicurezza e militare), i prossimi quattro anni di presidenza Xxxxx riveleranno se c’è volontà politica di sanare una frattura profonda che risale al 1985 e che ha rivelato una parte notevole del suo potenziale dirompente.
Abstract
Integrating Counterterrorism and Extremism Prevention
The rise of new terroristic and subversive movements raises the issue of a better synergy between two instruments used in fighting against this type of risk. Historically Counter-Terrorism (CT) and Countering Violent Extre- mism (CVE) have been employed in a separate and un-coordinated way, with much more resources channelled in CT and results that cannot be described as decisive. The article argues that the prevention and repression activities are part of a continuum outlined as upstream, midstream and downstream in which CT and CVE can act in an integrated way.
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1. Countering Violent Extremism (CVE)/Preventing Violent Extremism (PVE). Le origini del concetto.- Con gli attacchi dell’11 settembre 2001, la questione del terrorismo internazionale e delle misure con cui contrastarlo, si impone come principale argomento di dibattito politico all’interno della Comunità Internazionale. Il Consiglio europeo straordinario del 21 settembre 2001 vara un Piano d’azione1 in cui «invita a costituire una coalizione globale quanto più ampia possibile contro il terrorismo, sotto l’egida delle Nazioni Unite», che sono il principale organismo di legittimazione in ambito di sicurezza e cooperazione internazionale. Nel documento si legge che «l'Unione europea intensi- xxxxxxx il suo impegno contro il terrorismo mediante un approccio coordinato e interdisciplinare che abbracci tutte le politiche dell’Unione». In particolare, il tema diventa prioritario nel quadro della politica estera e di sicurezza comune. Viene anche sottolineata la necessità di una maggiore partecipazione agli sforzi nel prevenire i conflitti in quanto
«(…) la lotta contro il flagello del terrorismo si rivelerà tanto più efficace
quanto più si baserà su un dialogo politico approfondito con i paesi e le regioni del mondo che sono la culla del terrorismo». Quest’ultimo, è ancora visto come un male importato.
A metà degli anni 2000, l’approccio militare muscolare che caratte- rizza la ‘war on terror’ a guida statunitense ha già mostrato tutti i suoi limiti e controindicazioni. Al-Qaeda ha allargato la propria sfera d’azione sul territorio in Medio Oriente ed è in grado di estendere la sua influenza in Occidente2; le missioni della coalizione internazionale in Afghanistan e in Iraq, con il loro carico di vittime civili, vengono percepite come un’aggressione nei confronti dell’Islam fornendo nuova linfa e motiva-
1 Conclusioni e Piano di Azione del Consiglio Europeo Straordinario del 21 settembre 2001 xxxxx://xxx.xxxxxxxxx.xxxxxx.xx/xxxxx/00000/xxxxx-xxxx0.xxx
2 A. XXXXXXXX, X. XXXXX, The Globalisation of Countering Violent Extremism Policies, Undermining Human Rights, Instrumentalising Civil Society, TNI, Amsterdam, 2018, 4.
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE FASC. 1/2021 pp. 63-74 EDITORIALE SCIENTIFICA SRL – ISSN 0010-5066
zione ai militanti islamisti; in Europa emergono i primi segnali di una scena jihadista interna – che andrà a costituire il cosiddetto terrorismo ‘homegrown’ – la cui portata diventerà evidente con i devastanti attentati di Madrid nel 2004 e di Londra nel 2005. Xxxxxxxxx Xxxxxxxx racconta come, dopo gli attacchi che hanno colpito la capitale inglese: «(…) the public discourse on terrorism shifted: the British government stopped talking about counter-terrorism in terms of traditional policing or military operations as it had done during the conflict in Northern Ireland, referring instead to winning hearts and minds. The word ‘radicalisation’ entered the public vocabulary, acting as a shorthand explanation for the multi- faceted reasons that drove young men to extreme acts of self-destruction in religio-political protest»3.
Su spinta americana, il termine ‘estremismo violento’ fa il suo
ingresso nel linguaggio istituzionale segnalando un allargamento della prospettiva: accanto allo strumento militare, prende avvio una “battaglia delle idee” nei confronti dell’ ‘islamismo radicale’, su un territorio che dal mondo arabo si estende all’Europa4.
L’UE nel 2005 vara una strategia fondata su quattro pilastri – Prevent / Protect / Purse / Respond – in cui la prevenzione rappresenta un elemento fondamentale inteso a «impedire le affiliazioni al terrorismo affrontando i fattori e le cause profonde che possono portare alla radicalizzazione e al reclutamento, in Europa e a livello internazionale»5.
È tuttavia con l’entrata in scena dello Stato Islamico e della persi- stente attrattiva che ha esercitato su migliaia di simpatizzanti e foreign fighters andati a riempire le fila del Califfato e/o implicati in una lunga stagione di attentati nel Vecchio Continente, che i concetti di PVE e CVE si sono imposti, dal 2015 in avanti, come componenti essenziali dell’architettura della lotta al terrorismo a livello internazionale.
2. L’architettura globale della prevenzione.- Essenzialmente, con CVE si intende l’insieme delle politiche e dei programmi messi in campo nell’intento di contrastare ed evitare il passaggio all’atto violento, ridu- cendo in tal modo il rischio e la minaccia del terrorismo. Si tratta di mi-
3 X. XXXXXXXX, We Love Death as You Love Life, Britain’s Suburban Terrorists, London, 2015, 3.
4 «(…) the ‘shock and awe’ that had failed in Iraq would be complemented by new programmes aimed at winning ‘hearts and minds’. In other words, the ’battle of ideas‘ would be engaged alongside the battle for territory; the fight against ’radical Islam‘ would be cultural as much as corporeal, preventative as much as reactive. Moreover, the new strategy against violent extremism regarded Europe as a front line as much as the Middle East», KUNDNANI, XXXXX, cit. 4.
5 Strategia anti-terrorismo dell’Unione Europea, Bruxelles, 2005 xxxxx://xxxx.xxxxxxxxx.xxxxxx.xx/xxx/xxxxxxxx/XX%0000000%000000%00XXX%000/XX/xxx.
sure che intervengono in un contesto dove l’estremismo ha già fatto il suo ingresso. De-radicalizzazione e contro-narrativa rientrano in questa categoria.
Nella PVE ricadono invece le iniziative avviate con l’obiettivo di anticipare i processi di radicalizzazione. Si tratta, in altre parole, di dotare individui e società, degli anticorpi e delle condizioni necessarie per resistere all’appello e al richiamo dell’estremismo.
In una sua guida del 2017 rivolta al personale, la Croce Rossa descrive in modo conciso ed efficace le varie dimensioni dell’azione di prevenzione e contrasto: «Preventing and Countering Violent Extremism (P/CVE) is a global State-led approach that is part of a broader counter- terrorism agenda. This “whole-of-society” approach aims, through a wide range of mostly non-coercive activities, to address the root causes that may ultimately result in “violent extremism” and acts of “terrorism”»6.
Poiché la minaccia del terrorismo è diffusa, transazionale e ‘home- grown’, agire sulle condizioni – interne ed esterne agli Stati – che posso- no favorirne l’affioramento e la persistenza è di interesse comune. Gli organismi internazionali (ad esempio le varie agenzie ONU) e regionali (come l’Unione europea), grazie alla loro presenza capillare sul territorio nelle aree di crisi ed all’ampia struttura di collaborazione a livello politi- co, securitario ed economico, sono nella posizione privilegiata di poter coordinare gli sforzi condivisi.
Una nota ricerca di Xxxxxxxxxx e Xxxxxxx dal titolo emblematico All Jihad is Local prende in esame le origini di 1800 combattenti dell’ISIS in Siria, provenienti da Nord Africa e Penisola Araba, ed è in grado di dimostrare la rilevanza del contesto, nel determinare l’adesione ai gruppi estremisti. I ricercatori hanno determinato che «while regional patterns exist, jihadist recruitment draws upon specific local dynamics that vary even within the two regions examined (...) Local contexts must be properly understood to formulate effective counterterrorism and counter- radicalization responses»7. Di conseguenza, sostengono, l’unico modo per mettere in atto interventi efficaci consiste nell’intervenire localmente. Il Global Terrorism Index sottolinea come il terrorismo nei Paesi econo- micamente meno sviluppati, sia associato a fratture religiose o etniche e alla corruzione; negli altri, tende piuttosto a fare leva su emarginazione ed esclusione sociale8. Il contesto ha una grande importanza quindi anche
6 ICRC, Guidance Note on P/CVE for National Societies, Geneva, 2017 xxxxx://xxx.xxxx.xxx/xx/xxxxxxxx/xxxxxxxx-xxxx-xxxxxxxx-xxxxxxxxx-xxxxxxxxxx-xxx- countering-violent-extremism-approach
7 X. XXXXXXXXXX, X. XXXXXXX, All Jihad is Local, ISIS in North Africa and the Arabian Peninsula, Washington D.C., 2018.
8 Global Terrorism Index 2020, Measuring the Impact of Terrorism, IEP, Sydney, 3.
per l’Europa, che ha esportato a sua volta verso lo Stato Islamico, secon- do le stime, fra i 5 e i 6000 foreign fighters. La criminologa Xxxxxx Xxxxxxx sottolinea come «most of the drivers that contribute to the emergence of extremism risk are found outside people; they’re in the physical spaces, communities and social systems they live in. (…) When dealing with a complex social problem like extremism, we should maybe spend a litte less time asking ourselves ‘why do they do it?’ and a little more time asking ‘why here and now?’»9.
Figura 1. Fonte: Strategia antiterrorismo dell’Unione Europea (2005)
3. Il ruolo dell’Unione europea.- Nella ‘Strategia riveduta dell'UE volta a combattere la radicalizzazione e il reclutamento nelle file del ter- rorismo’ (2014) si spiega che «(…) Malgrado lo specifico carattere na- zionale della minaccia posta dalla radicalizzazione e dal reclutamento, gli sforzi dell'UE possono tuttavia apportare valore agli sforzi profusi a li- vello nazionale e locale nonché fornire un quadro importante di coopera- zione sulle risposte adeguate da incoraggiare in tutta l'UE e portare alla condivisione di buone prassi su come rispondere efficacemente alla radicalizzazione a livello locale, nazionale, europeo ed internazionale»10.
9 X. XXXXXXX, Understanding ‘Radicalising Environments’ Key to Tackling Extremism, UCL News, 2019.
10 xxxxx://xxxx.xxxxxxxxx.xxxxxx.xx/xxx/xxxxxxxx/XX-0000-0000-XXXX/xx/xxx
I profili di estremisti e jihadisti variano da Paese a Paese e i processi di radicalizzazione dipendono tanto dalle vulnerabilità personali quanto dall’ambiente circostante e dal contesto sociale e politico. Per questa ragione, è importante che ogni nazione sviluppi dei programmi propri che rispondano, da un lato, all’evoluzione della minaccia e, dall’altro, alle specificità del territorio.
Un impegno rilevante in questo senso da parte dell’Unione è stata l’istituzione nel 2011 della Rete per la sensibilizzazione sulla radicalizza- zione (RAN), una piattaforma che favorisce lo scambio di esperienze e di know-how, la condivisione di conoscenze e di buone pratiche. La RAN mette in contatto circa 6500 attori diversi attivi sul campo (fra cui docen- ti, operatori sociali, psicologi, personale di ONG, rappresentanti delle forze di sicurezza, legislatori ai vari livelli, ricercatori) e può contare su un quadro solido di finanziamenti «al fine di offrire un sostegno specifico agli stakeholder negli Stati membri chiamati a delineare strategie di prevenzione articolate, a istituire quadri e reti multi-agenzia e ad attuare progetti concreti»11. Il contributo più recente risale al 2 dicembre 2020, quando la Commissione ha annunciato lo stanziamento di un massimo di 30 milioni di Euro da ripartire su un periodo di quattro anni, per sostenere gli Stati membri nella lotta alla radicalizzazione violenta. Nel 2019 ne aveva già stanziati altri 30 a favore, appunto, del lavoro degli operatori legati alla RAN12.
L’Europa ha dato inoltre un imponente impulso alla ricerca realiz-
zata attraverso consorzi transnazionali e multidisciplinari (v. ad esempio, il programma H2020, seguito da Horizon Europe) con l’obiettivo di ag- giornare sistematicamente la comprensione dei fenomeni di radicaliz- zazione ai fini di rispondere alle necessità di sicurezza, prevenzione e policy-making. Numerose altre iniziative sono legate a progetti emanati e proposti dalla società civile, legati per esempio alla promozione della coesione sociale, oppure di natura educativa e/o per i giovani.
Infine, la spesa per attività (in corso) di controterrorismo oppure PVE al di fuori dei confini europei si aggirava alla fine del 2019 attorno alla cifra di 465 milioni di Euro, con un aumento del 15% rispetto all’anno precendente13.
11 Commissione europea, Sostenere la prevenzione della radicalizzazione che porta all'estremismo violento, Bruxelles, 2016 xxxxx://xxx-xxx.xxxxxx.xx/xxxxx- content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52016DC0379&from=IT
12 xxxxx://xx.xxxxxx.xx/xxxx-xxxxxxx/xxxx/xxxxxxxxxx-xxxxxx-xxx-xxxxxxx-xxxxxx-xxxxxx- their-fight-against-violent-radicalisation_en
13 xxxx://xx-xxxxx.xx/xx-xxxxxxx/xxxxxxx/0000/00/000000_xxxxxxx-xxxxxxxx-xxxxx.xxx
4. Il ruolo delle Nazioni Unite.- L’ONU ricopre una funzione centrale nella guida e nel coordinamento dell’approccio multilaterale che caratterizza la lotta al terrorismo, un fenomeno criminale transnazionale che va a minare sicurezza, pace e sviluppo, ambiti chiave per il lavoro dell’Organizzazione. La prevenzione riveste quindi una grande importan- za, anche se il documento principale in questo senso risale solo al 2016, un decennio dopo l’adozione della Global Counter-Terrorism Strategy che viene aggiornata ogni due anni in linea con le priorità degli Stati membri. Nel “Plan of Action to Prevent Violent Extremism”14 vengono elencate una serie di 70 raccomandazioni su iniziative da intraprendere ai vari livelli – nazionale, regionale e globale – incluso l’invito rivolto ai vari paesi e organismi regionali, di volersi dotare di un Piano d’azione che affronti i fattori ‘push’ e ‘pull’ sul modello ONU (figura 2); i fattori ‘push’ sono le condizioni strutturali che possono condurre verso l’estre- mismo, nello specifico la mancanza di opportunità socio-economiche, la marginalizzazione e discriminazione, la ‘poor governance’, le violazioni dei diritti umani, i conflitti (ragione prima del terrorismo a livello globa- le15) e la radicalizzazione nelle carceri. Mentre i fattori ‘pull’ riguardano gli elementi che contribuiscono a trasformare le idee in azione violenta, motivazioni e vulnerabilità personali, vittimizzazione, distorsione del messaggio religioso, ideologie politiche, differenze culturali, social net- work.
A sostegno della progettazione di piani d’azione PVE/CVE, è stata
resa disponibile una guida curata dal Counter-Terrorism Office – il “punto focale” per lo sviluppo delle capacità e competenze legate a PVE/CVE – che identifica sette aree prioritarie: la prevenzione dei conflitti, il buon governo, il coinvolgimento delle comunità, le pari opportunità per le donne e i giovani, l’educazione e le comunicazioni strategiche16.
Nel febbraio 2018 prende avvio lo UN Global Counter-Terrorism Coordination Compact, che raduna 43 entità, fra membri e osservatori, allo scopo di rafforzare ulteriormente il coordinamento e il lavoro di tutte le organizzazioni17.
14 xxxxx://xxx.xx.xxx/xxxxx/xxx.xx.xxx.xxxxxxxxxxxxxxxx/xxxxx/xxxx_xxxxxx.xxx.
15 Global Terrorism Index, cit.
16 UN Office of Counter-Terrorism, Developing National and Regional Action Plans to Prevent Violent Extremism xxxxx://xxx.xx.xxx/xxxxxxxxxxxxxxxx/xxxxx/xxx.xx.xxx.xxxxxxxxxxxxxxxx/xxxxx/xxxxx_xxxxxxxxx nceguide_final.pdf.
17 xxxxx://xxx.xx.xxx/xxxxxxxxxxxxxxxx/xxxxxx-xx-xxxxxxx.
Figura 2. Fonte: UN Plan of Action to Prevent Violent Extremism (2016)
Visto il ventaglio di fattori a cui devono fare fronte tra ‘push’ e ‘pull’, le strategie di PVE/CVE hanno in comune molti aspetti con gli interventi che si prefiggono di prevenire i conflitti, “costruire” la pace, promuovere lo sviluppo, la coesione e la tolleranza, il dialogo inter-reli- gioso, la difesa dei diritti umani, il sostegno a comunità disagiate. Nell’i- stituire questi programmi, le ONG e gli attori della società civile si muo- vono di concerto con le autorità; ci sono poi attività educative, formative, sportive o ricreative.
I passi intrapresi dall’Unione europea e dalle Nazioni Unite (e da altre organizzazioni regionali e internazionali come ad esempio l’OSCE, il G20, il Global Community Engagement and Resilience Fund e via dicendo) sono fondamentali; questi organismi hanno assunto un ruolo nevralgico e/o complementare quali ‘teatri’ per il dibattito, il confronto e il coordinamento di azioni comuni; la distribuzione di fondi; la divulga- zione della ricerca, così importante nel caso di un fenomeno come quello del terrorismo (jihadista) che ha dimostrato di sapersi evolvere e adattare molto rapidamente alle circostanze; per la definizione delle sfide, delle minacce e delle risposte; e, infine, per l’azione concreta attraverso le agenzie che le compongono. Tuttavia, a livello di policy vengono fatte rilevare anche delle problematiche, con potenziali ripercussioni negative sulle attività pratiche di chi opera sul terreno.
5. Alcune criticità/problematiche.- Manca una definizione condivisa di estremismo violento. Anche la parola ‘radicalizzazione’ crea delle perplessità in parte della comunità scientifica e non solo, poiché indi- cando, nell’uso ormai corrente e acritico, un percorso quasi ineluttabile verso il terrorismo, implica che il ‘radicalismo’ sia inerentemente violen- to (togliendo al concetto la potenziale carica positiva)18. Il problema non è una mera questione di natura accademica poiché sulla base di queste definizioni, che a livello nazionale variano considerevolmente da Paese a Paese, vengono emanate misure concrete e vengono varate politiche che non devono/dovrebbero essere “vaghe, selettive e inconsistenti”19, e quin- di potenzialmente controproducenti. La preoccupazione tocca in partico- lar modo il lavoro di quegli organismi la cui missione è di natura umanitaria, come la Croce Rossa, quando/se viene loro richiesto di prendere parte a questi programmi: «Owing to the lack of an agreed definition of “violent extremism” – and the broad and contested range of push and pull factors that P/CVE initiatives aim to address – a variety of concerns have been expressed about the impact of P/CVE programmes. These include the risk of stigmatizing some communities considered as vulnerable to “violent extremism” based on ethnicity, religion or race; the criminalization of individuals suspected of being “radicalized” in the absence of any unlawful acts; and the suppression of legitimate political opposition groups. The lack of a clear definition and the concerns voiced by some observers call for a cautious approach by the Movement, whose role is not to better define what is primarily a political concept»20.
Questioni di contro-narrativa. Nel tentativo di trovare risposte al
perché migliaia di giovani nati e cresciuti nei Paesi europei e dai profili anche molto diversi fra loro abbiano aderito al progetto del Califfato e di altri gruppi jihadisti, l’attenzione si è focalizzata sul ruolo dei reclutatori, della propaganda e dell’ideologia. Ciò ha rivestito la contro-narrativa di un rilievo particolare all’interno dell’architettura globale di P/CVE con- cepita e trasmessa da UE e Consiglio di Sicurezza dell’ONU, nonostante i pareri sulla sua efficacia siano discordi e la dimensione politica delle iniziative pratiche – che sono pur sempre emanazione di una strategia istituzionale – possa comprometterne la credibilità, un rischio che tocca anche altre attività (ad esempio la de-radicalizzazione). La definizione vaga e problematica di estremismo – concetto che può includere la vio-
18 X. XXXXXXX, X. XXXXXX, The Concept of Countering Violent Extremism, CSS Analyses, in Security Policy, N. 183, 2015, 2.
19 «Unfortunately, CVE policies tend to be vague, selective, and inconsistent in defining violent extremism», XXXXXXXX, XXXXX, cit.,10.
20 ICRC, cit., 4.
lenza ma anche fare riferimento a “comportamenti” e “pensieri”21 – ha allargato (anche in maniera controversa) lo spazio d’azione della prevenzione e del contrasto; soprattutto se la prevenzione viene intesa come il tentativo di «impedire agli individui di assumere certe idee»22 e
«quando le istituzioni danno l’impressione di voler delineare una versione ‘accettabile’ dell’Islam, in linea con valori definiti ‘nazionali’ (British values) o assumono posizioni intransigenti e orientate all’aspetto securitario»23. L’attenzione posta sul ‘messaggio’ e su come controbatter- vi tende a mettere in secondo piano il ruolo di ‘movente’ che possono assumere altri aspetti come le varie disuguaglianze e anche le possibili responsabilità degli Stati nel determinare l’insorgere dell’estremismo; in altre parole “il terrorismo viene depoliticizzato”24 (il che, a ben vedere, è un controsenso). A sottolineare come questa prospettiva sia parziale è lo stesso United Nations Development Programme (UNDP), agenzia ONU fra le più coinvolte nelle politiche di PVE, che riconosce come le decisioni politiche a livello locale, nazionale e globale siano un fattore chiave nell’estremismo violento; posizione che implica «a critical shift away from the dominant idea among EU and UN discussions: that sup- port for terrorism and violent extremism was primarily the result of individual radicalisation processes»25. La stessa organizzazione rivela anche che da un sondaggio condotto in Africa, emerge come il 71% di chi aderisce a un gruppo estremista, lo fa a seguito di un evento come l’uccisione o l’arresto di un parente o amico da parte di forze dell’ordine o di sicurezza26. Poiché la politica estera dei governi è un tema importan- te nella motivazione degli estremisti, la potenziale chiusura di spazi di dialogo e dibattito aperto nell’ambito di iniziative di prevenzione portate avanti da associazioni della società civile – che devono adeguarsi alla narrativa promossa a livello governativo – può rappresentare un pro- blema, poiché da un lato può spingere le persone (e i soggetti vulnerabili) a cercare gruppi e luoghi dove poter esprimere le proprie convinzioni27; d’altro lato, c’è la possibilità che ONG e operatori che assumono
21 A. XXXXXXX, Legitimising Countering Extremism at an International Level: The Role of the United Nations Security Council, in Encountering Extremism. Theoretical Issues and Local Challenges, A. XXXXXXX, X. XXXX, X. XXXXXXX, Xxxxxxxxx, 2020, 159-179.
22 Ibidem.
23 X. XXXXXXX, Prospettive europee sulla radicalizzazione. Considerazioni da un tragitto in cinque paesi, in questa Rivista, 2019, 571 ss.
24 A. MARTINI, cit.
25 XXXXXXXX, XXXXX, cit. 32-33.
26 A. OKAI, X. XXXXXX, New approaches to preventing violent extremism, UNDP xxxxx://xxx.xxxx.xxx/xxxxxxx/xxxx/xx/xxxx/xxxx/0000/xxx-xxxxxxxxxx-xx-xxxxxxxxxx-
violent-extremism.html.
27 Conversazioni dell’autrice con practitioner(s).
posizioni critiche vengano isolati; di conseguenza, l’azione di pre- venzione non raggiunge(rebbe) i contesti ‘esposti’ e problematici28. In questo modo, si incoraggerebbe anche un’ “industria” della prevenzione costituita da ricercatori ed esperti, a discapito però di voci anche critiche e costruttive, che provengano dal terreno29.
Lo studio intitolato The globalisation of Countering Violent Extre- mism fa notare che i “working groups” tematici che compongono la piattaforma RAN sono guidati da professionisti provenienti dagli stati membri e come, di conseguenza, ciò possa favorire la tendenza a dissemi- nare non solo ‘best practices’ ma anche le possibili derive delle singole strategie di PVE e CVE30. Un’altra problematica viene messa in rilievo da Xxxxxxxxx Xx Xxxxxx, UN Special Rapporteur sulla promozione dei diritti umani nell’ambito del contrasto al terrorismo, quando sostiene che
«CVE is a concept which continues to lack firm legal grounding in international law, even as it is invoked to expansive regulatory ends. There is a pressing need for human rights and rule of law analysis to be applied to the expanding domain of CVE, and an urgency to benchmark the effects on the full enjoyment of human rights as a result of these policies and practices»31. Anche per ciò che riguarda la prevenzione, so- prattutto se gestita in un ambito di peace-building, mancherebbe una veri- fica delle ripercussioni effettive che esercitano sul territorio le strategie (con le loro “ambiguità”) studiate a livello di UN Headquarters32. Infine, a ogni latitudine, «misurare l’efficacia di un progetto di prevenzione che, per sua natura, ha come obiettivo quello di evitare che un ‘fatto’ avvenga, rimane un esercizio complesso che deve tenere conto di molte variabili - dalla psicologia del singolo alle difficoltà organizzative o finanziarie di un programma»33. Su quest’ultimo tema stanno già lavorando numerosi ricercatori.
6. Conclusioni. Se da un lato gli organismi internazionali possono svolgere un’importante funzione di assistenza nella progettazione di Piani
28 Ibidem.
29 Ibidem.
30 XXXXXXXX, XXXXX, cit., 22, «(…) this process of policy development, in which policies and practices are injected from the member state level to that of the EU level, runs the inherent risk of harmonizing the coercive and problematic elements of CVE discussed above while ignoring the questions of fundamental rights, due process and accountability that are festering in many member states”.
31 Ibidem, 2.
32 X. XXXXXXXX, The Strategic Ambiguity of the United Nations Approach to Preventing Violent Extremism, in Studies in Conflict and Terrorism, 2019.
33 X. XXXXXXX, Estremismo di matrice jihadista in Europa. Il concetto e l’importanza della prevenzione e del contrasto, Rapporto #ReaCT2021, N.2, Anno 2, 19.
nazionali di prevenzione dell’estremismo violento, dall’altro ogni Stato ha una sensibilità diversa rispetto alla questione e una consapevolezza diversa della loro utilità; oppure, per varie ragioni, gli stessi Piani non oltrepassano la fase preparatoria34.
A un anno dalla diffusione del coronavirus nel mondo, fra le riper- cussioni della pandemia si annovera ormai anche l’accelerazione impres- sa alla crescita degli estremismi: l’esperto di terrorismo Xxx Xxxxxx so- stiene che può darsi che, in futuro, gli analisti guarderanno al 2020 come a uno spartiacque per ciò che concerne il reclutamento di sostenitori da parte di attori non-statali35. Xxxxxx xx Xxxxxxxx, coordinatore anti- terrorismo dell’UE, sottolinea la necessità di non abbassare la guardia:
«money spent on CVE is money well spent, especially in a time of crisis. Health, the economy, and security influence each other. Hence, we should prevent the emergence of a vicious circle of mutually reinforcing sanitary, socio-economic, and security problems»36. Il Comitato Anti- Terrorismo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (UNCTED) ha già registrato una flessione (o uno stop) nelle operazioni e attività di vario genere nonché nei fondi destinati ad alcuni aspetti della lotta contro l’estremismo violento e sottolinea l’importanza di politiche di contrasto al terrorismo rispettose dei diritti, per evitare che i terroristi possano sfruttarne l’erosione a proprio favore37.
Abstract
Jihadist Extremism: Perspectives on the Role of
International Organisations in Prevention Programmes
Since the mid-2000s, the concepts of preventing and countering violent extremism (PVE/CVE) have gradually made their way into the global debate, language and architecture of the fight against terrorism; the process has gained further momentum when thousands of foreign fighters and would-be jihadists have gradually bought into the project and ideology of the
34 AA.VV., The Future of National Action Plans to Prevent Violent Extremism, Institute for Global Change, 2020.
xxxxx://xxxxxxxxx.xxxxxx/xxxxxx/xxxxxx-xxxxxxxx-xxxxxx-xxxxx-xxxxxxx-xxxxxxx-xxxxxxxxx
35 V. quanto espresso da A. SOUFAN, in X. XXXXXXXXXXX, X. XXXXXXX, A View from the CT Foxhole: A Virtual Roundtable on COVID-19 and Counterterrorism, in CTC Sentinel, Vol.13, Issue 6, June 2020, 4.
36 X. XXXXXXXX, A View From the CT Foxhole: Xxxxxx xx Xxxxxxxx, European Union (EU) Counter-Terrorism Coordinator, in CTC Sentinel, Vol. 13, Issue 8, June 2020.
37 UN Security Council Counter-Terrorism Committee Executive Directorate (CTED), The Impact of the COVID-19 Pandemic on Terrorism, Counter-Terrorism and Countering Violent Extremism, Update, Dec. 2020.
Islamic State, leading to a long season of terrorist attacks in the West. Today, P/CVE has turned into a proper professional sector relying on interdisciplinary collaborative networks; platforms where experts can share their experiences; mechanisms for discussions and consultation with legislators and, last but not least, substantial funding. At xxx xxxxx of an abundant array of initiatives and programmes implemented at the inter- national level and generally involving public and private institutions, civil society, the security, research and entrepreneurial communities as well as the media, there is a process of so-called ‘globalization' of the concept and policies of CVE (Countering Violent Extremism), which is being promoted by international and regional organizations (the EU and the UN in the first place). While their role and approach has led to greater coordination and a critical boost in terms of know-how, there is no shortage of problematic issues.
I PERCORSI DELLA RADICALIZZAZIONE
XXXXXXX XXXXXXXX
La sociologia dell’Islam è una disciplina nata abbastanza recente- mente, e viene applicata al complesso delle relazioni che questa religione intrattiene nel tempo e nello spazio con le diverse società nelle quali si è impiantata. Xxx Xxxxxxx, grande storico e filosofo del Maghreb vissuto nel XIV secolo, sociologo ante litteram, ebbe il merito di dimostrare come l’Islam, al pari delle altre religioni, conoscesse il mutamento nella persistenza, evidenziandone l’adattabilità. L’obiettivo era quello di com- prendere le ragioni del mutamento sociale, giacché se le società mutano, con esse cambiano anche le relazioni che vi si intessono. In questo modo, la religione acquisisce una funzione di controllo sociale, e l’Islam diventa sociologicamente rilevante nel momento in cui viene assunto come map- pa cognitiva che orienta le azioni sociali degli individui, interagendo atti- vamente o passivamente con il modo in cui pensano, funzionano, si orga- nizzano e legittimano le istituzioni in territorio musulmano. Riassumen- do: la religione è strumento di controllo sociale, la politica è potere e que- sto potere è legittimato dalla religione. È possibile indagare l’Islam da un punto di vista sociologico se si ravvisa una connessione tra il messaggio originario del Profeta e la costruzione progressiva, e storicamente inqua- drata, di un sistema di credenze e stili di vita in società strutturate. Il punto di vista di ciascun credente è portato ad immaginare che la fede a cui egli decide di legarsi, sia in grado di fornire una visione unitaria e coerente dell’intera esistenza; la realtà al contrario dimostra che unità e coerenza non trovano mai realizzazione, se non in forme socio-religiose radicali. Solitamente esse tendono a manifestarsi nel momento in cui la religione viene strumentalizzata ed idealizzata a sostegno di un’ideologia politica; per il caso islamico infatti è stato utilizzato il termine “Islami- smo”1 o “Islam politico” proprio per indicare la specifica volontà del- l’Islam Contemporaneo – che non ha nulla a che vedere con l’Islam
1 Xxxxx Xxxxxxxx, psicanalista franco-tunisino, definisce l’Islamismo come un’utopia anti- politica, per indicare una vera e propria assimilazione dell’elemento politico nella sfera religiosa, piuttosto che una mera politicizzazione dell’Islam.
xxxxx://xxx.xxxxxxxxxxx.xx/xx/xxxxxx-xxxxx-xxxxxxx-xxxxxx.
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE FASC. 1/2021 pp. 75-85 EDITORIALE SCIENTIFICA SRL – ISSN 0010-5066
tradizionalmente inteso – di creare un nuovo ordine, e che negli anni ha subito varie declinazioni: dal conservatorismo quietista al jihadismo salafita e globale. Senza soffermarsi sulle cause politiche ed ideologiche che hanno condotto a questa evoluzione, il successo mediatico riscosso dal jihad globale di organizzazioni terroristiche come al-Qaeda e lo Stato islamico, ha interessato le scienze sociali per indagare le cause e la natura della radicalizzazione islamista in Occidente. Per il sociologo iraniano Xxxxxx Xxxxxxxxxxxx quando si vuole definire il concetto di radicalizza- zione sono essenziali due elementi: azione violenta ed ideologia, alle qua- li si unisce la contestazione dell’ordine esistente. Nell’uso comune, tale termine viene considerato sinonimo di terrorismo, ma a differenza di quest’ultimo, risente di una minore ambiguità semantica, focalizzandosi principalmente sugli attori, e dunque sulle motivazioni soggettive che spingono un individuo ad aderire ad un’ideologia condivisa da una collet- tività. Indagare le cause soggiacenti la radicalizzazione vuol dire produrre una conoscenza che vada oltre il perimetro della sicurezza e l’impatto dell’azione di un gruppo, a danno del contesto sociale in cui è inserito; mentre le branche della sociologia che si occupano di terrorismo tendono a subordinare l’individuo a dinamiche di più ampio respiro (politiche, sociali ed internazionali), la sociologia che si occupa della radicalizza- zione riporta l’individuo al centro dell’attenzione, e la dimensione sog- gettiva, nonché le interazioni tra soggetti, acquistano una grande rile- vanza. Presentata in questo modo, la radicalizzazione dà una chiave di lettura immanente a quello che dagli attori coinvolti viene vissuto come trascendente2. Indubbiamente, l’islamismo radicale è un fenomeno stret- tamente legato alla disperazione delle nuove generazioni che il sociologo e filosofo xxxxxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxx chiama “doppia assenza”: sentire di non appartenere né alla società di accoglienza, né tantomeno a quella di provenienza3. Questo sentimento, unito alla ricerca di una nuova iden- tità, a sentimenti di xenofobia, razzismo, intolleranza e ghettizzazione, portano i giovani a pensare al radicalismo come all’ultima spiaggia per la salvezza collettiva. Aderendo a questo Islam ideale ed idealizzato, invece che ad impossibili cittadinanze culturali o nazionali, il radicalismo rimuo- ve il peso della doppia negazione. Fondamentalismo e radicalismo dun- que non sono esclusivo appannaggio dell’Islam: ogni religione è fonda- mentalista nella misura in cui la sua dottrina si basa su Testi fondanti
2 Cfr. R. XXXXX, Il Dibattito sulla Radicalizzazione nelle Scienze Sociali. Il Caso Francese, in S. XXXXXXX, X. XXXXX, X. X. RHAZZALI, I Musulmani nelle Società Europee. Appartenenze, interazioni, conflitti, Milano, 2017.
3 Cfr. R. XXXXX, Il Dibattito sulla Radicalizzazione nelle Scienze Sociali. Il Caso Francese, in S. XXXXXXX, X. XXXXX, X. X. RHAZZALI, cit.
(Xxxxxxx Xxxxxxxxx)4; ogni dominio dell’esistenza può diventare radi- cale quando richiede un cambiamento profondo, o la necessità di un an- coraggio. A tal proposito, lo psicanalista franco-tunisino Xxxxx Xxxxxxxx sostiene come la radicalizzazione possa avere anche un significato sinto- matico5: laddove è presente una minaccia esistenziale si produce radica- mento, che il più delle volte sfocia nell’esaltazione, un eccesso che con- duce all’autodistruzione. Il tutto risponde alla ricerca di un ancoraggio da parte del soggetto, quando tutto intorno a lui sembra essere segnato dallo sradicamento: l’offerta di radicalizzazione crea la domanda in condizioni di fragilità identitaria diffusa. Quando si realizza l’incontro tra domanda ed offerta, in questo caso l’offerta jihadista, l’angoscia del soggetto lascia il passo ad un senso di onnipotenza e forte identificazione e coesione con il suo nuovo gruppo di “pari”, o meglio di “migliori musulmani”. L’esal- tazione ha comportato una grande finzione, chiamata da Benslama “il super-musulmano”6, un individuo ossessionato dall’idea di non essere sufficientemente credente; da qui, l’autocritica, l’espiazione, l’umiliazio- ne e la re-idealizzazione attraverso un recupero violento della religione, per acquisire una nuova identità7. Ne risulta che il “super-musulmano” manifesta non solo l’orgoglio della propria fede, ma anche il proprio odio contro chi non la vive in modo analogo. Un odio violento, legittimato dalla fede, attrae anche personalità devianti, le quali si riconvertono con il desiderio di sacralizzare le pulsioni omicide. Così, la morte nel martirio non viene letta come un mezzo, bensì come il fine: lo slancio del super- musulmano passa per un furioso desiderio di sacrificio. Uno degli ele- menti che scatenano la risposta dei radicalizzati islamisti contro il mondo è l’angoscia per la perdita della comunità tanto agognata: la convinzione che l’esistenza della Umma (l’intera comunità musulmana) sia concreta- mente in pericolo, genera nel soggetto angosce di espropriazione, che possono a loro volta dare luogo ad efferate atrocità.
4 Conferenza tenuta da Xxxxxxx Xxxxxxxxx e ospitata da Universitas, 11/12/2017: Storia del Medio Oriente, differenze tra Islam e Fondamentalismo Islamico, reperibile sulla piattaforma Youtube, attraverso l’indirizzo riportato di seguito.
xxxxx://xxx.xxxxxxx.xxx/xxxxx?xxXxx-0xx000X&xx000x
5 Y. C. XXXXX, ON Radicalisation and its Treatments, intervista a Xxxxx Xxxxxxxx, in Cités, vol. 69, 2017 consultabile su xxxxx://xxx.xxxxx-xxx.xxxx/xxxxxxx-X_XXXX_000_0000--xx- radicalisation-and-its-treatments.htm#
6 Cfr. R. XXXXX, op. cit.
7 L’imperativo esistenziale del Surmusulman non è più quello di “divenire”, ma quello di tornare a una purezza originaria e illusoria; è un passaggio in cui si perde una qualità fonda- mentale: l’umiltà, in cui i jihadisti decidono di sottomersi a Dio, sottomettendo Dio a loro. E- stratto da una revisione del libro di F. BENSLAMA Un Furieux Désir De Sacrifice. Le Surmusulman, Paris, 2016, pubblicata nel 2019 in Oasis 24, consultabile su xxxxx://xxx.xxxxxxxxxxx.xx/xx/xxxxxx-xxxxx-xxxxxxx-xxxxxx.
Trattandosi di un fenomeno in cui le interazioni del soggetto, la sua psicologia e il suo vissuto occupano un ruolo centrale, la radicalizzazione non sempre segue un percorso lineare, nonostante nella maggior parte dei casi arrivi sempre ad una chiusura e alla militanza nei confronti di tutto ciò che è esterno ed estraneo. I reclutatori, che solitamente sono persone vicine al soggetto e di cui quest’ultimo si fida, sfruttano abilmente questa vulnerabilità per iniziare i nuovi adepti. Pertanto, dall’analisi dei princi- pali esponenti della sociologia dell’Islam si desume quanto la radicaliz- zazione sia foriera di un forte cambiamento identitario, tanto per l’uomo quanto per la donna, una rivoluzione degli usi e dei costumi, nonché del modo di relazionarsi al contesto circostante e di interagire con individui che non abbracciano la stessa ideologia. L’esaltazione della radicalizza- zione, e dunque la finzione del super-musulmano, comporta un senso di forte superiorità e di ostilità del radicalizzato nei confronti dell’ambiente che lo circonda; questo scatena un bisogno funzionale: la necessità di chiudersi da una società concepita come “ostile”, e al tempo stesso la necessità di aprirsi e di sentirsi accettati da una società di pari. Da un discorso del genere non sono esenti le donne: nel mondo occidentale il processo di emancipazione della donna ha portato, talvolta, ad una sovrapposizione dei ruoli con la sfera maschile, andando a determinare una “mascolinizzazione” della donna, a cui fa da contraltare una “femmi- nilizzazione dell’uomo”. In questo contesto fatto di chiaro-scuro, di contorni indefiniti e di crisi identitarie generalizzate, è forte l’aspirazione del ritorno ai legami della tradizione, contrapposti a quelli del contratto sociale: prevale un senso di nostalgia per l’ordine rassicurante della comunità, con norme costrittive, che sottraggono al caos dell’individua- lizzazione e della libertà8. In tal senso, un’abile propaganda incentrata su definiti ruoli femminili di mogli, madri ed educatrici che queste donne andranno a svolgere, hanno una facile presa su ragazze che hanno biso- gno di ricevere un riconoscimento del loro valore da parte della società, e hanno quello che si potrebbe indicare come “desiderio di essere utili”. Se a questi ruoli “istituzionalmente” attribuiti alla donna, si aggiungesse anche la possibilità di un impiego funzionante con il proprio titolo di studio e competenze acquisite in Occidente, la gamma di prospettive di autorealizzazione offerte si amplierebbe, e andrebbe a corroborare lo spirito missionario di tante ragazze, convinte di poter contribuire alla realizzazione di un Paradiso islamico in Terra, roccaforte della Umma nella guerra-santa contro un Occidente materialista e corrotto.
Vivere e morire sono le uniche cose certe nella vita, entrambe hanno
un senso: nel primo caso, esso va ricercato da ogni singolo individuo, è
8 Cfr. R. XXXXX, op. cit.
un percorso difficile e non è detto che si arrivi sempre ad un punto; nel secondo caso, il senso è già determinato e lo sforzo che richiede all’uomo è la sola accettazione. In una società, dove il senso delle cose, delle rela- zioni e della vita si perde in una corsa per arrivare non si sa dove, i valori si estinguono, si indossano delle maschere e non si è più in grado nem- meno di riconoscere sé stessi. Una ricerca spasmodica che non ha chiaro il suo obiettivo è frustrante, frenetica, finalizzata al nulla, e rende permeabili all’illusione. Per molti giovani trovare il senso della propria vita, e accettare la propria morte è difficile; loro cercano un ancoraggio, una guida, un modo semplice per definire sé stessi e realizzarsi. Il mes- saggio dell’ISIS, una delle tante bugie ben confezionate di questo secolo, si inserisce in questa frattura con una narrazione ai limiti più estremi del fiabesco: promette di dare un’identità e un senso alla vita e alla morte di ciascuno. In poco tempo dalla sua proclamazione il 29 giugno 2014, lo Stato islamico è diventato un vero e proprio brand, unico nel suo genere oltre che per la spettacolarizzazione degli attentati e delle esecuzioni dei Kuffār9, anche per la propria strategia comunicativa e il linguaggio utiliz- zato, personalizzato su ciascun target. La narrazione generale del brand è incentrata sul mito del “mondo possibile”10, e ruota attorno all’archetipo dell’eroe cercatore, il foreign fighter o mujahidin, che, attirato dalle pro- messe del Califfo (es: gloria, salvezza, empowerment, onore, liberazione e impegno religioso), parte alla volta dello Stato islamico già indottrinato, con un bagaglio di mancanze e desideri. In questa narrazione post-mo- derna, anche le donne ricoprono il ruolo di eroine: giungendo nei territori di Mosul e Raqqa, esse conquistano il titolo di muhājirāt11, ciò che le ren- de vere musulmane e consente loro di aprirsi alla vita. A differenza del
salafismo, il jihadismo di Xxxxx autorizza le donne a compiere l’hijra12
senza mahram13, sposarsi e fare figli, accudire bambini orfani, ricoprire funzioni domestiche ed extra-domestiche, fare propaganda, reclutare, per- petrare il ricordo degli shuhadāʾ14: sono tutte ortoprassi che portano vita. Un jihad svolto in ambito domestico ed extra-domestico, ma quasi mai sul campo di battaglia. L’empowerment femminile e discorsi femministi che potrebbero essere desunti dalla comunicazione dell’ISIS hanno meri
9 Kuffār=it. Miscredenti, Infedeli
10 Cfr. M. BOMBARDIERI, Le Donne Italiane dell’ISIS: Processi, Attori e Luoghi della Radicalizzazione, in S. XXXXXXX, X. XXXXX, X. X. RHAZZALI, I Musulmani nelle Società Europee. Appartenenze, interazioni, conflitti, Milano, 2017.
11 Muhājira= it. Xxxxx che emigra, che compie la hijra
12 Hijra=it. Migrazione
13 Mahram=it. Xxxxxxx, uomo e membro della famiglia che accompagna la donna nella sua hijra.
14 Sing. Shahīd= it. Testimone di fede, usato con l’accezione di martire, propria della dottrina sciita e ripresa strumentalmente dagli jihadisti sunniti.
intenti strumentali, e non di certo l’obiettivo di riconoscere la parità dei sessi15. Reclutare le donne serve allo Stato islamico per fidelizzare gli uomini16, impiegare le donne sul campo di battaglia serve a far vergogna- re gli uomini della loro codardia, e spronarli con nuovo vigore a combat- tere per la causa; inoltre, le donne sono più facili da infiltrare per lo svol- gimento di determinate attività operative. È evidente che lo Stato islami- co impieghi le donne solo quando è in difficoltà perché la loro presenza amplifica il messaggio propagandistico rendendo l’omicidio più orribile e più innaturale proprio perché commesso da una mano femminile. Già questo è sufficiente per comprendere quanto tale figura venga strumen- talizzata da una comunicazione che ha come unico obiettivo il rafforza- mento dello Stato Islamico; a questo si aggiunge il fatto che in pubbli- cazioni come Dābiq, Rūmiyah, al-Khansāʾ e il gruppo mediatico pro-IS Zora Foundation, create appositamente per “dare una voce” alle donne, spesso usino questa voce per limitare ulteriormente il comportamento delle stesse, disonorare e denunciare tutte coloro che non si conformano al conservatorismo dell’ISIS. Emblematico è un documento prodotto dal- la brigata femminile al-Khansāʾ e pubblicato su un sito internet jihadista il 23 gennaio 2015, intitolato Donne nello Stato Islamico: manifesto e studio17. Diviso in tre parti, il documento illustra quali comportamenti de- vono seguire le donne del Califfato, coerentemente con i progetti che
«Dio ha stabilito per loro». Autorizzate a studiare non oltre i 15 anni (se
nate all’interno dello Stato Islamico), viene scoraggiata qualsiasi attività extra-domestica; se, provenienti dall’estero, hanno conseguito un titolo di studio, possono venire impiegate come medici e insegnanti; in ogni caso, devono saper cucire e cucinare, vestire secondo i rigidi precetti della Sharīʾa e sostenere il marito nella sua strada verso il Jihad. È proprio nella dimensione matrimoniale che la donna dell’IS vede sublimata la sua vocazione di madre e moglie. In “età da marito” da 9 a 17 anni, la donna trova nell’obbligo del matrimonio la garanzia della sua onorabilità; nel mettere al mondo figli da immolare sull’altare del Jihad, la donna realizza sé stessa secondo i dettami che la natura, e quindi Dio, le ha imposto. In quest’ottica, le donne devono essere “protette”, in quanto risorse ripro- duttive insostituibili per il futuro del Jihad. Ma in quanto responsabili dell’allevamento e dell’educazione dei figli, le donne rivestono un ruolo ancora più importante: quello di custodi, depositarie dei più sacri valori
15 X. XXXXXX, Empowerment or Subjugation, in UN Women, 2018, consultabile su xxxxx://xxxxxxxxx.xxx/xxxxx/xxxxxxxxx.xxx/xxxxx/xxxxxxxxx/Xxxxxx-Xxx-Xxx-xxx.xxx.
16 Cfr. xxxxx://xxxxxxxxx.xxxxxxxx.xx/xxxxxx/0000/xxxxxxxxxxxx-x-xxxxxxxxxxxx-xxx-xxxx-xx- nuove-jihadiste/.
17 Cfr. xxxxx://xxxx-xxxxxx.xxx/000/xx-xxxxx-xxxxx-xxxxx-xxxxx-xxxxx-xxxxxxxx.
del Jihad, da tramandare immutabili alle generazioni future18. Questo do- cumento, originariamente prodotto solo in lingua araba (e solo successi- vamente tradotto in inglese dal think tank Quilliam Foundation), era destinato alle donne provenienti dal Nord-Africa e dal Medio Oriente, già osservanti della Sharīʾa e quindi già parzialmente indottrinate. La sua fruibilità da parte di donne occidentali veniva considerata controprodu- cente, perché i suoi espliciti richiami al rigore della legge coranica avreb- bero potuto scoraggiarle dal compiere la hijra. Nello svolgimento di questo ruolo per così dire “istituzionale”, la muhājira si distingue netta- mente dalle altre donne presenti nello Stato Islamico, a cominciare dalle “prigioniere”, catturate nel corso di campagne militari, trattate come ser- ve, o peggio, come schiave sessuali dagli uomini a cui vengono destinate; vero e proprio “bottino di guerra”, possono essere picchiate, stuprate, fru- state, lapidate e, all’occorrenza, rivendute ad altri guerrieri del Jihad. Una sorte particolarmente triste è riservata alle prigioniere yazide, perché considerate seguaci di un culto blasfemo. Un’analisi attenta del linguag- gio utilizzato nelle pubblicazioni dimostra anche come l’ISIS utilizzi la schiavitù sessuale e il soggiogamento della donna come strumento di re- clutamento. A tal proposito, nella rivista Dābiq, Umm Sumayyah al- Muhājira, autrice di un articolo dal titolo Slave Girls or Prostitutes?19 contenuto nel numero nove della rivista, difende e giustifica – ricorrendo convenientemente al Corano – la pratica della schiavitù, definendo le donne schiavizzate come Infedeli; e difende anche la poligamia dell’uo- mo, presentando esempi di musulmani illustri che vi ricorrevano, parten- do dal Profeta Xxxxxxxx. Invita inoltre tutte le mogli ad accettare questa pratica per amore di Allah.
Il contatto con queste donne reiette, se da un lato gratifica le
muhājirāt sottolineando il loro status di donne privilegiate, dall’altro contribuisce ad aprire loro gli occhi sulla drammatica realtà della vita delle donne nel Califfato: una vita che alla lunga, anche per loro, si rivela intrisa di abusi, intolleranza, fanatismo, manipolazione e senza alcuna prospettiva per il futuro. Il disincanto spesso traumatico, e la frustrazione delle illusioni nutrite prima di partire che colpisce queste donne, spesso trova sfogo in tentativi, il più delle volte falliti, di fuga, e in tentativi, il più delle volte riusciti, di suicidio. Il prezzo da pagare per chi non riesce nei tentativi suddetti, o non vuole farvi ricorso, è la desentimentalizzazio- ne, che si traduce, stando alla testimonianza di un’appartenente alla
18 Cfr. Articolo della ricercatrice Xxxxx Xxxxxx, pubblicato da xxxxxxxxxxxx.xxx nel 2019: xxxxx://xxx.xxxxxxxxxxxxx.xxx/xxx-xxxxxxxxxxx/xxxx-xxxxx-x-xxxx.
19 Cfr. U. S. AL-MUHĀJIRA, Slave Girls or Prostitutes?, in Dābiq, 2014, 44.
brigata al-Khansāʾ riuscita straordinariamente a fuggire, in una vera e propria «perdita dell’anima».
Stando ai dati forniti dall’International Centre for the Study of Radicalisation, relativi al quinquennio 2013-2018, su 41.490 individui provenienti da oltre 80 Paesi, ben 4.761 sono donne: il 13%. Altre fonti parlano addirittura di percentuali che variano dal 15 al 20%. I Paesi a più alto tasso di “vocazioni” sono Francia e Germania, incalzate da Gran Bretagna, Austria e Belgio, con l’Italia che, sia pure in misura più contenuta, ha dato il suo contributo; secondo un report dell’International Centre for Counter-Terrorism dal 2014 al 2016, 10 donne (di cui 8 con cittadinanza italiana) su 110 individui hanno lasciato il Paese20. Tra queste donne che hanno abbandonato il paese con i loro bambini per seguire i mariti foreign fighters figurano Xxxxxx Xxxxx Giulia Xxxxxx, Xxxxxxx Xxxx in Berisha, Xxxxx Xxxxx Xxxxxxxx, Meriem Rehaily21, Xxxxx Xxxxxxx e Xxxxxx Xxxx, colei che ha iniziato Xxxxx Giulia Xxxxxx. Alcune di queste donne sono di prima e di seconda generazione, hanno un’età compresa tra i 17 e 40, sono nubili o coniugate e con figli; quasi tutte hanno un livello di istruzione superiore, sono partite tutte dal nord Italia, vivevano in famiglie con situazioni economiche difficili alle spalle, al- cune di loro possiedono anche un titolo universitario, e alcune si sono convertite all’Islam dopo la proclamazione dello Stato islamico. Sulla base dell’età è possibile distinguere due macro gruppi di muhājirāt: le teenager e le giovani adulte. Le prime sono ragazzine che stanno attraver- sando la fase dell’adolescenza e sono in cerca di modelli identitari; si ap- procciano all’offerta dell’Isis come un atto di consumo anticonformista e hanno una percezione ingenua e romantica del Califfato, visto come un sistema valoriale e uno stile di vita; la maggior parte di queste ragazze vive una fase di contestazione verso la struttura patriarcale e/o la tra- dizione religiosa rappresentata e incarnata dai genitori. Rigettano la figura materna, vista come esageratamente dipendente da quella paterna e relegata all’ambiente domestico. Nel caso delle giovani adulte convertite, la figura paterna è assente dal nucleo familiare o manca di autorità rico- nosciuta; queste possono essere coniugate, con figli o nubili, in molti casi hanno un matrimonio fallito alle spalle, la conversione all’Islam radicale è una “scelta relazionale” per abbracciare il credo del marito, e il modello
20 Cfr. xxxxx://xxx.xxxxxxxxxx.xx/xx/xxxxxxxxxxxxx/xx-xxxxxxxxx-xxxxxxxx-xxxxx-xxxxx-xxxxxxxx- 21796.
21 Esperienza di Xxxxxx Xxxxxxx, dalla quale è possibile evincere alcuni elementi in comune con le altre giovani jihadiste:
xxxxx://xxx.xxxxxxxxxx.xx/xxxxxxx/0000/00/00/xxxx/xxxxxx_x_00_xxxx_xxx_xxxxxx_xxxx_xx had_e_ora_di_combattere_-119982290/.
di subordinazione e rigida separazione dei ruoli offerto dall’ISIS può essere considerato uno strumento per fare chiarezza.
Molte di queste donne, una volta ritornate in patria a seguito della loro liberazione da parte delle truppe della coalizione che combatte lo Stato islamico, si sono dichiarate “pentite” della loro scelta22. Sulla natu- ra di questo pentimento si potrebbe discutere lungamente: potrebbe essere il risultato di una presa di coscienza da parte di queste donne della cruda realtà della vita nel Califfato, occultata dalle promesse illusorie della propaganda jihadista; ma potrebbe essere, più probabilmente, l’espressio- ne dell’orgoglio ferito dalla frustrazione di una mancata auto-realizza- zione. Non bisogna escludere la possibilità che a questo pentimento ab- biano contribuito in maniera determinante le sconfitte militari e politiche dello Stato islamico, con la conseguente perdita di un punto di riferi- mento territoriale, ideologico e, in definitiva, psicologico. Come è stato giustamente osservato: «La radicalizzazione è stata voluta, il pentimento è stato dettato dalle circostanze».
Bisogna innanzitutto sgombrare il terreno da pregiudizi e stereotipi
fuorvianti. Le donne non sono «per loro natura materne, pacifiste e soste- nitrici della filosofia della non-violenza»; sono le prime ad esaltare le più feroci e sanguinarie esecuzioni “rituali” di prigionieri sgozzati e bruciati vivi a fini propagandistici, non meno degli uomini che le compiono. Sono sempre più numerose le donne che anelano al “martirio”, sacrificandosi in attentati suicidi per essere riconosciute come xxxxxx, o immolandosi sui campi di battaglia alla stregua dei loro uomini – e in questo senso fanno da contraltare, sul fronte opposto, alle milizie femminili composte da donne curde. Le motivazioni che spingono queste donne a partire per il jihad non sono diverse da quelle degli uomini e la loro motivazione non è più debole o incerta; anzi, da un punto di vista squisitamente emotivo, proprio in quanto “donne”, è anche più forte!
Le condizioni economiche precarie spiegano solo in minima parte la partenza di queste ragazze; vi sono esempi di ragazze provenienti da famiglie agiate, con un’ottima formazione scolastica e quindi con buone prospettive di realizzazione professionale nel Paese di origine.
È difficile cercare di convincere queste ragazze della falsità delle prospettive delineate dalla propaganda dello Stato islamico, perché il la- vaggio del cervello, a cui si sono volontariamente sottoposte, il più delle volte è irreversibile. Sarebbe meglio allora agire preventivamente, pro- muovendo l’integrazione di queste giovani in un tessuto sociale con una rinnovata scala di valori condivisi, evitando quegli atteggiamenti intol-
22 Cfr. xxxxx://xxx.xxxxxxxxx.xxx/xxxxx/xxxxxxx/0000/00/00/xxxxxxxxxx-xxxxxxxx-xxxxxxx- delusa-dal-califfato_PeQ0EeArFka9lNJbxwFSUP.html.
leranti che portano ad escludere, a ghettizzare queste ragazze – ma questo vale anche per gli uomini – che provocano poi, per reazione, il desiderio di rivalsa e la radicalizzazione che si traduce nella fascinazione della causa jihadista.
La propaganda dello Stato islamico attribuisce alla donna un ruolo quasi da protagonista al suo interno, anche più degli stessi uomini chiamati a combattere: è fuorviante e, come evidenziato in precedenza, finalizzato a garantire la sopravvivenza del Califfato stesso, e la sua espansione attraverso il reclutamento23.
Reclutare presuppone delle grandi capacità oratorie, manipolative e determinazione nell’intento: basta ascoltare l’intercettazione telefonica di Xxxxxx Xxxxx Giulia Xxxxxx alla sua famiglia per rendersi conto di avere a che fare con una donna forte, che esprime il suo credo con l’intento di attrarre proseliti e con un’insistenza aggressiva, propria di chi è convinto di ciò che dice, e lo vuole imporre24. Rispetto ai tradizionali luoghi in cui avviene il reclutamento, tra cui figurano soprattutto le moschee e le carceri (ma nel caso delle donne italiane nessuna ha precedenti penali), Internet ed i social network hanno acquisito un ruolo primario. Via Telegram, Viber, VKontakt, Tumblr e WhatsApp, alle donne, così come agli uomini, non viene più chiesto di partire, ma le si spinge verso un impegno nella terra del kuffār.
Al momento Meriem Rehaily25 e Xxxxx Xxxxxxx sono ancora prigio-
niere dei curdi, Xxxxx Giulia Xxxxxx potrebbe essere morta26, Xxxxxx Xxxx è rifugiata in Arabia Saudita, l’unica ad essere tornata «a casa», nel carcere di San Vittore, è Xxxxx Xxxxxxxx. La reale minaccia è nel potere della parola, e nelle leve psicologiche, che porteranno sempre delle per- sone «convinte» ad avere un appeal su quelle deboli; per questo è impor- tante monitorare coloro che fanno ritorno in patria, seppure pentite. Inco- raggiare la tolleranza sicuramente andrebbe a togliere il trigger principale
23 Cfr. X. XXXXXX E S. XXXXXXX, Radicalizing Female Empowerment: gender, agency and affective appeal in Islamic State Propaganda, 2019, reperibile online su xxxxxxxxxxx.xxx.
Cfr. xxxxx://xxxxxxxxxxxxxxx.xx/xxxxx-xxxxxxx/0000/00/xxxxxxxxxxx-xx-xxxxxxxxxxxxxxxx- jihadista-il-caso-italia/.
24 Chiamata di Xxxxx Giulia Xxxxxx alla sua famiglia caratterizzata dall’intervallarsi di discorsi in italiano e termini arabi che richiamano alla bontà e magnanimità di Allah, recitati in modo cantilenante su xxxxx://xxx.xxxxxxx.xxx/xxxxx?xxXxxX_xXx0xX&xx000x.
25 Cfr. Intervista fatta da Xxxxxx Xxxxxxxxx a Xxxxxx Xxxxxxx, giovane jihadista pentita e prigioniera delle milizie curde a Camp Roj, 2018, reperibile online ai link:
xxxxx://xx.xxxxxxxxxx.xxx/xxxxxxxxx/xxxxxxxxxx/xx-xxxx-xxxxx-xxxxxxxx/xxxxxxxxxx-xxxxxx- xxxxxxx.html; xxxxx://xxx.xxxxxxx.xxx/xxxxx?xx0xxXxxxxXXX.
26 Si tratta di un’ipotesi, riportata in più articoli con il condizionale, della sorella Xxxxxxxx, la veridicità della notizia è dunque dubbia. Tuttavia, un dato di fatto è che di Xxxxx Giulia Xxxxxx non si hanno notizie. Cfr. xxxxx://xxx.xxxxxxxxxxx.xx/xxxxxxx/xxxxxx-xxxxx- ipotesi.html.
di una possibile radicalizzazione, tuttavia l’esperienza dello Stato isla- mico è un punto di non ritorno.
Abstract
Italian Muhājirāt: Paths of Radicalization
This paper focuses on the issue of the Italian Muhājirāt, an Arabic term denoting those women who decided to leave their country for joining the experience of the Caliphate. The aim is to try to find out the lowest common denominator among their experiences, which, most of the times, matches a particular disease, either psychological or familiar, social or personal. For most of these women, the Caliphate’s experience has been the biggest lie they have ever lived: it was something completely different from what Xxxxxx xx-Xxxxxxxx promised during his famous speech in 2014.
I PROCESSI DI DE-RADICALIZZAZIONE IN KOSOVO: UN CASE STUDY DI SUCCESSO
XXXXXX XXXXXXX
1. Premessa.- Durante il califfato, dal 2011 al 2019, l’IS è riuscito ad attirare più di 40.000 combattenti stranieri, uomini, donne e bambini, provenienti da oltre 110 Paesi, di cui più di 5.000 provenienti dall’Eu- ropa. Attualmente si stima che ci siano circa 800 combattenti stranieri di origine europea che ancora combattono in Siria.
Nell’aprile 2019, le Nazioni Unite hanno pubblicato le linee guida sul rimpatrio, stabilendo che gli Stati hanno l’obbligo e la responsabilità di rimpatriare i propri connazionali. Tale obbligo giuridico, politico e an- che morale imposto agli Stati ha riscontrato forti opposizioni. Gli approc- ci dei diversi governi europei variano a seconda dello Stato. Il Regno Unito e la Danimarca hanno tolto la cittadinanza ai soggetti coinvolti; il Belgio e la Francia avevano offerto sostegno a un piccolo numero di bambini orfani, salvo poi l’intervento della Corte d’appello olandese che ha stabilito che gli Stati non fossero legalmente obbligati a prestare assi- stenza per il rimpatrio dei bambini, ribaltando la decisione di un tribunale.
Più di un anno dopo la caduta dello Stato islamico (IS) e del suo califfato, i governi di tutto il mondo si sono trovati a fronteggiare le difficoltà legate alla decisione di rimpatriare o meno i propri cittadini dalle zone di conflitto in Siria e in Iraq.
A sollevare in modo eclatante il problema della gestione degli ex combattenti era stato, nel febbraio del 2019, l’allora presidente degli Stati Uniti, Xxxxxx Xxxxx, il quale aveva fatto pressione sugli Stati dell’Unione europea, affinché rimpatriassero i loro cittadini. Tuttavia, né la pressione statunitense, né le condizioni dei campi profughi, compresi i campi di al-Hawl e al-Roj della Siria, dove molti degli europei con legami con l’IS risiedono, sono bastati a convincere gli Stati dell’Unione europea a cambiare la loro posizione sui rimpatriati, nonostante le numerose e credibili segnalazioni dei rischi di ulteriori radicalizzazioni all’interno di questi campi.
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE FASC. 1/2021 pp. 87-97 EDITORIALE SCIENTIFICA SRL – ISSN 0010-5066
2. Il fenomeno dei foreign fighters nei Balcani occidentali.- Il con- flitto armato siriano ha generato un flusso senza precedenti di foreign fighters dai Balcani occidentali verso il Medio Oriente. Alla fine del 2019, circa 1.070 cittadini partiti da Kosovo, Bosnia-Erzegovina, Mace- donia del Nord, Albania, Serbia e Montenegro si erano recati in Siria e Iraq. Sebbene motivati da ragioni diverse, la maggior parte di loro si è unita a milizie jihadiste e a organizzazioni terroristiche, come lo Stato Islamico (IS) e Jabhat al-Nusra. Due terzi di coloro che hanno viaggiato erano maschi adulti, il restante terzo dei viaggiatori, in gran parte non combattenti, era composto da minori (18%) e donne (15%). Mentre tutti i Paesi dei Balcani occidentali sono stati colpiti dal fenomeno dei foreign fighters, il Kosovo e la Bosnia-Erzegovina hanno mostrato una maggiore propensione alla mobilitazione nelle milizie jihadiste. Quasi due terzi dei foreign fighters presenti nei Balcani occidentali provengono da questi due paesi, rappresentando uno dei più alti tassi di mobilitazione in or- ganizzazioni terroristiche in Europa, rispetto alle dimensioni della popo- lazione. Le tendenze alla radicalizzazione jihadista osservate mostrano che la mobilitazione dei foreign fighters non si è diffusa uniformemente in questi Paesi, ma è stata ampiamente concentrata in particolari località geografiche con una forte presenza di reti jihadiste che operano lungo linee etniche, religiose e familiari. Numerose operazioni antiterrorismo, arresti e condanne hanno confermato il ruolo critico di queste reti regionali ben integrate e organizzate attorno a fondamentalisti religiosi locali e a varie organizzazioni salafite. Nonostante il ruolo determinante dei social media nell’accelerare il processo di radicalizzazione, le reti fisiche dei militanti ideologicamente impegnati e le dinamiche di gruppo sembrano aver svolto un ruolo più significativo nella mobilitazione dei combattenti stranieri dei Balcani occidentali. Alla fine del 2019, circa 485 cittadini dei Paesi dei Balcani occidentali erano tornati a casa o erano stati rimpatriati. Almeno altre 260 persone sono state uccise, sebbene il numero effettivo di vittime in combattimento sia probabilmente sottosti- mato. Il contingente dei Balcani occidentali rimasto in Siria e Iraq è com- posto da circa 475 individui, in larga parte bambini – tra cui molti nati in teatro – e donne. Secondo fonti ufficiali, oltre la metà delle persone ri- maste – circa 260 individui – sono cittadini della Bosnia-Erzegovina o loro figli con legittima richiesta di cittadinanza. La parte restante è dete- nuta in prigioni e campi controllati dai curdi, mentre una piccola mi- noranza sta ancora combattendo nelle file di Hay’at Tahrir al-Sham, nella regione siriana nordoccidentale di Idlib. Finora il Kosovo ha rimpatriato 110 dei suoi cittadini e la Macedonia del Nord 7 grazie alle operazioni di trasferimento rese possibili dai militari statunitensi. La Bosnia-Erzego- vina è stato l’ultimo Paese a rimpatriare 25 cittadini alla fine di dicembre
2019. Il resto dei rimpatriati è tornato da solo nel tempo. Le autorità albanesi hanno evidenziato una serie di questioni tecniche, diplomatiche e di sicurezza come ragioni che impediscono loro di rimpatriare cittadini albanesi dalla Siria. I Balcani occidentali sono attualmente la regione con la più alta concentrazione di combattenti stranieri rimpatriati in Europa. Dei 485 rimpatriati finora dalla Siria e dall’Iraq, due terzi sono maschi adulti e probabilmente sono stati coinvolti attivamente o indirettamente in attività militari e terroristiche. A confronto, i Paesi dell’Europa occi- dentale, una regione molto più popolosa, hanno accolto in totale circa 1.765 rimpatriati dalla Siria e dall’Iraq. La sproporzione tra il volume dei rimpatriati e i mezzi disponibili per affrontarli rappresenta una sfida a lungo termine per i Balcani occidentali con potenziali implicazioni per la sicurezza che trascendono la regione. Come nel caso delle partenze, la distribuzione dei rimpatriati è fortemente concentrata in particolari aree geografiche con vulnerabilità socioeconomiche, politiche croniche e reti jihadiste attive. Alla fine del 2019, il Kosovo e la Macedonia settentrio- nale rappresentavano i due terzi dei rimpatriati nella regione. Il Kosovo, ad esempio, ha registrato 134 rimpatriati per milione di cittadini. In con- fronto, il Regno Unito, la Francia e la Germania – alcuni dei Paesi con il maggior numero di mobilitazioni in Europa – hanno ricevuto da quattro a sei rimpatriati per milione. L’eventuale ritorno dei restanti 475 cittadini dei Paesi dei Balcani occidentali in Siria è destinato a mettere ulterior- mente a dura prova le risorse, le capacità e le competenze specialistiche già scarsamente disponibili nella regione. Le lievi condanne pronunciate nei Balcani occidentali per reati legati al terrorismo rappresenta inoltre un’altra preoccupazione degna di nota. In Bosnia ed Erzegovina, ad esempio, a metà del 2019 la pena detentiva media era inferiore a due anni. A confronto, la pena media per reati legati al terrorismo nell’Unione europea nel 2018 è stata di sette anni. In Kosovo circa il 40% dei condannati per reati terroristici negli ultimi anni è già stato rilasciato. Sebbene l’elevato numero di arresti e le relative azioni di contrasto in tutta la regione dimostrino un forte impegno nella lotta al terrorismo, le scarse e limitate risorse destinate hanno finora ostacolato l’attuazione di qualsiasi programma significativo di riabilitazione basato sul carcere e sul reinserimento post-incarcerazione. In sintesi, la regione si trova ad affrontare un rischio per la sicurezza relativamente nuovo e significativo. I veterani jihadisti dei Balcani occidentali, formatisi sul campo di battaglia e collegati in rete, così come le loro mogli non stanno tornando in uno “spazio neutrale” con adeguate opportunità di riabilitazione e reintegrazione. Stanno tornando, invece, in un ambiente con carenze economiche sistematiche e fragilità politiche, con una forte presenza di sostenitori jihadisti che probabilmente faciliteranno il reinserimento dei
rimpatriati nelle vecchie reti, sfruttando il loro status e le loro abilità sul campo di battaglia. Inoltre, i minori che hanno trascorso anni in territori governati da organizzazioni terroristiche e che possono aver subito traumi, indottrinamento o radicalizzazione, dovranno affrontare un lungo e complesso percorso di recupero. Ciò richiederà pazienza e buona volontà, ma anche abbondanti risorse e competenze specialistiche. In de- finitiva, è improbabile che le pene detentive a breve termine e l’assi- stenza simbolica riescano a mitigare con successo la sfida alla sicurezza a lungo termine posta dai rimpatriati. Un approccio globale richiederà di combinare le tradizionali risposte antiterrorismo con sforzi sostenibili di riabilitazione e reinserimento. L’efficace attuazione di questi sforzi dipenderà tanto dall’impegno locale quanto dall’assistenza e dal sostegno internazionali sostenuti1.
3. La risposta del Kosovo alla sfida dei foreign fighters.- Mentre la maggior parte dei paesi europei è stata riluttante a rimpatriare i propri cittadini che si sono uniti al gruppo terroristico dello Stato Islamico (IS) in Siria e in Iraq, il governo del Kosovo ha preso una strada diversa, rimpatriando dozzine di persone con l’intenzione di reintegrarle nella società. Nell’aprile del 2019, il Kosovo ha rimpatriato 110 cittadini, inclusi uomini, donne e bambini, diventando uno dei pochi Paesi che hanno rimpatriato e riabilitato i propri cittadini che avevano combattuto per lo Stato Islamico. Si stima che circa 403 kosovari si siano uniti al conflitto in Siria e in Iraq; tra questi 255 uomini e il resto donne e bambi- ni. Quasi la metà ha viaggiato prima che IS dichiarasse il suo califfato nel giugno 2014, unendosi ai vari gruppi di milizie che hanno cercato di rovesciare il regime di Xxxxx. Un’altra ondata si è successivamente unita e si ritiene che chi ha viaggiato dopo il giugno del 2014 abbia aderito direttamente all’IS. Circa 76 bambini con almeno un genitore kosovaro è nato in zone di conflitto. Il flusso di combattenti stranieri dal Kosovo era piuttosto alto date le dimensioni della popolazione complessiva (circa 1,8 milioni), mentre relativamente bassa è stata la percentuale dei suoi citta- dini musulmani. Anche se il Kosovo è uno Stato laico, si stima che circa il 95% della popolazione (poco più di 1,7 milioni) sia musulmano, con una maggioranza significativa di coloro che tendono a essere moderati nella loro osservanza religiosa o complessivamente non praticanti. Nel- l’affrontare la minaccia dei foreign fighters, il Kosovo ha optato per una combinazione tra misure punitive, misure riabilitative e di reinserimento. In qualità di membro della Coalizione Globale per sconfiggere il Daesh,
1 A. SHTUNI, Returning Western Balkans Foreign Fighters: A Long-Term Challenge, ISPI, xxxxxxxxxx.xx, 9 gennaio 2020.
il Kosovo ha notevolmente rafforzato il suo quadro giuridico, puntando sulla cooperazione internazionale in materia di prevenzione e contrasto al terrorismo. Nel 2015, il Kosovo è diventato il primo Paese dei Balcani occidentali ad adottare una legislazione completamente nuova al fine di vietare la partecipazione a conflitti armati al di fuori del territorio nazio- nale, rendendo l’adesione a conflitti stranieri punibile fino a 15 anni di carcere. Il Kosovo ha aderito alla Strategia sulla prevenzione dell’estre- mismo violento e la radicalizzazione del terrorismo (2015-2020) e successivamente alla Strategia Nazionale contro il Terrorismo e al piano d’azione 2018-2023, in linea con l’UE. Il piano 2018-2023 prevede, in particolare, una maggiore attenzione sui programmi di reinserimento e riabilitazione dei foreign fighters.
Il codice penale del Kosovo, modificato nel 2019 copre tutti gli a-
spetti del finanziamento del terrorismo e contiene nuove disposizioni re- lative ai documenti falsi utilizzati per viaggi per attività terroristiche, agevolando in questo modo l’individuazione e la cattura dei terroristi. Inoltre, in collaborazione con organizzazioni della società civile, sono stati compiuti notevoli sforzi di sensibilizzazione del pubblico per au- mentare la consapevolezza sugli effetti negativi delle forme di violenza e di estremismo nella società. Tuttavia, è importante notare che il Kosovo non è ancora uno Stato membro dell’Interpol, l’organizzazione interna- zionale per la cooperazione di polizia e il controllo della criminalità. Tale mancanza rende complicata una cooperazione internazionale più rapida ed efficace nel campo dello Stato di diritto e della sicurezza. Oltre a que- ste misure, anticipando il possibile rientro di cittadini dalle zone di conflitto, già nel 2017, il governo del Kosovo aveva iniziato a mettere in atto un piano per affrontare le numerose sfide legate al rimpatrio. Era sta- ta istituita una divisione per la prevenzione e il reinserimento, all’interno del Ministero degli affari interni, insieme a un sistema per garantire cure mediche e psichiatriche, alloggi, istruzione e altri servizi sociali con l’o- biettivo di reintegrare efficacemente i rimpatriati. Il Kosovo ha quindi predisposto una serie di agenzie governative che si occupassero dei rim- patriati e delle loro famiglie, essendo un Paese con una società storica- mente incentrata sulla famiglia. Al loro ritorno dal campo profughi di al- Hawl, nel nord-est della Siria, avvenuto con un jet dell’esercito america- no il 20 aprile 2019, quattro combattenti stranieri sono stati immediata- mente arrestati, mentre il resto del gruppo è stato trasferito in un centro di detenzione a Vranidoll, a 10 chilometri dalla capitale del Kosovo, Prishti- na. Nelle prime 72 ore dal loro arrivo, i rimpatriati sono stati sottoposti a controlli medici, inclusa una valutazione psicologica della loro salute mentale, alle verifiche della polizia circa il loro status di cittadinanza ed altre procedure di valutazione delle loro esigenze. La maggior parte delle
donne e dei bambini mostravano sintomi del disturbo post-traumatico da stress (PTSD) e molti, compresi sei bambini feriti e diverse donne con gravi problemi di salute, avevano bisogno di cure mediche. Anche se le donne rimpatriate non sono state immediatamente interrogate al loro arrivo, forse a causa di probabili preconcetti sul loro coinvolgimento nel conflitto, non sono state esonerate dalle accuse. Circa 20 delle donne rimpatriate è stata incriminata, di cui 18 sono state accusate di “organiz- zare e partecipare a un gruppo terroristico”, e altre 2 due sono state ac- cusate di “unirsi o partecipare a forze armate straniere o formazioni di polizia, paramilitari esterne, in gruppo o individualmente, fuori dal ter- ritorio della Repubblica di Kosovo”, rischiando da 3 a 15 anni di carcere. Sedici delle imputate donne si sono dichiarate colpevoli. Vale la pena sottolineare, tuttavia, che tutte le donne rimpatriate che si sono dichiarate colpevoli finora, hanno ricevuto condanne provvisorie, anziché detentive. La risposta del Kosovo al comportamento di queste donne e, più in gene- rale, la reale percezione della minaccia che le donne possono rappresen- tare è probabilmente influenzata da pregiudizi sociali radicati che sotto- valutano l’agire delle donne e sopravvalutano il loro innato atteggiamento non violento. In alcuni casi, le donne subivano pressioni ad unirsi ai loro mariti, ma non è stato sempre così. Sebbene i tribunali kosovari stiano accusando un numero crescente di donne, oltre agli uomini, per reati legati al terrorismo (tra settembre 2019 e febbraio 2020, 24 donne e 11 uomini sono stati incriminati per atti di terrorismo), le loro pene riman- gono più leggere che per le loro controparti maschili. Nonostante molte delle donne rimpatriate sostengano di non aver svolto un ruolo attivo nel Califfato è un grave errore di valutazione stabilire il livello di colpevo- lezza e il rischio che può derivare semplicemente in base al genere. Il nu- mero totale di rimpatriati in Kosovo, attraverso canali formali e informa- li, si ritiene che sia 242, di cui 124 sono uomini, 38 donne e 80 bambini. La stragrande maggioranza dei maschi rimpatriati sono stati perseguitati e quelli che sono stati condannati hanno scontato in media 3,5 anni di carcere. Pene più pesanti sono state previste (fino a 10 anni di detenzio- ne) per i reclutatori o coloro che hanno complottato attacchi terroristici, anche se non si sono mai recati in zone di conflitto all’estero. I bambini rimpatriati vengono considerati vittime. La maggioranza ha meno di sei anni e porta con sé sicuramente una serie di sfide ma anche maggiori possibilità di successo di reintegrazione. Sono stati inseriti nelle scuole, ma il risultato a lungo termine del loro reinserimento dipenderà in gran parte da come il processo sarà poi gestito e sostenuto. Sarà necessario predisporre azioni ad personam per affrontare il trauma, determinare la nazionalità e stabilirne la custodia, nonché affrontare il potenziale rischio di alienazione sociale. Per tutte le categorie di soggetti rimpatriati, sia
immediatamente al loro ritorno o dopo il loro rilascio dal carcere, il so- stegno dei familiari si è dimostrato e si dimostra fondamentale per fa- cilitare il reinserimento. Nella maggior parte dei casi, le famiglie hanno accolto con favore il loro ritorno e questo ha agevolato l’azione del go- verno. In altri stati europei, il processo di reinserimento non è stato così naturale. Questo potrebbe essere almeno in parte dovuto al fatto che in altri Stati europei, molti dei cittadini che sono partiti per combattere in Siria e in Iraq erano immigrati, spesso con doppia cittadinanza dello Stato dell’Unione Europea e di un altro Paese, e quindi non sono visti come cittadini “veri” degni di rimpatrio e reintegrazione. Nel caso del Kosovo, invece, sono visti semplicemente come kosovari. Le prospettive di reinte- grazione dei rimpatriati variano a seconda della natura di coinvolgimento nel conflitto. La carenza di prove e una conoscenza vera dei ruoli e delle esperienze vissute da questi cittadini all’interno delle zone di conflitto non consentono una risposta completamente adeguata da parte delle istituzioni. L’anno scorso il governo ha creato la Divisione per la preven- zione e il reinserimento, un’agenzia inter-amministrativa preposta a so- stenere le donne e i bambini rimpatriati. Attraverso un programma di reinserimento, le donne e i bambini ricevono un’istruzione speciale e vengono forniti buoni per cibo e vestiti. Coloro che sono in carcere ven- gono messi sotto programmi di de-radicalizzazione. All’interno del siste- ma carcerario, sia per gli uomini sia per le donne sono previsti program- mi di riabilitazione che, tuttavia, non sono specificamente mirati ai con- dannati per reati connessi al terrorismo e si limitano a toccare alcuni a- spetti, come la formazione accademica o professionale, la formazione delle abilità cognitive, con un’attenzione particolare alla de-radicalizza- zione ideologica. Inoltre, per i detenuti uomini, mancano programmi post-rilascio strutturati volti a sostenere e facilitare il loro reinserimento nella società. Nonostante il processo di rimpatrio, il Kosovo ha una serie di carenze, tra cui la necessità di migliorare il coordinamento tra le istitu- zioni, un maggiore coinvolgimento della società civile, un miglioramento della strategia di riabilitazione e la necessità di migliorare e finanziare la divisione per il reinserimento. C’è, inoltre, una necessità di monitorare i rimpatriati per garantire che non rappresentino una continua minaccia alla sicurezza e che siano in grado di reintegrarsi con successo nelle loro comunità.
4. La storia di Xxxxxxx.- Xxxxxxx è una delle donne dell’IS che, il 20 aprile del 2019, è stata rimpatriata insieme ai suoi quattro figli dal campo di xx-Xxx controllato dai curdi nel nord-est della Siria. Xxxxxxx non voleva che il suo vero nome fosse usato, per proteggere la sua identità e quella dei suoi bambini. Ha dichiarato a Voice of America
(VOA) che il governo l’aveva messa agli arresti domiciliari mentre il suo processo era ancora in corso. A novembre un tribunale l’ha ufficialmente accusata di appartenenza ad un’organizzazione terroristica ma deve an- cora incriminarla. “Non pensavamo che saremmo mai tornati. Per noi era tutto finito e abbiamo pensato che saremmo rimasti lì per tutta la vita”, ha dichiarato Xxxxxxx, parlando delle sue condizioni di vita nel sovraffollato campo di al-Hol. Ha detto che quando i funzionari di Xxxxxxxx hanno deciso di farli tornare a casa, si sono sentiti come se fossero rinati.
In base alle politiche di reintegrazione del Kosovo, Xxxxxxx può uscire, con limitazioni e sotto rigoroso monitoraggio. I suoi figli sono già tornati a scuola nella speranza di iniziare una nuova vita. A 25 anni, Xxxxxxx aveva appena finito il liceo e stava progettando di andare al college quando suo marito ha organizzato il loro trasferimento fuori dal Paese a metà del 2014. Xxxxxxx ha detto a VOA di non essere stata a conoscenza del fatto che suo marito avesse in mente di raggiungere la Siria quando la coppia e i loro figli sono partiti con biglietti di sola andata dall’aeroporto Xxxx Xxxxxxx International, nell’agosto del 2014. “Inizialmente eravamo diretti verso la Turchia, dove xxxxx accettato di andare, ma dopo il nostro arrivo in Turchia, ha deciso che saremmo andati in Siria”. All’inizio della loro permanenza in Siria, quando l’IS aveva ancora il controllo di vaste aree e aveva le risorse per pagare gli stipendi ai suoi combattenti, la famiglia godeva di una “vita agiata”. Ma le cose sono cambiate 2 anni e mezzo dopo, quando suo marito è stato ucciso sul campo di battaglia mentre l’IS ha iniziato a perdere terreno rispetto alle forze curde sostenute dagli Stati Uniti. “A volte rimanevamo senza casa e a volte due o tre famiglie vivevano in una casa, ciascuno in una stanza”. “La nostra rendita diminuiva di giorno in giorno. Gli ultimi mesi sono stati i peggiori. È stato terribile”. Le forze democratiche siriane sostenute dagli Stati Uniti hanno dichiarato la sconfitta dell’IS nel marzo 2019. Le forze detengono ancora circa 2.000 presunti combattenti stranieri e quasi 14.000 donne straniere e bambini nei campi. I funzionari del Kosovo in passato hanno affermato di considerare donne e bambini “vittime innocenti”, attirate dai loro mariti nelle zone del conflitto. Il primo ministro Xxxxxx Xxxxxxxxx, a maggio, ha affermato che il suo governo si stava assumendo la piena responsabilità per i suoi cittadini, sebbene “chiunque fosse rientrato sarebbe stato soggetto alla legge”. Il governo kosovaro, una volta rimpatriati, ha permesso a tutti i bambini di andare a casa mentre le donne venivano messe agli arresti domiciliari durante i processi. Secondo Xxxxxx Xxxxxx, analista ed esperto di sicurezza del Kosovo, il governo kosovaro ha optato per il rimpatrio dei suoi cittadini dalla Siria alla luce della sua relativamente piccola e omogenea popolazione. Xxxxxx ha dichiarato a VOA: “Sono solo cittadini
kosovari, molto ben integrati, perché sono nati qui, così come i loro genitori. Il Kosovo è una società molto piccola e quindi il governo ha una collaborazione molto stretta con le loro famiglie, i loro vicini e la loro comunità”. Riguardo ai cittadini degli altri Paesi dell’Unione Europea, Xxxxxx ha affermato che “I combattenti stranieri dei paesi dell’UE sono di solito cittadini di quel paese, ma la loro origine, nella maggior parte dei casi, è di altri paesi. Nel caso del Kosovo, sono solo albanesi kosovari che non hanno la doppia cittadinanza”. Sulla base di documenti governativi, Xxxxxx ha scoperto che almeno cinque rimpatriati sono stati coinvolti nella pianificazione di attacchi domestici. Se da un lato lo sforzo di integrazione del governo è stato ampiamente efficace, dall’altro “un piccolo numero di rimpatriati rimane molto radicalizzato e sono disposti e determinati ad attaccare a casa propria”. Xxxx XxXxxxxx, direttore regionale per l’Europa presso l’International Republican Institute, ha detto a VOA che i funzionari kosovari devono affrontare le cause che hanno portato molti dei loro connazionali alla radicalizzazione. Mentre alcuni cittadini si sono uniti all’IS per motivi ideologici, molti altri se ne sono andati dal Kosovo a causa di un profondo sentimento di ingiustizia e per la mancanza di opportunità economiche. Ci sono una miriade di cause che spingono i giovani kosovari a radicalizzarsi e ad aderire a organizzazioni terroristiche, tra cui il trauma di crescere in un paese devastato dalla guerra, la diffusione dell’ideologia estremista e altri fattori. Il Kosovo ha un tasso di disoccupazione molto alto, ben oltre il 29%, secondo i dati dell’Agenzia di statistica del Kosovo (KAS). Le statistiche KAS del primo trimestre del 2019 suggeriscono che la disoccupazione tra i giovani adulti di età compresa tra i 15 e i 24 anni era del 50,6%2. XxXxxxxx ha affermato che “È estremamente importante, quando guardiamo al processo di de- radicalizzazione, guardare anche al rafforzamento delle istituzioni governative del Kosovo, nonché alla capacità rispondere ai loro cittadini e ascoltare le loro lamentele. Una
delle fonti della radicalizzazione è la sensazione che le istituzioni e la
società nel suo insieme non rispondono ai bisogni dell’individuo”3.
5. Cosa possono imparare i paesi dell’UE dall’esperienza del Kosovo.- Alcuni esperti affermano che l’approccio del Kosovo, supporta- to da un piano d’azione nazionale che include misure precise per la de- tenzione e la riabilitazione, rappresenti un esempio unico di successo per
2 X. XXXXXXX, Kosovo Grapples with the Problem of Returning Foreign Fighters, The Investigative Journal, 29 maggio 2020, reperibile online.
3 E. XXXXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXX, Why is Kosovo Taking HomeIslamic State Members?, Voice of America, 15 gennaio 2020, reperibile online.
il trattamento degli ex combattenti stranieri IS. “Il Kosovo è un piccolo paese con una struttura sociale ben consolidata”, ha affermato Xxxxx X. Xxxxxxxx, direttore del Programma per la costruzione della pace e i diritti presso la Columbia University Institute. “Esiste un sistema in atto per la gestione del loro ritorno. Ecco perché il governo del Kosovo è più predisposto ad accettare i rimpatri rispetto a paesi più grandi in Europa in cui i rimpatriati potrebbero semplicemente essere assorbiti dalla popolazione locale, commettere crimini nei loro paesi d’origine o andare in altri campi di battaglia”. Nonostante le differenze contestuali, nel rimpatrio dei foreign fighters, il Kosovo deve affrontare simili sfide e dilemmi al pari dei Paesi dell’UE. Molti Stati membri dell’UE non hanno accettato di rimpatriare i combattenti stranieri per una serie di motivi, legati alla sicurezza e alla reale capacità di perseguirli e ad altre probabili ripercussioni di tipo politico. Si stima che 800 individui di origine europea siano attualmente ancora in Siria e il loro mancato rimpatrio potrebbe avere conseguenze di vasta portata. La questione se i Paesi abbiano o meno l’obbligo di rimpatriare i propri cittadini rimane in sospeso, nonostante la situazione dei campi di detenzione in Xxxxx xxxxx i diritti sanciti dalla Convenzione europea sui diritti umani e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, compreso il diritto alla vita e il diritto di essere liberi dalla tortura e trattamenti disumani. La decisione di non rimpatriare diventa ancora più discutibile in merito ai bambini, sia quelli portati dai genitori in Siria e Iraq sia per quelli nati in quei territori che sono particolarmente a rischio di essere apolidi. Ulteriori problemi sorgono quando si considera che l’azione penale nell’ambito del processo giudiziario rischia di provocare la morte, come nel caso di quattro cittadini francesi in Iraq. Al di là delle questioni di legalità, ci sono gravi questioni politiche e morali che pesano sui governi dell’UE, che ne trarrebbero vantaggio a seguire l’esempio del Kosovo. Il Kosovo non ha registrato una resistenza della popolazione all’idea di riaccogliere i suoi 110 foreign fighters così come molti altri Paesi, sebbene la notizia del loro arrivo sia stata diffusa solo dopo il loro arrivo a Pristina. Ci sono poi le tensioni tra le comunità svantaggiate che trarrebbero grandi benefici da un aumento del sostegno finanziario, educativo o sociale e chi non riceve la stessa assistenza. Garantire le medesime opportunità e risorse a tutti i cittadini, anche a chi è considerato un potenziale estremista è un’impresa impegnativa che richiede costante attenzione e adattamento, ma finora sembra essere sotto controllo. La minaccia alla sicurezza rappresentata dai rimpatriati è indubbiamente una considerazione primaria nella decisione dei Paesi dell’UE di non rimpatriare i loro cittadini. In Kosovo cinque rimpatriati (tutti ritornati prima dello sforzo coordinato di rimpatrio dell’aprile 2019) sono stati successivamente accusati di
pianificare attacchi interni. I servizi di intelligence sono stati, però, in grado di contrastare questi e altri piani in Kosovo sino ad oggi. È pre- vedibile che certi episodi possano ripetersi, ma, dato che questi individui saranno già noti alle agenzie di sicurezza governative, potrebbe essere è più facile fermarli. Inoltre, è probabile che la minaccia venga da coloro che intendono rimanere in Siria. Come è già successo per il campo di al- Hawl, sta avvenendo un’ulteriore radicalizzazione. Questi individui rap- presenteranno una grande minaccia in futuro non solo nel Medio Oriente, ma anche in Europa e nel resto del mondo. In particolare, l’enorme numero di bambini che sono stati portati o sono nati in Siria e in Iraq, potrebbero essere soggetti a indottrinamento, come già è avvenuto con l’IS, anche da parte di altri gruppi terroristici. Senza un adeguato con- trollo, gli Stati dell’UE potrebbero essere colti di sorpresa, pertanto oc- corre monitorare la situazione per capire come la minaccia si evolverà in futuro. Indubbiamente, il rischio rappresentato dal rimpatrio non sarà mai pari a zero. Ma, come si è visto nel caso non solo del Kosovo, ma anche di altri Stati come Kazakistan, Uzbekistan, Russia e altri, a lungo andare, il rimpatrio resta l’approccio più adatto per affrontare la minaccia del combattente straniero, sostenendo i diritti umani e prevenendo il sorgere di nuove gravi minacce. In conclusione, come ci dimostra il caso del Kosovo, esiste il potenziale per gestire il rimpatrio attraverso l’adozione di una strategia a lungo termine, un approccio che includa il coinvol- gimento con i membri della famiglia, le comunità e le persone. Al fine di adottare un più efficace approccio, i governi dovrebbero condividere i da- ti e le migliori pratiche, man mano che apprendono di più su cosa funzio- na e cosa no in termini di rimpatrio, riabilitazione e reintegrazione4.
Abstract
Kosovo’s De-Radicalization Process: A Successful Case Study
The small Western Balkan nation of Kosovo repatriated 110 citizens, including men, women, and children, in April 2019, making it one of a very small number of countries that have actively repatriated citizens involved with the Islamic State.
The paper includes what lessons can be learned by EU countries in handling the complex issue of how to manage the return of foreign fighters and their families.
4 T. AVDIMETAJ e X. XXXXXXX, What EU Member States can learn from Kosovo’s experience in repatriating former foreign fighters and their families, International Centre for Counter – Terrorism, 20 maggio 2020.
98 LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE
LE TRAIETTORIE DEL JIHADISMO IN XXXXX
XXXXXX XXXXXXX
1. Introduzione: le metamorfosi del jihadismo e il caso siriano.- Il jihadismo non è un fenomeno monolitico, né tantomeno costante nel tempo. Al contrario, si è sempre caratterizzato per continui processi di metamorfosi e adattamento al contesto circostante, spesso accompagnati da dibattiti interni di natura ideologica e strategica sulle scelte da perseguire1. Le traiettorie degli attori jihadisti non sono generalmente lineari, bensì il risultato di intrecci e interazioni multiple – sia con altri attori, sia con l’ambiente circostante – e del modo in cui essi interpretano le sfide che ne derivano. Il caso siriano risulta particolarmente importante per individuare le dinamiche di mutamento nella comunità jihadista contemporanea. Infatti, come osservato da Xxxx Xxxxxxx, il conflitto siriano è stato un evento trasformativo per l’evoluzione della galassia jihadista, con conseguenze di ampia portata, destinate a giocare un ruolo nel lungo periodo – similmente a quanto accaduto in precedenza con i conflitti in Afghanistan (durante gli anni Ottanta) e in Iraq (negli anni Duemila)2. In questa sede, risulta di particolare interesse esaminarne le ripercussioni in termini di differenziazione interna al milieu jihadista, sia sul piano ideologico, sia su quello strategico. In altre parole, è importante identificare le traiettorie abbracciate dai diversi attori jihadisti. Nel contesto del conflitto siriano, sembrano essersi delineate e consolidate tre diverse traiettorie, a cui corrispondono tre idealtipi o modelli di jihadi- smo. Al “tradizionale” paradigma di al-Qa‘ida (che, nondimeno, ha speri- mentato un’evoluzione nel corso degli ultimi vent’anni) si è affiancato in un primo momento il modello del sedicente Stato Islamico (IS) e, succes- sivamente, un terzo “polo”, quello di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), che
1 Sui dibattiti all’interno della comunità jihadista, cf. T. R. HAMMING, Polemical and Fratricidal Jihadists: A Historical Examination of Debates, Contestation and Infighting Within the Sunni Jihadi Movement, International Centre for the Study of Radicalization (ICSR), 2019.
2 T. R. XXXXXXX, Global Jihadism after the Syria War, in Perspectives on Terrorism, vol.
13, no. 3, giugno 2019.
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