DISPENSA di DIRITTO civile
DISPENSA di DIRITTO civile
Procedura di formazione del contratto; responsabilità precontrattuale;
tutela del consumatore
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A cura di Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxx
Procedura di formazione del contratto. Responsabilità precontrattuale. Tutela del consumatore.
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Indice
Procedura di formazione del contratto
1. Il contratto preliminare
1.1 Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 18 maggio 2006, n. 11624: tesi del contratto preliminare quale doppio contratto. Il preliminare di cosa altrui.
1.2 Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 27 marzo 2008, n. 7930: la natura giuridica del preliminare ad effetti anticipati
1.3 Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 6 marzo 2015, n. 4628: il preliminare di preliminare
1.4 Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 1 ottobre 2009, n. 21045: rapporti tra il privilegio speciale immobiliare ( art. 2775 bis c.c.) e l’ipoteca.
1.5 Il preliminare di vendita di immobile abusivo
Cassazione, sentenza del 17 ottobre 2013, n. 23591: nullità del contratto preliminare di vendita di immobile irregolare dal punto di vista urbanistico ex art. 40. Comma 2, l.n. 47/1985
Cassazione, sentenza del 19 dicembre 2013, n. 28456: inapplicabilità dell’art. 40, l.n. 47/1985, ai contratti ad efficacia obbligatoria
Allegato 1
Responsabilità precontrattuale
Cass. sez. II, sentenza del 10 gennaio 2013, n. 477: la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione
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Cassazione, sez.I, sentenza del 20 dicembre 2011, n. 27648: tesi della responsabilità da contatto sociale
Allegato 2
Tutela del consumatore
1. Ambito di applicazione
Corte Costituzionale, sentenza del 22 novembre 2002, n. 469: nozione di consumatore, piccole imprese e imprese artigiane
2. Clausole abusive
Corte di Giustizia, sentenza del 30 aprile 2014, C- 26/13: clausole abusive e poteri del giudice
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Selezione giurisprudenziale
Procedura di formazione del contratto
0.Xx contratto preliminare
1.1 Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 18 maggio 2006, n. 11624: tesi del
contratto preliminare quale doppio contratto. Il preliminare di cosa altrui.
Motivi della decisione
(omissis)
Con il motivo addotto a sostegno del ricorso principale W. L. e T. V. lamentano che la Corte di appello «ha applicato il disposto dell’articolo 1478 Cc anziché quanto previsto dall’articolo 1479 Cc», pur se «al momento della sottoscrizione del contratto preliminare di compravendita la Sig.ra P. M. non aveva messo a conoscenza i promittenti acquirenti che l’immobile fosse di proprietà di altri» e in tali casi «è possibile per il compratore chiedere la risoluzione del contratto salvo che il venditore non abbia, nel frattempo, acquistato la proprietà della cosa», mentre «nella fattispecie ciò era tanto più importante perché esistevano, come è stato riconosciuto da tutti i tenti, problemi di esercizio del diritto di prelazione da parte di terzi, con la conseguenza che i ricorrenti non avrebbero più avuto la garanzia da parte del loro originale contraddittore e promittente venditore». Secondo i ricorrenti principali, pertanto, M. P. avrebbe dovuto acquistare lei stessa l’immobile in questione e poi trasferirlo a loro, sicché legittimamente avevano rifiutato di farselo alienare direttamente dagli effettivi proprietari, per il tramite della stessa P. in veste di loro procuratrice.
In ordine alle modalità di adempimento dell’obbligazione assunta dal promittente venditore di una cosa altrui, nella giurisprudenza di legittimità è insorto un contrasto, per la cui composizione la causa è stata assegnata alle Sezioni unite.
In prevalenza, questa Corte si è orientata nel senso che la prestazione può essere eseguita, indifferentemente, acquistando il bene e ritrasmettendolo al promissario, oppure facendoglielo alienare direttamente dal reale proprietario, in quanto l’articolo 1478 Cc ‑ relativo al contratto definitivo di vendita di cosa altrui, ma applicabile
per analogia anche al preliminare dispone che il venditore «è obbligato a procurarne l’acquisto al compratore», il
che può ben avvenire anche facendo al che il terzo, al quale il bene appartiene, lo ceda egli stesso al promissario (v., tra le più recenti, Cassazione, 13330/00, 2656/01, 15035/01, 21179/04, 24782/05).
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Talvolta si è però deciso che l’obbligazione in questione deve invece essere adempiuta acquistando il bene e ritrasferendolo, in particolare nel caso in cui l’altra parte non fosse stata consapevole dell’altruità, poiché l’articolo
1479 Cc – anch’esso dettato per la ‑ vendita definitiva, ma estensibile a quella preliminare ‑ abilita il compratore
a «chiedere la risoluzione del contratto, se, quando l’ha concluso, ignorava che la cosa non era di proprietà del venditore, e se frattanto il venditore non gliene ha fatto acquistare la proprietà» (v. Cassazione 7054/90, 2091/99, relative, rispettivamente, a un contratto definitivo e a uno preliminare di vendita di cosa altrui).
Ritiene il collegio che debba essere seguito l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario.
Stante la latitudine delle citate previsioni normative, non vi è ragione per escludere che la prestazione possa essere eseguita “procurando” il trasferimento del bene direttamente dall’effettivo proprietario, senza necessità di un doppio trapasso; il comma 2 dell’articolo 1478 menziona bensì l’acquisto che eventualmente compia l’alienante, nel caso di vendita (definitiva) di cosa altrui, ma come una particolare modalità di adempimento, alla quale eccezionalmente riconnette l’effetto di far diventare senz’altro proprietario il compratore.
Né una diversa soluzione può essere adottata per il caso in cui il promissario avesse ignorato, al momento della conclusione del preliminare, la non appartenenza del bene al promittente. Il disposto dell’articolo 1479 Cc, che consente al compratore in “buona fede” di chiedere la risoluzione del contratto, è coerente con la natura ‑ di
vendita definitiva ‑ del negozio cui si riferisce, destinato, nell’intenzione delle parti, a esplicare quell’immediato
effetto traslatIvo che è stabilito dall’articolo 1376 Cc, ma è impedito dall’altruità della cosa: altruità che invece non incide sul sinallagma instaurato con il contratto preliminare, il quale ha comunque efficacia soltanto obbligatoria, essendo quella reale differita alla stipulazione del definitivo, sicché nessun nocumento, fino alla scadenza del relativo termine, ne deriva per il promissario. Dall’articolo 1479 Cc, pertanto, non può desumersi
che egli sia abilitato ad agire per la risoluzione ‑ e quindi ad opporre l’exceptio inadimpleti contractuo se l’altra
parte, nel momento in cui vi è tenuta, é comunque in grado di fargli ottenere l’acquisto, direttamente dal proprietario.
D’altra parte, il ritenere esatta tale modalità di adempimento è in sintonia con l’essenza e la funzione del contratto preliminare di vendita, quali sono state individuate nelle più recenti elaborazioni dottrinali, che hanno superato la concezione tradizionale dell’istituto e che qualche riflesso hanno avuto anche in giurisprudenza.
Il contratto preliminare non è più visto come un semplice pactum de contrahendo, ma come un negozio destinato già a realizzare un assetto di interessi prodromico a quello che sarà compiutamente attuato con il definitivo, sicché il suo oggetto è non solo e non tanto un facere, consistente nel manifestare successivamente una volontà rigidamente predeterminata quanto alle parti e al contenuto, ma anche e soprattutto un sia pure futuro dare: la trasmissione della proprietà, che costituisce il risultato pratico avuto di mira dai contraenti. Se il bene già appartiene al promittente, i due aspetti coincidono, pur senza confondersi, ma nel caso dell’altruità rimangono distinti, appunto perché lo scopo può essere raggiunto anche mediante il
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trasferimento diretto della cosa dal terzo al promissario, il quale ottiene comunque ciò che gli era dovuto, indipendentemente dall’essere stato ‑ o non ‑ a conoscenza della non appartenenza della cosa a chi si era obbligato ad alienargliela.
Né vale obiettare che l’identità del venditore, come i ricorrenti principali deducono, non è indifferente per il compratore, il quale può risultare meno tutelato, relativamente all’evizione e ai vizi. in proposito, in consonanza con le menzionate opinioni dottrinali, la giurisprudenza si é orientata nel senso che la conclusione del definitivo, per tali profili, non assorbe né esaurisce gli effetti del preliminare, il quale continua a regolare i rapporti tra le parti, sicché il promittente alienante resta responsabile per le garanzie di cui si tratta (v., da ultimo, Cassazione, 15035/01).
Si deve quindi affermare che il promittente venditore di una cosa che non gli appartiene, anche nel caso di buona fede dell’altra parte, può adempiere la propria obbligazione procurando l’acquisto del promissario direttamente dall’effettivo proprietario.
Alla stregua di questo principio, il ricorso principale va rigettato, dovendoci riconoscere che la «Corte di appello correttamente ha ritenuto superfluo accertare se W L. e T V. fossero stati inizialmente ignari dell’altruità dell’immobile in questione, essendo anche in tale ipotesi ingiustificato il loro rifiuto di addivenire alla conclusione del contratto definitivo, dato che M. P. si era munita di una procura rilasciatale, dagli effettivi proprietari del bene, che la abilitava a effettuarne la vendita in nome loro.
(omissis)
1.2 Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 27 marzo 2008, n. 7930: la natura
giuridica del preliminare ad effetti anticipati
Motivi della decisione
(omissis)
2. - RICORSO INCIDENTALE. L' O. - denunziando con il primo motivo del ricorso n. 10431/03 la violazione dell'art. 1158 c.c. e art. 116 c.p.c., xxxxxx omessa o insufficiente e contraddittoria motivazione - oltre a dolersi dell'inadeguatezza delle argomentazioni svolte dalla corte territoriale, laddove ha escluso l'interversione della sua detenzione sull'immobile de quo in un possesso utile all'usucapione, contesta, anzi tutto, la stessa qualificazione come detenzione, anzichè come possesso, data da quel giudice alla materiale disponibilità del bene quale da lui
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conseguita in esecuzione di specifica clausola del contratto preliminare; assume, al riguardo, che, tale pattuizione avendo avuto la funzione di anticipare gli effetti del trasferimento del diritto di proprietà, oggetto del contratto cui era intesa la volontà delle parti, e, quindi, anche l'effetto dell'immissione nel possesso e non nella detenzione dell'immobile, non fosse conseguentemente necessario alcun atto d'interversione perchè ne avesse luogo l'usucapione con il decorso del termine ventennale di prescrizione acquisitiva dall'immissione nel godimento dello stesso.
In tal senso svolgendo le proprie tesi, l' O. contrappone alla soluzione adottata dal giudice a quo - che, come ricordato nell'ordinanza di rimessione, si è conformato alla giurisprudenza di legittimità prevalente - la difforme soluzione adottata da un indirizzo giurisprudenziale minoritario e, tuttavia, a tratti riemergente in alcune pronunzie, anche relativamente recenti, di questa Corte.
La motivazione della maggior parte delle quali si traduce in affermazioni apodittiche, riproduttive di massime tralaticie, mentre, nelle poche obiettivamente argomentate, l'iter logico dell'adottata soluzione prende le mosse dalla considerazione per cui il possesso non è escluso dalla conoscenza del diritto altrui, nè è subordinato all'esistenza della correlativa situazione giuridica,dacchè esso è ricollegato, sia sotto il profilo materiale (corpus) sia sotto quello psicologico (animus), ad una situazione di fatto, che si concretizza nell'esercizio di un potere oggettivo sulla cosa manifestantesi in un'attività corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà o di altro diritto reale e distinguentesi dalla detenzione solo per l'atteggiamento psicologico del soggetto che lo esercita, caratterizzato, nel possesso, dal cd. animus rem sibi habendi (ossia, l'intenzione o il volere di esercitare la signoria che è propria del proprietario o del titolare del diritto reale) e, nella detenzione, dal cd. animus detinendi (che implica il riconoscimento della signoria xxxxxx).
Soggiungendosi, poi, che tale principio di carattere generale non soffre deroga nei casi in cui il soggetto che assume d'essere possessore abbia ricevuto il godimento dell'immobile per effetto d'una convenzione negoziale, con la precisazione che, se la convenzione ha effetti obbligatori, perchè diretta ad assicurare il mero godimento della cosa, senza alcun trasferimento immediato o differito del bene, colui che, avendo ricevuto la consegna per questo solo scopo, si è immesso, nomine alieno, nel godimento del bene, necessariamente stabilisce con la cosa un rapporto di mera detenzione che gli consente di mutare il titolo originario di questo rapporto con la cosa solo attraverso un atto di interversione del possesso, ai sensi dell'art. 1141 c.c., comma 2.
Vi si evidenzia, quindi, che ciò spiega la ragione del principio, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo il quale "per stabilire se in conseguenza di una convenzione con la quale un soggetto riceve da un altro il godimento di un immobile si abbia un possesso idoneo alla usucapione o una mera detenzione, occorre fare riferimento all'elemento psicologico del soggetto stesso ed a tal fine stabilire se la convenzione sia un contratto ad effetti reali o un contratto ad effetti obbligatori, dato che solo nel primo caso il contratto è idoneo a determinare nel predetto soggetto l'animus possidendi (sent. n. 4819 del 1981; sent. n. 4698 del 1987; sent. n. 741
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del 1983)"; che, tuttavia, proprio la ragione del principio di diritto ora enunciato ne fissa anche il limite, escludendone l'applicazione alle convenzioni con le quali, per quanto con effetti solo obbligatori, le parti tendano a realizzare il trasferimento della proprietà del bene o di un diritto reale su di esso quando ad esse si aggiunga un patto accessorio d'immediato effetto traslativo del possesso, sostanzialmente anticipatore degli effetti traslativi del diritto che, con la convenzione, le parti stesse si sono ripromesse di realizzare.
Vi si perviene, così, alla conclusione per cui nelle ipotesi predette, tra le quali rientra quella più diffusa del contratto preliminare di compravendita, la convenzione non tende solo ad attribuire il godimento del bene (che si realizza, appunto, attraverso il trasferimento della mera detenzione, caratterizzando coerentemen-te la consegna della cosa) ma è in funzione di un comune proposito di trasferimento della proprietà o di un diritto reale, alla quale è coerente il passaggio immediato del possesso, che costituisce solo un'anticipazione dell'effetto giuridico finale perseguito; onde il patto di immediato trasferimento del possesso che eventualmente acceda a queste convenzioni, con le quali è perfettamente compatibile, caratterizza, dunque, anche la consegna che ad esso faccia seguito, conferendole effetti attributivi della disponibilità possessoria e non della mera detenzione, anche in mancanza dell'immediato effetto reale del contratto cui il patto accede, tenuto anche conto che la consegna, essendo il possesso un fenomeno che prescinde dal fondamento giustificativo, è atto neutro, o negozio astratto, per il quale non si richiede affatto il requisito del fondamento causale.
Tali essendo le ragioni giustificative delle esaminate decisioni, devesi considerare che, sfrondate dei superflui richiami ai principi generali, che si dichiarano condivisi, esse si riducono, in buona sostanza, alla sola affermazione per cui, nonostante la natura esclusivamente obbligatoria del preliminare, con il prevedervi anche l'immediata consegna del bene verso la contestuale corresponsione, in tutto od in parte, del prezzo, i contraenti intendono anticipare "l'effetto traslativo del diritto" proprio del definitivo.
Tesi siffatta non può trovare adesione, sia che della fattispecie in esame si consideri l'aspetto possessorio, in quanto il possesso non è suscettibile di trasferimento disgiuntamente dal diritto reale del quale costituisce l'esercizio, sia che se ne consideri quello contrattuale, in quanto la disponibilità della res conseguita dal promissario acquirente deriva da un contratto di comodato collegato al preliminare per il quale al comodatario è attribuita la detenzione e non il possesso; ciò per le ragioni che di seguito si espongono.
In primis, è lo stesso invocato intento delle parti ad esservi erroneamente individuato e/o travisato, in quanto, con lo stipulare un preliminare, sono per l'appunto gli effetti reali traslativi, propri del definitivo, che le parti non vogliono si verifichino per effetto immediato e diretto della conclusa convenzione.
La situazione giuridica in esame, come evidenziato anche in dottrina, è, in vero, il portato d'una prassi contrattuale sviluppatasi, essenzialmente nel settore immobiliare, in ragione della sua attitudine a fornire uno
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strumento idoneo a soddisfare sollecitamente determinate esigenze delle parti, principalmente la disponibilità del bene per l'una e del denaro per l'altra ma ulteriori se ne possono agevolmente ipotizzare, pur contestualmente garantendone i rispettivi diritti sui beni oggetto delle reciproche attribuzioni, indipendentemente dalla sorte della convenzione, per il tempo necessario a che si realizzino quelle condizioni oggettive e/o soggettive, agevolmente ipotizzabili anch'esse nella loro molteplicità, in ragione delle quali - tanto che siano rimaste del tutto estranee alla convenzione, eppertanto giuridicamente irrilevati anche a solo livello di presupposizione, quanto che, invece, sianvi espressamente previste come condizioni sospensive o risolutive - le parti stesse non hanno voluto o potuto addivenire ad un contratto definitivo.
Sono usuali, al riguardo, particolarmente nella materia delle compravendite immobiliari - che è quella più interessata dal fenomeno - le ipotesi in cui il promittente venditore debba portare a termine procedimenti amministrativi di regolarizzazione dell'edificio od opere di completamento dell'edificio stesso o delle infrastrut- ture accessorie od estinguere ipoteche o mutui, in difetto di che non sussiste l'interesse e conseguentemente la volontà di perfezionare l'acquisto da parte del promissario acquirente; o quelle in cui quest'ultimo debba, a sua volta, procurarsi, anche in più riprese, le disponibilità necessarie alla corresponsione integrale del prezzo, il conseguimento del quale condiziona parimenti interesse e volontà del promittente venditore alla realizzazione della vendita.
Dottrina e giurisprudenza, quando - sulla considerazione per cui la terminologia "promette di vendere o di acquistare" non è automaticamente indicativa d'una semplice promessa e la cosiddetta anticipazione degli effetti della vendita può essere indice dell'intento di porre in essere un contratto definitivo se il differimento della manifestazione di volontà non risulti chiaramente dal contratto - affermano che, al fine di attribuire ad una stipulazione il contenuto del contratto di compravendita o piuttosto quello del preliminare di compravendita, è determinante l'identificazione del comune intento delle parti - diretto, nel primo caso, al trasferimento della proprietà della res verso la corresponsione di un certo prezzo, conformemente alla causa negoziale dell'art. 1470 c.c., e, nel secondo caso, all'insorgenza di un particolare rapporto obbligatorio che impegni ad un'ulteriore manifestazione di volontà, alla quale sono rimessi il trasferimento del diritto dominicale sulla res e l'adempimento dell'obbligazione del pagamento del prezzo - onde il giudice del merito deve esaminare la stipulazione nel suo complesso al fine di accertare la comune volontà delle parti nell'un senso piuttosto che nell'altro, compiono, in verità, solo un primo approccio alla questione in esame, che, evidentemente, più non si porrebbe ove l'accertamento demandato al giudice si risolvesse nel senso del contratto ad effetti reali, dacchè, in tal caso, non vi sarebbe, evidentemente, luogo a parlare di preliminare, dacchè le prestazioni rese avrebbero già realizzato gli effetti del definitivo.
Viceversa, se l'accertamento compiuto dal giudice dovesse approdare al preliminare, è da escludere in re ipsa, come si è già sottolineato, che le parti intendessero realizzare qualsiasi effetto del definitivo, eppertanto, ai fini della soluzione della questione in esame, si rende necessaria un'indagine ulteriore e diversa in ordine alla volontà delle parti, onde identificare quali effetti, differenti da quelli propri del definitivo ma aggiuntivi rispetto a quelli ordinari del preliminare, le parti stesse avessero inteso far derivare dalla convenzione, in attuazione della quale ed
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in particolare delle pattuizioni aggiuntive hanno, di seguito, operato alcune prestazioni corrispondenti a quelle proprie del definitivo.
Al fine della qual ulteriore indagine, devesi preliminarmente considerare come la previsione e l'esecuzione della traditio della res e/o del pagamento, anche totale, del prezzo non siano affatto, di per se stessi, incompatibili con l'intento di stipulare un contratto solo preliminare di compravendita, dacchè, in tal guisa operando, le parti manifestano e concretamente realizzano esclusivamente l'intento d'anticipare non gli effetti del contratto di compravendita - l'impegno alla cui futura stipulazione costituisce l'oggetto delle obbligazioni assunte con la convenzione stipulata nella prescelta forma del preliminare, mentre tali effetti rappresentano, per contro, proprio quel risultato cui le parti stesse non hanno inteso, al momento, pervenire - ma solo quelle prestazioni che delle obbligazioni nascenti dalla compravendita costituiscono l'oggetto, id est la consegna della res ed il pagamento del prezzo, quali, ex artt. 1476 e 1498 c.c., sono poste a carico, rispettivamente, del venditore e del compratore (nel tempo, Cass. 19.4.00 n. 5132, 7.4.90 n. 2916, 3.11.88 n. 5962, ma già 1.12.62 n. 3250).
Escluso che con la stipulazione del preliminare, sia pure con previsione, ed esecuzione, della consegna della res e/o del pagamento del prezzo, le parti debbano avere necessariamente inteso che si verificassero gli effetti della compravendita - nel qual caso, d'altronde, come si è già evidenziato, si sarebbe in presenza d'un definitivo e non d'un preliminare - devesi anche escludere che, in virtù di tale esecuzione, possa essersi trasmesso dal promittente venditore al promissario acquirente il possesso della res.
In vero, come questa Corte ha già avuto occasione d'evidenziare - richiamando anche accreditata dottrina, per la quale "ciò che si trasferisce è solo l'oggetto del possesso, il quale, invece, non si compra e non si vende, non si cede e non si riceve per l'effetto di un negozio", e, perciò, "l'acquisto a titolo derivativo del possesso è un'espressione da usarsi solo in senso empirico e traslato" - dalla stessa nozione del possesso, definito dall'art. 1140 cod. civ. come "il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale", si evince ch'esso non può essere trasferito per contratto separatamente dal diritto del quale esso costituisca l'esercizio, considerato che un'attività non è mai trasmissibile, ma può solo essere intrapresa, e l'intrasmissibilità è maggiormente evidente in ordine al possesso, in quanto l'attività che lo contraddistingue deve essere accompagnata dall'animus possidendi (volontà di esercitare sulla cosa una signoria corrispondente alla proprietà o ad altro diritto reale), cioè da un elemento che, per la sua soggettività, può essere proprio soltanto di colui che attualmente possiede e non di chi ha posseduto in precedenza. (Cass. 27.9.96 n. 8528).
Quindi esattamente si è affermato in dottrina che, essendo il possesso uno stato di fatto, l'acquisto ne è in ogni caso originario, sì che anche chi propende per la tesi contraria riconosce che di acquisto derivativo possa parlarsi "soltanto per sottolineare che l'acquisto del possesso ha luogo con l'assenso e la partecipazione del precedente possessore e non con il solo contegno di colui che acquista il possesso, come accade nell'apprensione".
L'unica eccezione a questa regola si ha nella successione universale, ma è un'eccezione espressamente prevista e regolata dal legislatore che, in forza dell'elaborata fictio legis, ha consentito la continuazione nell'erede del possesso esercitato dal de cuius, con effetto dall'apertura della successione, indipendentemente dalla verificazione
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dei suoi presupposti di fatto, ma, appunto perchè di diritto singolare ed eccezionale, l'istituto non può essere utilizzato onde pervenire ad una soluzione diversa da quella indicata con la richiamata regola generale.
Nè, a sostegno della tesi della possibilità d'una trasmissione contrattuale del possesso, può richiamarsi l'art. 1146 c.c., comma 2, perchè per tale norma l'accessio possessionis, da essa prevista, ha, per presupposto indispensabile, l'esistenza di un titolo, anche viziato, idoneo in astratto, alla cessione del diritto di proprietà (o di altro diritto reale) del bene formante oggetto del possesso (Cass. 6552/81, 3876/76, 3369/72, 936/70, 1378/64, 1044/62); inoltre, la norma non prevede affatto la trasmissione del possesso da un soggetto all'altro, ma soltanto la possibilità per il successore a titolo particolare (acquirente o legatario) di unire al proprio possesso quello distinto e diverso del dante causa per goderne gli effetti sostanziali e processuali.
Per altro verso, devesi considerare che il preliminare di compravendita con il quale siano contestualmente pattuite anche la consegna anticipata della res e la corresponsione del pari anticipata del prezzo in una o più soluzioni non è un contratto atipico, almeno se con tale termine s'intende definire un contratto caratterizzato da una funzione economico-sociale non riconducibile agli schemi normativamente predeterminati e tuttavia suscettibile di riconoscimento e di tutela, sul presupposto dell'autonomia contrattuale che l'ordinamento riconosce ai privati, in ragione dellasua liceità e della sua meritevolezza.
Nella fattispecie in esame va ravvisata, infatti, la convergenza, in un'unica convenzione, degli elementi costitutivi di più contratti tipici, nel qual caso resta escluso che la convenzione stessa possa essere qualificata come atipica, dal momento che, sia pure considerata nelle sue plurime articolazioni, non è intesa a realizzare una funzione economico-sociale nuova e diversa rispetto a quelle dei singoli contratti tipici che in essa sono confluiti. Pertanto, considerato che le parti, nell'esplicazione della loro autonomia negoziale, possono, con manifestazioni di volontà espresse in un unico contesto, dar vita a più negozi tra loro del tutto distinti ed indipendenti, come pure a più negozi variamente interconnessi, la qualificazione della fattispecie va, piuttosto, effettuata con riguardo alla sua riconducibilità nell'ambito d'una delle categorie, elaborate da dottrina e giurisprudenza nell'esame delle fattispecie congeneri, dei contratti misti o complessi, o dei contratti collegati.
I contratti misti o complessi sono quelli maggiormente assimilabili al contratto atipico, se pur se ne differenziano per non essere intesi alla realizzazione d'una funzione economico-sociale nuova e diversa rispetto a quelle dei contratti tipici che vi confluiscono, dacchè in essi la pluralità degli schemi contrattuali tipici u- tilizzati si combina in guisa che, per la fusione delle cause, gli elementi costitutivi di ciascun negozio vengono assunti quali elementi costitutivi di un negozio rispetto a ciascun d'essi autonomo e distinto caratterizzato dall'unicità della causa; con la precisazione, evidenziata da alcuna parte della dottrina, per cui, nei contratti misti, si ha un solo schema negoziale, al quale vengono apportate alcune variazioni mediante l'inserimento di clausole assunte da uno o più diversi schemi, mentre, in quelli complessi, si ha la convergenza di tutti gli elementi costitutivi tratti da più schemi negoziali tipici nella regolamentazione dell'unico negozio risultantene.
Nell'una ipotesi come nell'altra, la disciplina del contratto è unitaria, come unitaria ne è la causa, e va ravvisata in quella del negozio di maggior rilievo, questo da individuarsi, quanto al contratto misto, nell'unico contratto cui sono stati aggiunti singoli elementi tratti da altri e che in esso si fondono (teoria dell'assorbimento), e, quanto al contratto complesso, in quello, tra i più contratti integralmente confluiti nell'unica convenzione, cui, all'esame
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della volontà quale in concreto manifestata dalle parti, risulti essere stato conferito rispetto agli altri il maggior rilievo in considerazione della finalità perseguita (teoria della prevalenza).
Minor seguito ha, in dottrina, la tesi per cui, nell'ipotesi del contratto complesso, i vari profili della convenzione andrebbero singolarmente disciplinati con riferimento allo schema contrattuale corrispondente (teoria della combinazione); ed, in effetti, tesi siffatta non consente, poi, a differenza dalla teoria della prevalenza, un'adeguata differenziazione di disciplina tra la fattispecie del contratto complesso e quella dei contratti collegati.
La quale ricorre ove più contratti autonomi, ciascuno caratterizzato dalla propria causa, formino oggetto di stipulazioni coordinate, nell'intenzione delle parti, alla realizzazione di uno scopo pratico unitario, costituito, di norma, dall'agevolare la realizzazione della funzione economico-sociale dell'un d'essi.
Il collegamento contrattuale, come è stato ripetutamente evidenziato dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti, nei suoi aspetti generali non da luogo ad un autonomo e nuovo contratto, ma è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, che viene realizzato non per mezzo di un singolo contratto, bensì attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è finalizzato ad un unico regolamento dei reciproci interessi.
Ond'è che il criterio distintivo fra contratto unico, se pur misto o complesso, e contratto collegato non va ravvisato in elementi formali - quali l'unità o la pluralità dei documenti contrattuali (un contratto può essere unico anche se ricavabile da più testi, mentre un unico testo può riunire più contratti) o la mera contestualità delle stipulazioni (i contratti posso essere stipulati anche in momenti diversi in relazione ad esigenze sopravvenute) - ma nell'elemento sostanziale dell'unicità o pluralità degli interessi perseguiti, dacchè il "contratto collegato" non è un tipo particolare di contratto, ma uno strumento di regolamentazione degli interessi economici delle parti caratterizzato dal fatto che le vicende che investono un contratto (invalidità, inefficacia, risoluzione, ecc.) possono ripercuotersi sull'altro, seppure non in funzione di condizionamento reciproco (ben potendo accadere che uno soltanto dei contratti sia subordinato all'altro, e non anche viceversa) e non necessariamente in rapporto di principale ad accessorio.
Pertanto, affinchè possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la considerazione unitaria della fattispecie, è necessario che ricorrano sia il requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell'ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia il requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l'effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale.
Tanto considerato, risulta evidente come la fattispecie in discussione debba essere ricondotta alla categoria dei contratti collegati.
In essa, infatti, le parti, onde agevolare, per le plurime ragioni quali in precedenza accennate, la realizzazione delle finalità perseguite con la stipulazione del preliminare di compravendita, stipulano altresì - e, come del pari si è già evidenziato, ciò può aver luogo contemporaneamente e contestualmente al preliminare ma anche in tempi e con atti diversi, a seconda che le circostanze lo richiedano - dei contratti accessori, al preliminare necessariamente
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perchè funzionalmente connessi e, tuttavia, autonomi rispetto ad esso, rispondendo ciascuno ad una precisa tipica funzione economico- sociale eppertanto disciplinati ciascuno dalla pertinente normativa sostanziale.
Contratti con i quali le parti pervengono ad una regolamentazione, se pur provvisoria tuttavia ben definita, dei rapporti accessori funzionalmente collegati al principale e nei quali, secondo un'autorevole opinione dottrinaria meritevole d'esser condivisa, vanno ravvisati, quanto alla concessione dell'utilizzazione della res da parte del promittente venditore al promissario acquirente, un comodato e, quanto alla corresponsione di somme da parte del promissario acquirente al promittente venditore, un mutuo gratuito.
Ne consegue, con riferimento al primo dei considerati contratti, che la materiale disponibilità della res nella quale il promissario acquirente viene immesso, in esecuzione del contratto di comodato, ha natura di detenzione qualificata esercitata nel proprio interesse ma alieno nomine e non di possesso.
Possesso che il promissario acquirente può, dunque, opporre al promittente venditore solo nei modi previsti dall'art. 1141 c.c., in particolare assumendo e dimostrando un'intervenuta interversio possessionis.
Questa, come ha correttamente ricordato il giudice a quo, non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore ha cessato d'esercitare il potere di fatto sulla cosa nomine alieno ed ha iniziato ad esercitarlo esclusivamente nomine proprio ed, inoltre, manifestazione siffatta dev'essere non solo tale da palesare inequivocabilmente l'intenzione del soggetto di sostituire al precedente animus detinendi un nuovo animus rem sibi habendi, ma anche essere specificamente rivolta contro il possessore, in guisa che questi sia posto in condizione di rendersi conto dell'avvenuto mutamento, quindi tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere della concreta opposizione all'esercizio del possesso da parte del possessore stesso; tra tali atti, ove non accompagnati da altra manifestazione dotata degli indicati connotati dell'opposizione, non possono ricomprendersi nè quelli che si traducano in una inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita, verificandosi in tal caso un'ordinaria ipotesi d'inadempimento contrattuale, nè quelli che si traducano in ordinari atti d'esercizio del possesso, verificandosi in tal caso una mera ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene.
(omissis)
1.3 Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 6 marzo 2015, n. 4628: il preliminare di preliminare
Motivi della decisione
(omissis)
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3) Con unico complesso motivo di ricorso i promittenti venditori denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 1321, 1322, 1324, 1351, 1362 ss., 1374, 2697, 2932 c.c.
Invocano le opinioni dottrinali e giurisprudenziali che, contrapponendosi alla corrente di pensiero accolta dai giudici di merito, ha riconosciuto "del tutto ammissibile e lecita la figura del preliminare di preliminare".
Sostengono che non può essere negato che sussista un interesse delle parti a creare un "impegno provvisorio", scindendo la contrattazione preparatoria del contratto definitivo di vendita dell'immobile in due fasi.
Affermano che la Corte di appello si è erroneamente allineata alle tesi che ritengono nullo per mancanza di causa il c.d. preliminare di preliminare, le quali ignorano il concreto svolgersi delle negoziazioni immobiliari e le esigenze della pratica.
Ricordano che il contratto per cui è causa, intitolato "dichiarazione preliminare d'obbligo" conteneva gli elementi essenziali del negozio e prevedeva la stipula di un "regolare preliminare di vendita", qualora il Banco di Napoli avesse dato assenso alla liberazione dall'ipoteca.
Parte ricorrente deduce che per "regolare preliminare" doveva intendersi "formale preliminare", espressione che assume oggi maggior significato in relazione alla possibilità di trascrivere i preliminari redatti "in base alla legge 28 febbraio 1997 n. 30".
Evidenzia la apprezzabilità dell'interesse che le parti avevano a conoscere, nel percorso negoziale di progressivo avvicinamento, le decisioni dell'istituto bancario che vantava l'ipoteca.
Il ricorso, che è concluso da congruo e concreto quesito, redatto ex art. 366 bis c.p.c., e completato da altra censura per contraddittorietà della motivazione, è fondato.
3) La Seconda Sezione ha ritenuto opportuno interpellare le Sezioni Unite, svolgendo le seguenti considerazioni:
“Il collegio non ignora che questa S.C. ha già avuto occasione di affermare che il contratto in virtù del quale le parti si obblighino a stipulare un successivo contratto ad effetti obbligatori (ovvero un contratto preliminare di preliminare) è nullo per difetto di causa, non essendo meritevole di tutela l'interesse di obbligarsi ad obbligarsi, in quanto produttivo di una inutile complicazione (sent. 2 aprile 2009 n. 8038, seguita, senza ulteriori approfondimenti da Xxxx. 10 settembre 2009) (n. 19557).
Ritiene, tuttavia, che tale orientamento, nella sua assolutezza, potrebbe essere meritevole di precisazioni, con riferimento alle ipotesi che in concreto possono presentarsi.
In primo luogo, potrebbe dubitarsi della nullità del contratto preliminare il quale si limitasse a prevedere un obbligo di riproduzione del suo contenuto al verificarsi di determinate circostanze, come nel caso di specie, in cui la stipulazione di un "regolare contratto preliminare" era subordinata al consenso del Banco di Napoli alla cancellazione dell'ipoteca gravante (anche) sulla porzione immobiliare promessa in vendita.
Ma quello che più conta è che il contratto preliminare di contratto preliminare non esaurisce il suo contenuto precettivo nell'obbligarsi ad obbligarsi, ma contiene - come nel caso di specie - anche l'obbligo ad addivenire alla conclusione del contratto definitivo. Ora, appare difficile, in considerazione del principio generale di cui all'art.
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1419 x.x., xxxxx 0, xxxxxxxx che la nullità dell'obbligo di concludere un contratto preliminare riproduttivo di un contratto preliminare già perfetto possa travolgere anche l'obbligo, che si potrebbe definire finale, di concludere il contratto definitivo”.
3.1) La sentenza 8038/09, alla quale l'ordinanza di rimessione fa riferimento, aveva così argomentato: “L'art. 2932 c.c. instaura un diretto e necessario collegamento strumentale tra il contratto preliminare e quello definitivo, destinato a realizzare effettivamente il risultato finale perseguito dalle parti. Riconoscere come possibile funzione del primo anche quella di obbligarsi... ad obbligarsi a ottenere quell'effetto, darebbe luogo a una inconcludente superfetazione, non sorretta da alcun effettivo interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico, ben potendo l'impegno essere assunto immediatamente: non ha senso pratico il promettere ora di ancora promettere in seguito qualcosa, anziché prometterlo subito.
Né sono pertinenti i contrari argomenti esposti dai ricorrenti: in parte non attengono al reciproco rapporto tra le parti del futuro contratto definitivo, ma a quelli tra ognuna di loro e l'intermediario che le ha messe in relazione, sicché non riguardano il tema in discussione; per il resto prospettano l'ipotesi di un preliminare già riferentesi al definitivo e da rinnovare poi con un altro analogo negozio formale, il che rappresenta una fattispecie diversa da quella del prepreliminare, di cui si è ritenuta in sede di merito l'avvenuta realizzazione nella specie. Correttamente, quindi, nella sentenza impugnata, esclusa la validità dell'accordo raggiunto dalle parti, ha ritenuto che esse si trovassero, in relazione al futuro contratto preliminare, nella fase delle trattative, sia pure nello stato avanzato della puntuazione, destinata a fissare, ma senza alcun effetto vincolante, il contenuto del successivo negozio”.
3.2) Il confronto tra i provvedimenti soprariportati costituisce già eloquente documentazione delle incertezze che da qualche decennio agitano la dottrina e la giurisprudenza in ordine all'ammissibilità del c.d. contratto preliminare di preliminare.
Si contrappongono infatti un orientamento che si può definire tradizionale, rispecchiato da Cass. 8038/09, che diffida (di "una certa diffidenza" discute per prima Pret. Bologna 9 aprile 1996, Giur. it., 1997, I, 2, 539) della configurabilità di un momento contrattuale anteriore al preliminare e un orientamento più possibilista, che considera benevolmente le ipotesi di c.d. "preliminare aperto" e ritiene possibile una tripartizione delle fasi che conducono alla stipula del definitivo.
Un'analisi più approfondita della esperienza giurisprudenziale e dell'evolversi del dibattito dottrinale può consentire di svelare contrasti solo apparenti, di riavvicinare le posizioni e di delineare senza schematismi i limiti in cui può espandersi l'autonomia privata.
3.3) In giurisprudenza viene affermato che:
"In tema di minuta o di puntuazione del contratto, qualora l'intesa raggiunta dalle parti abbia ad oggetto un vero e proprio regolamento definitivo del rapporto non è configurabile un impegno con funzione meramente preparatoria di un futuro negozio, dovendo ritenersi formata la volontà' attuale di un accordo contrattuale; per tale valutazione, xxx può' il giudice far ricorso ai criteri interpretativi dettati dagli artt. 1362 e segg. cod. civ., i
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quali mirano a consentire la ricostruzione della volontà delle parti, operazione che non assume carattere diverso quando sia questione, invece che di stabilirne il contenuto, di verificare anzitutto se le parti abbiano inteso esprimere un assetto d'interessi giuridicamente vincolante, dovendo il giudice accertare, al di là del nomen iuris e della lettera dell'atto, la volontà negoziale con riferimento sia al comportamento, anche successivo, comune delle parti, sia alla disciplina complessiva dettata dalle stesse, interpretando le clausole le une per mezzo delle altre". (Cass. 2720/09).
Stabilire se la formazione di un accordo che riguardi solo i punti essenziali del contratto di compravendita (Cass. 23949/08; 2473/13; 8810/03; 3856/83) sia sufficiente a costituire un contratto preliminare suscettibile di esecuzione coattiva ex art. 2932 c.c. è questione di fatto che può risultare di difficile discernimento.
Si rinvengono infatti non poche massime secondo le quali ai fini della configurabilità di un definitivo vincolo contrattuale, è necessario che tra le parti sia raggiunta l'intesa su tutti gli elementi dell'accordo, non potendosene ravvisare pertanto la sussistenza là dove, raggiunta l'intesa solamente su quelli essenziali ed ancorché riportati in apposito documento, risulti rimessa ad un tempo successivo la determinazione degli elementi accessori. (Cass. 14267/06; 11371/10).
Questo secondo filone giunge ad affermare che anche in presenza del completo ordinamento di un determinato assetto negoziale può1 risultare integrato un atto meramente preparatorio di un futuro contratto, come tale non vincolante tra le parti, in difetto dell'attuale effettiva volontà delle medesime di considerare concluso il contratto (910/05; 20701/07).
4) La questione rimessa oggi alla Corte non riguarda il rilievo della volontà nella conclusione del contratto e se essa sia la sola via per stabilire quando il preliminare venga definitivamente formato: è chiesto invece di indagare sulla dinamica degli accordi contrattuali in tema di compravendita immobiliare. È infatti evidente già da questa prima ricognizione quale sia l'incertezza del confine tra atto preparatorio e contratto preliminare, incertezza alimentata da una accentuata polarizzazione tra contratto preliminare (vincolante) da un lato e diniego di rilevanza negoziale, per difetto della causa, di accordi prodromici al preliminare, i quali al più vengono qualificati semplice "puntuazione". Occorre pertanto stabilire se e in quali limiti sia riconosciuto nell'ordinamento un accordo negoziale che rimandi o obblighi i contraenti a un contratto preliminare propriamente detto.
4.1) La problematica risulta affrontata più volte nella giurisprudenza di merito. Trib. Salerno 23 luglio 1948 (Dir. Xxxx., 1949, 101) ebbe ad affermare che la legge, nel fissare i due tipi fondamentali di contratti (preliminare e definitivo), esclude l'esistenza di un contratto preliminare relativo ad altro preliminare, il quale dovrebbe comunque rispettare il requisito di forma di cui all'art. 1351 c.c. Il tribunale di Napoli (23.11.1982 in Giustciv. 1983, 1, 283; 21.2.1985 n. 1480 Dir Giur. 1985, 725) ha aggiunto che il contratto con cui le parti si impegnano a stipulare un futuro contratto preliminare di analogo contenuto è nullo per mancanza di causa, "difettando di ogni funzione economica meritevole di tutela". La trattatistica censisce vari altri casi (tra i quali: App Genova 21.2.2006, Obbl e contr., 2006, 648; App. Napoli 1.10.2003, Giur. mer. 2004, 63) che riecheggiano queste convinzioni. 4.1.1) Altre volte la giurisprudenza partenopea si è orientata in senso opposto.
App. Napoli 11 ottobre 1967, (Dir. Giur. 1968, 550) ha ritenuto che "in virtù del principio dell'autonomia negoziale" sia ammissibile un regolamento contrattuale che preveda, dopo la prima intesa scritta, un'ulteriore
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scansione temporale, con la stipulazione del contratto preliminare, legata al versamento di una caparra. Trib. Napoli 28 febbraio 1995 (Dir. Giur. 1995, 163) muovendo dallo stesso presupposto ha considerato meritevole di tutela "il contratto preliminare del preliminare qualora lo stesso costituisca un momento ben caratterizzato dell'iter progressivo per il raggiungimento del compiuto regolamento di interessi".
In altri casi i giudici di merito hanno espressamente ritenuto di non avventurarsi nella analisi, poiché hanno ravvisato già nel primo contratto gli elementi sufficienti a qualificare come preliminare ex art. 1351 c.c. l'accordo documentato (Pret. Firenze 19.12.1989 Giur. merito, 1990, 466) ovvero, all'opposto, la configurabilità di una condizione sospensiva, il cui mancato avveramento impedisce il perfezionamento della fattispecie negoziale (Trib. Firenze 10 luglio 1999, Nuovo dir., 2000, 487).
4.2) Queste oscillazioni mettono capo, come la giurisprudenza citata sub 3.3, al tema dell'identificazione del contratto preliminare e preannunciano il diffondersi di problematiche relative alla contrattazione in materia di vendita immobiliare, settore che ha segnato la fortuna del contratto preliminare nel nostro ordinamento.
Prima di esaminare le valutazioni dottrinali in questa materia è quindi opportuno stabilire che solo questo è il campo di indagine, restando esclusi - e da salvaguardare - altri istituti di confine.
Intorno al 1970, nel fissare le fondamenta concettuali del contratto preliminare, la dottrina ha avuto cura di distinguerli e di segnalare che il contratto preliminare non è "un recipiente di comodo" in cui inserire gli istituti dagli incerti confini.
Va pertanto esemplificativamente ricordato che: la figura dell'opzione di contratto preliminare, di origine dottrinale (ma x. Xxxx. 1071/67), è un'ipotesi di "possibile allargamento della sfera di applicazione del patto di opzione" (per la distinzione, cfr Cass. 8564/12).
Il patto di prelazione ha lo scopo essenziale di impedire che il promittente concluda un contratto con un terzo anziché con il beneficiario del patto: non sembra quindi una figura diretta alla conclusione del contratto, come il preliminare, ma alla scelta del contraente, ancorché in giurisprudenza venga qualificato come preliminare unilaterale (Cass. 3127/12).
Anche il patto di contrarre con il terzo non può essere confuso con le ipotesi che ci occupano di pattuizione anteriore al preliminare, categoria al quale è estraneo, per il motivo determinante che non vi è ancora - con questo patto - una manifestazione di consenso intorno a un regolamento di interessi, ma una volontà manifestata a un soggetto diverso dal terzo con cui si dovrà in futuro contrarre.
4.3) Il vero insorgere della problematica è stato determinato dall'evoluzione della contrattazione immobiliare e dell'attività di mediazione professionalmente gestita.
La complessità dei contatti, delle verifiche da effettuare, da un lato per saggiare la serietà dei proponenti, dall'altro per accertarsi della consistenza del bene e dell'affidabilità dei contraenti, hanno di fatto portato a una frequente tripartizione delle fasi contrattuali.
Una prima fase in cui, a volte con la formula, almeno dichiarata, della proposta irrevocabile, l'aspirante acquirente offre un certo corrispettivo per l'acquisto del bene, atto che viene riscontrato dalla accettazione o dal rifiuto del proprietario.
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Una seconda, espressamente prevista, di stipula del contratto preliminare propriamente detto. La terza, costituita dall'indispensabile rogito notarile con il saldo del prezzo.
La pratica degli affari ci consegna una incalcolabile serie di varianti: inseguirle, è stato spiegato, sarebbe ozioso impegno di un giurista da tavolino.
Alla variabilità della modulistica dei mediatori si aggiunge infatti la inesauribile creatività dei contraenti, assistiti o meno da consulenti legali.
Il quesito che occorre risolvere concerne la configurabilità di due fasi anteriori al rogito o comunque all'atto traslativo, giustificabili l'una rispetto all'altra allo stesso modo in cui venne a suo tempo giustificata la "scissione" del contratto preliminare rispetto al definitivo.
Si vuoi dire che la "scissione", in alcuni casi, dimostra che le parti sono incerte e intendono meglio orientarsi, cosicché essa risponde all'esigenza di "fermare l'affare", ossia di dare vincoli giuridici all'operazione economica condivisa negli elementi essenziali, restando però, per una delle parti (di regola il compratore) l'esigenza di verificare con certezza la praticabilità dell'operazione, prima ancora che di definirla in termini più precisi e articolati.
Ciò può avvenire sovente sui seguenti punti: a) assumere elementi di conoscenza sulla persona della controparte (es., se è imprenditore o comunque persona solvibile; escludere vicinanze "mafiose", etc.). Si tratta di elementi che non potrebbero, ove conosciuti come negativi, essere addotti a motivo di risoluzione di un contratto già concluso o forse neppure essere portati a conoscenza della controparte stessa, ragione per cui è necessario non dare carattere di assolutezza al vincolo.
b) verificare con precisione lo stato della cosa;
c) verificare la situazione urbanistica e svolgere le altre visure e ricerche necessarie.
5) Il ragionamento al quale si è rifatta Cass. 8038/09, e che nega la validità di un accordo ripetitivo, ha pregio se si ipotizza (come sembra sia stato comunque fatto anche in quel caso) che tra il primo e il secondo preliminare vi sia identità (bis in idem).
In tal caso, mancando un contenuto nuovo in grado di dar conto dell'interesse delle parti e dell'utilità del contratto, si è parlato di mancanza di causa. La parte di dottrina che è tendenzialmente contraria ad ammettere queste pattuizioni riconosce che nelle trattative complesse il contratto si può formare progressivamente, ma nega che si possa parlare di obbligo a contrarre, preferendo l'aspetto descrittivo dell'obbligazione di contrattare. Nega anche rilievo alla differenziazione basata sulla ricorribilità al rimedio di cui all'art. 2932 c.c. solo in relazione al secondo contratto.
Si pretende infatti che il rapporto tra i preliminari venga "valutato in termini di contenuto dispositivo e non già di sanzioni".
È già questa una significativa apertura, ancorché sia stata limitata a quelle fattispecie in cui le parti, impegnatesi in sede di primo accordo sui punti essenziali della futura compravendita, abbiano solo voluto rinviare la definizione di punti secondari.
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5.1 Le Sezioni Unite della Corte intendono cogliere gli aspetti costruttivi di quel moderno orientamento che vuole riconoscere la libertà delle parti di determinarsi e di fissare un nucleo di interessi da trasfondere nei vari passaggi contrattuali.
Viene in primo luogo in risalto, come evidenziato dal più recente dibattito dottrinale, la tematica della causa concreta.
Una definizione di questa Corte (Cass. 10490/06) la qualifica come “scopo pratico del negozio...sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato”.
Sono molti i casi in cui la Corte, dichiaratamente o meno, ha lasciato da parte la teorica della funzione economico sociale del contratto e si è impegnata nell'analisi dell'interesse concretamente perseguito dalle parti nel caso di specie, cioè della ragione pratica dell'affare.
L'indagine relativa alla causa concreta, - è stato evidenziato - giova sia come criterio d'interpretazione del contratto sia come criterio di qualificazione dello stesso: "La rispondenza del contratto ad un determinato tipo legale o sociale richiede infatti di accertare quale sia l'interesse che il contratto è volto a realizzare".
Questa chiave di lettura conduce a riconsiderare gli approdi schematici ai quali sono pervenute in passato dottrina e giurisprudenza.
È singolare, ma non casuale, che il profilo causale del contratto sia stato inteso in dottrina e giurisprudenza come ricerca della utilità del contratto, cioè della sua "complessiva razionalità" ed idoneità ad espletare una funzione commisurata sugli interessi concretamente perseguiti dalle parti attraverso quel rapporto contrattuale.
È questo in fondo che la stessa Xxxx. 8038/09 richiede allorquando rileva che, in caso contrario, l'obbligo di obbligarsi ad ottenere un certo effetto è “una inconcludente superfetazione” priva di “senso pratico”.
5.2 Le opinioni, pur partendo da prospettive diverse, coincidono dunque nel definire nulla l'intesa che si risolva in un mero obbligo di obbligarsi a produrre un vincolo che non abbia né possa avere contenuto ulteriore o differenziato. Un secondo punto di convergenza si rinviene allorquando l'analisi del primo accordo conduce a ravvisare in esso i tratti del contratto preliminare, in quanto contenente gli elementi necessari per configurare tale contratto, quali, si osserva, l'indicazione delle parti, del bene promesso in vendita, del prezzo. La presenza della previsione di una ulteriore attività contrattuale può rimanere irrilevante, ma va esaminata alla luce delle pattuizioni e dei concreti interessi che sorreggono questa seconda fase negoziale.
Giovano alcune esemplificazioni: a) Può darsi il caso che nell'accordo raggiunto sia stata semplicemente esclusa l'applicabilità dell'art. 2932 c.c.: si tratta, è stato osservato, di una esclusione convenzionalmente ammessa. La conseguenza sarà che, pur ravvisandosi un contratto "preliminare" in questa scrittura che ipotizzava un successivo accordo, si potrà far luogo, in caso di inadempimento, solo al risarcimento del danno.
b) Può presentarsi l'ipotesi in cui la pattuizione della doppia fase risponda all'esigenza di una delle parti di godere del diritto di recesso, facoltà che può essere convenzionalmente prevista nel contratto preliminare e che può anche accompagnarsi alla prevista perdita di una modesta caparra penitenziale versata dal proponente l'acquisto; si tratta è stato detto, del costo del recesso da un contratto preliminare già concluso.
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c) È ipotizzabile, ed è quanto andrà vagliato con particolare attenzione dai giudici di merito nel giudizio odierno, che le parti abbiano raggiunto un'intesa completa, subordinandola però a una condizione.
Tutte queste ipotesi, e le altre che sono immaginabili, sono apparentate da una conclusione che può regolare buona parte della casistica: va escluso che sia nullo il contratto che contenga la previsione della successiva stipula di un contratto preliminare, allorquando il primo accordo già contenga gli estremi del preliminare. L'assenza di causa che è stata rilevata quando si è discusso di "preliminare di preliminare" potrebbe in tali casi riguardare tutt'al più il secondo, ma non certo il primo contratto.
6) Dietro la stipulazione contenente la denominazione di "preliminare del preliminare" (nel senso che la conclusione dell'accordo precede la stipula del contratto preliminare) si possono dare situazioni fra loro differenti, che delineano sia figure contrattuali atipiche (quali quelle prima indicate), ma alle quali corrisponde una "causa concreta" meritevole di tutela; sia stadi prenegoziali molto avanzati, cui corrisponde un vincolo obbligatorio di carattere ancora prenegoziale (almeno fra le parti del contratto in relazione al quale si assuma un impegno volto alla successiva stipula di un contratto preliminare) che vede intensificato e meglio praticato l'obbligo di buona fede di cui all'art. 1337 c.c.
Certo è però, che, in linea di massima, la previsione di dover dar vita, in futuro, all'assunzione dell'obbligo contrattuale nascente dal contratto preliminare, può essere sintomatica del fatto che le parti hanno consapevolezza che la situazione non è matura per l'assunzione del vincolo contrattuale vero e proprio. Ciò può dipendere segnatamente in relazione al grado di conoscenza di tutti gli elementi di fatto che occorre aver presenti per manifestare la volontà il cui incontro da vita all'accordo vincolante consacrato nel contratto preliminare.
Posto, come si è detto prima, che non si può assegnare utilità al "bis in idem" in quanto volto alla mera ripetizione del primo contratto ad identici contenuti, se e quando le parti sono disposte al mutamento del contenuto del contratto, al cambiamento di esso, l'obbligazione assunta sembra avere per oggetto non il contrarre, ma il contrattare.
6.1) Anche la dottrina più rigorosa riconosce che da gran tempo è stata discussa la formazione progressiva del contratto e sembra ammettere che essa potrebbe atteggiarsi configurando una tripartizione del procedimento di compravendita immobiliare.
Secondo le Sezioni Unite si deve immaginare la pattuizione di un vincolo contrattuale che sia finalizzato ad ulteriori accordi e che il rifiuto di contrattare opposto nella seconda fase, se immotivato e contrario a buona fede, possa dar luogo a responsabilità contrattuale da inadempimento di un'obbligazione specifica sorta nel corso della formazione del contratto e non propriamente ex contractu.
È stato però osservato che si tratterebbe di ipotesi diversa da quella del preliminare di preliminare, che dovrebbe riguardare l'obbligo, assunto nella prima fase, di contrarre e non di contrattare, come invece avverrebbe quando siano state scandite solo tappe di una trattativa complessa.
Si è quindi manifestata contrarietà all'ipotesi di un "preliminare aperto" - sottoscritto per lo più da parti che ancora non si conoscono o hanno deliberatamente lasciato alla seconda fase la regolazione di alcuni profili contrattuali - seguito da un preliminare chiuso.
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Questa ritrosia può essere giustificata in alcuni casi, ma non in tutti.
È stato in precedenza sottolineato che va dato peso alla difficoltà di configurare come preliminare propriamente detto un rapporto obbligatorio in cui le parti non si conoscano e non siano in grado quindi di valutare le qualità soggettive dell'altro contraente.
Rispetto a questa frequente ipotesi, non sembra corrispondere alle reali esigenze del traffico giuridico qualificare la prima intesa, che pur contenga gli altri elementi essenziali, come contratto preliminare.
Vi sono esigenze, in una società complessa, interessata da pervasivi fenomeni criminosi, da sospette manipolazioni nel tessuto economico, da un fiorire incontrollabile di nullità contrattuali "minori", ma non per questo meno incisive negozialmente, di riservare il consenso vincolante, sottomesso all'esecuzione coattiva, a verifiche che sono da valutare soggettivamente.
In altri casi il contraente resta libero da vincoli stringenti e assoggettato solo alle conseguenze risarcitorie che ha deliberamente assunto e contrattualmente delimitato, concordando espressamente la necessità di un vero e proprio preliminare e l'esclusione del disposto di cui all'art. 2932 c.c.
Una più esauriente determinazione del contenuto contrattuale può essere prevista per meglio realizzare l'interesse delle parti. Se si dovesse invece ricorrere sempre all'opzione preliminare/definitivo si dovrebbero riempire i contenuti rimasti in sospeso con il meccanismo di cui all'art. 1374, integratore rispetto al primo accordo incompleto.
6.2) È stato autorevolmente sostenuto che se mancano violazioni di una legge imperativa, non v'è motivo per giudicare inammissibili procedimenti contrattuali graduali, la cui utilità sia riscontrata dalle parti con pattuizioni che lasciano trasparire l'interesse perseguito, in sé meritevole di tutela, a una negoziazione consapevole e informata.
Le posizioni di coloro che pongono l'alternativa "preliminare o definitivo" amputano le forme dell'autonomia privata, sia quando vogliono rintracciare ad ogni costo il contratto preliminare in qualunque accordo iniziale, sia quando ravvisano nel c.d. preliminare chiuso il contratto definitivo, passibile soltanto di riproduzione notarile.
La procedimentalizzazione della fasi contrattuali non può di per sé essere connotata da disvalore, se corrisponde a "un complesso di interessi che stanno realmente alla base dell'operazione negoziale".
È vero che occorre guardarsi da un uso "poco sorvegliato" dell'espressione preliminare di preliminare", perché l'argomento nominalistico non è neutro. Tuttavia, se ci si libera dell'ipotesi in cui appare che il primo contratto è già il contratto preliminare e che il secondo è, al più, solo la sua formalizzazione per la trascrizione, restano due "sequenze" variabili che si avvicinano:
A) quella delle mere puntuazioni in cui le parti hanno solo iniziato a discutere di un possibile affare e senza alcun vincolo fissano una possibile traccia di trattative. In questa ipotesi, quanto maggiore e specifico è il contenuto, tanto più ci si avvicina al preliminare.
B) Quella in cui il contratto non è ancora un vero preliminare, ma una puntuazione vincolante sui profili in ordine ai quali l'accordo è irrevocabilmente raggiunto, restando da concordare secondo buona fede ulteriori punti.
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Si tratta di un iniziale accordo che non può configurarsi ancora come preliminare perché mancano elementi essenziali, ma che esclude che di quelli fissati si torni a discutere. In questa ipotesi man mano che si impoverisce il contenuto determinato ci si allontana dal preliminare propriamente detto.
b1) Occorre qui ulteriormente ricordare la distinzione con l'ipotesi in cui la previsione del secondo preliminare esprime soltanto che la situazione conoscitiva delle parti non è tale da far maturare l'accordo consapevole, ma si vuole tuttavia "bloccare l'affare", anche a rischio del risarcimento del danno negativo in caso di sopravvenuto disaccordo.
Ciò che conta chiarire è che, all'interno di una gamma di situazioni che ricevono risposte diverse, quelle contrassegnate sotto la lettera b sono riconducibili a una fase sostanzialmente precontrattuale, in cui la formazione del vincolo è limitata a una parte del regolamento. La violazione di queste intese, perpetrata in una fase successiva rimettendo in discussione questi obblighi in itinere che erano già determinati, da luogo a responsabilità contrattuale da inadempimento di un'obbligazione specifica sorta nel corso della formazione del contratto, riconducibile alla terza delle categorie considerate nell'art. 1173 c.c., cioè alle obbligazioni derivanti da ogni fatto o atto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico.
6.2.1) È evidente come questa linea interpretativa impone di vagliare caso per caso l'emergere dell'interesse delle parti, di questa loro volontà di rinviare il momento in cui operano sia l'integrazione suppletiva ex art. 1374 x.x. xxx xx xxxxxxx xxx xxxxxxxxxx xxxxxxx xxx xxxxxxxxxxx ex art. 1351 e 2932 c.c.
Nella compravendita immobiliare l'ausilio giunge dal formalismo che contraddistingue la materia, sì da potersi di volta in volta cogliere i profili oggettivi non solo di una trattativa e della successiva stipula di un preliminare, ma di una sequenza di atti caratterizzati da un contenuto differenziato e aventi portata contrattuale con le connesse conseguenze.
7) Alla luce di questi principi il ricorso è da accogliere.
I giudici di merito hanno infatti in primo luogo omesso di valutare se il contratto in esame, sebbene prevedesse la stipula di un successivo contratto preliminare, avesse già le caratteristiche di un contratto preliminare completo, soltanto subordinato ad una condizione, cioè al consenso del Banco di Napoli alla cancellazione parziale dell'ipoteca, ipotesi da loro stessi contemplata (pag. 7 sentenza) ma scartata a causa della previsione dell'impegno a sottoscrivere un futuro preliminare.
Hanno poi omesso di interrogarsi sulla validità del primo contratto, in ipotesi munito di tutti gli elementi essenziali del preliminare, e sulla possibile invalidità, in questo contesto, del secondo accordo, se meramente riproduttivo del primo. In quest'ottica hanno rovesciato la prospettiva che le Sezioni unite ritengono giuridicamente corretta.
Hanno infine aderito all'orientamento che sanziona come nullo per difetto di causa un contratto che sia propedeutico al "successivo stipulando preliminare" senza verificare la sussistenza di una causa concreta dell'accordo dichiarato nullo tale da renderlo meritevole di tutela da parte dell'ordinamento, in quanto inserito in una sequenza procedimentale differenziata, secondo un programma di interessi realizzato gradualmente.
Discende da quanto sposto l'accoglimento del ricorso.
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La sentenza impugnata va cassata e la cognizione rimessa ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per nuovo esame dell'appello e la liquidazione delle spese di questo giudizio.
Il giudice di rinvio si atterrà al seguente principio di diritto:
In presenza di contrattazione preliminare relativa a compravendita immobiliare che sia scandita in due fasi, con la previsione di stipula di un contratto preliminare successiva alla conclusione di un primo accordo, il giudice di merito deve preliminarmente verificare se tale accordo costituisca già esso stesso contratto preliminare valido e suscettibile di conseguire effetti ex art. 1351 e 2932 c.c., ovvero anche soltanto effetti obbligatori ma con esclusione dell'esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento.
Riterrà produttivo di effetti l'accordo denominato come preliminare con il quale i contraenti si obblighino alla successiva stipula di un altro contratto preliminare, soltanto qualora emerga la configurabilità dell'interesse delle parti a una formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare.
La violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, potrà dar luogo a responsabilità per la mancata conclusione del contratto stipulando, da qualificarsi di natura contrattuale per la rottura del rapporto obbligatorio assunto nella fase precontrattuale.
(omissis)
1.4 Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 1 ottobre 2009, n. 21045: rapporti tra il privilegio speciale immobiliare ( art. 2775 bis c.c.) e l’ipoteca.
Motivi della decisione
I. - PREMESSA - IL RICORSO E LA QUESTIONE SOTTOPOSTA ALL'ESAME DELLE SEZIONI UNITE.
Il ricorrente, nel dedurre la violazione degli artt. 2645 bis, 2775 bis, 2748, 2° comma, e 2825 bis c.c., sostiene che il secondo comma dell'art. 2775 bis individua due soli casi di ipoteche che non soccombono al privilegio di cui al primo comma, e precisamente quelle iscritte a garanzia del mutuo erogato al promissario acquirente per l'acquisto dell'immobile e quelle iscritte a garanzia del credito edilizio nei limiti della quota che il promissario stesso si sia accollato; benché l'art. 2825 bis faccia riferimento esclusivamente alle ipoteche iscritte successivamente alla trascrizione del preliminare, è ovvia la prevalenza anche di quelle iscritte in epoca anteriore, ma sempre nei limiti
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della quota di xxxxxx che il promissario si sia accollato, non avendo egli altrimenti alcun ruolo nel rapporto tra il finanziatore ed il costruttore.
Secondo il ricorrente, il decreto impugnato contrasta, oltre che con l'orientamento della giurisprudenza di legittimità, che subordina la prevalenza dell'ipoteca all'accollo da parte del promissario del debito contratto dal costruttore, anche con lo spirito della legge, che mira a tutelare i promissari acquirenti di fabbricati in xxxxx xx xxxxxxxxxxx xx xxxx xx xxxxxxx esecuzione del preliminare o fallimento del promittente venditore.
Nella specie, pertanto, non essendo intervenuto l'accollo della quota di mutuo gravante sull'immobile promesso in vendita, troverebbe applicazione il principio generale di cui all'art. 2748, 2° comma, secondo cui il privilegio immobiliare prevale sulle ipoteche iscritte anche anteriormente, non potendo individuarsi nell'art. 2825 bis la diversa disposizione di legge che, ai sensi dell'ultimo inciso dell'art. 2748, 2° comma, consente di derogare a tale principio.
Preliminare rispetto al vaglio delle doglianze prospettate nel ricorso è l'esame della premessa giuridica dalla quale muove l'impugnato provvedimento, secondo cui il privilegio del credito del promissario acquirente per mancata esecuzione del contratto preliminare prevale, ai sensi dell'art. 2748 c.c., 2° comma, sui crediti ipotecari, anche se l'ipoteca è stata iscritta prima della trascrizione del preliminare, salvo soltanto che si tratti di ipoteche relative a mutui erogati per l'acquisto del medesimo immobile promesso in vendita o iscritte a favore dei creditori garantiti ai sensi dell'art. 2825 bis c.c. Solo ove, infatti, tale premessa fosse da condividere occorrerebbe valutare se reggono o meno alla critica le conseguenti considerazioni in base alle quali il tribunale ha ravvisato la prevalenza sul privilegio speciale spettante al promissario acquirente dell'ipoteca iscritta a garanzia del mutuo fondiario erogato dalla cassa di risparmio; qualora, viceversa, quella premessa fosse da disattendere, s'imporrebbe la correzione della motivazione del provvedimento impugnato, ma il ricorso dovrebbe essere rigettato.
La suaccennata premessa, dalla quale il tribunale prende le mosse (e la cui fondatezza è contestata dalla controricorrente), è in effetti conforme a quanto affermato nel già menzionato precedente di questa Corte (Cass.
n. 17197 del 2003), secondo cui, appunto, in forza del disposto dell'art. 2748, 2° comma, c.c. (per il quale i creditori che hanno privilegio sui beni immobili sono preferiti ai creditori ipotecali, se la legge non dispone diversamente), anche il privilegio speciale immobiliare, previsto dal citato art. 2775 bis, prevale rispetto alle ipoteche gravanti sullo stesso immobile, pur se trascritte anteriormente alla trascrizione del contratto preliminare da cui il privilegio scaturisce, non rilevando in contrario la natura “iscrizionale” (o “trascrizionale”) di siffatto privilegio, giacché questa non basta a rendere applicabile, in simili casi, il principio della prevalenza dei diritti secondo l'ordine delle trascrizioni e delle iscrizioni dal quale è regolata la pubblicità immobiliare.
L'ordinanza che ha rimesso la soluzione della questione alle sezioni unite ritiene che le conclusioni alle quali è pervenuta la citata sentenza n. 17197 del 2003 non abbiano placato il dibattito che già prima era insorto in dottrina in ordine alla corretta interpretazione da dare alle disposizioni dettate dal codice a tutela del promissario acquirente di immobili (introdotte, com'è noto, con il D.L. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito con modificazioni dalla L. 28 febbraio 1997, n. 30). Dibattito che, piuttosto, ne è stato rinfocolato. Viene, allora, chiesto l'approfondimento dei seguenti punti:
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a) il privilegio accordato al promissario acquirente non si ricollega esclusivamente alla causa del credito, ma presuppone necessariamente la trascrizione del contratto preliminare, alla quale pare pertanto ragionevole assegnare, in ragione della sua efficacia costitutiva, anche la funzione, ad essa connaturata, di risolvere i possibili conflitti tra titolari di diritti assoggettati al medesimo regime di pubblicità;
b) poiché nella graduazione prevista dall'art. 2780 c.c. il privilegio in questione è collocato dopo quelli che assistono i crediti per concessione di acque e per tributi indiretti, i quali non possono essere esercitati in pregiudizio dei diritti anteriormente acquisiti dai terzi sui medesimi immobili, la prevalenza di tale privilegio sulle ipoteche iscritte anteriormente renderebbe impossibile stabilire l'ordine di collocazione dei crediti;
c) detta prevalenza risulterebbe inoltre scarsamente razionale, dal momento che le ipoteche iscritte anteriormente sono certamente opponibili all'acquirente, in caso di perfezionamento del contratto definitivo di acquisto dell'immobile;
d) l'art. 2825 bis c.c., prevedendo eccezionalmente che, in caso di accollo del mutuo fondiario da parte del promissario acquirente, l'ipoteca iscritta a garanzia dello stesso prevalga sulla trascrizione anteriore del contratto preliminare, fa supporre, a maggior ragione, l'operatività del medesimo criterio in presenza di una trascrizione posteriore di tale contratto, trovando applicazione, in tal caso, i principi generali in materia di pubblicità immobiliare.
In conclusione, la questione sottoposta alle Sezioni Unite consiste nello stabilire se, ai fini della distribuzione del ricavato della vendita, disposta in sede fallimentare, di un immobile già promesso in vendita dal fallito con contratto preliminare trascritto, il privilegio che, a norma dell'art. 2775 bis c.c., assiste il credito del promissario acquirente per la mancata esecuzione del preliminare prevalga (o meno), ai sensi dell'art. 2748, 2° comma, c.c., sulle ipoteche iscritte sul medesimo immobile in data anteriore alla trascrizione del contratto preliminare.
II. - LA TRASCRIVIBILITÀ DEL CONTRATTO PRELIMINARE ED IL PRIVILEGIO CHE ASSISTE I CREDITI DEL PROMISSARIO ACQUIRENTE.
La trascrivibilità del preliminare, non prevista dal testo originario del codice civile, in ragione della natura meramente obbligatoria di tale contratto, è stata introdotta dall'art. 3 del d.l. 31 dicembre 1996, n. 669 (convertito con modificazioni dalla legge 28 febbraio 1997, n. 30), che ha modificato il titolo I del libro VI del codice, inserendo nel capo I l'art. 2645 bis. Questo ammette la possibilità di procedere alla trascrizione dei contratti preliminari, ancorché sottoposti a condizione o relativi ad edifici da costruire o in corso di costruzione, purché essi: a) abbiano ad oggetto la conclusione di taluno dei contratti di cui ai numeri 1, 2, 3 e 4 dell'art. 2643; b) risultino da atto pubblico o da scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente.
La ratio della disciplina consiste nel tutelare il promissario, che, all'atto della stipulazione del preliminare o comunque nelle more della stipulazione del contratto definitivo, abbia corrisposto in tutto o in parte il corrispettivo dovuto, contro l'eventualità che il promittente si sottragga all'adempimento dell'obbligazione assunta, ponendo in essere atti di disposizione del bene promesso, tali da rendere impossibile il successivo trasferimento dell'immobile.
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Essa muove dalla presa d'atto che, nella pratica commerciale, la stipulazione di un contratto preliminare costituisce ormai una fase pressoché imprescindibile del procedimento negoziale che conduce al trasferimento dei diritti reali immobiliari, la quale trova per lo più giustificazione nell'esigenza delle parti di consacrare provvisoriamente l'accordo raggiunto, al fine di consentire, in vista della stipulazione del contratto definitivo, la verifica dell'esatta consistenza dell'immobile, della sua conformità alle norme urbanistiche e degli oneri tributari connessi al trasferimento. A questa prassi fa riscontro, talvolta, la consegna anticipata dell'immobile e, più spesso, il versamento di uno o più acconti sul prezzo pattuito, il quale trova giustificazione, nel caso di vendita di beni ancora da edificare o in corso di costruzione, nei convergenti interessi del venditore ad autofinanziarsi mediante l'anticipata riscossione del corrispettivo e dell'acquirente a spuntare un prezzo più vantaggioso attraverso l'acquisto su progetto.
Nella vigenza del testo originario del codice civile, l'impossibilità di procedere alla trascrizione del preliminare, dovuta all'inidoneità di tale contratto a determinare il trasferimento del diritto reale, esponeva il promissario, che avesse in tutto o in parte adempiuto la propria obbligazione, al rischio dell'inadempimento della controparte, dovendo egli soccombere di fronte ad atti dispositivi eventualmente posti in essere da quest'ultima, ovvero ad atti compiuti da terzi in danno della medesima controparte; la trascrizione di questi atti, se intervenuta anteriormente al contratto definitivo, ne rendeva infatti impossibile la stipulazione, precludendo anche l'accoglimento di un'eventuale domanda giudiziale ex art. 2932 c.c. A tale rischio, riconducibile alla normale alea contrattuale, si aggiungeva, nel caso in cui il promittente venditore fosse un imprenditore, quello proprio dell'attività d'impresa, che aumenta notevolmente il pericolo dell'aggressione dei beni da parte di terzi, fino all'ipotesi estrema del fallimento, che, consentendo al curatore di sciogliersi dal vincolo contrattuale (come è avvenuto nella fattispecie in trattazione), costringe il promissario acquirente ad insinuarsi al passivo per ottenere la restituzione delle somme versate e quindi ad assoggettarsi alle regole del concorso, con scarse speranze di ottenere la soddisfazione del proprio diritto, avuto riguardo alla natura chirografaria del credito.
Per evitare questi inconvenienti (ai quali, in passato, poteva ovviarsi esclusivamente attraverso la tempestiva trascrizione di una domanda di esecuzione in forma specifica) è ora riconosciuta la possibilità di tutelare il proprio diritto all'acquisto direttamente mediante la trascrizione del contratto preliminare.
L'efficacia di tale adempimento pubblicitario è disciplinata dai commi secondo e terzo dell'art. 2645 bis, i quali prevedono che, ove entro un anno dalla data convenuta tra le parti, e comunque entro tre anni dalla trascrizione del preliminare, segua la trascrizione del contratto definitivo o di un altro atto che costituisca comunque esecuzione del contratto preliminare, ovvero della domanda giudiziale di cui all'art. 2652, 1° comma, n. 2, gli effetti di tale trascrizione o di quella della sentenza che accoglie la domanda diretta ad ottenere l'esecuzione in forma specifica del contratto preliminare retroagiscono fino alla data della trascrizione di quest'ultimo, prevalendo sulle trascrizioni ed iscrizioni eseguite in data successiva contro il promittente alienante. Tale efficacia è stata definita di “prenotazione” degli effetti tipici della trascrizione del contratto definitivo, e consiste nel fatto che, ove seguita da quest'ultima, la trascrizione del preliminare rende inopponibili al promissario acquirente tutte le iscrizioni o trascrizioni eseguite medio tempore nei confronti del promittente.
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È tuttavia controverso se l'effetto prenotativo renda inopponibili al promissario acquirente le sole formalità pubblicitarie eseguite successivamente nei confronti del promittente alienante in virtù di titoli da lui xxxxxx, ovvero abbia portata generale, estendendosi anche alle trascrizioni di pignoramenti o sequestri ed alle iscrizioni di ipoteche giudiziali.
In riferimento all'ipotesi di fallimento del promittente, l'art. 72, terzo comma, della legge fall., anch'esso introdotto dall'art. 3 del D.L. n. 669 del 1996, esclude infatti la prevalenza del preliminare, confermando la facoltà del curatore di sciogliersi dal contratto, ai sensi del 2° comma del medesimo articolo, e disponendo che in caso di esercizio di tale facoltà l'acquirente ha diritto di far valere il proprio credito nel passivo, senza che gli sia dovuto il risarcimento del danno, e gode del privilegio di cui all'art. 2775 bis c.c., a condizione che gli effetti della trascrizione del contratto preliminare non siano cessati anteriormente alla data della dichiarazione di fallimento. Approssimandoci alla questione in esame, occorre ricordare che, oltre all'efficacia prenotativa, l'art. 3 del D.L. n. 669 del 1996 ha attribuito alla trascrizione del contratto preliminare una peculiare efficacia costitutiva, introducendo nel titolo III del libro VI del codice civile, alla sezione III del capo II, l'art. 2775 bis, il quale, al fine di tutelare i crediti del promissario acquirente derivanti dalla mancata esecuzione del contratto preliminare, dispone al primo comma che essi “hanno privilegio speciale sul bene immobile oggetto del contratto preliminare, sempre che gli effetti della trascrizione non siano cessati al momento della risoluzione del contratto risultante da atto avente data certa, ovvero al momento della domanda giudiziale di risoluzione del contratto o di condanna al pagamento, ovvero al momento della trascrizione del pignoramento o al momento dell'intervento nella esecuzione promossa da terzi”.
La trascrizione del preliminare fa sorgere pertanto, a favore dei crediti del promissario, un privilegio speciale immobiliare, subordinato alla condizione che gli effetti della trascrizione siano ancora in atto al momento in cui si verificano gli eventi che costituiscono causa del credito.
Tale privilegio è collocato al n. 5 dell'ordine stabilito dall'art. 2780 c.c., in particolare dopo quelli che assistono i crediti dello Stato per concessioni di acque (art. 2774) e per tributi indiretti (art. 2772).
Il 2° comma dell'art. 2775 bis prevede che esso “non è opponibile ai creditori garantiti da ipoteca relativa a mutui erogati al promissario acquirente per l'acquisto del bene immobile nonché ai creditori garantiti da ipoteca ai sensi dell'art. 2825 bis”; ossia, ai creditori che abbiano iscritto ipoteca su un edificio o complesso condominiale, anche da costruire o in corso di costruzione, a garanzia di finanziamento dell'intervento edilizio ai sensi degli articoli 38 e seguenti del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385: tale ipoteca, peraltro, prevale sulla trascrizione anteriore del contratto preliminare “limitatamente alla quota di debito derivante dal suddetto finanziamento che il promissario acquirente si sia accollata con il contratto preliminare o con altro atto successivo eventualmente adeguata ai sensi dell'articolo 39, comma 3, del citato decreto legislativo n. 385 del 1993”, con l'ulteriore precisazione che “se l'accollo risulta da atto successivo, questo è annotato in margine alla trascrizione del contratto preliminare”.
Quest'ultima disposizione mira a contemperare la tutela del terzo acquirente con quella dei terzi che abbiano concesso finanziamenti per l'acquisto o la costruzione dell'immobile promesso in vendita, in
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conformità con le finalità perseguite dall'art. 3 del decreto legge n. 669 del 1996, che consistono tra l'altro nel promuovere la realizzazione e l'acquisto della prima casa di abitazione.
Nella prima parte, essa sembra fare riferimento all'ipotesi (piuttosto marginale) in cui il promittente venditore abbia prestato il proprio consenso, prima della stipulazione del contratto definitivo, all'iscrizione di ipoteca sull'immobile promesso in vendita, a garanzia del credito derivante da un mutuo concesso al promissario acquirente: diversamente, infatti, non si spiegherebbe come quest'ultimo possa concedere ipoteca su di un bene del quale non è ancora divenuto proprietario.
Nella seconda parte, invece, la norma si riferisce alle ipoteche concesse dal promittente venditore a garanzia di crediti derivanti dai mutui fondiari accordati da banche concedenti finanziamenti a medio e lungo termine, garantiti da ipoteca di primo grado su immobili, ovvero da ipoteche di grado ulteriore nei casi consentiti dalla Banca d'Italia; in tal caso, la prevalenza dell'ipoteca è subordinata alla condizione che il promissario acquirente si sia accollato il relativo debito, nello stesso preliminare o con atto successivo annotato a margine della trascrizione, ed opera limitatamente alla quota gravante sull'immobile promesso in vendita. Tale condizione trova fondamento nella considerazione che l'opponibilità al promissario dell'ipoteca iscritta successivamente al preliminare è giustificata solo in caso di accollo del mutuo, in quanto egli diviene parte del rapporto derivante dal finanziamento, giovandosi della relativa rateazione ai fini del pagamento del prezzo; qualora invece acquisti senza accollo, pagando il prezzo direttamente al promittente, il promissario rimane estraneo al rapporto tra finanziatore, e finanziato, con la conseguenza che l'ipoteca, iscritta successivamente alla trascrizione del preliminare, non gli è opponibile.
Il privilegio in esame prevale, pertanto, ai sensi dell'art. 2645 bis, sulle ipoteche iscritte in data successiva alla trascrizione del preliminare, escluse quelle previste dall'art. 2825 bis, in quanto tale disposizione stabilisce eccezionalmente la prevalenza delle ipoteche relative a mutui erogati al promissario acquirente, nonché di quelle relative a mutui fondiari erogati al promittente venditore, che il promissario acquirente si sia accollato.
III. - GLI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI MERITO E DELLA DOTTRINA. L'orientamento quasi unanime affermatosi nella giurisprudenza di merito sostiene che le ipoteche delle quali s'è detto siano comunque destinate a cedere in caso di concorso con il privilegio spettante al promissario acquirente. Esso muove dal rilievo secondo cui il concorso tra privilegi ed ipoteche sarebbe regolato esclusivamente dall'art. 2748, 2° comma, non potendo trovare applicazione l'art. 2644, il quale disciplinerebbe, invece, il conflitto tra cause di prelazione e diritti reali di godimento; ciò posto, esso afferma che al principio della prevalenza dei privilegi, sancito dalla predetta disposizione, potrebbe derogarsi soltanto in presenza di un dato normativo chiaro ed inequivocabile, non ravvisabile né nell'art. 2775 bis (il quale, nella parte in cui subordina la nascita del privilegio del promissario acquirente alla trascrizione del preliminare, non introdurrebbe elementi di novità rispetto ad altre fattispecie previste dalla normativa vigente), né nell'art. 2825 bis (il quale, riferendosi alle sole ipoteche iscritte successivamente alla trascrizione del preliminare, non sarebbe applicabile a quelle iscritte in data anteriore).
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L'indirizzo in esame riflette l'opinione espressa dai primi commentatori del decreto-legge n. 669 del 1996, i quali avevano ritenuto insuperabile il dato normativo emergente dall'interpretazione letterale degli artt. 2748, 2° comma, e 2825 bis c.c., escludendo così che le ipoteche iscritte in epoca anteriore alla trascrizione del contratto preliminare potessero prevalere sul privilegio che assiste il credito del promissario acquirente.
All'obiezione secondo cui l'ipoteca prevale sui diritti dei terzi trascritti in epoca successiva all'iscrizione, essi replicavano che ciò accade perché il rapporto tra le cause di prelazione e i diritti reali di godimento è regolato dal principio prior in tempore, potior in jure, esaltato, nel caso di immobili, dalla priorità della relativa pubblicità; nella fattispecie in esame, tuttavia, non vi è un conflitto tra il diritto del promissario di ottenere l'esecuzione specifica del contratto e l'ipoteca del terzo sullo stesso bene oggetto del preliminare, ma un conflitto tra il privilegio speciale del promissario (conseguente alla risoluzione o allo scioglimento del contratto preliminare) e l'ipoteca iscritta sullo stesso bene: si tratterebbe di un conflitto tra cause di prelazione, la cui prevalenza sarebbe disciplinata dalla legge in base ad un principio diverso da quello della priorità cronologica. Ciò spiegherebbe, tra l'altro, perché le ipoteche iscritte in data anteriore alla trascrizione del preliminare siano opponibili all'acquirente in caso di stipulazione del contratto definitivo, mentre risultano inopponibili in caso di mancata esecuzione del preliminare.
Secondo tale orientamento, la deroga al principio della prevalenza dei privilegi, richiesta dall'art. 2748, 2° comma, ai fini dell'opponibilità dell'ipoteca al creditore privilegiato, non può essere desunta dall'art. 2825 bis: tale disposizione, infatti, non ha nulla a che fare con il privilegio di cui all'art. 2775 bis, previsto per il caso di mancata esecuzione del preliminare, in quanto si limita a regolare gli effetti dell'ipoteca fondiaria edilizia sulla trascrizione del preliminare che venga regolarmente eseguito; il 2° comma dell'art. 2775 bis, inoltre, limitando la prevalenza delle ipoteche iscritte successivamente alla trascrizione del preliminare a quelle concesse a garanzia di mutui contratti per la costruzione o per l'acquisto dell'immobile, presupporrebbe che, al di fuori di tali ipotesi, dette ipoteche siano destinate a cedere nel concorso con il privilegio, e sarebbe quindi applicabile, a maggior ragione, alle ipoteche iscritte in data anteriore.
All'obiezione secondo cui tale opinione, favorendo il promissario acquirente a scapito degli interessi dei creditori ipotecari, si sarebbe ripercossa negativamente sui rapporti tra le imprese costruttrici e le aziende di credito, scoraggiando queste ultime dal concedere finanziamenti per la costruzione di immobili, in contrasto con le finalità che la legge intendeva perseguire, si replica che il senso della nuova disciplina consisteva anche nel responsabilizzare il ceto bancario, dissuadendolo da un'eccessiva disinvoltura nell'erogazione del credito fondiario. Troppo spesso, intatti, le banche, nel concedere finanziamenti per la costruzione di immobili, fanno affidamento, ai fini della restituzione, più sul valore dei beni concessi in garanzia che sulla solidità complessiva dell'impresa mutuataria, confidando di poter agevolmente procedere al recupero del credito anche in caso di fallimento della stessa, con evidente pregiudizio per le ragioni degli altri creditori. La postergazione dei crediti ipotecari a quello del promissario acquirente le costringerebbe invece a verificare preventivamente la capacità dell'impresa di far fronte alle proprie obbligazioni, avvalendosi di quegli strumenti di controllo di cui esse dispongono in misura più ampia ed incisiva di ogni altro creditore.
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Sotto un diverso profilo, si riconosce che, una volta ovviatosi, mediante la previsione della trascrivibilità del preliminare, al pericolo che il diritto al trasferimento dell'immobile sia vanificato da atti dispositivi compiuti dal promittente venditore o da atti di aggressione del suo patrimonio posti in essere da terzi prima della stipulazione del definitivo, l'attribuzione di un rango privilegiato ai crediti del promissario nascenti dalla mancata esecuzione del contratto si traduce in una tutela eccessiva, quanto meno in riferimento all'ipotesi in cui, pur potendo ottenere l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrarre, egli abbia optato per la tutela risarcitoria.
In ogni caso, anche coloro i quali sono disposti ad ammettere che la prevalenza del privilegio determina un'ingiustificata disparità di trattamento nei confronti dei creditori che abbiano iscritto ipoteca in data anteriore alla trascrizione del preliminare, ritengono che a tale inconveniente possa ovviarsi esclusivamente attraverso una declaratoria di incostituzionalità della norma in esame, o mediante un intervento chiarificatore del legislatore.
La dottrina più recente ritiene invece che la questione possa essere risolta anche in via interpretativa, avvalendosi dei principi sui cui si fonda la pubblicità immobiliare e di una pluralità di elementi emergenti dalla stessa disciplina in materia. Essa sottolinea la natura “iscrizionale” o “trascrizionale” del privilegio in questione, il cui concorso con le ipoteche iscritte sull'immobile promesso in vendita deve considerarsi disciplinato dall'art. 2644 c.c., non essendo il privilegio accordato esclusivamente in ragione della causa del credito, ma essendo condizionato alla trascrizione del contratto preliminare ed alla sua perdurante efficacia. A sostegno di tale orientamento, sono state sottolineate anche le anomalie che l'opposta tesi introdurrebbe nel sistema delle cause di prelazione, osservandosi da un lato che in caso di stipulazione del contratto definitivo le ipoteche iscritte successivamente alla trascrizione del preliminare sono opponibili all'acquirente, dall'altro che nell'ordine dei privilegi quello previsto dall'art. 2775 bis è collocato successivamente a quelli di cui agli artt. 2772 e 2774 c.c., i quali non sono esercitabili in pregiudizio dei diritti precedentemente acquisiti dai terzi. Sono stati infine evidenziati i gravi abusi cui potrebbe condurre una rigida applicazione dell'art. 2748 cit., la quale consentirebbe al promittente venditore di sottrarre l'immobile alla garanzia dei propri creditori ipotecari, mediante la simulazione di un preliminare di compravendita con un promissario compiacente, cui potrebbe far seguito la risoluzione del contratto, con la conseguenza che, in sede di esecuzione forzata, i crediti restitutori e risarcitori del promissario dovrebbero essere soddisfatti con precedenza rispetto a quelli dei creditori ipotecari.
Alle medesime conclusioni un'autorevolissima dottrina è pervenuta sulla base di un diverso percorso argomentativo, che muove dalla qualificazione del preliminare di compravendita come vendita ad effetti obbligatori, dalla quale sorge a carico del promittente un'obbligazione di dare e dall'affermazione dell'autonomia di tale contratto rispetto al definitivo, ricollegando alla sua trascrizione l'efficacia tipica di cui all'art. 2644 c.c., per sostenere che tale efficacia si estende anche al privilegio che assiste i crediti del promissario acquirente, il cui concorso con le ipoteche iscritte in data anteriore deve pertanto ritenersi disciplinato dal principio della priorità cronologica. L'aspetto più suggestivo di questa dottrina è rinvenibile nell'attribuzione al promissario acquirente di un jus ad rem (non di un mero jus in persona) e nella riconduzione del rapporto tra preliminare e definitivo (non come rapporto tra due contratti distinti ed autonomi, ciascuno dotato di una propria causa) al modello tedesco della distinzione tra titulus e modus adquirendi, con la conseguenza che la stipulazione del definitivo non comporta l'assorbimento del preliminare né rende irrilevanti i vizi che lo inficiano, i quali risultano anzi idonei ad
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incidere, attraverso la caducazione del contratto cui afferiscono, sulla stessa trascrizione del contratto definitivo. La riprova sarebbe costituita proprio dalla trascrivibilità del preliminare, il cui effetto di opponibilità trova giustificazione nella natura del diritto che da esso scaturisce per il promissario acquirente, mentre la limitazione temporale di tale effetto si giustificherebbe con l'efficacia obbligatoria del contratto.
IV. - LA SOLUZIONE DELLA QUESTIONE.
Sulla scorta di tutto quanto premesso è ora possibile passare alla soluzione del quesito, subito anticipando che le sezioni unite intendono disattendere il precedente orientamento espresso dalla menzionata Cass. n. 17197 del 2003, attraverso una trattazione concernente il generale problema della regola di conflitto tra cause di prelazione, al di là della specifica ipotesi (della quale pure si dirà) del credito fondiario, disciplinata dagli artt. 2775 bis, 2° comma, e 2825 bis c.c.
Il ragionamento parte dalla premessa che l'art. 2748 c.c., allorquando nel secondo comma stabilisce che i creditori muniti di privilegio sui beni immobili sono preferiti ai creditori ipotecari “se la legge non dispone diversamente”, fa riferimento ad una deroga non necessariamente contenuta in un esplicito precetto, ma che può e deve essere individuata nell'ordinamento nel suo complesso, attraverso la lettura e l'interpretazione normativa che tenda all'armonioso coordinamento dello specifico istituto in trattazione con l'intero sistema; così da evitare applicazioni ermeneutiche settoriali che, sebbene compatibili con il microsistema nel quale le disposizioni sono inserite, finiscano con lo stridere rispetto al complesso della materia nelle quali le norme stesse esplicano il proprio effetto. Xxxxxxxx sforzo interpretativo si impone con ancora maggior impegno quando (come nel caso di specie) le norme esaminate non appartengono all'originaria impostazione codicistica, ma sono frutto di una successiva interpolazione legislativa, mossa da esigenze sociali ed economiche via via emerse nella realtà giuridica dei commerci.
Espresse norme derogatrici alla regola del secondo comma dell'art. 2748 c.c. sono rinvenibili nel quarto comma dell'art. 2772 e nel secondo comma dell'art. 2774: il privilegio che assiste i crediti dello Stato per tributi indiretti o per canoni di concessione di acque non si può esercitare in pregiudizio dei diritti che i terzi hanno anteriormente acquistato sugli immobili. Deroga ispirata, dunque, alla diversa regola della prevalenza in base alla data di trascrizione o di iscrizione.
Nel nostro caso una espressa norma derogatoria al precetto stabilito dalla prima parte del secondo comma dell'art. 2748 c.c. non esiste, ma, come si vedrà, l'organica analisi dell'intero quadro normativo disciplinante la materia consente di affermare che i creditori muniti dello speciale privilegio del quale trattiamo non sono preferiti ai creditori muniti di ipoteca iscritta precedentemente al sorgere del privilegio stesso, secondo una ricostruzione che, come s'è detto, prescinde dalla specifica ipotesi (disciplinata dal secondo comma dell'art. 2275 bis, in relazione all'art. 2825 bis) del privilegio che assiste il credito per il finanziamento dell'intervento edilizio.
Occorre innanzitutto porre nel giusto rilievo che il privilegio che assiste il credito del promissario acquirente, conseguente alla (eventuale) mancata esecuzione del contratto preliminare trascritto, non si ricollega esclusivamente alla causa del credito (come prescrive la prima parte dell'art. 2745 c.c.) ma la sua costituzione necessariamente presuppone la trascrizione del contratto preliminare ai sensi dell'art. 2645 bis; rientrando,
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dunque, nella categoria dei privilegi la cui costituzione, come consentito dalla seconda parte dell'art. 2745 c.c., è subordinata ad una particolare forma di pubblicità. Peraltro, esso assiste il credito a condizione che gli effetti della menzionata trascrizione non siano cessati a determinati momenti (quello della risoluzione del contratto, oppure della domanda giudiziale della risoluzione, oppure della trascrizione del pignoramento, oppure ancora dell'intervento nell'esecuzione promossa da terzi).
Siffatto privilegio (come molti altri introdotti nel tempo dal legislatore in specifici settori) si aggiunge ai privilegi speciali immobiliari previsti dal codice agli artt. da 2770 a 0000, xx xx xx differenzia perché non è posto, come questi, a tutela di interessi pubblici, bensì a tutela dell'interesse meramente privato del promissario acquirente.
Occorre a riguardo ricordare che gli originari privilegi speciali codicistici costituiscono il retaggio delle antiche ipoteche privilegiate, le quali venivano preferite alle ipoteche normali in ragione della particolare natura pubblica degli interessi protetti in via preferenziale. Di qui la regola di conflitto secondo cui siffatti privilegi prevalgono sulle ipoteche, anche se iscritte prima del loro sorgere. Regola oggi consacrata nel secondo comma. dell'art. 2748
c.c. e già contenuta nell'art. 1953 del codice del 1865 (benché senza l'espressa riserva che prevede il vigente testo normativo).
Autorevolissima dottrina spiega che la via scelta dal legislatore nel secondo comma dell'art. 2748 è la più conforme all'indole del privilegio, che, assistendo crediti normalmente incidenti sul processo di produzione o di valorizzazione di una cosa, deve necessariamente essere anteposto all'ipoteca. In altri termini, la ragione della maggior parte dei privilegi va ricercata nella particolare inerenza economica di alcuni crediti alla cosa gravata, la quale spiega anche la preferenza dei creditori privilegiati sui creditori forniti di garanzia reale: poiché questi ultimi acquistano un diritto al valore di scambio della cosa, sono necessariamente posposti a coloro i quali, mediante l'erogazione di energie di lavoro o di utilità dal cui corrispettivo sorge il credito, hanno contribuito alla creazione, alla conservazione o all'incremento del valore medesimo.
La stessa dottrina avvisa pure che queste considerazioni rilevano ai fini interpretativi della concreta applicazione delle norme positive e che sarebbe assurdo escludere dal novero dei privilegi le figure che hanno il presupposto in forme di pubblicità, solo perché ad esse non si applica il brocardo secondo cui privilegia non ex tempora estimantur (ossia la regola trasfusa nel secondo comma dell'art. 2748). Ponendo, così, in evidenza che, per un verso, la qualifica di “privilegio” non necessariamente comporta l'applicazione del principio secondo cui esso prevale sull'ipoteca precedentemente iscritta e che, per altro verso, l'applicazione delle ordinarie regole sulla pubblicità non consente di escludere la particolare qualifica di “privilegio” al tipo di prelazione trattato.
Il privilegio del quale si discute esplica i suoi effetti in una vicenda specularmente opposta a quella summenzionata. Esso non assiste un credito che incide sul processo di produzione o di valorizzazione della cosa (piuttosto, siffatta incidenza appartiene al credito del finanziatore dell'opera), bensì il credito del promissario acquirente che acquista il diritto al valore di scambio della cosa, e la sua costituzione è subordinata ad un preciso onere pubblicitario, così come la sua esistenza è collegata al perdurare degli effetti della pubblicità.
Ne consegue che, relativamente ad esso, non vige la regola della prevalenza dei privilegi sulle ipoteche, bensì quella del prior tempore potior in jure che pervade di sé l'intero sistema della pubblicità, facendone conseguire che l'ipoteca trascritta prima della costituzione del privilegio debba su quest'ultimo prevalere.
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Alcuni autori hanno rilevato l'assimilabilità di siffatto tipo di prelazione all'ipoteca legale, ponendo in evidenza che, nella materia trattata, sarebbe stato preferibile che il legislatore avesse previsto non un privilegio speciale, bensì un'ipoteca legale; tant'é che in altre esperienze normative (come quella francese: cfr. l'art. 2106 code civil) è previsto che i privilegi speciali sugli immobili sono opponibili agli altri creditori solo dopo che siano stati iscritti nella conservatoria delle ipoteche e secondo le modalità previste per quella forma di pubblicità.
Le caratteristiche del privilegio in esame assumono un rilievo determinante, distinguendolo tanto dagli altri privilegi speciali immobiliari, la cui nascita non è condizionata ad un adempimento pubblicitario avente efficacia costitutiva, quanto dagli altri privilegi iscrizionali, che hanno ad oggetto beni mobili; rispetto a questi ultimi, ovviamente, il problema del concorso con altre cause di prelazione aventi natura trascrizionale non si pone, ma per il caso in cui concorrano più privilegi la legge prevede espressamente che il conflitto vada risolto in base alla regola della priorità della trascrizione (art. 2762, ultimo comma, c.c.); per i primi, invece, pur valendo la regola secondo cui il privilegio prevale sulle ipoteche, la legge stabilisce, in riferimento a casi in cui la prelazione è accordata per un interesse non individuale, che essa non possa essere esercitata in pregiudizio dei diritti che i terzi hanno anteriormente acquistato sugli immobili (si tratta dei già menzionati artt. 2772, quarto comma, e 2774, secondo comma, c.c.). A maggior ragione deve, quindi, affermarsi che un privilegio accordato in funzione di un interesse individuale, la cui nascita è subordinata all'adempimento di una formalità pubblicitaria, sia destinato a cedere, nel concorso con cause di prelazione precedentemente iscritte.
In quest'ordine di idee è riduttivo ed avulso dalla visione sistematica dell'istituto fare una formalistica applicazione della regola di conflitto dettata nel secondo comma dell'art. 2748 c.c., per ammettere categoricamente che qualunque genere di privilegio speciale immobiliare (compreso quello previsto a favore del promissario acquirente) prevalga sull'ipoteca (qualunque ipoteca, non solo quella che assiste il credito del finanziatore), benché questa sia stata iscritta prima del nascere del privilegio.
A questo punto occorre fare alcune precisazioni in ordine ad una serie di ricostruzioni che sono state operate per pervenire al medesimo risultato al quale qui si perviene.
In primo luogo occorre chiarire che la regola di conflitto tra privilegio ed ipoteca precedentemente iscritta non può essere rinvenuta nell'art. 2645 bis, 2° comma, c.c., il quale stabilisce la prevalenza del contratto definitivo sulle trascrizioni e le iscrizioni eseguite contro il promittente alienante dopo la trascrizione del contratto preliminare. Espressione, questa, del già menzionato effetto prenotativo della trascrizione del contratto preliminare ed attuazione della generalissima regola dell'art. 2644 c.c.
Neppure giova il richiamo alla specifica regola di conflitto tra cause di prelazione contenuta nel secondo comma dell'art. 2775 bis, il quale prevede due categorie di creditori ai quali il privilegio concesso in favore del promissario acquirente non è opponibile: a) quelli garantiti da ipoteca relativa a mutui erogati al promissario acquirente per l'acquisto del bene immobile; b) quelli garantiti da ipoteca ai sensi dell'art. 2825 bis.
Quanto all'ipotesi sub a) non è il caso di dilungarsi, pur dovendosi segnalare che tutti i commentatori hanno rilevato l'oscurità di una disposizione che sembrerebbe ammettere che il promissario, per effetto del preliminare, possa iscrivere ipoteca a garanzia dei suoi debiti su un bene non ancora di sua proprietà, in deroga dunque all'art.
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2822 c.c. Sta di fatto, comunque, che, nell'ipotesi delineata, il conflitto è risolto nel senso che l'ipoteca a favore del mutuante prevale sul privilegio a favore del promissario acquirente, a prescindere dalla circostanza che la garanzia reale sia stata iscritta prima o dopo la costituzione del privilegio.
Quanto alla ipotesi sub b) - quella che maggiormente interessa - occorre tener conto della disposizione dell'art. 2825 bis, richiamata dall'art. 2775 bis. Essa prevede (come s'è già visto in precedenza) che l'ipoteca iscritta sull'edificio (costruito o costruendo) a garanzia del finanziamento dell'intervento edilizio (ai sensi degli artt. 38 e segg. del D.Lgs. n. 385 del 1993) prevale sulla trascrizione anteriore del contratto preliminare, limitatamente alla quota accollatasi dal promissario acquirente. In altri termini, benché iscritta successivamente alla trascrizione del preliminare, siffatta ipoteca prevale sul privilegio concesso a garanzia dei crediti vantati dal promissario acquirente nei confronti del promittente venditore. Risultando, così, risolto il problema del frazionamento del credito fondiario assistito da ipoteca che s'era posto nella precedente giurisprudenza ed attuato il favore del legislatore (del quale prima s'è detto) per i crediti incidenti sul processo di produzione o di valorizzazione della cosa.
Ora, le disposizioni correlate costituiscono un ulteriore sottosistema nell'ambito del sottosistema della trascrizione del contratto preliminare. Nel senso che l'art. 2775 bis, 2° comma, non si occupa dei problema di ordine generale del rapporto tra privilegio a favore del promissario ed ipoteca iscritta contro il promittente, ma solo del rapporto tra privilegio ed ipoteca inerenti all'operazione di credito fondiario, disponendo l'inopponibilità del privilegio a due specifiche categorie di creditori ipotecari.
Ne consegue che il richiamo a queste disposizioni non è utile a fondare la più generale regola di conflitto della quale s'è detto e che, soprattutto, le disposizioni stesse non possono essere indicate né come la deroga al principio del secondo comma dell'art. 2748 (da parte di chi ritiene che l'inopponibilità del privilegio alle ipoteche successive presuppone, a maggior ragione, l'inopponibilità a quelle precedenti), né come la conferma al principio stesso (da parte di chi ritiene che il legislatore abbia voluto limitare l'inopponibilità del privilegio alle sole ipoteche successive e non anche alle precedenti).
L'interpretazione sin qui offerta, nel ricondurre la normativa speciale nell'alveo del sistema, risolve anche una serie di discrasie segnalate da quella dottrina che ha contrastato l'opposta soluzione.
Affermare la prevalenza del privilegio sulle ipoteche iscritte anteriormente alla trascrizione del preliminare comporterebbe, infatti, un'ingiustificata disparità di trattamento a seconda che il preliminare abbia o meno esecuzione: tali ipoteche, che in caso di stipulazione del contratto definitivo sono opponibili all'acquirente (in base al principio dell'anteriorità stabilito dall'art. 2644 c.c.), in caso di inadempimento dell'obbligo di contrarre diverrebbero a lui inopponibili, per effetto del privilegio nascente dalla stessa trascrizione del preliminare, con evidente sovvertimento della regola posta dall'ultima menzionata disposizione. Xxxxxx, altresì, conto di un'altra praticissima ma per nulla irrilevante considerazione: ossia, che il promissario, nel momento in cui stipula il preliminare ha contezza dell'esistenza dell'iscrizione ipotecaria sul bene che va ad acquistare; diversamente, il creditore (nel caso nostro il finanziatore) che abbia sin dall'inizio dell'operazione iscritto ipoteca a garanzia del suo credito sul medesimo immobile finirebbe (seguendo l'opposta tesi) con il
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vedere il suo credito posposto rispetto ad una serie indefinita ed indefinibile di crediti di promissari acquirenti (muniti di crediti privilegiati) susseguitisi nel commercio dello stesso bene.
Tant'è che non è infondato l'allarme lanciato da chi ha rilevato che l'asserita prevalenza del privilegio sulle ipoteche iscritte anteriormente alla trascrizione del contratto preliminare potrebbe costituire fonte di gravi abusi e di accordi fraudolenti tra il promittente venditore e il promissario acquirente, volti a vanificare la possibilità di soddisfacimento dei crediti garantiti dalle predette ipoteche.
Il proprietario di un immobile gravato da ipoteca potrebbe, infatti, agevolmente sottrarre il bene alla garanzia del proprio creditore, simulando un preliminare di compravendita con un soggetto compiacente, dichiarando di aver ricevuto l'intero corrispettivo e poi risolvendo il contratto, in quanto in sede di esecuzione forzata il credito del promissario acquirente per la restituzione del prezzo versato sarebbe collocato con grado poziore rispetto a quello ipotecario del creditore, che rimarrebbe pertanto insoddisfatto.
Infine, essendo il privilegio in questione collocato all'ultimo posto nell'ordine stabilito dall'art. 2780 (e quindi dopo quelli riconosciuti ai crediti dello Stato per concessioni di acque e tributi indiretti, i quali non possono essere esercitati in pregiudizio delle ipoteche precedentemente iscritte da terzi), l'accoglimento della diversa opinione determinerebbe un circolo vizioso, rendendo impossibile stabilire l'ordine delle cause di prelazione in caso di concorso dei privilegi di cui agli artt. 2772 e 2774 con quello di cui all'art. 2775 bis e con ipoteche anteriori.
V - LE CONCLUSIONI.
In conclusione, deve essere enunciato il seguente principio:
Il privilegio speciale sul bene immobile, che assiste (ai sensi dell'art. 2775 bis c.c.) i crediti del promissario acquirente conseguenti alla mancata esecuzione del contratto preliminare trascritto ai sensi dell'art. 2645 bis c.c., siccome subordinato ad una particolare forma di pubblicità costitutiva (come previsto dall'ultima parte dell'art. 2745 c.c.), resta sottratto alla regola generale di prevalenza del privilegio sull'ipoteca, sancita, se non diversamente disposto, dal secondo comma dell'art. 2748 c.c. e soggiace agli ordinari principi in tema di pubblicità degli atti. Ne consegue che, nel caso in cui il curatore del fallimento della società costruttrice dell'immobile scelga (come nella specie) lo scioglimento del contratto preliminare (ai sensi dell'art. 72 legge fall.), il conseguente credito del promissario acquirente (nella specie, per la restituzione della caparra versata contestualmente alla stipula del contratto preliminare), benché assistito da privilegio speciale, deve essere collocato con grado inferiore, in sede di riparto, rispetto a quello dell'istituto di credito che, precedentemente alla trascrizione del contratto preliminare, abbia iscritto sull'immobile stesso ipoteca a garanzia del finanziamento concesso alla società costruttrice.
(omissis)
1.5 Il preliminare di vendita di immobile abusivo
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Cassazione, sentenza del 17 ottobre 2013, n. 23591: nullità del contratto preliminare di vendita di immobile irregolare dal punto di vista urbanistico ex art. 40. Comma 2, l.n. 47/1985
Motivi del ricorso
1. I motivi del ricorso.
1.1. Col primo motivo viene dedotta 'violazione e/o falsa applicazione dell'art. 15 L. 10/77, e degli artt. 17 e 40 della L. 47/85'.
Ha errato la Corte di Appello a non ritenere applicabili le norme di cui all'art. 15 della L. 10/77 ed agli artt. 17 e
40 della L. 47/85 non potendosi qualificare mera difformità la realizzazione di un intero appartamento (mansarda), posto che solo questo era oggetto della compravendita e non tutto l'immobile condominiale, pure eseguito sulla base di una licenza edilizia.
Viene formulato il seguente quesito: 'Il principio secondo cui l'art. 15 della L. 10/77 egli artt. 17 e 40 della
L. 47/85 sono applicabili alle opere realizzate abusivamente, e non a quelle realizzate in difformità, va valutato in relazione all'oggetto della compravendita. Se l'oggetto della compravendita sia costituito da una singola unità immobiliare realista abusivamente, deve ritenersi che la compravendita riguarda un immobile abusivo, a nulla rilevando se la restante parte dell'edificio sia stata realizzata in virtù di regolare licenza edilità'.
1.2 Col secondo motivo viene dedotta la 'violazione e/o falsa applicazione (sotto altro profilo) dell'art. 15 L. 10/77, e degli arti. 17 e 40 della L. 47/85'.
La Corte di Appello, ritenendo che le norme non erano applicabili in caso di difformità, ha poi omesso di valutare nel merito le doglianze oggetto dell'appello incidentale.
In più, le motivazioni addotte dalla Corte d'Appello risultano censurabili sotto altro aspetto. La Legge 47/85, per contrastare il fenomeno dell'abusivismo edilizio, ha sancito la nullità degli atti di compravendita dei fabbricati abusivi, tanto da prevedere la nullità anche solo per la mancata indicazione degli estremi della concessione, ove in effetti esistente. A maggior ragione, quindi, l'atto è nullo se l'immobile è abusivo e gli estremi della concessione sono fittizi. Ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. viene formulato il seguente quesito di diritto: 'Gli artt. 17 e 40 della L.
n. 47 prevedono non solo una nullità formale o testuale legata alla mancanza delle prescritte indicazioni e sanabile con atto successivo, ma anche una nullità sostanziale legata alla carenza della licenzia o concessione edilizia od alla assenza della domanda di concessione in sanatoria e del versamento della prescritta oblazione. È
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nullo l'atto di compravendita di una unità immobiliare realizzata abusivamente: - se gli estremi della licenza o concessione edilizia riportati nell'atto non sono veritieri; - se nell'atto sono stati riportati gli estremi di una licenza edilizia rilasciata per la realizzazione eli altre unità immobiliari; - se la unità immobiliare oggetto di compravendita è stata realizzata abusivamente dopo i lavori di costruzione del fabbricato assentito con la licenza o concessione edilizia richiamata nell'atto'.
(omissis)
2. Il ricorso è fondato e va accolto quanto ai primi due assorbenti motivi.
La questione delle conseguenze dell'alienazione di immobili affetti da irregolarità urbanistiche, non sanate o non sanabili, è stata finora risolta nella giurisprudenza di questa Corte sul piano dell'inadempimento. Ad esempio, la sentenza 22 novembre 2012 n. 20714 ha affermato che, in tema di vendita di immobili, il disposto dell'art. 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, consentendo la stipulazione, ove risultino presentata l'istanza di condono edilizio e pagate le prime due rate di oblazione, esige che la domanda in sanatoria abbia i requisiti minimi per essere presa in esame dalla P.A. con probabilità di accoglimento. In tal caso occorre l'indicazione precisa della consistenza degli abusi sanabili, presupposto di determinazione della somma dovuta a titolo di oblazione, nonché la congruità dei relativi versamenti, in difetto delle quali il promittente venditore è inadempiente e il preliminare di vendita può essere risolto per sua colpa.
Nello stesso ordine di idee la sentenza 19 dicembre 2006 n. 27129 ha affermato che in caso di preliminare di vendita di immobile costituisce inadempimento di non scarsa importanza, tale da giustificare il recesso dal contratto del promittente acquirente e la restituzione del doppio della caparra versata, il comportamento del promittente alienante che prometta in vendita un immobile abusivo per il quale non esiste alcuna possibilità di regolarizzazione.
Ancora più esplicitamente la sentenza 24 marzo 2004 n. 5898 ha affermato che il difetto di regolarità sostanziale del bene sotto il profilo urbanistico non rileva di per se ai fini della validità dell'atto di trasferimento, trovando rimedio nella disciplina dell'inadempimento contrattuale.
In tale ottica è stata esclusa la nullità dei contratti aventi ad oggetto immobili, nel caso in cui le dichiarazioni previste dagli artt. 17 o 40 della legge n. 47 del 1985 esistano ma non siano conforme al vero.
La recentissima sentenza 5 luglio 2013 n. 16876, pur ritenendo interessante la tesi della c.d. nullità sostanziale, ha affermato che i canoni normativi dell'interpretazione della legge non consentono di attribuire al testo normativo un significato che prescinda o superi le espressioni formali in cui si articola e non può non essere considerato il fatto che i casi di nullità previsti dalla norma indicata sono tassativi e non estensibili per analogia e la nullità prevista dall'art. 40 in discorso è costituita unicamente dalla mancata indicazione degli estremi della licenza edilizia, ovvero dell'inizio della costruzione prima del 1967.
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In precedenza la sentenza 7 dicembre 2005 n. 26970 (che cita come conforme la sentenza 24 marzo 2004 n. 5898, che peraltro si è occupata della nullità prevista dall'art. 15, settimo comma, 1. 28 gennaio 1977, n. 10) ha affermato che la nullità prevista dagli artt. 17 e 40, cit., assolve la sua funzione di tutela dell'affidamento sanzionando specificamente la sola violazione di un obbligo formale, imposto al venditore al fine di porre l'acquirente di un immobile in condizione di conoscere le condizioni del bene acquistato e di effettuare gli accertamenti sulla regolarità del bene attraverso il confronto tra la sua consistenza reale e quella risultante dalla concessione edilizia ovvero dalla domanda di concessione in sanatoria. Alla rigidità della previsione consegue che, come non può essere attribuita alcuna efficacia sanante all'esistenza della concessione o sanatoria che non siano state dichiarate nel contratto di compravendita di un immobile, così, in presenza della dichiarazione, nessuna invalidità deriva al contratto dalla concreta difformità della realizzazione edilizia dalla concessione o dalla sanatoria e, in generale, dal difetto di regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del rispetto delle norme urbanistiche.
Non è ben chiaro il pensiero della sentenza 18 settembre 2009 n. 20258, che, dopo avere espressamente affermato che nessuna invalidità deriva al contratto dalla difformità della realizzazione edilizia rispetto alla licenza o alla concessione, e in generale, dal difetto di regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del rispetto delle norme urbanistiche, ha poi aggiunto che la nullità assoluta ai sensi dell'art. 1418 cod. civ. stabilita dalla legge n. 47 del 1985, art. 40, riguarda gli atti di trasferimento immobiliari relativi a costruzioni risultanti non in regola con la normativa edilizia per mancanza della concessione edilizia ovvero della concessione in sanatoria e mira ad attrarre nella comminatoria di nullità (o, trattandosi di giudizio volto ad ottenere una sentenza di trasferimento coattivo ex art. 2932 c.c., nell'impedimento alla pronuncia sostitutiva del negozio non concluso) i casi riguardanti immobili costruiti in maniera così diversa dalla previsione contenuta nella licenza o nella concessione da non potere essere ricondotti alla stessa.
Ugualmente non è ben chiaro il pensiero della sentenza 5 aprile 2001 n. 5068, la quale, dopo avere premesso che l'art. 40, cit., non impone anche la verifica della conformità delle opere realizzate al progetto approvato dalla p.a., poiché il precetto e la relativa sanzione sono stati previsti esclusivamente per l'ipotesi della mancata indicazione della concessione edilizia, aggiunge che la norma in esame vuoi evitare l'ipotesi, agevolmente accettabile anche in sede di stipula, di negoziazione di beni immobili realizzati senza concessione edilizia; per l'altra ipotesi, accertabile solo a seguito di verifiche dei competenti organi tecnici della p.a., l'ordinamento non resta indifferente, reagendo con sanzioni di diversa natura e solo quando, essendo stata accertata già la difformità, nell'atto concernente il bene realizzato in difformità non siano stati indicati ai sensi dello stesso art. 40, secondo xxxxx, gli estremi della concessione in sanatoria, anche con la sanzione di nullità. Lo stesso può dirsi per la sentenza 15 giugno 2000 n. 8147, per la quale l'indicazione degli estremi della concessione sarebbe preclusa nel caso in cui tale concessione manchi: per tale via l'irregolarità dell'immobile, finisce per riflettersi sulla validità del negozio giuridico che lo riguarda. In definitiva l'irregolarità del bene non rileva di per sé, ma solo in quanto preclude la conferma dell'atto. Si può, infatti, osservare che, da un lato, l'irregolarità urbanistica del bene non impedisce che nell'atto di alienazione ne venga attestata, contrariamente al vero, la regolarità, e che, dall'altro, nell'ottica della nullità
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formale, la irregolarità urbanistica del bene non impedisce la conferma dell'atto nullo per la mancata indicazione degli estremi della concessione attraverso la successiva loro falsa indicazione.
Riesaminata la questione, ritiene il collegio che tali contratti siano da considerare nulli.
Tale conclusione appare giustificata da considerazioni sia logiche che basate sulla stessa formulazione dell'art. 40, della legge citata.
Sotto il primo profilo occorre considerare che se lo scopo perseguito dal legislatore era quello di rendere incommerciabili gli immobili non in regola dal punto di vista urbanistico, sarebbe del tutto in contrasto con tale finalità la previsione della nullità degli atti di trasferimento di immobili regolari dal punto di vista urbanistico o per i quali è in corso la pratica per la loro regolarizzazione per motivi meramente formali, consentendo, invece, il valido trasferimento di immobili non regolari, lasciando eventualmente alle parti interessate assumere l'iniziativa sul piano dell'inadempimento contrattuale. Addirittura si potrebbe prospettare la possibilità per le parti di eludere consensualmente lo scopo perseguito dal legislatore, stipulando il contratto e poi immediatamente dopo concludendo una transazione con la quale il compratore rinunzi al diritto a far valere l'inadempimento della controparte.
Sempre sotto il primo profilo non si può non considerare che il legislatore, con la legge n. 47 del 1985 ha inteso prevedere un regime più severo di quello previsto dall'art. 15 legge 1977 n. 10, il quale prevedeva la nullità degli atti giuridici aventi per oggetto unità edilizie costruite in assenza di concessione, ove da essi non risultasse che l'acquirente era a conoscenza della mancata concessione. Tale inasprimento, invece, sarebbe da escludere ove, per gli atti in questione, all'acquirente dovesse essere riconosciuta la sola tutela prevista per l'inadempimento.
Per quanto riguarda la lettera della legge, poi, l'art. 40, secondo comma, della legge n. 47 del 1985 stabilisce testualmente che “Gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali... relativi ad edifici o loro parti sono nulli e non possono essere rogati se da essi non risultano, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria ai sensi dell'art. 31 ovvero se agli stesi non viene allegata la copia per il richiedente della relativa domanda, munita degli estremi della avvenuta presentazione, ovvero copia autentica di uno degli esemplari della domanda medesima e non siano indicati gli estremi dell'avvenuto versamento delle prime due rate dell'oblazione”.
La non perfetta formulazione della disposizione in questione consente tuttavia di affermare che dalla stessa è desumibile il principio generale della nullità (di carattere sostanziale) degli atti di trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica, cui si aggiunte una nullità (di carattere formale) per gli atti di trasferimento di immobili in regola con la normativa urbanistica o per i quali è in corso la regolarizzazione, ove tali circostanze non risultino dagli atti stessi. Significativa appare, poi, la formulazione del terzo comma dell'art. 40, cit., in base al quale se la mancanza delle dichiarazioni o dei documenti rispettivamente da indicarsi o da allegarsi (ai sensi del comma precedente) non sia dipesa dall'insussistenza della licenza o della concessione o dalla inesistenza della domanda di concessione in sanatoria al tempo in cui gli atti medesimi sono stati stipulate... essi possono essere confermati anche da una sola delle parti mediante atto successivo, redatto nella stessa forma del precedente, che contenga la menzione omessa o al quale siano allegate la dichiarazione sostitutiva di atto notorio o la copia della domanda indicata nel comma precedente.
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La previsione che la conferma, la quale sottrae alla sanzione della nullità, può operare solo se la mancanza delle dichiarazioni o dei documenti contemplati non sia dipesa dall'insussistenza della licenza o della concessione o dall'inesistenza della domanda di concessione in sanatoria al tempo in cui gli atti medesimi sono stati stipulati, non avrebbe senso se tali atti fossero ab origine validi, ferma restando la responsabilità per inadempimento del venditore.
Una volta chiarito tale punto, non può non pervenirsi all'affermazione della nullità di un contratto preliminare che abbia ad oggetto la vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico.
Il fatto che l'art. 40, secondo xxxxx, cit., faccia riferimento agli atti di trasferimento, cioè agli atti che hanno una efficacia reale immediata, mentre il contratto preliminare di cui si discute abbia efficacia semplicemente obbligatoria non elimina dal punto di vista logico che non può essere valido il contratto preliminare il quale abbia ad oggetto la stipulazione di un contratto nullo per contrarietà alla legge.
(omissis)
Cassazione, sentenza del 19 dicembre 2013, n. 28456: inapplicabilità dell’art. 40, l.n. 47/1985, ai contratti ad efficacia obbligatoria
All. 1
Responsabilità precontrattuale
Cass. sez. II, sentenza del 10 gennaio 2013, n. 477: la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione
Motivi della decisione
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1. Con i motivi dal primo al quarto la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 1337 cod. civ., e comunque il difetto di motivazione.
1.1. Più in particolare, con il primo motivo la ricorrente lamenta che la Corte d'Appello non abbia valutato il comportamento della Regione come unitario, senza distinzione tra le due fasi, e preordinato a preferire l'offerta di Habitat s.p.a.; in ogni caso, la Corte territoriale non avrebbe considerato che la Regione, da un lato, aveva annullato la propria precedente delibera di affidamento adottata nel 1998, senza peraltro comunicare tale nuovo provvedimento, e aveva poi deliberato di procedere ad un nuovo avviso di ricerca formulato con chiaro riferimento ai contenuti della tardiva proposta di Habitat s.p.a.; dall'altro, aveva tuttavia continuato a sollecitare ad essa ricorrente modifiche e chiarimenti progettuali come se la prima trattativa fosse ancora in corso.
1.2. Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente si duole del fatto che la Corte d'Xxxxxxx, pur avendo riconosciuto che nella prima fase le trattative potessero essere considerate affidanti in quanto idonee a vincolare le parti ai doveri di correttezza e buona fede, abbia poi escluso l'esistenza della responsabilità precontrattuale in capo alla Regione in quanto le medesime trattative sarebbero state interrotte per giustificato motivo.
1.3. Con il terzo motivo di ricorso, la ricorrente sostiene comunque che le trattative in parola venivano interrotte senza giustificato motivo ma solamente al fine di far prevalere la proposta della Habitat s.p.a..
1.4 Con il quarto motivo di ricorso, la società ricorrente sostiene nuovamente l'unicità del comportamento della Regione, senza necessità della distinzione in due fasi. Ribadisce che a suo dire la 'seconda fase' era stata preordinata unicamente a giustificare la preferenza accordata alla proposta di Habitat s.p.a. e che comunque, anche durante una eventuale 'seconda fase' delle trattative, la Regione si sarebbe comportata in j violazione dell'art. 1337 cod. civ..
1.5. Con il quinto motivo di ricorso, la società ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 210 e 213 cod. proc. civ. e comunque il difetto di motivazione.
A dire della ricorrente, la Corte territoriale avrebbe ignorato l'istanza con la quale veniva richiesta l'acquisizione agli atti delle note dell'Avvocatura in merito alla sussistenza della responsabilità precontrattuale della Regione nonché il relativo atto dell'amministrazione regionale con il quale veniva formulato il suddetto quesito. La Regione, inoltre, non avrebbe dato seguito alla richiesta formulata dalla ricorrente, ex art. 213 cod. proc. civ., di fornire, in quanto Pubblica Amministrazione, tutti i documenti in suo possesso relativi alla vicenda in oggetto, istanza ugualmente ignorata dalla Corte di merito.
1.6. Con il sesto motivo di ricorso, la ricorrente si duole infine della violazione e falsa applicazione degli artt. 90 e ss. cod. proc. civ., e comunque del difetto di motivazione della sentenza impugnata, per aver i giudici di appello
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condannato la Società ricorrente al pagamento delle spese, comprese quelle relative alla società assicuratrice chiamata in giudizio dalla Regione.
2. I primi cinque motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono fondati.
2.1. Con le censure complessivamente formulate la ricorrente denuncia l'erroneità della sentenza di appello nella parte in cui ha escluso la sussistenza della responsabilità precontrattuale della Regione; in particolare, è oggetto di specifica censura il fatto che la Corte territoriale, pur riconoscendo che nella c.d. 'prima fase' le trattative tra le parti potevano già considerarsi affidanti, anche se si era ancora fuori dal processo formativo del contratto, ha tuttavia ritenuto non sussistente la responsabilità ex art. 1337 cod. civ. in capo alla Regione Trentino Alto Adige poiché doveva ritenersi che l'interruzione delle trattative medesime fosse giustificata.
2.2. Nella giurisprudenza di questa Corte si è chiarito che “perché possa ritenersi integrata la responsabilità precontrattuale, è necessario che tra le parti siano in corso trattative; che le trattative siano giunte ad uno stadio idoneo a far sorgere nella parte che invoca l'altrui responsabilità il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto; che la controparte, cui si addebita la responsabilità, le interrompa senza un giustificato motivo; che, infine, pur nell'ordinaria diligenza della parte che invoca la responsabilità, non sussistano fatti idonei ad escludere il suo ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto. La verifica della ricorrenza di tutti i suddetti elementi, risolvendosi in un accertamento di fatto, è demandato al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato” (Cass. n. 7768 del 2007; Cass. n. 11438 del 2004).
Si è quindi affermato che se è pur vero che nella fase antecedente alla conclusione di un contratto, le parti hanno, in ogni tempo, piena facoltà di verificare la propria convenienza alla stipulazione e di richiedere tutto quanto ritengano opportuno in relazione al contenuto delle reciproche, future ob-bligazioni, con conseguente libertà, per ciascuna di esse, di recedere dalle trattative indipendentemente dalla esistenza di un giustificato motivo, è altrettanto vero (Cass. 29 maggio 1998, n. 5297) che l'operatività di tale principio è assoggettato al limite del rispetto del principio di buona fede e correttezza, da intendersi, tra l'altro, come dovere di informazione della controparte circa la reale possibilità di conclusione del contratto, senza omettere circostanze significative rispetto all'economia del contratto medesimo.
La giurisprudenza più recente di questa Corte (v., in particolare, Cass. n. 6526 del 2012; Cass. 5 agosto 2004, n. 15040 e, più recentemente, Cass. 8 ottobre 2008, n. 24795, sulla scorta dell'impostazione riconducibile a Xxxx., S.U., 19 dicembre 2007, n. 26725) ha ulteriormente precisato che la regola posta dall'art. 1337 cod. civ. non si riferisce alla sola ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative ma ha valore di clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in modo preciso ed implica il dovere, per le parti, di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante,
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conosciuto o conoscibile con l'ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto. La violazione di questa aggiuntiva regola di condotta alla quale devono conformarsi le parti di una trattativa negoziale è, quindi, idonea a determinare (se accertata adeguatamente in fatto in virtù di un congruo e logico percorso argomentativo spettante al giudice del merito) la configurazione di una responsabilità precontrattuale indipendente rispetto a quella riconducibile ai canoni fissati dalla pregressa giurisprudenza di legittimità in materia di recesso dalle trattative, avuto riguardo al loro stadio evolutivo.
Con particolare riferimento all'attività negoziale della P.A., si è poi chiarito che “la responsabilità precontrattuale della P.A. è configurabile in tutti i casi in cui l'ente pubblico, nelle trattative con i terzi, abbia compiuto azioni o sia incorso in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buonafede, alla cui puntuale osservanza anch'esso è tenuto, nell'ambito del rispetto dei doveri primari garantiti dall'art. 2043 cod. civ.; in particolare, se non è configurabile una responsabilità precontrattuale, per violazione del dovere di correttezza di cui all'art. 1337 cod. civ. rispetto al procedimento amministrativo strumentale alla scelta del contraente, essa è configurabile con riguardo alla fase successiva alla scelta, in cui il recesso dalle trattative dell'ente è sindacabile sotto il profilo della violazione del dovere del neminem laedere, ove sia venuto meno ai doveri di buona fede, correttezza, lealtà e diligenza, in rapporto anche all'affidamento ingenerato nel privato circa il perfezionamento del contratto. Spetta al giudice di merito accertare se il comportamento della P.A. abbia ingenerato nei terzi, anche per mera colpa, un ragionevole affidamento in ordine alla conclusione del contratto (Cass. n. 12313 del 2005).
2.3. Xxxxxx, nel caso di specie, la Corte d'appello di Trento ha ricostruito la vicenda sottoposta al suo esame configurando al suo interno due segmenti di attività negoziale:
il primo, originato dall'avviso pubblico di ricerca di immobile da destinare a sede dell'Ufficio del Libro fondiario e del Catasto, pubblicato alla fine di luglio del 1998 (22-24 luglio) ; il secondo, concernente l'avviso pubblico di ricerca pubblicato ai primi del mese di agosto del 1999.
Andando in contrario avviso rispetto a quanto affermato dal Tribunale, la Corte d'appello ha ritenuto che le trattative intercorse tra le parti in relazione al primo avviso pubblico di ricerca fossero state idonee ad ingenerare nella società Faber s.p.a., xxxxx causa della odierna ricorrente, un ragionevole affidamento circa la conclusione del contratto. Osserva in proposito la Corte territoriale che “le parti non solo si erano rappresentate, sia pure in linea di massima, gli elementi essenziali del contratto di compravendita, sia in termini di oggetto sia in termini di prezzo, ma anche reciprocamente avevano manifestato comportamenti univoci diretti alla conclusione del contratto di compravendita, ingenerando l'una nei confronti dell'altra la legittima aspettativa del perfezionamento di detto negozio”.
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La Corte d'appello ha tuttavia ritenuto che il recesso della Regione dalle trattative fosse sorretto da un giustificato motivo. E in proposito ha evidenziato come dopo una iniziale accelerazione in ordine alla individuazione dell'immobile da acquistare per destinarlo a sede degli indicati uffici regionali (che era culminata con la delibera di accertamento della idoneità dell'offerta del 24 settembre 1998), si era avuto un rallentamento, determinato dalla presentazione di una successiva proposta da parte di Habitat s.p.a., che aveva indotto a un generale ripensamento sulla idoneità dell'immobile offerto da Xxxxx s.p.a. allo scopo; e tale seconda fase era culminata con l'approvazione della delibera n.609 del 1999, di revoca della dichiarazione di idoneità dell'immobile Faber s.p.a..
In questo contesto, la Corte d'appello ha concluso affermando che il recesso della Regione dalla trattativa con Xxxxx s.p.a. appariva assistito da un giustificato motivo: la progressiva individuazione di un immobile maggiormente rispondente alle esigenze di una idonea collocazione degli uffici regionali, secondo le specifiche dislocazioni dei locali indicate nel secondo avviso di ricerca.
2.4. Il Collegio ritiene che l'iter - argomentativo sulla base del quale la Corte territoriale è pervenuta a rigettare il gravame della odierna ricorrente e conseguentemente a confermare la statuizione di rigetto della domanda ex art. 1337 cod. civ. presentata dalla xxxxx causa della medesima ricorrente non si sottragga alle puntuali e pertinenti censure svolte nei primi cinque motivi di ricorso.
Innanzitutto, appare evidente che la necessità di procedere alla revoca della delibera che aveva dichiarato la idoneità dell'immobile Faber s.p.a. - e che nello stesso apprezzamento della Corte territoriale costituiva elemento idoneo ad ingenerare affidamento nella contraente circa la positiva evoluzione e conclusione delle trattative in corso - ha per presupposto non elementi sopravvenuti, che avrebbero potuto indurre ad un diverso e giustificato apprezzamento della proposta iniziale di Xxxxx s.p.a., ma la rilevanza della distribuzione interna dei locali da destinare ad uffici del Catasto e del Libro fondiario, ferma la indicazione della superficie complessiva ritenuta dalla stessa Regione necessaria alle dette esigenze. Dalla stessa descrizione della sequenza temporale degli eventi esplicitata nella sentenza impugnata emerge infatti che sia il primo che il secondo avviso pubblico di ricerca di immobile avevano ad oggetto la richiesta di una superficie coincidente. In tale contesto, la possibilità di una distribuzione interna dei locali e la loro articolazione su diversi piani appare frutto piuttosto della presentazione, al di fuori di ogni termine rispetto al primo avviso, della proposta di Habitat s.p.a., sulla base della quale sembrano essersi poi orientate le esigenze della Regione, con particolare riferimento alla questione della distribuzione degli spazi, che non di un pure sollecitato adeguamento della offerta Faber s.p.a. alle specifiche esigenze via via evidenziate. Dalla stessa sentenza impugnata emerge poi che l'esigenza di una determinata distribuzione dei locali destinati agli uffici regionali all'interno del fabbricato offerto da Xxxxx s.p.a. era stata evidenziata dal direttore tecnico nella relazione del 23 settembre 1998; ciò, tuttavia, non aveva impedito alla Giunta regionale di adottare la dichiarazione di idoneità dell'offerta nella seduta del 24 settembre 1998. E ciò vale ad attribuire rilevanza alla deduzione della ricorrente, non adeguatamente valutata ed apprezzata dalla Corte d'appello, che successivamente alla deliberazione del 24 settembre 1998 tra le parti erano intercorsi contatti e
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incontri al fine di pervenire, nell'ambito dell'offerta ritenuta idonea, ad una soluzione maggiormente rispondente alle indicazioni del tecnico.
La Corte d'appello, in questo contesto, avrebbe quindi dovuto innanzitutto interrogarsi, ai fini dell'apprezzamento della posizione delle parti, e segnatamente della denunciata responsabilità precontrattuale della Regione, sulle ragioni per le quali si è ritenuto possibile prendere in considerazione una proposta formulata al di fuori di ogni termine rispetto al primo avviso di ricerca e a prescindere dalla pubblicazione del secondo. Avrebbe altresì dovuto spiegare, al di là del generico riferimento alla necessità che l'azione della pubblica amministrazione sia orientata al principio del buon andamento, perché sia stato possibile pervenire alla dichiarazione di idoneità del fabbricato offerto da Xxxxx s.p.a. nel settembre 1998, con ciò ingenerando l'affidamento di quest'ultima nella conclusione del contratto, e poi scoprire che “già, ab initio, l'immobile progettato, dall'elevato costo, non era risultato adeguato ad essere sede dei predetti uffici regionali” (pag. 31 della sentenza impugnata); e ciò, giova ribadire, non sulla base di elementi sopravvenuti, dei quali in sede di dichiarazione di idoneità la Regione non aveva potuto tenere conto, ma sulla base di elementi intrinseci alla stessa richiesta formulata con l'avviso pubblico di ricerca, e cioè la idoneità di un certo immobile, per superficie e caratteristiche interne, a soddisfare le esigenze degli uffici regionali che in detto immobile avrebbero dovuto trovare la propria sede.
Del resto, la stessa Corte d'appello riferisce di circostanze relative allo svolgimento complessivo della procedura di individuazione dell'immobile da acquistare e destinare a sede degli uffici regionali che evidenziano una violazione della posizione della Faber s.p.a., quali la mancata comunicazione dell'esito della perizia Leitner e della delibera di revoca della dichiarazione di idoneità. Trattasi di circostanze rilevanti, atteso che attengono alla regolarità formale della procedura che ha portato alla revoca della delibera che, secondo quanto affermato dalla stessa Corte d'appello, costituiva sicuro elemento di valutazione nel senso della idoneità delle trattative sino ad allora intercorse a fondare l'affidamento della società nella conclusione di un contratto. Né la rilevanza del vizio procedimentale potrebbe ritenersi sanata dalla affermazione della Corte d'appello, secondo cui la Xxxxx s.p.a. avrebbe avuto comunque conoscenza sia della perizia che della delibera di revoca della dichiarazione di idoneità, atteso che il procedimento a trattativa privata, pur se caratterizzato da semplificazione di forme, essendo volto alla scelta del contraente della P.A., non può prescindere dalla osservanza delle regole che disciplinano lo svolgimento di qualsivoglia procedimento amministrativo e che si sostanziano nei doveri di informazione da parte della P.A., quale sintomo della osservanza dei principi di correttezza e buona fede nello svolgimento della procedura stessa. Del resto, la mancata comunicazione dei detti atti tanto più appare rilevante nel caso di specie, atteso che la Regione in precedenza aveva continuato a sollecitare miglioramenti della prima offerta di Xxxxx s.p.a., che peraltro quest'ultima si era espressamente impegnata ad apportare per assecondare le esigenze della Regione.
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Xxxxxxx risulta la motivazione della sentenza impugnata anche con riferimento alla questione relativa alla posizione assunta dall'Avvocatura dello Stato, quale organo di consulenza della amministrazione, nel senso che, secondo quanto riportato in ricorso, la pubblicazione del secondo avviso di ricerca a-vrebbe potuto dare luogo a profili di responsabilità precontrattuale per l’interruzione delle trattative intercorse con Xxxxx s.p.a. a seguito del primo avviso pubblico di ricerca.
3. In conclusione, i primi cinque motivi del ricorso vanno accolti, con conseguente assorbimento del sesto, concernente le spese del giudizio di appello.
La sentenza impugnata deve essere quindi cassata, con rinvio alla Corte d'appello di Brescia, la quale procederà a nuovo esame del gravame.
Al giudice di rinvio è demandata altresì la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M.
La Corte accoglie i primi cinque motivi di ricorso, assorbito il sesto; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d'appello di Brescia.
Cassazione, sez.I, sentenza del 20 dicembre 2011, n. 27648: tesi della responsabilità da contatto sociale
All. 2
Tutela del consumatore
1. Ambito di applicazione
Corte Costituzionale, sentenza del 22 novembre 2002, n. 469: nozione di consumatore, piccole imprese e imprese artigiane
Considerato in diritto
1. – La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Giudice di pace di Sanremo investe l’art. 1469-bis, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non equipara al consumatore le piccole imprese e quelle
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artigiane. Il rimettente sollecita, in definitiva, l’attribuzione della qualità di consumatore alla parte che risulti avere minore potere contrattuale, indipendentemente dalla veste in cui questa agisca, e quindi anche se essa sia un imprenditore individuale o collettivo.
Ad avviso del giudice a quo, la detta norma si porrebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, per la irragionevolezza della discriminazione operata tra piccolo imprenditore e artigiano rispetto al "privato consumatore"; con l’art. 25 della Costituzione, in quanto le clausole che attribuiscono la competenza territoriale esclusiva al giudice del luogo dove ha sede il professionista hanno l’effetto di sottrarre l’attore al giudizio del proprio giudice naturale precostituito per legge, che è quello del luogo ove l’attore medesimo ha la residenza o il domicilio; con l’art. 41 della Costituzione, in quanto la direttiva comunitaria di cui la norma impugnata costituisce attuazione si iscrive nel più ampio disegno di realizzare in ambito comunitario il libero mercato, il quale a sua volta postula una effettiva concorrenza tra i soggetti economici e la rimozione degli ostacoli, di fatto o di diritto, che nei vari Stati membri la limitano.
2. – La questione non è fondata.
2.1 – Il legislatore, con l’art. 25 della legge 6 febbraio 1996, n. 52 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – legge comunitaria 1994), ha dato attuazione alla direttiva 93/13/CEE concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, introducendo nel titolo II del libro quarto del codice civile il capo XIV-bis dedicato ai contratti del consumatore. La prima di tali norme, l’art. 1469-bis cod. civ., dopo aver stabilito il campo di applicazione della disciplina ed aver offerto una definizione di carattere generale delle clausole vessatorie, attribuisce, in conformità al testo della direttiva, la qualità di consumatore alla persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta.
L’esclusione dalla speciale tutela di tutti quei soggetti che in forma individuale o anche collettiva agiscono per scopi comunque connessi all’attività economica da essi svolta, quantunque senza finalità di lucro, è stata posta in discussione dalla dottrina, soprattutto in relazione a quelle particolari ipotesi nelle quali la linea di demarcazione tra le varie finalità del consumo risulti particolarmente incerta.
Tuttavia la scelta del legislatore di limitare la tutela non solo non appare irragionevole ma si sottrae decisamente a tutte le censure mosse dal giudice rimettente.
Di particolare rilievo ai fini dell’armonizzazione delle legislazioni è anzitutto il dato che nella normativa di numerosi paesi membri dell’Unione europea la definizione di consumatore è ristretta alle sole persone fisiche che agiscono per scopi non professionali; la medesima definizione ricorre anche nel progetto di codice civile europeo, in fase di elaborazione, nel quale è rigorosamente definito consumatore colui che agisce al di fuori dell’attività economica.
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La predisposizione di strumenti di tutela comuni, attuati in base a modelli uniformi, consente una semplificazione dei rapporti giuridici tra i cittadini dei diversi paesi aderenti all’Unione europea e costituisce di per sé sola una idonea ragione di politica legislativa a sostegno della scelta di restringere la nozione di consumatore, effettuata dal legislatore con l’attuazione della direttiva comunitaria 93/13.
La preferenza nell’accordare particolare protezione a coloro che agiscono in modo occasionale, saltuario e non professionale si dimostra non irragionevole allorché si consideri che la finalità della norma è proprio quella di tutelare i soggetti che secondo l’id quod plerumque accidit sono presumibilmente privi della necessaria competenza per negoziare; onde la logica conseguenza dell’esclusione dalla disciplina in esame di categorie di soggetti – quali quelle dei professionisti, dei piccoli imprenditori, degli artigiani – che proprio per l’attività abitualmente svolta hanno cognizioni idonee per contrattare su un piano di parità.
Una diversa scelta presupporrebbe logicamente che il piccolo imprenditore e l’artigiano, così come il professionista, siano sempre soggetti deboli anche quando contrattano a scopo di lucro in funzione dell’attività imprenditoriale o artigianale da essi svolta; il che contrasterebbe con lo spirito della direttiva e della conseguente normativa di attuazione.
2.2 – Alla medesima conclusione di infondatezza della questione si giunge esaminando gli altri profili di incostituzionalità dedotti dal rimettente in relazione agli artt. 25 e 41 della Costituzione.
Come questa Corte ha reiteratamente affermato, il principio della precostituzione del giudice è rispettato qualora l’organo giudicante sia stato istituito dalla legge sulla base di criteri generali fissati in anticipo e non già in vista di singole controversie; inoltre detto principio è estraneo alla ripartizione della competenza territoriale tra giudici dettata da normativa anteriore nel tempo alla istituzione del giudizio.
Pertanto, nella fattispecie, nella quale la competenza è individuata in base al foro generale delle persone giuridiche di cui all’art. 19 cod. proc. civ., essendo convenuta in giudizio una società di capitali, non può certamente ritenersi sussistente la lesione del citato precetto costituzionale; né tale lesione può derivare dalla impossibilità di applicare il foro previsto dall’art. 1469-bis, terzo comma, numero 19), cod. civ., in quanto ciò consegue al difetto della qualità di consumatore, secondo la definizione contenuta nella norma sostanziale.
Il rimettente ha infine prospettato la violazione dell’art. 41 della Costituzione, senza tuttavia offrire una chiara e adeguata motivazione.
Poiché non è dato comprendere, né risulta in alcun modo specificato, come la lamentata disparità di trattamento tra privato consumatore e piccolo imprenditore possa determinare una limitazione della concorrenza e un ostacolo al libero mercato, la censura appare priva di consistenza.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
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dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 0000-xxx, xxxxxxx xxxxx, xxx xxxxxx xxxxxx, xxxxxxxxx, xx riferimento agli artt. 3, 25 e 41 della Costituzione, dal Giudice di pace di Sanremo, con l’ordinanza in epigrafe.
2. Clausole abusive
Corte di Giustizia, sentenza del 30 aprile 2014, C- 26/13: clausole abusive e poteri del giudice
Sulle questioni pregiudiziali
Sulla prima questione
36 Con la prima questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13 debba essere interpretato nel senso che i termini «oggetto principale del contratto» e «perequazione tra il prezzo e la remunerazione, da un lato, e i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio, dall’altro» si riferiscono ad una clausola, integrata in un contratto di mutuo espresso in una valuta estera tra un professionista ed un consumatore ed il quale non è stato oggetto di una trattativa individuale, come quella di cui al procedimento principale, in forza della quale il corso di vendita di tale valuta è applicabile ai fini del calcolo dei rimborsi del mutuo.
37 Secondo la giurisprudenza consolidata, dall’imperativo tanto dell’applicazione uniforme del diritto dell’Unione quanto del principio di uguaglianza discende che i termini di una disposizione di diritto dell’Unione che non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri per quanto riguarda la determinazione del suo senso e della sua portata devono di norma essere oggetto nell’intera Unione europea di un’interpretazione autonoma e uniforme da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione e della finalità perseguita dalla normativa di cui trattasi (v., in particolare, sentenza, Fish Legal e Xxxxxxx, C-279/12, EU:C:2013:853, punto 42).
38 Ciò si verifica per i termini figuranti all’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13, poiché tale disposizione non implica alcun rinvio espresso al diritto degli Stati membri onde determinare il suo senso e la sua portata.
39 Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, il sistema di tutela istituito dalla direttiva 93/13 è fondato sull’idea che il consumatore si trovi in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda sia il potere nelle trattative che il grado di informazione, situazione che lo induce ad aderire alle condizioni predisposte dal professionista senza poter incidere sul contenuto delle stesse (v. segnatamente, sentenza Xxxx xx Xxxxxxx x Xxxxx xx Xxxxxx xx Xxxxxx, X-000/00, EU:C:2010:309, punto 27 e giurisprudenza citata).
40 In considerazione di una siffatta situazione di inferiorità, la direttiva 93/13 obbliga gli Stati membri a prevedere un meccanismo il quale garantisca che qualsiasi clausola contrattuale che non sia stata oggetto di una trattativa individuale possa essere
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controllata al fine di valutarne l’eventuale carattere abusivo. In tale contesto spetta al giudice nazionale stabilire, tenendo conto dei criteri enunciati agli articoli 3, paragrafo 1, e 5 della direttiva 93/13 se, date le circostanze proprie del caso di specie, una siffatta clausola soddisfi i requisiti di buona fede, equilibrio e trasparenza posti da tale direttiva (v., in questo senso, sentenze Invitel, C-472/10, EU:C:2012:242, punto 22, e RWE Vertrieb, C- 92/11, EU:C:2013:180, punti da 42 a 48).
41 Tuttavia l’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13, letto in combinato disposto con l’articolo 8 di quest’ultima, permette agli Stati membri di prevedere, nella legislazione di trasposizione della stessa direttiva, che la «valutazione del carattere abusivo» non verte sulle clausole contemplate in questa disposizione, purché tali clausole siano formulate in modo chiaro e comprensibile. Deriva pertanto dalla suddetta disposizione che le clausole da essa prese in considerazione esulano da una valutazione del loro eventuale carattere abusivo, ma, come precisato dalla Corte, rientrano nel settore disciplinato dalla direttiva (v., in questo senso, sentenza Xxxx
xx Xxxxxxx x Xxxxx xx Xxxxxx xx Xxxxxx, XX:X:0000:000, punti 31, 35 e 40).
42 Dunque, poiché l’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13 sancisce un’eccezione al meccanismo di controllo nel merito delle clausole abusive quale previsto nell’ambito del sistema di tutela dei consumatori attuato da tale direttiva, occorre dare un’interpretazione restrittiva alla disposizione in parola.
43 Quest’ultima concerne, in primo luogo, le clausole vertenti sull’«oggetto principale del contratto».
44 Nel procedimento principale il giudice del rinvio solleva l’interrogativo se la clausola III/2, in quanto prevede che il corso di vendita di una valuta estera si applica ai fini del calcolo dei rimborsi di un mutuo espresso in siffatta valuta, rientri nell’«oggetto principale del contratto» di mutuo, ai sensi della medesima disposizione.
45 In proposito, se è vero che spetta unicamente al giudice del rinvio pronunciarsi sulla qualificazione della suddetta clausola in funzione delle circostanze proprie del caso di specie, ciò non toglie che la Corte è competente a desumere dalle disposizioni della direttiva 93/13, nella specie quelle dell’articolo 4, paragrafo 2, i criteri che il giudice nazionale può o deve applicare in sede di esame di una clausola contrattuale riguardo ad esse (v., in tal senso, segnatamente, sentenza RWE Vertrieb, EU:C:2013:180, punto 48 e giurisprudenza citata).
46 Orbene, la Corte ha già dichiarato che l’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva è diretto unicamente a stabilire le modalità e la portata del controllo sostanziale delle clausole contrattuali, che non siano state oggetto di trattativa individuale, le quali descrivono le prestazioni essenziali dei contratti stipulati tra un professionista ed un consumatore (sentenza Xxxx xx Xxxxxxx x Xxxxx xx Xxxxxx xx Xxxxxx, XX:X:0000:000, punto 34).
47 La circostanza che una clausola sia stata negoziata dalle parti contraenti nell’ambito della loro autonomia contrattuale e delle condizioni del mercato non può costituire un criterio che permette di valutare se tale clausola rientri nell’«oggetto principale del contratto», ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13.
48 Infatti, come risulta dall’articolo 3, paragrafo 1, dalla suddetta direttiva e dal dodicesimo considerando di quest’ultima, le clausole che sono state oggetto di negoziato individuale non rientrano in linea di principio nell’ambito di applicazione della direttiva in parola. Pertanto la questione della loro eventuale esclusione dall’ambito di applicazione del suddetto articolo 4, paragrafo 2, non può essere posta.
49 Invece, tenuto conto anche del carattere derogatorio dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13 e dell’obbligo di un’interpretazione restrittiva che ne deriva, le clausole contrattuali rientranti nella nozione di
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«oggetto principale del contratto» ai sensi di tale disposizione devono intendersi come quelle che fissano le prestazioni essenziali dello stesso contratto e che, come tali, lo caratterizzano.
50 Per contro le clausole che rivestono un carattere accessorio rispetto a quelle che definiscono l’essenza stessa del rapporto contrattuale non possono rientrare nella nozione di «oggetto principale del contratto» ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13.
51 Spetta al giudice del rinvio valutare, dati la natura, l’economia generale e le stipulazioni del contratto di mutuo, nonché il suo contesto giuridico e fattuale, se la clausola che determina il tasso di cambio delle rate mensili costituisca un elemento essenziale della prestazione del debitore consistente nel rimborso dell’importo messo a disposizione dal creditore.
52 L’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13 riguarda, in secondo luogo, le clausole vertenti sulla
«perequazione tra il prezzo e la remunerazione, da un lato, e i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio, dall’altro» e, ai sensi del diciannovesimo considerando della direttiva in parola, le clausole che «illustrano (…) il rapporto qualità/prezzo della fornitura o della prestazione».
53 Nel procedimento principale il giudice del rinvio solleva la questione se la clausola III/2, in quanto prevede che il corso di vendita di una valuta estera si applica ai fini del calcolo dei rimborsi di un mutuo, mentre, in forza di altre clausole del contratto di mutuo, l’importo del mutuo erogato è convertito in valuta nazionale sulla base del corso di acquisto della valuta estera, implichi un obbligo pecuniario per il consumatore, cioè quello di pagare, nell’ambito dei rimborsi del mutuo, gli importi derivanti dalla differenza tra il corso di vendita ed il corso di acquisto della valuta estera, qualificabile come «remunerazione» del servizio fornito la cui congruità non può essere oggetto di una valutazione del suo carattere abusivo in forza dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13.
54 In proposito, dai termini dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13 emerge che tale seconda categoria di clausole, relativamente alle quali non si può procedere ad alcuna valutazione del loro carattere eventualmente abusivo, ha una portata ridotta, dato che l’esclusione in parola verte solo sulla congruità tra il prezzo o la remunerazione previsti ed i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio.
55 Come rileva in sostanza l’avvocato generale al paragrafo 69 delle sue conclusioni, l’esclusione di un controllo delle clausole contrattuali circa il rapporto qualità/prezzo di una fornitura o di una prestazione si spiega col fatto che non esiste nessun tariffario o criterio giuridico che possa inquadrare ed orientare un controllo siffatto.
56 In tale contesto la Corte ha già dichiarato che la suddetta esclusione non può applicarsi ad una clausola che verte su un meccanismo di modifica delle spese dei servizi da prestare al consumatore (sentenza Invitel, EU:C:2012:242, punto 23).
57 Nel caso di specie si deve inoltre segnalare che l’esclusione della valutazione del carattere abusivo di una clausola, essendo limitata alla congruità tra il prezzo e la remunerazione, da un lato, e i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio, dall’altro, non può essere applicata qualora si ponga in questione un’asimmetria tra il corso di vendita della valuta estera, che deve essere utilizzata in applicazione della clausola stessa per il calcolo dei rimborsi, ed il corso di acquisto di tale valuta, da utilizzare in applicazione di altre clausole del contratto di prestito per il calcolo dell’importo del mutuo erogato.
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58 Del resto, un’esclusione siffatta non può essere applicata a clausole che, come la clausola III/2, si limitano a determinare, in vista del calcolo dei rimborsi, il corso di conversione della valuta estera in cui è redatto il contratto di mutuo, senza però che alcun servizio di cambio fosse fornito dal mutuante in occasione del suddetto calcolo e non implicano pertanto alcuna «remunerazione» la cui congruità, quale contropartita di una prestazione effettuata dal medesimo, non può essere oggetto di una valutazione del suo carattere abusivo a norma dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13.
59 Dato quanto precede, occorre risolvere la prima questione dichiarando che l’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che:
– i termini «oggetto principale del contratto» comprendono una clausola, integrata in un contratto di mutuo espresso in una valuta estera, concluso tra un professionista ed un consumatore e che non è stato oggetto di una trattativa individuale, come quella di cui al procedimento principale, a norma della quale il corso di vendita di tale valuta si applica ai fini del calcolo dei rimborsi del mutuo, solo purché si constati, il che spetta al giudice del rinvio verificare alla luce della natura, dell’economia generale e delle stipulazioni del contratto nonché del suo contesto giuridico e fattuale, che la suddetta clausola fissa una prestazione essenziale del contratto stesso che, come tale, lo caratterizza;
– una clausola del genere, in quanto implica un obbligo pecuniario per il consumatore di pagare, nell’ambito dei rimborsi del mutuo, importi derivanti dalla differenza tra il corso di vendita ed il corso di acquisto della valuta estera, non può essere considerata nel senso che implica una «remunerazione» la cui congruità, in quanto corrispettivo di una prestazione effettuata dal mutuante, non può essere oggetto di una valutazione del suo carattere abusivo a norma dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13.
Sulla seconda questione
60 Con la seconda questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13 debba essere
interpretato nel senso che l’obbligo secondo cui una clausola contrattuale deve essere redatta in maniera chiara e comprensibile debba intendersi imporre non soltanto che la clausola in questione sia grammaticalmente chiara e comprensibile, ma anche che le ragioni economiche sottostanti all’applicazione della clausola contrattuale nonché il rapporto della suddetta clausola con altre clausole del contratto siano chiare e comprensibili per il medesimo consumatore.
61 Qualora il giudice del rinvio dovesse considerare che, data la soluzione fornita alla prima questione, la clausola III/2 rientri nell’«oggetto principale del contratto», ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13, la clausola in parola è tuttavia sottratta alla valutazione del suo carattere abusivo solo se è redatta in maniera chiara e comprensibile.
62 Infatti, al fine di garantire concretamente gli obiettivi di tutela dei consumatori perseguiti dalla direttiva, qualsiasi trasposizione del suddetto articolo 4, paragrafo 2, deve essere completa di modo che il divieto di valutare il carattere abusivo delle clausole verta unicamente su quelle formulate in modo chiaro e comprensibile (sentenza Xxxx xx Xxxxxxx x Xxxxx xx Xxxxxx xx Xxxxxx, XX:X:0000:000, punto 39).
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63 Risulta però dalla decisione di rinvio che l’articolo 209, paragrafo 4, del codice civile, disposizione diretta a trasporre l’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13 in diritto nazionale, non conteneva tale obbligo di redazione chiara e comprensibile.
64 Occorre ricordare al riguardo che un giudice nazionale cui venga sottoposta una controversia intercorrente esclusivamente tra privati deve, quando applica le norme del diritto interno, prendere in considerazione l’insieme delle norme del diritto nazionale ed interpretarle, per quanto possibile, alla luce del testo e della finalità di tale direttiva per giungere ad una soluzione conforme all’obiettivo perseguito da quest’ultima (v., segnatamente, sentenza OSA, C-351/12, EU:C:2014:, punto 44).
65 In proposito la Corte ha precisato che tale principio di interpretazione conforme del diritto nazionale conosce taluni limiti. In tal senso, l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del diritto interno trova un limite nei principi generali del diritto e non può servire a fondare un’interpretazione contra legem del diritto nazionale (v., segnatamente, sentenza OSA, EU:C:2014:, punto 45).
66 Qualora, tenuto conto del suddetto principio di interpretazione conforme così delimitato, il giudice del rinvio dovesse considerare che la disposizione nazionale diretta a trasporre l’articolo 4, paragrafo 2, della stessa direttiva può essere compresa nel senso che include l’obbligo di redazione chiara e comprensibile, si porrebbe in seguito la questione della portata di un obbligo siffatto.
67 Si deve constatare al riguardo che questo stesso obbligo figura all’articolo 5 della direttiva 93/13 a norma del quale le clausole contrattuali scritte devono essere «sempre» redatte in modo chiaro e comprensibile. Il ventesimo considerando della direttiva 93/13 precisa in proposito che il consumatore deve avere la possibilità effettiva di prendere conoscenza di tutte le clausole del contratto.
68 Ne consegue che siffatto obbligo di redazione chiara e comprensibile si applica comunque, ivi compreso quando una clausola rientra nell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13 ed esula quindi dalla valutazione del suo carattere abusivo di cui all’articolo 3, paragrafo 1, di tale direttiva.
69 Ne deriva anche che l’obbligo in parola, quale figura all’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13, ha la stessa portata di quello previsto all’articolo 5 della direttiva stessa.
70 Orbene, quanto al suddetto articolo 5, la Corte ha già dichiarato che le informazioni, prima della conclusione di un contratto, in merito alle condizioni contrattuali ed alle conseguenze di detta conclusione, sono, per un consumatore, di fondamentale importanza.
È segnatamente in base a tali informazioni che quest’ultimo decide se desidera vincolarsi alle condizioni preventivamente redatte dal professionista (v. sentenza RWE Vertrieb, EU:C:2013:180, punto 44).
71 L’obbligo di trasparenza delle clausole contrattuali posto dalla direttiva 93/13 non può quindi essere limitato unicamente al carattere comprensibile sui piani formale e grammaticale di queste ultime.
72 Al contrario, come già ricordato al punto 39 della presente sentenza, poiché il sistema di tutela istituito dalla direttiva 93/13 poggia sull’idea che il consumatore versi in una situazione di inferiorità nei confronti del professionista per quanto concerne, in particolare, il livello di informazione, siffatto obbligo di trasparenza deve essere inteso in maniera estensiva.
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73 Per quanto riguarda una clausola contrattuale, come la clausola III/2, la quale consente al professionista di calcolare il livello dei rimborsi mensili dovuti dal consumatore in funzione del corso di vendita della valuta estera applicato dal professionista medesimo, clausola avente per effetto che le spese del servizio finanziario sono aumentate a carico del consumatore apparentemente senza limite massimo, risulta dagli articoli 3 e 5 nonché dai punti 1, lettere j) e l), e 2, lettere b) e d), dell’allegato di tale direttiva che, ai fini del rispetto dell’obbligo di trasparenza, è di rilevanza essenziale, il punto se il contratto esponga in modo trasparente il motivo e le modalità del meccanismo di conversione della valuta estera nonché il rapporto fra tale meccanismo e quello prescritto da altre clausole relative all’erogazione del mutuo di modo che il consumatore possa prevedere, in base a criteri chiari e comprensibili, le conseguenze economiche che gliene derivano (v., per analogia, sentenza RWE Vertrieb, EU:C:2013:180, punto 49).
74 Circa le modalità del meccanismo di conversione della valuta estera come specificate dalla clausola III/2, spetta al giudice del rinvio stabilire se, considerato l’insieme dei pertinenti elementi di fatto, tra cui la pubblicità e l’informazione fornite dal mutuante nell’ambito della negoziazione di un contratto di mutuo, un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento ed avvertito potesse non soltanto conoscere l’esistenza della differenza, generalmente osservata sul mercato dei valori mobiliari, tra il corso di vendita ed il corso di acquisto di una valuta estera, ma anche valutare le conseguenze economiche, per esso potenzialmente significative, dell’applicazione del corso di vendita ai fini del calcolo dei rimborsi di cui in definitiva sarebbe stato debitore e, pertanto, il costo totale del suo mutuo.
75 Alla luce di quanto precede, occorre risolvere la seconda questione dichiarando che l’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che, quanto ad una clausola contrattuale come quella di cui al procedimento principale, è necessario intendere il requisito secondo cui una clausola contrattuale deve essere redatta in modo chiaro e comprensibile nel senso di imporre non soltanto che la clausola in questione sia intelligibile per il consumatore su un piano grammaticale, ma anche che il contratto esponga in maniera trasparente il funzionamento concreto del meccanismo di conversione della valuta estera al quale si riferisce la clausola in parola nonché il rapporto fra tale meccanismo e quello prescritto da altre clausole relative all’erogazione del mutuo, di modo che il consumatore sia posto in grado di valutare, sul fondamento di criteri precisi ed intelligibili, le conseguenze economiche che gliene derivano.
Sulla terza questione
76 Con la terza questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se, in una situazione come quelle di cui al procedimento principale in cui un contratto concluso tra un professionista ed un consumatore non può sussistere dopo l’eliminazione di una clausola abusiva, l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 debba essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale la quale permette al giudice nazionale di sanare la nullità della clausola abusiva sostituendo a quest’ultima una disposizione nazionale di natura suppletiva.
77 In proposito la Corte ha dichiarato che l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 dev’essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato membro, che consente al giudice nazionale, qualora accerti la nullità di una clausola abusiva in un
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contratto stipulato tra un professionista ed un consumatore, di integrare detto contratto rivedendo il contenuto di tale clausola (sentenza Banco Español de Crédito, EU:C:2012:349, punto 73).
78 Date la natura e l’importanza dell’interesse pubblico sul quale si basa la tutela assicurata ai consumatori, che si trovano in una situazione d’inferiorità rispetto ai professionisti, la direttiva 93/13 impone agli Stati membri, come risulta dal suo articolo 7, paragrafo 1, letto in combinato disposto con il ventiquattresimo considerando della medesima, di fornire mezzi adeguati ed efficaci «per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori». (v. sentenza Banco Español de Crédito, EU:C:2012:349, punto 68).
79 Orbene, se il giudice nazionale potesse rivedere il contenuto delle clausole abusive inserite in simili contratti, tale facoltà contribuirebbe ad eliminare l’effetto dissuasivo esercitato sui professionisti dalla pura e semplice non applicazione nei confronti del consumatore di siffatte clausole abusive, dal momento che essi rimarrebbero tentati di utilizzare tali clausole, consapevoli che, quand’anche esse fossero invalidate, il contratto potrebbe nondimeno essere integrato, per quanto necessario, dal giudice nazionale, in modo tale, quindi, da garantire l’interesse di detti professionisti. (sentenza Banco Español de Crédito, EU:C:2012:349, punto 69).
80 Non ne deriva però che, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 osterebbe a che il giudice nazionale, in applicazione di principi del diritto dei contratti, rimuova la clausola abusiva sostituendole una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva.
81 Al contrario il fatto di sostituire ad una clausola abusiva una disposizione siffatta nella quale, come risulta dal tredicesimo considerando della direttiva 93/13, si ritiene che non siano inserite clausole abusive, nel senso che sfocia in un risultato tale che il contratto può sussistere malgrado la rimozione della clausola III/2 e continua ad essere coercitivo per le parti, è pienamente giustificato data la finalità della direttiva 93/13.
82 Infatti la sostituzione ad una clausola abusiva di una disposizione nazionale di natura suppletiva è conforme all’obiettivo dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 dato che, secondo la giurisprudenza consolidata, tale disposizione tende a sostituire all’equilibrio formale, che il contratto determina tra i diritti e gli obblighi delle parti contraenti, un equilibrio reale, finalizzato a ristabilire l’uguaglianza tra queste ultime e non ad annullare qualsiasi contratto contenente clausole abusive (v., in tal senso, segnatamente, sentenze Xxxxxxxxxx e Xxxxxxx, C-453/10, EU:C:2012:144, punto 31, nonché Banco Español de Crédito, EU:C:2012:349, punto 40 e giurisprudenza citata). 83 Viceversa se, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, non fosse consentito sostituire ad una clausola
abusiva una disposizione di natura suppletiva, obbligando il giudice ad annullare il contratto nel suo insieme, il consumatore potrebbe essere esposto a conseguenze particolarmente dannose talché il carattere dissuasivo risultante dall’annullamento del contratto rischierebbe di essere compromesso.
84 Infatti un annullamento del genere ha in via di principio per conseguenza di rendere immediatamente esigibile l’importo del residuo prestito dovuto in proporzioni che potrebbero eccedere le capacità finanziarie del consumatore e, pertanto, tende a penalizzare quest’ultimo piuttosto che il mutuante il quale non sarebbe di conseguenza dissuaso dall’inserire siffatte clausole nei contratti da esso proposti.
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85 Alla luce delle precedenti considerazioni, occorre risolvere la terza questione dichiarando che l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, ove un contratto concluso tra un professionista ed un consumatore non può sussistere dopo la rimozione di una clausola abusiva, tale disposizione non osta ad una regola di diritto nazionale che permette al giudice nazionale di ovviare alla nullità della suddetta clausola sostituendo a quest’ultima una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva.
(omissis)
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