CONSULENTI DEL LAVORO
MARZO 2017
CONSULENTI DEL LAVORO
Consiglio Provinciale dell’Ordine di Milano
Xxx Xxxxxxx, 0 00000 Xxxxxx
TEL: 02/00000000 - Fax: 02/00000000
E-MAIL: xxxx.xxxxxxxxxxx@xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.xx
SOMMARIO
RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA E DI DOTTRINA
N.3
Sintesi
•IL PUNTO pag. 2
DOTTRINA
•I CONTRATTI COLLETTIVI MERITANO VERAMENTE LA FIDUCIA
DEL LEGISLATORE? IL CASO DEL CCNL AUTOSCUOLE
di XXXXXXX XXXXXXX...................... pag. 3
•LEGGE CIRINNÀ: DIRITTI E DOVERI NEL DIRITTO DEL LAVORO
di XXXXXXXXX XXXXX...................... pag. 7
•APPALTI: DAL D.L. 25/2017
UNA SCELTA ILLOGICA
di XXXXXX XXXXXXX ..................... pag. 9
•LICENZIAMENTI ANTISINDACALI: L’INPS HA DIRITTO AI CONTRIBUTI
PER TUTTO IL PERIODO DI ILLECITA ESTROMISSIONE DALL’AZIENDA
di XXXXX E POTITO DI NUNZIO......... pag. 12
•IL COMPENSO DELL’AMMINISTRATORE PUÒ ESSERE ESPROPRIATO
PER INTERO: GIUSTIZIA È (S) FATTA?
di XXXXXX XXXXXXX xxx. 14
RUBRICHE
SENZA FILTRO
ABOLITI I VOUCHER:
UN DECRETO SENZA CAPO NÉ CODA
di XXXXXXX XXXXXXX..............pag. 21
UNA PROPOSTA AL MESE
SCADENZE FISCALI CERTE ED EQUILIBRATE
di XXXXXXXXX XXXXXXX
E XXXXXX XXXXXXX..............pag. 25
SENTENZE
Assenze riferite alla permanenza in un centro di disintossicazione non
possono giustificare il recesso datoriale
di XXXXXX XXXXXXX pag. 27
Se manca il progetto o il programma specifico, il contratto a progetto non è genuino
di LUCA DI SEVO..................................pag. 27
Elementi qualificanti del licenziamento ritorsivo: illecito motivo e sua esclusività
di XXXXX XXXXX...................................pag. 28
Illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto ex art. 2110 c.c.
di XXXXX XXXXXXXXXX............................pag. 29
Dimissioni legittime se il datore sovrappone le ferie al periodo di preavviso
di XXXXXXX XXXXXXX...............................pag. 29
Limiti del diritto di critica e di censura in capo al lavoratore
di XXXXXXX XXXXXX...............................pag. 30
RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA E DI DOTTRINA
MARZO 2017
S
il puntO
iamo lieti di informarvi che, su invito della Consigliera di Parità della Regione Lombardia, Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx, la coordinatrice della Commissione Pari Opportunità, Collega Xxxxxxx Xxxx, isti- tuita presso l’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Milano, ha parteci- pato lunedì 6 marzo nella Sala Conferenze dell’Ufficio d’Informazione del Parlamento Europeo presso il Palazzo delle Stelline a Milano, all’analisi e discussione della “Risoluzione del Parlamento Europeo del 13 settembre 2016” sulla creazione di condizioni del mercato del lavoro
che favoriscano l’equilibrio tra vita privata e vita professionale. Presenti all’incontro oltre alla Consigliera Regionale, la Consigliera Na- zionale di Parità Xxxxxxxxx Xxxxxxxx, le consigliere di parità provinciali, una rappresentante della commissione di parità istituita presso l’Ordine dei Dottori Commercialisti di Milano, una rappresentante della Direzio- ne Territoriale del Lavoro di Bergamo e una rappresentante della CIGL. Il dibattito si è svolto considerando i principi generali che hanno mos- so il Parlamento Europeo alla creazione della Risoluzione, oggetto dell’incontro, in cui, in particolare, si sono analizzate le politiche glo- bali di natura legislativa e non legislativa, volte a promuovere un equi- librio adeguato e proporzionato tra i diversi aspetti della vita delle per- sone. Si ritiene che per poter conseguire un reale equilibrio tra vita professionale e vita privata siano necessarie politiche solide, trasversali, strutturali, coerenti e complete, che includano incentivi e misure effi- cienti per favorire la conciliazione tra il lavoro, la possibilità di dedicare tempo alla famiglia, agli amici, di prendersi cura dei familiari, di poter godere di tempo libero e dedicarsi al proprio sviluppo personale. Dal dibattito si è evidenziato che è necessario, soprattutto un cambiamento culturale a livello della società, che prenda di mira gli stereotipi di ge- nere, affinché il lavoro e le attività di cura siano ripartite in modo più equo tra gli uomini e le donne.
Cambiamento che attraverso le future attività della Commissione mi-
xxxxxx, in coordinamento con quella nazionale e le altre istituite a livel- lo provinciale si tenterà di porre in essere.
Tutti i Xxxxxxxx sono invitati a segnalare alla nostra Commissione ini- ziative di pari opportunità e a inviare ogni suggerimento e possibili azioni non solo in ambito di pari opportunità di genere ma di pari op- portunità nel mondo del lavoro per tutti i cittadini. Vai al sito http:// xxxxxxxxxxxxxxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx/xxxxx.xxx/xxxxxx/xx-xxxxxxxxx- ne-del-parlamento-europeo.
"I nuovi scenari della professione tra opportunità e regole". Questo il tema scelto per il IX Congresso nazionale di Categoria, che sarà inaugurato il 28 aprile 2017 a Napoli. I lavori si svolgeranno presso il Teatro Augusteo, nel cuore della città partenopea, a partire dalle ore 11.00 e termineranno alle ore 13.00 del 29 aprile 2017. Tutte le informazioni sul sito xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.
Ricordiamo che il 28 e 29 aprile 2017
si celebra il IX Congresso nazionale di Categoria
Direttore Responsabile
POTITO DI NUNZIO
X. XXXXXX MASSAINI
Redazione
XXXXXX XXXXXXX XXXXXXXX XXXXXXXXXX XXXXXX XXXXX XXXXXXXXXX XXXXX
Segreteria di Redazione
XXXXXX XXXXX
Progetto e Realizzazione Grafica
XXXXX XXXXXXX
Redattore Capo
Sede: Xxx Xxxxxxx 0, 00000 - Xxxxxx.
Tel. 0000000000 xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.xx Editore: Consiglio Provinciale dei Consulenti del Lavoro di Milano. Xxx Xxxxxxx, 0, 00000
- Xxxxxx Tel. 0000000000 - Fax.0000000000
xxxx@xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.xx
PEC xxxxxx.xxxxxx@xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx
Mensile – Registrazione Tribunale di Milano
n. 19 del 30 gennaio 2015
RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA E DI DOTTRINA
Organo Ufficiale del Consiglio Provinciale dei Consulenti del Lavoro di Milano
Sintesi
COMMISSIONE STUDI E RICERCHE DELL’ORDINE CONSULENTI DEL LAVORO DELLA PROVINCIA DI MILANO
Presidente dell’Ordine
Potito di Nunzio
Sezione Studi e Ricerche: Coordinatore Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxx Xxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxx, Xxxxxxx Xxxxxxxx, Xxxxxxxxxx Xxxxx, Xxxxxxx Xxxxxxxxx, Xxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxx Xxxx, Xxxxxxxx Xxxx, Morena Xxxxxxxx Xxxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxxxx,
Xxxxx Xxxxxxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxx Xxxxxxxxxx, Xxxxx Xxxxxxxxxxx Xxxxxx, Xxxxx Xxxxx
Sezione Semplificazione normativa: Coordinatore Xxxxxx Xxxxxxx
Xxxx Xxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxxx, Xxxx Xxxxxx, Xxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxxxxx xx Xxxxxx, Xxxxxxxxx Xxxxxxx,
Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx, Xxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxxx Xxxxxxx X’Xxxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxxxx,
Xxxxx Xxxx, Xxxxx Xxxx, Xxxxxxx Xxxxxxxx
Sezione Formazione e aggiornamento professionale: Coordinatrice Xxxxxx Xxxxx Xxxxxxxx Xxxx, Xxxxxxxxx Xxxxx,
Xxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxxxx Xxxxxxxxx, Xxxxxxxx Xx Xxxxxxxx, Xxxxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxxxx, Xxxx Xxxxx,
Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxx,
Xxxxxxxxxx Xxxxx, Xxxxx Xxxxxx Xxxxxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxx Xxxxxxxxx.
e Coordinatore scientifico del CSR
di XXXXXXX XXXXXXX
Consulente del Lavoro in Chiavenna
I Contratti Collettivi meritano veramente la fiducia
del legislatore?
Il caso del CCNL Autoscuole
U
na cosa è sotto gli occhi di tutti gli operatori giuridici, ovvero che le norme sono spesso, troppo spesso, scritte frettolosamente e male,
con lacune e contraddizioni. E le medesime proble- matiche si presentano con le cosiddette circolari espli- cative, che di chiarezza sappiamo farne ben poca.
Una incapacità che viene quotidianamente rilevata su giornali e riviste specializzate. Un fatto altrettanto evidente è che anche i contratti collettivi presentano gli stessi limiti, anche se questa cosa, forse per una ipocrita regola del politicamente corretto, nessuno la sottolinea. Eppure sempre più spesso è la scarsa chia- rezza degli accordi sottoscritti dalle rispettive Orga- nizzazioni Sindacali a rappresentare i problemi più seri, vista la consuetudine di delegare la regolamen- tazione, integrativa o sostitutiva, di molti aspetti del rapporto di lavoro alla contrattazione collettiva (na- zionale o aziendale che sia) facendola diventare a tut- ti gli effetti fonte cogente di diritto. Non vi è infatti testo di legge che non contenga frasi del tipo “Salva diversa disposizione dei contratti collettivi ...” oppure “I contratti collettivi possono prevedere ...”.
Chi scrive è da tempo fautore di un ripensamento del sistema delle fonti regolatrici il rapporto di lavo- ro dipendente e la lettura di alcuni recenti rinnovi contrattuali dovrebbe suggerire se non addirittura imporre un dibattito serio sul punto. Molti anni fa l’efficace réclame di una nota azienda alimentare - e chi ha qualche capello grigio certamente la rammen-
ta - recitava che “La fiducia è una cosa seria … e si dà alle cose serie”. Parafrasando si potrebbe dire che la delega di funzioni e di poteri è un aspetto delicato che si dà alle persone realmente capaci e competenti. Ed invece alcuni rinnovi contrattuali appaiono, quantomeno a chi scrive, non rispettare questa rego- la, che in primis è di buon senso, e propongono una disciplina (frutto spesso di autoreferenzialità nella ef- fimera ricerca del volersi distinguere dagli altri) di alcuni istituti contrattuali che lascia perplessi. Ana- lizzando ad esempio l’ultimo Accordo di rinnovo per i dipendenti delle autoscuole e studi consu- lenza automobilistica (ma se ne potrebbero citare altri) sottoscritto da UNASCA da una parte e FILT- CGIL, FIT-CISL e ULITRASPORTI troviamo al-
cune “chicche” che meritano di essere evidenziate.
La disciplina dei contratti a termine
Alla disciplina del contratto a tempo determinato viene dedicato l’articolo 40 che, dopo aver sottoli- neato e ribadito che alle assunzioni a termine sono applicabili le vigenti disposizioni di legge, offre un saggio della fantasiosa creatività dei firmatari l’ac- cordo, stabilendo al comma 11 che:
“… La durata dell’eventuale periodo di prova è pari a 1/3 della durata prevista per il rapporto di la- voro a tempo determinato e sarà considerato assolto in caso di trasformazione a tempo indeterminato.” Una premessa è doverosa. Chi scrive non ha mai compreso la ratio che suggerisce l’adozione di una ➛
disciplina ad hoc per il patto di prova nel caso di un rapporto di durata predefinita. Ha un senso ritenere che il periodo di valutazione delle capacità professio- nali, ma sappiamo trattarsi non solo di queste, di un lavoratore può dipendere dalla durata del rapporto? Per qual motivo se viene sottoscritto un contratto a tempo indeterminato necessitano due mesi di prova mentre se è previsto un rapporto di soli trenta giorni alle parti dovrebbe bastare molto meno per la valu- tazione reciproca dell’interesse a concludere il con- tratto? È fin troppo ovvio che tutto nasce dalla erra- ta convinzione - tipica purtroppo di un modo antiquato di concepire la tutela del lavoratore - che il patto di prova è a beneficio della sola parte datoriale (che pertanto deve essere penalizzata ove opti per il ricorso a forme contrattuali precarie) e che al dipen- dente poco importa.
Peraltro clausole di questo tipo non tengono conto che il contratto a termine può subire fino a 5 proro- ghe e pertanto il contratto iniziale di pochi giorni, al quale non sarebbe possibile assegnare (secondo talu- ni) il periodo di prova previsto per la generalità dei lavoratori di quel determinato livello, potrebbe spin- gersi complessivamente fino a 36 mesi di durata. Si pensi ad una iniziale sostituzione per malattia che si trasformi in maternità.
Nessun sindacalista probabilmente ha mai pensato che un lavoratore che ha avuto una prima esperienza a termine di pochi giorni sarebbe ben contento di vedersi proporre un prolungamento del suo contrat- to seppur condizionato ad un patto di prova (di du- rata uguale a quella prevista per la generalità dei la- voratori) che coincidesse con parte della sospirata proroga. Nessun sindacalista si è evidentemente ca- lato nei panni di un datore di lavoro che in tali situa- zioni potrebbe rinunciare a prorogare il contratto, ove lo si costringesse a considerare già superata una prova per un lavoratore che è stato occupato per po- chi giorni e “provato” non sufficientemente.
O forse si è semplicemente consapevoli del rischio, un bluff al tavolo del poker, sperando che il datore molli il piatto e assuma o confermi ugualmente il lavoratore. E se invece sarà poi quest’ultimo a rimetterci, non im-
�
1. Tribunale Pistoia del 11.01.2008 - Tribunale Torino del 05.04.2005 - Tribunale Forlì del 15.12.2004.
porta: l’importante è salvaguardare il principio.
Ma le menti contorte dei sottoscrittori del CCNL Autoscuole in questa occasione si sono spinte addi- rittura oltre, stabilendo che il patto di prova avrà una durata pari ad un terzo della durata del contratto a tempo determinato: il contratto è di 3 mesi? Un mese. È di un anno? 4 mesi.
Se stipulassimo un contratto breve, ad esempio di 15 giorni, il patto si ridurrebbe a soli 5 giorni. Ma se fos- se previsto da subito nella durata massima di 36 mesi il periodo di prova diventa addirittura di 12 mesi, ben oltre a qualsiasi periodo di prova stabilito dai CCNL ma soprattutto ben oltre i termini massimi previsti dalla legge. Una assoluta dimostrazione di scarsa co- noscenza del contesto giuridico in cui si opera.
A dire il vero anche alcune sentenze di merito1 han- no contribuito a creare confusione, stabilendo l’ille- gittimità, rectius nullità, di un patto di prova nel caso che lo stesso fosse di durata analoga al contratto a termine stabilito dalle parti, in quanto - si sostiene
- non sarebbe finalizzato a consentire alle parti del rapporto di lavoro di verificarne la reciproca conve- nienza. Da queste massime è peraltro possibile rica- vare due diversi e opposti corollari.
Da un lato, se non può esservi coincidenza di dura- ta, si potrebbe ritenere l’impossibilità di stipulare un patto di prova nei contratti a termine, ipotesi che però la Cassazione ha più volte smentito.
Dall’altra si dovrebbe ammettere l’apposizione del patto ma a condizione di un suo riproporzionamen- to, tesi avvallata da alcuni commentatori che sugge- riscono, nei casi di contratti a termine, che la durata dell’eventuale patto di prova debba essere ridetermi- nata in ragione del termine inizialmente pattuito dalle parti. Chiunque abbia dimestichezza con le equazioni matematiche sa bene che trovare l’inco- gnita “x” (durata della prova nel TD) quando uno degli elementi conosciuti è “infinito” (la durata del contratto a TI) è operazione impossibile.
Non scordiamo infine che nella disciplina del con- tratto a tempo determinato vige, in relazione al trat- tamento economico e normativo, un principio di non discriminazione del lavoratore assunto con ➛
tale tipologia rispetto ai lavoratori a tempo indeter- minato. Un periodo di prova più lungo o più corto, da qualsiasi parte la si guardi, rappresenta una di- storsione del sistema e un danno anche per il lavora- tore nel caso in cui non gli sia concesso un termine congruo, ma soprattutto identico a tutti gli altri suoi colleghi, per dimostrare le sue reali attitudini lavora- tive e comportamentali. Suggerire una riscrittura dell’articolo in esame non pare una eresia.
La disciplina del preavviso non lavorato Anche in tema di licenziamento e dimissioni ci si è voluti distinguere e nell’articolo 31 viene proposta una singolare disciplina del mancato preavviso e del- la relativa indennità sostituiva.
“1. Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, a meno che non si tratti di licenziamento per giusta cau- sa non può essere risolto da nessuna delle due parti sen- za un preavviso, i cui termini sono stabiliti come segue:
1) mesi quattro per i quadri intermedi;
2) mesi due per tutti gli altri lavoratori.
2. La parte che risolve il rapporto senza l’osservanza dei predetti termini di preavviso, deve corrispondere all’altra una indennità pari all’ importo della retribu- zione per il periodo di mancato preavviso.
(....)
5. È in facoltà della parte che riceve la disdetta ai sensi del 1° comma, di troncare il rapporto, sia all’inizio sia nel corso del preavviso, senza che da ciò derivi alcun obbligo di indennizzo per il pe- riodo di preavviso non compiuto.”
Una analisi critica della disposizione contrattuale non può prescindere da una recentissima sentenza della Corte di Cassazione2 che ha stabilito la sussi- stenza di una giusta causa di recesso nel caso del la- voratore che, avendo scelto di prestare la propria at- tività durante il periodo di preavviso, venga posto dal datore di lavoro in ferie per il godimento dei giorni non ancora fruiti, in quanto la sovrapposizio- ne delle ferie al periodo di preavviso rappresenta una violazione del disposto dell’art. 2109 codice civile.
La richiamata decisione conferma il più recente orientamento della Cassazione che attribuisce al pre- avviso “un’efficacia obbligatoria con la conseguenza che, nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve al- trettanto immediatamente (con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’ indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti), a meno che la parte recedente, nell’esercizio di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraen- done l’efficacia sino al termine del periodo di pre- avviso (Cass. 4 novembre 2010, n. 22443; Cass. 21 maggio 2007, n. 11740); qualora quest’ultima opti per la continuazione del rapporto, durante il suo decorso proseguono gli effetti del contratto”.
Ciò premesso, analizzando la disciplina prevista dal CCNL in oggetto si può sottolineare come di fatto si vada ad incidere, preventivamente ed in via gene- rale, sul diritto soggettivo di ciascun lavoratore e di ciascuna azienda di gestire il proprio periodo di pre- avviso in funzione delle più svariate esigenze perso- nali, anche in ottica organizzativa, di vita reale e di impresa. Cercando di interpretare il pensiero degli estensori del contratto collettivo nazionale si dovreb- be dedurre che alla parte che riceve la disdetta debba essere riconosciuto una sorta di potere assoluto di modificare a proprio piacimento - viene detto “sia all’ inizio sia in corso” - la data finale del rapporto di lavoro proposta, rectius indicata dal recedente.
Ora passi che tale facoltà sia riconosciuta al lavoratore licenziato, il quale ben sappiamo avere al suo arco una infinità di frecce per “convincere” il proprio da- tore a liberarlo prima della scadenza del preavviso impostogli. Il fatto invece sorprendente è che si per- metta al datore di lavoro di rifiutare ad nutum la pre- stazione lavorativa, offerta nel periodo di preavviso dal proprio dipendente, senza alcuna conseguenza. Una facoltà che, per inciso, presenta addirittura meno oneri rispetto alla sopra citata ipotesi di ➛
�2. Cassazione, Sezione Lavoro, 17 gennaio 2017, n. 985.
collocazione in ferie del lavoratore durante il preav- viso (che ricordiamo la Cassazione permette solo se concordata tra le parti e non quale scelta unilaterale), periodo durante il quale quantomeno sarebbe matu- rata a favore del recedente originario l’anzianità lavo- rativa ai fini di eventuali scatti anzianità, aumenti contrattuali, premi produzione e, di certo, ulteriori ratei ferie e di mensilità aggiuntive.
Si conceda una considerazione. Se per ipotesi un da- tore di lavoro qualunque avesse proposto l’inseri- mento in un contratto individuale di lavoro di una clausola che permettesse allo stesso di rinunciare alla prestazione lavorativa offerta dal dipendente in caso di dimissioni, senza dover esser a suo volta tenuto ad una sorta di indennizzo a favore del lavoratore rece- dente, non abbiamo alcun dubbio che si sarebbero scatenate le ire di qualsiasi rappresentante sindacale sul territorio. Le Organizzazioni nazionali invece non si pongono nemmeno il dubbio se la rinuncia in sede di sottoscrizione di un CCNL - perché di una rinuncia stiamo nei fatti parlando - al preavviso la- vorato riguardi un diritto, sì disponibile, ma non an- cora entrato a far parte del suo patrimonio.
I sottoscrittori non hanno avuto nemmeno la mini- ma perplessità a siglare una rinuncia valida per tutti i lavoratori, gestendo, come detto, ad un livello supe- riore (nazionale) il sacrosanto diritto di ogni singolo lavoratore di organizzare i tempi e la durata della propria vita lavorativa in funzione delle proprie spe- cifiche esigenze, che come vedremo non coincidono con il solo interesse alla retribuzione.
È veramente difficile dare una spiegazione logica di tale scelta. Forse è perché i sottoscrittori del CCNL ritengono che le dimissioni del lavoratore abbiano di norma efficacia immediata e che l’eventuale preavvi- so lavorato sia una specie di favore fatto dal lavorato- re al proprio datore per venire incontro alle esigenze di quest’ultimo, come se al dimissionario non impor- tasse in alcun modo la prestazione lavorativa. Nulla di più errato e lontano dalla realtà, ovviamente.
Ma se anche fosse legittima una simile disposizione contrattuale non si può non evidenziarne i possibili
gravissimi danni in capo al lavoratore. Si immagini un dipendente con qualifica di quadro che decidesse di rassegnare le proprie dimissioni in relazione alla imminente maturazione del requisito pensionistico. Sapendo di raggiungere i requisiti a fine dicembre, visto il preavviso di 4 mesi a cui è tenuto, rassegnerà le dimissioni a fine agosto. Ma ove il datore di lavoro decidesse di rinunciare unilateralmente e da subito al preavviso, senza dover pagare e riconoscere a sua volta il mancato preavviso, il lavoratore si troverebbe disoccupato e senza diritto alla pensione.
E poiché la cessazione del rapporto è comunque ri- conducibile alle dimissioni, il lavoratore non potreb- be nemmeno beneficiare della Naspi, questo perché la rinuncia dell’impresa al preavviso lavorato non può certo convertire la fattispecie in un licenziamento.
Anche per questo motivo chi scrive trova disarmante la superficialità con cui si giunge - da parte di chi ha peraltro un mandato a trattare nell’interesse di terzi
- a sottoscrivere clausole di questo tipo.
La comunicazione delle dimissioni
E concludiamo con l’inciso contenuto nell’ultimo comma del già commentato articolo 31, dedicato al requisito formale della comunicazione di dimissioni. “... Il licenziamento dovrà essere comunicato per iscrit- to al lavoratore. Anche le dimissioni saranno nor- malmente comunicate per iscritto.”
Se ne è discusso a lungo e ancora se ne discute in ottica di un eventuale correttivo.
L’art. 26 del D.Lvo n. 151/2015 stabilisce che salvo le ipotesi di cui all’articolo 55, comma 4, del D.Lvo n. 151/2001 “le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono fatte, a pena di inefficacia, esclu- sivamente con modalità telematiche su appositi modu- li resi disponibili dal Ministero del lavoro”.
Parlare ancora di forma scritta che richiama alla mente la classica lettera, ormai superata, di dimissio- ni e che questa sia peraltro citata come la modalità di comunicazione “normalmente” da utilizzare è asso- lutamente fuorviante.
Verrebbe da dire in questo caso che un bel tacer non fu mai scritto.
di XXXXXXXXX XXXXX
Avvocato in Milano, Studio Toffoletto - De Xxxx Xxxxxx
Legge Cirinnà: diritti e doveri nel diritto del lavoro
C
ome noto, la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Xxxxx Xxxxxxx), entrata in vigore il 5 giugno 2016, ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto delle “unioni civili” tra persone dello stesso
sesso e disciplinato le “convivenze di fatto”.
Nel dettaglio, si intende: - per “unione civile”, il lega- me tra due persone dello stesso sesso, di maggiore età, unite civilmente mediante dichiarazione di fron- te all’ufficiale di stato civile, sulla base di un legame affettivo stabile con reciproca assistenza morale e materiale (art. 1, commi 1-35); - per “convivenza di fatto”, il rapporto tra due persone eterosessuali o omosessuali non unite né civilmente né in matrimo- nio, ma da uno stabile legame affettivo di coppia con vincolo di reciproca assistenza morale e materia- le (art. 1, commi 36-65).
Le novità introdotte dalla Legge Cirinnà hanno cer- tamente avuto un impatto sul rapporto di lavoro, da un lato prevedendo espressamente certi diritti, dall’altro rinviando a quelli già esistenti attraverso una norma di chiusura di cui all’art. 1, comma 20, secondo la quale “al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni contenenti le parole “coniu- ge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorro- no nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei rego- lamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”, sono fatte salve solo le disposizioni del codice civile
non espressamente richiamate dalla Legge Cirinnà e la normativa in materia di adozione.
Il riferimento fatto dalla norma in esame ai contrat- ti collettivi è molto ampio e sembra poter essere in- teso come un richiamo non solo ai Contratti Collet- tivi Nazionali (CCNL) ma anche a quelli territoriali e aziendali. Questo implicherebbe che alle parti dell’unione civile potranno, tra l’altro, essere estesi i regimi di welfare aziendale introdotti per il tramite di accordi di secondo livello. Per contro, sembrereb- be di poter escludere che le previsioni contenute nei contratti individuali di lavoro possano beneficiare di questa “estensione automatica” prevista dall’art. 1, comma 20 della L. 76/2016.
Veniamo ora ad un esame più preciso delle novità de- rivanti dalla cd Legge Cirinnà. Per quanto riguarda le convivenze di fatto, l’unica previsione di natura giusla- voristica è contenuta nell’art. 1, comma 46, che esten- de al convivente di fatto, che presta la propria attività all’interno dell’impresa dell’altro convivente, i diritti già riconosciuti ai familiari (con aggiunta del comma ter all’art. 230 c.c.). Con riferimento alle unioni civili, invece, le implicazioni sono diverse. Per ragioni di spa- zio possiamo qui soffermarci solo su alcune delle novi- tà che discendono dalla legge in commento.
In primo luogo, per effetto dell’applicazione del cita- to art. 1, comma 20, il lavoratore unito civilmente, al pari del lavoratore coniugato, può fornire al pro- prio datore di lavoro informazioni del suo stato civi- le, al fine di poter percepire l’assegno familiare per l’altra parte dell’unione civile, qualora il reddito ➛
familiare risulti inferiore ai limiti, previsti annual- mente dalla legge. Anche tali informazioni, natural- mente, dovranno essere trattate dal datore di lavoro nel rispetto della normativa sulla Privacy e non po- tranno essere utilizzate per finalità discriminatorie o in violazione delle regole di correttezza e buona fede. Oltre a ciò, nel caso in cui, ai sensi delle disposizioni di legge rilevanti in materia fiscale, una parte dell’unione civile sia da considerarsi a carico dell’al- tra, spettano le stesse detrazioni fiscali previste per i carichi di famiglia.
La Legge Cirinnà, ha avuto un notevole impatto an- che con riferimento a permessi e congedi. La legisla- zione e la contrattazione collettiva prevedono, infat- ti, una serie di congedi e permessi, retribuiti o meno, in presenza di determinate condizioni collegate a si- tuazioni personali e ad esigenze familiari e di assi- stenza. Esaminiamone alcune. Il datore di lavoro oggi deve garantire il congedo per l’unione civile: le due parti che costituiscono un’unione civile hanno, infatti, diritto al congedo retribuito previsto per i coniugi in caso di matrimonio, che trae origine dal contratto collettivo interconfederale del 31 maggio 1941, la cui durata (non inferiore a 15 giorni) è sta- bilita dalla contrattazione collettiva applicata. Ov- viamente, si discute se la tutela del posto di lavoro garantita fino ad oggi alle copie etero che abbiano contratto matrimonio (12 mesi dalla data delle pub- blicazioni) debba essere estesa alle coppie omoses- suali e la risposta sembra certamente positiva. Vedre- mo la giurisprudenza come recepirà questo orientamento dottrinale.
Inoltre, il lavoratore unito civilmente con portatore di handicap in accertato stato di gravità ha acquisito il diritto di fruire di un congedo straordinario, per un periodo massimo di due anni nell’arco della vita lavorativa. Tale congedo non è retribuito, ma è in- dennizzato dall’INPS ed è coperto da contribuzione figurativa. E ancora, il datore di lavoro deve concede-
re un congedo straordinario non retribuito per un massimo di 2 anni nell’arco della vita lavorativa in caso di richiesta per gravi e documentati motivi ri- guardanti l’altra parte dell’unione civile. Infine, il la- voratore unito civilmente ha diritto ai 3 giorni di per- messo mensili previsti dalla Legge n.104/1992 per l’assistenza dell’altra parte dell’unione civile portatrice di handicap in situazione di gravità nonché ai 3 giorni di permesso retribuito in caso di decesso o di docu- mentata grave infermità dell’altra parte dell’unione civile. Con riferimento alla cessazione del rapporto di lavoro, particolari disposizioni si estendono anche al lavoratore unito civilmente. Per riprendere quanto si diceva poco sopra, con riferimento alle dimissioni si sottolinea che saranno nulle quelle rese in concomi- tanza con la costituzione dell’unione civile e fino ad un anno dalla stessa, in mancanza di convalida presso la sede del competente Ispettorato del lavoro.
In caso di licenziamento collettivo e, per analogia, an- che in caso di licenziamenti individuali plurimi per giustificato motivo oggettivo, nei confronti del lavora- tore unito civilmente, l’altra parte dell’unione civile può integrare un familiare a carico ed essere quindi valutata nell’ambito del criterio legale dei “carichi di famiglia” per l’individuazione dei dipendenti da li- cenziare. Altra ipotesi è quella del decesso della parte dell’unione civile titolare di un contratto di lavoro su- bordinato. In questo caso, la parte dell’unione civile superstite avrà diritto di percepire sia l’indennità di preavviso di cui all’art. 2118 c.c. che sarebbe spettata al lavoratore deceduto alla cessazione del rapporto di lavoro, calcolata alla data del decesso, sia il TFR ma- turato dal lavoratore deceduto alla data del decesso.
Le novità che discendono dalla legge in commento, come abbiamo brevemente illustrato, hanno un no- tevole impatto su istituti base del diritto del lavoro, pertanto, è fondamentale che le società siano infor- mate e supportate nella gestione del rapporto di la- voro per non incorrere in errori.
di XXXXXX XXXXXXX
Consulente del Lavoro in Paderno Dugnano
Appalti: dal D.L. 25/2017 una scelta illogica
S
i ascolta da più parti che l’emanazione del D.L. 25 del 17 marzo 2017 sarebbe “una vittoria po- litica della CGIL”. Xxxxxx si può far tronfio
di ciò che vuole ma per quanto riguarda gli appalti quella della CGIL appare a chi scrive una vittoria di Xxxxx o peggio un boomerang dalle conseguenze ne- faste per il lavoro, frutto di una visione miope ed ideologica a cui non possiamo rassegnarci.
Anzitutto chiariamo: “ripristinata la piena solidarie- tà negli appalti” è una panzana bella e buona.
La solidarietà retributiva e contributiva infatti non si è spostata di una virgola rispetto a prima. Anzi, vo- lendo è diminuita; vediamo perché. Seguendo pe- dissequamente il quesito referendario della CGIL (grave l’errore del legislatore), è stato ancora modifi- cato l’art. 29 del d. lgs. 276/03 con la soppressione di alcuni periodi del testo di legge.
1. Il primo passaggio modificato (art. 2 comma 1 lett. a del D.L.) è stata la soppressione del preambolo che permetteva alla contrattazione nazionale mag- giormente rappresentativa sul piano nazionale di di- sporre diversamente (che non vuol dire annullare) ri- spetto alla regola generale della responsabilità solidale individuando “metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti”. Le Parti Sociali più rappresentative (di cui fa parte anche la CGIL) hanno perciò avuto in mano per anni un potente strumento che non hanno nemme- no minimamente tentato di utilizzare per procedere
ad una sanificazione della filiera degli appalti, tanto che addirittura hanno lottato per toglierselo (racco- gliendo le firme referendarie).
Quindi, di fronte ad una concreta possibilità di inse- rire procedure di controllo nelle filiere, CGIL ha detto “no, grazie”, con il piglio gioviale e l’espressio- ne bovina di chi butta via gli strumenti preziosi che ha in mano perché semplicemente non li capisce o non sa che farne (come se avessero dato in mano un bisturi elettronico ad una scimmia, tanto per fare un esempio). Ma la modifica, in concreto, cambia qual- cosa? No perché a memoria d’uomo non vi sono con- tratti collettivi di elevata rappresentatività che hanno sfruttato questa occasione. Quindi si annulla una possibilità tendenzialmente molto buona, che non è mai stata utilizzata, con nessun risultato pratico (se annulli qualcosa che non esiste hai un effetto nullo). Non solo. Con l’annullamento del potere alla con- trattazione nazionale, è ritornato in capo alla, ben più insidiosa, contrattazione di prossimità (art. 8 del D.L. n. 138/2011 convertito in legge dalla l. n. 148/2011) il potere di derogare alle norme sulla re- sponsabilità solidale. Anche qui, peraltro, non è che si sia fatto molto: a memoria si ricorda il clamoroso caso dell’accordo del 27 settembre 2011 fra la Socie- tà ILVA S.p.A. e la RSU (in quota CGIL, guarda la stranezza) del proprio stabilimento di Paderno Du- gnano, in cui si pretendeva di escludere la responsa- bilità solidale della committente ILVA verso i propri appaltatori. Avete capito bene: con una logica in- ➛
sider/outsider le RSU (poi ad onor del vero sconfes- sate dalla CGIL nazionale, ma ciò resta comunque emblematico della scivolosità della contrattazione di prossimità mal utilizzata) avevano escluso la respon- sabilità solidale del datore in cui erano occupati ri- spetto ai dipendenti impiegati negli appalti da que- sti commissionati (grande solidarietà fra lavoratori, non c’è che dire: mors tua, vita mea). Quindi, con il primo pezzo di norma ossequiosa verso il diktat CGIL non si cambia nulla, si rinuncia ad utilizzare i mezzi che ci sono e, se cambia qualcosa, è sicura- mente in peggio.
2. Con il secondo punto viene modificata la norma che prevedeva il c.d. beneficium excussionis cioè la possibilità – in estrema sintesi - che il committente chiamasse in causa in via preventiva l’appaltatore qualora venisse attivata nei suoi confronti un’azione di responsabilità solidale. La norma introduceva un correttivo procedurale che non minava assolutamen- te l’efficacia e la pienezza della responsabilità solida- le, ma semplicemente chiamava in correo quello che era stato l’autore principale della violazione, cioè l’appaltatore che avesse corrisposto retribuzioni o contribuzioni in misura inferiore al dovuto.
Tale previsione era di pura giustizia se si pensa (ma né il Governo né la CGIL pare abbiano una qualche frequentazione di quello che Xxxxxxx definiva “il tarlo del pensiero”) che il termine appalto va a defi- nire una serie di fattispecie in cui il committente ha scarsa o nulla capacità di controllo, cosicchè potreb- be essere tirato in causa su fatti o soggetti di cui non ha, né potrebbe avere, alcuna contezza. Non solo. Chi come noi opera concretamente nel campo del lavoro (ma né i politici né la CGIL pare abbiano una grande frequentazione con il termine “lavoro”) co- nosce il fenomeno della somministrazione illecita
mente diffusa da decenni - senza alcun serio contra- sto ed anzi in taluni casi con diverse connivenze (an- che politico-sindacali), fra cui vogliamo leggere anche recenti passaggi normativi – tanto che si fa fatica a far capire alle aziende piccole e medie che si tratta di una pratica assolutamente fuorilegge e per loro rischiosa. L’obiezione ricorrente a cui si è posti davanti, infatti, è la seguente: “ Ma se le cooperative1 che forniscono manodopera sono illegali, perché ce ne sono così tante? Perché agiscono alla luce del sole? Per- che hanno posizioni Inps ed Inail e sembrano così “re- golari”? Perché il Governo e l’Ispettorato le lasciano ope- rare così impunemente?”. Non è un’obiezione fondata giuridicamente, ovvio, ma psicologicamente si può ben capire. Se partiamo quindi dalla constatazione evidente di un mercato del lavoro profondamente “dopato” da tali estesissime praterie di illegalità, un qualsiasi soggetto dotato di buonsenso e di senso del- la giustizia cercherebbe mezzi, e se esistenti li raffor- zerebbe, per colpire duramente anche gli appaltatori illeciti. Xxxxx restando il principio della responsabi- lità solidale, che nessuno mette in discussione.
Nel Centro Studi e Ricerche Unificato Ordine-Ancl dei Consulenti del Lavoro di Milano ci occupiamo da anni del fenomeno appalto, promuovendo inizia- tive, proposte normative volte ad una razionalizzazio- ne e legalizzazione della fattispecie. Controcorrente rispetto all’opinione “imprenditoriale”, riteniamo equo e fondamentale l’istituto della responsabilità so- lidale del committente, e proprio per questo com- prendiamo che esso ha necessità di una fondazione realistica, altrimenti risolvendosi in una grossa in- giustizia a contraltare di un’altra grossa ingiustizia. E nel proliferare delle ingiustizie, tutti sanno che i fur- bi (che sono il vero danno dell’Italia) sguazzano e la fanno franca quasi sempre, mentre a pagare sono
mascherata da pseudo-appalti; tale prassi è larga- spesso gli ingenui. ➛
{
1. Chiariamo che il termine “cooperative” identifica nel linguaggio comune i soggetti fornitori illeciti di manodopera, prosperati in un periodo in cui
le cooperative avevano anche agevolazioni previdenziali molto consistenti,
anche se esistono moltissime cooperative serie e genuine e, di contro, il fenomeno degli appalti illeciti ormai è esercitato sotto moltissime altre forme societarie.
Per questo abbiamo proposto (già nel 2010) l’intro- duzione dell’escussione dell’appaltatore, che nella nostra visione doveva anche essere rafforzata con una specifica responsabilizzazione in solido e perse- cuzione dell’appaltatore effettivo (e non solo delle teste di legno), ovvero di chi sta veramente dietro e lucra sul mercato di braccia, teste e cuori. Per fare un paragone, ciò che la CGIL non solo non si è mai sognata di fare, ma che oggi di fatto blocca sul na- scere (perché ?!?).
Parimenti, sul primo punto di questo articolo, ab- biamo messo a punto uno strumento asseveratorio sul rispetto degli oneri retributivi e contributivi, tuttora operante come buona prassi, che per un cer- to periodo ha avuto il pregio di un protocollo di intesa con un’illuminata DTL di Milano, visto che l’idea era nata nell’ambito di un Comitato (CLES) volto alla repressione di fenomeni illeciti nel mondo del lavoro, offrendosi così come strumento efficace di pulizia della filiera appaltante. In altri termini, fatti concreti (con tutti i limiti delle cose umane) invece di chiacchiere. Vogliamo ricordare che il protocollo è stato disdettato dalla DTL su pressione del Ministero del lavoro, con un atto che ancora
oggi appare un puro gesto d’imperio immotivato, volto unicamente ad affermare una centralità (che nessuno aveva peraltro mai messo in discussione) contro le esperienze del territorio.
Peraltro è lo stesso Ministero che oggi afferma di essere attento ai fenomeni dell’interposizione illeci- ta, fregiandosi di un’iniziativa che, se non fosse par- tita dai consulenti del lavoro del territorio (questa volta, torinese) e poi opportunamente ripresa a li- vello nazionale dal nostro CNO, avrebbe visto l’en- nesimo scempio perpetrato ai danni della collettivi- tà e dei lavoratori.
Siamo consci che il mondo del lavoro deve vivere di processi regolatori seri e concreti e non di proclami populisti o di iniziative di immagine.
Per questo, come abbiamo cercato di dimostrare, l’iniziativa referendaria della CGIL sull’appalto (e il
D.L che gli scodinzola dietro) non ci sembra una cosa buona ed utile.
Sotto il bel sole primaverile, vediamo proliferare un’altra sempre più estesa prateria oltre a quella dell’illegalità diffusa: quella dell’incompetenza (che forse fa ancor più danno).
di XXXXX E POTITO DI XXXXXX
Avvocato e Consulente del Lavoro, Studio di Nunzio e Associati
Licenziamenti antisindacali: l’Inps ha diritto ai contributi per tutto il periodo di illecita estromissione dall’azienda
A
l giudizio di antisindacalità del comporta- mento aziendale - concretizzatosi nel licenzia- mento di tre lavoratori - consegue, per il dato-
re di lavoro, l’obbligo di versare, in favore dei dipendenti illegittimamente estromessi dall’azienda, i contributi previdenziali ed assistenziali maturati nel periodo intercorrente dalla data del recesso (nullo in quanto discriminatorio) a quella di loro riammissio- ne in servizio, ciò indipendentemente dal fatto che i lavoratori abbiano (i) impugnato giudizialmente – in via autonoma - il loro licenziamento e/o (ii) messo in mora il datore di lavoro per una pronta ripresa dell’at- tività lavorativa e, per l’effetto, abbiano diritto o meno alla retribuzione relativa al periodo di loro estromissione dall’azienda. Così ha recentemente af- fermato la Suprema Corte, con sentenza n. 4899, pubblicata il 27 febbraio 2017, definendo la contro- versia di cui si offrono qui di seguito gli estremi.
I fatti di causa
Con decreto emesso ad esito di un procedimento ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori – azione giudizia- le, questa, che può essere promossa dalle organizza- zioni sindacali per reprimere iniziative datoriali volte ad impedire e/o limitare l’attività sindacale – il Tri- bunale di Lodi ha dichiarato antisindacale la con- dotta tenuta da una società nei confronti di tre lavo- ratori, sostanziatasi nel loro licenziamento. Per l’effetto, i tre recessi dovevano considerarsi nulli (così
come espressamente stabilito dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori), dunque inidonei a interrompere i re- lativi rapporti di lavoro. Di qui la pretesa dell’INPS al versamento dei contributi previdenziali ed assi- stenziali maturati dai tre lavoratori nel periodo inter- corrente dalla loro illecita estromissione dall’azienda alla loro riammissione in servizio. Alla richiesta dell’Ente di previdenza la Società si è opposta, così argomentando: i lavoratori in questione non avevano impugnato autonomamente il loro licenziamento e
– non essendosi dichiarati disponibili ad una pronta ripresa della loro attività lavorativa – non avevano diritto alla retribuzione e, di conseguenza, neppure al versamento dei relativi contributi.
Le argomentazioni della corte
La Cassazione – accogliendo le motivazioni rese dal- la Corte d’Appello di Milano – ha rigettato i motivi di doglianza della società datrice di lavoro, acco- gliendo le pretese dell’INPS. Ripercorrendo la pro- pria giurisprudenza, la Corte ha ricordato come con- solidato sia il principio di diritto secondo cui, “essendo il licenziamento determinato da motivi sinda- cali viziato da nullità (…), la declaratoria d’antisin- dacalità del comportamento aziendale che vi abbia dato causa, eventualmente ottenuta dal sindacato me- diante il ricorso allo speciale procedimento ex art. 28 Statuto dei Lavoratori, reca con sé la declaratoria di validità ed efficacia del rapporto di lavoro, con con- ➛
seguente applicabilità dei principi sulla mora credendi: la pronuncia di xxxxxxxxx, infatti, non consegue in tale ipotesi dall’applicazione dell’art. 18 Statuto dei lavora- tori, che dipende semmai all’azione individuale del la- voratore (…), bensì dal principio generale secondo cui gli atti nulli sono insuscettibili di produrre effetti”.
Dunque, nessuna rilevanza ha la mancata impugnazio- ne del recesso da parte del dipendente, in quanto l’azio- ne promossa dal sindacato permette ugualmente di pervenire alla pronuncia di nullità del licenziamento.
Ma se il recesso è inesistente (in quanto nullo), il rap- porto di lavoro non si è mai interrotto, di talché nemmeno l’obbligo contributivo a carico del datore di lavoro è mai venuto meno. I giudici della Sezione Lavoro della Cassazione ricordano, infatti, come l’obbligo contributivo consegua esclusivamente alla sussistenza del rapporto di lavoro, mentre ininfluen- te è la ricezione da parte del dipendente della retri- buzione. Ciò in quanto l’art. 12, L. n. 153/1969, che definisce la retribuzione imponibile come “tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro”, deve in- tendersi nel senso di “tutto ciò che il lavoratore ha diritto di ricevere”. Nulla rileva, per i giudici di legit- timità, il fatto che il dipendente, in seguito al licen- ziamento nullo, non si sia messo a disposizione dell’azienda per la ripresa dell’attività lavorativa. “Nei riguardi dell’ente previdenziale, infatti, la situazione di fatto che si determina a seguito di un licenziamento nullo che non sia stato seguito da alcuna messa in mora da parte del lavoratore è strutturalmente accostabile ad una sospensione unilaterale della prestazione lavorativa disposta dal datore di lavoro in carenza dei presupposti di legge che ne possa legittimare l’adozione, la quale, come noto, non determina il venir meno dell’obbliga- zione contributiva”. Dunque, la contribuzione è do- vuta tutte le volte in cui il rapporto di lavoro esista, con esclusione dei casi in cui la prestazione lavorativa
venga sospesa per una circostanza imputabile esclusi- vamente al dipendente o con questi concordata.
Osservazioni conclusive
La sentenza in commento riprende i principi base che regolano il rapporto contributivo: questo è del tutto svincolato agli obblighi retributivi, sussistendo fin tanto che il rapporto di lavoro esiste, sempre che la prestazione di lavoro non venga sospesa per fatto imputabile al lavoratore o con questi concordato.
Tuttavia, se condivisibile è l’assunto che precede, meno lineare - a sommesso parere di chi scrive - è la conclusione cui pure i giudici pervengono ritenendo ininfluente, ai fini della sussistenza dell’obbligo con- tributivo in capo a parte datoriale, la mancata messa in mora del datore di lavoro da parte del lavoratore. Infatti, il lavoratore che, licenziato, non metta a di- sposizione le sue energie psico-fisiche per un’imme- diata ripresa dell’attività lavorativa manifesta il suo sostanziale disinteresse alla prosecuzione del rappor- to di lavoro, tanto più ove ometta, come nel caso di specie, di impugnare in via autonoma il recesso. Pare, dunque, forzato accostare tale ipotesi a quella della sospensione del rapporto di lavoro disposta unilateralmente da parte datoriale: in tal caso, infat- ti, il lavoratore non si oppone alla decisione datoria- le, manifestando così la sua sostanziale adesione all’interruzione del rapporto. In termini amministra- tivi, in un caso come questo, bisogna procedere alla ricostruzione del periodo pregresso ai fini contributi- vi e, a differenza di quanto avviene in alcuni casi di reintegrazione ex art. 18 St. Lav., il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare non soltanto la contribuzione non versata ma anche le sanzioni per ritardato versa- mento dei contributi sperando che l’Inps non chieda, come spesso avviene, le sanzioni per evasione contri- butiva. Xxxxxxxx, inoltre, inviati all’Inps tutti i flus- si mensili per la ricostruzione della carriera contribu- tiva e pensionistica dei lavoratori.
di XXXXXX XXXXXXX
Consulente del Lavoro in Paderno Dugnano
Il compenso dell’amministratore può essere espropriato
per intero: giustizia è (s)fatta?1
L
e SS.UU. della Cassazione vengono investite della vexata quaestio della qualificazione giuridica della rapporto fra amministratore e società - o meglio, della disciplina processuale a tale rapporto applicabile. Ciò avviene con riferimento, nella causa da cui è scatu- rito il ricorso alla Cassazione ed il rimando alle Sezioni Unite, alla pignorabilità limitata o meno del compenso dell’amministratore ex art. 545 c.p.c. L’ampia azione ri- costruttiva delle SS.UU. non appare completamente convincente nell’intento di dirimere in via definitiva il contrasto giurisprudenziale innescatosi sull’argomento e apre i consueti scenari incerti sui quali forse sarebbe au-
spicabile un intervento normativo sistematico.
Il punto della questione
e uno schema di sintesi della sentenza Affrontiamo la questione sottoposta alle Sezioni Unite di Cassazione attraverso una preliminare espo- sizione sintetica dei vari passaggi della sentenza n. 1545 del 20 gennaio 2017, qui in commento.
La Cassazione viene investita in ultimo grado di una lite scaturita da un’azione di pignoramento intentata verso i compensi dovuti da alcune società ad un pro- prio amministratore. Ciò che era in discussione era se tali compensi potessero essere pignorati per intero oppure, tramite l’applicabilità dell’art 545 c.c.p.
1. L’articolo è apparso, con modifiche di impostazione grafica e redazionale,
sul numero n. 11/2017 de “La Circolare di lavoro e previdenza”, Euroconference.
2. Tale estensione non riguarderebbe però i corrispettivi per contratti di lavoro autonomo o d’opera professionali, rimanendo confinata nell’ambito letterale dell’art. 409 comma 3 c.p.c. ovvero “rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera
{
comma quarto, solamente entro la misura di un quinto; in primo grado la prima tesi era prevalsa, il secondo grado aveva invece ribaltato la precedente sentenza qualificando l’attività di amministratore come lavoro parasubordinato e quindi ricompresa nell’alveo dell’art. 545. Il conseguente ricorso alla Suprema Corte vedeva il giudice adito proporre la questione alle Sezioni Unite in considerazione del contrasto giurisprudenziale formatosi al riguardo. In particolare, la questione di cui è stato investito il Consesso di legittimità era stabilire “se il rapporto tra la società per azioni e il suo amministratore sia qualificabile come di lavoro parasubordinato o auto- nomo (ovvero estraneo a tale ambito)”, da cui discen- derebbe l’applicabilità o meno a tale rapporto della disciplina dell’ art. 545 predetto. Nell’analizzare i cinque motivi di ricorso attorei le SS.UU., sgombra- to il campo da aspetti di natura procedurale (i primi due motivi) che qui non rilevano ai fini dell’argo- mento trattato, e riaffermato- contro il quinto moti- vo di ricorso - che l’estensione della pignorabilità li- mitata di cui all’art. 545 c.p.c. si estende certamente anche alle ipotesi di parasubordinazione2 (citando Cass. 685/2012), passa ad analizzare il terzo e quarto motivo del ricorso, che riguardano rispettivamente
- l’omissione da parte del giudice di secondo gra- ➛
continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”. Si noti che nella sentenza qui in commento l’estensione al lavoro parasubordinato dell’art. 545 c.p.c. viene espressa en passant e dandola per assodata, anche se tale questione è apparsa in passato non sempre pacifica sul piano giuridico e che, pertanto, questa acquisizione da parte di SS.UU. – ripresa in qualche misura nella premessa del punto 3 della sentenza - acquista comunque un rilievo definitivo.
do dell’accertamento del grado di subordinazione del debitore, che svolgeva la medesima attività “au- tonoma” (di amministratore) a favore di “più enti” (peraltro, trattasi di due);
- l’adesione, nell’ambito di un contrasto giurispru- denziale nella materia, alla tesi che esclude la qualifi- cazione dell’attività dell’amministratore di s.p.a. quale parasubordinata (ex art. 409 co. 3 cpc), difet- tando tale attività delle caratteristiche della continu- ità e della subordinazione. Mancando tale equipara- zione fra amministratore e parasubordinazione3, si determinerebbe l’esclusione dei relativi compensi per tale carica dalla limitazione di pignorabilità.
Il corpo centrale della sentenza è rappresentato dal punto 3 della stessa, che a sua volta si divide in una premessa ed in cinque sottopunti.
Con la premessa, viene ripreso il concetto espresso dalla sentenza n. 685/2012, nella quale, ripercorrendo la storia del DPR 180/50 e la sua estensione nel 2005 al settore privato, a mente dell’art. 52 del predetto DPR, è specificamente prevista l’estensione dei limiti di pignorabilità di cui all’art. 545 c.p.c. ai rapporti di cui all’art. 409 comma 3 c.p.c.. Tuttavia, poiché è pa- cifico per la Suprema Corte che tale estensione non operi verso i corrispettivi di lavoro autonomo o d’ope- ra professionali, viene a rilevanza il tema posto all’at- tenzione delle SS.UU. e cioè di quale sia la natura del rapporto fra amministratore e società per azioni.
Esaurita la premessa metodologica, che individua the matter of the question, la sentenza compie una breve disamina delle dottrina, ricordando l’esistenza di due distinti, ed antitetici, orientamenti al riguardo:
• la teoria c.d. “contrattualistica”, per cui fra am- ministratore e società si instaurerebbe un contratto che lega due soggetti distinti, ciascuno centro di interessi autonomo e spesso contrapposto all’altro4; nell’ambito di tale orientamento viene posta in ri- levo la sentenza delle SS.UU. n. 10680/1994, che sarà oggetto di specifica attenzione da parte della sentenza in commento;
3. A tal fine di esegesi giuridica nessun rilievo viene dato alla qualificazione fiscale e previdenziale dei redditi de quibus; se ciò può ritenersi tecnicamente logico e comprensibile, tuttavia come vedremo in seguito questo scollamento contribuisce a determinare una situazione di incertezza e confusione giuridica.
4. Nell’ambito di questo filone, vi sono poi sfumature differenti
che rimandano la figura contrattuale dell’amministratore ora ad un contratto sui generis, ora richiamandosi alla fattispecie del mandato, o ancora ipotizzando che fra le parti si instauri
un rapporto subordinato, o ancora qualificando l’amministratore come un prestatore d’opera, o infine riconducendo il rapporto
di amministrazione nella fattispecie della subordinazione.
{
• la teoria c.d. “organica”, secondo la quale l’am- ministratore è un organo necessario per la società che rappresenta, non soggetto quindi ad alcuna li- mitazione nei suoi poteri, che gli deriverebbero di- rettamente dalla legge e che non sarebbero limita- bili ad opera dell’assemblea dei soci (a cui spetta solamente una funzione di designazione); il corol- lario di tale orientamento è l’inesistenza di due au- tonomi centri di interesse diversificati, da cui di- scende l’impossibilità di considerare fra gli stessi intercorrente un rapporto contrattuale (di natura patrimoniale) reso fra posizioni che non appaiono diverse e contrapposte, non essendo possibile sepa- rare la funzione gestoria da quella esecutiva.
Dando atto del contrasto dottrinale e giurispruden- ziale che si è sviluppato in merito – contrasto che invero si è sempre orientato su questioni di natura procedurale, ovvero sull’applicabilità del rito lavori- stico o di quello ordinario - le SS.UU. si confronta- no (criticandola) con un’importante sentenza (sem- pre delle Sezioni Unite), la n. 10680/1994, che nel tentativo di dirimere tale contrasto, aveva attribuito i caratteri della collaborazione coordinata e conti- nuativa all’attività di amministratore, in funzione (ed è un’annotazione fondamentale) di un’attività che, da un lato, verso terzi appare di mera immede- simazione organica, mentre sviluppa all’interno dei “rapporti di credito” che ben possono configurare interessi distinti e contrapposti.
La sentenza del 1994, nella ricostruzione ora operata dalle SS.UU., si sviluppava in quattro passaggi logi- ci, di cui pare importante sottolineare i punti b) e d) (nella ricostruzione della sentenza 1545/2017, che li contesta) secondo i quali l’attività dell’amministra- tore presenta i requisiti della personalità, continuità e coordinazione (che la pongono all’interno dell’art. 409 c.p.c.), mentre una situazione di ”debolezza con- trattuale” (spesso difficile da sorprendere nel rappor- to fra amministratore e società) non costituisce pre- supposto di applicabilità del predetto art. 409. ➛
Tuttavia dopo questa sentenza il contrasto giurispru- denziale non si è sopito, in quanto, pur se l’orienta- mento maggioritario si è orientato in tal senso, non sono mancate sentenze che hanno riaffermato la na- tura autonoma e sostanzialmente organica del rap- porto amministratore-società.
La critica della sentenza 1545/2017 all’orientamento del 1994 si sviluppa su due punti fondamentali:
1) da un lato, secondo SS.UU. del 2017, il requisito del coordinamento deve essere inteso “in senso verticale”, ovvero presentare requisiti simili “a quelli del lavoro gerarchico propriamente subordi- nato” (torneremo in un paragrafo seguente su questa affermazione), mentre l’amministratore è il vero “egemone” dell’attività societaria, nemmeno posto sotto il coordinamento o l’influenza dell’as- semblea dei soci; mancherebbe quindi del tutto quella debolezza contrattuale che invece è il pre- supposto dell’applicabilità della disciplina proces- suale lavoristica, anche verso i parasubordinati;
2) l’avvento del D.Lgs. 168/2003- che ha attribuito al tribunale delle imprese la competenza riguardo ai rapporti societari - ha reso superato l’orientamento della sentenza del 1994, perchè in tali rapporti tro- va certamente collocazione anche il legame fra am- ministratore e società, di natura organica o più propriamente, appunto, “societaria”.
Così argomentando, la sentenza 1545/2017 enuncia il principio di diritto per cui “ l’amministratore unico o il consigliere di amministrazione di una società sono legati da un rapporto di tipo societario … che non è compreso in quelli previsti dall’art. 409 c.p.c.. … Ne deriva che i compensi spettanti ai predetti soggetti per le funzioni svolte in ambito societario sono pignorabili senza i limiti previsti dall’art. 545 co. 4 c.p.c.”
A questo principio le SS.UU. fanno precedere (al punto 4 della sentenza) un’importante eccezione, ovvero quella per cui l’enunciato predetto si applica all’amministratore nelle sue “funzioni tipiche di ge- stione e rappresentanza dell’ente”, mentre non è escludibile che tra le parti si attui un “autonomo,
parallelo e diverso rapporto” che assuma le caratteri- stiche di un rapporto subordinato o parasubordina- to secondo gli accertamenti del caso.
Le diverse fattispecie dell’attività di amministratore di società:
un universo variegato
Con finalità prodromiche al presente articolo, rite- niamo utile una carrellata, non esaustiva, delle varie situazioni con cui si configura il rapporto fra ammi- nistratore e società. Da un punto di vista formale, l’organo amministrativo può essere costituito da un amministratore unico, da più amministratori con poteri identici (c.d. “amministrazione disgiunta”) o da un consiglio di amministrazione. All’interno di un consiglio di amministrazione, poi, vi possono es- sere diversificazioni di funzioni, poteri ed ambiti di intervento di ciascuno dei membri del consiglio, con posizioni anche molti differenti fra loro.
Riguardo all’identificazione fra amministratore ed imprenditore può giocare un ruolo importante la de- tenzione o meno di quote della società: esse possono non sussistere del tutto, esserci in una quantità non significativa, oppure essere possedute dal socio am- ministratore in una qualità tale da permettergli di esercitare una concreta influenza sulla società o, an- cora, di avere addirittura la maggioranza nel conses- so sociale. Sotto un profilo di capacità gestoria, ab- biamo una casistica particolarmente variabile; si va dal confine “alto”, in cui all’amministratore sono dati i più ampi poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione, fino al limite “basso” nel quale, al contrario, il consigliere del cda riveste ruoli sostan- zialmente marginali; vi sono poteri assegnati “in esclusiva” che possono assumono una particolare connotazione (ad es. in ambito sicurezza del lavoro, un potere esclusivo assegnato ad un amministratore un tal senso può arrivare a configurarlo come “dato- re di lavoro” ai sensi del D. Lgs. 81/2008); vi sono infine poteri assegnati con una serie di limitazioni. Rispetto alla composizione della compagine sociale, ancora, l’amministratore può essere espressione di un gruppo famigliare che sostanzialmente identifi- chi la società e la proprietà oppure la società può ➛
essere controllata o completamente partecipata da un’altra società (o far parte di una holding): in tali casi è obiettivamente limitata la capacità decisionale dell’amministratore, obbligato a confrontarsi con direttive esterne, anche senza sfociare nella casistica del c.d. “amministratore di fatto” ovvero di un’ete- rodirezione esterna sotterranea.
Sotto il versante organizzativo, i poteri dell’ammini- stratore possono subire, o meno, una limitazione nella soggezione a meccanismi di controllo e sistemi di gestione che impongono scelte obbligate.
Infine, l’amministratore può rivestire un ruolo me- ramente funzionale, oppure assumere in sé poteri di- rettivi e gestionali che lo identifichino con la figura dell’imprenditore. L’elencazione potrebbe andare avanti a lungo, ma ciò che si vuole qui rappresentare
– ed è un punto critico nei confronti della sentenza in argomento – è che quando parliamo di ammini- stratore di società ci troviamo di fronte ad una plu- ralità di situazioni che rendono difficile trovare una linea comune di demarcazione.
E, al netto dei diversi orientamenti dottrinali, l’ete- rogeneità e diversificazione delle sentenze di legitti- mità, ricordata dalle stesse Sezioni Unite, invece di rappresentare un mero contrasto interpretativo do- vrebbe piuttosto suggerire, a parere di chi scrive, il diverso atteggiarsi della questione posta a base della riflessione della Suprema Corte (ovvero la qualifica- zione del rapporto fra amministratore e società e la sua rilevanza in termini procedurali) a seconda del caso concreto che si presenti, tanto che risulta diffi- cile individuare un principio comune universale, a meno di sacrificare, in un senso o nell’altro, l’eviden- za di ciascuna situazione peculiare (summum ius, summa iniuria). Al più potrebbero individuarsi dei criteri interpretativi – e non un principio statico - per orientare, in un senso o nell’altro, il giudizio al ricorrere di determinati indici5.
Né a tal fine può dirsi soddisfacente l’eccezione del punto 4 della sentenza, fonte di contraddizioni che esamineremo nel paragrafo seguente.
Ma forse proprio qui si può in qualche modo valoriz- zare la sentenza 1545/2017, che ha indubbiamente il pregio di una ricognizione giuridica e dottrinale tale da mettere in discussione l’affermazione apodittica della precedente 10680/1994 (non fosse che la sosti- tuisce con un’affermazione altrettanto apodittica), così da offrire lo spunto di una diversa angolazione da cui considerare il rapporto amministratore-socie- tà. È pertanto da ritenersi che entrambi i criteri sug- geriti dalle due contrapposte sentenze possano e deb- bano coesistere ed esser applicati caso per caso al ricorrere della situazione concreta. In tal senso, già alcune sentenze di Cassazione (ad es. 1999/1726) pur aderendo in via generale all’orientamento delle SS. UU. del 1994, ne avevano limitato la portata, indivi- duando casi in cui il criterio della parasubordinazio- ne non potesse esser applicabile (segnatamente, nei casi di amministrazione unipersonale o di ammini- stratore unico, oppure amministratore delegato con le medesime funzioni dell’amministratore unico).
Tuttavia, nell’incertezza della disciplina adottabile, a parer di chi scrive una prevalenza dovrebbe in prima battuta essere riservata alla disciplina più tutelante la parte debole, o presunta tale: come dire che la neces- sità di non creare palesi ingiustizie tenderebbe a far optare per la procedura che appare più garantista ed idonea a difendere anzitutto gli interessi della perso- na (restando prudenzialmente sotto la disciplina del 409 c.p.c.). Oppure – come detto – se proprio si fosse sentita l’esigenza di fondare una linea di indirizzo co- mune ed inequivoca, meglio sarebbe stato individua- re con una certa precisione i criteri distintivi secondo cui assegnare prevalenza ora all’una ora all’altra disci- plina, invece che spostare seccamente il baricentro in- terpretativo da un orientamento all’altro, creando in- giustizie di ugual natura (anche se di segno contrario) di quelle a cui si vorrebbe rimediare.
Le altre criticità della sentenza
Se la critica fondamentale del concetto di diritto espresso dalla SS.UU. rimane quella del paragra- ➛
{
5. Sotto questo profilo, a ben vedere, anche la ricordata sentenza SS.UU. 10680/1994 appare parziale, anche se idonea - a parere
di chi scrive - a ricomprendere una casistica più ampia e frequente.
fo precedente (è arduo, e sostanzialmente ingiusto, fissare una regola statica e predeterminata che non riesce ad applicarsi ad una fattispecie multiforme ed estremamente mutevole), a ben vedere si riscontrano nella sentenza alcuni ulteriori passaggi che destano più di una perplessità e che minano la granitica in- confutabilità che la sentenza vorrebbe rappresentare. Se è permesso un paragone che non vuole essere irri- verente, così come l’esperienza ci insegna che spesso in una discussione chi alza la voce di solito appare poco convincente sulla effettività delle proprie ragio- ni, così la radicalizzazione ed estremizzazione dei concetti in uno scritto denunciano una forzatura lo- gica che altrettanto depone a sfavore della bontà del- la tesi sostenuta, addirittura contro la bontà stessa (di cui la sentenza in argomento certo non manca). Così, se appare estremamente ragionevole sorpren- dere nella disciplina processuale lavoristica di cui al 409 c.p.c. il presupposto di una qualche “debolezza” di una parte (che giustifica un rito proprio diverso dall’ordinario), è stupefacente che, in un’esegesi del termine “coordinamento” a supporto del proprio convincimento, le SS.UU. si xxxxxxxx non solo a dire che il coordinamento “deve presentare connota- ti simili a quelli del rapporto gerarchico propriamen- te subordinato”, ma che con esso si intende addirit- tura “l’eterodirezione dell’attività stessa” (sic!).
Tali sono infatti i concetti che nell’odierno, ma in certo qual modo anche passato, panorama giuslavo- ristico non solo qualificano “senza se e senza ma” il lavoro subordinato vero e proprio (etero-direzione) ma sospingono addirittura anche il rapporto parasu- bordinato (cfr. anche art. 2 D. Lgs. 81/2015) nell’al- veo delle amplissime tutele del lavoro dipendente qualora vi siano anche solo taluni requisiti partico- larmente invasivi dell’autonomia operativa del colla- boratore (la c.d. etero-organizzazione). E sorprende pertanto che le SS. UU., visto l’esteso dibattito inne- scato su questi punti da sempre, ma in particolare con le riforme del Jobs Act, entrino in tale questione
6. Il che, peraltro, è ciò che fa anche la sentenza 1545/2017 quando (ultimo periodo del punto 3.4) accertano
la “assenza di una situazione di debolezza contrattuale” non già in via generale ma “nella vicenda che ci occupa”.
{
“a gamba tesa” ed utilizzando tali concetti senza al- cuna delicatezza e discrezione terminologica. Volen- do ragionare a contrariis, secondo il principio testè esposto dalla Cassazione dovrebbe essere negata in radice la tutela dell’art. 409 c.p.c. ad un autentico contratto di collaborazione coordinata e continuati- va in cui le parti avessero stabilito (e rispettassero di fatto) l’assenza di etero-organizzazione ed etero-di- rezione. Il che, evidentemente, è un assurdo.
Piuttosto, occorre notare come fosse discutibile, da parte della sentenza del 1994 (e sul punto le SS. UU. del 2017 esprimono un concetto condivisibile), li- quidare sbrigativamente il tema della debolezza con- trattuale come estraneo ai presupposti di applicabili- tà dell’art. 409. Il problema semmai è quello di accertare se l’alterità (che di fatto esiste) fra ammini- stratore e società si configuri in ciascuna situazione specifica come situazione di oggettiva debolezza an- ziché no6 onde riservare a tale rapporto un’attenzio- ne particolare sotto il profilo processuale. E, visto gli effetti che ne derivano per il caso di specie (la pigno- rabilità del compenso), accertare se tale debolezza ha riverberi anche solamente sotto il profilo di una di- pendenza economica, concetto che, quantunque sci- voloso, nel panorama internazionale assume sempre più rilievo per definire lo spartiacque fra lavoro (e rischio) d’impresa ed attività personali. È del tutto evidente, infatti, che nel 409 c.p.c. si voglia dare at- tenzione all’attività lavorativa delle persone, dedi- candovi una particolare tutela, anche quando, come nel caso dell’agente, l’attività sia esercitata in forma imprenditoriale, laddove in tale attività sia riscontra- bile una subalternità. Ed infatti, probabilmente ac- cortesi di essersi spinte troppo in là, le SS. UU. ten- tano un improvviso revirement nel punto 4 della sentenza, che a parere di chi scrive rappresenta una palese contraddizione. La Cassazione infatti ipotizza che possa instaurarsi, fra la società e la persona “che la rappresenta e la gestisce” un diverso e autonomo rapporto, che può assumere i connotati del con- ➛
tratto d’opera, del lavoro parasubordinato o, xxxxxxx- xxxx, del lavoro subordinato. Ora, a parte che tale divisione appare molto difficile da individuare nell’esercizio di un’attività unitaria7, non si vede come potrebbe configurarsi tale alterità contrapposta (di fatto respinta costantemente dalla giurisprudenza, quantomeno per quanto concerne il lavoro subordi- nato, anche dirigenziale) qualora l’amministratore emergesse, come pretende la sentenza 1545/2017, come figura gestionale espressione di fatto dell’attivi- tà imprenditoriale caratteristica della società. È evi- dente che configurare anche solo la possibilità di tale rapporto (distinto o meno che sia), significa in qual- che modo riconoscere quella “subalternità”, più o meno attenuata, che poche righe prima Cassazione aveva provveduto ad escludere in radice.
Il che riporta, circolarmente, ancora ad osservare che:
- solo l’esame di ciascuna casistica concreta permette di applicare ora il criterio dell’esclusione della pa- rasubordinazione, laddove si evidenziasse un’atti- vità di carattere gestorio-imprenditoriale, oppure al contrario il suo pieno riconoscimento, qualora l’attività dell’amministratore, per quanto autono- ma e caratteristica, si rivelasse più defilata e co- munque dipendente da centri decisionali o gestio- nali ad esso contrapposti;
- anche dopo la pur pregevole argomentazione che attraversa tutta la sentenza, le SS. UU. stesse appa- iono poco convinte che in assoluto fra amministra- tore e società vi sia un rapporto “paritario” o addi- rittura di immedesimazione, costrette - come sono
- dall’evidenza a salvare quella debolezza economi- co-contrattuale tanto evidente in molte situazioni.
Gli effetti fisco-previdenziali dell’orientamento delle Sezioni Unite L’operatore attento può chiedersi se l’orientamento espresso dalle SS. UU. con la sentenza in commento possa avere qualche riverbero sull’inquadramento fi- scale, previdenziale ed assicurativo dei compensi erogati agli amministratori. A parere di chi scrive ciò
7. Tale suddivisione artificiosa ricorda un’altra “perla” delle Sezioni Unite, quella dell’altrettanto artificiosa divisione fra attività del socio amministratore- gestore e del socio lavoratore nella sentenza 3240/2010. Per un commento critico su tale sentenza e sullo specifico passaggio, sia concesso il rimando
a X. Xxxxxxx, Amministratori e soci commercianti. Cassazione, interpretazione autentica e questioni irrisolte, il Giurista del Lavoro n. 8/2010.
{
sembra potersi escludere in quanto, com’è di tutta evidenza, non cambia il trattamento fiscale, che ri- mane disciplinato in modo indipendente dall’art.50, comma 1, lett c-bis del TUIR. Anche l’aspetto pre- videnziale non varia, in quanto risulta ancorato all’aspetto fiscale (art. 2 co 26 della L. 335/95). An- cora una volta è il caso di notare come il contributo alla Gestione Separata, unico nel panorama previ- denziale, non è legato all’esercizio di un’attività, qual- siasi essa sia, ma alla mera percezione di un reddito, seguendo pertanto pedissequamente la qualificazio- ne fiscale, cosicchè un qualsiasi cambio dell’imposta- zione giuridica e/o lavoristica dell’attività de qua (come nel caso della sentenza qui in commento) ri- sulta del tutto ininfluente ai fini fisco-previdenziali. Pertanto non viene modificato in nulla l’attuale trat- tamento dei compenso agli amministratori, nemme- no sotto il profilo assicurativo.
Piuttosto, l’insistenza - del tutto innaturale, forzosa ed ingiustificata, come abbiamo visto in precedenza
- con cui la Cassazione ha voluto separare categori- camente l’attività dell’amministratore da quella di un ipotetico ulteriore distinto e autonomo rapporto, potrebbe fornire ulteriore supporto per la pratica delle due assicurazioni parallele, legittimando per- tanto quella scelta (in molti casi abbastanza discuti- bile) delle aziende che inserendo un dipendente nel cda gli erogano un compenso a parte come ammini- stratore trattandolo previdenzialmente nel più favo- revole ambito della Gestione Separata (oltretutto ad aliquota ridotta).
Riflessioni aggiuntive
Fatto salvo quanto sopra, alcune riflessioni in paral- lelo emergono dall’esame di questa sentenza.
Una prima constatazione, sconfortante per chi scrive, è che nel panorama giuridico italiano esiste un pro- fondo scollamento fra la legislazione societaria e quel- la lavoristica, senza considerare le relative norme fi- scali e soprattutto previdenziali ed assicurative.
Ciò non solo determina profonda confusione fra ➛
gli operatori, ma spesso mette in contrapposizione interpretazioni giurisprudenziali che quando sono a cavaliere fra i due ambiti risentono dell’influenza di uno o dell’altro oppure, quel che è peggio, distorco- no i concetti per farli rientrare forzatamente nello schema ritenuto utile alla trattazione del caso. Casi emblematici, oltre a quello considerato, riguardano ad es. vexatae quaestiones quali: la qualificazione, sempre ai fini procedurali, dei soci lavoratori di coo- perativa o dei soci di cooperative artigiane, la figura del socio-amministratore nelle società commerciali e la sua previdenza, la partecipazione dei soci al lavoro della società e la subordinazione. L’evoluzione delle forme di lavoro e di impresa richiede un profondo ripensamento organico e sistematico rispetto ad un impianto incapace di cogliere i cambiamenti inter- venuti; volendo fare un paragone, così come il lavoro subordinato di stampo industriale o post-industriale non riesce a comprendere le coordinate del lavoro nell’era di industry 4.0, così l’impianto societario e di impresa civilistico, per quanto più volte modifica- to ed aggiornato, non riesce a reggere il passo con i profondi mutamenti del tessuto economico e sociale. O forse sarebbe più corretto notare che entrambe le modifiche in questi due ambiti procedono su per- corsi quasi paralleli e rischiano pertanto di incon- trarsi molto raramente, con una disarmonia causa di evidenti discrasie.
Non sembra peraltro opportuno chiedere alla Supre- ma Corte di dare risposte organiche a questo scolla- mento, svolgendo una funzione suppletiva a tali caren- ze normative. Anche perchè, ed è una seconda considerazione, talvolta le enunciazioni di diritto sca-
turite in sede di legittimità o risentono della suggestio- ne del caso in esame (e pertanto perdono dell’oggetti- vità che dovrebbe esser loro propria) o, esattamente al contrario, si perdono in disquisizioni di alto diritto che rischiano di smarrire il senso della realtà, chiuse in un “iperuranio giuridico” forse soddisfacente per chi lo frequenta ma poco utile per chi da quelle sentenze deve far discendere decisioni concrete (ed eque), o, detto in altre parole, difettano di quella sistematicità e discerni- mento che da loro ci si aspetterebbe.
Un ultima riflessione, più sul caso concreto, ci porta a considerare che anche le limitazioni operate dall’art. 545 c.p.c. ( e le eventuali estensioni di esso richiama- te in sentenza e nel presente commento) sembrano legate ad un passato in cui (in via generale) la forbice salariale, cioè lo scarto fra retribuzioni alte e retribu- zioni basse, era meno accentuata di oggi (senza con- tare l’effetto che su tale divario ha avuto il diminuito potere reale di acquisto), e pertanto esse erano su- scettibili di un trattamento uniforme. Oggi, la sot- trazione di un quinto di una retribuzione di 1000 euro mensili fa scendere il percipiente sotto la soglia di povertà mentre nel caso di una retribuzione di
20.000 euro mensili incide su una mera porzione del “superfluo”8. Ed anche lo stesso ambito di efficacia dell’articolo predetto non prende in dovuta conside- razione lo sviluppo di quelle realtà economicamente dipendenti (anche se formalmente e giuridicamente autonome) che poco hanno a che spartire con il mondo realmente imprenditoriale.
Chissà che una prossima modifica del “timidamen- te” nascente Statuto del lavoro autonomo non ne tenga conto in qualche misura.
{
8. Molto più mirata, ad esempio, anche se in ogni caso ancorata al limite massimo di un quinto, riguarda la misura della quota di retribuzione soggetta
a pignoramento diretto esercitabile da Equitalia (art. 72-ter del DPR 602/1973), che a seconda dello scaglione reddituale mensile del lavoratore ha
una gradazione più attenuata (un decimo, un settimo e poi un quinto).
SENZA FILTRO
Aboliti i
Rubrica impertinente di PENSIERI IRRIVERENTI
di XXXXXXX XXXXXXX
voucher: un decreto
senza capo né coda
D
ell’infelice scelta operata dal D.L. n. 25 del 17 marzo 2017 riguardante la abrogazione della disciplina del lavoro accessorio e della modifica delle disposizioni sulla responsabilità solidale in
materia di appalti si è già detto praticamente tutto. Molto altro certamente si dirà quando il testo sarà pre- sentato al Parlamento per la sua conversione in legge, dovendo essere presumibilmente emendato soprattut- to a causa dell’avventata scelta di abolire in toto la di- sciplina voucher nonostante la possibilità di un loro temporaneo utilizzo (solo per quelli già acquistati) sino al 31 dicembre 2017. Non ci soffermeremo qui sull’op- portunità del provvedimento, non censureremo le scel- te politiche, non snoccioleremo i numeri del fenomeno voucher, non criticheremo il vuoto legislativo che si è creato, non cavalcheremo le vibrate proteste delle varie associazioni di categoria. Anche se - ci si permetta un appunto populista - è singolare come delle castronerie contenute nelle leggi italiche se ne accorgano subito, praticamente in tempo reale, i destinatari dei provvedi- menti e gli operatori del settore, mentre chi li adotta (che dovrebbe avere una competenza tecnica pari o su- periore ai “giuslavoristi di strada”) non ha alcuna per- cezione delle sonore cantonate che prende.
La nostra analisi si soffermerà invece, in primis, sugli aspetti tecnici riguardanti la legittimità del provvedi- mento de quo e solo marginalmente su altri che il ri- corso allo strumento del decreto-legge evidenzia pur- troppo come parimenti censurabili.
L’utilizzo del decreto-legge
Partiamo da una premessa fondamentale, giuridica e storica, indispensabile per comprendere correttamente
i termini della questione. L’emanazione di decreto-leg- ge per norma costituzionale, articolo 77, esige l’esi- stenza di un fatto eccezionale (straordinarietà) che im- pone in modo inevitabile (necessità) e immediato (urgenza) di provvedere. Esso è pertanto soggetto ai limiti imposti dall’art. 15 della Legge 23 agosto 1988
n. 400 sul piano sia formale che contenutistico e strut- turale, in quanto deve dare “ indicazione, nel preambo- lo, delle circostanze straordinarie di necessità e di urgen- za che ne giustificano l’adozione ...”.
Il rispetto di tali vincoli è garantito sia dal Presidente della Repubblica (in sede di promulgazione) che dalle Camere, ma, soprattutto, dalla Corte Costituzionale che può sindacare la palese assenza dei suoi presupposti.
Dell’abuso della decretazione d’urgenza si discute pe- raltro ormai da decenni, con particolare forza dalla presidenza Xxxxxx, durante la quale si fecero più fre- quenti i richiami (seppur informali) al Governo al ri- spetto dei presupposti prescritti dalla Costituzione nonché all’osservanza di quella regola di mera corret- tezza - invalsa dalla presidenza Xxxxxxx, ma rinnovata da Scalfaro - secondo cui i decreti legge devono essere trasmessi al Presidente almeno cinque giorni prima dell’esame in Consiglio. Con Xxxxxxxxxx i rilievi pre- sidenziali da riservati assumono peraltro la veste di co- municati ufficiali della Presidenza.
E non dimentichiamo infine che sin dal 1995, con la sentenza n. 29/1995, era stata riconosciuta alla Corte Costituzionale la possibilità di sindacare i decreti-legge nel caso di “eventuale evidente mancanza” dei presup- posti di necessità ed urgenza, precisando anche che l’assenza di tali presupposti “configura tanto un vi- ➛
SENZA FILTRO
Rubrica impertinente di PENSIERI IRRIVERENTI
zio di legittimità costituzionale del d.l., in ipotesi adottato al di fuori dell’ambito delle possibilità applicative costitu- zionalmente previste, quanto un vizio in procedendo della stessa l. di conv., avendo quest’ultima, nel caso ipotizzato, valutato erroneamente l’esistenza di presupposti di validità in realtà insussistenti e, quindi, convertito in legge un atto che non poteva essere legittimo oggetto di conversione”.
Sono quindi più di vent’anni che Presidenti della Repub- blica, il Parlamento, i Giudici Costituzionali e di volta in volta (secondo convenienza) le varie forze politiche criti- xxxx la legislazione d’urgenza, promettendone e xxxxxx- xxxxxxx un uso più conforme al dettato costituzionale. Xxxx, in splendida coppia con Xxxxxxx Xxxx, cantava: Parole, parole, parole …
Le motivazioni del decreto-legge
Analizzando per prima cosa i dichiarati motivi di stra- ordinaria necessità e urgenza che hanno portato il Governo a emanare il decreto-legge in questione, pren- diamo atto come sia lo stesso provvedimento a segna- lare che si è trattato di “superare l’ istituto del lavoro accessorio al fine di contrastare pratiche elusive, non- ché di modificare la disciplina della responsabilità solida- le negli appalti al fine di elevare ulteriormente l’effi- cacia delle tutele in favore dei lavoratori, in coerenza con la recente evoluzione della disciplina in ma- teria di contratti pubblici”. Il preambolo, previsto e ri- chiesto Legge n. 400/88, appare esplicitato chiara- mente e ci costringe all’amara constatazione che del lavoro accessorio - previsto dalla Legge Biagi, riformu- lato poi dalla Fornero ed oggetto infine di una serie di appesantimenti burocratici, su tutte la piena tracciabi- lità - viene ad essere decretato il totale fallimento.
Oggi quindi, nonostante vari interventi correttivi che ne avevano ingessato l’utilizzo richiedendo la preventi- va indicazione delle fasce temporali di utilizzo (che per inciso non sono richieste né per il lavoro intermittente né per il lavoro supplementare nei contratti part-time), il legislatore prende atto che di tale strumento se ne continua a fare un uso improprio e opta per un inter- vento drastico e risoluto: la sua completa abrogazione.
Ora, è singolare che con un decreto-legge si dichiari l’urgenza di cancellare una vigente legge dello Stato
anziché ricorrervi per emanare un suo correttivo o una nuova norma. Da un lato equivale a riconoscere impli- citamente che sono state peggiori le conseguenze crea- tesi a seguito dell’intervento normativo del legislatore, rispetto al problema originario (contrasto ed emersio- ne del lavoro nero occasionale) che la norma stessa avrebbe voluto/dovuto risolvere. Da un altro lato è inaccettabile che venga abrogata una disciplina - di cui si denuncia un uso distorto, quindi implicitamente ap- propriata se gestita secondo la legge - solo perché alcu- ni soggetti se ne approfittano. Ragionando in tal modo si dovrebbero abolire le pensioni di invalidità conside- rati i falsi invalidi che vengono scoperti tutti i giorni; i permessi legge 104 a causa dei dipendenti che li sfrut- tano per esigenze personali; il trattamento di malattia nel settore pubblico visto che nel comparto le malattie sono il doppio rispetto al settore privato. E chissà quante altre norme, giuslavoristiche e fiscali, dovreb- bero essere cestinate.
In tutto ciò è evidente il contorto ragionamento del legi- slatore: davanti al fallimento (o presunto tale) degli inter- venti correttivi sui buoni lavoro e all’impossibilità di tro- vare una difesa efficace al loro abuso, anche quel poco di buono che è stato fatto deve essere cancellato. Un poco come il pastore che dopo aver costruito il recinto per le sue pecore, accortosi che il lupo è riuscito lo stesso a mangiarne una, decide di abbattere tutta la recinzione.
L’urgenza del decreto-legge
Nonostante la dichiarata impellenza di intervenire per contrastare inaccettabili pratiche elusive - evidente- mente diffusissime pur non essendo stati forniti dall’esecutivo i dati ufficiali circa il numero di datori di lavoro e di prestatori coinvolti - il decreto legge pre- vede che “i buoni per prestazioni di lavoro accesso- rio richiesti alla data di entrata in vigore del pre- sente decreto possono essere utilizzati fino al 31 dicembre 2017”.
Possibile che il legislatore non ne abbia compreso e percepito la palese contraddizione? La ratio del decre- to-legge non avrebbe imposto, senza se e senza ma, un assoluto divieto ex nunc dell’utilizzo dei buoni lavoro? In pratica invece è stato come proibire l’uso di un an- tinfluenzale perché si è scoperto avere effetti deva- ➛
SENZA FILTRO
Rubrica impertinente di PENSIERI IRRIVERENTI
stanti sul sistema immunitario e, pur vietandone la produzione, si è permesso al contempo di continuare a vendere i prodotti già distribuiti nelle farmacie.
Perché non ritirare dal mercato i prodotti pericolosi? Per i costi del ritiro? Ma la salute non dovrebbe venire prima di tutto? E per i voucher sta accadendo una cosa simile: vi è l’indifferibile necessità e urgenza di bloc- carne l’uso in quanto non è possibile garantirne un uso conforme, ma per evitare che coloro che hanno già comprato i buoni lavoro debbano accollarsi gli oneri del rimborso (il 5% del loro valore) si concede la clas- sica deroga. Tutto secondo la tradizione italiana.
Se sussisteva tutta questa urgenza si poteva benissimo garantire il 100% del rimborso, accollando allo Stato le spese. Un po’ come fanno le case automobilistiche quando si accorgono di un difetto di fabbrica e richia- mano le autovetture nelle proprie officine.
La legittimità del decreto-legge
Ma ciò che più brucia è dover registrare l’ennesima spudorata presa per i fondelli. È stato scritto, nero su bianco nel preambolo, che l’urgenza dell’abolizione del lavoro accessorio è dettata dalla necessità “ di con- trastare pratiche elusive”. Al contrario in conferenza stampa il Governo confessa candidamente di aver “abrogato le norme su voucher e appalti nella consapevo- lezza che l’Italia non aveva certo bisogno nei prossi- mi mesi di una campagna elettorale su temi come questi e nella consapevolezza che la decisione è coeren- te con l’orientamento che è maturato nelle ultime settimane in Parlamento”. Mettiamoci innanzitutto d’accordo su un punto: il motivo è l’abuso che si è ri- levato o sono i rischi di un dibattito referendario?
E poi, se le decisioni adottate sono coerenti con l’orien- tamento del Parlamento, perché non seguire il normale iter parlamentare considerato che l’uso - e il consequen- ziale presunto abuso - continua, seppur parzialmente, ad essere permesso sino a fine 2017?
È disarmante che, nonostante queste dichiarazioni, che palesano il solo scopo politico di evitare il referen- dum, si debba registrare (ricordiamoci le citate venten- nali promesse) la firma del Presidente della Repubblica e una accondiscendenza delle opposizioni che rinun- ciano ad un intervento presso la Corte Costituzionale
per far dichiarare l’illegittimità del decreto per man- canza dei motivi di straordinaria necessità e urgenza.
L’entrata in vigore del decreto-legge
Vi è infine una ulteriore questione su cui fare una seria riflessione. Il decreto-legge, proprio in considerazione della sua urgenza, entra in vigore il giorno stesso o quello successivo alla pubblicazione.
Nel caso specifico la scelta dell’esecutivo è caduta sulla esecutività immediata: il primo pomeriggio si è riunito il Consiglio dei Ministri e alla sera il testo è stato pub- blicato sulla Gazzetta Ufficiale, così stabilendo: “Il presente decreto entra in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione”. Si permetta al povero commen- tatore di esprimere forti perplessità sul buon senso di tale scelta, anche fosse provata la sussistenza dei requi- siti di necessità ed urgenza.
Si tratta di una decisione che contrasta con il principio di irretroattività della legge che, seppur l’articolo 25 del- la Costituzione lo confini in termini di inderogabilità assoluta al solo campo penale, dovrebbe in ogni caso essere tenuto in primaria considerazione in tutti gli am- biti del diritto, anche perchè codificato quale principio generale dell’ordinamento giuridico dall’articolo 11 del- le preleggi secondo il quale “La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”.
Una valutazione in un’ottica soprattutto di legalità so-
stanziale - la tanto decantata “certezza del diritto” - per evitare che la mattina qualcuno ponga in essere un comportamento che alla sera possa essere considerato illegittimo, passibile quindi di sanzione amministrati- va o risvolti civilistici.
Anche perché, a dirla tutta, pensare - anche oggi nell’era di internet, dei TG e dei social network - che sia sufficiente la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale per presumere ope legis la conoscenza da parte di tutti i cittadini dei provvedimenti emanati da Parlamento o Governo è una finzione giuridica che presta il fianco a parecchie condivisibilissime critiche e sarebbe da rive- dere e riconsiderare.
Le possibili soluzioni
Xxxx accadrà adesso? Non si sa bene ma il Governo si è da subito premurato di rassicurarci, dicendoci ➛
SENZA FILTRO
Rubrica impertinente di PENSIERI IRRIVERENTI
che “useremo le prossime settimane per rispondere ad una esigenza che certamente l’eliminazione dei voucher non risolve, per una regolazione seria del lavoro sal- tuario e occasionale”.
Una regolamentazione seria? Perché quanto fatto sino ad oggi è stata una pagliacciata?
Sarebbe fin troppo facile sottolineare che sarebbe stato meglio attendere l’abrogazione della normativa solo dopo aver individuato un nuova disciplina, anziché mettere in crisi privati, famiglie e imprenditori (da ultimo gli agri- coltori in vista dell’imminente inizio della stagione dei raccolti), disorientati dalla scomparsa di uno strumento che aveva dato comunque una risposta a quella proble- matica che, per ammissione dello stesso Governo, “cer- tamente l’eliminazione dei voucher non risolve”.
Con un sano disfattismo si può dire che difficilmente il Governo sarà in grado di proporre nelle “prossime settimane” una regolazione del lavoro occasionale che sia immune dalle medesime critiche che la CGIL ha riservato ai voucher e che abbia, al contempo, il pregio della semplificazione (richiesta dal mercato) e della ca- pacità di impedirne un abuso (richiesta dai sindacati). Utopia e promesse demagogiche a gogò.
Va comunque riconosciuto che un piccolo aiuto, pur limitato nel tempo, è stato dato alle imprese dallo stesso Governo che nel dare in pasto ai TG della sera di giove- dì l’anticipazione di un periodo transitorio del loro uti- lizzo, ha suggerito, consapevolmente, di acquistare i buoni lavoro nella giornata di venerdì. Un aiuto che però dimostra, casomai ce ne fosse un ulteriore bisogno, la contraddittorietà della motivazione del decreto-legge che non avendo provveduto alla abrogazione immediata di tutti i buoni lavoro conferma come il denunciato fe- nomeno dell’utilizzo improprio non fosse così rilevante
ed incontrollabile come si vuol far credere.
Ma ormai il dado è tratto, o forse sarebbe meglio dire la frittata è fatta. Soluzioni alternative ad una assun- zione tradizionale sono difficili da individuare.
Un suggerimento potrebbe certamente darlo l’Orga- nizzazione sindacale che ha proposto il Referendum abrogativo e da cui è poi scaturita la decisione di Go- verno, ovvero la CGIL.
In tempi non sospetti infatti il Presidente dell’Inps Xxxx Xxxxx aveva denunciato una palese ipocrisia da parte della CGIL che contestava i voucher ma poi li usava per pagare alcune prestazioni di pensionati: “… si trat- ta di un episodio tutt’altro che isolato. Nell’ultimo anno la CGIL ha investito 750 mila euro in voucher … An- che altri sindacati hanno massicciamente usato questi strumenti, ad esempio la CISL ne ha utiliz- zati per un valore di 1 milione e mezzo di euro”.
Se anche fosse vera la replica del Sindacato guidato dalla Xxxxxxx che si tratta di prestazioni di poco su- periori a 1.000,00 euro annue pro capite, il fenomeno dell’utilizzo del lavoro accessorio riguarderebbe circa 750 collaboratori della CGIL e 1500 della CISL. Sarebbe interessante capire e verificare se le Organiz- zazioni Sindacali hanno provveduto all’assunzione di tali soggetti e con quale forma contrattuale. Ma altret- tanto avvilente sarebbe scoprire - grazie magari alle verifiche di qualche solerte Ispettorato Territoriale del Lavoro o peggio ancora da un servizio scandalistico delle Iene - che le prestazioni a voucher vengono gesti- te dallo scorso 18 marzo ricorrendo a (discutibilissime) prestazioni occasionali oppure che i voucheristi si sono magicamente trasformati in volontari.
UNA PROPOSTA AL MESE
di XXXXXXXXX XXXXXXX
Consulente del Lavoro in Milano
E XXXXXX XXXXXXX
Consulente del Lavoro in Paderno Dugnano
Scadenze fiscali certe ed equilibrate
“
Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo
(X. Xxxxxx)
S
iamo a fine marzo ed incredibilmente ancora una volta molti di noi – spero tutti – ce l’hanno fatta. Potrebbe cominciare così il resoconto della po- polazione di qualche villaggio sperduto situato ad alte quote montane, dopo aver sfidato i rigori e le ristrettezze dell’inverno. Invece questa è la frase che gira fra i consulenti del lavoro, per lo meno di quelli che sono riusciti a salvare il proprio ufficio e la pro- pria professione dalla valanga di adempimenti an- nuali che nel giro di poco più di un mese e mezzo hanno investito gli studi. È incredibile la quantità di impegni che si accavallano in questo periodo, come tutti i colleghi sanno. E se da una parte il fatto è fi- siologico (fine-inizio anno sono momenti “di svolta” che richiedono attenzioni particolari) ancor più in- credibile è che da anni si lamenti – senza riscontro - come alcuni di tali adempimenti sarebbero tranquil- lamente calibrabili in modo più umano, sena alcuna dispersione di valore e con la possibilità per tutti, a cominciare dai dipendenti degli studi professionali, di seguirli con rispetto dei tempi e delle modalità dovute senza dover sacrificare a queste (o viceversa)
le proprie esigenze personali.
In particolare, vorremmo qui concentrarci sulle sca- denze fiscali, quel settore in cui si sbandierano da anni leggi ed interventi di semplificazione, una parola (sem- plificazione) pronunciata dagli addetti ai lavori con ti-
more e che risuona quasi come una minaccia, visto gli interventi di pseudo-facilitazione fin qui prodotti.
Cominciamo dal secondo periodo dell’art. 51 co. 1 del TUIR “Si considerano percepiti nel periodo di imposta anche le somme e i valori in genere, corri- sposti dai datori di lavoro entro il giorno 12 del mese di gennaio del periodo di imposta successivo a quel- lo cui si riferiscono”. Ora, perché proprio il 12 e non un altro giorno, ad esempio il 20 o il 31? Una rispo- sta potrebbe venirci dal carattere, purtroppo casuale e aleatorio (dal latino alea, cioè dado) delle norme: per decidere la data hanno tirato i dadi, e come tutti sanno, il numero più alto che si può ottenere è 12. Così, i datori di lavoro e i lavoratori che vogliono mantenere una redditualità annuale omogenea, chie- dono che gli stipendi di gennaio siano disponibili in modo da poter far fronte a quel pagamento (e quindi ben prima del 12 gennaio); la simpatica coincidenza di festività nel periodo costringe molti lavoratori a non godersele come Dio comanda.
Da notare che:
- spostare tale data più avanti (fino al 31 del mese, che peraltro è anche la data di scadenza per la com- pilazione del LUL di dicembre) non avrebbe alcun riflesso in termini erariali, in quanto le ritenute si pagherebbero comunque entro il 16 febbraio;
- tenere una data più “larga” renderebbe più dif- ➛
UNA PROPOSTA AL MESE
ficili possibili “giochi” volti ad artificiosamente al- zare o abbassare (alternativamente) i redditi annui in vista di possibili benefici o prestazioni.
Andiamo avanti. La CU (certificazione unica) è di- ventata sempre più complessa: la “semplificazione” (virgolette obbligatorie) del 730 pre-compilato e del- la quasi -eliminazione del mod. 770 si è riversata su- gli studi e/o sulle aziende. Ora, a parte che sono tut- ti capaci di semplificare le cose semplicemente facendole fare a qualcun altro, ma possibile che i rin- novati adempimenti debbano essere posti in essere entro il 7 marzo (qui evidentemente uno dei due dadi si era bloccato sul numero 1), data in cui vanno trasmessi telematicamente? Una regola che ci sembra equa sarebbe portare la compilazione e trasmissione telematica della CU almeno al 31 marzo, con conse- gna al lavoratore/percipiente entro i 10 giorni succes- sivi. Un breve rinvio (magari nemmeno necessario) degli adempimenti di conguaglio del 730 non pre- occuperebbe nessuno.
Infine, il mod 770 (ormai residuale): finchè rimarrà
in vita, vogliamo fissare la scadenza fissa al 30 set- tembre dell’anno successivo? Possibile che ogni anno si assista a mini-proroghe che offendono l’intelligen- za e l’operosità dei professionisti, con balletti di ri- chieste varie e dichiarazioni di stampa?
Sembra quasi che vogliano tenere i professionisti per
… la gola: “vi concedo la proroga se mi approvate (cioè non protestate/remate contro ) questa o quella manovra”. E le proroghe dell’ultima ora servono solo ad innervosire, quasi mai a facilitare le cose (chi si azzarda a non far nulla contando sulla proroga?).
Allora, ricapitoliamo le proposte:
- principio di “cassa allargata” al 31 gennaio;
- CU entro il 31 marzo con consegna al percipiente nei 10 giorni successivi;
- scadenza del mod. 770 fissata al 30 settembre.
Tre date, due righe di norma, una grande facilitazio- ne per tutti.
Facile come bere un bicchier d’acqua e rendere ancor di più i nostri studi “puliti dentro e belli fuori”.
Toc toc. C’è nessuno in casa? (“Ritorno al futuro”, cit.)
ARGOMENTO
SENTENZE
Cass., sez. Lavoro,
19 gennaio 2017, n.1319
AUTORE
XXXXXX XXXXXXX
Consulente del Lavoro in Milano
Assenze riferite alla permanenza
in un centro di disintossicazione non possono giustificare i recesso datoriale
L
a società aveva licenziato il lavoratore per le assenze dal lavoro protrattesi dal 17 agosto al 2 settembre del 2009 per le quali il lavoratore aveva chiesto fin dal 29 luglio un’aspettativa non retribuita per il periodo 17 ago- sto 2009 al 27 febbraio 2011, aspettativa poi concessa dalla società il 10 settembre 2009, ma con decorrenza dal giorno 3 settembre 2009. La contestazione disciplinare, di essersi ingiustificatamente assentato dal 17 agosto al 2 settembre 2009, gli era stata poi mossa solo il 30 ottobre 2009. Il lavoratore durante il periodo contestato era stato ricoverato presso una struttura privata per esigenze di re-
cupero connesse al suo stato di tossicodipendenza.
La Suprema Corte, nel confermare la sentenza della Cor- te d’Appello che aveva annullato il licenziamento perché la contestazione disciplinare era stata mossa tardivamen- te, motiva che l’eventuale contestazione disciplinare per le assenze del lavoratore tossicodipendente impegnato in un programma terapeutico-riabilitativo presso idonee strutture pubbliche o private non può prescindere dal ri- spetto del principio di immediatezza della contestazione disciplinare, in osservanza ai canoni di correttezza e buo- na fede nello svolgimento del rapporto di lavoro.
L’art.124, co.1 D.p.r. n.309/90, prevede che i lavoratori di cui viene accertato lo stato di tossicodipendenza, i quali intendono accedere ai programmi terapeutici e di riabilitazione presso i servizi sanitari delle unità sanitarie locali o di altre strutture terapeutico-riabilitative e socio- assistenziali, se assunti a tempo indeterminato, hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro per il tem- po in cui la sospensione delle prestazioni lavorative è do- vuta all’esecuzione del trattamento riabilitativo e co- munque per un periodo non superiore a tre anni. Prosegue il comma 2 aggiungendo che salvo più favore- vole disciplina contrattuale, l’assenza di lungo periodo per il trattamento terapeutico-riabilitativo è considerata, ai fini normativi, economici e previdenziali, come l’aspettativa senza assegni degli impiegati civili dello Sta- to e situazioni equiparate
Ciò premesso la Suprema Corte conferma non solo e
non tanto la tardività della contestazione disciplinare ri- spetto alle assenze addebitate, quanto la contraddittorie- tà fra tale contestazione e la concessione dell’aspettativa, peraltro riferita al periodo immediatamente anteriore. Il ricorso è rigettato ritenendo illegittimo il licenziamento.
ARGOMENTO
Cass., sez. Lavoro,
24 gennaio 2017, n.1744
AUTORE
LUCA DI SEVO
Consulente del Lavoro in Bollate (MI)
Se manca il progetto o il programma specifico, il contratto a progetto non è genuino
A
ncora una volta la Suprema Corte si trova a dover af- frontare l’annosa questione inerente i rapporti di lavoro parasubordinato ed in particolare la tipologia del lavoro a progetto, così come individuata dal D.lgs 276/2003 e suc- cessivamente modificata fino alle previsioni dettate dalla L. 92/2012. Ancora una volta, come spesso accaduto in passa- to, i motivi del contendere tra datore di lavoro e prestatore d’opera, vengono individuati nella modalità di esecuzione
della prestazione, totalmente priva di autonomia, e nella ge- nericità del progetto proposto a riprova dell’instaurazione del rapporto di lavoro parasubordinato.
La Corte con la sua Sentenza ha ribadito i seguenti punti:
• il progetto inerente il programma o la fase di esso, doveva essere stilato in maniera che fosse evidente la specificità di esso, e non in maniera generica: nel caso in analisi, la lavo- ratrice svolgeva attività di telemarketing e in capo a tale ➛
SE
NTENZE
attività lavorativa è risultata evidente l’assenza di autono- mia, ma soprattutto dal progetto non si evincevano gli estremi di un obbiettivo specifico, bensì i soli contorni di una generica attività di promozione telefonica Infatti il te- lemarketing consisteva essenzialmente nell’attività di in- crementare le vendite e coincideva con un obbiettivo azien- dale generale. Già in passato (Cass. nn. 17636/2016, 17448/2016, 9471/2016, 15922/2013 ) è stato sentenziato come l’assenza di progetto specifico faccia venir meno la fattispecie del contratto a progetto con conseguente con- versione in rapporto di natura subordinata, anche laddo- ve fosse accertata l’autonomia della prestazione;
• il recesso intimato dalla parte datoriale non può avere for- ma orale; in ossequio a quanto previsto dall’art. 2 della Leg-
ge 604/1966, in assenza di forma scritta, esso è inefficace. La situazione oggetto della sentenza ha visto il datore di lavoro comunicare il recesso alla titolare del contratto a progetto in forma orale, facendo semplice riferimento alla data individuata come scadenza naturale del contratto di lavoro parasubordinato. Tuttavia, dovendosi considerare tale contratto di natura subordinata e a tempo indetermina- to, per i motivi evidenziati al punto precedente, il recesso orale non può essere valido e ciò ha determinato la decisio- ne della Corte di confermare la condanna del datore di lavoro a risarcire la lavoratrice (in precedenza, Xxxx. nn. 15106/2012, 16955/2007). La Sentenza si completa con ri- getto per inammissibilità o infondatezza di ulteriori motivi introdotti nel ricorso della parte datoriale
ARGOMENTO
Cass., sez. Lavoro,
31 gennaio 2017, n.2499
AUTORE
XXXXX XXXXX
Consulente del Lavoro in Cernusco sul Naviglio
Elementi qualificanti del licenziamento ritorsivo: illecito motivo e sua esclusività
A
l verificarsi di un fatto o di un comportamento, posto in essere dal lavoratore subordinato, lesivo dell’immagine
o del nome del datore di lavoro, questi è legittimato, seguen- do la procedura prevista dall’art. 7 dello Statuto dei Lavora- tori, ad erogare una sanzione disciplinare informata al xxxx- ne della proporzionalità. La sanzione massima comminabile è quella espulsiva consistente, appunto, nel licenziamento disciplinare per giusta causa. La legittimità del licenzia- mento disciplinare si fonda, oltre che sul rispetto dell’art. 7 Legge 300/1970 anche sul principio di proporzionalità.
La Sentenza n. 2499/2017 riguarda il caso di un dipenden- te che pubblicò su Facebook una vignetta denigratoria del datore di lavoro e lesiva dell’immagine del marchio.
Il lavoratore impugnò il licenziamento motivando l’illegit- timità del licenziamento con l’assenza di proporzionalità tra il fatto e la sanzione dichiarando inoltre che il licenzia- mento era di fatto di natura ritorsiva non sussistendo il fatto contestato. Il limitato numero di persone destinatario del messaggio contenente la vignetta presuntivamente de- nigratoria, il presunto diritto illimitato di satira, la presun- ta assenza del fatto posto a base del licenziamento hanno portato il lavoratore ricorrente a considerare ritorsivo e non disciplinare il licenziamento. Solo in Cassazione il datore di lavoro ha avuto finalmente soddisfazione risultando in- fatti soccombente nei precedenti gradi di giudizio.
La Suprema Corte ha affermato che ancorché l’immagine
denigratoria fosse stata pubblicata in una chat aziendale di Facebook e quindi con limitata visibilità, costituiva di per se una grave lesione dell’immagine aziendale. La sentenza ha affermato inoltre che il diritto di critica e di satira è le- gittimo ma incontra i limiti imposti dal vincolo insito nel rapporto di lavoro. La Corte di merito confondeva, a detta della Suprema Corte, la inosservanza degli obblighi di cor- rettezza, buona fede e civiltà sottesi al rapporto di lavoro con la satira televisiva o a mezzo stampa, nella quale man- cava un vincolo obbligatorio tra autore e destinatario della satira. Partendo quindi dalla conferma dell’esistenza del fatto, la Suprema Corte affermava la legittimità del licen- ziamento respingendo la presunta natura ritorsiva.
La sentenza si fonda su due evidenze:
- l’assenza del motivo illecito (ritorsione). Il giudizio ha fatto emergere che i motivi ritorsivi esposti dal lavora- tore erano insussistenti;
- la sussistenza del fatto. Riconosciuta la lesività dell’azione;
- l’assenza di altre ragioni lecite determinanti (esclusività del motivo). Il giudizio ha confermato la sussistenza del fatto lesivo del buon nome del datore di lavoro e l’inesi- stenza di altre ragioni giustificatrici del licenziamento.
In estrema sintesi, la natura ritorsiva del licenziamento era esclusa dalla fondatezza dell’ addebito disciplinare contestato, rispetto al quale il licenziamento era sanzio- ne proporzionata.
ARGOMENTO
Illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto ex art. 2110 c.c.
SENTENZE
Cass., sez. Lavoro,
10 marzo 2017, n.6298
AUTORE
XXXXX XXXXXXXXXX
Consulente del Lavoro in Milano
I
n data 4 luglio 2007 la società datrice di lavoro intimava il licenziamento per superamento del periodo di compor- to nei termini previsti dalla contrattazione collettiva appli- cata al rapporto di lavoro. Il lavoratore impugnava il recesso datoriale chiedendone la dichiarazione di illegittimità e la conseguente reintegra. Sia in primo grado che in appello i giudici di merito rigettavano le richieste del lavoratore il quale adiva la Suprema Corte al fine di far riconoscere l’il- legittimità del licenziamento intimato. La tesi del ricorrente si fondava in primis sull’errata individuazione delle norme applicabili al caso di specie: sosteneva che non dovesse ap- plicarsi esclusivamente l’art. 2110 c.c. “ ….. l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’articolo 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità” ma il combinato disposto dagli
artt. 2087 c.c e 5,L.n. 604/1966.
In sostanza sosteneva che parte datoriale dovesse anche di- mostrare l’esistenza di un giustificato motivo e di avere adottato tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro.
Vieppiù, sosteneva che la malattia era conseguente di un
inadempimento datoriale in materia di sicurezza, e pertanto le giornate di assenza non dovessero essere, comunque, computate nel comporto. La Corte conformemente al pro- prio consolidato orientamento (Cass. Sezioni Unite n. 8053 del 2014 e Cass. n. 25229 del 2015) ritiene inammissibili le argomentazioni del lavoratore rigettandone il ricorso.
Per quanto concerne il primo motivo, in quanto richiedeva una nuova valutazione dei fatti, mentre alla seconda do- glianza deve applicarsi l’art. 54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134, il quale ha introdotto rile- vanti modifiche in tema di ricorso per Cassazione circoscri- vendo il vizio di legittimità alla sola omissione di un fatto controverso (“che è stato oggetto di discussione fra le parti”) ritualmente allegato e dimostrato in giudizio, tale per cui se fosse stato invece tenuto in debito conto dal giudice, avreb- be comportato con certezza un diverso esito della contro- versia, e quindi fosse decisivo. I Supremi Xxxxxxx conferma- no, pertanto, che dopo la Riforma del 2012 non è più censurabile la motivazione relativamente al parametro della sufficienza ma la Corte deve controllare l’esistenza e la coe- renza del percorso motivazionale dei giudici di merito.
ARGOMENTO
Cass., sez. Lavoro,
17 gennaio 2017, n.985
AUTORE
XXXXXXX XXXXXXX
Consulente del Lavoro in Milano
Dimissioni legittime se il datore sovrappone le ferie al periodo di preavviso
U
n dirigente di banca si dimette e comunica al datore di voler lavorare durante il periodo di preavviso. La ban-
ca, a fronte di un residuo ferie di 62 giorni, comunica al dirigente che queste dovranno essere godute entro il 30 aprile, data di scadenza del periodo di preavviso.
Il lavoratore, a fronte della posizione della banca, si di- mette per giusta causa, ritenendo non sovrapponibili, ai sensi dell’art. 2109 C.C., le ferie e il preavviso e chiede il pagamento delle ferie non godute, oltre al pagamento del periodo di preavviso non lavorato. Il giudice di pri- mo grado accoglie la richiesta del dirigente, mentre la Corte d’Appello di Venezia ribalta la sentenza ritenendo legittimo il comportamento della banca, nell’ambito del suo potere organizzativo, di porre il lavoratore in ferie per permettergli di utilizzare quel numero di giornate non godute a tale titolo. La Corte di Cassazione, nel ri-
badire la sua competenza con particolare riguardo alle ipotesi in cui il giudice di merito è chiamato ad applica- re concetti giuridici indeterminati, tra cui rientra a pieno titolo la nozione di “giusta causa” di recesso, riconosce al datore il potere organizzativo di porre in ferie il lavorato- re, sempreché queste si aggiungano al periodo di preavvi- so, posticipando conseguentemente la data conclusiva del rapporto di lavoro. Nei fatti questo non era avvenuto e il dirigente aveva ben interpretato la gravità del com- portamento aziendale, decidendo di interrompere il rap- porto per giusta causa a fronte della sovrapposizione del- le ferie con il preavviso. I Giudici di Cassazione chiudono con l’accoglimento del ricorso, cassando la sentenza impugnata con rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appel- lo di Venezia in diversa composizione.
ARGOMENTO
NTENZE
SE
Cass., sez. Lavoro,
9 febbraio 2017, n.3484
AUTORE
XXXXXXX XXXXXX
Consulente del Lavoro in
Limiti del diritto di critica e
di censura in capo al lavoratore
I
l diritto di critica del lavoratore è tutelato dagli artt. 1 e 14 St. lav. ed assume particolare rilievo quando si collo- ca nello svolgimento dell’attività sindacale, di cui sono ti- tolari tutti i lavoratori indistintamente, anche a prescinde-
re dal ricoprire una carica di rappresentanza sindacale. Questo l’ambito entro il quale si muove la sentenza in esame che affronta il tema dei limiti del diritto di critica e di censu- ra in capo al lavoratore, con particolare riferimento al caso del suo esercizio nell’ambito dello svolgimento di attività sin- dacale, uniformandosi all’orientamento giurisprudenziale sviluppatosi in materia. La controversia decisa con la pro- nuncia in esame riguarda il caso di un lavoratore - semplice esperto sindacale ma privo di carica di rappresentanza speci- fica - che era stato licenziato per giusta causa per avere invia- to a 44 colleghi, tramite la propria mail aziendale, una co- municazione contenente frasi considerate offensive per i vertici aziendali ed alla quale era allegata una lettera prove- niente dai lavoratori di un’altra sede aziendale che, nelle bat- tute finali, incitava i colleghi a “resistere e sabotare l’azienda che ci ha dissanguati per anni ed ora ci sputa addosso”.
Il licenziamento era stato giudicato illegittimo sia dal Tribunale che dalla Corte di Appello di Torino, che lo aveva considerato sproporzionato ed aveva – sotto altro aspetto - valutato lecito l’utilizzo della posta elettronica aziendale, avendo accertato che in azienda si era instau- rata una prassi che ne legittimava l’uso per attività sinda- cale, non ritenuto quale uso per scopi personali.
La società datrice di lavoro ha presentato quindi ricorso in Cassazione, che lo ha tuttavia rigettato confermando la de- cisione della Corte di Appello e, con l’occasione, ha ribadito che il contenuto della mail e del comunicato in questione rendevano evidente che il lavoratore licenziato, esperto sin- dacale e coinvolto nella dialettica aziendale anche senza ri- coprire una carica di rappresentanza formale, si era mosso per fini collettivi e non personali, esprimendo le sue critiche in un momento di particolare conflittualità aziendale a li- vello nazionale. Tale decisione appare in linea con i prece- denti di legittimità, più o meno recenti, come ad esempio:
- Cass. n. 2499/2017, che ha confermato l’illegittimità del licenziamento (giudicato ritorsivo) di un lavoratore che su una chat privata all’interno di Facebook aveva pubbli- cato immagini e testi, recanti doppi sensi ritenuti grave- mente offensivi, contro l’atteggiamento tenuto dall’azien- da nelle trattative sindacali in corso, riconducendo tali pubblicazioni nell’alveo del diritto di critica e di satira;
- Cass. n. 19350/2003, che ha chiarito che il diritto di critica del lavoratore può essere oggetto di sanzione di- sciplinare solo se superi i limiti della correttezza for- male imposti dall’esigenza, anch’essa costituzional- mente garantita (art. 2 cost.), di tutela della persona umana, ad esempio con l’attribuzione all’impresa da- toriale o a suoi dirigenti di qualità apertamente diso- norevoli e di riferimenti denigratori non provati;
- Cass. n. 9743/2002, che aveva affermato che, nel caso del lavoratore sindacalista il giudice del merito, nel va- lutare se le espressioni usate in un contesto di conflit- tualità aziendale oltrepassino i limiti di un corretto esercizio delle libertà sindacali, deve accertare se le stesse non costituiscano la forma di comunicazione ri- tenuta più efficace ed adeguata in relazione alla posi- zione del sindacalista in quel dato contesto.
A tale ultimo riguardo, in effetti, anche la sentenza in commento ribadisce che, ai fini dell’accertamento della sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento, il giudice di merito deve valutare la gravità “in concreto” dell’infrazione contestata.
Relativamente al caso di specie, la Suprema Corte dà atto che nel giudizio di appello erano stati correttamente considerati – oltre ad aspetti soggettivi quali l’assenza di precedenti procedimenti disciplinari – anche aspetti re- lativi alla condotta posta in essere, come il fatto che la lettera allegata alla mail era stata ricevuta da altri ed inoltrata con poche righe, che ciò era avvenuto a pochi minuti dall’inizio della pausa pranzo e quindi senza pre- giudizio per lì’attività lavorativa, e che essa riguardava un grave momento di conflittualità che aveva interessato l’azienda a livello nazionale.