DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO DEL LAVORO XXIV CICLO
ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA
DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO DEL LAVORO XXIV CICLO
IL CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO NEL LAVORO PRIVATO E PUBBLICO
Assetti e linee di tendenza in un mercato del lavoro dinamico e globale
TESI IN DIRITTO DEL LAVORO
SETTORE CONCORSUALE 12/B2 SETTORE SCIENTIFICO DISCIPLINARE IUS/07
Relatore: Presentata da:
Xxxxx.xx Xxxx. Xxxxxxx Xxxxxxxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxx
Coordinatore:
Xxxxx.xx Xxxx. Xxxxxx Xxxxxxxx
Esame finale anno 2012
INDICE
CAPITOLO I
Il quadro normativo di riferimento: ricostruzione del puzzle e tasselli mancanti
1. Il contesto europeo 4
1.1. Il contratto a tempo determinato nella direttiva comunitaria 9
1.2. La trasposizione della direttiva comunitaria sul lavoro a termine nei principali Paesi europei 12
1.2.1. Il contratto a tempo determinato nell’ordinamento spagnolo 17
1.2.2. Il contratto a tempo determinato nell’ordinamento francese 23
1.2.3. Il contratto a tempo determinato nell’ordinamento inglese 25
2. La trasposizione della direttiva comunitaria sul lavoro a termine in Italia e clausola di non regresso. Una situazione di anticipata conformazione 28
3. L’evoluzione legislativa del contratto a termine nel settore privato 33
4. Il ruolo (primario) della contrattazione collettiva nel settore privato 39
5. L’evoluzione legislativa del contratto a termine nel settore pubblico. Il ruolo (marginale) della contrattazione collettiva 45
CAPITOLO II
Problematiche applicative e dubbi interpretativi. Il dialogo tra le Corti
1. Il contratto a tempo determinato come «eccezione» alla «regola»? 50
1.1. Onere di specificazione delle ragioni giustificatrici e sindacato giudiziario55
1.2. Segue: ragioni sostitutive ed incompiuto dialogo tra le Corti 60
1.3. Il regime sanzionatorio per il contratto a termine «ingiustificato» 64
1.4. Tempistiche di attuazione e conseguenze risarcitorie del termine illegittimamente apposto al contratto. La legge 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. Collegato lavoro) 70
2. La prevenzione degli abusi nella giurisprudenza comunitaria 81
3. Una peculiare forma di “abuso della giurisprudenza”: il contenzioso Poste Italiane 84
4. L’interpretazione della giurisprudenza costituzionale e comunitaria in ordine al divieto di conversione del contratto a tempo determinato nel lavoro pubblico 88
4.1. Il ruolo dei giudici nazionali nella determinazione delle misure sanzionatorie alternative per una tutela risarcitoria effettiva, adeguata e dissuasiva 91
4.2. Segue: la speciale casistica dei c.d. precari della scuola 93
CAPITOLO III
Il contratto a tempo determinato nel dibattito su flessibilità e precarietà nel mondo del lavoro
1. Le mutevoli esigenze di un mercato del lavoro in progress 100
1.1. Le politiche attive e passive in materia di occupazione e lotta alla precarietà: verso un welfare delle opportunità e delle responsabilità 103
1.2. L’esperienza dell’Xxxxxx-Romagna in materia di politiche attive e passive del lavoro 112
2. Una valutazione quantitativa del contratto a termine nel settore privato e pubblico 116
2.1. L’andamento del lavoro a tempo determinato in Europa nell’ultimo decennio 117
2.2. L’andamento del lavoro a tempo determinato in Italia nell’ultimo decennio
……………………………………………………………………………….. 121
2.2.1. L’andamento del lavoro a tempo determinato nel settore pubblico 126
2.3. L’andamento del lavoro a tempo determinato in Xxxxxx-Romagna e nella provincia di Bologna 129
3. Una valutazione qualitativa del contratto a termine nel segno di un’auspicabile riforma della materia 136
3.1. Vecchie convinzioni e falsi miti sul «male della precarietà»: precarietà e flessibilità o precarietà è flessibilità? 137
3.2. Il contratto a termine come forma «speciale» di occupazione? 142
3.3. Possibili antidoti alla precarietà: le proposte di riforma avanzate nel panorama europeo, nazionale e regionale 145
4. Verso una nuova flessibilità «socialmente ed economicamente sostenibile».....
……………………………………………………………………………….. 155
BIBLIOGRAFIA 160
CAPITOLO I
Il quadro normativo di riferimento: ricostruzione del puzzle e tasselli mancanti
1. Il contesto europeo – 1.1. Il contratto a tempo determinato nella direttiva comunitaria – 1.2. La trasposizione della direttiva comunitaria sul lavoro a termine nei principali Paesi europei –
1.2.1. Il contratto a tempo determinato nell’ordinamento spagnolo – 1.2.2. Il contratto a tempo determinato nell’ordinamento francese – 1.2.3. Il contratto a tempo determinato nell’ordinamento inglese – 2. La trasposizione della direttiva comunitaria sul lavoro a termine in Italia e clausola di non regresso. Una situazione di anticipata conformazione – 3. L’evoluzione legislativa del contratto a termine nel settore privato – 4. Il ruolo (primario) della contrattazione collettiva nel settore privato – 5. L’evoluzione legislativa del contratto a termine nel settore pubblico. Il ruolo (marginale) della contrattazione collettiva.
1. Il contesto europeo
Nell’ultimo ventennio si è assisto in Europa ad una serie di radicali riforme del mercato del lavoro, tutte incentrate sulla costante tensione fra efficienza del mercato ed affermazione dei diritti sociali.
Agli inizi degli anni ‘90 le autorità pubbliche vennero chiamate ad adoperarsi e a collaborare al fine di implementare una nuova cornice per la modernizzazione del lavoro, con l'obiettivo, da un lato, di affrontare le problematiche connesse alla disoccupazione e, dall’altro, di migliorare la competitività delle imprese, nell’intento di risolvere, una volta per tutte, il grave impasse socio-economico1 che aveva cagionato la crisi del sistema di welfare sino ad allora vigente.
Il primo documento ufficiale a prendere in seria considerazione tali tematiche fu il Libro Bianco di Xxxxxxx Xxxxxx del 1993 (“Crescita, competitività, occupazione - Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo”, COM(93) 700/F, dicembre 1993). Nel programma di Xxxxxx si sottolineava la necessità di mettere mano ad una profonda riforma del mercato del lavoro, divenuto ormai troppo rigido - in termini di organizzazione dell'orario, di retribuzioni, di mobilità e di adeguamento dell'offerta alle esigenze della domanda - e tale da comportare costi elevati, cresciuti in Europa in misura maggiore rispetto agli Stati Uniti e al Giappone. Era pertanto evidente come un costo del lavoro elevato spingesse le imprese verso la sostituzione di
1 Si fa riferimento, in particolare, agli shock petroliferi degli anni ‘70-‘80, all’indebolimento delle forze sindacali, nonché all’incapacità di molti mercati del lavoro di adattarsi ai rapidi cambiamenti in atto.
lavoro con capitale per non perdere la sfida competitiva con i concorrenti tradizionali e con i Paesi emergenti dell'area asiatica. In tal senso, il Libro Bianco suggeriva alcuni strumenti volti a favorire la riorganizzazione degli orari di lavoro, senza imporre la riduzione per via legislativa; fra questi, la negoziazione di un equilibrio migliore in tema di tutela sociale fra lavoratori permanenti e lavoratori a tempo determinato, in modo che sia le imprese che i lavoratori potessero scegliere il modello di lavoro preferito e più adeguato.
Nel 1994, all’interno Consiglio europeo di Essen del 9 e 10 dicembre, vennero riprese tali problematiche. In particolare, l’attenzione fu rivolta alle cause strutturali di gran parte della disoccupazione europea e sul ruolo centrale di un dialogo responsabile tra le parti sociali e il mondo politico. Vennero definiti cinque assi prioritari per le politiche degli Stati membri in materia di occupazione: promozione degli investimenti nella formazione professionale (adattabilità dei lavoratori all'evoluzione della tecnologia); aumento dell'intensità dell'occupazione nei periodi di crescita, attraverso un'organizzazione più flessibile del lavoro, una politica salariale favorevole agli investimenti volti a creare posti di lavoro e l'incoraggiamento di iniziative a livello regionale e locale; abbassamento dei costi salariali indiretti per favorire le assunzioni, specie dei lavoratori meno qualificati; politica del mercato del lavoro più efficace, definendo le misure di integrazione dei redditi; rafforzamento delle misure a vantaggio dei gruppi particolarmente colpiti dalla disoccupazione, segnatamente da quella di lunga durata (i giovani che abbandonano il sistema educativo senza un diploma, i lavoratori anziani e le donne).
Con il Libro Verde del 1997 su Partnership for a New Organization of work, COM (97) 126 def. del 16 aprile 1997, la Commissione intese poi stimolare un dibattito europeo su nuove forme di organizzazione del lavoro e, per la prima volta, venne presentata l’idea di un necessario bilanciamento tra flessibilità e sicurezza nel mercato del lavoro. In tal senso, il Parlamento Europeo, Commissione per l'occupazione e gli affari sociali, nella relazione sul predetto Libro Verde, ha osservato come l'esigenza di modificare l'organizzazione del lavoro fosse occasionata dai mutamenti paradigmatici osservabili sui mercati, nella società e a livello delle risorse umane sul mercato del lavoro, mutamenti che a loro volta influenzavano ed erano influenzati dalle nuove tecnologie produttive, dallo sviluppo di nuovi prodotti e forme di servizi,
da una globalizzazione sempre più forte della concorrenza e, per quanto concerne l'Europa, dalla realizzazione del mercato interno. Alla base vi era l’idea secondo cui, nell'economia post-industriale, la competitività non si crea lavorando sempre più duramente e a costi sempre minori, ma operando in modo innovativo, salvaguardando le potenzialità dei lavoratori e sfruttando le nuove tecniche, rafforzando l'orientamento verso la qualità e aumentando la capacità di adeguamento alle mutate esigenze dei consumatori. Una competitività di questo tipo richiedeva un'organizzazione del lavoro che fosse in grado di contribuire in ampia misura alla salvaguardia delle competenze dei lavoratori e che consentisse un afflusso continuo di nuove conoscenze. Il rinnovamento dell'organizzazione del lavoro comportava che i mutamenti ingenerati da finalità economiche venissero armonizzati con i mutamenti dovuti all'esigenza di rivalutare il ruolo dei lavoratori nel mondo del lavoro. In altri termini, la questione fondamentale per i lavoratori, le imprese, le parti sociali e i vertici politici era incentrata sul raggiungimento del giusto equilibrio tra flessibilità e sicurezza: da un lato, la necessità di offrire maggiore flessibilità agli imprenditori, per far fronte alle fluttuazioni della domanda dei beni e servizi da essi offerti e al fine di creare una polivalenza delle competenze e dei modelli lavorativi adattabili, a patto sempre che tali soluzioni fossero vantaggiose anche per i lavoratori; dall’altro, la necessità di rassicurare i lavoratori stessi sul fatto che, una volta introdotti i cambiamenti, essi avrebbero continuato ad avere, per un ragionevole lasso di tempo, un posto di lavoro e che la nuova organizzazione avrebbe offerto loro una maggiore sicurezza tramite un maggiore coinvolgimento nell'attività dell'azienda, una maggiore soddisfazione e la possibilità di sviluppare competenze ed attitudini a lungo termine. Questa maggiore sicurezza dei lavoratori avrebbe potuto tradursi, a sua volta, in una maggiore sicurezza per i datori di lavoro che si sarebbero trovati a disporre di una manodopera più stabile, polivalente e soddisfatta.
La flessisicurezza, da originario criterio ispiratore di nuovi modelli di organizzazione del lavoro, si è poi distinta tra le più significative linee-guida di uno dei quattro pilastri delineati nell’ambito della strategia europea per l'occupazione varata a Lussemburgo nel 1997, quello dell’adattabilità2, con
2 Cfr. XXXXXX X., Alla ricerca della «flessibilità mite»: il terzo pilastro delle politiche del lavoro comunitarie, in Dir. rel. ind., 2002, II, 141 ss.
l’obiettivo di favorire la capacità di adattamento delle imprese e dei lavoratori ai cambiamenti economici e strutturali, nonché di accompagnare i processi di flessibilizzazione e di riorganizzazione degli orari di lavoro, sviluppando adeguate misure di incentivazione e formazione.
In un sistema così delineato, in cui i cambiamenti del mercato globale interessano sempre più da vicino la persona del lavoratore (come si è osservato,
«al mutamento della fisionomia dell’impresa corrisponde anche il mutamento della figura socialmente omogenea del lavoratore comune dell’industria (…) con il risultato che la classe operaia non occupa più il centro delle società postindustriali, nelle quali perciò si riduce il peso quantitativo e politico del lavoro dipendente»)3, il ruolo delle Istituzioni comunitarie è stato dunque determinante nell’individuazione di linee guida orientate, da un lato, all’incremento di occupazione di qualità, dall’altro, alla riduzione della segmentazione e dei divari tra lavoratori standard (c.d. insider) e non standard (c.d. outsider), sulla base del modello della flexicurity.
Il concetto di flexicurity trae origine e diffusione in Danimarca4, quando, agli inizi degli anni ‘90, prendeva avvio un ciclo di riforme incentrato sulla valorizzazione delle politiche attive del mercato del lavoro, che ha generato un risultato sorprendente in termini di diminuzione della disoccupazione (dal picco massimo del 10,1%, registrato nel 1993, il tasso di disoccupazione è sceso nel 2001 intorno al 4,3%; nel 2001 il tasso di occupazione complessivo era pari all’80% e il tasso di occupazione femminile al 75%). Il successo del modello danese è fondamentalmente dovuto alla combinazione di tre elementi:
3 XXXXXXX XXXXXXXXXX G., Competitività e flessibilità del rapporto di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2009, I, 201 ss.
4 In realtà, il concetto di flexicurity, è stato per la priva volta evocato in Olanda, da un membro del comitato scientifico di politica economica olandese, Xxxx Xxxxxxxxxx e dal Ministro degli Affari Sociali, Xx Xxxxxxx, che per primi descrissero la flexicurity come il passaggio da una “filosofia di pensiero” basata sulla sicurezza del posto di lavoro (job protection) ad una incentrata sul concetto di occupabilità (employment protection), da realizzarsi mediante una compensazione della minore sicurezza e continuità della carriera lavorativa con migliori opportunità lavorative e maggiore sicurezza sociale per i lavoratori a tempo determinato e atipici. Cfr. PISANO E. - RAITANO M., La flexicurity danese: un modello per l’Italia?, in VILLA
P. (a cura di), Generazioni flessibili: nuove e vecchie forme di esclusione sociale, Roma, 2007, 52 ss.
flessibilità (elevato livello di mobilità5), sicurezza sociale (sistema doppio di sussidi alla disoccupazione: ad un primo periodo “passivo” in cui il disoccupato, di fatto, percepisce il sussidio, segue un periodo “attivo” in cui il disoccupato ha il diritto-dovere di partecipare a schemi di reinserimento), politiche attive del mercato del lavoro. Tale combinazione, definita come «the golden triangle of the danish labour market»6, realizza un sistema ibrido, caratterizzato, da un lato, da un livello di flessibilità paragonabile a quello applicato in contesti più “liberali” (Canada, Irlanda, Regno Unito, Stati Uniti), dall’altro, da un grado di sicurezza sociale, unitamente alla previsione e realizzazione di programmi di politiche attive del lavoro, propri dei Paesi nordici (Paesi Scandinavi, Olanda).
Il sistema sopra delineato si presenta come il modello “ideale” a cui gli altri Stati dovrebbero conformarsi o, quanto meno, ambire. Tuttavia, le problematiche connesse alla sua trasposizione risultano tutt’altro che agevoli. Pare legittimo domandarsi come un sistema delineato ad hoc per uno Stato con normative, politiche e strategie di welfare sue proprie possa trovare attuazione in un altro Stato con normative, politiche e strategie di welfare completamente differenti. Il rischio, d’altro canto, è che «la flexicurity alla danese, con i suoi estesi schemi di attivazione e i generosi sussidi, possa costituire una sorta di “bene pubblico di lusso” sostenibile solo in contesti particolarmente prosperi»7.
Proprio in risposta a tali perplessità, la Commissione europea ha chiarito i termini della questione: «La flessicurezza dovrebbe essere adattata alle circostanze, ai mercati del lavoro e alle relazioni industriali propri degli Stati membri. La flessicurezza non riguarda un modello unico di mercato del lavoro né un'unica strategia politica»8. La Commissione, in sostanza, rimanda ai singoli Stati membri la possibilità di attuare un modello, potenzialmente “ideale”, ma che, in ogni caso, necessita di essere contestualizzato ed adattato alla realtà del mercato del lavoro «domestico».
5 Si consideri che la mobilità danese è la più alta in Europa, con un indice pari a 138 rispetto a 100 dell’UE. Cfr. AMOROSO B., Luci ed ombre del modello danese, Relazione tenuta presso l’Università degli Studi Roma 3, Facoltà di Economia Xxxxxxxx Xxxxx, 21 febbraio 2006.
6 XXXXXX P.K., Security and flexibility: Friends or foes? Some observations from the case of Denmark, paper presentato alla conferenza tenuta dall’OIL a Lione il 16-18 gennaio 2002 sul tema “Futuro del lavoro e della protezione sociale”.
7 PISANO E. - XXXXXXX M., op. cit., 59.
8 Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni, Bruxelles, 27 giugno 2007, X.
In merito alla possibilità-opportunità di importare in Italia il modello danese, tra i criteri che indurrebbero ad un’esclusione in tal senso si rileva: a) la carenza di un clima di fiducia reciproco tra parti sociali ed autorità locali; b) la forte disomogeneità territoriale; c) l’elevata diffusione dell’economia sommersa;
d) il tipo di specializzazione produttiva nettamente differente da quello tipico del modello danese9.
Alcuni autori10, piuttosto, hanno ritenuto più incisiva, in relazione all’esperienza italiana, l’idea di qualificare il mercato del lavoro e le tutele del welfare in linea con il concetto di flexinsurance, fondato sul presupposto secondo cui i contributi sociali dovrebbero essere definiti in misura proporzionale al grado di rischio implicito nella tipologia contrattuale. In questo senso, un datore di lavoro interessato a ridurre il costo del personale sarebbe più motivato a stipulare contratti a tempo indeterminato, piuttosto che prolungare contratti temporanei. La flexinsurance, così intesa, potrebbe tradursi in uno strumento flessibile idoneo a «regulating the labour market deregulation»11.
1.1. Il contratto a tempo determinato nella direttiva comunitaria
La politica di flexicurity sembra principalmente orientata a creare un meccanismo di tutele del lavoratore nel mercato prima ancora che nel rapporto di lavoro12. Tale ordine di priorità risulta nettamente invertito nella direttiva europea 1999/70/CE del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999 dall'UNICE (Unione delle
9 Mentre in Danimarca la specializzazione produttiva è orientata verso la continua formazione e riqualificazione, in Italia il ruolo delle politiche di formazione sul posto di lavoro è assai limitato. Per un’analisi in tal senso, cfr. XXXXXXX P., Flessibilità, sicurezza e ammortizzatori sociali in Italia, Collana del Dipartimento di Economia, Università degli Studi Roma Tre, Working Paper n. 107, 2009.
00 XXXXXX X. - XXXXXXX X., op. cit., 67.
11 TANGIAN A., Flexibility-Flexicurity-Flexinsurance: Response to the European Commission’s Green Paper "Modernising Labour Law to Meet the Challenges of the 21st Century", WSI- Diskussionspapier Nr. 149, gennaio 2007, xxxx://xxx.xxxxxxxx.xx/xxx/x_xxx_xxxxx_000_x.xxx.
12 Cfr. GRANDI M., Il diritto del lavoro europeo. Le sfide del XX Secolo, in Dir. rel. ind., 2007, 4, 1022 ss., nella parte in cui osserva: «Le politiche di «flessibilità» mirano ad assicurare più che la stabilità del posto di lavoro, la protezione del lavoratore come soggetto attivo del mercato del lavoro, nel senso di renderlo capace di affrontare con successo «le transizioni» professionali e di situazioni lavorative, che il mercato stesso richiede, per effetto delle dinamiche di innovazione e di cambiamento dei sistemi produttivi».
confederazioni delle industrie della Comunità europea), dal CEEP (Centro europeo dell'impresa a partecipazione pubblica) e dalla CES (Confederazione europea dei sindacati), nell'ambito della procedura indicata dal nuovo art. 155 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (già art. 139 del Trattato che istituisce la Comunità Europea).
La ratio della direttiva è chiaramente delineata al punto 14 delle considerazioni iniziali, laddove si precisa: «Le parti contraenti hanno voluto concludere un accordo quadro sul lavoro a tempo determinato che stabilisce i principi generali e i requisiti minimi per i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato; hanno espresso l’intenzione di migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo l’applicazione del principio di non discriminazione, nonché di creare un quadro per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato». Da tali principi, ribaditi ed elencati nella clausola 1 della parte precettiva dell’accordo, si evince (quanto meno) l’intento di limitare l’utilizzo di assunzioni a termine e, soprattutto, di salvaguardare i lavoratori nei loro diritti, “traghettandoli”, ove possibile, verso forme di lavoro “migliori”13.
In altri termini, l’obiettivo di tutela del lavoratore nell’ambito del rapporto di lavoro sembrerebbe prevalere su quello di promozione della flessibilità e, di conseguenza, sulla necessità di individuare un quadro di tutele nel mercato, così fuoriuscendo dallo schema-tipo della flexicurity. Tale considerazione trova conferma nella collocazione sistematica14 dei relativi principi all’interno della direttiva, laddove la “flessibilità” viene soltanto richiamata all’interno della parte iniziale e non precettiva della stessa (punti 5 e 6), in un’ottica completamente diversa rispetto a quella assunta dalla precedente direttiva n. 97/81/CE in materia di part-time (in cui l’obiettivo di flessibilità veniva esplicitamente indicato nell’oggetto del relativo accordo quadro, in modo da far desumere una sorta di favor verso tale tipologia contrattuale, in quanto ritenuta idonea a realizzare sia l’interesse dei singoli lavoratori ad una gestione
13 Cfr. XXXXXXX X. (a cura di), Flexicurity e tutele del lavoro tipico e atipico, in Working papers. Centro Studi di Diritto del Lavoro Europeo “Xxxxxxx X’Xxxxxx”, 2007, 57.
14 Per un’analisi dettagliata della struttura della direttiva 1999/70/CE, cfr. BELLAVISTA A., La direttiva sul lavoro a tempo determinato, in GARILLI A. - NAPOLI M. (a cura di), Il lavoro a termine in Italia e in Europa, Torino, 2003, 1 ss.
individualizzata dei tempi di lavoro, sia l’interesse collettivo all’aumento dei tassi medi di occupazione15).
D’altro canto, la direttiva sul contratto a termine non sembra assumere una posizione chiara, o comunque univoca, in risposta all’annosa questione relativa al bilanciamento di interessi (stabilità versus occupazione), preferendo, piuttosto, adottare una linea più “mite”16, da alcuni definita “minimalista”17, o, comunque, semplicemente “meno coraggiosa”. In tal senso, se, da un lato, riconosce la necessità di modernizzare l’organizzazione del lavoro anche attraverso formule flessibili che garantiscano la produttività e la competitività delle imprese (punto 5, considerazioni iniziali), dall’altro precisa che i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità di vita dei lavoratori e a migliorarne il rendimento (punto 6, considerazioni generali), mentre i contratti a tempo determinato rappresentano una caratteristica dell’impiego in alcuni settori, occupazioni e attività atta a soddisfare sia i datori di lavoro sia i lavoratori (punto 8, considerazioni generali).
La direttiva, dunque, sembra non rispecchiare appieno le tendenze del contesto storico in cui si colloca: in particolare, si pensi che il Consiglio di Lussemburgo del 1997 aveva elaborato chiare linee guida al fine di accrescere la capacità di risposta dei mercati del lavoro europei, attraverso la promozione di attività economico-produttive, nonché di mercati del lavoro flessibili ed inclusivi.
D’altro canto, in dottrina non è mancato chi ha definito la direttiva come
«un impianto giuridico inadeguato a governare il processo di ammodernamento della organizzazione del lavoro e delle sue forme»18. Lo stesso Parlamento europeo ha evidenziato le fragilità dell’accordo quadro nella Relazione del 30 aprile 1999 sulla proposta di direttiva del Consiglio concernente l’accordo
15 cfr. XXXXX G., Flessibilità e tutela “nel” contratto di lavoro subordinato, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2002, III, 411 ss.
16 XXXXXX B., op. cit., 141 ss.
17 ZAPPALÀ L., Riforma del contratto a termine e obblighi comunitari: come si attua una direttiva travisandola, in Dir. merc. lav., 2001, III, 633.
18 TIRABOSCHI M., La recente evoluzione della disciplina in materia di lavoro a termine: osservazioni sul caso italiano in una prospettiva europea e comparata, in BIAGI M. (a cura di), Il nuovo lavoro a termine. Commentario al D.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, Milano, 2002, 41 ss.
quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES (COM(99)0203 – C4 – 0220/99), Rel. Xx. Xxxxx Xxxx. In particolare, da un lato, «constata che l’accordo ammette che i lavoratori a tempo determinato possano essere trattati meno favorevolmente rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato in base a motivazioni obiettive senza che queste ultime vengano definite e insiste affinché queste discriminazioni siano ridotte quanto più possibile» (punto 6), dall’altro, «critica il fatto che l’accordo disciplini soltanto le successioni di rapporti di lavoro a tempo determinato» (punto 14) ed inoltre,
«deplora che le norme volte a impedire l’abuso derivante dall’utilizzo di una successione di lavori non comportino requisiti qualitativi e quantitativi, cosicché l’accordo stesso non si traduce automaticamente in un miglioramento effettivo della situazione dei lavoratori a tempo determinato, che deve allora avvenire tramite il recepimento dell’accordo nelle normative nazionali; rileva che con l’accordo non viene fissato un requisito minimo europeo uniforme per le successioni di contratti di lavoro a tempo determinato, dato che gli Stati membri possono scegliere tra tre opzioni e per di più vengono ammesse diverse definizioni settoriali di cosa siano i contratti di lavoro a catena (...)» (punti 16 e 17).
1.2. La trasposizione della direttiva comunitaria sul lavoro a termine nei principali Paesi europei
La scelta assunta dalla direttiva, in ordine ad un’impostazione minimalista e generica, è stata evidentemente dettata dalla necessità di dare attuazione ai principi in essa contenuti all’interno di ordinamenti con sistemi e politiche di welfare completamente diversi tra loro.
Ed è così che la direttiva ha potuto trovare accoglimento sia in Paesi come la Spagna, la Francia e l’Italia, già dotati di una, più o meno articolata, regolamentazione dell’istituto, sia in un Paese come il Regno Unito, invero, fino ad allora sprovvisto di una specifica disciplina della materia.
In Italia la necessità di adattare il quadro normativo alle trasformazioni del mercato del lavoro verso una maggiore flessibilità, in linea con le politiche adottate dai principali Paesi europei, ha indotto il legislatore ad un definitivo
superamento della precedente disciplina legislativa, la l. n. 230 del 1962, che prevedeva, in maniera rigida e tassativa, i casi di legittima apposizione del termine. La direttiva 1999/70/CE ha trovato attuazione ad opera del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, che ha posto alla base dell’instaurazione dei rapporti a termine non più un’elencazione tassativa, bensì una clausola c.d. generale, che consente l’utilizzo dello strumento de quo in presenza di specifiche ragioni oggettive «di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo».
In Spagna la trasposizione della direttiva comunitaria è avvenuta tramite un semplice adeguamento della disciplina già contenuta nell’art. 15 dell’Estatuto de los Trabajadores (ET), realizzatosi attraverso tre momenti successivi: nel 2001, ad opera del Real Decreto n. 5 del 2 marzo e della Ley n. 12 del 9 luglio; nel 2006, con il Real Decreto n. 5 del 9 giugno; da ultimo, nel 2010, con la Ley n. 35 del 17 settembre 2010. Ma l’art. 15, ET era, già in precedenza, stato oggetto di molteplici e contrastanti interventi normativi: da una prima fase di piena liberalizzazione ad opera di una legge di riforma del 1984 (a quattro anni di distanza dall’approvazione dell’ET), con cui, fra l’altro, venivano introdotti i contratti per la promozione dell’impiego (para el fomento de empleo), ai successivi apporti del 1994 e del 1997, finalizzati, invero, ad incentivare le assunzioni a tempo indeterminato19.
E’ tuttavia opportuno precisare come, in generale, la normativa spagnola fosse, all’epoca di attuazione della direttiva, più favorevole per i lavoratori di quella comunitaria. Si trattava, pertanto, di effettuare solo alcuni piccoli interventi di carattere non essenziale ma complementare alla normativa interna. Ad esempio, in riferimento all’attuazione della clausola 5 dell’accordo quadro, nell’ordinamento spagnolo erano già presenti misure idonee a prevenire eventuali abusi: l’esigenza di ragioni giustificative dell’apposizione del termine era esplicitamente prevista sia per le proroghe sia per il primo o unico contratto a termine; era altresì fissata una durata massima per determinati contratti (es. di sei mesi in un periodo di dodici mesi per il «contrato eventual por circunstancias del la producción»); ancora, per i contratti a termine stipulati in
19 Per una ricostruzione più dettagliata della legislazione spagnola in materia di contratto a termine, si veda XXXXXXXX V., L’esperienza spagnola: un difficile equilibrio tra precarietà e formazione dell’impiego, in GARILLI A. - NAPOLI M. (a cura di), op. cit., 285 ss.
frode alla legge vigeva una presunzione assoluta per cui quel contratto si considerava ab origine a tempo indeterminato.
L’iter legislativo francese, d’altro canto, ha seguito un percorso diametralmente opposto rispetto a quello italiano, passando da una piena liberalizzazione ad opera della l. n. 79-11 del 3 gennaio 1979 (che non poneva limiti, né in riferimento alla durata né alle ipotesi di ricorso) ad un sistema rigido, tassativo e ben dettagliato dell’istituto (artt. L. 1241-1 ss., Code du travail). Il legislatore francese, infatti, sino al 1979 non aveva ritenuto necessario un intervento normativo in materia. Le problematiche inerenti alla qualificazione del contratto ed al suo regime giuridico trovavano soluzione all’interno dell’opera creatrice realizzata dalla giurisprudenza20. Il primo testo legislativo fu adottato soltanto nel 1979, al fine di rimediare alle incertezze delle elaborazioni giurisprudenziali e permettere un migliore adattamento dell’impiego alle variazioni dell’economia21. In ogni caso, già con l’Ordonnance del 5 febbraio 1982 venivano chiariti nell’ordinamento francese alcuni aspetti che in Italia tutt’oggi costituiscono oggetto di discussione: in particolare, veniva sancito il principio secondo cui «il contratto di lavoro è concluso senza la determinazione della durata» (art. L. 121-5, C. trav.), così espressamente riconoscendo il carattere eccezionale del contratto a termine rispetto al contratto a tempo indeterminato.
La Francia ha quindi dato attuazione alla direttiva comunitaria con la Loi de modernisation sociale del 17 gennaio 2002, fornendo un’interpretazione della stessa in senso restrittivo22, tanto da determinare un ritorno al sistema dell’elencazione tassativa dei casi di legittima apposizione del termine (già previsto dalla l. 3 gennaio 1979 ed abrogato dalla l. del 11 agosto 1986). In sostanza, il legislatore ha inteso consolidare una costruzione giuridica già presente, abbandonando l’idea di promuovere la creazione di nuovi contratti di lavoro limitati nel tempo (contratto a progetto e contratto a durata massima), inizialmente considerati alternative valide allo strumento contrattuale in
20 XXXXXXX X., Les contrats de travail à durée déterminée, Paris, Ed. Litec,1988.
21 XXXXXXXXX X. - XXXXXX A. - XXXXXXXX A., Conclusion d’un contrat de travail à durée déterminée, in Droit Xxxxx. Droix xx xxxxxxx, 0000, 000 xx.
00 Xxx. XXDIERE P., Traité de droit social de l’Union européenne, Lextenso édition, 2009, 461.
questione23. La materia è stata ulteriormente riformata dalle leggi del 3 gennaio 2003, del 1° agosto 2003 e del 4 maggio 2004, dall’Ordonnance del 24 giugno 2004 e, da ultimo, dalla legge del 25 giugno 2008 sulla modernizzazione del mercato del lavoro, che, fra l’altro, ha riaffermato il principio secondo cui «il contratto di lavoro a tempo indeterminato rappresenta la forma normale e generale del rapporto di lavoro subordinato» (art. L. 1221-2, C. trav.).
In Inghilterra la direttiva n. 1999/70/CE ha trovato attuazione, con un anno di ritardo rispetto all’Italia, ad opera della Fixed-Term Employees (Prevention of Less Favourable Treatment) Regulation 2002, del 30 luglio 2002, entrata in vigore il 1° ottobre 2002.
E’ interessante notare come, al momento dell'adozione dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, la Gran Bretagna fosse uno dei Paesi con la percentuale più bassa di lavoratori assunti con contratto a termine24: nel 1999 i
23 DAUGAREILH I., L’esperienza francese: tra il miglioramento dello «statut» del lavoratore e il contrasto alla precarizzazione dei lavori, in GARILLI A. - NAPOLI M. (a cura di), cit., 269 ss.
24 Nel 1984 i lavoratori temporanei rappresentavano il 5% della forza lavoro; il picco veniva raggiunto nel 1997, quando i lavoratori temporanei rappresentavano l’8% della forza lavoro e quelli assunti con contratto a termine il 50,1% dei lavori temporanei. Successivamente la percentuale è scesa al 5-6% circa, dove è rimasta sino al 2003; nel primo trimestre del 2007 il contratto a termine rappresentava il 44,1% dei lavori temporanei e, durante lo stesso periodo, il ricorso ad agenzie di lavoro interinali aumentava dal 13,5% al 18,7 %. Sorprendente è stata l'espansione di brevi contratti a tempo determinato nei servizi pubblici, in particolare nel settore della sanità e nell'istruzione, che ha avuto inizio nei primi anni ‘80 ed ha rappresentato i due quinti di tutti i lavori temporanei alla fine degli anni ‘90. Tra i principali motivi di tale incremento si rinvengono le incertezze di bilancio, nonché la necessità di fornire la copertura per il personale assente (ad esempio, il congedo di maternità). La percentuale di lavoratori temporanei nella pubblica amministrazione, istruzione e sanità è ulteriormente aumentata dal 37% nel 1997 al 41,8% nel 2007.Cfr. KOUKIADAKI A. The Regulation of Fixed-term Work in Britain, in XXXXXXXX R. - ARAKI T. - XXXXXXXX X. (eds), Labor Policy on Fixed-term Employment Contracts, The Netherlands, Kluwer Law International, 2010, 23 ss., nonché XXXXXXX C. - XXXXXX X., United Kingdom, in XXXXXX B. – SCIARRA S., Flexibility and Security in Temporary Work: A Comparative and European Debate, WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”. Si precisa, tuttavia, che la principale (unica) fonte statistica di riferimento presente nel Regno Unito è rappresentata dalla Labour Force Survey (LFS). Si tratta di un’indagine condotta tramite questionari ed interviste face to face o telefoniche, generalmente rivolta alle famiglie, allo scopo di ottenere informazioni relative al mercato del lavoro. D’altro canto, si è osservato come la difficoltà di individuare una definizione chiara ed univoca di lavoro a termine, ha provocato una rilevazione basata, fondamentalmente, su definizioni soggettive fornite dai lavoratori e dai datori di lavoro. Inoltre, è stato altresì rilevato come l’etichetta di “lavoratore temporaneo” fosse potenzialmente forviante in Gran Bretagna a causa della notevole gamma di tipologie di lavoro a termine presenti. Cfr. GREEN F., Temporary Work and Insecurity in Britain: A Problem Solved, in Social Indicators Research, 88, 2008, 147; v. altresì, XXXXX X., The Extent and Nature of Temporary Employment in Britain, in Cambridge Journal of Economics, 12, 1988, 487. In tal senso, è bastato distinguere tra posti di lavoro temporanei a breve termine
lavoratori temporanei (ivi compresi i contratti a tempo determinato, le agenzie interinali, i lavori occasionali, i lavori stagionali) rappresentavano in Inghilterra il 5,9% della forza lavoro contro il 12,5% della Spagna, il 10,4% della Francia e il 10,9% dell’Italia, con una media dei Paesi europei calcolata intorno al 9,3%.
Il concetto di lavoro a tempo determinato è entrato a far parte del dibattito politico e giuridico inglese soltanto agli inizi degli anni ‘70 con l'introduzione, all’interno dell’Industrial Relation Act del 197125, della normativa sul licenziamento privo di giusta causa (unfair dismissal). Tale atto fu abrogato nel 1974 e, già nel 1975, le più importanti norme in materia lavoristica confluirono in un testo unico, noto come Employment Protection (Consolidation) Act (EPCA), che, almeno fino al 197826, ha rappresentato la principale base statutaria del diritto del lavoro inglese. La disciplina dei licenziamenti illegittimi è da ultimo confluita nell’Employment Rights Act del 1996.
Il collegamento tra licenziamento senza giusta causa e contratto a tempo determinato è individuabile nel fatto che la legge, sin dal 1974, qualificava come “licenziamento” il mancato rinnovo di un contratto a tempo determinato. Di conseguenza, se il contratto non veniva rinnovato, il lavoratore poteva pretendere una “indennità di licenziamento”, ferma restando la possibilità per il datore di lavoro di dimostrare che il licenziamento era giusto (ad esempio, per ragioni economiche ed oggettive legittimanti l’impossibilità di offrire un lavoro permanente, quali la perdita di un finanziamento per un assegno di ricerca, nel caso di una università, o la perdita di un contratto esterno, nel caso di un'impresa commerciale). Il lavoratore, d’altro canto, poteva rinunciare a tale diritto, a condizione che il termine non fosse inferiore a due anni; la rinuncia doveva avvenire in forma scritta con la previsione di una serie di condizioni procedurali. La ratio di tale deroga è stata individuata, da un lato, per il datore di lavoro,
(quindi di durata inferiore ad un anno) e posti di lavoro con contratti la cui durata era ricompresa tra uno e tre anni per individuare i numerosi e contrapposti approcci direttamente riconducibili ad una stessa tipologia contrattuale. Cfr. GALLIE D. - WHITE M. - XXXXX X. - XXXXXXXXX M., Restructuring the employment relationship, Oxfoxx, 0000; XXRCELL J. - XXXXXXX K. - TAILBY S., Temporary work agencies: Here today, gone tomorrow?, in British Journal of Industrial Relations, 2004, 42(4), 705 ss.
25SCHÖMANN K. - XXXXXXXX X. - KRUPPE T., Labour market efficiency in the European Union. Employment Protection and Fixed-Term Contracts, London - New York, Routledge, 1998, 65 ss.
26 Gli obiettivi dell’attività legislativa subirono infatti un’inversione di rotta nel 1979 ad opera della c.d.“deregulation policy” adottata dal Governo conservatore di Xxxxxxxx Xxxxxxxx.
nell’esigenza di flessibilità, dall’altro, per il lavoratore, nell’aspettativa (o speranza) di ottenere un contratto di uno o due anni, anziché di pochi mesi27.
In ogni caso, visti gli abusi che ne sono derivati, la regola è stata modificata con effetto dal 1980 (ai fini della validità della rinuncia del lavoratore il contratto a termine dovrà avere una durata di almeno un anno), salvo poi essere definitivamente soppressa a far data dal 1° ottobre 2002, con l’entrata in vigore della legge in materia di lavoro a tempo determinato. L’inquadramento storico della materia è senz’altro utile al fine di comprendere il ruolo dirompente assunto in Inghilterra dalla direttiva comunitaria, anche in relazione agli altri Paesi europei, in cui era già ampiamente presente un articolato background legislativo. La legge, come si vedrà più sotto, si è tuttavia limitata a dare attuazione ai punti vincolanti dell’accordo quadro (clausole 4 e 5), mettendo in atto un impianto normativo piuttosto cauto, perfettamente in linea con la politica di laissez-faire sino ad allora attuata.
1.2.1. Il contratto a tempo determinato nell’ordinamento spagnolo
Il contratto a termine è disciplinato in Spagna all’interno dell’art. 15 dell’Estatuto de los Trabajadores. Più specificamente, l’art. 15.1, lett. a), b) e c), ET, prevede tre principali tipologie di «contratación temporal causal o estructural»28: il contratto a termine per il compimento di un’opera o un servizio determinato (contrato para obra o servicio determinado); il contratto a termine per ragioni produttive (contrato eventual por circunstancias de la producción); il contratto a termine per la temporanea copertura di un posto (contrato de interinidad)29.
Il ricorso al contratto d’opera o servizio determinato è subordinato alla sussistenza di alcuni requisiti (individuati dalla legge e meglio specificati dalla
27 XXXXXX X., Regulating Fixed-Term Work in the United Kingdom: A Positive Step towards Workers’ Protection?, in International Journal of Comparative Labour Law and Industrial Relations, 1999, 15, 121.
28 XXXXXXX XXXXXXXX X. X., Xxxxx xx xxxxxxx xxx xxxxxxx, XXII ed., Valencia, 2008, 350 ss.
29 Si precisa che la contrattazione temporale è ammessa nell’ordinamento spagnolo, oltre che in presenza delle causali citate, altresì in riferimento ai contratti con finalità formative (contrato para la formación o en prácticas) ovvero ai contratti di promozione dell’impiego e/o pensionamento (contrato de fomento de empeo y/o jubilacion).
giurisprudenza30): deve trattarsi di “opera o servizio” dotati di autonomia propria ed identificabili come tali in maniera oggettiva e non per la semplice volontà o dichiarazione delle parti; la sua esecuzione, sebbene limitata nel tempo, deve essere, al momento iniziale, di durata incerta; l’oggetto della prestazione deve essere specificato ed identificato nel contratto con chiarezza e precisione31; nello svolgimento dell’incarico il lavoratore deve essere normalmente ed esclusivamente occupato nell’esecuzione di quell’opera o servizio.
Il contrato para obra o servicio determinado va distinto da una diversa tipologia contrattuale, disciplinata dall’art. 15, comma 8, ET. Si tratta del contrato fijo discontinuo, previsto per la realizzazione di lavori che non si ripetono in periodi predeterminati all’interno del normale andamento dell’attività di impresa, seppure stagionale e ciclica, ma si caratterizzano per il carattere meramente circostanziale (o fisso discontinuo) dell’eccesso di lavoro. Il caso classico è quello delle assunzioni di lavoratori addetti alla prevenzione e all’estinzione degli incendi forestali32.
Il ricorso al contrato eventual por circunstancias de la producción, invero, è consentito «quando lo richiedono le circostanze di mercato, l’accumulo di lavori o un eccesso della domanda, pur trattandosi della normale attività dell’impresa» (art. 15, comma 1, lett. b, ET). In altri termini, a differenza del contratto per opera o servizio determinato, il cui oggetto è costituito da un’attività specifica all’interno dell’impresa, con autonomia e sostanza proprie, lo scopo principale del contratto eventuale è quello di rispondere all’incremento dell’attività ordinaria dell’impresa nei periodi di picco della produzione33.
Il contrato de interinidad è disciplinato dal combinato disposto degli articoli 15, comma 1, lett. c), e 4, comma 1, Real Decreto 18 dicembre 1998, n. 2720, che individuano due fattispecie di contratto a termine per ragioni
30 Tribunal Supremo, 10 dicembre 1996, in Rep. jur. Ar., 1996, 9139; Tribunal Supremo, 30 dicembre 1996, in Rep. jur. Ar., 1996, 9864; Tribunal Supremo, 11 novembre 1998, in Rep. jur. Ar., 1998, 9623.
31 Tribunal Supremo, 21 settembre 1999, in Rep. jur. Ar., 1999, 7534; Tribunal Supremo, 19 marzo 2002, in Rep. jur. Ar., 2002, 5989; Tribunal Supremo, 30 ottobre 2007, in Rep. jur. Ar., 2008, 296.
32 Fra le tante, v. Tribunal Supremo, 11 giugno 2010, n. 535, in xxxx://xxx.xxxx.xx/xxx/-000000000; Tribunal Supremo, 3 marzo 2010, in xxxx://xxxxxxx.xxxx.xx/xxx/-000000000; Tribunal Supremo, 11 marzo 2010, in xxxx://xxxxxxx.xxxx.xx/xxx/-000000000.
33 Tribunal Supremo, 4 febbraio 1999, in Rep. jur. Ar., 1999, 1594.
sostitutive: la prima, per coprire l’assenza temporanea di un lavoratore con diritto alla conservazione del posto (interino por sustitución)34; la seconda, per la copertura di un posto vacante durante il processo di selezione o promozione di un lavoratore con diritto alla conservazione del posto (interino por vacante)35.
Le tipologie contrattuali sopra analizzate sono state sottoposte a modifiche ed integrazioni ad opera dei diversi interventi legislativi susseguitisi in materia. Il primo (il Real Decreto Ley n. 5 del 2 marzo 200136), che ha dato attuazione alla direttiva comunitaria sul lavoro a termine, ha inserito, all’art. 15 dell’Estatuto de los Trabajadores, i commi quinto, sesto e settimo, relativi, rispettivamente, all’introduzione di misure ulteriori per la prevenzione degli abusi derivanti da una successione di contratti a termine (clausola 5), al divieto di discriminazione (clausola 4), all’obbligo di informazione e formazione (clausola 6). Inoltre, ha introdotto un’indennità per la conclusione del contratto a termine37, consistente in una percentuale pari ad otto giorni di salario per anno di servizio.
La riforma del 2006, Ley 29 dicembre 2006, n. 43, ha dato attuazione ad una serie di interventi volti a favorire le assunzioni a tempo indeterminato. Si fa riferimento, in particolare, alla previsione di alcuni incentivi economici per il datore di lavoro (ottenuti tramite la fiscalizzazione degli oneri sociali, in varie misure di diversa durata e quantità secondo la tipologia di soggetti assunti), finalizzati, da un lato, alla trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato e, dall’altro, all’assunzione, con contratti a tempo indeterminato, di giovani dai 16 ai 30 anni, di disoccupati da oltre sei mesi, o comunque, di persone qualificate “in una situazione di esclusione sociale”.
L’ultimo, recentissimo, intervento di riforma, attuato tramite la Ley 17 settembre 2010, n. 3538, ha apportato ulteriori importanti modifiche in materia,
34 v. artt. 45 ss., ET.
35 Tribunal Supremo, 11 aprile 2006, in xxxx://xxxxxxx.xxxx.xx/xxx/xxxxxxx-xxxxxxxxxx- interinidad-vacante-20779080.
36 v. XXXX XXXXXX X. - XXXXXXXXXX X., Xa nuova disciplina del lavoro a tempo parziale e del lavoro a termine in Spagna, in Dir. rel. ind., 2001, II, 231.
37 Tale indennità non si applica al contratto di lavoro interinale, al contratto di inserimento ed ai contratti formativi.
38 Per maggiori approfondimenti sulla riforma del 2010 (Ley n. 35 del 17 settembre 2010), cfr. XXXXXXX XXXXXXX C. L., Las actuaciones para reducir la temporalidad en los contratos laborales, in Temas Laborales, 107, 2010; XXXXXXXXX XXXXXX J. A., La riforma del Diritto del Lavoro in Spagna. Osservazioni sul Real Decreto-Ley 10/2010, 16 giugno, contenente misure
ponendo fine, almeno per ora, al processo di attuazione della direttiva comunitaria sul contratto a termine in Spagna.
Come sottolineato nella relazione di accompagnamento al testo della legge, la crisi economica e finanziaria internazionale ha finito per esasperare la segmentazione del mercato del lavoro spagnolo, cagionando una netta separazione tra lavoratori stabili e precari: da un lato, l’eccessiva rigidità dei contratti per i lavoratori a tempo indeterminato; dall’altro, l’eccessivo numero di lavoratori con contratti a tempo determinato. Si pensi che nel 2009 il tasso di disoccupazione in Spagna raggiungeva il 18% contro il 10% della media dei Paesi europei39 e la percentuale di assunzioni con contratti a tempo determinato era pari al 25%40. D’altronde, in Spagna nel 2010 sono stati stipulati circa quattordicimilioni e mezzo di contratti, di cui ben 5.623.676 di opera o servizio determinato, 5.725.225 eventuali per circostanze della produzione e 1.566.999 per ragioni sostitutive41. Si rendeva pertanto necessaria una riforma della materia con lo scopo di aumentare la flessibilità dei contratti a tempo indeterminato e, al contempo, di ridurre la precarietà dell’impiego.
Tra le principali novità introdotte dal legislatore nel 2010 si segnala l’introduzione di una durata massima di tre anni (prorogabili di ulteriori dodici mesi da parte della contrattazione collettiva) per il contratto di opera o servizio determinato. In altri termini, mentre in precedenza il termine di conclusione del contratto era determinato dal tempo previsto per il compimento dell’opera o del servizio, con la nuova previsione normativa, in ogni caso, allo spirare del termine massimo di tre (o quattro) anni il contratto dovrà comunque ritenersi
urgenti per la riforma del mercato del lavoro, in Arg. dir. lav., 6, 2010; XXXXXX XXXXXX F. J., La modificación del régimen jurídico de la contratación laboral por Ley 35/2010, de 17 de septiembre, de medidas urgentes de reforma del mercado de trabajo, in Actualidad Laboral, 1, 2011; XXXXXX XXXXXXX XXXXXXXX X. - XXXXXXXX UGUINA J. R. (dirs.), La Reforma Laboral
2010. Aspectos prácticos, Lex Xxxx, Xxxxxxxxxx, 0000; XXXXXX GENÉ J., Afectaciones de la reforma laboral de 2010 en el contrato para obra o servicio determinado, in Estudios Financieros, RTSS, 334, 2011; XXXXXX XXXXXXX A. M., Los contratos formativos, in Temas Laborales, 107, 2010; XXXXX XXXXXX A., La deconstrucción del Xxxxxxx xxx Xxxxxxx, Xx Xxx,Xxxxxx, 0000; XXXXXXX XXXXXX D., La reforma de la contratación temporal en la Ley 35/2010, in Aranzadi Social, I, 2011.
39 xxxx://xxx.xxxxxxxx.xx.xxxxxx.xx/xxxxxxxxxx_xxxxxxxxx/xxxxx.xxx/Xxxxxxxxxxxx_xxxxxxxxxx.
40xxxx://xxx.xxxxxxxx.xx.xxxxxx.xx/xxxxxxxxxx_xxxxxxxxx/xxxxx.xxx?xxxxxxXxxx:Xxxxxxxxxx_xx_xxxx
oyees_with_a_contract_of_limited_duration,_age_group_15- 64,_2009_(%25_of_total_employees).png&filetimestamp=20110118163725.
41xxxxx://xxx.xxxxxxxxxx.xx/xx/xxxxxxxxxxxxx/xxxxxxxxx/xxxxxxxxxx/xxxxxxxxxxxx/xxxxx_xxxxxxxxxxx
s/contratos/datos/2011/marzo_2011/RESUMEN_MES.pdf.
concluso. La previsione di tale durata dovrà dunque prevalere sulla tipologia contrattuale stessa, così determinando la definitiva rottura del principio della
«causalità temporale». Di conseguenza, il superamento della durata massima determina, anche prima del compimento dell’opera o servizio, la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato42.
Con la modifica apportata al comma quinto dell’art. 15, ET, è stato ampliato l’ambito di applicazione del principio di conversione del contratto a termine illegittimo in contratto a tempo indeterminato anche al caso in cui l’abuso si riferisca ad un “diferente puesto de trabajo” (non più soltanto allo stesso posto di lavoro) e non solo nell’ambito della stessa impresa, ma anche di “grupo de empresas”.
42La regola della durata massima è generalmente applicabile ai contratti di lavoro stipulati nelle pubbliche amministrazioni, ad eccezione di alcuni casi specifici: contratti particolari previsti dalla legge organica delle Università, Ley n. 6 del 21 dicembre 2010, per il “personal laboral”42 (“Ayudante”, “Profesor Ayudante Doctor”, “Profesor Contratado Doctor”, “Profesor Asociado” e “Profesor Visitante”); contratti vincolati a progetti di ricerca. Tuttavia, sebbene la disciplina normativa (la regola) sia la stessa per il settore privato e per quello pubblico, le conseguenze che possono derivare dalla sua violazione sono notevolmente differenti. Lo Statuto Basico dell’Impiegato Pubblico, Ley 12 aprile 2007, n. 7, art. 55, prevede infatti che l’accesso al pubblico impiego debba avvenire nel rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza (art. 23, comma 2, CE), meritocrazia e capacità (art. 103, comma 3, CE). Principi incompatibili con la regola della conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato.
La giurisprudenza, per ovviare ai problemi di spesa pubblica ed evitare di elargire somme di denaro non facilmente prevedibili ed ammortizzabili, ha elaborato una nuova figura risarcitoria, quella del contratto “indefinido no fijo”, letteralmente, “contratto indeterminato non fisso”. In sostanza, nel caso di abuso nella successione dei contratti a termine, o, comunque, di superamento della durata massima prevista dalla legge, viene concessa al lavoratore la possibilità di restare in servizio sino all’espletamento di una nuova procedura concorsuale per la copertura di quel posto di lavoro. Il lavoratore “indefinido no fijo” ricopre quindi il posto rimasto vacante in attesa di nuova assunzione e, in quel periodo, di fatto, è trattato come un lavoratore a tempo indeterminato ed usufruisce di tutte le relative tutele, ad eccezione di quelle previste in caso di licenziamento illegittimo, essendo l’estinzione del rapporto elemento di specialità che caratterizza e contraddistingue quella figura. In sostanza, si tratterebbe di un “lavoratore a tempo indeterminato per un periodo determinato”. Fra le tante pronunce sul concetto di lavoratore “indefinido no fijo”, v. Tribunal Supremo, 21 e 22 gennaio 1998, Rec. de casación para unificación de doctrina, núm. 317/1997 y 315/1997, in xxxx://xxxxxxx.xxxx.xx/xxx/xxxxxxxxxxx- doctrina-reclamacion-derechos-u-18475477; Tribunal Supremo, 27 maggio 2002, Rec. de casación para la unificación de doctrina, núm. 2591/2001, in xxxx://xxxxxxx.xxxx.xx/xxx/xxxxxxxxxxx-xxxxxxxxxxx-xxxxxxx-00000000; Tribunal Supremo, 21 luglio 2008, Rec. de casación para la unificación de doctrina, núm. 2121/2007; in xxxx://xxxxxxx.xxxx.xx/xxx/00-0-x-00000000; Tribunal Supremo, 15 marzo 2011, Rec. de casación para la unificación de doctrina, núm. 2167/2010, in xxxx://xxxxxxx.xxxx.xx/xxx/000000000.
D’altro canto, in un’ottica di stabilità dell’impiego, è stata altresì modificata la normativa sui contratti per il sostegno alla contrattazione a tempo indefinito (contratos para el fomento de la contratación indefinida)43, con ampliamento delle categorie dei possibili beneficiari (disoccupati iscritti da almeno un mese alle liste di collocamento, lavoratori assunti solamente con contratti temporanei negli ultimi 24 mesi, lavoratori con contratti a tempo indefinito licenziati negli ultimi 24 mesi, persone disabili, donne con figli nati o adottati negli ultimi 2 anni, donne vittime di violenza di genere o di tratta degli esseri umani, donne disoccupate da almeno 5 anni). In tal senso, è stata ridotta la misura dei versamenti contributivi dovuti dai datori di lavoro al sistema della sicurezza sociale (bonificación de las cuotas empresariales a la Seguridad Social) in caso di assunzione a tempo indeterminato di una serie di categorie di lavoratori particolarmente svantaggiate (giovani tra i 16 e i 30 anni, iscritti alle liste di collocamento da almeno 12 mesi e che non abbiano completato l’istruzione obbligatoria oppure non siano in possesso di titoli professionali; disoccupati con più di 45 anni, iscritti alle liste di collocamento da almeno 12 mesi; lavoratori con contratti di formazione o con contratti-staffetta tra due lavoratori - contratos de relevo - o con contratti di sostituzione per pensionamento anticipato - xxxxxxxxx xx xxxxxxxxxxx xxx xxxxxxxxxxxx xx xx xxxx xx xxxxxxxxxx).
Ed ancora, è stata incrementata l’indennità dovuta in caso di cessazione del rapporto a termine, introdotta con la riforma del 2001 (art. 49, ET): da otto giorni di salario nell’arco di un anno lavorativo a dodici giorni, con esclusione dei contratti di formazione e di sostituzione temporanea di lavoratori. Tale disposizione verrà applicata in modo progressivo: otto giorni per i contratti stipulati nel biennio 2010 - 2011, nove giorni per i contratti stipulati nel 2012, dieci giorni per quelli stipulati nel 2013, undici giorni per quelli stipulati nel 2014 e dodici per quelli stipulati nel 2015.
43 Tale tipologia contrattuale si caratterizza per la riduzione da 45 a 33 giorni di salario per ogni anno di servizio dell’indennità economica per licenziamento ingiustificato a carico del datore di lavoro. In altri termini, al fine di favorire la creazione di posti di lavoro, viene prevista una monetizzazione minore del licenziamento illegittimo.
1.2.2. Il contratto a tempo determinato nell’ordinamento francese
In Francia la materia trova regolamentazione, in maniera rigida e ben dettagliata all’interno degli artt. L. 1241-1 ss. del Code du travail. Si tratta, in sostanza, di un sistema molto simile a quello che il legislatore italiano aveva adottato nel 1962: vengono infatti espressamente e tassativamente elencate le ipotesi legittimanti l’apposizione del termine (art. L. 1242-2, X. xxxx.), fra le principali: sostituzione di un lavoratore (in caso di assenza, passaggio provvisorio a tempo parziale, sospensione del contratto di lavoro, cessazione di un rapporto a tempo indeterminato in attesa della definitiva soppressione del posto di lavoro, copertura temporanea di un posto di lavoro in attesa dell’effettiva entrata in servizio di altro lavoratore con contratto a tempo indeterminato); aumento temporaneo dell’attività di impresa (ad esempio, lavori urgenti da eseguire per motivi di sicurezza); impieghi a carattere stagionale (specie nel turismo); impieghi per i quali, in certi settori, è di uso costante non ricorrere a contratti a tempo indeterminato (cinema, insegnamento)44.
In riferimento alla durata, la normativa francese prevede che il contratto a tempo determinato abbia un termine prefissato con precisione a partire dalla sua conclusione, salvo alcune eccezioni (per sostituire un lavoratore assente o il cui rapporto sia sospeso, per la copertura temporanea di un posto di lavoro in attesa dell’entrata in servizio di altro lavoratore assunto a tempo indeterminato, in caso di contratti a termine stagionali o di uso comune).
In talune specifiche ipotesi è prevista l’apposizione di una durata minima al contratto: per far fronte ad una commessa eccezionale per l’esportazione di carattere eccezionale (durata minima di sei mesi); in caso di contratti conclusi nel quadro della politica di impiego (contatti professionalizzanti con durata minima di sei mesi).
Il Code du travail (art. L. 1242-8, comma 1) impone, inoltre, una durata massima di diciotto mesi (compresivi di rinnovo), ridotta a nove quando il contratto è concluso nell’attesa dell’entrata in servizio effettiva di un lavoratore assunto con contratto a tempo indeterminato, ovvero quando l’oggetto del contratto consiste nella realizzazione di lavori urgenti (art. L. 1242-8, comma 2,
44 BAUVERT P. - SIRET N., Le contrats de travail précaire, in Droit Social, Dound, 2009, 241 ss.
C. trav.). Tale durata è aumentata a ventiquattro mesi quando il contratto è eseguito all’estero, in caso di cessazione di un rapporto di lavoro in vista della soppressione del posto, nonché in caso di una sopravvenuta commessa eccezionale per l’esportazione (art. L. 1242-8, comma 3, C. trav.).
Il contratto a tempo determinato cessa di diritto alla scadenza del termine (art. L. 1243-5, C. trav.). La rottura anticipata è possibile soltanto qualora ricorrano le seguenti ipotesi: accordo tra le parti (espresso tramite una volontà chiara ed inequivocabile45), colpa grave46 (a titolo esemplificativo, costituisce colpa grave il rifiuto di eseguire le abituali mansioni47, compromettere gravemente il funzionamento della produzione48)49, forza maggiore50, iniziativa del lavoratore giustificata da un impiego a tempo indeterminato. Al di fuori dei casi appena specificati, la risoluzione anticipata del contratto, da parte del lavoratore, determina il diritto, per il datore di lavoro, al risarcimento dei danni e degli interessi corrispondenti al pregiudizio subito (art. L. 1243-3); mentre se la risoluzione avviene ad opera del datore di lavoro (al di fuori dei casi di colpa grave e forza maggiore), il lavoratore avrà diritto al risarcimento dei danni e degli interessi in misura almeno uguale alla retribuzione che avrebbe percepito sino al termine di scadenza del contratto (art. L. 1243-4).
Di particolare interesse risulta la tutela fornita ai lavoratori che, alla data di cessazione del contratto per scadenza del termine, non vengono assunti a tempo indeterminato. Si tratta della c.d. indemnité de fin de xxxxxxx00, corrispondente al 10% della retribuzione totale lorda percepita dal lavoratore durante l’intero periodo di esecuzione del contratto (artt. L. 1243-8 ss., X. xxxx.).
45 Cass. Soc., 21 marzo 1996, in RJS, 1996, 522, 334.
46 Secondo la consolidata giurisprudenza, la colpa grave è quella che rende impossibile la prosecuzione del legame contrattuale (Xxxx. Soc., 13 febbraio 1963, in JCP 1963, II, 13183).
47 Cass. Soc., 8 gennaio 1987, D. 1987, IR. 13.
48 Cass. Soc., 19 luglio 1988, Bull. civ., V, 463.
49 Al contrario, non costituiscono ipotesi di colpa grave né la malattia né lo scarso rendimento (Xxxx. Soc. 10 giugno 0000, Xxxx. Xxx., X, 000; Cass. Soc. 25 aprile 1990, Liaisons. Soc. Lég. Soc., 6378, 11).
50 Non costituiscono mai forza maggiore, a titolo esemplificativo, le circostanze economiche (Cass. Soc. 28 aprile 1986, D. 1987, 475), le difficoltà finanziarie e di funzionamento dell’impresa (Cass. Soc. 20 febbraio 1996, Bull. Civ., V, 59), la liquidazione giudiziaria di un’impresa (Xxxx. Soc. 20 ottobre 1993, Bull. Civ., V, 240), il ritorno anticipato di un lavoratore dal concedo parentale (Cass. Soc. 8 novembre 1995, Bull. Civ., V, 293).
00 Xxx. XXXX X., Xxxxxxxxx xx xxxxxxxxx due en l’absence de proposition d’un CDI, in Droit du travail: les arrêt décisifs 2007/2008, 2008, 16.
Tale indennità, volta a disincentivare l’assunzione a termine laddove non ne sussista una reale necessità, deve essere erogata al lavoratore sia nel caso in cui il rapporto cessi definitivamente, sia nel caso in cui venga stipulato un nuovo contratto a termine con l’impresa. D’altro canto, se il rapporto di lavoro prosegue oltre la scadenza del termine, il contratto si trasforma automaticamente in contratto a tempo indeterminato, ferma restando l’anzianità sino ad allora acquisita dal lavoratore (art. L. 1243-11)52.
Altrettanto rilevante è il sistema sanzionatorio previsto dal legislatore francese al fine di rendere effettiva la disciplina dettata in materia. La violazione delle disposizioni sopra esaminate determina, infatti, l’applicazione di sanzioni penali, consistenti in un’ammenda di 3.500,00 euro aumentata a 7.500,00 euro (oltre a sei mesi di reclusione) in caso di recidiva.
1.2.3. Il contratto a tempo determinato nell’ordinamento inglese
In Inghilterra, come si è visto, la disciplina della materia è contenuta all’interno della Fixed-Term Employees (Prevention of Less Favourable Treatment) Regulation 2002.
La legge si rivolge esclusivamente ai “dipendenti” (employees) e non ai lavoratori in generale (workers), restando così esclusi dall’ambito di applicazione della stessa gli individui i cui rapporti di lavoro operano in modo semi-autonomo ed i lavoratori occasionali. Essa non trova inoltre applicazione in riferimento ai programmi di formazione organizzati dal Governo o finanziati in tutto o in parte da un'istituzione della Comunità europea, alle esperienze lavorative (stage non superiori ad un anno) previste come parte di un corso di istruzione superiore, ai lavoratori collocati tramite agenzia di lavoro temporaneo, agli apprendisti, ai membri delle forze armate.
D’altro canto, la nozione di contratto a tempo determinato è più ampia di quella precedentemente utilizzata nel diritto del lavoro e ricomprende tutti i
52 La regola secondo cui la prosecuzione di fatto del rapporto determina l’automatica ed immediata conversione si applica anche se nel frattempo viene stipulato un nuovo contratto a tempo determinato (in tal senso, Xxxx. Soc., 14 giugno 0000, Xxxx. Xxx., X, 000; Cass. Soc., 30 marzo 2005, Bull. Civ., V, 106).
contratti che sono destinati a concludersi alla scadenza di un termine fisso o al completamento di un compito particolare.
La Fixed-Term Employees Regulation si basa su tre pilastri fondamentali:
a) il principio di non discriminazione; b) la prevenzione dell’abuso di contratti a tempo determinato, c) il diritto di informazione.
In riferimento al primo, la Regulation n. 3 prevede che il lavoratore assunto a tempo determinato ha diritto a non essere trattato meno favorevolmente rispetto ad un lavoratore a tempo indeterminato comparabile (comparable permanent employee). I criteri di identificazione del “comparable permanent employee” sono fondamentalmente tre: lavoratori alle dipendenze dello stesso datore di lavoro, impiegati nel medesimo o analogo lavoro tenuto conto di un livello simile di qualifiche e competenze, lavoratore impiegato presso lo stesso stabilimento, oppure lavoratore che soddisfa il primo dei requisiti elencati, ma che si trova in uno stabilimento diverso.
Il concetto di comparable employee è stato oggetto di interpretazione nella pronuncia n. 00778/05, del 19 febbraio 2007, Bigart c. University of Ulster53. Nella specie, l’Università sosteneva l’impossibilità di individuare un opportuno comparable employee dal fatto che nessun membro permanente del personale fosse mai stato licenziato. Il Tribunale, discostandosi da tali osservazioni, ha invero affermato che: «La legge semplicemente richiede, al momento in cui il trattamento meno favorevole ha luogo, che il lavoratore a tempo determinato ed il lavoratore a tempo indeterminato siano assunti dallo stesso datore di lavoro e impiegati nelle stesse o similari mansioni. Non si richiede che il “comparatore” sia nella stessa identica situazione rispetto al lavoratore a tempo determinato. Un’interpretazione restrittiva priverebbe di efficacia la regola stessa, frustrandone la portata applicativa».
Il secondo pilastro è individuabile nella Regulation n. 8, rubricata “Successive fixed-term contract”, che disciplina le ipotesi di successione dei contratti e prevede la trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato nei casi in cui il lavoratore venga occupato, con continuità di impiego, con contratti a termine successivi per un periodo superiore a quattro anni, senza che ricorrano ragioni obiettive. È fatta salva la
53 cfr. KOUKIADAKI A., Case Law Developments in the Area of Fixed-Term Work, in Industrial Law Journal, 2009, vol. 38, I, 89.
possibilità per la contrattazione collettiva di modificare la durata massima di quattro anni (comma 5, lett. a), di specificare il numero massimo di contratti a termine successivi e dei rinnovi (comma 5, lett. b), nonché di individuare le ragioni obiettive che giustificano il rinnovo dei contratti a termine o, comunque, la necessità di impiegare quei lavoratori in contratti a termine successivi (comma 5, lett. c).
In merito alla nozione di “ragioni obiettive”, risultano di particolare interesse le argomentazioni fornite nella recente pronuncia giurisprudenziale Ball c. University of Aberdeen, del 23 maggio 2008, n. 101486/0854. L’Università, in particolare, ha rilevato come la successione di contratti a tempo determinato con il Dott. Xxxx (Dottore di ricerca in Zoologia) fosse automaticamente giustificata dal fatto che “non c’era una notevole e prevedibile possibilità di ottenere il rinnovo dei finanziamenti ottenuti a breve termine”. Il Tribunale inglese, dopo aver richiamato i principi elaborati dalla Corte di Giustizia nelle sentenze Xxxxxxxx e Del Cerro Xxxxxx, ha ritenuto di discostarsi dall’interpretazione fornita dall’Università, precisando che non è corretto far derivare da un fattore estero (nella specie, finanziamenti) una giustificazione automatica di apposizione del termine al contratto, dovendo piuttosto fare riferimento alle circostanze specifiche del singolo dipendente. In particolare, il datore di lavoro dovrà dimostrare la reale ed effettiva necessità di utilizzare il dipendente con contratti a termine, la non sussistenza di un pregiudizio per lo stesso direttamente riconducibile all’assunzione a tempo determinato, nonché la circostanza per cui la situazione non poteva essere gestita in modo diverso. In riferimento al caso di specie, il Tribunale ha individuato tre specifici svantaggi per il Dott. Ball: l’attuale grado di incertezza lavorativa, i limiti alla progressione di carriera, il rischio di non essere in grado di ottenere un credito personale a causa del carattere temporaneo della sua occupazione.
Da ultimo, in merito al terzo pilastro sopra menzionato, la Fixed-Term Employees Regulation enfatizza il diritto del lavoratore a termine di essere informato dal proprio datore di lavoro circa i posti vacanti disponibili nello stabilimento (Regulation 3.6). Più precisamente, un dipendente risulta informato soltanto se la “vacanza” è contenuta all’interno di un avviso cui sia stata data
54 Ibidem.
idonea pubblicità o, comunque, che il dipendente abbia avuto la ragionevole opportunità di visionare nel corso del rapporto di lavoro o di cui egli abbia ricevuto una ragionevole notizia in qualsiasi altro modo (Regulation 3.7).
La legislazione inglese, come si è visto, presenta una regolamentazione “minimalista”, tanto da indurre a domandarsi se, di fatto, i livelli minimi di tutela della direttiva comunitaria siano stati garantiti55. In tal senso, basti pensare alla previsione della durata massima di 4 anni, ben al di sopra della media degli altri Paesi europei (2-3 anni), all’ampio margine di intervento lasciato alla contrattazione collettiva, all’assenza di specifiche ipotesi legittimanti l’apposizione del termine e, ancora, al fatto che al datore di lavoro sia sufficiente fornire la prova della sussistenza di “ragioni obiettive” (concetto già di per sé ambiguo) per evitare la conversione del contratto.
Tuttavia, è altrettanto evidente come tale legislazione “minimalista” sia riuscita a migliorare le condizioni dei lavoratori assunti a tempo determinato56: in applicazione del principio di non discriminazione, la retribuzione media di tale categoria di lavoratori è aumentata più velocemente rispetto a quella dei lavoratori a tempo indeterminato; nel settore dell’istruzione superiore, dove l’uso di contratti a tempo determinato era assai ampio, la percentuale del personale accademico assunto con contratti a termine è scesa dal 44,79% nel 2003/2004 al 35,2% nel 2008/2009; in ogni caso, la percentuale di lavoratori a termine registrata nel 2009 nel Regno Unito risulta tra le più basse d’Europa (pari al 6%, contro il 26% della Spagna, il 13% della Francia ed il 12% dell’Italia)57.
2. La trasposizione della direttiva comunitaria sul lavoro a termine in Italia e clausola di non regresso. Una situazione di anticipata conformazione
All’indomani dell’approvazione della direttiva comunitaria sul lavoro a termine, in Italia si accendevano le discussioni in ordine alla necessità di dare
55 cfr. XXXXXXXX A., The Fixed-Term Employees (Prevention of Less Favourable Treatment] Regulations 2002: Fiddling While Rome Burns?, in Industrial Law Journal, 2003, 32, 194.
56 cfr. XXXXXX P. L. - XXXXXXXXX M., Towards a Flexible Laxxxx Xxxxxx, Xxxxxx, 0000, 88.
57xxxx://xxx.xxxxxxxx.xx.xxxxxx.xx/xxxxxxxxxx_xxxxxxxxx/xxxxx.xxx?xxxxxxXxxx:Xxxxxxxxxx_xx_xxxx
oyees_with_a_contract_of_limited_duration,_age_group_15- 64,_2009_(%25_of_total_employees).png&filetimestamp=20110118163725.
attuazione a quei principi58 in realtà già largamente presenti nella sostanza nel nostro ordinamento59. Non è mancato chi, a posteriori, ha addirittura parlato di
«superconformazione»60 delle disposizioni nazionali al dettato comunitario61.
D’altro canto, tali conclusioni erano state confermate dalla Corte Costituzionale62, chiamata, esattamente in coincidenza con il periodo di attuazione della direttiva, a giudicare l’ammissibilità di una proposta referendaria per l’abrogazione della legge n. 230 del 1962. La Corte, nel dichiarare l’inammissibilità della richiesta, ha precisato che l'obbligo di conformazione alle regole della direttiva sorge, a carico dello Stato, sin dal momento dell'entrata in vigore della stessa, quindi, anche durante la pendenza del termine per l’adeguamento. In ogni caso, la direttiva dispone che gli Stati
58 Si fa riferimento agli obiettivi contenuti nella clausola 1 dell’accordo quadro: migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione; creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato.
59 Xxx. XXXX X., Xx xxxxxx xtoria dell’attuazione della direttiva CE sui contratti a termine, in Lav. giur., 2001, 4, 305 ss.; BIAGI M., La nuova disciplina del lavoro a termine: prima (controversa) tappa del processo di modernizzazione del mercato del lavoro italiano, in BIAGI
M. (a cura di), Il nuovo lavoro a termine. Commentario al D.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, Milano, 2002, 3 ss.; DE XXXX X., Direttiva comunitaria in materia di lavoro a tempo determinato: attuazione nei paesi dell’Unione Europea, in Foro it., 2002, 4, 93 ss.; MONTUSCHI L., Ancora nuove regole per il lavoro a termine, in Arg. dir. lav., 2002, I, 41 ss.; XXXXX G., op. cit.; TIRABOSCHI M., op. cit., 44.
60 XXXXXX X., Il lavoro a termine nell'evoluzione dell'ordinamento, Milano, 2010, 191.
61 Si pensi, fra l’altro, che la l. n. 230 del 1962, nata nell’ottica di contenimento di quelle forme più “egoistiche” (flessibili) di utilizzo della forza lavoro, sostanzialmente incentrata sul binomio
«garantismo-rigidità», meglio espresso con la formula «garantismo mediante la rigidità», stava pian piano cambiando volto. Già alla fine degli anni settanta veniva approvata una legge (l. 23 maggio 1977, n. 266), volta ad agevolare la mobilità dell’industria radiovisiva di Stato, nella cui relazione di accompagnamento si raccomandava di incentivare l’assunzione dei giovani lavoratori al primo impiego, accennando all’opportunità di temperare il rigorismo della legge n. 230 del 1962 e riconoscendo la prevalenza di fatto dell’interesse all’occupazione rispetto a quello alla stabilità. Nella medesima direzione si muoveva la relazione di accompagnamento al
d.l. n. 876 del 1977 (convertito in l. 3 febbraio 1978 n. 18), contenente l’invito esplicito a riconsiderare il rapporto a termine sia perché in armonia con la tematica dell’occupazione giovanile, sia perché orientato verso l’acquisizione di esperienze di lavoro utili anche ai fini della qualificazione professionale61. Ed ancora, fra gli altri interventi normativi, si pensi al d.l. 29 gennaio 1983 n. 17, concernente misure per il contenimento del costo del lavoro e per favorire l’occupazione, che prevedeva la possibilità per i datori di lavoro di avanzare richieste nominative per l'assunzione con finalità formative, di durata non superiore a dodici mesi, ai fini dell'urgente sostegno all'occupazione giovanile e dell'inserimento dei giovani in attività produttive qualificate (art. 8, comma 1, come modificato dall'articolo unico della legge 25 marzo 1983, n. 79, in sede di conversione). Cfr. XXXXXXXXX L., Il contratto di lavoro a termine: un modello normativo da superare?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, III, 1009 ss.
62 Corte Costituzionale, 7 febbraio 2000, n. 41, in Foro it., 2000, I, 701.
membri debbano introdurre nei propri ordinamenti misure idonee a prevenire abusi in tema di contratto di lavoro a tempo determinato, solo «in assenza di norme equivalenti». Pertanto, secondo il giudizio della Corte, negli Stati in cui fossero già presenti tali norme, si sarebbe determinata una situazione di anticipata conformazione dell'ordinamento interno a quello comunitario.
Tuttavia, non sono mancate soluzioni contrastanti, secondo cui il giudizio di conformità tra l’ordinamento interno e quello comunitario andrebbe riferito al momento in cui scattano per gli Stati gli obblighi di trasposizione e non ad un momento antecedente. Di guisa che, durante il periodo che va dall’entrata in vigore della direttiva alla scadenza dell’obbligo di conformazione, lo Stato membro ben potrebbe valutare, ricorrendo prioritariamente al dialogo sociale, le tecniche più adeguate per conformarsi al dettato del legislatore comunitario. Xxxx, secondo tale interpretazione, un eventuale referendum abrogativo della disciplina allora in vigore avrebbe accelerato il processo di trasposizione; l’abrogazione de qua avrebbe infatti richiesto un tempestivo intervento per ricondurre la normativa nazionale ai canoni di conformità rispetto a quella comunitaria63.
In ogni caso, dovendosi ritenere ormai pacifica e consolidata la tesi della preventiva conformazione, resta da domandarsi se dalla nuova disciplina di cui al d.lgs. n. 368 del 2001 non sia piuttosto scaturito un arretramento delle tutele, ergo, una violazione della clausola 8.3 dell’accordo quadro (c.d. clausola di non regresso), secondo cui «l’applicazione del presente accordo non costituisce motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso».
In tal senso, si ritiene preliminarmente opportuno dar conto dell’interpretazione fornita dalla giurisprudenza comunitaria. I giudici di Lussemburgo, in primo luogo, hanno chiarito che una riduzione della tutela offerta ai lavoratori nel settore dei contratti di lavoro a tempo determinato non è, in quanto tale, vietata. Infatti, per rientrare nel divieto sancito dalla clausola 8, punto 3, tale riduzione, da un lato, deve essere collegata con l’applicazione dell'accordo e, dall'altro, deve avere ad oggetto il «livello generale di tutela» dei
63 x. XXXXX X., Il «giudizio» della Consulta sui referendum, in Guida lav., 2000, VIII, 18. Per un’analisi più approfondita sull’argomento, x. XXXXXXXX L., Xxxxxx a termine, referendum, direttiva 1999/70/CE, Patto di Milano, in Riv. giur. lav., 2000, I, 575 ss.
lavoratori a tempo determinato64. E’ poi sorto il dubbio che con l’espressione
«ambito coperto dall’accordo stesso» si volesse intendere, non già la disciplina generale sul lavoro a termine, bensì, esclusivamente, i profili direttamente disciplinati dall’accordo, così escludendo da tale ambito l’ipotesi di apposizione del termine al primo o unico contratto65. La Corte, chiamata a pronunciarsi sul punto ha invero precisato che «la verifica dell'esistenza di una reformatio in peius ai sensi della clausola 8, n. 3 deve effettuarsi in rapporto all'insieme delle disposizioni di diritto interno di uno Stato membro relative alla tutela dei lavoratori in materia di contratti di lavoro a tempo determinato»66. In ogni caso, dette nuove condizioni devono essere compensate «dall’adozione di altre garanzie o misure di tutela» oppure devono riguardare «unicamente una categoria circoscritta di lavoratori con un contratto di lavoro a tempo determinato, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare»67. Inoltre, la Corte ha espressamente accertato che l’ambito di applicazione della clausola 8.3 si estende, a differenza di quanto previsto in riferimento alla clausola 5.1 – relativa all’individuazione delle “ragioni obiettive” idonee a giustificare il rinnovo dei contratti a termine -, «sia ai lavoratori con contratti di lavoro a tempo determinato successivi, sia a quelli con un primo ed unico contratto a tempo determinato»68.
In ordine alla compatibilità della nuova disciplina rispetto alla clausola 8.3 si è alimentata in dottrina un’accesa querelle. In primo luogo, secondo una prima interpretazione69, se si analizza attentamente il d.lgs. 368 del 2001, è possibile intravedere l’eredità della precedente disciplina, riaffiorando qua e là quelle «antiche eccezioni» che giustificavano l’apposizione del termine al contratto di lavoro. Secondo la dottrina più critica, la direttiva comunitaria è stata soltanto il pretesto per dar corso ad una sostanziale deregolamentazione
64 Coxxx xx Xxxxxxxxx, Xxxxxx Xxxxxxx, 00 xovembre 2005, C-144/04, Xxxxxxx, punto 52; Coxxx xx Xxxxxxxxx XX, XXX Xxxxxxx, 0 xprile 2009, cause riunite da C-378/07 a C-380/07, Xxxxxxxxxx e altri, punto 126; Coxxx xx Xxxxxxxxx XX, XXX Xxxxxxx, 00 xprile 2009, C-000/00, Xxxxxx, punto 114; Coxxx xx Xxxxxxxxx XX, XX Xxxxxxx, 00 xovembre 2010, C-20-10, Vino, punto 32.
65 cfr. TIRABOSCHI M., cit., 65.
66 Angelidaki, cit., punto 120.
67 Coxxx xx Xxxxxxxxx XX, XX Xxxxxxx, 00 xiugno 2010, C-98/09, Sorge, punto 48.
68 Angelidaki, cit., punto 121.
69 x. XXXXXXXXX X., Ancora nuove regole, cit., 43.
della materia70. D’altro canto, altri autori71 hanno ritenuto che una deregolamentazione sarebbe invero accettabile solo se giustificata dalla sussistenza di un’evoluzione della situazione, sulla cui base era stato emanato il regime di miglior favore preesistente alla direttiva, tale, appunto, da richiedere una modificazione peggiorativa. In tal caso, sullo Stato membro graverebbe una sorta di «informale obbligo di motivazione», ovvero l’obbligo di fornire «una chiara esplicitazione delle ragioni economiche e sociali che inducono ad una simile modifica, sì da rendere evidente che si tratta, appunto, di una precisa scelta politica legata al mutamento dello status quo».
Conformemente a tale ultima interpretazione, si è sottolineato come il legislatore europeo abbia, in talune ipotesi, espressamente affermato di voler esclusivamente stabilire dei minimi di regolamentazione, lasciando gli Stati membri liberi di introdurre regole anche peggiorative. Quando invece, come nella specie, la direttiva non autorizza gli Stati ad introdurre disposizioni differenti, essa non impone soltanto una regolamentazione minima, ma vuole evitare una «armonizzazione al ribasso»72.
Secondo un’opinione difforme73, se un ordinamento di uno Stato membro assicura condizioni eccedenti le misure minime di tutela istituite a livello comunitario, non vi è alcuna necessità di recepimento delle stesse, in quanto già realizzate per eccesso. Di guisa che, un’iniziativa legislativa che, nel rispetto dei minimi garantiti dalla direttiva, preveda un trattamento meno favorevole rispetto al precedente, costituisce una mera «revisione legislativa» e non un
«recepimento della direttiva». In ogni caso, ove vi fosse necessità di adeguamento alla direttiva, una modifica in pejus nell’ambito dello stesso intervento che, fra l’altro, recepisce la direttiva nei profili di tutela minima prima mancanti sarebbe comunque possibile anche senza l’enunciazione di una giustificazione a tal fine.
70 x. XXXXXXXX X., Il lavoro e l’Europa lontana. L’opposizione si faccia sentire, in L’Unità, 7 luglio 2001.
71 CARABELLI U. - LECCESE V., Libertà di concorrenza e protezione sociale a confronto. Le clausole di favor e di non regresso nelle direttive sociali, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”, 2007, 56, 54.
72 SPEZIALE V., La riforma del contratto a tempo determinato, in Dir. rel. ind., 2003, II, 225 ss. 73 XXXXX X., L’interpretazione delle clausole di non regresso, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2004, III, 566. Cfr. altresì VALLEBONA A., Lavoro a termine: vincoli comunitari, giustificazione, conseguenze dell’ingiustificatezza, in Dir. lav., 2006, 1-2, 77.
In conclusione, anche a voler prescindere dall’una o dall’altra interpretazione, è evidente come il d.lgs. 368 del 2001 si sia ispirato ai principi di «flessibilità», più che di «stabilità», così discostandosi dall’obiettivo principale della direttiva comunitaria sul lavoro a termine (v. paragrafo precedente). Si potrebbe ora replicare che la flessibilità era obiettivo della politica europea di coordinamento in materia di occupazione, richiamata nella direttiva stessa. Resterebbe allora da domandarsi se la nuova regolamentazione non si traduca, piuttosto, in un «inesatto adempimento»74 della direttiva. In tal caso, andrebbero comunque valutati i profili inerenti ad una (almeno) presunta violazione della clausola di non regresso, anche in considerazione della necessità di dover coniugare quella «flessibilità» con i canoni della «stabilità», nell’ottica di flexicurity sopra illustrata (v. par. 2).
Ciò che è certo è che la nuova disciplina ha dato il via ad una sempre maggiore e progressiva diffusione dell’utilizzo di tale strumento contrattuale. Si pensi che i rapporti a tempo determinato in Italia rappresentavano nel 2000 il 7,5% dell’occupazione totale (in crescita rispetto al 5,4% del 1995, ma ancora ben al di sotto della media dell’UE, pari all’11,4%)75, che nel 2003 arrivavano al 7,9%76, al 8,5% nel 200577 e raggiungevano il picco nel 200000 (xxx xl 9,4%, ergo quasi due punti percentuale in più rispetto al 2000), salvo poi scendere al 9,0% nel 201079.
3. L’evoluzione legislativa del contratto a termine nel settore privato
Le origini del contratto a tempo determinato possono addirittura ritenersi “nobili”. La tipologia contrattuale de qua trovò in principio collocazione all’interno del codice civile del 1865, ove il termine assolveva ad una funzione di garanzia per il lavoratore. Vigeva, infatti, la regola per cui «nessuno può
74 Tale eventualità è stata esclusa da una parte della dottrina. In tal senso, XXXXX G., cit.
75 v. Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia - Proposte per una società attiva e per un lavoro di qualità, Roma, 3 ottobre 2001, in xxxx://xxx-xxx.xxxxxx.xx.
76 v. Rilevazione sulle forze di lavoro, I trimestre 2003, in xxx.xxxxx.xx.
77 v. Rilevazione sulle forze di lavoro, I trimestre 2005, idem. 78 v. Rilevazione sulle forze di lavoro, I trimestre 2008, idem. 79 v. Rilevazione sulle forze di lavoro, I trimestre 2010, idem.
obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo o per una determinata impresa» (art. 1628)80. Di guisa che, lo strumento in esame rappresentava l’unica forma di lavoro subordinato consentita. La ratio di tale disposizione era sostanzialmente quella di evitare che rapporti a tempo indeterminato potessero risolversi in una sorta di servitù personale a carattere perpetuo81.
Il quadro sopra delineato subì una netta inversione di rotta quando, con il
r.d.l. n. 1825/1924, poi convertito nella l. n. 562/1926, “Disposizioni relative al contratto d’impiego privato”, venne previsto, all’art. 1, che «Il contratto d’impiego privato, di cui nel presente decreto, è quello per il quale una società o un privato, gestori di un’azienda, assumono al servizio dell’azienda stessa, normalmente a tempo indeterminato, l’attività professionale dell’altro contraente, con funzioni di collaborazione tanto di concetto che di ordine, eccettuata pertanto ogni prestazione che sia semplicemente di mano d’opera. Il contratto d’impiego privato può anche essere fatto con prefissione di termine; tuttavia saranno applicabili in tal caso le disposizioni del presente decreto che presuppongono il contratto a tempo indeterminato, quando l’aggiunzione del termine non risulti giustificata dalla specialità del rapporto ed apparisca invece fatta per eludere le disposizioni del decreto», nonché, all’art. 4: «dovrà risultare da atto scritto l’assunzione che venga fatta con prefissione di termine. In mancanza di atto scritto l’assunzione si presume fatta a tempo indeterminato». Veniva pertanto, per la prima volta, xxxxxxx il principio per cui il contratto si reputa «normalmente a tempo indeterminato».
Le disposizioni di cui ai suddetti artt. 1 e 4, r.d.l. n. 1825/1924, furono poi sostituite dall’art. 2097 del codice civile del 1942, che mirò ad enfatizzare il carattere derogatorio del contratto a tempo determinato rispetto al modello standard a tempo indeterminato.
Soltanto all’inizio degli anni ‘60, l’istituto trovò una piena regolamentazione all’interno della l. 18 aprile 1962, n. 230, la quale, tipizzando tassativamente le ipotesi in cui era consentito stipulare contratti a termine, ne
80 Si trattava, in sostanza, della traduzione del principio contenuto all’interno dell’art. 1780, comma 1, del code Napoleon: «On ne peut engager ses services qu'à temps, ou pour une entreprise déterminée».
81 Per una ricostruzione più dettagliata, cfr. BARASSI L., Il contratto di lavoro nel diritto positivo, Milano, 1915, 257; XXXXXXX XXXXXXXXXX F., Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1959, 138 ss.
accentuava ulteriormente il carattere di eccezionalità rispetto alla regola generale secondo cui «il rapporto di lavoro si presume stipulato a tempo indeterminato». La legge regolava in modo altrettanto rigido la disciplina della proroga del termine, della prosecuzione di fatto del rapporto oltre la sua scadenza e della riassunzione: la proroga (art. 2, comma 1) era possibile una volta soltanto ed in via eccezionale, al verificarsi di un’esigenza contingente ed imprevedibile, era previsto il consenso del lavoratore, la durata non doveva essere superiore a quella del contratto iniziale e, comunque, doveva riferirsi alla stessa attività lavorativa per la quale era stato stipulato il contratto iniziale, non già in relazione alle mansioni da ultimo svolte, bensì alla causa che aveva consentito l’assunzione a termine; quanto alla prosecuzione di fatto del rapporto, il comma 2 dell’art. 2 prevedeva l’automatica conversione in contratto a tempo indeterminato; infine, la riassunzione del lavoratore a termine era consentita solo in presenza di una delle causali giustificatrici e a condizione che tra i due contratti vi fosse un intervallo di quindici o trenta giorni, a seconda che il primo contratto avesse una durata inferiore o superiore a sei mesi. In caso di violazione, il primo contratto si riteneva a tempo indeterminato sin dall’origine, in forza di presunzione assoluta di frode alla legge82.
D’altro canto, la materia, prima di trovare una più compiuta sistemazione nel d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, è stata oggetto di significativi interventi normativi: in primo luogo, si pensi al d.lgs. n. 876 del 1977, con il quale si consentiva l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro nei settori del commercio e del turismo nel caso si fosse verificata la necessità di intensificare l’attività lavorativa e a cui non fosse stato possibile sopperire con il normale organico; in secondo luogo, si fa riferimento all’art. 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, il quale ha aggiunto alle fattispecie tipizzate la facoltà di stipulare contratti a termine nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale.
Come si è visto, con il d.lgs. n. 368/2001, che in Italia ha dato attuazione alla direttiva comunitaria 1999/70/CE, la tecnica della tipizzazione delle ipotesi
82 Cfr. XXXXXXXXXXXX L., L’evoluzione della disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, in PERONE G. (a cura di), Il contratto di lavoro a tempo determinato nel d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, Torino, 2002, 2 ss.
di legittima apposizione del termine ha lasciato definitivamente il posto alla previsione di una clausola c.d. generale, che consente di stipulare contratti a termine in presenza di specifiche ragioni oggettive. Da tale impostazione si evince come l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro non rappresenti più né una deroga al principio in base al quale il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, né il frutto della contrattazione collettiva a livello nazionale o locale, essendo il termine individuato come uno strumento di carattere normativo, a disposizione dell’impresa, necessario per fronteggiare esigenze di carattere tecnico, produttivo, organizzativo, sostitutivo. Tali ragioni giustificative devono essere esplicitate per atto scritto dal datore di lavoro, di modo che il controllo del giudice sia limitato all’accertamento della loro esistenza, senza sindacare nel merito l’opportunità delle scelte datoriali (art. 1, d.lgs. 368/2001). E’ consentita la proroga del termine con il consenso del lavoratore e solo in caso di durata iniziale inferiore a tre anni. In presenza di tali circostanze, «la proroga è ammessa per una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato» (art. 4, d.lgs. 368/2001). Il contratto complessivamente considerato non può, comunque, superare il limite dei tre anni. In caso di violazione, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione, per ogni giorno di continuazione del rapporto, pari al venti per cento fino al decimo giorno successivo ed al quaranta per cento per ciascun giorno ulteriore (art. 5, comma 1, d.lgs. 368/2001). Se il rapporto di lavoro si protrae oltre il ventesimo giorno, in caso di durata inferiore a sei mesi, ovvero oltre il trentesimo negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini (art. 5, comma 2, d.lgs. 368/2001).
Sulla necessità di prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato è successivamente intervenuta la l. 24 dicembre 2007, n. 24783, la quale, seppure con qualche anno di ritardo, ha inteso adeguare l’ordinamento nazionale alle
83 Per un approfondimento sulle novità introdotte dal nuovo intervento legislativo, cfr. CINELLI
X. - XXXXXXX G., Xxxxxx, competitività, welfare: commentario alla legge 24 dicembre 2007, n. 247 e riforme correlate, Torino, 2008; XXXXXXX G., Il contratto a tempo determinato rivisitato, in Arg. dir. lav., 2008, III, 649 ss.; SPEZIALE V., La riforma del contratto a termine dopo la legge n. 247/2007, in Riv. it. dir. lav., 2008, I, 181 ss.
disposizioni contenute nella clausola 5, comma primo, della direttiva comunitaria n. 1999/70/CE. La nuova legge ha infatti introdotto un limite massimo di 36 mesi «comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro» alla successione dei contratti a termine tra lo stesso lavoratore e lo stesso datore di lavoro e per lo svolgimento di mansioni equivalenti (nuovo comma 4-bis, art. 5, d.lgs. n. 368 del 200184). La violazione di detti termini causa la trasformazione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato. Il tetto dei 36 mesi può essere superato stipulando un ulteriore e successivo contratto a termine, per una sola volta, dinanzi alla Direzione provinciale del lavoro competente per territorio e con l’assistenza di un rappresentante di una delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale85. La norma non stabilisce la durata di tale contratto, rinviando ad accordi comuni delle parti sociali tali decisioni.
La legge n. 247 del 2007 è intervenuta su ulteriori aspetti della materia e, in particolare, ha preposto al comma primo dell’art.1 del d.lgs. n. 368 del 2001, la disposizione secondo cui «il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato» ed ha previsto la reintroduzione del diritto di precedenza (comma 4-quater, 4-quinquies, 4-sexies), già disciplinato dall’art. 8- bis, d.lgs. 29 gennaio 1983, n. 17, convertito in l. 25 marzo 1983, n. 79 e dal
secondo xxxxx, art. 23, l. 28 febbraio 1987, n. 56.
E’ evidente come la legge n. 247 del 2007 rappresenti, almeno sulla carta, un punto di svolta, ponendosi come ponte tra le esigenze di flessibilità dell’impresa e stabilità del rapporto di lavoro. Proprio in ragione di ciò, il successivo intervento di cui alla legge 6 agosto 2008, n. 133 ha destato non poche perplessità di carattere tecnico e politico. Se infatti la legge n. 247 del 2007 è stata definita come la «punta di diamante» della lotta alla precarietà86, la
84 Comma introdotto dall’art. 1, comma 40 della l. n. 247 del 2007.
85 Si precisa che l’intervento della Dpl è finalizzato esclusivamente alla verifica circa la completezza e la correttezza “formale” del contenuto del contratto a tempo determinato e la genuinità del consenso del lavoratore alla sottoscrizione dello stesso, senza che tale intervento possa determinare effetti certificativi in ordine all’effettiva sussistenza dei presupposti giustificativi richiesti dalla legge (v. circolare Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale n. 13/2008).
86 XXXXXXX X., cit., 653.
legge n. 133 del 2008, piuttosto, ha inteso perseguire l’obiettivo della flessibilità87.
In primis, l’art. 21 dell’intervento legislativo testé indicato ha modificato la disciplina delle causali di ricorso al contratto a tempo determinato, aggiungendo, dopo le parole «tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo», l’espressione «anche se riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro». Il secondo intervento modificativo, invero, ha riguardato la disposizione relativa alla durata massima della successione dei contratti a termine, prevedendo la possibilità per la contrattazione collettiva di derogare al tetto dei 36 mesi. Analoga correzione si ha in tema di diritto di precedenza, in cui si è disposto che la disciplina di cui ai commi 4-quater e 4-quinquies trova applicazione «fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale». La novità ideologicamente più sconcertante è tuttavia rappresentata dall’introduzione dell’art. 4-bis, che ha previsto l’indennizzo e non la conversione in contratto di lavoro a tempo indeterminato ove, nelle cause pendenti al momento dell’entrata in vigore della legge di conversione, il giudice riscontri una violazione delle norme che regolano l’apposizione delle causali di ricorso al contratto e di quelle che regolano le proroghe. La norma è stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte Costituzionale, con pronuncia del 14 luglio 2009, n. 21488, per l’irragionevole disparità di trattamento collegata alla sola circostanza, del tutto accidentale, della pendenza di una lite giudiziaria alla data (anch’essa sganciata da qualsiasi ragione giustificatrice) del 22 agosto 2008.
In un siffatto contesto, già di per sé sufficientemente emblematico e complesso, si inseriscono le disposizioni di cui agli artt. 30 e 32 della legge n. 183 del 2010, le quali non hanno fatto altro che riaccendere il contenzioso presente in materia. Da un lato, con l’art. 30 il legislatore ha inteso porre un freno al controllo giudiziale, il quale, a fronte di clausole generali (id est, assunzione a termine, trasferimento del lavoratore ex art. 2103 c.c., modificazione delle mansioni, distacco, trasferimento d'azienda, giusta causa,
87 Cfr. CINELLI M., L’intervento sul welfare della «manovra d’estate 2008», in Mass. giur. lav., 2008, 668 ss.
88 Tale pronuncia sarà oggetto di una più approfondita analisi nel successivo capitolo.
giustificato motivo, etc.) dovrà limitarsi esclusivamente all'accertamento del presupposto di legittimità e non potrà intervenire sul merito delle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro.
Dall’altro lato, con l’art. 32, comma 3, lett. d), il legislatore ha inteso estendere la nuova disciplina del doppio termine decadenziale di impugnazione del licenziamento anche «all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368 del 2001, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo». Sulla base del successivo art. 4, la norma sulla decadenza del termine si applica, fra l’altro: ai contratti a tempo determinato in corso di esecuzione, con decorrenza dalla data di scadenza del termine (lett. a); ai contratti a tempo determinato stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al d.lgs. n. 368 del 2001 e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della legge (lett. b).
La novità più dirompente ha riguardato, tuttavia, i commi 5, 6 e 7, relativi alla previsione di un’indennità risarcitoria, nei casi di disposta conversione del contratto a tempo determinato, compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, ridotta alla metà nel caso di contratti collettivi che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati a termine nell’ambito di specifiche graduatorie. Tali disposizioni sono state sottoposte al vaglio della Corte Costituzionale89, la quale, con pronuncia del 9 novembre 2011, n. 303, le ha dichiarate costituzionalmente legittime90.
4. Il ruolo (primario) della contrattazione collettiva nel settore privato
Il quadro sopra delineato non può prescindere dall’analisi del ruolo “da protagonista” assunto dalla contrattazione collettiva nel corso della “storia” del contratto a termine, essa stessa rimasta “vittima” dell’inarrestabile iter normativo. Tale storia si fa risalire agli inizi del lontano 1987, quando l’articolo
89 Tribunale Trani, 20 dicembre 2010, in Dir. rel. ind., 2011, I, 148 ; Xxxxx Xxxx., 00 gennaio 2011, n. 2112, in Riv. crit. dir. lav., 2010, IV, 1019.
90 Tale pronuncia sarà oggetto di una più approfondita analisi nel successivo capitolo secondo.
23 della legge n. 56 segnava l’ingresso della contrattazione collettiva nel sistema delle regole poste a fondamento della disciplina del contratto a tempo determinato. Alle parti sociali veniva infatti conferito il potere di determinare nuove ipotesi di legittima apposizione del termine, oltre quelle tassativamente indicate nella legge n. 230/1962, al fine di consentire una migliore capacità di adattamento della nuova disciplina ai mutamenti del contesto produttivo. Tuttavia, con il d.lgs. n. 368 del 2001 la contrattazione collettiva veniva espropriata, almeno sulla carta, di una parte di tali poteri, potendo essa intervenire soltanto in riferimento all’individuazione dei limiti quantitativi di utilizzazione dell’istituto (c.d. clausole di contingentamento), sulla formazione professionale e sull’informazione del lavoratore assunto a termine (rispettivamente, artt. 7 e 9), nonché sull’individuazione del diritto di precedenza per i lavoratori già assunti a termine nei casi previsti dall’art. 23, comma 2 , l. n. 56 del 1987 (art. 10, comma 9). Ora, risulta difficile intravedere una reale ed effettiva limitazione della funzione creatrice della contrattazione collettiva91, tanto più se si prendono in esame i contratti collettivi successivi all’entrata in vigore del d.lgs. del 2001 e precedenti alle più recenti modifiche (in particolare, periodo 2003-2004) da cui risulta praticamente una riscrittura dello stesso d.lgs. n. 368 del 2001. In definitiva, la contrattazione collettiva si è conquistata, nei fatti, una disciplina auto-sufficiente in materia di contratto a tempo determinato, andando ben oltre i limiti apparentemente riservatigli dal d.lgs. del 2001. Lo stesso legislatore ha dovuto riconoscere la preminenza di tale ruolo e lo ha fatto in due occasioni: nel 2007, nella parte in cui ha previsto la possibilità di stipulare un ulteriore contratto a termine in deroga al tetto massimo dei 36 mesi, tramite l’introduzione del comma 4-bis all’art. 5 del d.lgs. n. 368 del 2001, riservando agli avvisi comuni delle parti sociali il compito di individuare la durata di tale ulteriore contratto: «un ulteriore successivo contratto a termine fra gli stessi soggetti può essere stipulato per una sola volta, a condizione che la stipula avvenga presso la direzione provinciale del lavoro competente per territorio e con l’assistenza di un rappresentante di una delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale cui il lavoratore sia iscritto o conferisca mandato. Le organizzazioni
91 MONTUSCHI L., Il contratto a termine e la liberalizzazione negata, in Dir. rel. ind., 2006, I, 109 ss.
sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale stabiliscono con avvisi comuni la durata del predetto ulteriore contratto. In caso di mancato rispetto della descritta procedura, nonché nel caso di superamento del termine stabilito nel medesimo contratto, il nuovo contratto si considera a tempo indeterminato»; ancora, nel 2008, quando ha espressamente previsto la possibilità per la contrattazione collettiva, sia nazionale sia aziendale, di derogare al tetto dei 36 mesi e di intervenire in maniera incisiva sul diritto di precedenza, attraverso l’introduzione, all’interno dei commi 4-bis (primo periodo) e 4-quater dell’inciso: «fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».
Il legislatore, nell’affidare alla Direzione provinciale del lavoro e al sindacato il compito di rimuovere il limite legale dei 36 mesi, si è dunque servito della tecnica della c.d. «volontà assistita»92 o «flessibilità negoziata»93 quale strumento di introduzione di deroghe alle norme imperative di legge, in un’ottica di «flessibilizzazione» delle stesse.
La funzione attribuita a tali soggetti, oltre a quella di supportare la formazione di una volontà individuale consapevole94, è quella di controllare il profilo causale del contratto, tramite la verifica del rispetto dei 36 mesi, dell’esistenza di esigenze temporanee anche alla base del nuovo contratto e della durata prevista negli avvisi comuni.
Come si è visto, spetta agli avvisi comuni stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale stabilire la durata dell’ulteriore contratto. In tal senso, si fa presente che gli avvisi ad oggi siglati95 hanno tendenzialmente fissato la durata della proroga in 8 mesi.
92 XXXXX G., Le modifiche alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, in PERSIANI M. E XXXXX G., La nuova disciplina del Welfare. Commentario alla legge 24 dicembre 2007, n. 247, Padova, 2008, 90 ss.
93 XXXXX XXXXXX G., Un nuovo 23 luglio per il diritto del lavoro e le relazioni industriali italiane. Ritorno al passato o ponte per il futuro?, in Dir. rel. ind., 2007, III, 787 ss.
94 SPEZIALE V., La riforma, cit., 212.
95 Fra gli altri, cfr. Accordo 10 gennaio 2008 - rinnovo del contratto collettivo per gli addetti al settore dell’industria metalmeccanica, che fissa in 8 mesi la durata della proroga; Accordo 25 gennaio 2008 - rinnovo del contratto collettivo per gli addetti al settore della piccola e media industria metalmeccanica (Confapi), che fissa in 8 mesi la durata della proroga; Accordo 17 marzo 2008 - rinnovo del contratto collettivo per gli addetti al settore dell’industria alimentare,
In ogni caso, si dovrà chiarire cosa il legislatore volesse intendere con l’espressione “avvisi comuni”. Secondo alcuni, si tratterebbe di avvisi «stipulati a livello interconfederale, che non costituiscono tecnicamente veri e propri accordi, non avendo contenuto negoziale, ma che hanno la funzione di rappresentare l’orientamento delle parti sociali su una data materia»96, secondo altri, tale formula potrebbe riferirsi ad una pluralità di ipotesi: «quella classica dell'accordo interconfederale destinato a esplicare i propri effetti nella sfera dell'autonomia collettiva e a fungere quindi da battistrada per i contratti collettivi nazionali di categoria, oppure a colmare le lacune derivanti dall'inerzia della contrattazione in alcuni settori; quella più moderna di suggeritore del legislatore, proiettato a creare regole che solo con il recepimento nella legge potranno produrre effetti»97. Va comunque precisato che l’avviso comune non è destinato ad avere immediata precettività: al fine di espletare la funzione attribuitagli ex lege, dovrà infatti essere stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.
Pare altresì opportuno evidenziare come il suddetto comma 4-bis dell’art. 5, d.lgs. n. 368 del 2001, abbia inteso delegare il potere normativo esclusivamente agli «avvisi comuni» e non anche ai contratti collettivi, diversamente, il nuovo comma 4-ter abilita l’autonomia collettiva a prevedere diverse ipotesi di attività, ulteriori da quelle stagionali ivi menzionate, per le quali non si applica il comma 4-bis, quindi il tetto dei 36 mesi, sia tramite
che fissa in 12 mesi la durata della proroga; Avviso comune 10 aprile 2008 Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, che fissa in 8 mesi la durata della proroga; Avviso comune 24 aprile 2008 Confartigianato, Casartigiani, Cna, Cgil, Cisl e Uil, che fissa in 8 mesi la durata della proroga; Avviso comune 12 giugno 2008 per il settore turismo Federalberghi, Fipe, Fiavet, Faita, Federetti, Filcame Cgil, Fisascata Cisl e Uiltucs Uil, che prevede una proroga di durata non superiore a 8 mesi, elevabile a 12 mediante contrattazione integrativa aziendale e/o territoriale; Accordo 24 giugno 2008 - rinnovo dell’accordo 24 maggio 2004 tra le associazioni cooperative e Fillea Cgil, Filca Cisl e Feneal Uil per gli addetti alle cooperative di produzione e lavoro nei settori dell’edilizia ed attività affini, che prevede una proroga di durata non superiore a 8 mesi, nel rispetto dell’Avviso comune del 10 aprile 2008; Accordo 4 giugno 2008 - rinnovo del contratto collettivo per i quadri e gli impiegati in agricoltura tra Confederazione generale agricoltura italiana, Confederazione nazionale Coldiretti, Cia, Confederdia, Flai Cgil, Fai Cisl e Uila Uil, che prevede un periodo di proroga di durata non superiore a 12 mesi.
96 Così, XXXXXX X., La flessibilità del lavoro dopo la legge di attuazione del protocollo sul
welfare: prime osservazioni, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”, n. 68, 2008, 13.
97 XXXXXXX A., Apposizione del termine, successione di contratti a tempo determinato e nuovi limiti legali: primi problemi applicativi dell’art. 5, commi 4-bis e ter, D.Lgs. N. 368/2001, in Riv. it. dir. lav., 2008, I, 287 ss.
«avvisi comuni» sia tramite «contratti collettivi nazionali». Non è tuttavia chiaro se l’intervento dell’autonomia collettiva debba ritenersi circoscritto nell’ambito dell’attività stagionali98, ovvero se possa estendersi sino ad individuare ipotesi completamente diverse rispetto alla sola stagionalità. Tal ultima interpretazione sembra essere quella maggiormente accreditata in dottrina99. In particolare, si è sostenuto, sulla base della lettura sistematica con il precedente comma 4-bis, che sarebbe strano che il legislatore intendesse attribuire poteri tanto estesi ai sindacati in relazione alla durata del contratto che eccede i 36 mesi o sulla determinazione del quantum di rapporti a termine in un’azienda, per poi limitare l’ampiezza del potere di individuare le ipotesi di esclusione alle sole attività stagionali. Si verificherebbe, infatti, una restrizione delle facoltà concesse all’autonomia collettiva in contrasto con il ruolo determinante ad essa attribuito dalla legge su aspetti essenziali della materia. Secondo tale interpretazione,
«l’unico limite sarà quello di non poter ampliare le eccezioni in modo tale da vanificare completamente il tetto dei 36 mesi previsto dal comma 4-bis»100. Sulla base di una diversa ed ancor più estensiva interpretazione, «gli unici limiti saranno quelli che le stesse parti collettive vorranno darsi»101; ciò, in un’ottica di rafforzamento del peso della rappresentanza dei lavoratori ai tavoli contrattuali, al fine di stimolare la creazione di regole condivise per evitare la c.d. trappola della precarietà.
Le disposizioni de quibus hanno altresì destato qualche dubbio sotto il profilo della conformità con l’art. 39, comma 1, Cost., laddove riservano la
«funzione di assistenza»102 esclusivamente alle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Nella specie, si è evidenziata la difficoltà di giustificare il fatto che un lavoratore iscritto ad un
98 In tal senso, cfr. XXXXXX X., op. cit., 13 ss., per cui la formulazione della norma non sembra lasciar spazio ad una diversa interpretazione, dato che si riferisce alle attività stagionali definite dal D.P.R. del 1963 e a quelle che saranno individuate dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali.
99 SPEZIALE V., La riforma, cit., 208.
100 L’Autore da ultimo citato osserva come la previsione di tale limite sia necessaria al fine di evitare un «rovesciamento» del rapporto regola (comma 4-bis) - deroga (comma 4-ter) non consentita dalla legge.
101 BELLAVISTA A., Xxxxxx a termine e contrattazione collettiva, in BELLAVISTA X. - XXXXXXX A.
– XXXXXXXXX X. (a cura di), Il lavoro a termine dopo la legge 6 agosto 2008, n. 133. Privato e pubblico a confronto, Torino, 2009, 40.
102 Ivi, 39.
sindacato non comparativamente più rappresentativo debba farsi assistere da un sindacato diverso dal proprio al fine di poter avvalersi della deroga consentita al tetto dei 36 mesi103. Tuttavia, altra dottrina ha escluso una qualsivoglia lesione del diritto di libertà sindacale, rilevando come la previsione de qua sia volta soltanto ad «affidare la gestione concreta delle regole generali agli stessi soggetti che le hanno coniate»104.
Resta tuttavia aperta la questione circa la possibilità, in capo alla contrattazione collettiva nazionale, di delegare le facoltà sopra descritte alla contrattazione aziendale. Secondo una parte della dottrina105, sarebbe più corretto optare per una soluzione positiva, per il fatto che la contrattazione aziendale è certamente più sensibile al mutamento del contesto produttivo e quindi più in grado di valutare le situazioni in cui si rende opportuna la deroga al limite dei 36 mesi. Altri106 hanno sollevato alcune perplessità circa un eventuale intervento della contrattazione decentrata, anche in funzione integrativa di quella aziendale, in considerazione dell’amplissima delega assegnata ai sindacati.
La centralità del ruolo della contrattazione collettiva è stata confermata ed enfatizzata dalla legge n. 133 del 2008, che le ha attribuito poteri ancor più ampi in ordine alla possibilità di derogare al limite dei 36 mesi. Ma vi è di più. La legge prevede, stavolta espressamente, che tali deroghe possano essere apportate anche dalla contrattazione di secondo livello, territoriale o aziendale.
Dalla ricostruzione sopra effettuata, è evidente come la contrattazione collettiva sia divenuta, specie negli ultimi anni, il principale strumento di
103 Così, XXXXX G., op. cit., 98.
104 BELLAVISTA A., op. cit., 39.
105 Così, MONDA G. M., Il ruolo della contrattazione collettiva nella disciplina del contratto a tempo determinato, in XXXXXXX G. (a cura di), Il contratto a tempo determinato. Aggiornato al
d.l. n. 112/2008 conv. in legge n. 133/2008, Torino, 2008, 293; XXXXXXX A., cit., 332, in particolare, secondo l’A. da ultimo citato, « la soluzione preferibile potrebbe forse essere quella che, evitando il rinvio puro e semplice al contratto aziendale, lasci a quest'ultimo la possibilità di integrarsi con la regolamentazione dettata dal contratto collettivo nazionale. Ciò potrebbe avvenire sia riservando al contratto collettivo nazionale l'enunciazione dei criteri generali o di linee guida utili per consentire al contratto aziendale di intervenire con una funzione spiccatamente applicativa, sia lasciando al contratto collettivo nazionale la convalida delle determinazioni assunte dai contratti aziendali, le quali, diventerebbero in tal modo operative soltanto dopo essere state recepite dal contratto collettivo nazionale».
106 XXXXXX X., op. cit., 294.
promozione della c.d. flessibilità in entrata, imponendo sempre più la sua funzione di bilanciamento tra esigenze della produzione e sostenibilità per i lavoratori.
5. L’evoluzione legislativa del contratto a termine nel settore pubblico. Il ruolo (marginale) della contrattazione collettiva
La disciplina del contratto a tempo determinato nel pubblico impiego è stata oggetto di numerose riforme caratterizzate da incoerenze e contraddizioni. Ciò che si rileva è un affannoso tentativo di uniformare la normativa in esame alle nuove esigenze del mondo del lavoro, dominate dalla c.d. flessibilità in entrata. Il punto di partenza di tale iter va individuato nelle disposizioni immediatamente successive all’avvio del processo di privatizzazione del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
In primo luogo, il d.lgs. n. 29 del 1993 (attuativo della prima legge delega di privatizzazione, n. 421 del 1992), si è limitato a richiamare il d.p.c.m. n. 127/1989, che prevedeva un’apposita disciplina per la costituzione di rapporti di lavoro a tempo determinato nel pubblico impiego. Nella specie, le pubbliche amministrazioni potevano costituire «rapporti di lavoro a tempo determinato, pieno o parziale, per qualifiche, categorie o profili professionali ascritti a qualifiche funzionali non superiori alla settima, di durata non superiore ad un anno, prorogabile per eccezionali esigenze a due anni». All’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 29/1993 veniva poi precisato il carattere di specialità del rapporto di lavoro nel pubblico impiego. La norma così recitava: «I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni delle sezioni II e III, capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, in quanto compatibili con la specialità del rapporto e con il perseguimento degli interessi generali nei termini definiti dal presente decreto».
La disciplina è stata, poi, modificata ad opera del d.lgs. n. 546/1993 che ha previsto, all’art. 36, comma 4, d.lgs. n. 29/1993, il divieto per le pubbliche amministrazioni di costituire rapporti di lavoro a tempo determinato di durata superiore a tre mesi. L’intervento de quo, inoltre, ha eliminato il riferimento alla
«specialità del rapporto», contenuto all’art. 2, comma 2, generando non pochi
dubbi circa la natura del rapporto di pubblico impiego rispetto a quello privato e, di conseguenza, circa l’applicabilità della generale disciplina privatistica allora vigente107.
Tali perplessità sono state, almeno in parte, superate nell’ambito della seconda fase del processo di privatizzazione, ad opera del d.lgs. n. 80/1998, laddove il legislatore con un’ulteriore inversione di tendenza, ha espressamente previsto, all’art. 36, comma 7, d.lgs. 29/1993, la possibilità per le pubbliche amministrazioni, nel rispetto delle disposizioni sul reclutamento del personale, di avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa.
Sebbene si possa già ampiamente avere l’idea del tormentato iter normativo esistente, è opportuno precisare che si è soltanto all’inizio del percorso di “trasformazione” dell’istituto de quo. Si pensi che la regolamentazione del contratto a termine introdotta dal d.lgs. n. 80/1998, integralmente recepita dall’art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001, è stata ulteriormente modificata dalla legge n. 80 del 2006, dalla legge n. 244 del 2007 (legge finanziaria 2008), dalla legge n. 133 del 2008 e, da ultimo, dalla legge n. 102 del 2009, conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1º luglio 2009,
n. 78. In primo luogo, la legge n. 80/2006 si caratterizza come punto di rottura del processo di equiparazione tra lavoro pubblico e privato per quanto concerne il contratto a termine, introducendo il comma 1-bis nell’ambito dell’art. 36 d.lgs.
n. 165/2001, che subordina la concreta possibilità per le amministrazioni di ricorrere alle forme di lavoro flessibile «solo per esigenze temporanee ed eccezionali» e con ciò creando un requisito diverso da quello di cui all’art. 1,
107 Sul punto, cfr. XXXXXXXXX A., Il contratto a termine nel settore pubblico tra novità legislative, primi riscontri giurisprudenziali e nuovi orizzonti, in Lav. pubb. amm., 2009, 1089 ss.; XXXXXXXX S., Piccolo requiem per la flessibilità del lavoro nelle pubbliche amministrazioni. A proposito della L. 9 marzo 2006, n. 80, in Lav. pubb. amm., 2006, I, 12 ss.; FRANCOMANO C., Le peculiarità del contratto a termine nel lavoro pubblico privatizzato, in Dir. lav., 2006, 4-6,
225 ss.; ZAPPALÀ L., «Specialità» dei rapporti di lavoro a termine nelle p.a. e diritto comunitario: l'inapplicabilità della sanzione della conversione al vaglio della Corte di Giustizia, in Lav. pubb. amm., 2004, 3-4, 703 ss.; XXXXXX P., I contratti "flessibili" della P.A. e l'inapplicabilità della sanzione "ordinaria della conversione: note critiche a margine della sentenza n. 89/2003 della Corte costituzionale, in Lav. pubb. amm., 2003, 3-4, 489 ss.; XXXXXXXX R., Contratto a termine e lavoro pubblico, in X. XXXXX (a cura di), Il nuovo lavoro a termine. Commentario al D.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, Milano, 2002, 267 ss.
d.lgs. n. 368/2001. In linea con tale tendenza restrittiva si inserisce la regolamentazione contenuta nell’art. 3, comma 79, della legge finanziaria per il 2008, la quale prevede che «le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e non possono avvalersi delle forme contrattuali di lavoro flessibile previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa se non per esigenze stagionali o per periodi non superiori a tre mesi, fatte salve le sostituzioni per maternità relativamente alle autonomie territoriali». In definitiva, vi è un ritorno alla previsione introdotta dall’art. 17, d.lgs. n. 546/1993. A completamento di un siffatto percorso normativo è intervenuta la legge 133/2008, la quale, se da una parte ripristina, nei tratti generali, il disegno tracciato in materia dall’art. 36 nella sua originaria formulazione, dall’altra introduce delle peculiarità che contribuiscono a mantenere distinta la disciplina dell’istituto rispetto alle regole vigenti nel settore privato. Sulla base della nuova disposizione, la possibilità per le pubbliche amministrazioni di ricorrere alle forme contrattuali flessibili è subordinata ad «esigenze temporanee ed eccezionali». Dietro l’apparente apertura nei confronti della flessibilità in entrata si nasconde, pertanto, la volontà di disincentivare forme contrattuali non standard, rappresentata dal limite stringente delle causali giustificative. All’interno di un quadro così delineato, il legislatore mantiene pressoché inalterata la disposizione, attualmente contenuta all’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165/2001, che prevede il divieto di conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato in conseguenza della violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori. In particolare, la norma lascia ferma «ogni responsabilità e sanzione» e sancisce il diritto del lavoratore ad ottenere il risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative, obbligando la pubblica amministrazione a recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave. A ciò si aggiunge un’ulteriore forma di responsabilità, introdotta dalla legge n. 133/2008, che investe direttamente il rapporto di lavoro del dirigente ed è assoggettata alla disciplina prevista dall’art. 21, d.lgs. 165/2001 e dall’art. 5, d.lgs. n. 286/1999 (quest’ultimo ora abrogato ad opera dell’art. 30, comma 4, d.lgs. n. 150/2009). Infine, la legge n. 102 del 2009 interviene in maniera incisiva sul contratto a
termine nel settore pubblico, inserendo, in luogo dei divieti e dei vincoli presenti nel precedente testo dell’art. 36, comma 3, d.lgs. n. 165/2001, come introdotto dalla legge n. 133/2008, l’obbligo di redigere, entro il 31 dicembre di ogni anno, un analitico rapporto informativo sulle tipologie di lavoro flessibile utilizzate, da trasmettere, entro il 31 gennaio di ciascun anno, ai nuclei di valutazione o ai servizi di controllo interno di cui al d.lgs. n. 286/1999, nonché alla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica, che redige una relazione annuale al Parlamento. La norma prevede, inoltre, il divieto di erogare la retribuzione di risultato al dirigente responsabile di irregolarità nell'utilizzo del lavoro flessibile. Tale disposizione pone evidenti problemi interpretativi, sia in riferimento alla sua ratio, anche nell’ottica di giustificare un eventuale arretramento (o annullamento) delle tutele nella gestione dei rapporti di lavoro flessibile, sia in merito al margine di intervento spettante ai nuclei di valutazione o ai servizi di controllo interno di cui al d.lgs. n. 286/1999. Inoltre, si rileva come la formulazione generica ed astratta della norma non permetta di individuare il limite della responsabilità dei dirigenti, generando l’effetto (distorto) di addebitare a questi ultimi anche le scelte provenienti dagli organi di governo, i quali, come è noto, approvando la pianificazione contabile e gestionale, incidono in maniera decisiva sull’operato dei dirigenti stessi. Tali problematiche, dunque, rendono la norma priva di qualsiasi efficacia applicativa ed offrono uno spunto di riflessione in merito alla necessità di effettuare un coordinamento effettivo tra la disciplina del contratto a termine nel settore pubblico e privato, al fine di evitare lacune normative ed inadeguati tentativi volti a delineare un sistema alternativo di tutela.
Da ultimo, pare opportuno rilevare come, nel settore pubblico, a differenza del settore privato, la contrattazione collettiva assuma un ruolo del tutto marginale, specie a seguito della nuova formulazione (post l. n. 133 del 2008) dell’art. 36, comma 4, d.lgs. n. 165, che fa espresso divieto alla stessa di introdurre norme derogatorie delle disposizioni contenute nei commi precedenti, impedendole quindi, in radice, di incidere in maniera significativa sulla disciplina della materia. I contratti collettivi potranno semmai limitarsi a contenere una casistica che esemplifichi e specifichi le esigenze stagionali e le
esigenze lavorative temporanee. Tuttavia, tale casistica potrà avere valore meramente indicativo e ai fini di un eventuale sindacato giudiziale108.
La mancanza di un decisivo supporto di matrice contrattuale ha inevitabilmente indotto ad enfatizzare il ruolo delle linee di indirizzo fornite in materia dalle circolari e direttive ministeriali. In tal senso, ci si riferisce alla direttiva n. 7 del 30 aprile 2007, riguardante l’applicazione dei commi 519, 520,
529 e 940 dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007) in materia di stabilizzazione e proroga dei contratti a tempo determinato, nonché di riserve in favore dei soggetti con incarichi di collaborazione; alla circolare n. 3 del 19 marzo 2008, relativa alle linee di indirizzo in merito alla stipula di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato nelle pubbliche amministrazione in attuazione delle modifiche apportate all’art. 36 del d.lgs. n.
165 del 2001 dall’art. 3, comma 79, della legge n. 244 del 2007 (legge finanziaria 2008); alla direttiva n. 2 del 25 febbraio 2010 per il monitoraggio del lavoro flessibile ai sensi dell’art. 36, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001.
108 XXXXXXXXXX G., Problematiche applicative del contratto a tempo determinato nel lavoro pubblico, in XXXXXXX G. (a cura di), Il contratto a tempo determinato. Aggiornato al d.l. n. 112/2008 conv. in legge n. 133/2008, Torino, 2008, 97.
CAPITOLO II
Problematiche applicative e dubbi interpretativi. Il dialogo tra le Corti
1. Il contratto a tempo determinato come «eccezione» alla «regola»? – 1.1. Onere di specificazione delle ragioni giustificatrici e sindacato giudiziario – 1.2. Segue: ragioni sostitutive ed incompiuto dialogo tra le Corti – 1.3. Il regime sanzionatorio per il contratto a termine
«ingiustificato» - 1.4. Tempistiche di attuazione e conseguenze risarcitorie del termine illegittimamente apposto al contratto. La legge 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. Collegato lavoro)
– 2. La prevenzione degli abusi nella giurisprudenza comunitaria – 3. Una peculiare forma di “abuso della giurisprudenza”: il contenzioso Poste Italiane – 4. L’interpretazione della giurisprudenza costituzionale e comunitaria in ordine al divieto di conversione del contratto a tempo determinato nel lavoro pubblico – 4.1. Il ruolo dei giudici nazionali nella determinazione delle misure sanzionatorie alternative per una tutela risarcitoria effettiva, adeguata e dissuasiva –
4.2. Segue: la speciale casistica dei c.d. precari della scuola.
1. Il contratto a tempo determinato come «eccezione» alla
«regola»?
All’indomani dell’entrata in vigore del d.lgs. 368/2001 si è sollevato, in dottrina e in giurisprudenza, un acceso dibattito circa la natura (temporanea o non) del contratto a tempo determinato. Nella specie, il problema si è posto in considerazione della scomparsa, all’interno del nuovo testo normativo, del principio prima contenuto al comma 1, dell’art. 1, legge n. 230/1962, per cui «il contratto si reputa a tempo indeterminato», ora sostituito da una causale generale che consente «l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo». A tale formula si è poi aggiunto, con legge n. 133/2008, l’inciso «anche se riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro».
In dottrina, in particolare, si sono contrapposti due orientamenti. Una prima lettura, rimasta minoritaria, ha individuato nel contratto a termine una
«alternativa» al contratto a tempo indeterminato109, ritenendo che lo stesso possa
109 VALLEBONA A - PISANI C., Il nuovo lavoro a termine, Padova, 2001, 25 ss.; ROCCELLA M., Prime osservazioni sullo schema di decreto legislativo sul lavoro a termine, in xxxx://xxx.xxxx.xx/xxxxxxxxx/xxxxxxxxx.xxx, 2001; XXXXXXXXX L., Ancora nuove regole per il lavoro a termine, in Arg. dir. lav., 2002, I, 41 ss.; XXXXX M., La nuova disciplina del lavoro a termine: prima (controversa) tappa del processo di modernizzazione del mercato del lavoro italiano, in BIAGI M. (a cura di), Il nuovo lavoro a termine. Commentario al D.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, Milano, 2002, 3 ss.; XXXXXXXXXXX S., Commento sub art. 1, in XXXXXXX XXXXXXXXXX G. (a cura di), Attuazione della direttiva n. 70/99/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES, in Nuove leggi civili comm., 2002, 39; ZAPPALÀ L., Riforma del contratto a termine e obblighi comunitari: come si attua una direttiva travisandola, in Dir. merc. lav., 2001, 633.
essere stipulato non soltanto in presenza dell’oggettiva temporaneità dell’occasione di lavoro, ma in tutti i casi in cui «sussista una ragione oggettiva non arbitraria o illecita che renda in concreto preferibile un rapporto a termine»110. Tale tesi ha fondato le proprie argomentazioni, in primo luogo, sulla direttiva comunitaria, rilevando come la stessa lasci piena libertà di stipulazione del primo contratto a temine, intendendo solo prevenire eventuali abusi derivanti da una successione di contratti a tempo determinato. In secondo luogo, si è osservato come l’eccezionalità del lavoro a termine debba ritenersi scomparsa già con legge n. 56 del 1987, con la quale veniva superata la tassatività della tipizzazione legale, lasciando ampio spazio ad oggettive esigenze aziendali di ricoprire con contratti a termine anche occasioni permanenti di lavoro, nel rispetto dei limiti quantitativi previsti dalla contrattazione collettiva. Ancora, si è rilevato come, di fatto, il legislatore abbia inteso eliminare la dizione per cui il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, mentre, d’altra parte, quando ha voluto riconoscere il lavoro a termine solo per la copertura di occasioni lavorative temporanee lo ha espressamente indicato (come è avvenuto per la disciplina del lavoro interinale, art. 1, comma 1, legge 196/1977). Si è altresì affermato che una causale così generica non può permettere di «cogliere in alcun modo in che cosa consiste la differenza rispetto alle ragioni (ovviamente anch’esse di carattere tecnico, produttivo od organizzativo) che possono indurre un datore di lavoro ad assumere a tempo indeterminato»111.
Secondo l’opposto orientamento112, la causale introdotta dalla legge implica che il contratto a termine deve, in ogni caso, essere fondato su esigenze temporanee. Anche a sostegno di tale interpretazione sono state avanzate diverse
110 VALLEBONA A e PISANI C., op. cit., 25.
111 ROCCELLA M., op cit., 2.
112 Nel prosieguo verranno riportate le argomentazioni principali a sostegno della teoria della temporaneità delle ragioni giustificatrici. Per un approfondimento sul tema, cfr. SPEZIALE V., La nuova legge sul lavoro a termine, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2001, III, 361 ss.; XXXXXXXXX X., Contratto a termine e cause di giustificazione, in GARILLI A. – NAPOLI M. (a cura di), Il lavoro a termine in Italia e in Europa, Torino, 2003, 45 ss.; XXXXXXXX L. (a cura di), La nuova disciplina del lavoro a termine, Milano, 2002, 30 ss.; PAPALEONI M., Le linee fondamentali della nuova disciplina del rapporto di lavoro a tempo determinato, in Arg. dir. lav., 2002, 664 ss; XXXX G., Sulla nuova disciplina del contratto a termine e sul regime sanzionatorio del licenziamento del licenziamento ingiustificato, in Riv. it. dir. lav., 2002, I, 18 ss; XXXXX G., Xxxxx note sulle ragioni che consentono l’apposizione del termine al contratto, in Arg. dir. lav., 2002, 191 ss.;
argomentazioni. La prima fa riferimento alla direttiva comunitaria 1999/70/CE, dove si legge chiaramente che i contratti a tempo indeterminato «sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro ed i lavoratori» e che essi «contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorarne il rendimento». Secondo la fonte europea si evincerebbe, in altri termini, che il rapporto a tempo indeterminato è la
«normalità» e che il termine costituisce una «deroga». Da tale rapporto regola/deroga non deve necessariamente derivare che il contratto a tempo determinato è una «eccezione», non essendo una simile conclusione rinvenibile da nessuna disposizione della direttiva113. Una seconda argomentazione a sostegno della tesi della temporaneità delle ragioni giustificatrici è fornita sulla base di un’interpretazione sistematica del d.lgs. n. 368/2001, in coerenza con i principi della direttiva e tenuto conto dell’intenzione del legislatore. In sostanza, sebbene la norma nazionale non indichi espressamente il principio de quo, dovrà comunque ritenersi il primato comunitario in tema di contenuti ed interpretazione. D’altro canto, quando il legislatore ha voluto affidare ai contraenti la libertà di scegliere se stipulare un rapporto a tempo indeterminato o a termine lo ha fatto con formulazioni diverse e senza prevedere una causale di tipo oggettivo (si pensi al caso della locazione, della somministrazione di cose ovvero al contratto di agenzia). Inoltre, si è osservato come le ragioni giustificatrici non possano essere le stesse del contratto a tempo indeterminato. Quest’ultimo, infatti, risponde ad esigenze di stabilità dell’occupazione, di conseguenza, «le ragioni economiche che giustificano la deroga (e cioè il termine) devono essere ricondotte alla categoria della temporaneità»114.
Le argomentazioni da ultimo riportate si pongono in linea con l’orientamento assunto in giurisprudenza, laddove è stato espressamente riconosciuto che «anche dopo l'entrata in vigore del d.lgs. 6 settembre 2001 n. 368, l'apposizione del termine al rapporto di lavoro subordinato costituisce deroga al principio generale secondo cui detto rapporto, per sua natura, è a tempo indeterminato»115. Tale principio, peraltro, troverebbe altresì conferma in
113 SPEZIALE V., op. cit., 378.
114 Ivi, 379.
115 Cass. 21 maggio 2002, n. 7468, in Riv. crit. dir. lav, 2002, 609, con nota di CHIUSOLO S., La riforma del contratto di lavoro a termine.
almeno due pronunce della Corte di Giustizia europea (Mangold116 e Adeneler117), nella parte in cui si afferma che «il beneficio della stabilità dell'impiego è inteso come un elemento portante della tutela dei lavoratori» (Xxxxxxxx, punto 62 e Xxxxxxx punto 64) e si fa riferimento ad un’impossibilità di utilizzare la reiterazione dei contratti per soddisfare «fabbisogni non limitati nel tempo, ma al contrario “permanenti e durevoli”» (Xxxxxxxx, punto 88).
Una parte della giurisprudenza, soprattutto di merito, ha poi argomentato il rapporto tra contratto a tempo indeterminato e contratto a tempo determinato in termini di regola-eccezione. Si è così affermato che: «Il d.lg. 368/2001, pur ampliando la sfera di utilizzabilità del contratto a termine, non ha reso semplicemente facoltativa la scelta di apporre un termine al contratto di lavoro, poiché il contratto a tempo indeterminato costituisce la regola, mentre il contratto a termine l' eccezione. Occorre, pertanto, che il datore di lavoro indichi e provi nell'eventuale successivo giudizio, quale sia la specifica esigenza aziendale che ha giustificato l'apposizione del termine al contratto di lavoro»118. In tal senso, si è altresì chiarito che il d.lgs. n. 368/2001 introduce una riforma
«nel segno di una minore rigidità (ma non certo di liberalizzazione)119». In ogni caso, si dovrà rilevare come non sia neppure mancato, in giurisprudenza, un orientamento diametralmente opposto, che ha ammesso il ricorso al contratto a tempo determinato anche in presenza di occasioni permanenti di lavoro120.
La tesi della temporaneità sembrerebbe trovare conferma nella legge n. 247/2007, laddove ha introdotto, all’interno dell’art. 1, d.lgs. n. 368/2001, il comma 01, per cui «il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato»121. Secondo una parte della dottrina, invero, lo scopo di tale modifica non è tanto quello di riaffermare il rapporto regola-deroga, quanto, piuttosto, di riconoscere che il contratto a tempo indeterminato è «la tipologia
116 Xxxxx xx Xxxxxxxxx, Xxxxxx Xxxxxxx, 00 novembre 2005, C-144/04, Xxxxxxx.
117 Corte di Giustizia, Grande Sezione, 4 luglio 2006, C-212/04, Xxxxxxxx e altri.
118 Trib. Bologna, 7 febbraio 2006, n. 4, in Guida dir., 2006, 36, 63. In senso conforme, cfr. Cass. 10 gennaio 2006, n. 167, in Giust. civ. mass., 2006, 1; Cass. 6 dicembre 2005, n. 26679, in Xxx. xxxx. xxx., 0000, 0, XX, 000; Cass. 6 dicembre 2005, n. 26678, in Giust. civ. mass., 2005, 10; Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxx, 00 dicembre 2004, in Lav. giur., 2005, 695; Trib. Firenze, 5 febbraio 2004, in Riv. crit. dir. lav., 2004, 325.
119 Cass. 27 ottobre 2005, n. 20858, in Giust. civ. mass., 2005, 9.
120 Trib. Roma, 12 gennaio 2005, in Riv. crit. dir. lav., 2006, 707.
121 Cfr. SPEZIALE V., La riforma del contratto a termine dopo la legge n. 247/2007, in Riv. it. dir. lav., 2008, I, 181 ss.
contrattuale adottata di regola nella stipulazione del contratto di lavoro»122. In tal senso, «le assunzioni dei lavoratori avvengono di regola a tempo indeterminato, mentre le altre, cioè quelle a termine, dovranno essere effettuate nei limiti legali posti dalla speciale regolamentazione contenuta nel d.lgs. n. 368/2001»123.
D’altra parte, si è altresì rilevato come la formula utilizzata dal legislatore non corrisponda a quella indicata nella direttiva comunitaria124, che definisce i contratti a tempo indeterminato come la «forma comune» dei rapporti di lavoro. La normativa nazionale, in sostanza, esprimerebbe un’idea ben diversa da quella della direttiva: la prima indurrebbe a ritenere che il rapporto tra contratto a tempo indeterminato e contratto a tempo determinato debba intendersi in termini di regola-eccezione, la seconda, invero, avrebbe piuttosto l’intento di istituire una relazione tra ordinarietà del contratto a tempo determinato e specialità di quello a termine.
Si è tuttavia osservato125 come il riferimento alla «specialità» del rapporto a tempo determinato sia venuto meno già nell’impianto della legge n. 230/1962126, che lo sostituiva con il carattere della «eccezionalità», per cui l’apposizione di un termine alla durata del rapporto era consentita solo nei casi ivi tassativamente ammessi. D’altro canto, dall’assenza di uno specifico riferimento all’eccezionalità del termine all’interno del d.lgs. n. 368/2001 non può automaticamente desumersi un ritorno alla specialità del rapporto. Così, il comma 01 dell’art. 1, d.lgs. n. 368/2001, avrebbe semplicemente lo scopo di affermare la «normalità» dell’assunzione a tempo indeterminato e il rapporto tra le due tipologie contrattuali (quella standard e quella non standard) andrebbe inteso in termini di regola-eccezione. In ogni caso, da ciò non deve necessariamente desumersi l’esigenza temporanea delle ragioni legittimanti l’apposizione del termine, dovendosi intendere, per temporaneità del rapporto,
122 XXXXXXX A., Apposizione del termine, successione di contratti a tempo determinato e nuovi limiti legali: primi problemi applicativi dell’art. 5, commi 4-bis e ter, D.Lgs. N. 368/2001, in Riv. it. dir. lav., 2008, I, 287 ss.
123 Ibidem.
124 XXXXXXX G., Il contratto a tempo determinato rivisitato, in Arg. dir. lav., 2008, III, 649 ss.
125 CIUCCIOVINO S., Il sistema normativo del lavoro temporaneo, Torino, 2008, 91 ss.
126 Per alcune osservazioni sul carattere di «specialità» della disciplina del contratto a termine, cfr. XXXXXXXXXX A., Il contratto di lavoro a tempo determinato, Milano, 1970, 143.
«l’effetto della clausola del termine pattuita dalle parti e non il presupposto per la sua validità»127.
Secondo un’ulteriore interpretazione, la disposizione de qua non inciderebbe minimamente sull’individuazione delle ragioni che consentono l’apposizione del termine, limitandosi, semplicemente, a prendere atto di «un dato social-tipo»128.
1.1. Onere di specificazione delle ragioni giustificatrici e sindacato giudiziario
Come si è visto, il d.lgs. 368 del 2001 ha introdotto all’art. 1, comma 1, in luogo della tassativa elencazione dei casi di legittima apposizione del termine, una causale di portata generale129, che valorizza il potere dell’autonomia individuale in ordine alla possibilità di adattare la norma, generale ed astratta, alla specifica realtà aziendale. La tecnica utilizzata (id est, quella della norma aperta) non deve tuttavia essere considerata quale volontà di liberalizzare la tipologia contrattuale in oggetto. Ad evitare qualsivoglia imbarazzo in tal senso, il legislatore ha infatti precisato, al comma 2, che «L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1». Tale disposizione ha l’evidente scopo di ridimensionare la portata del precedente comma 1, così evitando che la nuova disciplina comporti un mutamento sostanziale rispetto a quella precedente. Semplicemente, ora, il momento del controllo viene effettuato sulla base della precisa indicazione fornita dal datore di lavoro all’atto di stipulazione del contratto individuale, mentre in passato tale individuazione veniva fornita ex ante, in maniera sì dettagliata, ma non sempre facilmente adattabile alle singole realtà aziendali.
La nuova disposizione, in altri termini, prevede che alla maggiore flessibilità e libertà nell’individuazione delle ragioni legittimanti si affianchi un
127CIUCCIOVINO X., op. cit., 102.
128 XXXXX G., Il contratto a tempo determinato: le modifiche del 2008, in Working Paper Adapt, 2009.
129 Per un approfondimento sulla portata delle clausole generali, cfr. XXXXXXX A., Intervento, in AA. VV., Interessi e tecniche nella disciplina del lavoro flessibile, Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro, Pesaro – Urbino, 24 e 25 maggio 2002, Milano, 2002.
«onere formale di esplicitare, chiarire, spiegare»130, un onere che in precedenza era previsto unicamente per la sostituzione di lavoratori assenti131.
La specificità, in tal senso, avrebbe tre finalità strettamente connesse tra di loro: «assicurare al lavoratore la cognizione della motivazione per la quale è assunto, cristallizzare la causale rendendola immodificabile, permettere il controllo giudiziale sulle condizioni giustificatrici del termine»132.
In ogni caso, si dovrà rilevare come, in riferimento al concetto di
«specificità» la giurisprudenza abbia sempre mostrato un orientamento rigoroso, confermato dalla recente sentenza della Corte Costituzionale, n. 214/2009133, nella parte in cui ha precisato che la specifica finalità dell’art. 1, comma 2, d.lgs.
n. 368/2001 è quella di «assicurare la trasparenza e la veridicità della causa dell’apposizione del termine e l’immodificabilità della stessa nel corso del rapporto». Di guisa che, sul datore di lavoro incombe l’onere di indicare per iscritto ed in modo puntuale le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme la prestazione a tempo determinato alle esigenze aziendali, «sì da rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e la utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell'ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa». Tale onere, per essere funzionale ed assicurare la trasparenza e veridicità dell’opzione contrattuale, «non può risolversi in formule pleonastiche o puramente ripetitive degli enunciati legali e contrattuali»134. Le ragioni giustificatrici, quindi, dovranno essere «di univoca ed immediata percezione, e ciò allo scopo di consentire al lavoratore e, quindi, al giudice, di valutare l'effettività della causale allegata per evitare che la
130 NANNIPIERI L., La riforma del lavoro a termine: una prima analisi giurisprudenziale, in Riv. it. dir. lav., 2006, 3, 327 ss.; DE ANGELIS L., Su aspetti formali del contratto a termine, in Arg. dir. lav., 0000, 000 xx.
000 Xx xxxxxxxxxxxxxx xxxxxxxx infatti che al di fuori di tale previsione non sussistesse un onere generale, per il datore di lavoro, di specificare e richiamare, nel contratto individuale, l’ipotesi di specifica apposizione del termine. Cfr., ex plurimis, Cass. 10 marzo 1982, n. 1556, in Giust. civ. mass., 1982, III; Cass., 8 luglio 1995, n. 7507, in Giust. civ. mass., 1995, 1342.
132 DE ANGELIS L., op. cit., 767.
133 Xxxxx Xxxx., 00 luglio 2009, n. 214, in Dir. rel. ind., 2010, III, 737. Cfr. altresì, CORAZZA L., Note a Corte Costituzionale, sentenza 14 luglio 2009, n. 214, in Lav. prev. oggi, I, 2010, 80 ss. 134 Da ultimo, cfr. Cass. 11 maggio 2011, n. 10346, in Dir. & Xxxxx., 2011; Cass. 27 aprile 2010,
n. 10033, in Giust. civ. mass, 2010, IV, 616.
clausola del termine sia utilizzata in frode alla legge anche laddove non ricorrano reali esigenze aziendali»135.
D’altro canto, si è osservato136 che un’interpretazione del termine "specificate" tale da non consentire nella piena trasparenza quel controllo di effettività, assicurato, seppure in maniera diversa, dalla disciplina previgente, risulterebbe in contrasto con la clausola 8 n. 3 dell'accordo quadro recepito dalla direttiva, in quanto rappresenterebbe un ingiustificato arretramento in rapporto al precedente livello generale di tutela applicabile nello Stato italiano e finirebbe altresì per configurare un eccesso di delega da parte del Governo rispetto a quanto stabilito dalla legge n. 422/2000, che a questo attribuiva unicamente il potere di attuare la direttiva 1999/70/CE, con la possibilità di apportare soltanto modifiche o integrazioni necessarie ad evitare disarmonie tra le norme introdotte e quelle già vigenti.
La giurisprudenza di merito, tuttavia, si è orientata in maniera non sempre uniforme nella valutazione della sussistenza di tale requisito. Ad esempio, si è ritenuta generica una clausola del tipo «commissioni di lavoro straordinario»137, mentre si è reputata valida la clausola «accrescimento numero di servizi temporanei dovuti ai ben conosciuti accadimenti internazionali»138 (nel caso di una società di sorveglianza a impianti petroliferi, nel periodo immediatamente successivo all’11 settembre 2001). In un’altra circostanza, il giudice ha ritenuto che la sola indicazione nel contratto a termine dell'esistenza di una commessa temporanea non fosse sufficiente a chiarire il motivo produttivo per cui il datore di lavoro potesse legittimamente derogare alla regola del contratto a tempo indeterminato, non avendo riferito nulla in rapporto a organici esistenti e a eventuali necessità sopravvenute139. Ed ancora, si è ritenuta illegittima l’apposizione del termine nel caso di una motivazione che «oltre ad essere stereotipata e ripetitiva, faceva riferimento ad una pluralità di ragioni alternative»140. Si è altresì ritenuta generica la motivazione che faceva riferimento ad una «maggiore richiesta di servizi» e a necessità collegate al
135 Trib. Milano, 21 novembre 2006, in Orient. giur. lav., 2007, I, 107.
136 Cfr., da ultimo, Xxxxx Xxx. Xxxxxxx, 00 maggio 2011, n. 231, in Redaz. Giuffè, 2011.
137 Trib. Firenze, 10 febbraio 2005.
138 Trib. Pavia, 12 aprile 2004.
139 Trib. Milano, 20 luglio 2009, in Riv. crit. dir. lav., 2009, III, 687.
140 Trib. Milano, 31 ottobre 2003, in Riv. crit. dir. lav., 2003, 936.
«periodo feriale», «senza indicare quali servizi sarebbero stati acquisiti, in relazione ai quali non sarebbe stato sufficiente il personale già in forza»141.
In ogni caso, si dovrà tener presente il recente orientamento che ha ammesso la possibilità di desumere per relationem il requisito di specificità delle ragioni giustificative142. Nella specie, la giurisprudenza di legittimità, dopo aver ribadito che l’onere di specificazione si concretizza in un’indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti essenziali, sia quanto al contenuto, che con riguardo alla sua portata spazio-temporale e più in generale circostanziale, ha precisato che tale specificazione possa risultare anche indirettamente nel contratto di lavoro e da esso “per relationem” ad altri testi scritti accessibili alle parti, assumendo, in tal senso, rilevanza gli accordi collettivi richiamati dallo stesso contratto individuale.
Il requisito di necessaria specificazione delle ragioni giustificanti l’apposizione del termine è da intendersi, inoltre, senz’altro esteso all’inciso
«anche se riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro», introdotto dalla legge n. 133/2008. Tale formula, andrebbe interpretata nel senso di ritenere che
«le causali, pur avendo natura temporanea, non necessariamente devono essere anche imprevedibili, straordinarie, saltuarie, non ripetibili o occasionali»143. La modifica, dunque, non incide sui requisiti del legittimo ricorso all’istituto, semmai amplia l’ambito di utilizzabilità di tale tipologia flessibile, ammettendola, ora espressamente, anche in presenza di ragioni connesse all’ordinaria attività dell’impresa144.
Qualche problema è stato sollevato in ordine alla sindacabilità giudiziale dei motivi enunciati. Da un lato, vi è chi ha sostenuto che il giudice possa decidere, caso per caso, quali siano le ragioni di carattere tecnico-organizzativo che giustifichino una valida apposizione del termine145, dall’altro, una diversa
141 Trib. Milano, 25 novembre 2004, in Riv. crit. dir. lav., 2005, 152.
142 x. Xxxx. 11 maggio 2011, n. 10346, cit.; Xxxxx Xxx. Xxxxxxx, 00 maggio 2011, n. 21, cit.; Cass. 27 aprile 2010, n. 10033, cit ; Cass. 1 febbraio 2010, n. 2279, in Guida dir., 2010, X, 81.
143 NICOLOSI M., L’apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato: la natura temporanea delle causali dopo la legge n. 133/2008, in BELLAVISTA X. - XXXXXXX A. - XXXXXXXXX X. (a cura di), Il lavoro a termine dopo la legge 6 agosto 2008, n. 133. Privato e pubblico a confronto, Torino, 2009, 21.
144 In tal senso, cfr. XXXXXX X., Il lavoro a termine nell'evoluzione dell'ordinamento, Milano, 2010, 254.
145 DE XXXXXXX X., Il nuovo contratto a termine: considerazioni sul regime sanzionatorio, in
Foro it., 2002, V, 36 ss.; SPEZIALE V., La nuova legge, cit.
dottrina146 ha ritenuto che l’intervento giudiziale dovrebbe essere circoscritto alla verifica della sussistenza e permanenza della ragione giustificativa del termine scelta insindacabilmente dal datore di lavoro, limitando il potere del giudice ad un controllo sulla legittimità (e non sul merito) di tale scelta.
La soluzione intermedia sembra essere proposta da chi ha ritenuto che «il sindacato giudiziale non si spinge a valutare la scelta tecnico-organizzativa, ma si orienta a controllare con particolare rigore la circostanziata specificazione della ragione stessa nel contratto, nonché (…) la sussistenza di un concreto nesso causale tra la ragione indicata e la singola assunzione a termine»147. In tal senso, il sindacato di merito sarebbe ritenuto ammissibile, ma limitato al nesso causale, ossia ad una valutazione circa la strumentalità tra la scelta datoriale, di per sé insindacabile, e l’apposizione del termine al contratto, senza estendersi sul piano della convenienza ed opportunità dell’assunzione.
All’interno di tale querelle va collocato il recente intervento normativo di cui all’art. 30, comma 1, legge n. 183/2010 (c.d. Collegato lavoro) che così stabilisce: «In tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile e all'articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente».
Rispetto a tale disposizione si è osservato come il richiamo alle clausole generali risulti «non solo improprio ma altresì ultroneo»148. Se l’intento era quello di riaffermare il principio dell’insindacabilità delle scelte datoriali, spesso disatteso dai giudici del lavoro, il legislatore avrebbe ben potuto utilizzare una formula più chiara o, comunque, far riferimento a concetti più appropriati, quali
146 PAPALEONI M., Forma e contenuto del nuovo contratto a termine, in Mass. giur. lav., 2001, 1077; 146 VALLEBONA A e PISANI C., op. cit., 34.
147 CIUCCIOVINO S., Il sistema normativo, cit., 109.
148 XXXXXXX G, Il controllo giudiziale sui poteri imprenditoriali, in CINELLI M. - XXXXXXX X. (a cura di), Il contenzioso del lavoro nella legge 4 novembre 2010, n. 183 (Collegato lavoro), Torino, 2011, 3 ss.
“disposizioni elastiche” o “norme a contenuto generale”. L’interpretazione delle clausole generali, infatti, implica necessariamente una valutazione di merito circa «l’ammissibilità, correttezza, congruità, proporzionalità e razionalità delle variabili scelte di esercizio dei poteri imprenditoriali»149. La clausola generale, in altri termini, necessita di essere riempita di contenuto a seconda del caso specifico. Tale compito non può che essere riservato al giudice di merito (il quale con immediatezza si trova di fronte al caso concreto da risolvere)150, che lo attua sulla base di modelli di condotta o standard valutativi recepibili nell’ambiente sociale151.
1.2. Segue: ragioni sostitutive ed incompiuto dialogo tra le Corti
In riferimento al requisito di «specificità» della causale, particolarmente interessante è la casistica incentrata sull’interpretazione delle ragioni di carattere sostitutivo. La giurisprudenza formatasi al riguardo risulta assai emblematica delle difficoltà, cui sovente incombe chi è chiamato a giudicare la materia, di individuare un’interpretazione uniforme e condivisa. In sostanza, si assiste a querelle giurisprudenziali sempre più accese, in cui i giudici sembrano disinteressarsi delle posizioni precedentemente assunte rispetto ad una stessa identica situazione, discostandosi, all’occorrenza, anche dall’orientamento della stessa Corte Costituzionale. Nella specie, tali considerazioni trovano riscontro nella pronuncia della Corte Costituzionale n. 214 del 2009 e nella successiva (difforme) giurisprudenza, di legittimità e di merito, formatasi sull’argomento.
La Corte, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, primo comma, ed 11 del d.lgs. 368/2001 sollevata, in riferimento agli artt. 76, 77 e 117, primo comma, Cost., dal Tribunale di Roma con ordinanza del 26 settembre 2008152 e dal Tribunale di Trani con ordinanza del 21 aprile 2008153, ha precisando che entrambi i rimettenti avevano omesso di considerare adeguatamente la disposizione contenuta al comma 2 dell’art. 1 d.lgs. n. 368/2001, secondo cui «l’apposizione del termine è priva di effetto se
149 Ivi, 8.
150 Cfr. XXXXXXXX P., Appunti sulle clausole generali, in Riv. dir. comm., 1998, I, 5.
151 MENGONI L., I principi generali del diritto e la scienza giuridica, in Dir. lav., 2002, I, 3 ss.
152 Trib. Roma, 26 settembre 2008, in Dir. relaz. ind., 2009, II, 393.
153 Trib. Trani, 21 aprile 2008, in Riv. it. dir. lav., 2008, 1, II, 55.
non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1». L’onere di specificazione previsto da quest’ultima impone, infatti, che tutte le volte in cui l’assunzione a tempo determinato avvenga per soddisfare ragioni di carattere sostitutivo, risulti per iscritto anche il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione. Pertanto, non avendo gli impugnati articoli innovato sotto questo profilo rispetto alla disciplina contenuta nella legge n. 230 del 1962, non sussiste alcuna violazione in riferimento all’art. 77 Cost. In tal senso, non sussiste una diminuzione di tutele rispetto al precedente regime, pertanto, non è neppure ravvisabile il contrasto con la clausola n. 8.3 dell’accordo-quadro recepito dalla direttiva 1999/70/CE. In definitiva, secondo il giudizio espresso dalla Corte, l’onere di specificazione può essere perfezionato soltanto con l’indicazione del nominativo del sostituito, oltre che con la causale della sua assenza apposta al contratto.
La giurisprudenza formatasi successivamente sembra tuttavia prescindere da tale soluzione. Si fa riferimento, in primo luogo, alle due sentenze gemelle del 26 gennaio 2010, nn. 1576 e 1577154. Secondo la Cassazione, infatti, il principio di specificazione delle ragioni sostitutive va comunque inserito nella realtà concreta delle fattispecie aziendali (non più standardizzate ma obiettive) e dovrà essere valutato dal giudice secondo criteri di congruità e ragionevolezza. Più specificamente, si dovrà distinguere tra situazioni aziendali elementari e situazioni aziendali complesse: nel primo caso l’onere di specificazione dovrà essere assolto con l’indicazione del nominativo del lavoratore, configurandosi il contratto a termine come strumento idoneo a consentire la sostituzione di un singolo lavoratore addetto ad una mansione specifica e ben determinata; nel secondo caso, invece, il contratto a termine si configura come strumento di inserimento del lavoratore all’interno di un processo in cui la sostituzione si riferisce non ad una singola persona ma ad una funzione produttiva specifica che sia occasionalmente scoperta. In quest’ultimo caso, quindi, il requisito della specificità potrà ritenersi soddisfatto non solo con l’indicazione nominativa del lavoratore o dei lavoratori sostituiti, ma anche con la verifica della corrispondenza quantitativa tra il numero dei lavoratori assunti con contratto a
154 Cass. 26 gennaio 0000, x. 0000, xx Xxx. xxx. xxx., 0000, XX, 000; Cass. 26 gennaio 2010, n. 1577, in Foro it., 2010, 4, I, 1169.
termine per lo svolgimento di una data funzione aziendale e le scoperture che per quella stessa funzione si sono realizzate per il periodo dell’assunzione, relativamente ad un dato ambito territoriale e/o produttivo.
A prima vista, sembrerebbe evidente la volontà di discostarsi dall’interpretazione assunta dalla Corte Costituzionale. Eppure la Cassazione utilizza uno stratagemma per occultare (o quanto meno attenuare) tale difformità. In sostanza, si giustifica, dichiarando, non solo di aver ben presente la sentenza n. 214 del 2009, bensì (addirittura) di rendere una pronuncia perfettamente in linea con essa, limitandosi ad esaminare una casistica differente cui la Corte Costituzionale non aveva fatto riferimento, quella, appunto, delle strutture aziendali complesse. Solo in quest’ultimo caso, infatti, l’onere di specificazione potrà essere assolto, specifica la Corte, con l’indicazione di elementi ulteriori (quali l’ambito territoriale di riferimento, il luogo della prestazione, le mansioni dei lavoratori da sostituire, il diritto degli stessi alla conservazione del posto) che consentano di determinare il numero dei lavoratori da sostituire, ancorché non identificati nominativamente, ferma restando, in ogni caso, la verificabilità circa la sussistenza effettiva del presupposto di legittimità prospettato.
Tuttavia, anche nell’ambito della giurisprudenza di merito si rinvengono già da subito interpretazioni diverse della sentenza in oggetto: vi è stato, infatti, chi ha condiviso pienamente quanto affermato dal giudice costituzionale (Tribunale di Foggia, 20 luglio 2009, n. 4708) e chi, al contrario, se ne è apertamente discostato, ritenendo espressamente non condivisibile l’argomentazione contenuta nella sentenza della Corte Costituzionale, in quanto
«requisito di validità è quello formale connesso alla specificazione della causale (…) non potendo ritenersi requisito di validità l’omessa indicazione del nominativo del lavoratore e della ragione della causa dell’assenza. Ciò che rileva è l’esistenza della necessità del datore di lavoro di sostituire dipendenti» (Tribunale di Roma, 20 settembre 2009, n. 13455).
All’appello non poteva certamente mancare la Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX000, chiamata a pronunciarsi in ordine al seguente caso: una lavoratrice si è rivolta al Tribunale di Trani, contro Poste Italiane spa, chiedendo la dichiarazione di
155 Corte di Giustizia CE, IV Sezione, 24 giugno 2010, C-98/09, Sorge.
illiceità della clausola di durata determinata inserita nel contratto, in quanto non erano stati indicati il nominativo del lavoratore sostituito e la causa della sostituzione. Il Tribunale ha sospeso il procedimento ed ha proposto alla Corte di Giustizia CE una questione pregiudiziale relativa all’interpretazione della “clausola di non regresso”. La Corte, dopo aver preso visione ed analizzato le sentenze della Cassazione nn. 1576/2010 e 1577/2010, ha dichiarato conforme al diritto comunitario la modifica legislativa intervenuta ad opera del d.lgs. n. 368 del 2001. È quindi legittimo un contratto a tempo determinato stipulato per ragioni sostitutive che non contenga il nominativo del lavoratore da sostituire, purché le “nuove” condizioni siano compensate dall’adozione di altre garanzie o misure di tutela oppure riguardino unicamente una categoria circoscritta di lavoratori con contratto a tempo determinato, circostanza che spetta al giudice di rinvio verificare.
Da ultimo, si ritiene interessante dar conto di una recentissima pronuncia della Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX000, che ha affermato la legittimità dell'utilizzo di contratti di lavoro a tempo determinato per esigenze sostitutive anche se risultano ricorrenti o addirittura permanenti. La Corte, dopo aver precisato che la sostituzione temporanea di un dipendente rientra tra le ragioni obiettive contemplate dalla clausola 5, punto 1, lett. a), dell’accordo quadro sul contratto a tempo determinato, ha affermato il seguente principio: «L’esistenza di un’esigenza permanente di una certa portata di personale sostitutivo non può escludere la validità della conclusione di un contratto a tempo determinato (…). Infatti, occorrerebbe verificare la ragione obiettiva addotta in ogni singolo caso concreto di sostituzione e non escludere i casi di sostituzioni permanenti, frequenti e ripetute. Se la validità di uno specifico contratto di lavoro a tempo determinato dovesse dipendere da questo, il datore di lavoro sarebbe costretto a costituire una riserva permanente di personale. Ciò potrebbe essere possibile solo nelle grandi imprese». Tale decisione, in altri termini, ha inteso preservare la «libertà di gestione del datore di lavoro». La Corte ha altresì chiarito che il fatto di richiedere automaticamente la conclusione di contratti a tempo indeterminato oltrepasserebbe gli obiettivi perseguiti dall’accordo quadro e dalla direttiva 1999/70/CE e violerebbe il margine di discrezionalità riconosciuto agli
156 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, XX Xxxxxxx, 00 gennaio 0000, X-000-00, Xxxxx.
Xxxxx membri e, se del caso, alle parti sociali. Spetterà al giudice del rinvio valutare se nelle circostanze della fattispecie principale l’impiego di un dipendente per un periodo prolungato (nella specie, undici anni in forza di tredici contratti successivi a tempo determinato) sia conforme alla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro in materia di contratto a tempo determinato.
1.3. Il regime sanzionatorio per il contratto a termine «ingiustificato»
Il d.lgs. n. 368 del 2001, almeno nella versione originaria (prima cioè dell’introduzione del comma 01, art. 1, d.lgs. n. 368/2001, per cui «il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato»), non disciplinava espressamente le conseguenze sanzionatorie applicabili in caso di mancata indicazione delle ragioni giustificanti l’apposizione del termine, al contrario di quanto accadeva nella l. n. 230 del 1962, che prevedeva il principio secondo cui «il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato salvo le eccezioni previste dalla legge».
Al fine di colmare tale mancanza e dotare la norma di un apparato sanzionatorio efficace, sono state individuate diverse soluzioni, sostanzialmente riassumibili in due orientamenti principali. Una prima (minoritaria) interpretazione157 individuava il meccanismo sanzionatorio da applicare nel primo comma dell’art. 1419 c.c. per cui «La nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell'intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità». Secondo i fautori di tale tesi, la direttiva comunitaria avrebbe inteso considerare «potenzialmente pericolosa solo la successione di contratti a termine, perché idonea a precarizzare un rapporto durevole tra le stesse parti, mentre il primo isolato contratto a termine è valutato favorevolmente, con conseguente assoluta libertà di stipulazione, in quanto utile strumento di flessibilità e di occupazione»158. In tal senso, la ratio della nuova disciplina sarebbe volta a riservare l’effetto sostitutivo (id est, la conversione), quale tecnica di massima invasione dell’autonomia negoziale, solo alle vicende illegittime successive al primo contratto, lasciando invece operare per
157 VALLEBONA A - PISANI C., op. cit., 35 ss.; PAPALEONI M., Le linee fondamentali, cit., 685.
158 VALLEBONA A - PISANI C., op. cit., 37.
quest’ultimo i principi di diritto comune sulla nullità parziale. Il datore di lavoro, semplicemente, avrebbe dovuto provare che non avrebbe mai assunto il dipendente se avesse saputo che il termine era nullo e l’invalidità parziale si sarebbe estesa a tutto il contratto.
Tale tesi, oltre a doversi ritenere ex se irrazionale - dalla violazione di una norma imperativa posta al fine di tutelare il lavoratore si farebbe derivare la liberazione del datore di lavoro da ogni vincolo contrattuale - si è posta in aperto contrasto con l’orientamento assunto dalla Corte Costituzionale, per cui l’art. 1419, comma 1, «non è applicabile rispetto al contratto di lavoro, allorquando la nullità della clausola derivi dalla contrarietà di essa a norme imperative poste a tutela del lavoratore, così come, più in generale, la disciplina degli effetti della contrarietà del contratto a norme imperative trova in questo campo (come anche in altri) significativi adattamenti, volti appunto ad evitare la conseguenza della nullità del contratto. Ciò in ragione del fatto che, se la norma imperativa è posta a protezione di uno dei contraenti, nella presunzione che il testo contrattuale gli sia imposto dall'altro contraente, la nullità integrale del contratto nuocerebbe, anziché giovare, al contraente che il legislatore intende proteggere»159.
Secondo un diverso (maggioritario) orientamento160, il meccanismo sanzionatorio applicabile sarebbe ricavabile non già dal primo, bensì dal secondo comma dell’art. 1419 c.c. per cui «la nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative». In tal senso, la presunzione di indeterminatezza, quale principio generale dotato di forza di norma imperativa, si ricaverebbe, oggi, dal comma 01 dell’art. 1, d.lgs. n. 368/2001 e, prima del 2007, dai principi delineati dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE.
L’interpretazione de qua ha trovato pieno riscontro nella giurisprudenza di merito, la quale ha in più occasioni ribadito che «Ogni ipotesi di illegittima
159 Xxxxx Xxxx., 00 maggio 1992, n. 210, in Giur. it., 1993, 1, I, 277. Tale principio è stato confermato, nella sostanza, in Xxxxx Xxxx., 00 luglio 2005, n. 283, in Giust. civ., 2006, 9, I, 1695. 160Cfr. SPEZIALE V., La nuova legge, cit., 405 ss.; XXXXXXX G., Tipologie di lavoro flessibile, Torino, 2002, 46 ss.; XXXXXXX XXXXXXXXXX G., Note preliminari sulla nuova disciplina del contratto a tempo determinato, in Arg. dir. lav., 2002, 181 ss.; XXXXXXX A., op. cit., 222; XXXXXXXX X., Precarietà del lavoro e riforma del contratto a termine dopo le sentenze della Corte di Giustizia, in Riv. giur. lav., 2006, I, 707 ss.
apposizione del termine al contratto di lavoro, a prescindere dal fatto che ciò dipenda da motivi formali o dall'accertata insussistenza in concreto della motivazione addotta, comporta la conversione a tempo indeterminato del rapporto, e cioè - nel primo caso - in conseguenza dell'espressa previsione dell'art. 1 comma 2 d.lg. 6 settembre 2001 n. 368, nel secondo caso ex art. 1419 comma 2 c.c., con conseguente diritto del lavoratore (in caso di recesso da parte del datore di lavoro) al ripristino del rapporto e al risarcimento del danno dalla data di offerta della prestazione lavorativa»161.
Il principio è stato poi definitivamente confermato dalla Corte di Cassazione, per cui la sanzione va «legittimamente e correttamente» ricavata
«dal “sistema", nel suo complesso, e dai principi generali, in tal modo non ricorrendo ad una analogia legis e neppure sostituendosi al legislatore o al Giudice delle leggi, bensì semplicemente interpretando la norma nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria (della quale è attuazione) e nel sistema generale (dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato) tracciato dalla stessa Corte costituzionale»162.
La querelle non può tuttavia dirsi risolta. Una recente pronuncia163 ha infatti inteso riaffermare quell’orientamento minoritario per cui «va in ogni caso esclusa la pretesa conversione nel contratto a tempo indeterminato», in quanto
«ai sensi dell'articolo 1429 del Codice civile la clausola nulla comporta nullità dell'intero contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità». Nella specie, la sussistenza di tale intento si faceva derivare dalla tempestiva allegazione, da parte della società, della prova attestante la volontà di non concludere i contratti senza la apposizione del termine, nonché dal tenore stesso del complessivo regolamento contrattuale intervenuto tra le parti. Nei contratti allegati era specificato che le clausole contrattuali sulla durata del contratto a termine erano
161 Trib. Genova, 14 novembre 2006, in Riv. giur. lav., 2007, 4, II, 693. Fra le tante, cfr. altresì Trib. Bologna, 7 febbraio 2006, n. 43, in Guida dir., 2006, 36, 63; Trib. Milano, 14 ottobre 2004, in Riv. crit. dir. lav., 2004, 904 ss.; Trib. Roma, 12 gennaio 2005 e Trib. Roma 3 febbraio 2005, in Riv. giur. lav., 2005, II, 707 ss.; Trib. Monza, 18 gennaio 2005, in Riv. giur. lav., 2005, II, 152 ss.
162 Cass. 21 maggio 2008, n. 12985, in Giust. civ. mass., 2008, 5, 779. In senso conforme, cfr.
Cass. 21 novembre 2011, n. 24479, in Dir. & Giust., 2011; App. Bari, 7 gennaio 2010, n. 4242,
in Xxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 2010.
163 Tribunale Roma, 27 settembre 2011, n. 14681, Redaz. Xxxxxxx, 2011.
concordemente ritenute essenziali ai sensi dell'articolo 1456 del codice civile. Il contenuto di dette clausole, ogni volta altresì specificamente sottoscritte dal ricorrente, evidenziava univocamente la comune volontà delle parti di dar luogo al rapporto di lavoro soltanto per un limitato periodo di tempo, fino alle scadenze di volta in volta concordate. Secondo il giudice romano, dunque, «la complessiva situazione determina la nullità del contratto nella sua interezza, salvo il diritto della ricorrente al corrispettivo percepito per le prestazioni eseguite in esecuzione del contratto nullo».
In ogni caso, si dovrà far presente che ai due (principali) orientamenti sopra esposti si sono affiancate ulteriori e diverse varianti interpretative164. Si è così ritenuto che «la violazione delle regole imperative, compresa quella attinente la forma scritta, comporta non già l’applicazione di una sanzione di diritto comune ovvero speciale, quanto la mera constatazione che il termine non ha prodotto effetti e che fra le parti si è instaurato sin dall’inizio (o dalla data indicata dalla legge) un rapporto a tempo indeterminato». In altri termini,
«quando il legislatore ha usato il termine “si considera” (…) non ha inteso evocare la conversione del contratto a termine in uno a tempo indeterminato, ma solo prendere atto che la specie dominante ha ripreso il sopravvento, essendo venute meno le condizioni che potevano legittimare l’apposizione del termine»165. Una diversa interpretazione si è basata sull’applicazione analogica della regola sancita dall’art. 5, d.lgs., 368/2001166. In tal senso, sarebbe illogico ritenere che il legislatore abbia previsto la conversione solo nel caso di illegittima reiterazione dei contratti a termine, posto che il difetto di giustificazione del termine implica di per sé la mancanza di un interesse apprezzabile del datore di lavoro alla temporaneità, indipendentemente dal numero di contratti stipulati.
Da ultimo, si intende dar conto di due (falliti) interventi legislativi volti, anch’essi, ad individuare la sanzione applicabile in subiecta materia. Il primo,
164 Per una ricostruzione dei diversi orientamenti, cfr. XXXXXXXXX X., Le conseguenze del contratto a termine sostanzialmente privo di causale giustificativa: tra categorie civilistiche e ambigue risposte del legislatore, in I Working papers. Centro Studi di Diritto del Lavoro Europeo “Xxxxxxx X’Xxxxxx”, It. – 85/2009.
165 MONTUSCHI L., op. cit., 121.
166 Cfr. XXXXXX X., I contratti di lavoro, in XXXXXXXXXXX P. (continuato da), Trattato di Diritto Civile e Commerciale, Milano, 2003, III, 421 ss.; DE ANGELIS L., Il nuovo contratto a termine, cit., 40.
compiuto nell’ambito della legge di conversione del d.l. n. 112/2008, si ispirava alla tesi minoritaria argomentata sulla base del primo comma dell’art. 1419 c.c. Il testo, nell’originaria versione approvata dalla Camera, prevedeva, infatti, all’art. 21, comma 3-bis, che l’apposizione del termine in assenza delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo non avrebbe determinato la conversione a tempo indeterminato del rapporto, in quanto avrebbe trovato applicazione esclusivamente l’art. 1419, primo comma, c.c. Tale disposizione, com’era prevedibile, è stata soppressa nel testo finale della legge.
Il secondo intervento riguardava l’introduzione dell’art. 4-bis del d.lgs. n. 368/2001, ad opera dell’art. 21, l. n. 133/2008, che prevedeva, con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge, esclusivamente la sanzione dell’indennizzo, in caso di violazione delle disposizioni relative all’apposizione del termine al contratto e alla proroga. In riferimento a tale disposizione sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale con ben diciannove distinte ordinanze167. Tutte hanno censurato la norma per contrasto con l’art. 3 Cost. In particolare, secondo i giudici remittenti, l’art. 4-bis modificherebbe retroattivamente le tutele introdotte dal «diritto vivente», operando una discriminazione irrazionale ed ingiustificata, favorendo con una tutela «forte» coloro che hanno tardato ad agire in giudizio e discriminando lavoratori che si trovano in un’identica situazione di fatto (dipendenti dallo stesso datore di lavoro, che hanno stipulato identici contratti nello stesso periodo, per la stessa durata, per le medesime ragioni ed affetti dai medesimi vizi). La norma sarebbe irrazionale anche perché penalizzerebbe «chi comportandosi lealmente non ha atteso anni, ma ha iniziato da subito la causa, finendo col premiare invece coloro che hanno tardato ad iniziare il contenzioso (…) Il Legislatore ha quindi ritenuto di disciplinare diversamente (nelle conseguenze) solo alcuni contratti a termine illegittimi ancorando la diversità
167 Tribunale di Roma con ordinanza del 26 settembre 2008; Corte d'Appello di Torino con ordinanza del 2 ottobre 2008; Corte d'Appello di Genova con ordinanza del 26 settembre 2008; Tribunale di Ascoli Xxxxxx con due ordinanze del 30 settembre 2008; Tribunale di Trieste con ordinanza del 16 ottobre 2008; Corte d'Appello di Bari con ordinanza del 22 settembre 2008; Tribunale di Viterbo con ordinanza del 10 ottobre 2008; Tribunale di Milano con quattro ordinanze del 19 novembre 2008; Corte d'Appello di Caltanissetta con ordinanza del 12 novembre 2008; Tribunale di Teramo con ordinanza del 17 ottobre 2008; Tribunale di Milano con due ordinanze del 24 dicembre 2008; Corte d'Appello di Venezia con ordinanza del 10 dicembre 2008; Corte d'Appello di L'Aquila con ordinanza del 14 gennaio 2009; Corte d'Appello di Roma con ordinanza del 21 ottobre 2008.
delle conseguenze al fatto del tutto casuale che il lavoratore avesse o meno iniziato il giudizio»168. Tale disparità di trattamento non troverebbe giustificazione neppure nella dichiarata natura transitoria della norma, la quale non prevede nessuna modifica della precedente disciplina, che riprende efficacia immediatamente sui nuovi processi del lavoro instaurati con l’entrata in vigore della legge, ossia dopo il 21 agosto 2008169.
Molte altre sono state le questioni di legittimità costituzionali sollevate in riferimento all’art. 4-bis e, in particolare, per contrasto con le seguenti norme costituzionali: artt. 3, primo comma, e 24 Cost., per quanto concerne il generale principio dell’affidamento legittimamente posto dal cittadino sulla certezza dell’ordinamento giuridico, principio che, come già sostenuto dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 525 del 2000, costituisce elemento essenziale dello Stato di diritto ed in quanto tale non può essere leso da norme con effetti retroattivi che incidano irragionevolmente su situazioni regolate da leggi precedenti170; art. 10 Cost., poiché lede il principio di parità di trattamento che è principio generale del diritto internazionale e comunitario che l’Italia si è impegnata a rispettare171; artt. 11, secondo periodo, e 117, primo comma, Cost., in quanto l’art. 4-bis, riducendo la tutela accordata in precedenza dall’ordinamento ai lavoratori assunti con contratto a tempo determinato, violerebbe la clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato recepito dalla direttiva 1999/79/CE e, conseguentemente, l’obbligo del legislatore interno di rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario ed internazionale172; art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), il quale, nel disciplinare il principio del giusto processo, impedisce al legislatore di intervenire con norme ad hoc per la risoluzione delle controversie in corso173; art. 24 Cost., avendo la norma censurata compromesso il diritto di difesa dei ricorrenti, sottraendo loro la
168 Corte d’Appello di Genova, 26 settembre 2008.
169 Corte d’Appello di Milano, 28 ottobre 2008.
170 Tribunali di Roma e di Viterbo e Corte d’Appello di Bari.
171 Tribunale di Milano.
172 Tribunale di Ascoli Xxxxxx e Tribunale di Milano, unicamente in riferimento alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.
173 Tale questione di legittimità è stata sollevata da tutte le ordinanze di rimessione, ad eccezione della Corte d’Appello di Torino e del Tribunale di Rossano.
possibilità di ottenere il vantaggio della conversione del contratto irregolare, la cui prospettiva aveva direttamente condizionato l’esercizio del loro diritto di azione174; art. 111 Cost., con riferimento al principio del giusto processo, poiché la norma censurata modifica, nel corso dei procedimenti giudiziali, la tutela sostanziale accordabile al diritto azionato, senza che ricorrano idonee ragioni oggettive o generali175; artt. 101, 102, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., poiché un intervento legislativo concernente solo alcuni giudizi in corso ad una certa data è privo del carattere di astrattezza proprio delle norme giuridiche ed assume un carattere provvedimentale generale invasivo dell’ambito riservato alla giurisdizione176.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 214 del 2009, ha ritenuto fondate solamente le censure sollevate in riferimento all’art. 3 Cost. dalle Corti d’Appello di Genova e di Roma e dai Tribunali di Roma, Ascoli Xxxxxx, Trieste e Viterbo, ritenendo le altre questioni inammissibili per insufficiente motivazione sulla rilevanza. La Corte, com’era prevedibile, ha dichiarato la norma costituzionalmente illegittima per l’irragionevole disparità di trattamento collegata alla sola circostanza, del tutto accidentale, della pendenza di una lite giudiziaria alla data (anch’essa sganciata da qualsiasi ragione giustificatrice) del 22 agosto 2008. Un passaggio importante di questa parte della sentenza consiste nella definizione come «diritto vivente» del regime di conversione del contratto a termine nullo in contratto a tempo indeterminato.
1.4. Tempistiche di attuazione e conseguenze risarcitorie del termine illegittimamente apposto al contratto. La legge 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. Collegato lavoro)
Negli ultimi anni la disciplina del contratto a tempo determinato è stata oggetto di numerosi e contrastanti interventi normativi, scaturiti dalla necessità/difficoltà di dare attuazione a quei principi comunitari orientati, da un lato, all’incremento di occupazione di qualità e, dall’altro, alla riduzione della
174 Corti d’Appello di Caltanisetta, Venezia e Roma e Tribunale di Milano.
175 Corti d’Appello di Venezia e di Roma.
176 Tribunali di Roma e di Viterbo.
segmentazione e dei divari tra lavoratori standard (c.d. insider) e non standard (c.d. outsider), sulla base del modello danese della flexicurity.
Come si è visto, le problematiche inerenti alla trasposizione di un siffatto modello ideale, delineato ad hoc per uno Stato, quale la Danimarca, con normative, politiche e strategie di welfare completamente differenti dalle nostre, si sono ripercosse sulle scelte legislative operate in materia: dapprima attraverso la previsione di limitazioni all’utilizzo dello strumento contrattuale de quo (legge n. 247 del 2007), poi, attraverso deroghe ed aggiustamenti in un’ottica di attenuazione delle rigidità (legge n. 133 del 2008).
In tale contesto si inseriscono le disposizioni di cui all’art. 32 della legge
n. 183 del 2010, le quali non fanno altro che riaccendere il contenzioso presente in materia. Tuttavia, a differenza dei due precedenti interventi normativi, incentrati sulla previsione di regole e/o deroghe, la nuova legge incide sui mezzi di tutela attivabili in sede di impugnazione del termine illegittimamente apposto, individuandone, da un lato, le tempistiche di attuazione e, dall’altro, le conseguenze risarcitorie.
Il primo profilo oggetto di indagine concerne il nuovo regime delle impugnazioni previsto per i licenziamenti ed esteso alle azioni di nullità del termine apposto al contratto. Come è noto, il nuovo testo dell’art. 6 della legge
n. 604 del 1966, così come modificato dall’art. 32, comma 1, della legge n. 183 del 2010, prevede ora un doppio termine decadenziale: il primo di sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione del licenziamento (o dei motivi, ove non contestuale) per l’impugnazione scritta stragiudiziale dell’atto espulsivo; il secondo di duecentosettanta giorni, decorrente dall’impugnazione, per il deposito del ricorso nella cancelleria del Tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione della controparte della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato. Inoltre, qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, è previsto un ulteriore termine di sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo per il deposito del ricorso.
Ora, l'art. 32, comma 3, estende la nuova disciplina «ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto» (lett. a); nonché «all'azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai
sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo» (lett. d). Dall’analisi combinata delle summenzionate disposizioni sembra potersi desumere che la lettera a) si riferisca esclusivamente ai casi in cui sia in discussione la correttezza della qualificazione del rapporto e la lettera d) alle ipotesi in cui, invero, in discussione sia la legittimità dell’apposizione del termine contrattualmente convenuto dalle parti177.
Maggiori problematiche riguardano l’ambito di applicazione del nuovo regime decadenziale. Secondo una tesi più elastica, la disposizione in esame dovrebbe essere estesa anche alla disciplina dei divieti (art. 3, d.lgs. 368/2001) e della prosecuzione di fatto del rapporto (art. 5, d.lgs. n. 368/2001), seppure non espressamente contemplate dalla norma. Sulla base di tale interpretazione, una diversificazione sarebbe irragionevole in virtù della ratio generale della nuova disciplina della decadenza, «diretta ad indurre l'accellerazione delle controversie relative alla titolarità di rapporti di lavoro proiettati nel futuro e non certo di quelle aventi un contenuto puramente retrospettivo»178. Occorre allora leggere il richiamo agli artt. 1, 2 e 4 contenuto nella lettera d) come riferito non all'azione di nullità ma al contratto di lavoro, dovendosi quindi concludere come anche i contratti che incorrono nella violazione dell'art. 3 o dell'art. 5 siano pur sempre stipulati per le ragioni e alla stregua degli artt. 1, 2 e 4.
Secondo un diverso orientamento179, sarebbero da escludersi le azioni per prosecuzione di fatto, riassunzione senza il prescritto intervallo e sforamento della durata massima di 36 mesi sulla base del tenore letterale della disposizione, laddove fa riferimento esclusivamente agli artt. 1, 2 e 4 e non anche agli artt. 3 e 5, d.lgs. n. 368/2001. Infatti, se il legislatore avesse voluto riferire la decadenza a qualsiasi azione per la nullità del termine non avrebbe specificato alcunché. L’intento di tale scelta è quello di escludere dalla decadenza le azioni fondate sulla violazione dei limiti alle successioni di
177 GIUBBONI S., Il contratto di lavoro a tempo determinato nella legge n. 183 del 2010, in Riv. it. dir. lav., 2011, II, 227 ss.
178 XXXX X., Il contratto di lavoro a tempo determinato nel «Collegato lavoro» alla legge finanziaria, in Riv. it. dir. lav., III, 2010, 473 ss.
179 VALLEBONA A., Il Collegato lavoro: un bilancio tecnico, in Mass. giur. lav., 2010, 12, 906 ss.
contratti a termine, che costituiscono, in conformità alla direttiva comunitaria 1999/70, il vero strumento di ingiusta precarizzazione.
Sulla base del successivo comma 4 dell’art. 32, la norma sulla decadenza del termine si applica, fra l’altro, ai contratti a tempo determinato in corso di esecuzione, con decorrenza dalla data di scadenza del termine (lett. a), nonché ai contratti a tempo determinato stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al d.lgs. n. 368 del 2001 e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della legge (lett. b).
Dal comma 4, lett. b), derivano, sostanzialmente, le seguenti tempistiche: impugnazione stragiudiziale entro il 24 gennaio 2011 (il 24 novembre è entrato in vigore il Collegato); impugnazione giudiziale (ovvero conciliazione o arbitrato) entro il 24 settembre 2011 (trascorsi 270 giorni).
Resta ora da domandarsi se alle tempistiche in esame, riferite all’impugnazione dei contratti a termine, si applichi o meno la nuova disciplina di cui alla legge n. 10 del 26 febbraio 2011 (c.d. decreto Milleproroghe), che ha introdotto il comma 1-bis all’art. 32, legge 183 del 2010, per cui «In sede di prima applicazione, le disposizioni di cui all'articolo 6, comma 1, della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere 31 dicembre 2011».
Come è evidente, tale norma interessa esclusivamente il comma 1 del novellato art. 6 della legge 604/1966, e non anche il comma 2, relativo al termine dei 270 giorni per l'impugnazione giudiziale (ovvero conciliazione o arbitrato). Di guisa che, per il lavoratore a termine che effettua l'impugnazione stragiudiziale entro i 60 giorni deve, comunque, ritenersi operante il termine di 270 giorni per l’impugnazione giudiziale, pena l'inefficacia dell'impugnazione stessa e quindi l'intervenuta e definitiva decadenza, che potrebbe prodursi anche prima del 31 dicembre 2011.
La norma da ultimo citata è stata oggetto di interpretazione da parte di tre recenti pronunce del Tribunale di Milano (4 luglio 2011, n. 3402; 4 agosto 2011,
n. 3914; 29 settembre 2011 n. 4404). Sulla base delle prime due, non vi è dubbio che il decreto ministeriale debba trovare applicazione anche in materia di impugnazione dei contratti a termine, posto che l'art. 32, comma 4,
espressamente richiama «le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, come modificato dal comma 1 del presente articolo». I giudici milanesi hanno in tal senso osservato come «pur in assenza di una espressa previsione, non può che ritenersi che con l'intervento di cui al Dl n. 225/2010 il legislatore abbia voluto posticipare l'efficacia temporale del termine decadenziale introdotto con la legge n. 183/2010, facendo così salvi i diritti di quanti alla data del 24 gennaio 2011 non avessero ancora provveduto alle impugnazioni ivi disciplinate»180. La rimessione in termini, quindi, è proprio ciò che il legislatore ha direttamente perseguito, facendone la ratio del suo intervento.
Ed infatti, «l'art. 2, comma 54, Dl n. 225/2010 prevede espressamente che le disposizioni di cui all'art. 6 comma 1, legge n. 604/1966, come modificato dal comma 1 dell'art. 32, legge n. 183/2010, relativamente al termine dei 60 giorni per l'impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia dal 31 dicembre 2011, “in sede di prima applicazione”. Se, dunque, la norma dispone dell'efficacia della disciplina "in sede di prima applicazione", la sua portata non può che essere retroattiva, ossia destinata a regolamentare i primi effetti della nuova disciplina, con la conseguenza di una sostanziale "rimessione in termini" di quanti fossero medio tempore decaduti per lo spirare del termine del 24 gennaio 2011. La rimessione in termini sarebbe quindi un obiettivo diretto perseguito dal legislatore, e quindi introdotto nel Decreto milleproroghe (…) La previsione in parola, d'altronde, ove interpretata in senso contrario, non avrebbe alcun senso: posto che la stessa si riferisce espressamente al "termine di 60 giorni per l'impugnazione del licenziamento" e che detto termine per il licenziamento era già previsto dalla legge n. 604/1966, pare ovvio che il legislatore abbia voluto posticipare gli effetti della novella legislativa per ritardare gli effetti preclusivi delle nuove decadenze introdotte all'art. 32, legge
n. 183/ 2010 complessivamente considerato».
Di segno diametralmente opposto è la terza pronuncia sopra riportata (Tribunale di Milano 29 settembre 2011 n. 4404) per cui, invero, dall'esame del testo dell'art. 2 comma 54, d.l. n. 225/2010, unitamente all'analisi della volontà del legislatore, così come espressa dall'ordine del giorno della Camera, votato in sede di approvazione del suddetto decreto legge, deve ritenersi escluso che il
180 Trib. Milano, 4 agosto 2011, n. 3914 , in Dir. & Giust., 2011.
differimento possa essere applicabile ai contatti a termine e, comunque, al di fuori della sola ipotesi di impugnazione del licenziamento.
Di fronte ad una previsione così mal congegnata e d'incerta interpretazione, la dottrina ha enfatizzato l’opportunità, in sede pratica, di attivare tempestivamente i consueti strumenti di impugnazione, prima stragiudiziale e poi giudiziale, senza far troppo affidamento sul differimento di efficacia voluto col comma 1-bis dell'art. 32 del Collegato181.
Il secondo profilo oggetto di indagine concerne l’innovazione contenuta nei successivi commi 5, 6 e 7 del Collegato lavoro, relativi alla previsione di un’indennità risarcitoria, nei casi di disposta conversione del contratto a tempo determinato, compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (ridotta alla metà nel caso di contratti collettivi che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati a termine nell’ambito di specifiche graduatorie).
La nuova disciplina, valevole anche per i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge, da un lato, fa riferimento ai casi di “conversione”, dall’altro, prevede, a carico del datore di lavoro, un’indennità “onnicomprensiva”, con l’evidente scopo di contenere l’entità dei risarcimenti cui erano condannati i datori di lavoro nelle ipotesi di legittima apposizione del termine.
Si pensi, in tal senso, che alle ipotesi di scadenza del contratto a termine si ritenevano applicabili le sanzioni tipiche previste dall’ordinamento in relazione alla nullità della clausola appositiva del termine, alla conversione del rapporto ex tunc in rapporto a tempo indeterminato ed alla mora del datore di lavoro. In particolare, si riteneva che il prestatore avesse diritto, oltre alla riammissione in servizio con contratto a tempo indeterminato, anche ad un risarcimento per il pregiudizio subito dall’impossibilità di svolgere la prestazione offerta, a seguito dell’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla. In altri termini, la riqualificazione legale del rapporto comportava altresì la valutazione del rifiuto datoriale come mora del debitore182. Ciò sulla base del principio per cui nel contratto di lavoro la retribuzione troverebbe fondamento nel sinallagma genetico, e non in quello funzionale, del rapporto e dovrebbe pertanto essere
181 GIUBBONI S., op. cit., 236 ss.
182 SPEZIALE V., Mora del creditore e contratto di lavoro, Bari, 1992, 293 ss.
erogata anche nei casi di mancata esecuzione della prestazione, considerato che il suo titolo giustificativo andrebbe rinvenuto nella persistenza del vincolo obbligatorio. In altri termini, il tempo intercorso tra la data di scadenza del termine e quella di riammissione in servizio del lavoratore doveva ritenersi assoggettato alle regole generali sulla mora accipiendi, con applicazione delle norme sul risarcimento dei danni da inadempimento delle obbligazioni (artt. 1223-1227 c.c.). Ergo, il datore di lavoro era chiamato ad indennizzare sia l’illegittima perdita del posto di lavoro, sia il mancato guadagno nel frattempo registrato dal lavoratore. D’altro canto, la giurisprudenza183 ha fatto applicazione di tali principi, da un lato, limitando il pagamento delle retribuzioni dalla scadenza del termine in ragione dell’aliunde perceptum, dall’altro, verificando, caso per caso, che il lavoratore avesse tenuto una condotta compatibile con la volontà di perseguire il rapporto (si accettava comunque la configurabilità di uno scioglimento del rapporto per mutuo consenso). Peraltro, l’aliunde perceptum veniva spesso esteso anche al percipiendum, ossia al guadagno che sarebbe lecito attendersi dal lavoratore diligentemente attivatosi nella ricerca di un nuovo posto di lavoro.
L’entrata in vigore del Collegato lavoro ha suscitato non poche problematiche di carattere interpretativo. In primo luogo, ci si è domandati se l’indennità onnicomprensiva dovesse ritenersi sostitutiva o cumulativa delle regole di cui agli artt. 1223-1227 c.c.
Secondo un primo orientamento184, nei casi in cui si verifichi la conversione del contratto a termine in rapporto a tempo indeterminato, per il periodo intercorrente tra l’interruzione di fatto del rapporto e la sentenza dichiarativa della nullità del termine, è dovuta al lavoratore unicamente un’indennità onnicomprensiva. In tal senso, il lavoratore si vedrebbe riconosciuta, in ogni caso e a prescindere dall’effettiva sussistenza di un danno e dalla circostanza che abbia o meno messo in mora il datore di lavoro offrendogli la propria prestazione, un’indennità quanto meno pari a 2,5 mensilità.
183 Da ultimo, x. Xxxx., 00 gennaio 2009, n. 839, in Giust. civ. mass., 2010, 1, 68; Cass., 27 maggio 2009, n. 12333, in Giust. civ. mass., 2009, 5, 843.
184 TOSI P., op. cit., 477 ss.; VALLEBONA A., op. cit., 906 ss.
Secondo un diverso orientamento185, la liquidazione dell’indennità onnicomprensiva sarebbe aggiuntiva, e non sostitutiva, rispetto alle conseguenze derivanti dai principi in tema di conversione del contratto e di mora credendi ex art. 1206 c.c., trattandosi di una sorta di “penale sanzionatoria” connessa al mero accertamento dell’illegittimità del termine apposto al contratto.
Anche la giurisprudenza intervenuta all’indomani dell’entrata in vigore della legge si è rivelata divisa sul punto. Il Tribunale di Roma, con due distinte pronunce, del 30 novembre e del 1° dicembre 2010, ha inteso aderire alla prima interpretazione, sul presupposto che l’art. 32, comma 5, l. n. 183/2010, incide sulla disciplina delle conseguenze economiche dell’accertata nullità della clausola appositiva del termine, quindi, sull’obbligo risarcitorio gravante sul datore di lavoro per il periodo non lavorato. Di guisa che, l’indennità onnicomprensiva si porrebbe quale sanzione sostitutiva del danno patrimoniale effettivamente maturato.
Il Tribunale di Busto Arsizio186, con la sentenza n. 528 del 29 novembre 2010, ha invero aderito al secondo orientamento sopra menzionato, optando per una lettura costituzionalmente orientata e conforme al diritto comunitario della norma, che imporrebbe di interpretare tale disposizione come tutela aggiuntiva rispetto a quella risarcitoria.
In riferimento alla disposizione de qua sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale187 dal Tribunale di Trani188, con ordinanza del 20
185 COSSU B. - XXXXXX F. M., Novità in tema di conseguenze della “conversione” del contratto a tempo determinato, in Mass. giur. lav., 2010.
186 Trib. Busto Arsizio, 29 novembre 2010, n. 528, in Riv. crit. dir. lav., 2010, IV, 1036.
187 A commento delle due ordinanze di remissione, si segnalano, fra gli altri, i seguenti contributi: XXXXXXXX M., Onnicomprensività dell'indennità: la Cassazione rimette alla Consulta le norme sul contratto a termine del collegato lavoro, in Riv. crit. dir. lav., 2010, 1019 ss.; DE ANGELIS L., La Cassazione solleva la questione di legittimità costituzionale dei commi 5 e 6 dell'art. 32 del collegato lavoro: un verdetto annunciato, in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, 545 ss.; DE MATTEIS A., Le ordinanze di rimessione sulla nullità del termine, in Riv. giur. lav. prev., 2011, I, 97 ss.; XXXXXXX G., Xxxxxxxxx a termine: il collegato lavoro finisce in Corte costituzionale, in Guida lav., 2011, VII, 10 ss.; XXXXXXX A. M., Contratto a termine e nullità di protezione del datore, in Foro it., 2011, I, 1781 ss.; PONTE F. V., Legittimità costituzionale dell'art. 32, commi 5 e 6, l. n. 183 del 2010 (Collegato lavoro), in Lav. prev., 2011, 378 ss.; XXXXXXXXX M., Collegato lavoro: sull'indennità predefinita la "parola" passa ai giudici della Consulta. L'abusiva reiterazione di contratti a termine non deve finire per penalizzare il dipendente, in Guida dir., 2011, VII, 65 ss.; VALLEBONA A., Indennità per il termine illegittimo: palese infondatezza delle accuse di incostituzionalità, in Mass. giur. lav., 2011, 49 ss.
188 Trib. Trani, 20 dicembre 2010, in Dir. rel. ind., 2011, I, 148.
dicembre 2010 e dalla Corte di Cassazione, con ordinanza del 20 gennaio 2011,
n. 2112189. Nella specie, il primo ha rilevato un contrasto con riguardo agli artt. 3, 11, 24, 101, 102, 111 e 117 Cost., evidenziando come la legge non sia intervenuta per sostenere la parte debole del rapporto, ma addirittura, «per toglierle ciò che, in applicazione dei principi generali del nostro ordinamento giuridico, aveva diritto a ricevere come ogni altro soggetto negoziale, finendo, in tal modo, per renderla più debole di quanto già non fosse». D’altra parte, la Corte di Cassazione ha osservato che l’indennità, identificata come onnicomprensiva, «acquista significato solo escludendo qualsiasi altro credito del lavoratore, indennitario o risarcitorio: pertanto, i commi 5 e 6 escludono ogni tutela reale e lasciano la possibile, grave sproporzione fra indennità e danno effettivo, connesso al perdurare dell’illecito». Così intesa la previsione contrasterebbe con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), non tutelerebbe adeguatamente il diritto al lavoro (art. 4 Cost.), non recherebbe strumenti volti ad evitare che il datore di lavoro prolunghi il giudizio e che possa sottrarsi all’esecuzione della sentenza (artt. 24 e 111 Cost.) e, inoltre, contrasterebbe con l’art. 6 CEDU, realizzando un’indebita interferenza del legislatore nei processi in corso (art. 117 Cost). La Corte Costituzionale, con sentenza n. 303 del 9 novembre 2011190, ha dichiarato non fondate le predette questioni di legittimità costituzionale.
Alla base del ragionamento della Corte vi è il rilievo per cui, in ogni caso, era necessario individuare un meccanismo semplificato di liquidazione del danno.
Nel regime previgente, come si è visto, veniva riconosciuto al lavoratore, nell’ipotesi di violazione delle norme relative al contratto a termine, oltre alla riammissione in servizio, un risarcimento commisurato alle retribuzioni cui lo stesso avrebbe avuto diritto dalla data di scadenza del contratto a termine sino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa. Inoltre, tale risarcimento veniva limitato in ragione dell’aliunde perceptum e, in alcuni casi, del percipiendum.
La Corte ha quindi individuato nel risarcimento del danno forfetizzato di cui al Collegato lavoro un criterio «di più agevole, certa ed omogenea
189 Cass., 20 gennaio 2011, n. 2112, in Riv. crit. dir. lav., 2010, IV, 1019.
190 Xxxxx Xxxx., 0 novembre 2011, n. 303, in Giust. civ., 2011, 12, I, 2768.
applicazione». In tal senso, le disposizioni de quibus non sarebbero illegittime, sotto il profilo della ragionevolezza, per il seguente ordine di motivi.
In primo luogo, l’indennità prevista «va chiaramente ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. E la stabilizzazione del rapporto è la protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario».
In secondo luogo, il danno forfetizzato dell’indennità copre soltanto il periodo “intermedio”, quello cioè intercorrente dalla scadenza del termine sino alla sentenza che ne accerta la nullità e dichiara la conversione del rapporto. Quindi, «a partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva». In tal caso, dunque, il lavoratore sarà tutelato dal rischio di subire un ristoro insufficiente a causa dei ritardi del datore di lavoro, diversamente da quanto accadeva in passato.
Inoltre, secondo il giudizio della Corte è da escludersi la paventata sproporzione dell’indennità de qua se si considera, da un lato, che il legislatore ha introdotto sub art. 32, commi 1 e 3, l. n. 183 del 2010 un termine di complessivi trecentotrenta giorni per l'esercizio, a pena di decadenza, dell'azione di accertamento della nullità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro, fissandone la decorrenza dalla data di scadenza del medesimo, con l'effetto di approssimare l'indennità in discorso al danno potenzialmente sofferto a decorrere dalla messa in mora del datore di lavoro sino alla sentenza; dall’altro, che il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell'aliunde perceptum. Sicché, l'indennità onnicomprensiva assume una xxxxxx xxxxxxx sanzionatoria. Essa è dovuta in ogni caso, anche in mancanza di danno
«per avere il lavoratore prontamente reperito un'altra occupazione». Con la conseguenza che la disciplina in esame, confrontata con quella previgente, risulta, sotto tale profilo, certamente più favorevole per il lavoratore.
In riferimento al comma 6 dell’art. 32 del Collegato lavoro, la Corte ha poi specificato che «la ragionevolezza della previsione trae alimento dal favor del
legislatore per i percorsi di assorbimento del personale precario disciplinati dall'autonomia collettiva».
Quanto, infine, alle questioni sollevate in ordine alla retroattività dell’intervento, ossia al fatto che lo stesso si applichi anche ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge, la Corte ha precisato che la novella deve ritenersi applicabile a tutti i giudizi in corso, sia a quelli di merito sia a quelli in sede di legittimità, e non soltanto a quelli pendenti in Tribunale, come, invero, aveva sostenuto il Tribunale di Trani. L’esigenza di retroattività della norma è giustificata dalla Corte sulla necessità di seguire un criterio di disciplina il più possibile omogeneo, volto a parificare situazioni di fatto identiche a prescindere dalla data di introduzione del giudizio.
In relazione agli artt. 4, 24 e 111 Cost., la Corte ha rilevato che gli stessi
«sembrano evocati più a corredo del vizio denunciato in via principale che a fondamento di autonome censure».
In ordine al presunto contrasto con gli artt. 117 Cost. e 6 CEDU, invero, si rammenta che i remittenti avevano denunciato un'ingiustificata intromissione del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia, tale da influire sulla decisione di singole controversie o su un gruppo di esse, così privando i lavoratori, già precariamente assunti, di una parte dei diritti riconosciuti in loro favore dalla normativa previgente, in difetto di «ragioni imperative di interesse generale» che possano eccezionalmente autorizzare, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, un intervento del legislatore volto ad incidere sui processi in corso. A giudizio della Corte, nella fattispecie de qua, i suddetti «motivi imperativi di interesse generale», volti a giustificare un intervento del legislatore con efficacia retroattiva, possono essere individuati nella «avvertita esigenza di una tutela economica dei lavoratori a tempo determinato più adeguata al bisogno di certezza dei rapporti giuridici tra tutte le parti coinvolte nei processi produttivi, anche al fine di superare le inevitabili divergenze applicative cui aveva dato luogo il sistema previgente». Di guisa che, non è sostenibile che la retroattività degli effetti abbia prodotto un’ingerenza illecita del legislatore nell’amministrazione della giustizia, essendosi limitata, la norma, ad introdurre un meccanismo semplificato di liquidazione del danno, in linea con i principi testé indicati.
2. La prevenzione degli abusi nella giurisprudenza comunitaria
Come si è visto nel capitolo precedente, fra le finalità della direttiva comunitaria vi è quella di «creare un quadro per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato» (punto 14 delle considerazioni iniziali, principio ribadito nella clausola 1 della parte precettiva dell’accordo).
Alla prevenzione degli abusi è poi dedicata la clausola 5.1 dell’accordo, che impone agli Stati membri o alle parti sociali di introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei contratti a termine; b) durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti. La clausola
5.2 specifica che gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali e/o le parti sociali stesse, dovranno, se del caso, stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato: a) devono essere considerati "successivi"; b) devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato La genericità dell’impianto giuridico della direttiva comunitaria sul lavoro
a termine ha tuttavia generato un copioso ed inarrestabile contenzioso giurisprudenziale in materia. La Corte di Giustizia delle Comunità europee è intervenuta almeno diciotto volte, dal 22 novembre 2005 al 26 gennaio 2012 (Mangold191, Adeneler192, Marrosu e Sardino193, Vassallo194, Xxx Xxxxx Alonso195, Impact196, Xxxxxxxxxx000, Xxxxxxxxxx000, Xxxxxx000, Xxxxxxxxxx000, Xxxxxxxxxxxxxxxxxxx xxx Xxxxxxxxxxxxxxxxxxx Xxxxxx000, Xxxxx000, Xxxx000,
191 Corte di Giustizia, Grande Sezione, 22 novembre 2005, C-144/04, cit..
192 Xxxxx xx Xxxxxxxxx, Xxxxxx Xxxxxxx, 0 luglio 2006, C-212/04, cit.
193 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, XX Xxxxxxx, 0 settembre 2006, C-53/04, Xxxxxxx e Xxxxxxx.
194 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, XX Xxxxxxx, 0 settembre 2006, C-180/04, Vassallo.
195 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, XX Xxxxxxx, 00 settembre 2007, C-286/07, Xxx Xxxxx Xxxxxx.
196 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, Xxxxxx Xxxxxxx, 00 aprile 2008, C-268/06, Impact.
197 Corte di Giustizia, III Sezione, 12 giugno 2008, C-364/07, Xxxxxxxxxx.
198 Corte di Giustizia CE, III Sezione, 3 aprile 2009, cause riunite da C-378/07 a C-380/07,
Xxxxxxxxxx e altri.
199 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, XXX Xxxxxxx, 00 aprile 2009, X-000/00, Xxxxxx.
000 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, XX Sezione, 23 novembre 2009, cause riunite da C-162/08 a C-164/08,
Lagoudakis.
201 Corte di Giustizia CE, I Sezione, sentenza 22 aprile 2010, X-000/00, Xxxxxxxxxxxxxxxxxxx xxx Xxxxxxxxxxxxxxxxxxx Xxxxxx.
Affatato204, Deutsche Lufthansa205, Xxxxxx Xxxxxxx000, Kücük207 ), nel tentativo di colmare le lacune lasciate aperte dalla direttiva ed evitare interpretazioni ad essa non conformi da parte di ciascuno Stato membro. Tali pronunce hanno avuto ad oggetto, fra le altre, la risoluzione delle questioni relative, da un lato, all’individuazione delle “ragioni obiettive” idonee a giustificare il rinnovo dei contratti a termine, di cui alla clausola 5.1, lett. a) dell’accordo quadro, dall’altro, alla definizione di contratti a termine “successivi”.
In ordine al primo aspetto, i giudici di Lussemburgo hanno chiarito che la nozione di “ragioni obiettive” deve essere intesa «nel senso che essa si riferisce a circostanze precise e concrete che contraddistinguono una determinata attività e, pertanto, tali da giustificare, in un simile contesto particolare, l'utilizzo di contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione»208. Tali condizioni, invero, possono consistere nel «raggiungimento di una certa data», nel «completamento di un compito specifico» o nel «verificarsi di un evento specifico»209. La Corte ha altresì precisato che la necessaria sussistenza delle suddette ragioni è direttamente collegata alla «prevenzione dell'utilizzo abusivo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato successivi», restando pertanto escluso, dall’ambito di applicazione della clausola 5.1, il primo o unico contratto di lavoro a tempo determinato210.
Per quanto riguarda, poi, la repressione degli abusi, la Corte ha precisato che spetta alle autorità nazionali adottare misure adeguate, che devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma anche abbastanza effettivo e dissuasivo da garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell'accordo quadro211. Seppure le modalità di applicazione di tali norme spettino, in mancanza di una specifica disciplina comunitaria in materia,
202 Corte di Giustizia CE, IV Sezione, 24 giugno 2010, C-98/09, cit.
203 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, XX Xxxxxxx, 00 novembre 2010, C-20-10, Vino.
000 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, XX Sezione, 1° ottobre 2010, C-3/10, Affatato.
205 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, XX Xxxxxxx, 00 marzo 2011, X-000/00, Xxxxxxxx Lufthansa. 206 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, XX Xxxxxxx, 0 settembre 2011, C-177/10, Xxxxxx Xxxxxxx. 207 Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, XX Xxxxxxx, 00 gennaio 2012, C-586-10, cit.
208 Xxxxxxxx, cit., punti 69 e 70; Del Cerro Xxxxxx, cit., punto 53; Impact, cit., punto 70,
Xxxxxxxxxx, cit., punti 88 e 89; Xxxxxxxxxx, cit., punto 96; Kücük, cit., punto 27.
209 Xxxxxxxx, cit., punto 7.
210 Xxxxxxx, cit., punti 41 e 43; Xxxxxxxxxx, cit., punto 90.
211 Xxxxxxxxxx, cit., punto 158; Xxxxxxxx, punto 94; Xxxxxxx e Xxxxxxx, cit., punto 51; Xxxxxxxx, cit., punto 36; Xxxxxxxxxx, cit., punto 125.
all'ordinamento giuridico interno degli Stati membri in forza del principio dell'autonomia processuale di questi ultimi, esse non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività)212. Ne consegue che, qualora si sia verificato un ricorso abusivo a contratti di lavoro a tempo determinato successivi, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso ed eliminare le conseguenze della violazione del diritto comunitario. Difatti, secondo i termini stessi dell'art. 2, primo comma, della direttiva 1999/70, gli Stati membri devono
«prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti dalla presente direttiva»213. Da ciò consegue che se uno Stato membro ha il diritto di non prevedere la conversione dei contratti di lavoro a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato quale sanzione in caso di mancato rispetto delle misure preventive sancite dalla normativa nazionale di trasposizione della clausola 5 punto 1 dell'accordo quadro, detto Stato dovrà comunque assicurarsi che le altre sanzioni adottate dalla medesima normativa abbiano un carattere sufficientemente efficace e dissuasivo da garantire la piena effettività di dette misure preventive214.
Quanto al secondo aspetto, i giudici di Lussemburgo hanno precisato che il rinvio alle autorità nazionali per la definizione delle modalità concrete di applicazione dei termini «successivi» e «a tempo indeterminato» ai sensi dell'accordo quadro si spiega con la volontà di rispettare la diversità delle normative nazionali in materia, occorre comunque ricordare che la discrezionalità così lasciata agli Stati membri non è illimitata, poiché non può comunque giungere a pregiudicare lo scopo o l'effettività dell'accordo xxxxxx000. In tal senso, la Corte ha ritenuto che una disposizione nazionale la quale
212 Angelidaki, cit., punto 159; Xxxxxxxx, cit., punto 95; Xxxxxxx e Sardino, cit., punto 52;
Xxxxxxxx, cit., punto 37; Xxxxxxxxxx, cit., punto 126.
213 Xxxxxxxxxx, cit., punto 160; Xxxxxxxx, cit., punto 102; Xxxxxxx e Sardino, cit., punto 53;
Xxxxxxxx, cit., punto 38; Xxxxxxxxxx, cit., punto 127.
214 Angelidaki, cit., punto 161; Xxxxxxxx, cit., punto 105; Xxxxxxx e Sardino, cit., punto 49;
Xxxxxxxx, cit., punto 34; Xxxxxxxxxx, cit., punto 123.
215 Xxxxxxxxxx, cit., punto 155; Xxxxxxxx, cit., punto 82; Xxxxxxxxxx, cit., punto 105.
consideri successivi i soli contratti di lavoro a tempo determinato separati da un lasso temporale inferiore o pari a 20 giorni lavorativi deve essere considerata tale da compromettere l'obiettivo, la finalità nonché l'effettività dell'accordo quadro. Infatti, una definizione così rigida e restrittiva del carattere successivo di vari contratti di lavoro che si susseguono consentirebbe di assumere lavoratori in modo precario per anni, poiché, nella pratica, il lavoratore non avrebbe nella maggior parte dei casi altra scelta che accettare interruzioni dell'ordine di 20 giorni lavorativi nel contesto di una serie di contratti con il suo datore di lavoro216. Di contro, la Corte ha altresì dichiarato che la normativa oggetto dei procedimenti principali, la quale riconosce come aventi carattere «successivo» soltanto i contratti di lavoro a tempo determinato separati da un lasso temporale inferiore ai tre mesi, non appare di per sé altrettanto rigida e restrittiva. Invero, detto lasso di tempo può generalmente essere considerato sufficiente ad interrompere ogni rapporto di lavoro esistente, e, di conseguenza, a comportare che ogni eventuale contratto ulteriormente sottoscritto non sia considerato come successivo. Tuttavia, spetta alle autorità e ai giudici nazionali, competenti per l'applicazione delle misure di trasposizione della direttiva 1999/70 e dell'accordo quadro, e, quindi, chiamati a pronunciarsi sulla qualificazione dei contratti di lavoro a tempo determinato successivi, esaminare di volta in volta tutte le circostanze del caso concreto, prendendo in considerazione, segnatamente, il numero di tali contratti successivi stipulati con lo stesso soggetto oppure per lo svolgimento di uno stesso lavoro, al fine di escludere che i rapporti di lavoro a tempo determinato siano utilizzati in modo abusivo dai datori di xxxxxx000.
3. Una peculiare forma di “abuso della giurisprudenza”: il contenzioso Poste Italiane
Come è noto, il datore di lavoro che più di ogni altro ha fatto uso (abuso) dello strumento contrattuale in questione è l’Ente Poste Italiane S.p.A.
L’origine di tale fenomeno è da ricondurre al processo di privatizzazione dell’Ente, ad opera del d.l. n. 487/1993 (conv. con modificazioni nella l. n.
216 Xxxxxxxxxx, cit., punto 156; Xxxxxxxx, cit., punti 84 e 85; Xxxxxxxxxx, cit., punti 107 e 108.
217 Xxxxxxxxxx, cit., punto 157; Xxxxxxxxxx, cit., punti 115-117.
71/1994) che ha trasformato l'Amministrazione delle Poste e Telecomunicazioni in Ente Pubblico economico, sotto la denominazione di Ente Poste Italiane.
Ai sensi dell'art. 6, comma sesto, d.l. n. 487/1993, i rapporti di lavoro con l'Ente Poste Italiane dovevano ritenersi privatizzati con un regime transitorio sino alla stipulazione del nuovo contratto collettivo. Quest’ultimo è stato stipulato il 26 novembre 1994. Pertanto, quanto meno a partire da tale data, i rapporti di lavoro con l’Ente Poste si sarebbero ritenuti sottoposti al regime privatistico. Le assunzioni a termine trovavano, quindi, diretta regolamentazione nella contrattazione collettiva, alla quale, ai sensi dell’art. 23, l. n. 56/1987, era stata riservata la possibilità di prevedere ipotesi ulteriori rispetto a quelle tassativamente indicate dalla l. n. 230/1962. Nella specie, le ipotesi previste dall’art. 8, comma 2, Ccnl Poste del 26 novembre 1994 riguardavano: «necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno-settembre»; «incrementi di attività in dipendenza di eventi eccezionali o esigenze produttive particolari e di carattere temporaneo che non sia possibile soddisfare con il normale organico»; nonché «punte di più intensa attività stagionale». Il successivo accordo del 25 settembre 1997 ha aggiunto il riferimento alle «esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’Ente ed in ragione della graduale introduzione di processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse». Il Ccnl del 11 gennaio 2001 ha poi previsto, all’art. 25 l’ipotesi di
«sostituzione di lavoratori partecipanti a corsi di riqualificazione professionale» ed ha reso attuale la clausola introdotta con l’accordo del 25 settembre 1997.
Sfruttando tali “causali”, sono stati stipulati migliaia di contratti a termine, tutti ritenuti illegittimi e trasformati in contratti a tempo indeterminato, ai sensi della l. n. 230/1962. Tale situazione, insostenibile per le finanze dell’Ente, ha portato al primo intervento legislativo c.d. «salva-Poste»218. Si fa riferimento alla disposizione di cui all’art. 9, comma 21, secondo capoverso, d.l. n. 608/1996: «Le assunzioni di personale con contratto di lavoro a tempo determinato effettuate dall'ente "Poste italiane", a decorrere dalla data della sua
218 Cfr. MISCIONE M., Il diritto del lavoro dopo il d.l. n. 112 del 2008 su sviluppo economico e semplificazione, in Lav. giur., 2008, 976.
costituzione e comunque non oltre il 30 giugno 1997, non possono dar luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato e decadono allo scadere del termine finale di ciascun contratto». Si trattava, in altri termini, di una «deroga transitoria» ma «anche retroattiva che ha annullato gli effetti di numerose sentenze di condanna alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro»219.
Tale norma, com’era prevedibile, ha sollevato numerose questioni di legittimità costituzionale, tutte respinte dal giudice delle leggi, con pronuncia n. 419/2000220. Secondo la Corte, «L'assoluta eccezionalità di tale situazione, a prescindere da qualsiasi valutazione in ordine alle eventuali responsabilità degli organi dell'ente, consente di individuare agevolmente la ratio della norma denunciata nella esigenza, avvertita come prioritaria, di salvaguardare l'interesse generale al buon esito del processo di privatizzazione del servizio postale. Il legislatore - come emerge con chiarezza anche dai lavori preparatori
- ha cioè ritenuto che l'imprevista assunzione coattiva con rapporto a tempo indeterminato di migliaia di lavoratori potesse gravemente ed irreparabilmente pregiudicare il risanamento finanziario dell'ente, costituente ineludibile presupposto per la sua trasformazione in una società per azioni, destinata ad operare sul mercato in regime di parziale concorrenza e con criteri di economicità». Inoltre, «l'attribuzione di efficacia retroattiva alla norma impugnata appare giustificata dalla esigenza di porre rimedio ad una situazione del tutto eccezionale e tale da compromettere irreparabilmente l'equilibrio finanziario e lo stesso processo di privatizzazione dell'ente».
Con la nuova disciplina di cui all’art. 1, d.lgs. n. 368/2001, L’Ente Poste ha continuato a reiterare un numero sempre maggiore di contratti a termine illegittimi, in tal caso generati dall’assenza di specificità delle causali adottate221 (il caso ricorrente era il ricorso alle “ragioni di carattere sostitutivo” senza indicare il nominativo del lavoratore da sostituire)222.
219 GENTILE G., Il contratto a tempo determinato nel contenzioso Poste Italiane, in XXXXXXX G. (a cura di), Il contratto a tempo determinato. Aggiornato al d.l. n. 112/2008 conv. in legge n. 133/2008, Torino, 2008, 235 ss.
220 Xxxxx Xxxx., 00 ottobre 2000, n. 419, in Riv. giur. lav., 2001, II, 33.
221 Per una casistica in tal senso, cfr. DI XXXXXXX X., Riforma del contratto di lavoro a termine nel privato e nel pubblico impiego, Napoli, 2010, 82 ss.
000 Xxx. XX XXXXXXX X., Xx xxxxxxxx "Houdini'" della Corte Costituzionale sul contratto a tempo determinato, in Lav. giur., 2009, X, 1006 ss.
Dall’inarrestabile susseguirsi di sentenze favorevoli per i lavoratori, volte al riconoscimento della trasformazione del contratto, è derivato il secondo intervento «salva-Poste», ossia l’art. 1, comma 558, l. n. 266/2005 (legge finanziaria 2006), che ha introdotto il comma 1-bis, art. 2, d.lgs. n. 368/2001, per cui è consentita l’apposizione del termine al contratto di lavoro «quando l'assunzione sia effettuata da imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al 15 per cento dell'organico aziendale, riferito al 1° gennaio dell'anno cui le assunzioni si riferiscono. Le organizzazioni sindacali provinciali di categoria ricevono comunicazione delle richieste di assunzione da parte delle aziende di cui al presente comma». In sostanza, tale disposizione ha introdotto la possibilità, per l’Ente Poste, di stipulare contratti a termine privi della causale prevista dall’art. 1, d.lgs. n. 368/2001. Anche in questo caso, la questione di legittimità costituzionale sollevata è stata risolta in senso favorevole per il datore di lavoro «speciale».
Con sentenza n. 214/2009, la Corte ha infatti ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Roma con ordinanza del 26 febbraio 2008223, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 101, 102 e 104 Cost., sul presupposto per cui non sarebbe ravvisabile alcuna disparità di trattamento rispetto ai lavoratori di altri settori. La norma censurata costituisce, secondo il giudizio della Corte, la tipizzazione legislativa di un’ipotesi di valida apposizione del termine, basata su una valutazione, operata una volta per tutte in via generale ed astratta, delle esigenze delle imprese concessionarie di servizi postali di disporre di una quota sicura di organico flessibile, funzionale all’onere di svolgimento del c.d. servizio universale (raccolta, trasporto e distribuzione della corrispondenza), che l’Italia è tenuta a rispettare in esecuzione degli obblighi di fonte comunitaria derivanti dalla direttiva 1997/67/CE. Inoltre, la norma non esclude affatto il controllo giudiziale circa l’effettiva giustificazione del contratto a termine: «la norma censurata si limita a richiedere, per la stipula di contratti a termine da parte delle imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste, requisiti diversi rispetto a quelli
223 Trib. Roma, 26 febbraio 2008, in Riv. critica dir. lav., 2008, III, 916.
valevoli in generale (…). Pertanto il giudice ben può esercitare il proprio potere giurisdizionale al fine di verificare la ricorrenza in concreto di tutti gli elementi di tale dettagliata fattispecie legale».
Con tale pronuncia la Corte ha evidentemente deluso le aspettative di chi, fra l’altro, aveva ravvisato nella clausola finanziaria un «abusivo sfruttamento di posizione dominante», grazie alla quale l’impresa che la detiene (Poste Italiane) sarebbe addirittura in grado di ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato ed avrebbe la possibilità di tenere comportamenti indipendenti nei confronti delle imprese concorrenti224.
4. L’interpretazione della giurisprudenza costituzionale e comunitaria in ordine al divieto di conversione del contratto a tempo determinato nel lavoro pubblico
Come si è visto225, la regolamentazione del contratto a tempo determinato nel pubblico impiego si colloca in una dimensione diversa rispetto alla disciplina generale dettata dal d.lgs. n. 368 del 2001, tanto da indurre la dottrina a qualificarlo (e definirlo) in termini di «specialità».
La specialità del rapporto, in particolare, si giustifica sulla base del principio che sancisce il divieto di conversione dei rapporti temporanei alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni in rapporti a tempo indeterminato, contenuto attualmente nel quinto comma dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001. Tale disposizione è stata oggetto di discussione sia dinanzi alla Corte Costituzionale per contrasto con gli art. 3 (in merito alla disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e privati) e 97 Cost. (in quanto la possibilità di stabilizzazione del rapporto renderebbe più efficienti i dipendenti pubblici che prestano la loro opera in condizioni di precariato), sia dinanzi alla Corte di Giustizia delle Comunità europee in relazione ai profili di incompatibilità con la direttiva 1999/70/CE.
224 cfr. Trib. Foggia, 11 aprile 2007, in Arg. dir. lav., 2008, III, 848 ss., con nota di X. XXXXXXXX,
Contratto a tempo determinato e abuso di posizione dominante.
225 Cap. 1, par. 5.
La Corte Costituzionale nella sentenza 27 marzo 2003, n. 89226, seguendo un percorso argomentativo in linea con due sue precedenti pronunzie227, ha respinto le eccezioni di incostituzionalità eccepite dal giudice remittente, rilevando la «non omogeneità» del lavoro pubblico rispetto a quello privato in relazione al profilo genetico del rapporto, governato dal principio dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’art. 97, terzo comma della Costituzione e del tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato. Il Giudice delle leggi ha inoltre escluso la presunta violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione in virtù della considerazione secondo cui è l’art. 97, terzo comma, Cost. che «individua appunto nel concorso lo strumento di selezione del personale in linea di principio più idoneo a garantire l’imparzialità e l’efficienza della pubblica amministrazione».
La sentenza sopra esaminata, proprio per aver fatto esclusivo riferimento al concorso pubblico, è stata oggetto di riflessioni critiche, tali da indurre la dottrina e la giurisprudenza ad individuare ulteriori ragioni da utilizzare a giustificazione della «non omogeneità» del lavoro pubblico rispetto a quello privato. Tali ulteriori ragioni, riconducibili al principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione, sono state ravvisate nella necessità di controllo, contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica, rispetto delle previsioni di bilancio e nella razionale ed efficiente programmazione del fabbisogno di personale e di rispetto della pianta organica in relazione alla quale tali bisogni sono stati definiti228.
Il problema della compatibilità del divieto di conversione con la clausola 5 dell’accordo quadro in materia di contratto a termine è stato affrontato dalla Corte di Giustizia CE in ben sette significative pronunce: Xxxxxxxx, Xxxxxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxxxxxx e Xxxxxx, relative alla normativa greca; Marrosu e Sardino e Xxxxxxxx, emesse nei confronti dell’Italia, in riferimento ad un’azienda ospedaliera di Genova; Affatato, vertente sulla domanda di pronuncia pregiudiziale di interpretazione autentica delle clausole 2, 4 e 5 dell’accordo
226 Xxxxx Xxxx., 00 marzo 2003, n. 89, in Foro it. 2003, I, 2258.
227 xxx. Xxxxx Xxxx. 0 xxxxx 0000, x. 00, xx Xxxx xx., 1986, I, 1769; Xxxxx Xxxx. 00 xxxxxx 0000,
x. 000, xx Xxxx xx., 1996, I, 2616.
228 Cfr. XXXXXXXXXX X., Problematiche applicative del contratto a tempo determinato nel lavoro pubblico, in XXXXXXX G. (a cura di), Il contratto a tempo determinato. Aggiornato al d.l. n. 112/2008 conv. in legge n. 133/2008, Torino, 2008, 87 ss.
quadro, proposta dal Tribunale di Rossano nell’ambito di una controversia insorta tra il Sig. Affatato ed il suo datore di lavoro, l’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza.
In tali circostanze la Corte ha precisato che la specifica finalità della direttiva consiste nel prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato e non implica necessariamente che la successione illegittima dei contratti a termine debba essere sanzionata con la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato, né impedisce al legislatore nazionale di differenziare le sanzioni a seconda che il datore di lavoro sia una pubblica amministrazione o un privato229. Tali misure devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro, oltre a rispettare i principi di equivalenza ed effettività, nel senso che non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna, né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento comunitario230. Spetta poi al giudice del rinvio valutare se ed in quale misura la tutela risarcitoria costituisca strumento adeguato a prevenire, e se del caso a sanzionare, l’utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato231, nonché valutare in che misura le norme di diritto interno, dirette a sanzionare il ricorso abusivo a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi in successione dalla p.a., rispettino i principi di effettività e di equivalenza232.
229 Xxxxxxxx, cit., punto 91; Xxxxxxx e Xxxxxxx, cit., punto 47; Xxxxxxxxxx, cit., punto 121;
Xxxxxxxxxx, cit., punti 145 e 183; Xxxxxx, cit.,punto 85; Affatato, cit., punto 40.
230 Xxxxxxxx, cit., punti 94 e 95; Xxxxxxx e Xxxxxxx, cit., punti 51 e 52; Xxxxxxxx, cit., punti 36 e 37; Xxxxxxxxxx, cit., punti 125 e 126; Xxxxxxxxxx, cit., punti 158 e 159; Xxxxxx, cit., punti 64 e
65; Affatato, cit., punti 45 e 46.
231 Vassallo, cit., punto 41; Xxxxxxx e Xxxxxxx, cit., punto 56, Xxxxxxxxxx, cit., punto 135;
Xxxxxxxxxx, cit., punto 188.
232 Affatato, cit., punto 60.
4.1. Il ruolo dei giudici nazionali nella determinazione delle misure sanzionatorie alternative per una tutela risarcitoria effettiva, adeguata e dissuasiva
In riferimento all’individuazione delle misure «adeguate, proporzionate e sufficientemente effettive e dissuasive» vale la pena soffermare l’attenzione sui criteri individuati dai giudici italiani233. Già con una prima pronuncia del 14 maggio 2007 (Xxxxxxx e Sardino), il Tribunale di Genova ha riconosciuto la sussistenza delle suddette misure nel «risarcimento commisurato al valore minimo del danno provocato dall'intimazione di licenziamento invalido ed all'importo delle quindici mensilità sostitutive della reintegra (suscettibile di riduzione in caso di prova dell'aliunde perceptum)», risultando l’art. 18, nella specie, commi 4 e 5, legge 20 maggio 1970, n. 300, quale unico istituto attraverso il quale il legislatore ha monetizzato il valore del posto di lavoro assistito dalla c.d. stabilità reale. Tale criterio è stato riaffermato dallo stesso organo giudicante, con sentenza del 25 marzo 2011, n. 520. Altri giudici sono giunti a conclusioni del tutto diverse. A titolo esemplificativo, si pensi al Tribunale di Foggia, il quale ha fatto espresso rinvio alla categoria dei danni derivanti da illecito extracontrattuale e risarcibili entro i limiti del danno emergente e del lucro cessante, o, ancora, al Tribunale di Rossano, che ha inteso riferirsi alla responsabilità contrattuale del datore di lavoro pubblico, prevedendo di conseguenza l’obbligo da parte della pubblica amministrazione di risarcire la perdita del lavoro, quantificabile sulla base del tempo medio necessario per ricercare una nuova occupazione stabile, tenuto conto della zona geografica, dell’età dei ricorrenti, del sesso e del titolo di studio.
La soluzione al problema è stata più recentemente fornita, in maniera radicale (rectius, paradossale), dai Tribunali di Siena234, Livorno235e Trani236, che hanno ritenuto ammissibile la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato anche nel settore pubblico. In particolare,
233 In particolare, cfr. Trib. Genova, 14 maggio 2007, in Foro it., 2007, 7-8, I, 2248; Trib. Foggia, 6 novembre 2007, in Riv. it. dir. lav., 2007, II, 906; Trib. Rossano, 13 giugno 2007, in Riv. crit. dir. lav., 2008, II, 736.
234 Trib. Siena, 27 settembre 2010, in Lav. pubb. amm., 2010, V, 869.
235 Trib. Livorno, 25 gennaio 2011, in Redaz. Xxxxxxx, 2011.
236 Trib. Trani, 18 luglio 2011, in Redaz. Xxxxxxx, 2011.
secondo il giudice xxxxxx, poiché la giurisprudenza interna successiva alle pronunce comunitarie avrebbe messo il luce l’inadeguatezza della sanzione meramente risarcitoria, l’unica misura effettivamente adeguata resterebbe la conversione del contratto, anche nel pubblico impiego (oltre al risarcimento del danno subito per l’illegittima apposizione del termine). La ratio di tale interpretazione, secondo lo stesso giudicante, sarebbe quella di «rompere quell’argine di rispetto di un privilegio del quale sono depositarie le pubbliche amministrazioni, consistente quasi in una licenza di precarizzare».
L’intento, più o meno condivisibile, di fornire una tutela incondizionata del lavoratore assunto a termine, non può tuttavia realizzarsi attraverso una netta ed arbitraria forzatura del dato normativo. Pare dunque improbabile che tali affrettate interpretazioni possano trovare accoglimento, almeno finché una disposizione di legge non preveda la possibilità, anche nel settore pubblico, di convertire il contratto a termine illegittimo in contratto a tempo indeterminato, così espressamente derogando alla regola dell’accesso al pubblico impiego mediante concorso, di cui all’art. 97 della Costituzione. Fino ad allora, ogni argomentazione difforme a tali principi è inevitabilmente destinata a crollare.
D’altro canto, non sembra potersi ritenere esaustiva la giustificazione, fornita dallo stesso giudice xxxxxxx, per cui la regola del concorso pubblico sarebbe stata comunque rispettata considerato che l’insegnate assunto a termine aveva già superato una procedura selettiva (per soli titoli) al momento del suo inserimento nella graduatoria, poi utilizzata dall’amministrazione per individuare il docente al quale assegnare l’incarico di supplenza. L’errore (evidente) consiste nell’equiparare il concorso pubblico ad una procedura volta al mero accertamento del possesso dei titoli da parte degli aspiranti docenti: solo la prima, infatti, dà titolo a ricoprire in modo stabile e definitivo un posto di ruolo, nel rispetto dei principi di buon andamento ed imparzialità, ma anche di contenimento della spesa pubblica237. Di giudizio diametralmente opposto sembra essere altra parte della dottrina238 per cui la soluzione del giudice senese risulterebbe «assolutamente condivisibile e niente affatto straordinaria», poiché
237 XXXXXXXX X., La stabilizzazione dei precari della scuola pubblica ad opera del giudice del lavoro: una soluzione che non convince, in Riv. it. dir. lav., 2011, II, 555 ss.
238 DE XXXXXXX X., L’insostenibile leggerezza della conversione del contratto a termine nel lavoro pubblico, in Lav. giur., 2010, XI, 1107 ss.
in linea con l’ormai consolidata giurisprudenza comunitaria che legittima la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato anche nel settore pubblico in assenza di misure alternative effettive all’interno dell’ordinamento giuridico dello Stato membro.
4.2. Segue: la speciale casistica dei c.d. precari della scuola
Chi, più di ogni altro, ha avvertito il peso delle difficoltà di individuare un apparato sanzionatorio certo, adeguato ed effettivo, in caso di uso abusivo di contratti a termine da parte del datore di lavoro pubblico è, senza dubbio, il personale scolastico (di ruolo e non di ruolo, sia docente che amministrativo, tecnico ed ausiliario). Al fine di comprendere la portata delle problematiche connesse alle categorie ivi indicate, si ritiene preliminarmente opportuno individuare le origini di tale precariato.
Come è noto, il rapporto di lavoro del personale scolastico trova regolamentazione all’interno del Testo Unico sulle disposizioni legislative in materia di istruzione (d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297). Nella specie, l’art. 399, rubricato “Accesso ai ruoli”, dispone, al comma 1, che «L'accesso ai ruoli del personale docente della scuola dell'infanzia, primaria e secondaria, ivi compresi i licei artistici e gli istituti d'arte, ha luogo, per il 50 per cento dei posti a tal fine annualmente assegnabili, mediante concorsi per titoli ed esami e, per il restante 50 per cento, attingendo alle graduatorie permanenti di cui all'articolo 401». Ora, nelle suddette graduatorie si intendono ricompresi anche i docenti risultati idonei al concorso pubblico per titoli ed esami, ma che non sono riusciti a ricoprire un posto di ruolo ed i docenti che hanno frequentato le c.d. SSIS (Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario). Da qui vengono attinti i docenti per il conferimento delle supplenze annuali e delle supplenze temporanee e, man mano che si verifica l’effettiva disponibilità di cattedre libere, i docenti non ancora di ruolo comunque inseriti nelle graduatorie sono destinati ad essere assunti in pianta stabile. In sostanza, si distinguono tre tipologie di precari: quelli ancora in attesa di essere nominati in ruolo dopo aver vinto un concorso (l’ultimo dei quali è stato bandito nel 1999); quelli che hanno frequentato le scuole di specializzazione (istituite nel 1998) o che hanno svolto dei corsi speciali abilitanti, che sono inseriti in graduatorie provinciali; quelli
che lavorano solo su supplenze d’istituto (maternità, malattie, ecc.) e su “graduatorie d’istituto” e sono in attesa di poter ottenere l’abilitazione e/o potersi inserire nelle graduatorie provinciali. Si tratta, in ogni caso, di una tipologia di flessibilità atipica perché destinata per legge a scomparire e trasformarsi in un’attività lavorativa stabile239.
Tale procedura, tuttavia, risulta ad oggi bloccata: l’ultimo concorso ordinario è stato indetto nel 1999 e l’accesso alle SSIS è stato sospeso a tempo indeterminato ad opera della l. n. 133/2008; ad aggravare la situazione è poi intervenuta la manovra finanziaria 2011, nella parte in cui ha previsto uno slittamento dell’età pensionistica, così differendo ulteriormente le tempistiche di nuove assunzioni in ruolo. Di guisa che, in attesa di definitiva sistemazione, i docenti non di ruolo vengono reiteratamente utilizzati con incarichi a tempo determinato.
Il risultato, in termini quantitativi, di tale impasse è che il personale docente precario, rilevato nell’anno accademico 2010/2011, è pari a 115.753 unità su un totale di 778.736. In altri termini, è del 14,9% la percentuale di docenti a tempo determinato sul totale degli insegnanti nell'anno scolastico appena trascorso. Si tratta di un dato senz’altro in calo rispetto a quello riscontrato negli anni precedenti (17,9% nel 2006-2007, 16,8% nel 2007-2008, 15,7% nel 2008-2009, 14,7%/ nel 2009-2010), che tuttavia mette in luce la portata del problema e la necessità di una soluzione sufficientemente effettiva e dissuasiva.
Ora, va precisato che il divieto di conversione in riferimento al settore scolastico già sancito, in generale, dall’art. 36, comma 5, d.lgs., 165/2001, e, nello specifico, all’art. 4, comma 14-bis, l. 124/1999 (che prevede l'impossibilità di trasformare i contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze in contratti a tempo indeterminato ed esclude che i contratti a tempo determinato consentano di maturare scatti di anzianità), ha trovato un’ulteriore conferma all’interno del comma 4-bis, art. 10, d.lgs. 368/2001, aggiunto dall'articolo 9, comma 18, d.l. n. 70/2011, che esclude espressamente dall’ambito di applicazione del d.lgs. n. 368/2001 «i contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze del personale docente
239 XXXXXXXX L., cit.
ed ATA, considerata la necessità di garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo anche in caso di assenza temporanea del personale docente ed ATA con rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed anche determinato» ed ha specificato che «in ogni caso non si applica l'articolo 5, comma 4-bis, del presente decreto» (id est, la trasformazione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo interminato nel caso di superamento della soglia limite di 36 mesi, introdotta dalla legge n. 247 del 2007). In tale quadro si inserisce la modifica introdotta ad opera del d.l. n. 134/2009, che ha aggiunto il seguente comma 14-bis all’art. 4, l. n. 124/1999: «I contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze previste dai commi 1, 2 e 3, in quanto necessari per garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo, possono trasformarsi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato solo nel caso di immissione in ruolo, ai sensi delle disposizioni vigenti e sulla base delle graduatorie previste dalla presente legge e dall'articolo 1, comma 605, lettera c), della legge 27 dicembre 2006, n.296, e successive modificazioni».
In sostanza, dal combinato disposto degli interventi normativi del 2009 e del 2011, si evince una conferma del principio per cui i contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento di supplenze previste dalla legge n. 124 del 1999 possono trasformarsi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato solo nel caso di immissione in ruolo, secondo le disposizioni di stabilizzazione previste dalla legge n. 296/2006240, che esulano dalla applicazione del d.lgs. n. 368/2001 e, in particolare, del comma 4-bis, art. 5.
240 Il comma 519, art. 1, l. 296/2006 ha infatti previsto, per l’anno 2007, la «stabilizzazione a domanda del personale non dirigenziale in servizio a tempo determinato da almeno tre anni, anche non continuativi, o che consegua tale requisito in virtù di contratti stipulati anteriormente alla data del 29 settembre 2006 o che sia stato in servizio per almeno tre anni, anche non continuativi, nel quinquennio anteriore alla data di entrata in vigore della presente legge, che ne faccia istanza, purché sia stato assunto mediante procedure selettive di natura concorsuale o previste da norme di legge». Per un approfondimento, cfr. XXXXX X., La flessibilità del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in XXXXXXXX M. G. - XXXXX X. (a cura di), La flessibilità del lavoro: un’analisi funzionale dei nuovi strumenti contrattuali, Bari, 2009, 213; MISCIONE M., La stabilizzazione del precariato nella pubblica amministrazione: un percorso difficile, in Dir. prat. lav., 2008, 33 ss.; PIZZOFERRATO A., La stabilizzazione dei posti di lavoro nella finanziaria 2007, in Lav. giur., 2007, 221 ss.; PANTANO F., La c.d. «stabilizzazione» dei lavoratori non a termine nella Finanziaria 2007 ed il «buon andamento» della pubblica amministrazione, in Lav. pubb. amm., 2007, 3-4, 635 ss.
A questo punto si pone il problema di individuare, anche in riferimento a tale specifica casistica, un’adeguata misura sanzionatoria alternativa, in linea con i principi comunitari più sopra illustrati.
In tal senso, se si confrontano le diverse soluzioni proposte dai giudici di merito emerge come, in taluni casi, siano stati previsti risarcimenti “generosi”, mentre, in altri, i criteri utilizzati indurrebbero, piuttosto, a dubitare dell’effettività della sanzione comminata al datore di lavoro pubblico.
Nel primo senso, fra le innumerevoli, si segnalano le seguenti pronunce241: Tribunale di Genova, 25 marzo 2011, che ha riconosciuto un maxirisarcimento di euro 500.000,00 a quindici insegnanti con almeno tre contratti a termine annuali consecutivi; Tribunale di Alba, 28 marzo 2011, che ha condannato il MIUR a risarcire, a favore di un gruppo di sei “precari storici”, la complessiva somma di euro 66.206,96; Tribunale di Padova, 9 maggio 2011, che ha condannato l’amministrazione convenuta a risarcire a ciascun ricorrente il danno derivante dall’utilizzazione abusiva di contratti di lavoro a tempo determinato successivi nella misura di venti mensilità della retribuzione globale di fatto con gli interessi di legge (si stima un risarcimento complessivo per i ventotto ricorrenti ivi coinvolti superiore al milione di euro); Tribunale di Padova, 22 luglio 2011, n. 18, che ha dichiarato, da un lato, il diritto dei ricorrenti al riconoscimento ai fini giuridici ed economici dell’anzianità maturata in tutti i servizi non di ruolo prestati con la medesima progressione professionale riconosciuta dal CCNL Comparto scuola al personale docente assunto a tempo indeterminato e, dall’altro, ha condannato l’Amministrazione a collocare ciascuno dei ricorrenti al livello stipendiale corrispondente all’anzianità di servizio maturata; da ultimo, Tribunale di Bologna, 7 dicembre 2011, che ha dichiarato l’illegittimità del comportamento del Ministero dell’Istruzione nel discriminare il lavoro a tempo determinato, non consentendo ai docenti né la regolare progressione stipendiale né, nella maggior parte dei casi, la copertura economica dei mesi di luglio e agosto di ciascun anno. Il giudice bolognese ha quindi condannato il Ministero a risarcire il danno subito da ciascuno dei trentuno ricorrenti, quantificandolo in 15 mensilità della retribuzione globale di fatto, con interessi e rivalutazione dalla data della sentenza; nonché al
241 Per una rassegna delle pronunce intervenute in materia, cfr. xxxx://xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx.
risarcimento delle differenze retributive tra i contratti a termine e quelli a tempo indeterminato, nei limiti della prescrizione quinquennale.
Di fianco alla casistica testé indicata si è formato un diverso orientamento che ha fortemente ridimensionato la misura del risarcimento de quo. Fra le altre, si fa riferimento al Tribunale di Bologna, 22.09.2011242, e al Tribunale di Forlì243, 29.09.2011, che hanno riconosciuto il diritto al risarcimento del danno da illegittima reiterazione dei contratti a termine nella misura di tre mensilità.
In particolare, è interessante dar conto del ragionamento seguito dal Tribunale di Bologna per la giustificazione della suddetta misura “minima” risarcitoria. Il giudice ha fondato le proprie argomentazioni sulla base di un’interpretazione dell’art. 9, comma 18, d.l. n. 70/2011, alla luce del testo e dello scopo della direttiva, ritenendo, in tal senso, che la ratio legis fosse quella di vietare, nel caso del superamento del termine di 36 mesi, la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, pur restando operante, anche in riferimento al personale scolastico, il limite massimo dei 36 mesi, con la conseguenza che «la successione in se stessa, se eccede i 36 mesi, deve essere considerata abusiva ai sensi della Direttiva 1999/70/CE».
In altri termini, secondo il giudice de quo, il risarcimento «va quantificato in una cifra corrispondente ai maggiori importi che sarebbero stati loro erogati a seguito della immissione in ruolo, con la precisazione che il momento determinante per poter considerare illecita la condotta dell’amministrazione va individuato nel superamento nel limite di 36 mesi, decorso il quale, secondo la legislazione ordinaria – non applicabile nel settore della scuola – il rapporto si trasforma ope legis da tempo determinato a tempo indeterminato».
Quanto poi ai criteri per la determinazione della misura della sanzione, il giudice ha osservato come quelli in astratto applicabili potrebbero essere due: da un lato, l’art. 18, l. n. 300/1970, nella parte in cui consente al lavoratore di chiedere, in sostituzione della reintegrazione, il pagamento di un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto; dall’altro, l’indennità forfetizzata di cui all’art. 32, comma 5, l. n. 183/2010. Quanto al primo, ha ritenuto sussistenti seri e fondati argomenti per escluderne l’applicazione in via analogica, sul presupposto per cui tale indennità sostitutiva viene concessa
242 Inedita a quanto consta, est. Xxxx. Xxxxxxx.
243 Inedita a quanto consta, est. Dott.ssa Xxxxxxx.
quando il giudice, nel dichiarare l’illegittimità del licenziamento, ordini la ricostituzione del rapporto di lavoro, mentre, nel caso in esame, «questo effetto non solo non è previsto ma è pure vietato dalla legge». Il danno, peraltro, «non deve essere individuato nella perdita di un posto di lavoro (…) bensì negli effetti pregiudizievoli derivanti dall’abusiva successione di una serie di contratti a tempo determinato; danno questo che il legislatore nazionale ha, con il recente art. 32, comma 5, l. n. 183 del 2010, forfettizzato tra un minimo ed un massimo». In tal senso dovrebbe, piuttosto, secondo il giudice, ritenersi efficacemente applicabile, in via analogica, la disposizione di cui al Collegato lavoro, commisurando l’entità del risarcimento del danno «alla durata del periodo complessivo di precariato eccedente i 36 mesi».
Sulla base di tale ricostruzione, il giudice, da un lato, è giunto a negare qualsivoglia forma risarcitoria a ventuno dei ventidue ricorrenti per il fatto che gli stessi non fossero stati impiegati, per oltre trentasei mesi, con contratti a termine in successione; dall’altro ha riconosciuto all’unica ricorrente per cui risultava provato un rapporto superiore ai 36 mesi (nella specie, quattro anni scolastici) un somma corrispondente a tre mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre interessi e rivalutazione decorrenti dalla data del superamento del trentaseiesimo mese di impiego con contratto a tempo determinato, nonché una somma corrispondente all’importo degli aumenti retributivi derivanti all’anzianità di servizio che sarebbero spettati a tale ricorrente se assunta a tempo indeterminato nei limiti della prescrizione quinquennale.
Ora, la soluzione ivi proposta non sembra condivisibile per il seguente ordine di motivi. In primo luogo, si basa su una netta forzatura del dato normativo, laddove ha ritenuto che, con l’inciso di cui all’art. 10, comma 4-bis, d.lgs. 368/2001 («In ogni caso non si applica l' articolo 5, comma 4-bis, del presente decreto»), il legislatore intendesse riferirsi esclusivamente all’ipotesi di conversione del contratto e non anche all’esclusione, ai contratti a termine con il personale scolastico, della regola della durata massima dei 36 mesi.
Inoltre, non sembra condivisibile, in ordine alla quantificazione del danno, l’applicazione in via analogica dell’art. 32, comma 5, legge 183/2010. L’indennità forfetizzata ivi prevista, infatti, è concepita come aggiuntiva rispetto alla conversione del contratto. Come ha chiarito la Corte Costituzionale con la pronuncia n. 303/2011, la stessa «va chiaramente ad integrare la garanzia della
conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato». Una siffatta applicazione, volta ad utilizzare il risarcimento forfetizzato prescindendo dalla possibilità di convertire il contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, rischierebbe di svuotare la portata della norma, rendendola, stavolta sì, costituzionalmente illegittima.
In ogni caso, resta da chiedersi se una misura risarcitoria “minima”, id est di tre mensilità, possa ritenersi conforme ai principi elaborati dalla giurisprudenza comunitaria. In altri termini, pare lecito domandarsi, da un lato, quale sia il “limite” della “effettività”, dall’altro, quali siano i confini (senz’altro incerti) dell’ambito di intervento del giudice nella determinazione del quantum di tali tutele. Il rischio, peraltro, è quello di creare situazioni assolutamente difformi a fronte di pretese del tutto simili.