Turismo e Lavoro
FEDERTURISMO CONFINDUSTRIA
Turismo e Lavoro
Numero 1/2013
Il Contratto a Tempo Determinato tra Riforme e Correttivi
Modifiche al D.lgs.n. 368 del 2001a seguito dell’entrata in vigore della Riforma Fornero (Legge n. 92/2012) e successive modifiche ed integrazioni e del Decreto Legge n. 76 del 2013 come modificato dalla Legge di Conversione n.99 del 2013.
Il testo è integrato anche con la Legge Comunitaria n.97 del 2013 e con gli ultimi chiarimenti forniti dal Ministero del Lavoro con la circolare n. 35 del 2013.
A cura di Xxxxxx Xxxx
(Relazioni industriali ed Affari Sociali di Federturismo Confindustria)
Il Contratto a Tempo Determinato tra Riforme e Correttivi
Le modifiche intervenute al Decreto Legislativo n. 368/2001
A distanza di più di un anno dall’entrata in vigore della riforma Fornero, riforma attesa ma che non ha apportato i significativi cambiamenti auspicati dalle imprese e dai lavoratori, il Governo interviene nuovamente in materia di Lavoro apportando, tramite il Decreto legge n. 76 del 2013, successivamente convertito con modifiche dalla legge n. 99 del 2013, delle integrazioni e dei chiarimenti ad alcuni istituti già precedentemente emendati dalla legge n. 92/2012.
Il Contratto a tempo determinato è stato sin dall’inizio al centro del dibattito dell’allora governo “tecnico”, che studiava le varie modalità di intervento, cercando di sfruttare al massimo la sua flessibilità, e ancora oggi rappresenta forse il punto di svolta per il nuovo Governo del “fare”.
Come era prevedibile, all’interno di un mercato del lavoro statico e di fronte ad una crisi economica che ha colpito indistintamente tutti i settori industriali, riducendo drasticamente le marginalità delle aziende, la “buona” flessibilità rappresentava e rappresenta tutt’ora l’unico strumento per superare questo nefasto periodo.
Ciò che di buono la riforma Fornero ha fatto, con riferimento al contratto a tempo determinato, è stato riuscire a superare il concetto di eccezionalità riferito all’apposizione del termine ad un contratto di lavoro1 e creare un terzo genus di contratto a tempo determinato per il quale non è richiesta l’elencazione delle ragioni che ne sostanziano la legittimità.
Già nel testo del 2001 (d.lgs. 368/2001) il legislatore aveva voluto superare il concetto che il tempo determinato venisse utilizzato esclusivamente per coprire necessità temporanee di manodopera in situazioni straordinarie ed eccezionali, legittimando infatti l’apposizione del termine anche per ragioni tecniche, produttive, organizzative e sostitutive e ammettendo cosi il ricorso a questo istituto anche in relazione allo svolgimento dell’ordinaria attività d’impresa2.
La struttura generale del contratto a tempo determinato non subisce, eccetto per quanto riguarda l’ acausalità, delle modifiche infatti:
1) il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro;
2) e’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro;
3) l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1, fatto salvo quanto previsto dal comma 1-bis (contratto acausale) relativamente alla non operatività del requisito della sussistenza di ragioni di carattere tecnico, organizzativo produttivo o sostitutivo;
1 Ricordiamo che il nostro ordinamento giuridico riconosce il contratto a tempo indeterminato come forma comune di rapporto di lavoro. Articolo 1 comma 01 d.lgs. n. 368/2001.
2 Quest’ultimo passaggio introdotto nel 2008 dal D.L. n. 112/2008 articolo 21.
4) copia dell’atto scritto deve essere consegnata dal datore di lavoro al lavoratore entro cinque giorni lavorativi dall’inizio della prestazione;
5) la scrittura non è tuttavia necessaria quando la durata del rapporto di lavoro, puramente occasionale, non sia superiore a dodici giorni.
Il contratto a tempo determinato rappresenta quindi ancora l’eccezione rispetto al contratto a tempo indeterminato e per questo motivo la mancanza dei requisiti previsti dalla legge, sia sostanziali che formali, comporta che il rapporto a termine venga convertito a tempo indeterminato.
E’ opportuno ricordare che le ragioni che il datore di lavoro elenca e “specifica” nel “casuolone” per legittimare l’apposizione del termine, sono ragioni proprie del datore e in caso di contestazione da parte del lavoratore, ricade sul datore l’onere della prova per dimostrare la loro effettività e consistenza.
La vera novità, come anticipato precedentemente, è l’introduzione con la riforma Fornero del terzo genus di contratto a termine che viene descritto nel comma 1 bis dell’articolo 1 del D.lgs. n. 368/2001 e che prevede l’omissione delle ragioni giustificatrici l’apposizione del termine in determinate fattispecie che il legislatore del 2012 aveva elencato,ovvero:
1) nell’ipotesi del primo rapporto a tempo determinato, di durata non superiore a dodici mesi, concluso fra un datore di lavoro o utilizzatore e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nel caso di prima missione di un lavoratore nell'ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato ai sensi del comma 4 dell'articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276.
2) in alternativa, nell'ipotesi definite dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale che possono prevedere, in via diretta a livello interconfederale o di categoria ovvero in via delegata ai livelli decentrati, che in luogo dell'ipotesi di cui al precedente periodo il requisito di cui al comma 1 non sia richiesto nei casi in cui l'assunzione a tempo determinato o la missione nell'ambito del contratto di somministrazione a tempo determinato avvenga nell'ambito di un processo organizzativo determinato dalle ragioni di cui all'articolo 5, comma 3, nel limite complessivo del 6 per cento del totale dei lavoratori occupati nell'ambito dell'unità produttiva3.
Oltre alle forti limitazioni che poi analizzeremo, anche con riferimento alle successive modifiche, la riforma del 2012 prevedeva anche la non prorogabilità del contratto acausale nemmeno all’interno del periodo dei dodici mesi. Il Ministero del Lavoro era infatti intervenuto successivamente precisando che il termine dei dodici mesi non era in nessun modo e in nessun caso frazionabile.
Moltissime sono state le perplessità che sia il mondo industriale che alcuni studiosi del diritto hanno palesato all’indomani dell’entrata in vigore del testo, che rappresentava sicuramente una novità, ma una novità in parte troncata dai vincoli imposti.
3 Articolo 5 comma 3 (come modificato dalla legge Fornero) l'assunzione a termine avvenga nell'ambito di un processo organizzativo determinato: dall'avvio di una nuova attività; dal lancio di un prodotto o di un servizio innovativo; dall'implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico; dalla fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo; dal rinnovo o dalla proroga di una commessa consistente.
Il legislatore del 2013 invece è intervenuto rivisitando radicalmente e semplificando la struttura di questo nuovo genus di contratto a termine.
Il primo correttivo apportato riguarda proprio la possibilità di prorogare il contratto acausale all’interno del limite dei dodici mesi. Rimane ancora però da chiarire se la proroga debba essere una sola, come previsto dall’articolo 4, o se sempre all’interno dei dodici mesi siano possibili più proroghe. La proroga disciplinata dall’articolo 4 prevede anche che siano specificate le ragioni oggettive, requisito questo non richiesto nel caso di contratto acausale.
Il Ministero del lavoro con la circolare n. 35/2013, chiarisce che la proroga può riguardare anche contratti acausali sottoscritti, ma non ancora scaduti, prima dell’entrata in vigore del D.L n.76.
Altro aspetto di grande importanza riguarda la possibilità che viene concessa ai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che possono individuare ulteriori ipotesi di ricorso al contratto acausale. Nel precedente testo invece l’intervento delle parti sociali poteva avvenire solamente in maniera diretta a livello Interconfederale o di Categoria e solo in via delegata ai livelli decentrati con gli ulteriori limiti delle predeterminate casistiche e del vincolo numerico del 6%. Risultava singolare la chiusura all’intervento della contrattazione aziendale, se non per via delegata, nonostante l’articolo 8 del D.L. 138/2011 consenta alla contrattazione di prossimità di derogare alle norme di legge anche con riferimento ai contratti a termine.
Il Ministero del lavoro nella recente circolare specifica che l’eventuale disciplina introdotta dalla contrattazione collettiva in materia di contratto acausale va ad integrare quanto già previsto direttamente dal legislatore. In questo modo i contratti collettivi, anche aziendali, potranno prevedere a titolo esemplificativo, che:
1) il contratto a termine acausale possa avere una durata maggiore di dodici mesi;
2) il contratto acausale possa essere sottoscritto anche da soggetti che abbiano precedentemente avuto un rapporto di lavoro subordinato.
Il DL 76/2013 quindi rilancia la contrattazione di prossimità riconoscendogli un ruolo non secondario rispetto a quella nazionale e interconfederale. Il Decreto nel suo testo originario prevedeva che le intese modificative che operano in deroga alle norme di legge sono valide solo a condizione che siano depositate presso la Direzione Territoriale del Lavoro competente, passaggio questo poi venuto meno in sede di conversione, liberando cosi la contrattazione di prossimità.
Prima di procedere con la trattazione del decreto legislativo volevo riprendere un tema che più volte ha sollevato problemi interpretativi e che ha richiesto un duplice intervento esplicativo dal parte del Ministero del Lavoro. Mi riferisco al concetto di “primo” contratto acausale che sin dalla sua prima applicazione ha destato dubbi e perplessità applicative.
Il Ministero del Lavoro nella circolare n. 18/2012 per definire il concetto di “primo rapporto” faceva riferimento all’elemento della subordinazione, ovvero al fatto che il contratto acausale non possa essere stipulato con un lavoratore con il quale il datore di lavoro abbia già intrattenuto un primo rapporto lavorativo di natura subordinata.
Il Ministero specificava poi che la finalità del contratto a tempo determinato acausale è quella di verificare le attitudini e le capacità del lavoratore in relazione all’inserimento nello specifico contesto lavorativo, quindi non appariva coerente con
la ratio normativa estendere il regime semplificato in relazione a rapporti in qualche modo già sperimentati.
In questo modo il Ministero prevedeva anche una finalizzazione del contratto acausale e, a detta dello scrivente, escludeva la possibilità di assunzione acausale successiva a rapporti precedentemente intercorsi anche di natura non subordinata.
Il Ministero, su questo specifico punto, non scioglieva nessun dubbio interpretativo, perché prima prendeva in considerazione solo il concetto di subordinazione, mentre poi introduceva il concetto di non estensione dell’acausalità a lavoratori già “sperimentati”, escludendo quindi, ad esempio, anche i contratti di collaborazione.
Solamente con la Circolare n. 37 del 22 aprile 2013 il Ministero ha posto fine al dubbio interpretativo, sposando definitivamente la tesi della subordinazione e non della finalizzazione,chiarendo cosi che il contratto acausale possa essere stipulato esclusivamente nelle ipotesi in cui non siano intercorsi tra il medesimo datore di lavoro e lavoratore precedenti rapporti di lavoro di natura subordinata (ad esempio, tempo determinato, indeterminato o intermittente). Nel caso di pregressi rapporti di lavoro di natura autonoma tra i medesimi soggetti, il Ministero ritiene possibile la stipulazione di un primo contratto a termine acausale.
Un’altra novità riguarda la “prosecuzione” del rapporto di lavoro oltre al termine inizialmente previsto, il legislatore recepisce nel disposto normativo dell’articolo 5 comma 2 quanto espresso dal Ministero con la Circolare n.18/2012, ovvero che al contratto acausale si applicano le regole generali in materia di prosecuzione.
Questo significa che rimane fermo quanto stabilito dal comma 1 dell’articolo 5 del d.lgs. n.368/2001 ovvero che in caso il rapporto di lavoro continui dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato ai sensi dell'articolo 4, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al venti per cento fino al decimo giorno successivo, al quaranta per cento per ciascun giorno ulteriore, ossia dall’11°al 30° per i contratti di durata inferiore a sei mesi e dall’11°al 50° per quelli di durata pari o superiore a sei mesi.
La riforma Fornero aveva previsto che, in caso di prosecuzione, il datore di lavoro doveva comunicare al Centro per l’Impiego, entro il termine inizialmente fissato,che il rapporto continuava, indicando altresì la durata della prosecuzione.
In questo modo si trattava di una prosecuzione “programmata” e non più accidentale.
Il Decreto Xxxxx invece interviene abrogando la comunicazione anticipata riportando cosi l’istituto della prosecuzione alla sua originaria caratteristica accidentale.
Occorre precisare che la soppressione della comunicazione preventiva in caso di prosecuzione riguarda l’intero istituto del tempo determinato e non solo quello acausale.
Resta invece invariato l’obbligo di cui all’articolo 4 bis, comma 5, del D.lgs. n. 181/2000, relativo alla comunicazione, entro 5 giorni, della proroga del termine inizialmente fissato o della trasformazione da tempo determinato a tempo indeterminato.
Altro aspetto che riguarda la generalità dei contratti a tempo determinato sono i limiti quantitativi per il loro utilizzo. Il legislatore rimette alla contrattazione collettiva nazionale la possibilità di determinare i limiti quantitativi di utilizzazione dei contratti a tempo determinato e di quelli acausale. Le parti sociali potranno ad esempio
prevedere limiti quantitativi differenti per i contratti a tempo determinato “ordinari” e per quelli acausali.
Sono in ogni caso esclusi da limitazioni quantitative i contratti a tempo determinato conclusi:
1) nella fase di avvio di nuove attività per i periodi che saranno definiti dai contratti collettivi nazioni di lavoro in misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche e/o comparti merceologici;
2) per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità, ivi comprese le attività già previste nell’elenco allagato al D.P.R n. 1525/1963 e successive modificazioni e integrazioni;
3) per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi;
4) con lavoratori di età superiore a 55 anni.
L’articolo che è stato più volte modificato dai due interventi legislativi è l’articolo 5 del D.lgs. n.368 che disciplina la scadenza del termine, le sanzioni e la successione dei contratti. Abbiamo analizzato prima l’istituto della prosecuzione del rapporto oltre il termine, passiamo ora ad analizzare invece l’istituto della reiterazione di più contratti a termine tra lo stesso datore e lo stesso lavoratore.
Su questo aspetto e in particolar modo su quello che nel gergo tecnico viene definito lo “stop&go”, ovvero il periodo di interruzione tra un contratto e il successivo, sono intervenuti in maniera distinta prima la riforma Fornero poi il Decreto Xxxxxxxxxx ( D.L.n.76/2013).
L’intento della riforma Fornero era quello di scoraggiare la successione dei contratti a tempo determinato e per far questo aveva modificato il comma 3 dell’articolo 5 elevando fino a 60 e 90 giorni i periodi di interruzione, tra un contratto a termine e il successivo, precedentemente individuati in 10 e 20 giorni.
Per i contratti fino a sei mesi quindi l’interruzione doveva essere di 60 giorni mentre per i contratti di durata superiore a sei mesi dovevano essere rispettati i 90 giorni di stacco. Era possibile ridurre queste tempistiche (fino a 20 giorni e 30 giorni) solamente attraverso un intervento diretto della contrattazione collettiva (livello Interconfederale o Nazionale) o in forma delegata al secondo livello ma con riferimento a determinate casistiche elencate nel previgente articolo 5 comma 34.
4 Art.5 comma 3 (come modificato dalla riforma Fornero)
Non era difficile capire che i vincoli imposti dalla riforma al contratto a termine andavano ben oltre l’originario obiettivo di ridurre l’uso improprio di questo istituto, basti pensare a settori come quello del Turismo che per loro natura risentono di una flessibilità maggiore rispetto agli altri settori industriali, non è possibile quindi applicare modelli rigidi a settori soggetti ad elevata variabilità.
La rigidità del modello Fornero creava problemi non solo alle aziende ma anche agli stessi lavoratori, si pensi ad esempio ai lavoratori stagionali che se impiegati ad esempio per il periodo natalizio non potevano essere riassunti per le festività pasquali.
L’incongruenza di una riforma, a detta dello scrivente “sbagliata”, sta nel fatto che ai contratti a tempo determinato in somministrazione non si applica l’intervallo temporale, ciò comporta inevitabilmente che l’azienda dovendo organizzare il lavoro sia costretta a prediligere una forma contrattuale a tempo determinato piuttosto che un'altra.
Non è tardato ad arrivare subito il primo correttivo, infatti il decreto sviluppo (D.L. 83/2012) prevedeva all’articolo 46 bis lettera a) che l’applicazione dei termini ridotti di 20 giorni (contratti fino a sei mesi) e di 30 giorni (contratti superiori a sei mesi) si applicasse direttamente alle attività stagionali di cui all’articolo 5 comma 4-ter del D. Lgls. n. 368/2001 e anche in ogni “altro caso” previsto dai contratti collettivi stipulati ad ogni livello dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Proprio questo ultimo passaggio ha legittimato l’intervento delle parti sociali che hanno potuto ridurre l’intervallo anche per altre causali diverse a quelle che la riforma aveva identificato come tassative.
Federturismo Confindustria e l’Associazione Italiana Confindustria Alberghi sono intervenute insieme alle Organizzazioni Sindacali di Categoria con l’accordo del 22 novembre 2012, prevedendo che i termini ridotti (20 e 30 giorni) si applichino anche a tutte le causali previste dal Contratto Nazionale per ricorrere al tempo determinato.
Nonostante i correttivi messi in piedi sia dell’intervento del decreto sviluppo che dall’intervento delle parti sociali, la normativa relativa agli intervalli temporali tra un contratto e il successivo rimaneva ancora troppo rigida, per questo il decreto n.76/2013 ripristina la normativa antecedente la riforma Fornero ma si spinge anche oltre, riconoscendo alla contrattazione collettiva un ruolo fondamentale nella gestione della flessibilità.
Il testo del D.L n. 76, prima della conversione, disponeva il ripristino dei vecchi intervalli, 10 giorni per i contratti fino a 6 mesi e 20 giorni per i contratti superiori a sei mesi, ed escludeva dal campo di applicazione degli intervalli i lavoratori impiegati nelle attività stagionali, sia quelle individuate dal D.P.R. n.1525/1963 che quelle previste dagli avvisi comuni e dai CCNL, nonché le ipotesi individuate dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle XX.XX maggiormente rappresentative.
L’esclusione dal campo di applicazione degli intervalli delle attività stagionali e delle “ulteriori” ipotesi che saranno individuate in sede collettiva va letta congiuntamente con la disposizione del comma 45 dell’articolo 5 che è rimasto invariato, ciò significa
5 4. Quando si tratta di due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate senza alcuna soluzione di continuita', il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto.
che occorre comunque rispettare un intervallo tra un contratto e l’altro anche se non di 10 o 20 giorni ma comunque sia un intervallo.
In fase di conversione il decreto legge n. 76, proprio su questo punto è stato modificato, oggi l’articolato recita cosi:
“Qualora il lavoratore venga riassunto a termine, ai sensi dell'articolo 1, entro un periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore ai sei mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato. Le disposizioni di cui al presente comma, nonché di cui al comma 4, non trovano applicazione nei confronti dei lavoratori impiegati nelle attività stagionali di cui al comma 4-ter nonché in relazione alle ipotesi individuate dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano Nazionale”.
Il Legislatore nel momento della conversione aggiunge anche il riferimento al comma 4 escludendo di fatto da qualsiasi intervallo le attività stagionali, anche quelle definite dagli avvisi comuni e le altre ipotesi individuate dai contratti collettivi.
Il Ministero del Lavoro con la circolare n. 35/2013 chiarisce che le disposizioni che richiedono il rispetto degli intervalli tra due contratti a termine, nonché quelle sul divieto di effettuare due assunzioni successive senza soluzione di continuità, non trovano applicazione:
- nei confronti dei lavoratori impiegati nelle attività stagionali di cui al D.P.R. n.
1525/1963.
- In relazione alle ipotesi, legate anche ad attività non stagionali, individuate dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale6.
Nonostante la chiarezza espressa dal legislatore, almeno in questa prima fase di applicazione suggerisco di tenere un profilo prudenziale nell’applicazione delle novità normative in materia di intervallo.
Il rispetto della tempistica di 10 e 20 giorni d’ intervallo è valido per tutti i contratti a termine stipulati a partire dal 28 giugno 2013 (data di entrata in vigore del D.L. n.76/2013) anche se il precedente rapporto a tempo determinato è sorto prima di tale data, quindi soggetto ad una normativa diversa in materia di intervalli.
Il principio che sta alla base del ragionamento del legislatore è che la durata dell’intervallo da rispettare deve essere determinata con riguardo alla disciplina vigente al momento della stipulazione del contratto successivo al primo.
Al fine di fornire un quadro completo in materia di intervalli, occorre ricordare che l’obbligo del rispetto degli intervalli vale per ogni tipologia di contratto a termine, indipendentemente dalla causale applicata, dunque anche nell’ipotesi di assunzione per ragioni sostitutive, ivi compresa la cosiddetta sostituzione per maternità. L’unica fattispecie per la quale non si pone l’obbligo del rigoroso rispetto del regime degli intervalli temporali è quella concernente l’assunzione del lavoratore in mobilità7, in considerazione della peculiarità del contratto e in quanto ipotesi non contemplata dal D.lgs.n. 368/2001 ma dall’articolo 8, comma 2, L.n. 223/1991.
6 In questa categoria troviamo anche le attività definite da avvisi comuni ai sensi dell’articolo 5 comma 4 ter che viene espressamente richiamato nel secondo periodo del comma 3 dell’articolo 5.
7 Vademecum della Direzione per l’Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro del 22/04/2013.
Proseguendo l’analisi dell’articolo 5 del Decreto legislativo 368/2001 al comma 4 bis troviamo la disposizione relativa al superamento del limite dei trentasei mesi come periodo massimo di durata del rapporto fra lo stesso datore di lavoro e lavoratore.
Il Decreto legge n.76 e la relativa legge di conversione non sono intervenuti e non hanno apportato alcuna modifica al testo entrato in vigore il 18 luglio con la riforma Fornero. Ricordiamo che a seguito dell’intervento della legge n. 92/2012 (Riforma Fornero) ai fini del computo dei trentasei mesi vanno conteggiati anche i periodi di missione, (contratto di somministrazione) aventi ad oggetto mansioni equivalenti, svolti fra i medesimi soggetti. Su questo punto è intervenuto anche il Ministero del Lavoro8 che ha precisato che i datori di lavoro dovranno tener conto, ai fine dei trentasei mesi, dei periodi di lavoro svolti in forza di contratti di somministrazione a tempo determinato stipulati a far data dal 18 luglio 2012.
Il Ministero ha quindi voluto escludere dalla conversione automatica per superamento del limite dei 36 mesi i periodi di missione in corso al 18 luglio 2012. Nel caso che, terminata la missione, il datore volesse stipulare con lo stesso soggetto un contratto a tempo determinato si dovrà tenere conto della durata dei pregressi rapporti a termine e della durata del periodo di missione intercorso a far data dal 18 luglio 2012.
Sempre nella stessa circolare, il Ministero conclude l’articolato riferito ai contratti a tempo determinato ricordando che il periodo massimo di 36 mesi, derogabile dalla contrattazione collettiva, rappresenta un limite alla stipulazione di contratti a tempo determinato e non al ricorso alla somministrazione di lavoro. Ne consegue che, raggiunto tale limite, il datore di lavoro potrà comunque ricorrere alla somministrazione a tempo determinato con lo stesso lavoratore anche successivamente al raggiungimento dei 36 mesi. Tema questo ribadito anche nel Vademecum della Direzione Ispettiva del Ministero del Lavoro sulla riforma Fornero, al punto 9, dove viene richiamata l’espressa esclusione prevista dall’articolo 22 comma 2 del D.lgs.n. 276/2003 secondo la quale “in caso di somministrazione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e prestatore di lavoro è soggetto alla disciplina di cui al decreto legislativo n. 368/2001, per quanto compatibile, e in ogni caso con esclusione delle disposizioni di cui all’articolo 5, commi 3 e seguenti”.
Ricordiamo che tale limite non opera nei confronti delle attività stagionali definite dal
D.P.R. n. 1525/1963 e successive modifiche e integrazioni, nonché di quelle che saranno individuate dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative.
Per terminare la trattazione relativa all’articolo 5 del D.lgs.n.368 è necessario puntualizzare che anche il contratto acausale rientra nel computo dei 36 mesi.
L’intervento del legislatore però non si è limitato soltanto alle due fattispecie principali di contratto a tempo determinato, quello “ordinario” e quello “ acausale” ma inserisce importanti novità, non solo normative, ma anche sottoforma di agevolazione fiscale, per il contratto a termine stipulato con il lavoratore collocato in mobilità. Il legislatore, modificando l’articolo 109, ha escluso dal campo di applicazione del Decreto
8 Circolare n.18/2012
9 Articolo 10 del D.lgs. n. 368/2001
Legislativo n.368 il contratto a tempo determinato per i lavoratori in mobilità, trattandolo cosi come una materia a sé stante.
Possiamo quindi sostenere che al contratto a termine per i lavoratori in mobilità, oltre alla possibilità di utilizzare l’acausalità, non si applichino le norme del D.lgs.n. 368, ad esempio la normativa relativa agli intervalli, ai limiti numeri e ai trentasei mesi.
Per quanto riguarda invece gli incentivi economici e i benefici contributivi del datore che assume lavoratori in mobilità e percettori dell’ammortizzatore sociali ASPI, saranno trattati nella prossima scheda operativa di commento.
Lo scorso 6 agosto la legge n. 97 del 2013, contenente disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea, è intervenuta modificando l’articolo 8 del decreto legislativo n.368, introducendo un nuovo sistema di computo dei lavoratori a tempo determinato ai fini dell’applicazione dell’articolo 3510 dello Statuto dei Lavoratori. I limiti numerici previsti da tale articolo sono necessari a loro volta per l’applicazione del Titolo III dello Statuto del Lavoratori rubricato “Dell’attività sindacale” che contiene al suo interno 9 articoli quali:
1) art. 19 – Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali;
2) art. 20 – Assemblea;
3) art. 21 – Referendum;
4) art. 22 – Trasferimento dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali;
5) art. 23 – Permessi retribuiti;
6) art. 24 – Permessi non retribuiti;
7) art. 25 – Diritto di affissione;
8) art. 26 – Contributi sindacali;
9) art. 27 – Locali delle rappresentanze sindacali aziendali (il comma 1 di tale articolo, prevede dei limiti numeri superiori).
Secondo la nuova normativa “i limiti prescritti dal primo e secondo comma dell'articolo 35 della legge n.300 del 1970, per il computo dei dipendenti si basano sul numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell'effettiva durata dei loro rapporti di lavoro.”
10 Art. 35.
(Campo di applicazione)
Per le imprese industriali e commerciali, le disposizioni del titolo III, ad eccezione del primo comma dell'articolo 27, della presente legge si applicano a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa piu' di quindici dipendenti. Le stesse disposizioni si applicano alle imprese agricole che occupano piu' di cinque dipendenti.
Le norme suddette si applicano, altresi', alle imprese industriali e commerciali che nell'ambito dello stesso comune occupano piu' di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano piu' di cinque dipendenti anche se ciascuna unita' produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti.
La vecchia formulazione invece prevedeva che solo i contratti a tempo determinato di durata superiore a 9 mesi venissero conteggiati ai fini dell’applicazione dell’articolo 35.
Con il nuovo criterio introdotto dalla legge comunitaria tutti i lavoratori a tempo determinato concorrono alla formazione dell’organico aziendale anche se in misura proporzionale alla durata del proprio rapporto.
Il nuovo criterio di computo oltre che ai fini dell’articolo 35 viene esteso anche all’articolo 3 del D.lgs. n.25/2007 che prevede l’insorgenza degli obblighi di informazione e consultazione nelle imprese che impiegano almeno 50 dipendenti.
Il legislatore ha previsto che “in fase di prima applicazione delle nuove disposizioni, il computo dei lavoratori a tempo determinato sarà effettuato alla data del 31 dicembre 2013, con riferimento al biennio antecedente a tale data”.
Fino a tale data l’organico sarà computato secondo il vecchio criterio previsto dall’articolo 8 del D.lgs. n. 368/2001, ovvero dei 9 mesi.
Per quanto riguarda gli aspetti contributivi del contratto a tempo determinato ricordiamo che a partire dal 1° gennaio 2013, ai rapporti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato (compresi i contratti a termine stipulati nella start-up innovative - art.28, D.L. 179/2012) si applica (in aggiunta alla contribuzione ordinaria prevista per la generalità dei lavoratori) un contributo addizionale, a carico del solo datore di lavoro, pari all'1,4 per cento della retribuzione imponibile ai fini previdenziali. Tale contributo addizionale non si applica:
1) in relazione ai lavoratori assunti a temine in sostituzione di lavoratori assenti;
2) ai lavoratori assunti a termine per lo svolgimento delle attività stagionali di cui al D.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525 e successive modificazioni;
3) agli apprendisti;
4) ai dipendenti della P.A.;
5) nonché, per i periodi contributivi maturati dal 1° gennaio 2013 al 31 dicembre 2015, delle assunzioni stagionali definite dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati entro il 31 dicembre 2011 dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative11. Se il rapporto di lavoro a termine viene trasformato a tempo indeterminato al datore di lavoro potranno essere restituite le ultime sei mensilità del contributo addizionale.
La restituzione spetta anche quando l'assunzione a tempo indeterminato avviene entro il termine di sei mesi dalla cessazione del contratto a tempo determinato.
Al fine di incentivare la stabilizzazione dei rapporti di lavoro verso forme a tempo indeterminato, è prevista la restituzione - con un tetto massimo pari a 6 mesi - del contributo addizionale con le seguenti modalità e al ricorrere delle fattispecie sotto riportate:
11 (art. 2, co. 28-30, L. 28.6.2012, n. 92); Min. Lav., Interpello 21.12.2012, n. 42).
1) trasformazione del contratto a tempo indeterminato: il diritto al rimborso scatta dopo che sia stato compiuto, con esito positivo il periodo di prova.
2) assunzione del lavoratore a tempo indeterminato entro 6 mesi dalla cessazione del contratto di lavoro a tempo determinato precedentemente scaduto. In tal caso la restituzione avviene detraendo dalle mensilità spettanti un numero di mensilità ragguagliato al periodo trascorso dalla cessazione del precedente rapporto di lavoro a termine. In pratica, se l'assunzione avviene dopo un mese dalla scadenza del contratto, il beneficio sarà pari a un massimo di 5 mensilità, che scenderanno a 4 dopo due mesi e così via. Nulla sarà quindi restituito decorsi i 6 mesi12.
12 (art. 2, co. 28-30, L. 28.6.2012, n. 92).
In sintesi
Novità normative introdotte al D.lgs. n.368/2001
Proroga del contratto acausale nel limite massimo dei 12 mesi.
Estensione della disciplina della prosecuzione oltre il termine previsto anche al contratto acausale.
Esclusione di alcune particolari categorie sia dall’applicazione della normativa sugli intervalli (10 e 20 giorni) sia dal divieto di effettuare due assunzioni successive a termine senza soluzione di continuità.
Abolizione della comunicazione anticipata nel caso di prosecuzione oltre il termine prefissato.
Anche il contratto acausale viene rimesso ai limiti quantitativi della contrattazione collettiva.
Esclusione del contratto a tempo determinato concluso con un lavoratore in mobilità dall’applicazione del D.lgs. n. 368/2001.
Introduzione di un nuovo sistema di computo dei lavoratori a tempo determinato ai fini dell’applicazione dell’articolo 35 dello Statuto dei Lavoratori.
Ambiti d’intervento che il legislatore ha riconosciuto alla Contrattazione Collettiva, anche aziendale
Possibilità di prevedere un periodo superiore ai 12 mesi per la durata del contratto acausale.
Possibilità di estendere il ricorso al contratto acausale anche a soggetti che precedentemente hanno avuto un rapporto di lavoro subordinato con lo stesso datore di lavoro.
Possibilità di prevedere anche limiti quantitativi differenti tra il contratto a tempo determinato “ordinario” e quello acausale.
Possibilità di prevedere “ulteriori” ipotesi per le quali non si applichi la normativa degli intervalli e il divieto di assunzioni successive senza soluzione di continuità.
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