Contract
IL CONTRATTO COLLETTIVO
E LE RAPPRESENTANZE SINDACALI
di Xxxxxxx Xxxxxxxx*
SOMMARIO: 1. Premessa e sintesi. 2. Contratto collettivo «di categoria» o non. 3. Rappresentanza in funzione della contrattazione? 4. L’esempio irripetibile del pubblico impiego. 5. I problemi irresolubili dell’accettazione implicita. 6. Perché nuova
«categoria» o unico livello. 7. Le imprese medio-piccole vogliono risparmiare disdettando i contratti aziendali. 8. Le clausole d’«ultrattività» ma senza diritti perpetui. 9. Escludere dai contratti per negare le R.s.a.? 10. Ipotesi di sindacato storico “senza contratto”.
1. Premessa e sintesi
Proverò un percorso logico, rispondendo in progressione alla domanda «a chi o a che servono» le tensioni nei rapporti fra sindacati. Un «cui prodest» di turbolenze o meglio divisioni o tentativi di divisione.
Finora, l’esame era stato quasi esclusivamente sul contratto collettivo, dando per presupposte le legittimazioni amplissime derivanti dal principi di libertà sindacale; l’attenzione s’è però spostata sui sindacati stipulanti, dopo che s’è ventilata l’ipotesi di esclusione totale per chi rifiuta la contrattazione.
Si prospettano questioni e soluzioni reciproche: se la contrattazione influisce sulle rappresentanza o, viceversa, le rappresentanze influiscono sulla contrattazione. La fine però è sempre uguale, con il principio costituzionale di libertà sindacale, per cui non si possono
∗ Relazione al Seminario giuridico su: “Rappresentanze dei lavoratori e contrattazione collettiva oggi” tenutosi l’11 febbraio 2011 presso l’Xxxx Xxxx Xxxx xxxx’Xxxxxxxxxx xx Xxxx.
porre limiti anche se non si danno certezze, che è il bello del diritto sindacale.
2. Contratto collettivo «di categoria» o non
Xxxxxx lasciar perdere i tentativi di criminalizzare, che è roba vecchia. Vediamo i veri problemi del contratto collettivo e delle rappresentanze, partendo prima dal contratto collettivo.
Per capire i limiti negativi posti dall’art.
39 Cost., con il principio di libertà e la deroga per l’«erga omnes», bisogna distinguere il contratto collettivo nazionale di categoria (C.c.n.l.) da quello aziendale o integrativo: infatti, mentre la libertà affermata nel comma 1 riguarda tutto e tutti, i limiti negativi posti dal comma 2 e seguenti dell’art. 39 Cost. riguardano, almeno formalmente, solo i contratti collettivi «di categoria».
Il C.c.n.l. è presupposto dall’art. 39 comma 4 Cost., nel riferimento ai “contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”; anche se viene usata solo la parola «categoria», è implicito ma certo un riferimento anche al «nazionale», nella disposizione su «tutti gli appartenenti».
Un riferimento più preciso è nell’art. 360 n. 3 c.p.c. (come sostituito dall’art. 2
D.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), che ammette la possibilità di impugnare con ricorso per cassazione le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado “per violazione o falsa applicazione (...) dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro”. Sono necessari quindi non uno ma due requisiti: per essere «nazionale», il contratto
collettivo dev’essere «di categoria» ed esteso al territorio nazionale. È necessaria non solo l’applicabilità ma anche l’applicazione, a rischio altrimenti di far passare per contratti «nazionali di categoria» anche quelli “pirata” o in verità microscopici. Comunque basta l’applicazione generalizzata per “gran parte”, purché sia compresa la più importante. Coinvolgendo normalmente più imprese, il C.c.n.l. è concluso mediante rappresentanze.
Del contratto collettivo aziendale, oltre frammenti di legge, si possono dare almeno due nozioni astratte: il contratto autosufficiente e quello strettamente “integrativo” di altro normalmente di grado superiore, senza il quale non potrebbe esistere (come l’aziendale solo specificativo di un’indennità definita a livello nazionale). In entrambi i casi, il contratto collettivo aziendale non comporta problemi da parte datoriale, perché firmato direttamente dal datore di lavoro senza rappresentanze; comporta invece problemi dalla parte dei lavoratori, per la possibilità che firmi solo uno o alcuni o comunque non tutti i sindacati presenti in azienda, con aperto dissenso degli altri. In mancanza di dissenso, invece, si può dare per acquisito il consenso implicito dei non firmatari.
Resta comunque la possibilità per i lavoratori non iscritti e per gli iscritti ai sindacati non-firmatari di accettare esplicitamente o implicitamente il o i contratti stipulati da altri; al contrario, gli iscritti non possono rifiutare il contratto del proprio sindacato, che hanno accettato iscrivendosi, salvo dimissioni prima della firma e quindi, in certo senso, con ratifica implicita derivante dalle mancate dimissioni.
Credo però che il contratto «di categoria», cui fa riferimento l’art. 39 Cost., sia non tanto – o non solo – quello riguardante tutti gli appartenenti alla categoria e quindi «nazionale», ma soprattutto quello che prevede l’intera disciplina dei rapporti di lavoro. Il contratto
«di categoria» è quello potenzialmente completo ed “autosufficiente”, con l’intera
disciplina sia economica che normativa (per restare alla vecchia terminologia che risale alla L. 741/1959) senza vere carenze; il contratto aziendale o comunque di 2° livello è “parziale”, solo con frammenti di disciplina, dipendenti o no da un contratto precedente.
L’art. 39, comma 2 e seguenti, Cost. prevede un procedimento per l’estensione
«erga omnes» dei contratti collettivi che non lascino carenze, quasi presupponendo un contenuto obbligatorio del contratto collettivo di categoria. Tuttavia anche il contratto nazionale può essere solo integrativo (com’è comune nel pubblico impiego), unendosi al o ai precedenti.
Ovviamente, anche il contratto aziendale o comunque di livello inferiore al nazionale (per gruppi d’impresa o per un territorio delimitato come la regione o provincia, o altro ancora) può essere “completo”, con tutta la disciplina dei rapporti e senza necessità d’integrazione; viceversa, un contratto «di categoria» non può essere parziale o, meglio, se è parziale non è più «di categoria», anche se esteso a tutto il territorio nazionale.
3. Rappresentanza in funzione della contrattazione?
Certamente, l’art. 39 Cost. prevede un sistema di rappresentanze per le
«categorie» intere (le «rappresentanze unitarie») in funzione della contrattazione collettiva; l’onere della registrazione e successivo procedimento (“riserva di procedimento”) vale solo ai fini della contrattazione e non certamente per ogn’altra attività, che resta assoggettata al generale principio di libertà sindacale (art. 39, comma 1, Cost.), salvo ovviamente il generalissimo requisito di genuinità (che sarà poi legiferato dallo Statuto dei lavoratori con il suo art. 17). Insomma, per restare alle attività tipiche, nel progetto – che è sistema costituzionale – uno sciopero può o potrà essere proclamato anche da un sindacato non registrato.
È ovvio, ma serve a precisare, che la disciplina delle rappresentanze (le
«rappresentanze unitarie») è prevista dall’art. 39 Cost. solo ai fini della contrattazione erga omnes e non è applicabile per la contrattazione collettiva ad efficacia limitata (“di diritto comune”). Non so se questo possa significare, in negativo, divieto di disciplinare le rappresentanze – in deroga al principio di libertà – per fini diversi rispetto all’erga omnes.
Lo Statuto dei lavoratori prevede una disciplina essenziale delle rappresentanze nei luoghi di lavoro (art. 19), ma solo per la selezione dei sindacati legittimati, lasciando per il resto tutto libero (“per contenitore” e non “per contenuto”). Certamente, le rappresentanze dello Statuto sono previste non per la contrattazione collettiva, ma per altri diritti; anzi, si può dire che nello Statuto prevalgano le vecchie diffidenze dei sindacati nazionali a legittimare per la contrattazione i sindacati decentrati. L’esperienza della contrattazione aziendale sarà contestuale o immediatamente successiva, ma senza alcuna riserva in favore delle rappresentanze istituzionalizzate dalla legge. Solo molto dopo, dal 1975 con la legge n. 164 sulla Cassa integrazione, sarà riconosciuta alle RSA la legittimazione piena ed anzi esclusiva per gli «accordi» di procedimentalizzazione (in seguito anche per il trasferimento d’azienda ed i licenziamenti collettivi).
Per la contrattazione «di categoria» ci sono dunque i vincoli e limiti previsti dall’art. 39, comma 2 e seguenti, Cost., inesistenti invece per la contrattazione aziendale o comunque di 2° livello. È normale e forse ovvio, considerando che ai tempi della Costituzione la contrattazione di 2° livello non esisteva e non era neppure immaginabile. Il contratto collettivo aziendale ma “completo” esisteva eccome, anzi fu quello storico (come il primo “Itala- Fiom”, di cui nel 1996 celebrai il centenario in «Lav. giur.»), ma né la Costituzione e neppure lo Statuto dei lavoratori prevedevano le rappresentanze in funzione della contrattazione aziendale, anche se ai tempi dello Statuto di
contrattazione aziendale ce n’era già stata molta.
I vincoli e limiti previsti dall’art. 39, comma 2 e seguenti, Cost. non possono valere, nel silenzio, nei confronti della contrattazione non «di categoria». Nulla impedisce dunque, almeno formalmente, una legge che disciplini le rappresentanze sindacali per individuare gli agenti contrattuali legittimati: ma è evidente che, se si dicesse che solo alcuni sindacati e non altri possono firmare contratti collettivi, si violerebbe in modo inesorabile e clamoroso il principio di libertà sindacale di cui all’art. 39, comma 1, Cost.
Il problema allora è un altro: se sia possibile una legge che disciplini le rappresentanze per rendere erga omnes i contratti aziendali e cioè vincolanti anche per i lavoratori non iscritti ed iscritti a sindacati non firmatari.
A me sembra che un’ipotesi del genere sarebbe ugualmente lesiva del principio di libertà sindacale e quindi incostituzionale. Si potrà ribattere che in questo modo i limiti e vincoli, previsti dall’art. 39, comma 2 e seguenti, della Costituzione solo per la contrattazione «di categoria», finirebbero per imporsi anche alla contrattazione di tipo diverso, su cui la Costituzione tace. Non vedo però la possibilità di deroga mediante legge ordinaria al principio costituzionale di libertà sindacale, che si realizzerebbe imponendo i contratti collettivi aziendali anche a chi non li vuole. Ci vorrebbe una legge costituzionale, in deroga appunto all’art. 39, comma 1, della Costituzione, inconcepibile di fatto.
4. L’esempio irripetibile del pubblico impiego
Si dirà, ed in qualche modo è stato detto, che un’esperienza del genere s’è già realizzata senza obiezioni nel pubblico impiego con il D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Titolo III su «Contrattazione collettiva e rappresentatività sindacale»): si è abbozzata l’idea di ripetere una forma di
«rappresentatività» come quella ex art. 43, comma 1, D.lgs. 165/2001, per selezionare
i sindacati legittimari in via esclusiva alla contrattazione, considerando la media tra il dato associativo e quello elettorale (deleghe per contributi sindacali e percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle rappresentanze). In tal modo i contratti collettivi aziendali stipulati dai sindacati legittimati potrebbero diventare vincolanti nei confronti di tutti, anche non iscritti o iscritti a sindacato non firmatario. Soprattutto, dovrebbe diventare vincolante nei confronti dei sindacati pur legittimati ma messi in minoranza e cioè della Cgil.
In effetti, le rappresentanze legificate dal D.lgs. 165/2001 servono solo a selezionare i sindacati legittimati, non ad imporre i contratti collettivi anche a chi rifiuta di firmare (com’è appena successo), riproponendo gli stessi problemi del lavoro privato. Nel lavoro pubblico però il contratto collettivo è obbligatorio, specifico ed “unico”, con divieto di non applicare alcun contratto o di applicarne più d’uno, in quanto è prevista la garanzia di parità di trattamento contrattuale e comunque di trattamenti non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi (art. 45, comma 3, D.lgs. 165/2001).
Il problema nel pubblico impiego è non dell’applicazione anche ai lavoratori non iscritti o dissidenti, in qualche modo obbligata per il principio di parità di trattamento, ma di stabilire chi sia legittimato a firmare il contratto collettivo unico. Le forme di «rappresentatività» previste dal D.lgs. 165/2001, basandosi solamente su “minimi” associativi ed elettorali (più del 5% nella media), escludono un principio maggioritario o altro criterio per cui la volontà di alcuni sindacati prevalga su quella di altri (com’è invece nell’art. 39 Cost. con le
«rappresentanze unitarie»): l’unica conseguenza possibile, per quanto assolutistica, è che il rifiuto di firmare di uno o più sindacati legittimati, senza consenso implicito, blocca di fatto la contrattazione collettiva, con un potere di “veto” assoluto (come succede nel privato per gli “accordi gestionali” plurimi e contraddittori). Altrimenti, si lascerebbe alla parte pubblica il potere di scegliere i
propri interlocutori, applicando erga omnes il contratto collettivo non firmato da uno o più sindacati, anche se firmato dalla maggioranza (non si saprebbe nemmeno su cosa valutare la maggioranza, per sindacati o per numero di iscritti/votanti).
Comunque, se anche si potesse trovare nel pubblico impiego una soluzione per risolvere il conflitto fra sindacati legittimati, è certo che questa soluzione deriva dalla necessità per legge che “il” contratto collettivo ci sia e sia specifico ed unico, mentre nel lavoro privato nulla impedisce, in base al principio di libertà sindacale (art. 39 Cost.), la mancanza o non applicazione di alcun contratto o la coesistenza di due o più contratti collettivi con lo stesso campo d’applicazione. Le specificità del lavoro pubblico rendono irripetibile l’esempio per il lavoro privato, confermando l’impossibilità d’una sola teoria del contratto collettivo.
5. I problemi irresolubili dell’accettazione implicita
Un modo solo logico per risolvere i conflitti fra sindacati è quello fondato sul “consenso implicito” dei sindacati o dei lavoratori. Si tratta di principi che, anche se non formalizzati in norma scritta, in astratto sono certi, ma in concreto sono incertissimi (come dirò subito).
I casi sono tanto numerosi, da permettere solo qualche esempio (prima se n’è già visto qualcuno). Innanzitutto c’è quello del sindacato che, se tollera che il contratto collettivo non-firmato sia applicato anche ai propri iscritti, vuol dire che l’accetta. Altra deduzione: per la volontà negativa è necessario che sia rifiutato l’intero contratto collettivo non firmato, non una parte sola (magari migliorativa); è irrilevante anche una “riserva” con cui si dica che accettando una parte non s’accetta tutto.
Potrebbe sembrare più delicato il caso in cui il sindacato non-firmatario tolleri che i propri iscritti vadano a votare in un referendum, negando però qualsiasi valore al suo esito. Qui le alternative sono le più
varie, considerando anche i significati controversi d’una “riserva”. Forse è assorbente il valore attribuito al referendum, se confermativo in senso proprio (quale condizione sospensiva o risolutiva del contratto collettivo) o solamente consultivo. Ad esempio, è decisivo che nello statuto della Fiom è indicato espressamente che il referendum ha valore solo consultivo e non può impegnare il sindacato né in positivo né in negativo (in entrambi i casi il sindacato resta libero se firmare o no).
C’è poi l’accettazione implicita da parte dei singoli, anche se non iscritti o iscritti al sindacato che non ha firmato. Si dice che l’accettazione anche d’una clausola sola comporterebbe accettazione del contratto intero, nel fondato presupposto che un contratto “aperto”, come quello collettivo, può essere accettato nella sua totalità e non solo in parte, che altrimenti ci sarebbe non accettazione ma modifica, che a sua volta dovrebbe essere accettata dalla controparte.
L’affermazione sembra ma non è tanto ovvia, considerando invece che non sempre e forse raramente si riesce a capire il contenuto dell’intero contratto solo da una o più clausole. Insomma, il consenso può essere implicito, ma dev’essere consapevole. Si cade così in grande incertezze. È facile affermare – anche troppo – che il contenuto intero si presume conosciuto, se il contratto collettivo è stato oggetto di discussioni, assemblee, articoli di giornale o altro ancora. È più probabile e ragionevole, invece, che il contenuto intero non sia conosciuto e l’accettazione implicita solo di alcune clausole non significhi accettazione dell’intero contratto.
6. Perché nuova «categoria» o unico livello
Forse con il consenso implicito o per spontaneismo o meccanismi logici arcani, i contratti collettivi s’impongono ai singoli. L’interesse prevalente e forse unico è quanto si guadagna, il resto è
“sovrastruttura” quasi inutile, quindi accettata. Una nuova sindacalità o il risveglio della vecchia “classe” alla fine cedono di fronte all’essenzialità del guadagno. Se non si toccano i soldi, il contratto collettivo può essere cambiato e si può modificare sistema contrattuale passando ad un unico livello.
Dato che l’individuazione delle
«categorie» (campi d’applicazione del contratto collettivo) è lasciata alla libertà sindacale ex art. 39 Cost., secondo la giurisprudenza anche costituzionale creata in occasione della L. 741/19591, certamente ci si può dividere o riunire come si vuole, in modo insindacabile.
Sempre in base al principio di libertà sindacale, è possibile uscire nei modi dovuti da un contratto “di categoria” per non applicare più nulla o per applicare una contrattazione specifica, aziendale o “di gruppo” o altro ancora. Resta la possibilità che i Giudici affermino l’applicabilità comunque dei trattamenti del C.c.n.l., in quanto contenente i «minimi costituzionali» ex art. 36 Cost.: tutto ovvio, ma altrettanto ovvio che i Giudici non sono vincolati e prendono a riferimento il C.c.n.l. in via solo indicativa, con possibilità d’individuare minimi non solo inferiori, ma anche superiori. Nulla impedisce, poi, che per i
«minimi costituzionali» i Xxxxxxx prendano a riferimento un C.c.n.l. scaduto oppure, in un futuro per niente ipotetico, un contratto di 2° livello già concluso per zone ed attività uniformi o simili.
La nozione di «categoria», desumibile in qualche modo dall’art. 39 Cost. e dall’art. 360 n. 3 c.p.c., presuppone un’estensione
«nazionale» e, direi soprattutto, una disciplina completa dei rapporti di lavoro. Non possono esserci limitazioni d’alcun
1 Cfr. per tutte Xxxxx Xxxx., 00 dicembre 1965, n. 88 (in Pluris on line), per cui l’estensione erga omnes di contratto collettivo oltre il campo d’applicazione definito nel contratto stesso “viola la libertà d’organizzazione ed inquadramento che l’ordinamento costituzionale non consente sia limitata o annullata dall’intervento autoritativo della legge, ma considera parte essenziale della libertà di associazione sindacale”.
genere, ripeto, per il principio di libertà sindacale ex art. 39 Cost..
Pertanto, non si può impedire – per entrare nella cronaca – di separare l’«industria metalmeccanica» con nuova o nuove «categorie» (come l’«auto» in Usa). Non si può nemmeno impedire di passare dal sistema attuale (configurato dall’Accordo interconfederale del 1993 e dagli accordi del 2009), con contrattazione di base di 1° livello integrata da contrattazione specifica di 2° livello, ad un nuovo sistema di contrattazione con un livello unico, nazionale o d’altro livello, anche aziendale.
D’altra parte – per restare nella cronaca
– un ipotetico contratto collettivo del solo Gruppo Fiat avrebbe le caratteristiche non di contratto aziendale, ma di vero e proprio contratto nazionale: sia per l’estensione territoriale, sia e soprattutto per la completezza di disciplina (almeno come si può immaginare). In un modo o nell’altro, però, non si sfugge al sindacato dei giudici sul rispetto dei “minimi costituzionali” ex art. 36 Cost. (comunque configurabile, ripeto, sia sul nazionale che sull’aziendale).
Va infine considerato che l’attuale
«industria metalmeccanica», essendo categoria molto ampia e non-uniforme, prevede minimi molto bassi per compatibilità con le imprese marginali, che debbono essere messe in grado di applicare quei minimi senza fallire. Insomma, nell’attuale «industria metalmeccanica» c’è la grande Fiat, ma ci sono anche le piccole officine che non hanno i soldi della Fiat: per questo, il C.c.n.l. è necessariamente basso, per permettere alle piccole officine di esistere, mentre per le imprese più importanti come la Fiat c’è la contrattazione integrativa.
Pertanto, un’uscita dalla categoria per costituirne una nuova più ristretta («auto» o solamente «Fiat») porterebbe alla disapplicazione dell’attuale C.c.n.l. dell’«industria metalmeccanica», ma presumibilmente senza rilevanti variazioni economiche (salvo sorprese a oggi imprevedibili, perché anzi si dice che, con
il nuovo sistema, la Fiat vorrebbe far guadagnare di più i lavoratori).
Xxxxxxx allora chiedersi a che servirebbero tutte le modifiche prospettate ed in particolare l’uscita dal C.c.n.l.
«industria metalmeccanica» o l’uscita dalla stessa Confindustria. Certamente non alle imprese per risparmiare, perché – salvo irragionevoli autolesionismi – non si potrebbe andare al di sotto degli attuali minimi complessivi. Almeno per le grandi imprese.
7. Le imprese medio-piccole vogliono risparmiare disdettando i contratti aziendali
Sembra però che molte imprese medio- piccole abbiano colto la palla al balzo – invito speculare rispetto a Pomigliano e Mirafiori – per “disdettare” i contratti collettivi aziendali e restare al solo C.c.n.l. Naturalmente, tutto sarebbe a causa della crisi, anche se in verità di motivazione non c’è bisogno. In tal modo si realizzerebbero per le imprese notevoli diminuzioni di costi, ma per i lavoratori altrettante diminuzioni di paga. Né per questi ultimi sarebbe possibile l’applicazione dell’art. 36 Cost., in quanto, almeno al momento, i giudici fanno riferimento per la determinazione dei minimi costituzionali solo ai contratti collettivi nazionali, senza l’aggiunta di quelli aziendali.
È noto che la generale disdettabilità dei contratti di durata, e prima fra questi del contratto collettivo, è affermata da tempo. L’occasione storica fu la disdetta dei contratti sui fondi aziendali integrativi delle pensioni, diventati nel tempo onerosissimi per il progressivo innalzamento dell’età della pensione (senza o con “finestre”). È emerso così il principio della generale disdettabilità, con “congruo” preavviso.
Xxx, dicendo che c’è la crisi, le piccole- medie imprese “disdettano” i contratti collettivi aziendali. Naturalmente, debbono dare il preavviso “congruo”, che, nel probabile silenzio, è quello del contratto collettivo nazionale o ad esso simile. Si
crea un contenzioso forte ed amaro, considerando che i lavoratori si vedono diminuire drasticamente la paga dopo anni e talvolta decenni. Non si sa, o almeno non so io, se convenga anche economicamente creare un conflitto del genere: si può dire però che il problema è sindacale, per i probabili e forse inevitabili scioperi ed altre forme di lotta che nascono, spesso in modo spontaneo.
C’è anche il sottile problema di diritto del valore della clausola “di rinvio”, implicita o anche esplicita, da parte dei contratti d’assunzione o comunque individuali. L’interpretazione è sempre difficile, come è pure difficile individuare il valore di un eventuale impegno futuro, se determinabile oppure no. Tendo comunque a ritenere, in un modo o nell’altro, che una diminuzione secca sarebbe illegittima, ma un giudizio generale è impossibile per la varietà dei casi concreti.
Se questo è l’effetto o lo choc di Pomigliano e Xxxxxxxxx, sarebbe stato meglio che non ci fosse stato.
Sia detto comunque, per inciso, che il principio della generale disdettabilità non può far venir meno l’eventuale disciplina specifica prevista nei contratti, tanto meno cambiando semplicemente la parola
«disdetta» con «recesso». I principi generali valgono soltanto in caso di mancanza di disciplina specifica.
8. Le clausole d’«ultrattività» ma senza diritti perpetui
Spesso, ma non sempre, la disciplina della disdetta prevede la clausola d’«ultrattività», con cui si dice che il contratto collettivo vecchio, ormai scaduto, rimarrà in vigore fino alla firma del nuovo. Si sa che questa clausola ha efficacia soltanto se espressa, senza possibilità d’interpretazione analogica dell’art. 2074 c.c., valido solo per il diritto corporativo.
La clausola d’«ultrattività» viene spesso valutata come diritto di opporsi senza limiti di tempo, nel senso che se il datore di lavoro non vuole un nuovo contratto si
continuerebbe ad applicare “sempre” quello vecchio. L’affermazione è sbagliata, perché in questo caso si tornerebbe alla teoria della perpetuità di un contratto, che non esiste ed è semplicemente contraria all’ordine pubblico.
In concreto, la clausola d’«ultrattività» può lasciare in vita il vecchio contratto disdettato solo per il tempo ragionevole di trattative, con possibilità di un qualche vero esito. Si rischia evidentemente un gioco delle parti di dubbia o dubbissima legittimità, con tentazioni facili. Ma, giustamente, la perpetuità non esiste perché tutto nasce e tutto muore.
9. Escludere dai contratti per negare le R.s.a.?
Se le rappresentanze non servono per la contrattazione, forse si può ipotizzare il contrario, che la contrattazione serve per le rappresentanze, come obiettivamente appare dall’attuale art. 19 St. lav. (dopo il referendum abrogativo del 1995). Si potrebbe ipotizzare che i fatti di Pomigliano e Xxxxxxxxx, attraverso le dimissioni da Confindustria, sarebbero stati indirizzati a non far firmare la Fiom-Cgil, per togliere loro le rappresentanza. Da qui anche il rimedio della “firma tecnica”, suggerito per superare i problemi: non capisco però il significato di una “firma tecnica”, perché o si firma o no, non ha valore una firma per adesione formale e dissenso sostanziale (“tecnica”, almeno per quant’ho capito). Sembra il vecchio caso di scuola di chi scrive una cosa e ne pensa un’altra.
L’ipotesi è un po’ ridicola, perché è incredibile che la Fiom sia stata “indotta” a non firmare. Forse, più semplicemente, c’è stato uno scontro di poteri. Da una parte la Fiat, portavoce di tutti gli imprenditori (almeno quelli grandi), voleva riaffermare la sua autorità, che però è indiscutibile. Dall’altra parte, la Fiom ha rifiutato il
«ricatto» del “prendere o lasciare”, che è sempre duro ed irritante, ma nella contrattazione è normale. Com’è normale – ma ugualmente duro – che, dopo le prime
firme, gli altri sono condizionati: non è però configurabile un diritto alla contestualità dei “tavoli separati”, per evitare che ci sia un prima ed un dopo, non foss’altro perché non si può pretendere e non sarebbe logica una divisione di chi tratta per l’impresa.
La Fiom ha rifiutato anche perché non voleva condividere nemmeno sulla carta quelle che ritiene illegittimità palesi, come per la malattia e gli scioperi. La posizione è più morale che giuridica, perché quelle clausole, se veramente fossero nulle (come credo), si dovrebbero considerare come mai messe per sostituzione di diritto. Certo, non è la prima volta che si firma ugualmente, tanto le clausole nulle non valgono niente: ma, dopo che la questione è esplosa, politicamente sarebbe stato duro accettare il realismo di non impuntarsi sulle clausole nulle che non valgono.
10. Ipotesi di sindacato storico “senza contratto”
I «perché» sono molti, forse impalpabili, ma resta l’ipotesi che la Fiom rimanga “senza contratto collettivo”. Potrebbe portare all’esclusione dalle rappresentanze sindacali aziendali che, in base all’art. 19 St. lav. parzialmente modificato dal referendum abrogativo dell’11 giugno 19952), possono essere costituite non più dai sindacati «maggiormente rappresentativi», ma solo dalle
«associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità produttiva». Con il «recesso» dal
C.c.n.l. 2008 e dai contratti aziendali e le dimissioni dalla Confindustria, passando in nuova «categoria», s’azzererebbe tutto, in modo che la grande e storica Fiom (il primo
2 Corte. Cost., 12 gennaio 1995, n. 1, X. Xxxxxxxxx, X. Xxxxx Xxxxxxx ed X. Xxxx, in Mass. giur. lav., 1995, 1. Il referendum è stato indetto su due quesiti nel settore privato ed uno nel pubblico, con votazioni l’11 giugno 1995; è stato respinto il quesito “massimalista” ma accolto quello “minimalista”, con abrogazione della lett. a) e parzialmente della lett. b) dell’art. 19 comma 1 St. lav. ed abrogazione dell’art. 47 D.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 (e successive modificazioni).
sindacato in Italia) rimanga fuori delle fabbriche, perché “senza contratto”.
È inverosimile, ma tutto può succedere. Bisognerebbe cominciare a capire perché nel 1995 i Radicali chiesero il referendum ed anche i sindacati l’andarono a votare. Forse si pensava che opporsi sarebbe sembrato corporativo ed in fondo nulla sarebbe cambiato, perché tanto i grandi sindacati erano firmatari dei C.c.n.l.: fu evidentemente un errore, allora imprevedibile, ma quel che non valeva nel 1995 vale nel 2011, a testo invariato. Non si sa perché i Radicali chiesero quello e l’altro referendum, ugualmente accolto, sui contributi sindacali3 e, prima e dopo, chiesero quelli non ammessi su Cassa integrazione4, contratto a termine5, part time6, diritti sindacali7. Inutile discuterne, si dirà, ma credo invece che sarebbe molto utile.
Subito dopo il referendum e la parziale abrogazione del 1995, però, prevalse una nozione sostanzialista del requisito della
«firma» del contratto collettivo ex art. 19 St. lav., quando la Corte Costituzionale8 precisò che, richiedendosi solo la «firma» di un contratto collettivo, non si poteva lasciare al datore di lavoro un potere di “accreditare” i sindacati legittimati a
3 Xxxxx Xxxx., 00 gennaio 1995, n. 13, X. Xxxxxxxxx, X. Xxxxx Xxxxxxx ed X. Xxxx, in Riv. giur. lav., 1995, II, 49. Fu dichiarato ammissibile il referendum per l’abrogazione delle norme sui contributi sindacali nelle aziende nelle quali il rapporto di lavoro non è regolato da contratti collettivi. Il referendum (11 giugno 1995) ha avuto esito positivo, con abrogazione dei commi 2 e 3 dell’art. 26 St. lav., nonché l’art. 594
D.lgs. 16 aprile 1994, n. 297.
4 Xxxxx Xxxx., 00 gennaio 1995, n. 6, X. Xxxxx Xxxxxxx,
X. Xxxxxxx e X. Vigevano, in Mass. giur. lav., 1995, 7.
5 Xxxxx Xxxx., 0 febbraio 2000, n. 41, , X. Xxxxxxxxx,
X. Xxxxxxxx e X. Xx Xxxxx, in Riv. crit. dir. lav., 2000, 310.
6 Xxxxx Xxxx., 0 febbraio 2000, n. 45, X. Xxxxxxxxx,
X. Xxxxxxxx e X. Xx Xxxxx, in Dir. lav., 2000, II, 171.
7 Xxxxx Xxxx., 0 febbraio 2003, n. 45, P. Cagna Ninchi,
P.L. Xxxxxx, X. Xxxxx e P. Alò, in Giur. it., 2003, 2227.
8 Xxxxx Xxxx., 00 luglio 1996, n. 244, Flmu Milano c. Soc. Fiat auto, in Lav. giur., 1996, 1020; Id., 18 ottobre 1996, n. 345, Soc. Sulta ed altri c. Soc. Seap ed altri, in Orient. giur. lav., 1997, 40.
costituire Rsa. Utilizzando un argomento già elaborato in precedenza, la Corte precisò che sono «firmatari» non i sindacati che formalmente mettono una firma sotto un contratto, ma quelli che hanno partecipato effettivamente alla contrattazione con proposte, trattativa, lotte; inoltre ha precisato che anche il contratto collettivo va inteso in modo non formale ma sostanziale, richiedendosi per essere tale un vero contenuto normativo ed economico.
Ma allora, se veramente quel che conta è la sostanza e non la forma, credo che la Fiom vada considerata ugualmente
«firmataria» anche se formalmente non ha sottoscritto un contratto collettivo ritenuto illegittimo. Altrimenti l’art. 19 St. lav. sarebbe incostituzionale, se interpretato alla lettera, perché potrebbe comportare l’esclusione del sindacato più forte e storico.
Torna e prevale la vendetta della storia (la dea nemesi).
Xxxxxx che volevano cambiare tutto con Pomigliano e Xxxxxxxxx, forse non volevano cambiare niente o meglio vorrebbero cambiare solo i rapporti di forza. Vorrebbero realizzare quella divisione sindacale, tentata dal 20019. Le rappresentanze di legge non sono condizione per la contrattazione e la contrattazione non è condizione per le rappresentanze di legge.
La libertà sindacale ex art. 39 Cost. proibisce limiti e condizioni, lasciando che veramente il contratto collettivo sia applicato solo da chi lo vuole applicare. Sarà non certo, ma è bello.
9 Xxxxx Xxxx., 00 luglio 1996, n. 244, Flmu Milano c. Soc. Fiat auto, in Lav. giur., 1996, 1020; Id., 18 ottobre 1996, n. 345, Soc. Sulta ed altri c. Soc. Seap ed altri, in Orient. giur. lav., 1997, 40.