RELAZIONE
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“LE NOVITA’ INTRODOTTE DALLA DIRETTIVA 2014/23/CE IN MATERIA DI CONTRATTI DI CONCESSIONE”
Il presente documento contiene una disanima delle principali novità introdotte in tema di concessioni pubbliche dalla Direttiva europea n. 23 del 26/2/14, confrontando il portato delle nuove prescrizioni con il vigente Codice dei Contratti pubblici.
Il documento è proposto come agile strumento di lavoro e spunto di riflessione in relazione al processo di riforma del Codice dei Contratti pubblici attualmente in corso.
§§§
A) Premessa
La Direttiva europea n. 23 del 26/2/14, pubblicata sulla GUCE il 28/3/14, introduce una puntuale ed unitaria regolamentazione delle concessioni pubbliche. Essa si innesta nel processo di riforma della normativa comunitaria sugli appalti pubblici, sfociato nelle Direttive n. 2014/24/UE e n. 2014/25/UE, col superamento delle precedenti Direttive n. 17 e 18 del 2004.
Il principio ispiratore della nuova Direttiva concessioni è introdurre una normativa idonea, equilibrata e flessibile che disciplini, a livello europeo, l’aggiudicazione dei contratti di concessione, al fine di garantire un accesso effettivo e non discriminatorio al mercato a tutti gli operatori economici dell’Unione, assicurando, al contempo, la certezza giuridica e favorendo gli investimenti pubblici in infrastrutture e servizi strategici per i cittadini.
In altri termini, il Legislatore ha voluto dare delle “direttive” chiare e univoche agli stati membri, tenuto conto della frammentarietà interna della disciplina delle concessioni che, in tal modo, riceve una regolamentazione unitaria.
Questa è, dunque, la prima importante novità introdotta dalla Direttiva concessioni che, in fase di recepimento, avrà un impatto determinante anche sulla relativa normativa nazionale.
A tal riguardo, come noto, il 29 agosto 2015 è stato approvato, su proposta del Presidente del Consiglio e del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, un disegno di legge delega per il recepimento delle predette direttive europee attraverso la compilazione di un unico testo normativo, che abrogherà l’attuale Codice dei Contratti Pubblici.
Sulla scorta delle indicazioni Comunitarie, il Legislatore nazionale dovrà, dunque, “superare” la dicotomia, ancora presente, tra l’affidamento della concessione dei lavori, disciplinata dalla direttiva 2004/18/CE e dal Codice dei contratti pubblici e quello della concessione di servizi, rimasti esclusi ai sensi dell’art. 30 del D.Lgs. 163/06 e sottoposti unicamente ai principi espressi dai Trattati.
B) Le novità introdotte dalla Direttiva Concessioni
Come noto, la Direttiva n. 23/2014/UE è struttura in 5 Titoli per un totale di 55 articoli e 11 Allegati, nello specifico:
Titolo I, rubricato “oggetto, ambito di applicazione, principi e definizioni”, distinto in: Capo I: “ambito di applicazione, principi generali e definizioni”, distinto in
Sezione I: “oggetto, ambito di applicazione, principi generali, definizioni e soglia”, art. da 1 a 9; Sezione II: “esclusioni”, artt. da 10 a 17;
Sezione III: “disposizioni generali”, artt. da 18 a 25; Sezione IV: “situazioni specifiche”, artt. 24 e 25; Capo II: “principi”, artt. da 26 a 29;
Titolo II, rubricato “norme sull’aggiudicazione di concessioni: principi generali e garanzie procedurali”, distinto in:
Capo I: “principi”, artt. da 30 a 35;
Capo II: “garanzie procedurali”, artt. da 36 a 41;
Titolo III, rubricato “norme sull’esecuzione delle concessioni” artt. da 42 a 45; Titolo IV, rubricato “modifiche delle Direttive 89/665/CE e 92/12/CEE” artt 46 e 47;
Titolo V, rubricato “poteri delegati, competenze di esecuzione e disposizioni finali” artt. da 48 a 55. Allegato I: “elenco delle attività di cui all’articolo 5, punto 7”;
Allegato II: “attività svolte dagli enti aggiudicatori di cui all’articolo 7”;
Allegato III: “elenco degli atti giuridici dell’unione di cui all’articolo 7, paragrafo 2, lettera b)”; Allegato IV: “servizi di cui all’articolo 196”;
Allegato V: “informazioni da inserire nei bandi di concessione di cui all’articolo 31”;
Allegato VI: “informazioni da inserire negli avvisi di preinformazione concernenti le concessioni di servizi sociali e di altri servizi specifici di cui all’articolo 31, paragrafo 3”;
Allegato VII: “informazioni da inserire negli avvisi di aggiudicazione di concessioni di cui all’articolo 32”;
Allegato VIII: “informazioni da inserire negli avvisi di aggiudicazione di concessioni concernenti servizi sociali e altri servizi specifici di cui all’articolo 32”;
Allegato IX: “caratteristiche relative alla pubblicazione”;
Allegato X: “elenco delle convenzioni internazionali in materia e ambientale di cui all’articolo 30, paragrafo 3”;
Allegato XI: “informazioni da inserire negli avvisi di modifiche di una concessione in vigenza della stessa ai sensi dell’articolo 43”.
Consapevole della complessità della nuova disciplina, per scelta operativa, il presente documento si sofferma ad illustrare, in breve, le principali novità introdotte dalla detta Direttiva (23/2014), onde, poi, analizzarne gli impatti operativi sul vigente quadro normativo nazionale.
Per semplicità di lettura, viene proposta una descrizione per punti delle principali novità
I. Disciplina uniforme per le concessioni di lavori e di servizi
Un primo significativo profilo dettato dal legislatore comunitario è quello della definizione di concessioni pubbliche nel cui ambito vengono ricondotte tanto le concessioni di lavori quanto quelle di servizi, come detto, al fine di definire una disciplina uniforme.
In tal senso, la Direttiva 23/2014/UE ha definito in maniera chiara le caratteristiche del contratto di concessione.
Ai sensi dell’art. 5, paragrafo 1, lettera a), per concessione di lavori si intende “un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più amministrazioni aggiudicatrici o uno o più enti aggiudicatori affidano l’esecuzione di lavori ad uno o più operatori economici, ove il corrispettivo consista unicamente nel diritto di gestire i lavori oggetto del contratto o in tale diritto accompagnato da un prezzo”, mentre alla lettera b) per concessione di servizi si intende “un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più amministrazioni aggiudicatrici o uno o più enti aggiudicatori affidano la fornitura e la gestione di servizi diversi dall’esecuzione di lavori di cui alla lettera a) ad uno o più operatori economici, ove il corrispettivo consista unicamente nel diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o in tale diritto accompagnato da un prezzo”.
Invero, con tali definizioni, che non si discostano in buona sostanza da quelle nazionali di cui all’art. 3 del Codice degli Appalti, il Legislatore comunitario ha voluto superare le “lacunosità” esistenti nell’ambito degli Stati Membri tra il concetto di appalto e quello di concessione.
Infatti, dalla normativa comunitaria si rileva che il tratto distintivo tra le due fattispecie è rinvenibile nel fatto che, nel contratto di concessione, il corrispettivo derivante dall’erogazione del servizio consiste proprio nel diritto di gestire il servizio o i lavori oggetti del medesimo contratto, diversamente da quanto accade nell’appalto, in cui il corrispettivo che deriva dalla esecuzione dei lavori o dalla gestione del servizio consiste nell’erogazione di un contributo economico che viene pattuito con la stazione appaltante e dalla stesso erogato.
II. Il rischio operativo
Al fine di superare le difficoltà interpretative legate alle nozioni di “contratto di concessione” e “appalto pubblico” che hanno generato incertezze giuridiche tra i soggetti interessati e numerose pronunce della Corte di giustizia Europea, la Direttiva 23/2014 ha precisato il significato di “concessione”, facendo riferimento alla concetto di “rischio operativo”.
Infatti, l’art. 5, comma 1, della direttiva dispone: “l’aggiudicazione di una concessione di lavori o di servizi comporta il trasferimento al concessionario di un rischio operativo legato alla gestione dei lavori o dei servizi, comprendente un rischio sul lato della domanda o sul lato dell’offerta, o entrambi. Si considera che il concessionario assuma il rischio operativo nel caso in cui, in condizioni operative normali, non sia garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi oggetto della concessione. La parte del rischio trasferita al concessionario comporta una reale esposizione alle fluttuazioni del mercato tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita dal concessionario non sia puramente nominale o trascurabile”.
In altri termini, il legislatore comunitario ha voluto stabilire che la caratteristica principale di una concessione, ossia il diritto di gestire un lavoro o un servizio, implica sempre il trasferimento al concessionario di un rischio operativo di natura economica che comporta la possibilità di non riuscire a recuperare gli investimenti effettuati e i costi sostenuti per realizzare i lavori o i servizi aggiudicati in condizioni operative normali, anche se una parte del rischio resta carico dell’amministrazione aggiudicatrice o dell’ente aggiudicatore che non dovrebbe, quindi, sollevare l’operatore economico da qualsiasi perdita potenziale garantendogli un introito minimo pari o superiore agli investimenti effettuati e ai costi che lo stesso operatore deve sostenere in relazione all’esecuzione del contratto.
Il rischio operativo deve essere connesso a fattori esclusi dal controllo delle parti (come quelli legati alla cattiva gestione, ad inadempimenti contrattuali da parte dell’operatore economico o a cause di forza maggiore) da intendersi, dunque, come esposizione alle fluttuazioni del mercato sia dal lato della domanda, inteso come il rischio associato alla domanda effettiva di lavori o servizi che sono oggetto del contratto che può subire un calo per l’insorgere nel mercato di un’offerta competitiva di altri operatori (es: contrazione dei consumi, mancato appeal del concessionario), che dal lato dell’offerta, inteso come il rischio associato alla offerta di lavori e servizi che sono oggetto del contratto, in particolare, quando la fornitura non corrisponde alla domanda.
In tal modo, il legislatore comunitario ha dettato precise regole, al fine di evitare pratiche elusive dell’obbligo di trattenere il rischio operativo a carico del privato concessionario, come:
- nel caso dei contratti di partenariato pubblico-privato (PPP), laddove i canoni da corrispondere dalla P.A. al privato non possono essere decurtati al di sotto dei cd. “minimi garantiti”, valore che in genere coincide con la rata di restituzione del debito contratto con gli istituti di credito;
- quando ci siano delle clausole contrattuali che pongono un limite irragionevole alle penali a carico del concessionario, consentendo ad esempio di decurtare solo l’utile;
- quando vengono richieste alla P.A. in modo diretto delle fideiussioni omnibus a garanzia del debito contratto dal concessionario;
- quando vengono pattuiti dei pagamenti della P.A. al concessionario a fronte dei quali l’affidatario della concessione non rende alcun servizio o rende dei servizi non esposti ad alcun tipo di rischio.
In tale contesto, merita attenzione l’inciso “in condizioni operative normali” (cfr: art. 5, comma 1), con cui la Direttiva ha voluto introdurre una salvezza per il concessionario privato all’assunzione
del rischio operativo. In altri termini, dal generale rischio operativo sembra escluso il caso del rischio finanziario sistematico, inteso come quello che riguarda il mercato nel suo insieme e non i singoli comparti rispetto a cui nulla può l’operatore privato.
Del resto la considerazione del “rischio” non è elemento estraneo al nostro Codice degli Contratti pubblici, atteso che, all’art. 143, comma 9, è previsto: “Le amministrazioni aggiudicatrici possono affidare in concessione opere destinate alla utilizzazione diretta della pubblica amministrazione, in quanto funzionali alla gestione di servizi pubblici, a condizione che resti a carico del concessionario l'alea economico-finanziaria della gestione dell'opera”. In altri termini, il nostro legislatore ha previsto, anche nel caso di concessioni definite “fredde”, di mantenere a carico del concessionario l’alea economica – finanziaria dell’opera.
III. Ambito di applicazione ed esclusioni
A questo punto appare opportuno delineare l’ambito di applicazione della Direttiva n. 23/2014. Al riguardo il legislatore comunitario ha definito i soggetti che possono affidare concessioni:
- Amministratori aggiudicatori (Stato, Autorità regionali o locali, organismi di diritto pubblico o le associazioni costituire da uno o più di tali enti o da uno o più di tali organismi di diritto pubblico diversi da enti, organismi o associazioni);
- enti aggiudicatori (Stato, Autorità regionali o locali, organismi di diritto pubblico o le associazioni costituire da uno o più di tali enti o da uno o più di tali organismi di diritto pubblico; le imprese pubbliche; gli enti operanti sulla base di diritti speciali ed esclusivi).
Il legislatore comunitario ha, poi, espressamente stabilito (artt.10,11,12,13,14, 16, 17) la non applicazione della Direttiva n. 23/2014 nei casi riguardanti:
- Concessioni aggiudicate da amministrazioni aggiudicatrici ed enti aggiudicatori;
- il settore delle comunicazioni: concessioni finalizzate a permettere all’amministrazione aggiudicatrice la messa a disposizione o la gestione di reti pubbliche di comunicazione o la prestazione al pubblico di uno o più servizi di comunicazioni elettroniche;
- il settore idrico: forniture o gestione di reti fisse destinate all’erogazione di un servizio pubblico in concessione, con la produzione, il trasporto o la distribuzione di acqua potabile; alimentazione di tali reti; concessioni riguardanti progetti di ingegneria idraulica, irrigazione, drenaggio, smaltimento e trattamento di acque reflue;
- concessioni aggiudicate ad impresa collegata;
- concessioni aggiudicate in joint venture o a un ente aggiudicatore facente parte di joint venture;
- affidamenti in house.
IV. Il valore della concessione e metodo unico di calcolo
Altro aspetto rilevante introdotto dalla Direttiva n. 23/2014 è quello della soglia minima che deve avere la concessione ed il metodo di calcolo per stabilirne il valore.
Dopo aver statuito che la direttiva si applica alle concessioni il cui valore sia pari o superiore a
5.186.000 euro (ogni due anni la Commissione verifica che tale soglia corrisponda a quella stabilità
nell’accordo sugli appalti pubblici dell’Organizzazione mondiale del commercio per le concessioni di lavori e se del caso procede ad una sua revisione), l’art. 8 ha stabilito un metodo di calcolo unico per determinare il valore delle dette concessioni, chiarendo che: “il valore di una concessione è costituito dal fatturato totale del concessionario generato per tutta la durata del contratto, al netto dell’IVA, stimato dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore, quale corrispettivo dei lavori e dei servizi oggetto della concessione, nonché per le forniture accessorie a tali lavori o servizi”.(cfr: art. 8, comma 2, della direttiva).
In base a tale norma, dunque, il calcolo per stabilire il valore della concessione dovrebbe tener conto del fatturato globale del concessionario quale corrispettivo dei lavori e dei servizi oggetto della concessione, stimato dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore, IVA esclusa, per la durata del contratto.
In merito, l’art. 29 del Codice degli Appalti stabilisce che: “il calcolo del valore stimato degli appalti pubblici e delle concessioni si lavori o servizi pubblici è basato sull’importo totale pagabile al netto dell’IVA, valutato dalle stazioni appaltanti”.
Il metodo utilizzato dal Codice di stimare il contratto di concessione senza riferirsi al valore dei lavori, ma all’importo totale pagabile al concessionario al netto IVA è, in buona sostanza, equivalente a quello previsto dal legislatore comunitario.
V. La durata della concessione
Il Legislatore comunitario ha voluto porre, altresì, dei precisi limiti temporali alle concessioni.
Infatti, l’art. 18 ha prescritto che: “la durata delle concessioni è limitata. Essa è stimata dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore in funzione dei lavori o servizi richiesti dal concessionario. Per le concessioni ultraquinquennali, la durata massima della concessione non supera il periodo di tempo in cui si può ragionevolmente prevedere che il concessionario recuperi gli investimenti effettuati nell’esecuzione dei lavori o dei servizi, insieme con un ritorno sul capitale investito tenuto conto degli investimenti necessari per conseguire gli obiettivi contrattuali specifici. Gli investimenti presi in considerazione ai fini del calcolo comprendono sia quelli iniziali sia quelli in corso di concessione”.
Con tale articolo, il Legislatore comunitario ha voluto, da subito, chiarire che la durata della concessione deve essere limitata. Tale previsione nasce dalla esigenza di evitare preclusioni dell’accesso al mercato e restrizioni della concorrenza per gli operatori economici interessati.
Tuttavia, come chiarito dal legislatore al punto 52 delle premesse alla Direttiva, tale durata può essere giustificata se è indispensabile per consentire al concessionario di recuperare gli investimenti previsti per eseguire la concessione, nonché di ottenere un ritorno sul capitale investito. Di conseguenza, per le concessioni di durata superiore a cinque anni la durata dovrebbe essere limitata al periodo in cui si può ragionevolmente prevedere che il concessionario recuperi gli investimenti effettuati per eseguire i lavori e i servizi ed ottenga un ritorno sul capitale investito in condizioni operative normali, tenuto conto degli specifici obiettivi contrattuali assunti dal concessionario per rispondere alle esigenze riguardanti, ad esempio, la qualità o il prezzo degli utenti.
In tal senso, la Direttiva (18, comma 2)sembra aver posto implicitamente un limite massimo quinquennale di durata, oltre il quale il tempo della concessione è determinato esclusivamente dal periodo in cui si può ragionevolmente prevedere che il concessionario recuperi gli investimenti effettuati nell’esecuzione dei lavori o dei servizi (spese per infrastrutture, diritti d’autore, brevetti, materiale, logistica, affitto, formazione del personale e spese iniziali), insieme con il ritorno sul capitale investito, tenuto conto degli investimenti necessari per conseguire gli obiettivi contrattuali specifici.
La durata massima della concessione dovrebbe poi essere indicata nei documenti di gara, a meno che non sia utilizzata come criterio di aggiudicazione del contratto. In ogni caso, secondo il legislatore comunitario, le amministrazioni aggiudicatrici e gli enti aggiudicatori dovrebbero sempre poter aggiudicare una concessione per un periodo più breve di quello necessario per recuperare gli investimenti, a condizione che la corrispondente compensazione non elimini il rischio operativo.
In merito, l’art. 143, al comma 6, del D. Lgs. 163/06 dispone che: “La concessione ha di regola durata non superiore a trenta anni” ed al comma 8 che: “La stazione appaltante, al fine di assicurare il perseguimento dell'equilibrio economico-finanziario degli investimenti del concessionario, può stabilire che la concessione abbia una durata superiore a trenta anni….. Al fine di assicurare il rientro del capitale investito e l'equilibrio economico-finanziario del Piano Economico Finanziario, per le nuove concessioni di importo superiore ad un miliardo di euro, la durata può essere stabilita fino a cinquanta anni.”.
VI. Modifica della concessione senza indizione di una nuova procedura di gara
La durata della concessione, come elemento per la determinazione del valore della concessione, ha avuto un “peso” anche per quanto concerne la previsione delle condizioni incidenti sulla modifica della stessa concessione durante la sua esecuzione.
In tal senso, partendo dalla considerazione che i contratti di concessione comportano generalmente disposizioni tecniche e finanziarie complesse e di lunga durata, soggette ai mutamenti delle circostanze, il Legislatore comunitario ha regolamentato le ipotesi che necessitano della indizione di nuova procedura di gara e quelle che, invece, la escludono.
A tal riguardo, l’art. 43, rubricato “modifica di contratti durante il periodo di validità”, al paragrafo 1, lett a), dispone: “le concessioni possono essere modificate senza una nuova procedura di aggiudicazione della concessione a norma della presente direttiva nei casi seguenti: a) se le modifiche, a prescindere dal loro valore monetario, sono state previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi, o opzioni. Tali clausole fissano la portata e la natura di eventuali modifiche o opzioni, nonché le condizioni alle quali possono essere impiegate. Esse non apportano modifiche o opzioni che altererebbero la natura generale della concessione”.
Anche in questo caso nella direttiva c’è stato un richiamo forte alla previsione delle clausole contrattuali che consentano di procedere ad affidamenti diretti, prescindendo dal loro valore, ma mai dal principio di non alterazione della natura della concessione.
Al riguardo, il Codice sembra abbia già affrontato all’art. 143, comma 8 bis, tale questione, atteso che a norma del detto articolo la convenzione: 1) deve definire i presupposti e le condizioni di base del piano economico – finanziario le cui variazioni non imputabili al concessionario, qualora determinino una modifica dell’equilibrio del piano, comportano la revisione; 2) nonché contenere una definizione di equilibrio economico – finanziario che fa riferimento ad indicatori di redditività e di capacità di rimborso del debito; 3) la procedura di verifica e la cadenza temporale degli stessi.
Il paragrafo 1, lett b) dell’art. 43 della Direttiva ha previsto una ulteriore ipotesi di modifica consentita della concessione, ovvero il caso dell’affidamento al concessionario di lavori o servizi supplementari che si siano resi necessari e non erano inclusi nella concessione iniziale. Tale modifica è ammessa solamente quando il cambiamento del concessionario:
a) risulti impraticabile per motivi economici o tecnici quali il rispetto dei requisiti di intercambiabilità o interoperatività tra apparecchiature, servizi o impianti esistenti forniti nell’ambito della concessione iniziale;
b) comporti per l’amministrazione notevoli disguidi o una consistente duplicazione di costi. Inoltre, per le concessioni diverse sa quelle aggiudicate nell’ambito dei cosiddetti “settori speciali”, la Direttiva n. 23/2014 ha posto un limite, specificando chel’eventuale aumento di valore non deve eccedere il 50% del valore della concessione iniziale.
Tale limitazione, nell’ipotesi di più modifiche successive, si applica al valore di ciascuna modifica e la norma in esame espressamente stabilisce che le modifiche successive non devono essere intese ad aggirare la direttiva.
Successivamente, la lettera c) del paragrafo 1 della medesima Direttiva ha previsto che la modifica della concessione sia ammessa ove siano soddisfatte le seguenti condizioni:
i) la necessità di modifica è determinata da circostanze che un’Amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore diligente non abbia potuto prevedere;
ii) la modifica non alteri la natura generale della concessione;
iii) nel caso di concessioni aggiudicate in un ambito diverso da quello dei cosiddetti “settori speciali”, l’eventuale aumento di valore non sia superiore al 50% del valore della concessione iniziale. Tale limitazione si applica al valore di ciascuna modifica successiva.
In tal modo, dunque, il Legislatore ha voluto disciplinare le ipotesi in cui le Amministrazioni aggiudicatrici e gli enti aggiudicatori possono trovarsi ad affrontare circostanze esterne che non era possibile prevedere quando hanno aggiudicato la concessione, in particolare quando l’esecuzione della concessione copre un periodo lungo.
In questi casi è necessaria una certa flessibilità per adattare la concessione alle circostanze senza ricorrere a una nuova procedura di aggiudicazione.
Il concetto di circostanze imprevedibili si riferisce a circostanze che non si potevano prevedere nonostante un ragionevole e diligente preparazione dell’aggiudicazione iniziale da parte dell’Amministrazione aggiudicatrice o dell’ente aggiudicatore, tenendo conto dei mezzi a sua disposizione, della natura e delle caratteristiche del progetto specifico, delle buone prassi del settore
in questione e della necessità di garantire un rapporto adeguato tra le risorse investite nel preparare l’aggiudicazione e il suo valore prevedibile.
Tale principio non può trovare tuttavia applicazione qualora una modifica comporti una variazione della natura complessiva della concessione, ad esempio: sostituzione dei lavori da eseguire o dei servizi da prestare con qualcosa di diverso, oppure un cambiamento sostanziale del tipo di concessione, poiché in una situazione del genere è possibile presumere una influenza ipotetica sul risultato.
Al riguardo, va evidenziato che questa ipotesi è la più innovativa tra quelle previste dalla Direttiva ed ha una portata ampia, lasciando una forte discrezionalità sia al legislatore nazionale in sede di recepimento, che alle Amministrazioni, nel caso venisse consentita, in sede di futura applicazione.
VII. Modifica della concessione con indizione di una nuova procedura di gara
Come anticipato, il medesimo art. 43 della Direttiva ha disciplinato, inoltre, il caso in cui è necessaria l’indizione di una nuova procedura di aggiudicazione, ovvero quando vengono apportate modifiche sostanziali al contratto iniziale, in particolare, al campo di applicazione e al contenuto dei diritti e degli obblighi reciproci delle parti, inclusa la ripartizione dei diritti di proprietà intellettuale. Tali modifiche dimostrano l’intenzione delle parti di rinegoziare termini o condizioni essenziali della concessione, come il caso in cui tali condizioni, modificate, avrebbero inciso sull’esito della procedura nel caso in cui fossero state parte della procedura sin dall’inizio.
Al riguardo, il paragrafo 4, lett b), chiarisce che: “ la modifica cambia l’equilibrio economico finanziario della concessione a favore del concessionario in modo non previsto dalla concessione iniziale” .
In base alla norma in parola, le modifiche sostanziali sono soltanto quelle che incidono sull’equilibrio del PEF (inteso come esito di una concordata e specifica distribuzione dei rischi tra le parti) e al contempo:
1) determinino un vantaggio del concessionario;
2) non siano previste nel contratto di concessione.
Da tale considerazione, discende che, nel caso di una modifica al contratto che preveda nuovi investimenti, nuove tariffe o altro che comporti una modifica dell’equilibrio del PEF, è necessaria l’indizione i una nuova procedura di aggiudicazione.
Ciò posto, problematica diventa, comunque, la valutazione nel concreto delle ipotesi che possono originare la modifica di cui all’articolo 43.
Infatti, mentre per elementi concreti coma la diminuzione degli investimenti programmati, l’aumento delle tariffe, l’aumento del contributo pubblico si determina una percepibile modifica dell’equilibrio del PEF a vantaggio del concessionario, la stessa concretezza non è percepibile quando venga modificata la distribuzione dei rischi, sempre a suo vantaggio.
La modifica della distribuzione dei rischi – nel senso di uno spostamento a carico della PA quando erano invece a carico del concessionario – può alterare la natura della concessione ed è sostanziale se solo si pensi all’impatto che può avere sui contratti di finanziamento.
Allo stesso modo, il finanziamento che sia garantito dalla PA e che dia certezza di restituzione agli istituti di credito, da una parte comporta dei costi inferiori che possono essere incassati dal concessionario, guadagnando così senza sostenere rischi, dall’altra parte se sono sbilanciati in modo da non configurare più il rischio operativo a carico del concessionario, compromette l’esistenza stessa della concessione venendo meno uno degli elementi costitutivi imposti dalla direttiva.
In tal senso, al fine di superare le “difficoltà” di applicazione della norma, è necessario che vi sia un forte livello di attenzione rispetto alla completezza delle condizioni di modifica dell’equilibrio del PEF contenute nel contratto di concessione; infatti, più l’elenco è completo e meno contenziosi potranno insorgere in merito alla natura della modifica sostanziale della concessione, tenuto conto, in ogni caso, che le condizioni di modifica previste contrattualmente che snaturino la concessione facendo venire meno qualità e quantità dei rischi operativi a cui deve essere esposto il concessionario, non sanano il contratto per il sol fatto che siano state previste.
VIII. Elementi costitutivi della concessione
L’analisi delle riferite disposizioni consente non soltanto di definire le linee salienti tracciate dal Legislatore europeo per la regolamentazione delle concessioni, ma anche di individuarne gli elementi costitutivi, quali: il contratto, il progetto, il PEF. Questi tre elementi costituiscono un unicum inscindibile e al momento della stipulazione contrattuale devono essere coerenti tra loro.
In tal senso, dalla Direttiva è possibile trarre conferma dei profili distintivi di tali elementi, ben noti agli addetti ai lavori ed agli operatori del settore.
Il PEF è il documento che rappresenta quantitativamente lo sviluppo del progetto, la realizzazione dell’opera, la gestione del servizio e la sostenibilità economica per la durata dell’intera concessione. Il rispetto del principio dell’equilibrio economico finanziario del PEF è la condizione essenziale per la stipulazione della concessione e per le operazioni di rinegoziazione del contratto, in considerazione della stretta correlazione tra equilibrio del PEF, distribuzione dei rischi, investimenti, durata e congruità del contributo pubblico.
Una particolare attenzione deve essere prestata nella sua determinazione per evitare impropri guadagni ed eliminazione dei rischi a carico del concessionario.
La P.A verificando in sede di aggiudicazione il perseguimento delle condizioni di equilibrio del PEF della concessione adempie ad un obbligo che tutela il proprio interesse affinché i contratti complessi e di lunga durata possano essere portati a conclusione.
Inoltre, la redazione del PEF deve rispettare anche i requisiti di bancabilità (sostenibilità finanziaria), o meglio le condizioni di finanziabilità che gli istituti di credito richiedono nel momento in cui si accede alle loro linee di credito per finanziare l’operazione. Una concessione non bancabile non otterrà il finanziamento, per cui non potrà essere realizzata, l’opera o il servizio tramite questa.
Per sostenibilità finanziaria si intende la capacità progetto di generare flussi di cassa sufficienti a garantire il rimborso dei finanziamenti attivati. La sostenibilità finanziaria di un investimento viene misurata attraverso il calcolo degli indici di copertura del debito (cover ratio), che misurano la capacità del progetto di far fronte al servizio del debito in un determinato anno o in riferimento al periodo di rimborso del finanziamento contratto. Gli indicatori di riferimento sono il Debet Srevice Cover Ratio (DSCR) e il Loan Life Cover ratio (LLCR).
L’importanza e il rilievo delle specifiche condizioni di bancabilità nella redazione del PEF, hanno acquisito una legittimazione normativa in ambito nazionale tanto da poter affermare l’esistenza di un vero e proprio diritto di bancabilità del concessionario a fronte dell’obbligo della P.A a concederlo. Infatti, il Codice impone alla P.A, all’art. 144, comma 3, che “i bandi e i relativi allegati, ivi compresi, a seconda dei casi, lo schema di contratto e il piano economico finanziario sono definiti in modo da assicurare adeguati livelli di bancabilità dell’opera”. L’assenza di adeguati livelli di bancabilità dell’opera impedisce la determinazione di un corretto equilibrio del PEF, facendo venire meno le condizioni di adempimento delle obbligazioni del concessionario.
La P.A ha, dunque, l’obbligo di incorporare nella stipulazione contrattuale e nelle eventuali revisioni dell’equilibrio del PEF, le condizioni di bancabilità di quel particolare momento storico dell’operazione; la mancanza costituirebbe in prima battuta un grave inadempimento dei propri obblighi ed in ultima analisi un’operazione contro l’interesse pubblico perché impedirebbe la realizzazione della concessione.
IX. Gli affidamenti di servizi in house e la direttiva comunitaria
A questo punto, appare opportuno analizzare l’impatto della Direttiva n. 23/2014 sulla fattispecie degli affidamenti a società in house providing.
Come noto, in giurisprudenza (Cfr. ex multis Corte Giust. Europea, Sentenza Teckal c-107/98; Corte Giust. Europea, Sentenza Brixen c-458/03) l’affidamento diretto a società in house providing presuppone la società in questione sia: a) a totale partecipazione pubblica della/lle PA affidante/i;b) sottoposta al controllo della PA affidante analogo a quello esercitato sui propri servizi/uffici; c) realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli senti che la controllano
Infatti, sempre ad avviso della consolidata giurisprudenza, è “un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica. Tale eccezione viene giustificata dal diritto comunitario con il rilievo che la sussistenza delle suddette condizioni esclude che l’in house contract configuri, nella sostanza, un rapporto contrattuale intersoggetivo tra aggiudicante ed affidatario, perché quest’ultimo è, in realtà, solo la longa manus del primo” (Cfr. ex multis: Xxxxx Xxxx. 00 marzo 2013, n. 46 e 17 novembre 2010, n. 325; Cons. Stato, Ad. Plen., 3
marzo 2008, n. 1).
La Direttiva n. 23/2014 ha dedicato all’in house l'art. 17, escludendo dal proprio ambito di applicazione proprio tale fattispecie.
Tuttavia, nello stabilire quanto innanzi ha descritto le caratteristiche della società in house ed innovato radicalmente il portato dei tre requisiti declinati dalla giurisprudenza comunitaria e
nazionale. In particolare, ha statuito che ricorre una fattispecie in house in presenza delle seguenti condizioni:
a) l’Amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore esercita sulla persona giuridica un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi;
b) oltre l’80% delle attività della persona giuridica controllata sono effettuate nello svolgimento di compiti ad essa affidati dall’Amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore controllante o da altre persone giuridiche controllate Amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatario controllante (quest’ultimo è il caso delle cosiddette partecipazioni indirette o di II livello, modello holding pubblica);
c) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione di capitali privati diretti ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei Trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata.
In altri termini, per effetto delle nuove disposizioni, l’in house diventa possibile anche in presenza di capitali privati nella società (sempre che non si abbia controllo da parte del socio privato) e di attività svolte seppur marginalmente (meno del 20%) in favore di soggetti terzi rispetto alla PA proprietaria ed affidante.
La Direttiva contiene poi una descrizione delle caratteristiche operative del cosiddetto “controllo analogo”, ovvero: “un’Amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore esercita su una persona giuridica un controllo analogo … quando esercita un’influenza decisiva sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative della persona giuridica controllata. Tale controllo può anche essere esercitato da persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore”. Al riguardo, dunque, la Direttiva chiarisce che tale controllo è possibile anche nelle ipotesi di partecipazione indiretta (anche modello holding), purché operativamente si adottino soluzioni in grado di concretizzarlo.
Inoltre, la Direttiva prevede la legittimità dell’ipotesi in cui la società in house sia partecipata da più enti, sempre che operativamente si concretizzi un “controllo analogo” esercitato congiuntamente dagli enti soci.
X. Sulla natura o meno “Self– executing” della direttiva.
Da ultimo, particolare attenzione merita la valutazione sulla natura o meno self executing della Direttiva n. 23/2014, ovvero se è possibile considerare le disposizioni in essa contenute immediatamente applicabili nel territorio degli stati membri, senza alcun provvedimento attuativo, tenuto conto che, come chiarito dalla Corte di Giustizia, trovano diretta applicazione le direttive le cui disposizioni sono così particolareggiate da escludere qualsiasi discrezionalità da parte degli stati membri, e ciò a prescindere dal precetto (positivo o negativo) in esse contenuto (cfr. ex multis, Corte di Giustizia C.E. 25 maggio 1993, in causa 193/91
In tal senso, l’art. 51 della direttiva dispone che: “gli Stati Membri mettono in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva entro il 18 aprile 2016. Xxxx comunicano immediatamente alla Commissione il testo di tali disposizioni”
La “problematica” è stata recentemente affrontata dalla Sesta VI del Consiglio di Stato che - nel non far proprio un recente orientamento della Sezione II, in sede consultiva, emesso in caso analogo- ha statuito come la Dir. n. 2014/24/UE del 26 febbraio 2014 (appalti), la Dir. n. 2014/25/UE (settori speciali) e la Dir. n. 2014/23/UE (concessioni), nonostante il loro contenuto in alcune parti dettagliato, non possono ritenersi self-executing, e pertanto le meno rigide maglie dell'in house comunitario non sono ad oggi ancora applicabili, col che continuano a trovare applicazione i principi generali di origine giurisprudenziale (cfr: Cons. di Stato, sez. VI, 26 maggio 2015, n. 2660).
Anche la II Sezione del Consiglio di Stato - investita della richiesta di parere in ordine alla possibilità per il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca di affidare in via diretta al Cineca servizi nel campo dell'informatica, concernenti il sistema universitario, della ricerca e scolastico - nel parere n. 298/2015 ha approfondito e chiarito, alla luce degli interventi dell'Unione europea in subiecta materia, i presupposti e le condizioni di ammissibilità degli affidamenti diretti "in house". In particolare, nel precisare che la direttiva 2014/24 non è stata ancora recepita, essendo ancora in corso il termine relativo per l'incombente, i Giudici Amministrativi hanno rilevato che essa appare di carattere sufficientemente dettagliato tale da presentare pochi dubbi per la sua concreta attuazione, aggiungendo che "Non vi è dubbio quindi che nel caso in esame, se non vi è addirittura un’applicazione immediata del tipo “self-executing”, non può in ogni caso non tenersi conto di quanto disposto dal legislatore europeo, secondo una dettagliata disciplina in materia, introdotta per la prima volta con diritto scritto e destinata a regolare a brevissimo la concorrenza nei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture nell'U.E.".
Tenuto conto, dunque, della sussistenza del termine di recepimento che scadrà il 18/4/16 e degli arresti giurisprudenziali e dottrinali richiamati, si giunge alla conclusione che le disposizioni della presente direttiva non possono essere considerate immediatamente applicabili, in mancanza di specifici provvedimenti adottati dal legislatore nazionale.
Alla luce di tutto quanto innanzi, appare quanto mai urgente il previsto intervento del legislatore nazionale, anche al fine di prevenire ulteriori problematiche connesse all’applicazione della predetta normativa comunitaria.