DIRETTIVA 1999/70/CE - CLAUSOLE 1, LETT. B), E 5 DELL’ACCORDO QUADRO SUL LAVORO A TEMPO DETERMINATO - SUCCESSIONE DI CONTRATTI DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO NEL SETTORE PUBBLICO - NOZIONI DI “CONTRATTI SUCCESSIVI” E DI “RAGIONI OBIETTIVE” CHE...
Corte di Giustizia delle Comunità Europee (Grande Sezione) 4 luglio 2006, C- 212/04 - Pres. Skouris - Rel. Xxxxxxxxx.
DIRETTIVA 1999/70/CE - CLAUSOLE 1, LETT. B), E 5 DELL’ACCORDO QUADRO SUL LAVORO A TEMPO DETERMINATO - SUCCESSIONE DI CONTRATTI DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO NEL SETTORE PUBBLICO - NOZIONI DI “CONTRATTI SUCCESSIVI” E DI “RAGIONI OBIETTIVE” CHE GIUSTIFICANO IL RINNOVO DI TALI CONTRATTI - MISURE DI PREVENZIONE DEGLI ABUSI - SANZIONI - PORTATA DELL’OBBLIGO DI INTERPRETAZIONE CONFORME.
La clausola 5, n. 1, lett. a), dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo de- terminato, deve essere interpretata nel senso che essa osta all’utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato successivi che sia giustificata dalla sola circostanza di esse- re prevista da una disposizione legislativa o regolamentare generale di uno Stato mem- bro. Al contrario, la nozione di «ragioni obiettive» ai sensi della detta clausola esige che il ricorso a questo tipo particolare di rapporti di lavoro, quale previsto dalla normativa nazionale, sia giustificato dall’esistenza di elementi concreti relativi in particolare all’attività di cui trattasi e alle condizioni del suo esercizio.
La clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo indeterminato deve essere inter- pretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, quale quella controversa nel- la causa principale, la quale stabilisce che soltanto i contratti o rapporti di lavoro a tem- po determinato non separati gli uni dagli altri da un lasso temporale superiore a 20 gior- ni lavorativi devono essere considerati «successivi» ai sensi della detta clausola.
In circostanze quali quelle di cui alla causa principale, l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato deve essere interpretato nel senso che, qualora l’ordinamento giuri- dico interno dello Stato membro interessato non preveda, nel settore considerato, altra misura effettiva per evitare e, nel caso, sanzionare l’utilizzazione abusiva di contratti a tempo determinato successivi, il detto accordo quadro osta all’applicazione di una nor- mativa nazionale che vieta in maniera assoluta, nel solo settore pubblico, di trasformare in un contratto di lavoro a tempo indeterminato una successione di contratti a tempo de- terminato che, di fatto, hanno avuto il fine di soddisfare «fabbisogni permanenti e dure- voli» del datore di lavoro e devono essere considerati abusivi.
Nell’ipotesi di tardiva attuazione nell’ordinamento giuridico dello Stato membro inte- ressato di una direttiva e in mancanza di efficacia diretta delle disposizioni rilevanti di quest’ultima, i giudici nazionali devono nella misura del possibile interpretare il diritto interno, a partire dalla scadenza del termine di attuazione, alla luce del testo e della fina- lità della direttiva di cui trattasi al fine di raggiungere i risultati perseguiti da quest’ultima, privilegiando l’interpretazione delle disposizioni nazionali che sono mag- giormente conformi a tale finalità, per giungere così ad una soluzione compatibile con le disposizioni della detta direttiva.
Con sentenza del 4 luglio 2006 n. C/465/2004, la Corte di Giustizia dell'Unione Euro-
xxx ha affermato che l'accordo quadro sui contratti a termine va interpretato nel senso che non deve ostacolare, in alcun modo, in qualunque settore pubblico e privato, la possibilità di trasformare a tempo indeterminato un rapporto a termine, anche nella i- potesi di successione di più contratti.
I contratti a tempo indeterminato costituiscono la forma comune dei rapporti di lavoro, così come il ricorso a contratti successivi di lavoro a tempo determinato non è confor- me alla finalità di tutela della direttiva europea 1999/70/CE (la direttiva che dà attua- zione all'accordo quadro sul contratto a tempo determinato).
La Corte di Giustizia europea ha dunque preso una posizione molto decisa sui contratti a tempo determinato, una posizione che avrà inevitabilmente conseguenze su tutti gli Stati membri.
I giudici europei avvertono, infatti, che l'accordo-direttiva lascia agli Stati membri la cura di determinare la definizione del carattere successivo dei contratti (è il punto stra- tegico della questione, perché a seconda di come si risolve nelle leggi nazionali, la suc- cessione dei contratti a tempo determinato può essere molto lunga) ma questo potere discrezionale degli Stati membri non è illimitato, in quanto lo stesso non può in alcun modo pregiudicare lo scopo e l'effettività dell'accordo quadro.
Viene inoltre stigmatizzato il comportamento di uno Stato di dotarsi di regole che vieti- no nel settore pubblico - come aveva fatto la Repubblica Greca - di trasformare in un contratto di lavoro a tempo indeterminato una successione di contratti a tempo deter- minato.
La sentenza è consultabile sul nostro sito nella rubrica Documenti, sezione Dall’Europa.
Cass. 13 aprile 2006, n. 8679 - Pres. Mercurio - Rel. Balletti - P.M. Apice - Ric.
VI. Da. - Controric. Ae. Ro. Spa.
POTERE DISCIPLINARE - ART. 7 ST. LAV. - VIOLAZIONE - CONTESTAZIONE DISCIPLINARE - SANZIONE DISCIPLINARE - IRROGAZIONE - SECONDA IRROGAZIONE - ILLECITO DIVERSO - LICENZIAMENTO - PRINCIPIO DI PROPORZIONALITÀ DELLA SANZIONE DISCIPLINARE - GRAVE COMPORTAMENTO ILLEGITTIMO - ELEMENTO FIDUCIARIO DEL RAPPORTO.
Il principio di proporzionalità della sanzione disciplinare deve essere rispettato sia in sede di irrogazione della sanzione da parte del datore nell’esercizio del suo potere disci- plinare, sia in sede di controllo che, della legittimità e della congruità della sanzione ap- plicata, il giudice sia chiamato a fare. In proposito è stato precisato che, in tema di san- zioni disciplinari, ha carattere indispensabile la valutazione, ad opera del giudice del merito, investito del giudizio circa la legittimità di tali provvedimenti, della sussistenza o meno del rapporto di proporzionalità tra l’infrazione del lavoratore e la sanzione irro- gatagli.
Ai fini della suddetta valutazione il giudice deve tener conto non solo delle circostanze oggettive, ma anche delle modalità soggettive della condotta del lavoratore in quanto anche esse incidono sulla determinazione della gravità della trasgressione e quindi della
legittimità della sanzione stessa.
Cass. 5 aprile 2006, n. 7966 - Pres. Senese - Rel. Vigolo - P.M. Matera - Ric. Ra. Spa - Res. An. Ma. At.
LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - COSTITUZIONE DEL RAPPORTO - DURATA DEL RAPPORTO - A TEMPO DETERMINATO - IN GENERE - TERMINE ILLEGITTIMAMENTE APPOSTO - DISDETTA PER SCADENZA DEL TERMINE - IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO E RICHIESTA DI REINTEGRAZIONE EX ART. 18, LEGGE N. 300/1970 - ESCLUSIONE - FONDAMENTO - DIRITTO DEL LAVORATORE ALLE RETRIBUZIONI MATURATE DOPO LA SCADENZA DEL TERMINE - CONDIZIONI - DIRITTO AL RISARCIMENTO COMMISURATO ALLA RETRIBUZIONE - ESCLUSIONE
- LIMITI - FONDAMENTO.
Nell’ipotesi di scadenza di un contratto a termine illegittimamente stipulato, e di comu- nicazione al lavoratore, da parte del datore di lavoro, della conseguente disdetta, non sono applicabili né la norma di cui all’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, né quella di cui all’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, ancorché la conversione del rap- porto a termine in rapporto a tempo indeterminato dia egualmente al dipendente il dirit- to di riprendere il suo posto e di ottenere il risarcimento del danno qualora ciò gli venga negato.
Infatti, mentre la tutela prevista dall’art. 18 cit. attiene ad una fattispecie tipica, discipli- nata dal legislatore con riferimento al recesso del datore di lavoro, e presuppone l’esercizio della relativa facoltà con una manifestazione unilaterale di volontà di deter- minare l’estinzione del rapporto, una simile manifestazione non è configurabile nel caso di disdetta con la quale il datore di lavoro, allo scopo di evitare la rinnovazione tacita del contratto, comunichi la scadenza del termine, sia pure invalidamente apposto, al di- pendente, sicché lo svolgimento delle prestazioni cessa in ragione della esecuzione che le parti danno ad una clausola nulla. Ne consegue che, al dipendente che cessi l’esecuzione della prestazione lavorativa per attuazione di fatto del termine nullo non spetta la retribuzione finché non provveda ad offrire la prestazione stessa, determinando una situazione di «mora accipiendi» del datore di lavoro, situazione, questa, che non è integrata dalla domanda di annullamento del licenziamento illegittimo con la richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro; in base allo stesso principio si deve escludere anche il diritto del lavoratore ad un risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni per- dute per il periodo successivo alla scadenza, così come dalla regola generale di effettivi- tà e corrispettività delle prestazioni nel rapporto di lavoro deriva che, al di fuori di e- spresse deroghe legali o contrattuali, la retribuzione spetta soltanto se la prestazione di lavoro viene eseguita, salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di «mora ac- cipiendi» nei confronti del dipendente.
La Corte di Cassazione affronta, in primo luogo, il problema circa l’obbligo di corre- sponsione della retribuzione nei periodi di intervallo tra vari contratti di lavoro a tem-
po determinato nei quali il lavoratore non abbia eseguito alcuna prestazione, come nel caso in cui l’apposizione del termine sia stata dichiarata nulla.
Cass. 4 aprile 2006, n. 7844 - Pres. Sciarelli - Rel. De Renzis - P.M. Abbritti - Ric. Bu. - Res. Al. As. S.r.l.
LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - LICENZIAMENTO INDIVIDUALE - PER GIUSTA CAUSA - PRINCIPIO DELLA IMMEDIATEZZA DELLA CONTESTAZIONE E DELLA TEMPESTIVITÀ DEL RECESSO - «RATIO» - CARATTERE RELATIVO - ACCERTAMENTO DEL GIUDICE DI MERITO CIRCA LA TEMPESTIVITÀ DEL LICENZIAMENTO - INSINDACABILITÀ IN CASSAZIONE - LIMITI - FATTISPECIE.
In materia di licenziamento per giusta causa la immediatezza della contestazione del re- cesso rispetto ai fatti che lo giustificano va intesa in senso relativo e può essere compa- tibile con un intervallo di tempo necessario per l’accertamento e la verifica di tali fatti, quando, come nel caso di specie, il comportamento del lavoratore consista in una serie di fatti convergenti in un’unica condotta.
Secondo la Cassazione, il diritto al recesso del datore di lavoro, fondato sull’immediatezza della contestazione dell’addebito e sulla tempestività dell’atto di re- cesso, può essere esercitato anche con un intervallo di tempo relativamente lungo, do- vendosi tener conto della dimensione, struttura e organizzazione dell’azienda e dei tempi, anche non brevi, necessari per l’accertamento e la verifica dei fatti contestati.
Inoltre, la Suprema Corte ribadisce che la valutazione della gravità del fatto, che legit- tima il recesso del datore, non vada operata in astratto ma debba riferirsi agli aspetti della condotta del lavoratore che in concreto risultino idonei a ingenerare nel datore stesso una fondata sfiducia circa il regolare svolgimento e adempimento della presta- zione.
Cass. 4 aprile 2006, n. 7848 - Pres. Sciarelli - Rel. Amoroso - P.M. Xxxxxxxxxx - Ric. Gi. No. - Res. Ba. Ro.
LAVORO SUBORDINATO - AZIENDA DI CREDITO - CONTESTAZIONE DISCIPLINARE - RICHIESTA DI AUDIZIONE ORALE DEL LAVORATORE - MALATTIA - LICENZIAMENTO - IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO - ARTICOLO 7, LEGGE N. 300 DEL 1970 (STATUTO DEI LAVORATORI) - TEMPESTIVITÀ DEL LICENZIAMENTO INTIMATO AL TERMINE DELLA MALATTIA
In ragione delle garanzie procedimentali previste dall’articolo 7 dello Statuto dei Lavo- ratori, il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei con- fronti del lavoratore senza averlo sentito a sua difesa dopo avergli contestato l’addebito,
ove quest’ultimo abbia chiesto di essere sentito oralmente. Infatti, l’articolo 7 dello Sta- tuto dei Lavoratori subordina la legittimità del procedimento di irrogazione della san- zione disciplinare alla previa contestazione degli addebiti, al fine di consentire al lavora- tore di esporre le proprie difese in relazione al comportamento ascrittogli, e comporta per il datore di lavoro un dovere autonomo di convocazione del dipendente per l’audizione orale ove quest’ultimo abbia manifestato tempestivamente (entro il quinto giorno dalla contestazione) la volontà di essere sentito di persona.
Cass. 4 aprile 2006, n. 7835 - Pres. Mattone - Rel. Di Cerbo - P.M. Gaeta. LAVORO SUBORDINATO - DIRITTI ED OBBLIGHI DEL DATORE E DEL PRESTATORE DI LAVORO - OBBLIGO DI FEDELTÀ - DIVIETO DI CONCORRENZA - PATTO DI NON CONCORRENZA - CORRISPETTIVO - CONGRUITÀ - CRITERI - MANIFESTA INADEGUATEZZA - CONSEGUENZE
- NULLITÀ DEL PATTO - FATTISPECIE RELATIVA AD IPOTESI DI COMPENSO CONGRUO.
Il patto di non concorrenza è nullo se il divieto di attività successive alla risoluzione del rapporto non è contenuto entro limiti determinati di oggetto, di tempo e di luogo. L’ampiezza del vincolo, infatti, deve essere tale da comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che non ne compromettano la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita. Con particolare riferimento all’ammontare ed alla congruità del corrispettivo dovuto in caso di patto di non concor- renza, l’espressa previsione di nullità, contenuta nell’art. 2125 c.c., va riferita alla pat- tuizione non solo di compensi simbolici, ma anche di compensi manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto- gli rappresenta per il datore di lavoro, come dal suo ipotetico valore di mercato.
Cass. 30 marzo 2006, n. 7546 - Pres. Mattone - Rel. Xxxxxxxxx - P.M. Velardi - Ric. Co. delle Su. In. Add. - Res. De. Ma.
LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - POTERE DISCIPLINARE - SANZIONI CONSERVATIVE - ACQUIESCENZA - INSUSSISTENZA.
L’avere sofferto la sanzione della sospensione disciplinare senza immediatamente im- pugnarla, non è un comportamento dimostrante acquiescenza, mentre un interesse ad impugnare può sorgere quando alle stesse sanzioni viene collegato anche un più impor- tante provvedimento, quale il licenziamento.
Cass. 30 marzo 2006, n. 7546 - Pres. Mattone - Rel. Cementano -P.M. Velardi - Ric. Co. delle Su. In. Add. - Res. De. Ma.
LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - POTERE DISCIPLINARE - CONTESTAZIONE DELL’ADDEBITO - REQUISITI DELLA CONTESTAZIONE
- SPECIFICITÀ - «RATIO» DI TALE REQUISITO.
L’articolo 7 della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) va interpretato nel senso che la previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione della applicazione di sanzioni disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o co- munque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli articoli 2104 e 2105 del co- dice civile. Non può valere a sanare il difetto di specificità il fatto che il lavoratore si sia difeso nel merito, rispondendo alle contestazioni e contestando genericamente, a sua volta, quanto addebitato perché non corrispondente al vero.
Secondo la Corte di Cassazione l’impugnazione di una sanzione disciplinare è consenti- ta quando non sia ancora decorso il termine di prescrizione, sempre che il lavoratore non abbia posto in essere un comportamento positivo dimostrante acquiescenza.
Inoltre, sempre ad avviso della Suprema Corte, l’avere sofferto la sanzione della so- spensione disciplinare senza immediatamente impugnarla, non è un comportamento dimostrante acquiescenza, mentre un interesse ad impugnare può sorgere, come in ef- fetti verificatosi nel caso di specie, quando alle stesse sanzioni viene collegato anche un più importante provvedimento, quale è il licenziamento.
Con riferimento all’interpretazione dell’articolo 7 della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori), la Corte sostiene che la previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione della applicazione di sanzioni disciplinari, ha lo scopo di consentire al la- voratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specifi- cità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per in- dividuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia rav- visato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli articoli 2104 e 2105 del codice civile.
Nella fattispecie, in nessuna delle contestazioni vi è stato il riferimento a fatti specifici, ma solo la generica contestazione di comportamenti aggettivati in modo negativo, di compiti non assolti, senza invero una concreta indicazione degli stessi.
Inoltre, conclude la Corte di Cassazione, non può valere a sanare il difetto di specifici- tà il fatto che il lavoratore si sia difeso nel merito, rispondendo alle contestazioni e con- testando genericamente, a sua volta, quanto addebitato perché non corrispondente al vero.
Cass. 8 marzo 2006, n. 4963 - Pres. Mattone - Rel. Monaci - P.M. Gaeta - Ric. Fin. Spa - Res. Man/Batt.
LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - TRASFERIMENTO D’AZIENDA - IN GENERE - NOZIONE - DISCIPLINA EX ART. 2112 C.C. - TRASFERIMENTO
DI RAMO D’AZIENDA - APPLICABILITÀ - CESSIONE DI LAVORATORI ADDETTI AD UN MEDESIMO RAMO AZIENDALE - TRASFERIMENTO D’AZIENDA - CONFIGURABILITÀ - CONDIZIONI - RICHIAMO ALLA NORMATIVA E ALLA GIURISPRUDENZA COMUNITARIA - FATTISPECIE.
L’art. 2112 c.c., anche nel testo anteriore alle modifiche di cui al D.Lgs. n. 18/2001, at- tuativo della direttiva comunitaria n. 50/1998, consente, letto in linea con la giurispru- denza comunitaria formatasi in merito alla interpretazione della direttiva n. 187/1977 e con le esplicite indicazioni fornite dalla direttiva n. 50/1998, di ricondurre, ai fini da es- so considerati, alla cessione di azienda anche il trasferimento di un ramo della stessa, purché si tratti di un insieme di elementi produttivi organizzati dall’imprenditore per l’esercizio di un’attività, che si presentino prima del trasferimento come una entità dota- ta di autonoma ed unitaria organizzazione, idonea al perseguimento dei fini dell’impresa e che conservi nel trasferimento la propria identità. In presenza di tali condizioni, può configurarsi un trasferimento aziendale che abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare «know how» (o, comunque, dall’utilizzo di «copyright», brevetti, marchi ecc.), realizzandosi in tale ipotesi una suc- cessione legale di contratto non bisognevole del consenso del contraente ceduto, ex art. 1406 e ss. c.c. Requisito indefettibile della fattispecie legale tipica delineata dal diritto comunitario e dall’art. 2112 c.c. resta comunque, anche in siffatte ipotesi, l’elemento della organizzazione, intesa come legame funzionale che rende le attività dei dipendenti appartenenti al gruppo interagenti tra di esse e capaci di tradursi in beni o servizi ben individuabili, configurandosi altrimenti la vicenda traslativa come cessione del contratto di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso del contraente ceduto.
Con la sentenza in commento la Cassazione esclude la possibilità di ravvisare una ces- sione di azienda nelle ipotesi in cui ad essere trasferite siano state attività non corri- spondenti a quelle di un determinato ramo e caratterizzate da un’estrema eterogeneità. Nel quadro prospettato dalla società ricorrente, infatti, la vicenda viene ricondotta al fenomeno del c.d. outsourcing, «comprendente tutte le possibili tecniche mediante le quali un’impresa dismette la gestione diretta di alcuni segmenti dell’attività produttiva e dei servizi estranei alle competenze di base “c.d. core business”».
In più occasioni, la Suprema Corte ha avuto modo di individuare la fattispecie del tra- sferimento d’azienda in tutte quelle ipotesi in cui, immutata quella che può essere defi- nita la struttura dell’azienda, si realizzi un cambiamento di titolarità. Tale operazione, oltre che a riguardare l’azienda nel suo insieme, può interessare anche un suo solo ra- mo, purché il complesso di beni coinvolti sia idoneo a consentire lo svolgimento di una determinata attività di impresa.
In altre parole, per ravvisare gli elementi essenziali del ramo d’azienda deve rintrac- ciarsi nella sua struttura quella funzionalità e quella autonomia idonee a farne una pic- cola azienda, non coincidendo con lo «smembramento di frazioni non autosufficienti e non coordinate tra loro », né con «una mera espulsione di ciò che si riveli essere pura eccedenza di personale».
Autonomia e funzionalità che non dovranno essere solo potenziali presso il cedente, ma effettive e operative, in quanto, come disposto dall’art. 2112 c.c., oggetto del trasferi- mento è un complesso di beni identificabile come entità economica volta alla produzio- ne di beni o servizi. Al riguardo, la Corte affronta anche la situazione configurabile in determinati settori con strutture materiali prive di rilevanza e approntati sulla sola ma- nodopera (strutture labour intensive), ammettendo che il trasferimento possa riguarda- re il comparto lavorativo qualora, in ragione delle competenze assunte e delle esperien- ze maturate, si dimostri capace di svolgere le proprie funzioni presso altro datore di la- voro. A tal fine non potrà però considerarsi sufficiente la sola e occasionale aggrega- zione di persone operanti all’interno di diverse strutture aziendali, dovendosi richiedere per contro quel collegamento funzionale tra le attività.
Così, nella fattispecie in esame, dall’elenco dei servizi oggetto di trasferimento, non emergeva alcuna unità produttiva, restando inoltre ignoti sia la dimensione strutturale che quella dimensionale, senza che fosse possibile riscontrare alcuna convergenza tra le attività trasferite e quelle appartenenti ad una determinata funzione aziendale.
Cass. 21 marzo 2006, n. 6240 - Pres. Senese - Rel. Cuoco - P.M. Pivetti - Ric. It. Co. - Controric. Me.t. Spa.
LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - INDENNITÀ - DI TRASFERTA E MISSIONE - TRASFERTA - PRESUPPOSTI - PERSISTENTE LEGAME CON L’ORIGINARIA SEDE DI LAVORO - NECESSITÀ - PROTRAZIONE DELLO SPOSTAMENTO PER LUNGO TEMPO E COINCIDENZA DEL LUOGO DI TRASFERTA CON QUELLO DI SUCCESSIVO TRASFERIMENTO - IRRILEVANZA - ACCERTAMENTO DEL GIUDICE DI MERITO - INCENSURABILITÀ IN CASSAZIONE - LIMITI - FATTISPECIE.
Ai fini della configurazione della trasferta del lavoratore, da cui consegue il diritto di quest’ultimo a percepire la relativa indennità, occorre accertare la sussistenza del per- manente legame del prestatore con l’originario luogo di lavoro, mentre restano irrilevan- ti, a tali fini, la protrazione dello spostamento per un lungo periodo di tempo e la coin- cidenza del luogo della trasferta con quello di un successivo trasferimento, anche se di- sposto senza soluzione di continuità al termine della trasferta medesima; l’accertamento compiuto al riguardo dal giudice di merito è incensurabile in Cassazione se adeguata- mente motivato.
Secondo la Cassazione, la trasferta è caratterizzata da un fondamentale elemento: la permanenza di un legame funzionale del dipendente con il normale luogo di lavoro da cui egli proviene, in relazione al diverso luogo della sua attuale contingente prestazione (in trasferta); e, nella logica della sua collocazione aziendale, questa permanenza con- ferisce al luogo attuale della prestazione l’aspetto della provvisorietà e della subordi- nazione funzionale.
Ai fini della configurabilità della trasferta, restano irrilevanti il luogo della sede azien- dale, il luogo di stipulazione del contratto, ed il luogo di residenza (personale) del lavo-
ratore.
Il legame del dipendente con il normale luogo di lavoro consente di distinguere la tra- sferta dal trasferimento, ove, per la definitività della nuova collocazione aziendale, il legame con il luogo di provenienza resta definitivamente travolto.
Consente anche di distinguere la trasferta dalla particolare situazione in cui l’attività normalmente svolta in varie sedi o cantieri ed i ripetuti spostamenti costituiscono un aspetto strutturale della prestazione, connesso alla causa tipica del contratto. L’elemento caratterizzante la trasferta è dunque l’indicata permanenza che deve essere valutata non tanto nella formale qualificazione dell’atto, bensì (fatto che resta determi- nante) nella sua materiale effettività.
Questa effettività (e la conseguente natura di trasferta) può emergere anche dalla stru- mentalità delle mansioni assegnate nel nuovo luogo di lavoro (come corsi di formazio- ne), in relazione al lavoro svolto o previsto nel luogo di provenienza.
Giacché l’elemento qualificante della trasferta è solo questa permanenza, e poiché la permanenza, essendo fondata sulla datoriale valutazione delle esigenze aziendali, non cessa per il pur lungo protrarsi dello spostamento, la lunga concreta durata dello spo- stamento, non essendo di per sé sola idonea ad escludere questa valutazione e questa permanenza, non determina il mutamento della natura dell’atto.