Romeo Romei, dell’Ordine dei dottori commercialisti di Latina
IL CONTRATTO DI FRANCHISING
Il rapporto giuridico e le rilevazioni contabili
Xxxxx Xxxxx, dell’Ordine dei dottori commercialisti di Latina
Per dare una completa visione giuridico-contabile del rapporto contrattuale di franchising, dividiamo questa pubblicazione in due diverse dissertazioni, la prima, prodotta dall’avvocato Xxxxxxxx Xxxxxxxxx, e la seconda di profilo contabile di mia recente redazione, ritenendo che la conoscenza giuridica e ragionieristica dei profili, sia assolutamente inscindibile.
TERMINOLOGIA
Franchisor o Affiliante
Imprenditore che concede in uso la sua formula commerciale, inclusi il diritto di sfruttamento del suo know-how e dei propri segni distintivi ed ogni altra prestazione e forma di assistenza, ad uno o più imprenditori perché possono gestire, nel rispetto dei reciproci vincoli contrattuali, la propria attività con la medesima immagine dell’affiliante.
Franchisee o Affiliato
Imprenditore commerciale che assume in uso la formula dell’affiliante impegnandosi a perseguire la sua politica commerciale preservandone l’immagine.
PRIFILI GIURIDICI CONTRATTUALI
Il franchising (o affiliazione commerciale) è un contratto sempre più usato nella distribuzione commerciale di prodotti e servizi. Per distribuire un prodotto o servizio il produttore industriale (franchisor), anziché limitarsi a vendere i propri prodotti a distributori che lo collocano sul mercato secondo i loro piani strategici, può imporre la propria politica di marketing ai distributori (franchisee), in cambio della concessione ad essi della sua esperienza tecnico commerciale e dei suoi segni distintivi (c.d. “formula di vendita”), così controllando l’intero processo distributivo del prodotto o del servizio senza sostenerne (per intero) i costi. D’altro canto, il distributore-franchisee, seppur limiti in parte la propria autonomia nelle scelte di impresa, accettando di attenersi alle prescrizioni del produttore-franchisor, trae numerosi vantaggi dal vendere un prodotto o offrire un servizio già lanciato con successo, servendosi di tecniche commerciali già provate ed essendo identificato dai consumatori col produttore stesso.
Fino al 6 maggio 2004, il contratto di franchising, nato negli Stati Uniti e diffusosi in Europa fin dagli anni sessanta, non godeva in Italia di specifica disciplina normativa. Sviluppatosi nella pratica e conosciuto nei tribunali, il contratto di franchising veniva dalla dottrina qualificato in maniera diversa, avvicinandolo ora alla concessione di vendita ora alla licenza di beni immateriali, ora definendolo come un contratto organizzativo a funzione associativa, ora, più correttamente, come un contratto atipico dotato di autonomia causale. Aldilà delle definizioni giuridiche, nella prassi, il contratto di franchising veniva descritto come un sistema di collaborazione tra un produttore (o rivenditore) di beni o fornitore di servizi ed un distributore, giuridicamente ed economicamente indipendenti, ma vincolati da un contratto caratterizzato da due elementi: (i) la trasmissione dal franchisor al franchisee di una serie di diritti a fronte
di una prestazione prevalentemente monetaria e (ii) la stretta integrazione tra le parti nello svolgimento della loro attività d’impresa1.
L’unica norma che conteneva una definizione del contratto di franchising era il Regolamento CEE n. 4087/88 del 30 novembre 1988 (oggi non più in vigore)2, che, nonostante avesse un ambito d’applicazione limitato alle condizioni di applicazione dell’articolo 85(3) CE agli accordi di franchising, è servito da guida e da parametro alla nostra giurisprudenza3 e alla nostra dottrina nel delineare la nozione del contratto atipico di franchising.
Il contratto di franchising era (ed è) pure oggetto di norme deontologiche redatte dalle associazioni di franchisor sia in Italia sia in vari paesi europei4.
La legge n. 129 del 6 maggio 2004, recante “norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale” (in seguito, “Legge 129/2004”), ha colmato il vuoto legislativo, definendo il contratto di franchising, fissandone il contenuto e la durata minimi, gli obblighi delle parti e le sanzioni in caso di informazioni false fornite dalle parti in fase di trattative precontrattuali.
Questo articolo, nella prima parte, commenta gli articoli della Legge 129/2004 e nella seconda accenna alla disciplina applicabile ai contratti di franchising nel diritto della concorrenza comunitario e nazionale.
1. La Legge n. 129/2004
La Legge 129/2004 si applica a tutti i contratti di affiliazione commerciale da eseguirsi in Italia (“in corso nel territorio dello Stato”). Gli accordi di affiliazione commerciali anteriori alla Legge 129/2004 devono conformarsi ad essa entro il 24 maggio 2005 (articolo 9).
1.1. Il contratto di affiliazione commerciale: definizione (articolo 1(1))
L’articolo 1 della Legge 129/2004 definisce l’affiliazione commerciale come “il contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti d’autore, know how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi”.
L’affiliazione commerciale è dunque delineata, indipendentemente dalle definizioni adottate dalle parti, come un contratto bilaterale, sinallagmatico, avente ad oggetto la concessione dall’affiliante all’affiliato di diritti di proprietà industriale (e)/o intellettuale e l’inserimento dell’affiliato nel sistema distributivo dell’affiliante e come causa la commercializzare di beni e servizi dell’affiliante. Dalla lettura dei successivi articoli 2(3) e 4 della Legge 129/2004, emerge poi che il contratto di franchising è un contratto di durata e per adesione.
Il contratto di franchising è “utilizzabile in ogni settore di attività economica” (articolo 1(2)), ma la Legge 129/2004 non sembra estendersi anche al franchising di produzione (o industriale), nell’ambito del quale l’affiliato produce direttamente, sulla base delle indicazioni dell’affiliante, i prodotti che vende con il marchio dell’affiliante5.
1.2. Definizioni e ambito di applicazione (articoli 1(3) e 2)
Secondo una tecnica legislativa “autodefinitoria” cui il legislatore comunitario ci ha abituato, la Legge 129/2004 chiarisce il significato di alcuni termini in essa utilizzati. In particolare, l’articolo 1(3) specifica cosa si intenda per:
1. know-how;
Il know-how è “un patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate derivanti da esperienze e da prove eseguite dall’affiliante” (…) rispondente ai “criteri” di segretezza (il know-how non deve esser generalmente noto né facilmente accessibile a terzi) e sostanzialità (il know-how deve concernere conoscenze indispensabili all’affiliato nell’esecuzione del contratto) ed individuato in maniera “sufficientemente esauriente” da permetter all’affiliato di verificare che esso sia segreto e sostanziale6.
2. diritti di ingresso;
Il diritto di ingresso è “una cifra fissa, rapportata anche al valore economico e alla capacità di sviluppo della rete, che l’affiliato versa al momento della stipula del contratto di affiliazione commerciale”.
Il diritto di ingresso (o entry fee o front money) è quindi definito come una cifra fissa, sia pur rapportata a dei parametri variabili, da pagarsi una tantum al momento della conclusione del contratto;
3. royalties;
Le royalties sono “una percentuale che l’affiliante richiede all’affiliato commisurata al giro d’affari del medesimo o in quota fissa, da versarsi anche in quote fisse periodiche”. Le royalties o canoni costituiscono il corrispettivo dovuto dall’affiliato all’affiliante nel corso della durata del contratto;
4. beni dell’affiliante.
I beni dell’affiliante sono “i beni prodotti dall’affiliante o secondo le sue istruzioni e contrassegnati dal nome dell’affiliante”.
L’articolo 2 della Legge 129/2004 specifica, con un linguaggio per vero poco chiaro, che il suo ambito di applicazione si estende anche:
1. al “contratto di affiliazione commerciale principale” col quale un’impresa concede all’altra, dietro corrispettivo, diretto o indiretto, il diritto di sfruttare un’affiliazione commerciale allo scopo di stipulare accordi di affiliazioni commerciali con terzi;
L’affiliazione commerciale principale (o master franchising) è l’accordo col quale il produttore di prodotti e servizi affilia un’impresa non per svolgere direttamente l’attività di distribuzione di beni o servizi in franchising ma per stipulare con terzi accordi di affiliazione commerciale aventi ad oggetto gli stessi beni
e servizi (sub-franchising). Si tratta di un accordo quadro di franchising col quale l’affiliante delega il “principale” affiliante ad affiliare altri soggetti, verosimilmente alle condizioni fissate nell’accordo principale, così decentrando il processo di distribuzione e rinunciando al controllo diretto di tutti gli affiliati (pensiamo ad un franchisor francese che voglia introdurre e distribuire i propri prodotti in varie città italiane secondo la propria formula commerciale ma preferisca stipulare un solo contratto di franchising, affidando al suo affiliato principale il compito di selezionare altre imprese da affiliare nella nascente rete di distribuzione italiana).
2. al “contratto con il quale l’affiliato, in un’area di sua disponibilità, allestisce uno spazio dedicato esclusivamente allo svolgimento dell’attività commerciale di cui al comma 1 dell’articolo 1”. Si tratta del
c.d. franchising parziale o corner franchising che si ha quando l’affiliato destina soltanto una parte dei suoi locali allo svolgimento dell’attività commerciale oggetto del franchising.
1.3. Forma e durata (articolo 3(1) e 3(2))
La Legge 129/2004 stabilisce che il contratto di franchising deve esser redatto per iscritto a pena di nullità.
Il contratto di franchising, per sua natura, è un contratto destinato a produrre effetto in un certo periodo di tempo, non esaurendosi in una singola operazione di scambio ma realizzando una collaborazione continuata, se non una vera e propria integrazione tra le parti, diretta a realizzare un sistema di distribuzione decentralizzato ed uniforme in cui, a fronte del privilegio di usare la formula commerciale del franchisor, il franchisee si impegna a sostenere notevoli costi e a rispettare una serie di obblighi. La durata del contratto di franchising non è però rimessa all’autonomia negoziale delle parti. Il legislatore riconosce che l’affiliato incorre in costi notevoli per affiliarsi e fissa “una durata minima sufficiente all’ammortamento dell’investimento e comunque non inferiore a tre anni”. In ogni caso è fatta salva l’ipotesi di risoluzione anticipata del contratto per inadempimento di una delle parti. Nonostante la sua apparente chiarezza e completezza, l’articolo 3(3) pone dei dubbi applicativi. Cosa succederebbe se un contratto di franchising prevedesse una durata inferiore a quella triennale minima? In mancanza di indicazioni in tal senso e di una sanzione specifica per il mancato rispetto del termine di durata triennale, non sembra potersi applicare l’articolo 1339 c.c. sulla inserzione automatica di clausole (imperative) e, alla scadenza del contratto, l’affiliato avrebbe diritto “soltanto” al risarcimento del danno per violazione dell’articolo 3(3), commisurato al mancato (residuo) ammortamento dell’investimento7.
1.3. Contenuto del contratto (articolo 3(3))
La Legge 129/2004, per vero in maniera sintetica e poco precisa, indica il contenuto minimo del contratto di franchising, al fine di assicurare alle parti trasparenza nelle trattative precontrattuali, permettere all’affiliato di conoscere e valutare il tipo di attività oggetto del contratto e le possibilità di sviluppo della rete di distribuzione, evitare comportamenti fraudolenti o comunque pregiudizievoli di una parte a danno dell’altra.
Il legislatore richiede in particolare che il contratto di franchising indichi:
1. l’ammontare degli investimenti e delle eventuali spese di ingresso (diritto di ingresso) che l’affiliato deve sostenere prima dell’inizio dell’attività;
2. le modalità di calcolo e di pagamento delle royalties, e l’eventuale indicazione di un incasso minimo da realizzare da parte dell’affiliato;
Queste due prescrizioni sono volte ad assicurare all’affiliato di conoscere con esattezza i costi da sostenere per intraprendere e svolgere l’attività di affiliato e a scoraggiare richieste di prestazioni monetarie ingiustificate da parte dell’affiliante.
3. l’ambito di eventuale esclusiva territoriale sia in relazione ad altri affiliati, sia in relazione a canali ed unità di vendita direttamente gestiti dall’affiliante;
Questa norma si riferisce al patto di esclusiva concesso dall’affiliante a favore dell’affiliato in relazione all’ambito territoriale (o relativo a dei canali di vendita) entro il quale l’affiliato può esercitare la propria attività contrattuale e non all’esclusiva di acquisto o alla clausola di non concorrenza a favore dell’affiliante8.
La giurisprudenza precedente alla Legge 129/2004 aveva riconosciuto che la clausola di esclusiva territoriale “reciproca non può essere annoverata tra i naturalia negotii e deve quindi essere pattuita”9. La clausola di esclusiva territoriale è sicuramente un grosso incentivo a contrarre per l’affiliato, in quanto gli permette di non subire la concorrenza (cd. intrabrand) di altri affiliati o dello stesso affiliante in un certo territorio o per determinati canali di vendita, e gli dà maggiori garanzie di recuperare i costi di investimento che l’adesione al contratto di franchising comporta. L’esclusiva territoriale ha inoltre il pregio di evitare il cd. problema del free riding, di evitare cioè che l’affiliato non raccolga i frutti del suo impegno nella vendita di un prodotto o nella fornitura di un servizio (e.g. costi di promozione, per servizi di prevendita e formazione del personale) perché altri distributori si avvantaggiano dei suoi sforzi senza sostenerne i costi10. Tuttavia, in presenza di particolari condizioni di mercato (e.g. scarsa concorrenza tra produttori di beni o servizi concorrenti, o l’adozione da parte degli stessi di simili clausole di esclusiva), una esclusiva territoriale ampia potrebbe portare ad una compartimentazione dei mercati e ad un innalzamento dei prezzi, con conseguenze negative per il benessere dei consumatori (infra Parte II).
4. la specifica del know-how fornito dall’affilante all’affiliato;
5. le eventuali modalità di riconoscimento dell’apporto di know-how da parte dell’affiliato;
6. le caratteristiche dei servizi offerti dall’affiliante in termini di assistenza tecnica e commerciale, progettazione ed allestimento, formazione;
La descrizione del know-how trasmesso e dei servizi offerti dall’affiliante all’affiliato costituiscono una previsione essenziale del contratto di franchising, poiché il trasferimento del know-how e l’assistenza prestata dal franchisor sono gli strumenti necessari per realizzare l’integrazione tra affiliante ed affiliato e garantire unitarietà di immagine alla rete di affiliati.
7. le condizioni di rinnovo, risoluzione o eventuale cessione del contratto stesso.
Considerato che il mancato rinnovo, o l’eventuale scioglimento prematuro o la cessione del contratto possono esser fonte di ingenti perdite economiche per entrambe le parti, il legislatore richiede che siano espressamente indicate le condizioni di rinnovo (espresso o tacito), risoluzione (compresa la clausola risolutiva espressa) e cessione del contratto (che può essere consentito, previo consenso della parte ceduta o su semplice notifica, ovvero vietato contrattualmente). La formulazione dell’articolo 3(3)(g) non aiuta certo le parti e gli operatori del diritto nel determinare quando sia giustificato un mancato rinnovo o cosa sia “un inadempimento di scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra”, ma almeno impone di porre attenzione nella redazione delle clausole che attengono alla durata, alla cessazione o alla successione del rapporto di franchising11.
La Legge 129/2004 non prevede alcuna sanzione nel caso in cui il contenuto minimo del contratto di franchising non sia rispettato.
1.4. Obblighi dell’affiliante (articolo 4)
La Legge 129/2004 impone all’affiliante l’obbligo di consegnare “all’aspirante affiliato”, almeno trenta giorni prima della prevista conclusione del contratto, copia completa del contratto da sottoscrivere corredato da una serie di allegati. Il termine di trenta giorni, fissato nell’interesse dell’aspirante affiliato, è meramente indicativo ed il suo mancato rispetto non sembra, per se, comportare alcuna conseguenza negativa per il franchisor.
Gli allegati da esibire all’aspirante affiliato e da citare nel contratto devono contenere le seguenti informazioni:
1. dati relativi all’affiliante e bilancio degli ultimi tre anni (se richiesto dall’affiliato);
Si tratta di informazioni commerciali tese a consentire all’affiliato di conoscere l’impresa e la solidità economica dell’affiliante.
2. indicazione dei marchi utilizzati nel sistema di distribuzione, con gli estremi di registrazione o deposito o della licenza o la documentazione comprovantene l’uso;
Questa informazione è molto importante per consentire all’aspirante affiliato di verificare l’effettiva titolarità del marchio (se registrato o almeno depositato) o comunque la legittimità dell’uso del marchio (licenza) o l’uso di fatto del marchio da parte del promettente affiliante (pre-uso). Tali informazioni potrebbero anche esser utili all’affiliato nel corso del rapporto contrattuale per consentirgli di difendersi da azioni di terzi che vantino diritti sul marchio dell’affiliante.
3. una sintesi degli elementi caratterizzanti l’attività oggetto dell’affiliazione commerciale;
L’aspirante affiliato deve esser posto nelle condizioni di conoscere l’attività che sarà oggetto del contratto. Forse il legislatore avrebbe potuto evitare di riferirsi ad una mera “sintesi” e richiedere informazioni dettagliate sull’attività oggetto del contratto.
4. lista degli affilianti già esistenti e dei punti vendita dell’affiliato;
5. indicazione delle variazioni del numero degli affiliati con relativa ubicazione negli ultimi tre anni;
L’aspirante affiliato deve poter conoscere la situazione attuale e le potenzialità di sviluppo futuro della rete di distribuzione di cui sarà parte integrante, tanto più che le sorti di tale rete di distribuzione influenzeranno, almeno in parte, il successo della propria attività di impresa.
6. la sintesi degli eventuali procedimenti giudiziari o arbitrali promossi contro l’affiliante da affiliati, terzi o pubbliche autorità e conclusisi negli ultimi tre anni relativi al sistema di affiliazione, nel rispetto delle norme sulla tutela dei dati personali12.
Tale informazione mira a consentire all’aspirante affiliato di conoscere eventuali liti relative al sistema di affiliazione promosse contro il franchisor, con ciò permettendogli di meglio valutare la serietà e l’affidabilità del franchisor. Il legislatore, purtroppo, ha limitato le potenzialità informative di questa norma, facendo esclusivo riferimento, in un sistema di risoluzione giudiziale delle controversie lento come il nostro, soltanto alle liti già concluse e non richiedendo informazioni sulle liti pendenti. Tuttavia tali informazioni sulle liti pendenti possono ben essere richieste dall’aspirante affiliato ai sensi dell’articolo 6(1) (vedasi paragrafo 1.6 che segue), se necessarie per la conclusione del contratto.
La previsione delle informazioni che l’affiliante deve fornire all’affiliato, atte a permettere al franchisee di impegnarsi con consapevolezza e ad evitare un uso distorto del contratto da parte di produttori o fornitori di servizi poco seri, non costituiscono una novità legislativa italiana13. Il legislatore statunitense14, e sulla scia di questo quello francese15, disciplinano con ancora maggiore dovizie di particolari le informazione che il franchisor deve dare al franchisee prima della conclusione del contratto.
L’articolo 3(2) stabilisce inoltre che “per la costituzione di una rete di affiliazione commerciale l’affiliante deve aver sperimentato sul mercato la propria formula commerciale”. Si vuole con ciò assicurare, a beneficio di potenziali affiliati, che il franchisor abbia sperimentato una propria formula commerciale e proponga contratti di affiliazione commerciale con un oggetto determinato o determinabile.
1.5. Obblighi dell’affiliato (Articolo 5)
La Legge 129/2004 indica soltanto due obblighi cui è soggetto l’affiliato, così tipizzando due previsioni contrattuali generalmente presenti nei contratti di franchising, l’immutabilità della sede e l’obbligo di riservatezza.
L’affiliato non può trasferire la sede indicata nel contratto senza il preventivo consenso dell’affiliante, salvo il caso di forza maggiore. Tale norma mira a preservare il controllo sulla catena di affiliati da parte dell’affiliante e a garantire che i rapporti di informazione e collaborazione reciproca persistano durante tutto il periodo contrattuale.
L’affilato deve tenere riservate, anche dopo lo scioglimento del contratto, le informazioni relative all’attività oggetto dell’affiliazione commerciale. L’obbligo di riservatezza grava anche sul personale dell’affiliato. Tale obbligo è di importanza fondamentale nel contratto di franchising, dove il franchisor mette a disposizione del franchisee il proprio know-how e la propria esperienza ed ha interesse a che questo know-how non divenga di pubblico dominio.
L’eventuale violazione di tali obblighi sarà soggetta alle norme generali in materia di contratti, potendo comportare il risarcimento del danno subito e la risoluzione del contratto per inadempimento, ricorrendone i presupposti. La violazione dell’obbligo di riservatezza potrebbe anche integrare il delitto di rivelazione di segreti scientifici o industriali previsto dall’articolo 623 c.p.
Nella prassi, l’affiliato è sottoposto ad una serie di molti altri obblighi, in genere contenuti nel c.d. “manuale operativo” del contratto di franchising, tesi a preservare l’omogeneità della catena di distribuzione dell’affiliante agli occhi dei consumatori. Il legislatore, prudentemente e correttamente, non è intervenuto nella regolamentazione di queste clausole contrattuali per non menomare l’autonomia delle parti e consentire all’affiliante di adeguare il contratto alle particolari esigenze di distribuzione dei propri beni o servizi.
1.6. Obblighi precontrattuali delle parti (articolo 6)
L’articolo 6 della Legge 129/2004 impone ad entrambe le parti del contratto di comportarsi in ogni momento con lealtà, correttezza e buona fede, e richiede loro di fornire all’altra parte, tempestivamente, tutte le informazioni e i dati necessari per addivenire alla stipulazione del contratto. La rubrica dell’articolo 6 limita tali obblighi comportamentali alla fase precontrattuale16, nella quale avviene il primo, fondamentale, scambio di informazioni tra le parti. Nella fase esecutiva del contratto vige comunque il dovere generale di comportarsi secondo buona fede fissato dall’articolo 1375 c.c.
Gli obblighi dell’affiliante e dell’affiliato sono indicati a specchio. Unica differenza è che, l’affiliante deve fornire tutte le informazioni, “necessarie” ed “utili”, che gli vengono richieste dall’aspirante affiliato, salvo che non siano oggettivamente riservate e motivi il rifiuto di fornirle; l’affiliato deve fornire oltre alle informazioni necessarie anche quelle “opportune” alla stipulazione del contratto, anche se non richieste dall’affiliato. Tuttavia, la valutazione sulla necessità o opportunità delle informazioni è rimessa all’affiliato, il quale può non aver alcun interesse a fornire tutte le informazioni “opportune” all’affiliante.
1.7. Annullamento del contratto (articolo 8)
La Legge 129/2004 è fondata sul principio di trasparenza nei rapporti tra le parti, tanto che il fornire informazioni false è motivo di annullamento del contratto ai sensi dell’articolo 1439 c.c. e fonte di risarcimento del danno, se dovuto.
L’articolo 1439 c.c., espressamente richiamato dal legislatore, si riferisce al dolo-vizio del consenso, per cui il contratto è annullabile solo se “i raggiri usati da uno dei contraenti sono stati tali che, senza di essi l’altra parte non avrebbe contrattato”. L’eventuale azione di annullamento si prescrive in cinque anni dalla scoperta del dolo (1442 c.c.).
In presenza di dolo incidente, che si ha quando i raggiri sono tali che senza di essi il contratto “sarebbe stato concluso a condizioni diverse” (1440 c.c.), il contratto è valido, ma il contraente raggirato può chiedere il risarcimento se prova la mala fede dell’altro contraente .
L’articolo 8 si riferisce soltanto alle informazioni false, tuttavia, considerati anche gli obblighi precontrattuali di lealtà, correttezza e buona fede imposti alle parti dall’articolo 6, anche la l’omissione dolosa di informazioni, se si tratti di informazioni necessarie alla conclusione del contratto, potrebbe esser causa di annullamento del contratto.
1.8. Conciliazione (articolo 7)
La Legge 129/2004 prevede la possibilità che le parti convengano di effettuare un tentativo di conciliazione17 presso la camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura nel cui territorio ha
sede l’affiliato prima di adire l’autorità giudiziaria ordinaria o ricorrere all’arbitrato per dirimere le controversie relative ai contratti di franchising.
Al procedimento di conciliazione si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli articoli 38, 39 e 40 del d.lgs. n. 5/2003 e successive modificazioni.
La finalità di tale norma è quella di favorire una risoluzione alternativa della controversia, su accordo delle parti, preservando, ove possibile, il rapporto contrattuale tra le parti, spesso compromesso irreparabilmente dalle controversie giudiziali o dagli arbitrati.
Il tentativo di conciliazione, se previsto dalle parti nel contratto, costituisce una condizione di procedibilità del giudizio, per cui se esso non risulta esperito, il giudice, su istanza della parte interessata, deve disporre la sospensione del procedimento pendente dinnanzi a lui fissando un termine di durata compreso tra trenta e sessanta giorni per il deposito dell’istanza di conciliazione (articolo 40 (6) del d.lgs. 5/2003).
2. Contratto di franchising e diritto della concorrenza comunitario e italiano
2.1. Gli articoli 81 e 82 CE
I contratti di franchising contengono spesso delle clausole potenzialmente restrittive della concorrenza, prevedendo, ad esempio, esclusive di acquisto o territoriali, imponendo obblighi di non concorrenza o acquisti minimi, indicando il prezzo di rivendita. Tali clausole, oltre ad incidere sugli interessi delle parti del contratto (restringendo l’autonomia degli affiliati seppur assicurando l’omogeneità della rete commerciale del franchisor), possono incidere sulla concorrenza tra imprese in un determinato mercato e coinvolgere una molteplicità di interessi non sempre convergenti. Per fare un esempio concreto, la concessione di un’esclusiva territoriale agli affiliati potrebbe determinare una compartimentazione del mercato relativo al prodotto o servizio oggetto del contratto, con conseguente appiattimento della concorrenza tra affiliati protetti dall’esclusiva (c.d. concorrenza intrabrand), e innalzamento dei prezzi del prodotto o servizio offerto a danno dei consumatori. Tuttavia, se il mercato del prodotto o servizio è vivace e vi siano altri concorrenti attivi sul mercato (c.d. concorrenza interbrand), o non vi siano barriere all’accesso di nuovi concorrenti, non si verifica alcun rilevante effetto negativo sulla concorrenza tra produttori di beni o servizi concorrenti, che potrebbe anzi essere incentivata da una tale clausola di esclusiva in essere nella rete di distribuzione dell’affiliante, a vantaggio degli stessi consumatori.
Da queste semplici osservazioni discende che i contratti di franchising, oltre ad esser soggetti alla disciplina civilistica - ed alla disciplina sulla proprietà industriale e intellettuale – devono essere esaminati anche alla luce del diritto della concorrenza, comunitario e nazionale, per verificare entro quali limiti l’affiliante possa imporre all’affiliato (o agli affiliati) delle clausole potenzialmente restrittive della concorrenza.
Secondo l’articolo 81(1) CE “sono incompatibili con il mercato comune e comunque vietati tutti gli accordi tra imprese (…) che possano pregiudicare il commercio tra gli Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune”. Tali accordi restrittivi della concorrenza sono nulli di diritto (81(2) CE) e la loro conclusione ed esecuzione può condurre alla irrogazione di ammende. Tuttavia, il divieto di cui all’articolo 81(1) CE (e le conseguenti sanzioni) non si applica se gli accordi, seppur restrittivi della concorrenza, producano dei vantaggi in
termini di efficienza tali da compensare gli effetti anticoncorrenziali, in particolare, se essi soddisfino cumulativamente quattro condizioni, contribuendo a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico, pur riservando agli utilizzatori una congiura parte dell’utile che ne deriva, ed evitando di imporre restrizioni che non siano indispensabili per raggiungere tali obiettivi e di dare alle imprese la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti interessati (81(3) CE).
Fino al 1 maggio 2004, giorno dell’entrata in vigore del Regolamento 1/200318, la concessione dell’esenzione di cui all’articolo 81(3) CE era riservata all’esclusiva competenza della Commissione che esercitava tale facoltà tramite autorizzazione individuale rilasciata alle singole imprese o tramite autorizzazioni “di gruppo”, rilasciate con regolamento19 ed applicabili, senza necessità di autorizzazione preventiva individuale, ad una determinata categoria di accordi. In particolare, agli accordi di franchising, quali “accordi verticali”, conclusi cioè tra soggetti posti a diverso livello della catena produttiva o distributiva, si applica il Regolamento (CE) 2790/90 del 22 dicembre 1999 (“Regolamento 2790/99”) relativo all’applicazione dell’articolo 81, paragrafo 3, del trattato CE a categorie di accordi verticali e pratiche concordate20.
Agli accordi di franchising può anche applicarsi l’articolo 82 CE che vieta, “nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra gli Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato comune o una parte sostanziale di esso”.
2.2. Il Regolamento 2790/99 e le Linee Guida
Il Regolamento 2790/99 fissa le condizioni alle quali gli accordi verticali beneficiano dell’esenzione ai sensi dell’articolo 81(3) CE e regola in maniera unitaria (c.d. umbrella Regulation) gli accordi verticali prima sottoposti a differenti regolamenti di esenzione21, riferendosi espressamente anche agli accordi di distribuzione selettiva22.
Gli accordi verticali sono definiti dal Regolamento 2790/99 come “gli accordi (…) tra due o più imprese, operanti ciascuna, ai fini dell’accordo, ad un livello differente dalla catena di produzione o distribuzione, e che si riferiscono alle condizioni in base alle quali le parti possono acquistare, vendere o rivendere determinati beni o servizi” (articolo 2(1)). Questa definizione abbraccia sia il contratto di franchising sia il master franchising sia il corner franchising.
Il Regolamento 2790/99 abbandona, anche se non del tutto, il precedente atteggiamento formalistico della Commissione nei confronti degli accordi verticali e ritiene che essi non siano per se restrittivi della concorrenza, o comunque, in assenza di posizione dominante, siano meno pericolosi degli accordi orizzontali (quelli conclusi tra concorrenti operanti allo stesso livello della catena produttiva o distributiva). Il Regolamento 2790/99 ha riconosciuto, così, che alcune clausole contenute negli accordi verticali, seppur potenzialmente restrittive della concorrenza ai sensi articolo 81(1) CE, possono contribuire ad incrementare l'efficienza economica nell'ambito del processo produttivo e distributivo, nonché a ridurre i costi delle transazioni commerciali e di distribuzione, consentendo alle parti di realizzare un livello ottimale di investimenti e di vendite e determinare un miglioramento nella produzione e nella distribuzione, riservando agli utenti una congrua parte dell’utile (Consideranda 6, 7 e 9).
Per assicurare certezza alle imprese nelle autovalutazione della liceità degli accordi verticali, il Regolamento 2790/99 ha stabilito che beneficeranno dell’esenzione gli accordi verticali conclusi tra un
distributore ed un produttore che abbia una quota di mercato inferiore al 30%23 e non contengano certe clausole gravemente concorrenziali tali da escludere l’applicazione dell’esenzione (c.d. black list) 24.
La quota di mercato del 30% viene calcolata sulla base del valore delle vendite sul mercato dei beni o servizi oggetto del contratto e degli altri beni o servizi venduti dal fornitore (nel nostro caso, dal franchisor) che siano considerati intercambiabili o sostituibili dall’acquirente (franchisee), in ragione delle caratteristiche dei prodotti, dei loro prezzi e dell’uso al quale sono destinati (articolo 9).
Rientrano nella black list l'imposizione di un prezzo fisso o minimo di rivendita25, le restrizioni assolute relative al territorio in cui, o ai clienti ai quali, l'acquirente rivende i beni o i servizi oggetto del contratto. Altre due restrizioni gravemente concorrenziali si applicano nel caso in cui il contratto di franchising sia combinato con un sistema di distribuzione esclusiva. In particolare, sono gravemente concorrenziali le restrizioni relative agli utenti finali a cui i franchisor possono vendere i loro prodotti e le restrizioni relative alle forniture incrociate tra i franchisee (articolo 4).
Il Regolamento 2790/99 (articolo 5) fissa la durata massima dei patti di non concorrenza imposti al distributore26. Il Regolamento non esenta le clausole che contengano un obbligo di non concorrenza superiore a cinque anni, nel periodo contrattuale o ad un anno, dopo lo scioglimento del contratto. Il limite quinquennale non si applica però nel caso in cui i beni o servizi siano offerti dal distributore nei locali del fornitore, per il periodo di durata della locazione o comunque dell’occupazione dei locali del fornitore. Il limite annuale non si applica se l’obbligo di non concorrenza è limitato ai prodotti o servizi oggetto del contratto ed ai locali da cui il distributore ha operato durante il periodo contrattuale o sia indispensabile per proteggere il know-how trasferito dal fornitore al distributore. Nel caso di franchising, comunque, in assenza di posizione dominante del franchisor, si può avere una clausola di non concorrenza superiore ai cinque anni se non vi siano barriere all’entrata di nuovi produttori (e.g. una rete di accordi di non concorrenza simili che impediscano a nuovi produttori di trovare distributori dei loro prodotti o servizi)27.
La Commissione si riserva il diritto di revocare il beneficio dell’esenzione, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dal Regolamento 2790/99, quando un accordo verticali possa avere effetti incompatibili con l’articolo 81(3) CE ovvero “l’accesso al mercato rilevante o la concorrenza sul medesimo subiscano restrizioni significative a causa dell’effetto cumulato di reti parallele di restrizioni verticali simili poste in essere da fornitori o acquirenti concorrenti” (articolo 6). Anche le autorità antitrust degli Stati membri, se un determinato accordo verticale abbia effetti incompatibili con le condizioni di cui all’articolo 81(3) CE nel loro Stato o in una parte di esso che abbia le caratteristiche di un distinto mercato geografico, possono revocare il beneficio dell’esenzione prevista dal Regolamento 2790/99 su quel territorio (articolo 7).
Il Regolamento 2790/90 esclude dal proprio ambito di applicazione comunque gli accordi verticali di importanza minore, quali quello stipulati da imprese la cui quota di mercato rilevante non superi il 10%28.
La Commissione ha altresì emanato una comunicazione interpretativa, le Linee Direttrici sulle restrizioni verticali29, le cui disposizioni non hanno valore normativo ma sono di grande aiuto per la corretta applicazione del Regolamento 2790/99 e per permettere alle imprese interessate di valutare la liceità degli accordi verticali che non godono dell’esenzione per categoria, ora perché sia superata la soglia del 30% ora perché le parti hanno ritenuto opportuno introdurre clausole incluse nella black list, per le quali sembra sussistere un divieto assoluto. Nel caso in cui il Regolamento 2790/99 non trovi applicazione, l’articolo 81(3) CE può essere applicato oggi anche dalle corti e dalle autorità antitrust degli Stati membri, oltre che dalla Commissione.
Le Linee Direttrici fanno espresso riferimento al franchising (articoli 42-44 e 199-201) e spiegano che laddove l’affiliante detenga una quota di mercato superiore al 30%, le parti dovranno autovalutare la liceità del loro contratto sotto il profilo del diritto della concorrenza, considerando che:
1. tanto più importante è il trasferimento di know-how, tanto più probabile è che l'accordo soddisfi le condizioni dell'art. 81(3) CE;
2. l’obbligazione di non vendere prodotti o servizi di concorrenti non ricade nell'ambito di applicazione dell'art. 81(1) CE se l'obbligazione è necessaria a mantenere la comune identità e reputazione della rete del franchisor. In questo caso, l'obbligazione di non concorrenza può durare per tutta la durata del contratto di franchising;
3. le seguenti obbligazioni a carico dell'affiliato sono considerate necessarie a proteggere i diritti di proprietà intellettuale ed industriale dell’affiliante e non violano, generalmente, l'art. 81(1) CE:
(a) non intraprendere, direttamente o indirettamente, attività simili;
(b) non acquistare partecipazioni nel capitale di un'impresa concorrente, tali da conferire all'affiliato il potere di influenzare il comportamento economico di tale impresa;
(c) non rivelare a terzi il know-how fornito dall'affiliante finché tale know-how non sia divenuto di pubblico dominio;
(d) comunicare all'affiliante qualsiasi esperienza acquisita sfruttando il franchising, e concedere all'affiliante una licenza non esclusiva per know-how che risulta da tale esperienza;
(e) segnalare all'affiliante le violazioni dei diritti di proprietà immateriale sotto licenza, intraprendere azioni legali, contro i trasgressori o assistere l'affiliante in qualsiasi azione legale intentata contro gli stessi;
(f) non utilizzare il know-how concesso in licenza dall'affiliante a fini diversi dallo sfruttamento del franchising;
(g) non cedere i diritti e gli obblighi derivanti dall'accordo di franchising senza il consenso dell'affiliante.
Alle stesse conclusioni era già pervenuta, ormai quasi vent’anni fa, la Corte di Giustizia nel celebre caso Pronuptia30. La Corte di Giustizia, con sentenza del 28 giugno 1986, affermava che un contratto di affiliazione commerciale non pregiudica di per sé la concorrenza in quanto la compatibilità dei contratti di affiliazione commerciale con l’articolo 85(1) CEE (ora 81(1) CE), dipende dalle clausole in esse contenute e dal contesto economico nel quale essi si collocano.
In Pronuptia La Corte ha sapientemente delineato le caratteristiche peculiari dei contratti di franchising, ove “l’impresa che si sia stabilita sul mercato come distributore e che abbia così potuto mettere a punto un insieme di metodi commerciali concede, dietro corrispettivo, a dei commercianti indipendenti la possibilità di stabilirsi su altri mercati usando la sua insegna e i metodi commerciali che le hanno garantito il successo. (…) D’altro canto, detto sistema consente ai commercianti (. ) di avvalersi di metodi
che essi avrebbero potuto acquisire solo dopo una lunga e laboriosa ricerca e di giovarsi della reputazione del segno distintivo del concorrente”. La Corte spiegava quindi che perché tale sistema di
distribuzione funzioni sono necessarie due condizioni: innanzitutto che l’affiliante conceda il suo know- how all’affiliato e presti loro l’assistenza necessaria per applicare i suoi metodi, cercando di evitare che altri concorrenti si giovino di queste conoscenze; in secondo luogo, che l’affiliante possa adottare le misure idonee a preservare l’identità e la reputazione della propria rete distributiva. Su questi presupposti, la Corte considerava non restrittive della concorrenza le clausole che impediscono all’affiliato di non cedere l’azienda senza il previo accordo dell’affiliato o impongono la stretta osservanza delle metodologie commerciali dell’affiliante o impediscono all’affiliato di trasferire il punto vendita senza il preventivo consenso dell’affiliante.
Secondo la Corte soltanto due clausole possono aver per effetto la restrizione della concorrenza in quanto pregiudicano il commercio tra gli Stati membri: la ripartizione dei mercati e l’imposizione del prezzo fisso.
La Corte di Giustizia riconosceva inoltre l’autonomia dei contratti di affiliazione commerciale rispetto ai contratti di distribuzione esclusiva e selettiva e la non applicabilità ai contratti di franchising del regolamento 67/67 CEE relativo all’applicazione dell’articolo 85 (3) CEE a talune categorie di accordi di distribuzione esclusiva. Tre anni dopo il caso Pronuptia, pertanto, la Commissione emanava il Regolamento 4087/88, volto a fissare le condizioni alle quali i contratti di franchising potevano essere esentati dal divieto dell’articolo 85(1) senza necessità di notificare preventivamente il contratto per ottenere un’autorizzazione ad hoc dalla Commissione31.
Il Regolamento 4087/88, oggi sostituito dal più ampio Regolamento 2790/99, accogliendo le analisi della Corte di Giustizia in Pronuptia, sostanzialmente introduceva una presunzione di liceità dei contratti di franchising, sia pur distinguendo in maniera piuttosto rigida e formale tra clausole lecite (white list), clausole lecite ma vietate in determinati casi (grey list) e clausole vietate che non consentivano l’applicazione dell’esenzione per categoria (black list).
2.3. Il diritto della concorrenza interno e il franchising
La liceità di un contratto di franchising deve esser valutata dalle parti non solo secondo le norme di diritto della concorrenza comunitario, ma anche secondo le norme di diritto della concorrenza interno, fissate dalla legge 287 del 10 ottobre 1990, recante norme sulle intese, sull’abuso di posizione dominante e sulle operazioni di concentrazione (“Legge 287/90”). La Legge 287/90 è applicabili in via residuale quando le eventuali clausole restrittive della concorrenza contenute in un accordo di franchising non pregiudicano il commercio intracomunitario ed abbiano effetti soltanto sul territorio italiano.
La legge 287/90 non solo sostanzialmente riproduce, in materia di intese (articoli 2 e 4) e di abuso di posizione dominante (articolo 3), i corrispondenti articoli del Trattato CE, ma indica quale criterio interpretativo nell’applicazione del diritto della concorrenza interno il riferimento ai principi espressi dagli organi della Comunità europea in materia di concorrenza (articolo 1(4)).
Un accordo di franchising operante nel mercato italiano può essere quindi soggetto agli articoli 2 e 3 della Legge 287/1990, ma non deve esser notificato preventivamente, al momento della conclusione cioè, all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (“AGCM”) che, insieme all’autorità giudiziaria ordinaria, può esercitare soltanto un controllo ex post sulla validità dell’accordo32.
Non sono molte le decisioni dell’AGCM in materia di franchising, si può tuttavia affermare che le eventuali clausole restrittive della concorrenza in esso contenute sono considerate valide ed aventi effetti
sul mercato tali da bilanciare i potenziali effetti anticorrenziali33, salvo che il franchisor abbia una posizione dominante sul mercato del prodotto o servizio offerto in franchinsig. Così, in Ducati/Sip34, una clausola di approvvigionamento e vendita in esclusiva è stata considerata come integrante la fattispecie di abuso di posizione dominante.
3. Conclusioni
Con la Legge 129/2004, oggetto della prima parte di questo articolo, il legislatore dimostra di rendersi conto dell’importanza del contratto di franchising quale strumento per la distribuzione di prodotti e servizi ed offre, agli operatori del diritto e alle parti del contratto, una disciplina che consente di valutarne la liceità e di garantirne l’operatività e l’efficacia, scoraggiandone un uso distorto o fraudolento. Il legislatore, a favore della parte debole del contratto, introduce maggiori tutele, stabilendo il contenuto e la durata minimi del contratto ed introducendo obblighi di informazione a carico dell’affiliante; a favore di entrambe le parti, impone un obbligo specifico di lealtà, correttezza e buona fede e invita le parti a conciliare prima di litigare.
Peraltro, il legislatore, pur richiedendo trasparenza nei rapporti tra le parti e nel contenuto del contratto, ha lasciato ampi margini di libertà all’esercizio dell’autonomia contrattuale delle parti, per consentire loro di adeguare il contratto alle esigenze dei prodotti o servizi offerti e del mercato e favorire una collaborazione vantaggiosa ad entrambe.
Tuttavia, come emerge dalla seconda parte del presente articolo, imprese ed operatori nel diritto nel formulare un contratto di franchising non possono limitarsi al rispetto della nuova legge 129/2004, ma dovranno anche considerare gli effetti delle eventuali restrizioni verticali contenute nei contratti di franchising sul commercio intracomunitario e nazionale, nel rispetto delle norme di concorrenza comunitarie ed interne. In questo modo, “la valutazione di validità di un determinato assetto contrattuale viene compiuta anche alla stregua delle direttive pubblicistiche di organizzazione del mercato, le quali hanno immediate ricadute privatistiche nel momento in cui selezionano, all’interno di un determinato regolamento contrattuale, le clausole lecite da quelle illecite”35. In quest’ottica, al fine di valutare la liceità di un contratto di franchising occorre valutare, inter alia, anche la posizione di mercato delle parti, le condizioni del mercato rilevante, l’esistenza di una rete di analoghi rapporti contrattuali. Tuttavia, si può affermare con un certo margine di certezza che, in assenza di una posizione dominante del franchisor e di clausole gravemente restrittive della concorrenza (quali l’imposizione del presso minimo di rivendita), i contratti di franchising sono in genere considerati leciti sotto il profilo del diritto della concorrenza.
PROFILI CONTABILI
Quasi universalmente, nelle attività commerciali di rivendita di articoli, il rapporto di affiliazione prevede la gestione delle merci a completa conduzione da parte dell’affiliante. In pratica, la “casa franchisor” provvede ad inviare l’assortimento iniziale all’affiliato, ed a stabilire i termini per le vendite, che in genere si configurano in un versamento quotidiano o settimanale dell’incasso, con la facoltà concessa al medesimo affiliato di trattenere la propria quota di “provvigione”.
Perché la chiamiamo provvigione ?
Innanzi tutto dobbiamo chiarire che la merce è, e resta sempre, di proprietà della casa madre, poiché l’affiliato non la acquista, ma la riceve “ in deposito da terzi “ e per questo deve annotare i documenti ( DDT ) nell’apposito REGISTRO DEI BENI IN DEPOSITO DA TERZI, registrando in carico gli arrivi e tra gli scarichi, le cessioni ed i resi.
E’ un errore contabilizzare la merce tra gli acquisti !
Stralcio del primo comma dell’art. 19 del DPR 633 /72
1. Per la determinazione dell'imposta dovuta a norma del primo comma dell'articolo
17 o dell'eccedenza di cui al secondo comma dell'articolo 30, e' detraibile dall'ammontare dell'imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell'imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell'esercizio dell'impresa, arte o professione.
Si ponga l’accento dell’attenzione sul termine “ beni acquistati”. Approfondendo le nozioni in materia di affidamento delle merci destinate alla rivendita, si evince che la consegna degli articoli non può configurarsi quale vendita, bensì quale deposito per assortimento e promozione per conto di terzi, e non viene accompagnata da contropartita di pagamento al “fornitore”.
Si ritiene pertanto che la registrazione dei documenti con accredito dell’iva ammessa in detrazione sia inammissibile, poiché, appunto, non è un ciclo sequenziale di vendite e non prevede il pagamento del prezzo.
Vale per contro l’identico trattamento speculare nelle vendite, che non sono cessioni a vantaggio del FRANCHISEE, ma sono operazioni per conto del FRANCHISOR, il quale riceve il netto rilasciando nella transazione, la provvigione al venditore.