CSM
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INCONTRO DI STUDI: LA TUTELA DEI CONSUMATORI
Roma, 14 – 16 novembre 2005
Gruppo di lavoro:
PUBBLICITA’ INGANNEVOLE
E FORMAZIONE DEL CONTRATTO
APPUNTI PER LA DISCUSSIONE
Xxxxxxx Xxxxxxxx
Giudice del tribunale di Napoli, sezione specializzata P.I.I. SOMMARIO
§ 1) premessa
§ 2) Le definizioni di pubblicità e di pubblicità ingannevole
§ 3) Profili di giurisdizione: le attribuzioni dell’Autorità garante “Antitrust”
§ 4) Le attribuzioni residue del giudice ordinario; la concorrenza sleale e la tutela dei consumatori
§ 5) Concorrenza sleale, pubblicità ingannevole e tutela dei consumatori
§ 6) Le possibili conseguenze per i consumatori della sentenza Xxxx. S.U. 2207/2005
§ 7) Pubblicità ed informazioni: differenze e interazioni
§ 8) Il contenuto della pubblicità ingannevole
a) in generale
b) ingannevolezza del contenuto del messaggio
c) ingannevolezza delle modalità di presentazione del messaggio
d) la pubblicità di prodotti pericolosi
§ 9) Pubblicità ingannevole e tutela del consumatore con gli ordinari rimedi civilistici, premessa
§ 10) Pubblicità ingannevole e conclusione del contratto, l’omissione di clausole promesse
§ 11) L’inserimento di clausole difformi: contratti individuali e standard
§ 12 L’annullabilità per vizi del consenso.
a) Il dolo
b) Dolus malus e dolus bonus, l’iperbole
c) La truffa contrattuale
d) Errore
§ 13) La presupposizione
§ 14) La risoluzione del contratto
§ 15) Pubblicità ingannevole e clausole vessatorie
§ 16) Difetto di informazione ed informazione decettiva e nullità contrattuali
§ 17) La responsabilità precontrattuale
§ 18) La tutela aquilana
§ 1) premessa
Questo lavoro intende offrire una base più solida alla discussione dell’argomento del gruppo di lavoro, senza pretesa di completezza e di organicità. 1
1 Allo scopo di non appesantire eccessivamente il testo, ho evitato il ricorso alle note. Indico qui i principali riferimenti dottrinali:
ALPA, Il codice del consumo, I contratti, 2005, 1047
XXXXXX, La disciplina della pubblicità , in AA VV, Diritto industriale, proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2001,351.
XXXXX, Pubblicità scorretta e diritti dei terzi, Milano, 2000 (specie pag. 57-84)
CACCIATORE, Concorrenza sleale e tutela del consumatore, Riv. Di diritto dell’economia, dei trasporti e dell’ambiente, 2003/1
CAFAGGI, Pubblicità commerciale, voce del Digesto comm., vol. XI, Torino, 1995
L’incontro di studi consentirà una ricostruzione puntuale dei diritti di consumatori ed utenti, veri “diritti civili nel mercato” (GHIDINI).
Con specifico riferimento al tema della pubblicità, punto di partenza “storico” potrebbe essere un celebre messaggio di J. F. Xxxxxxx al Congresso USA del 1962, in cui egli chiese al legislatore americano di garantire i fondamentali diritti dei cittadini – tra l’altro – all’informazione, intesa come protezione contro false e fuorvianti pubblicità ed etichettature.
L’ordinamento giuridico interviene allora a correggere le insufficienze delle informazioni presenti nel mercato, per consentire al consumatore la possibilità di scelte razionali, ciò nella consapevolezza che il momento pubblicitario\informativo si inserisce in quel che è stato definito il ciclo persuasion\negoziazione\fruizione (GHIDINI).
La tutela del consumatore fin nella fase della persuasione, quindi del messaggio pubblicitario, è andata progredendo anche nella legislazione italiana, sotto la spinta decisiva della normativa comunitaria, e trova nuova conferma nel nuovissimo Codice del consumo (d’ora in avanti, il Cod.), D.lgs 206/2005
Quest’ultimo ha espressamente abrogato (art. 146.1 d) il D.lgs 74/1992 (come modificato dal D.lgs 67/2000), di attuazione della direttiva 84/450/Cee, in materia di pubblicità ingannevole e comparativa. L’abrogazione si è estesa anche alla recentissima l. 49/2005, che ha modificato il D.lgs 74/1992 quanto a taluni profili della procedura innanzi all’autorità garante, prevedendo anche sanzioni amministrative.
Si è trattata però di un abrogatio sine abolitione: le disposizioni del decreto in oggetto, infatti, sono state trasferite , con poche modifiche, nel titolo III del Codice, “Pubblicità e altre comunicazioni commerciali”, art. 18 – 32.
Il Codice, pur se di “riassetto” e non di mero “riordino” (così la Relazione) è d’altronde essenzialmente un testo unico, ricognitivo del diritto esistente. La novità sta piuttosto nella struttura stessa del Codice, che ricostruisce in un quadro nuovo i nessi sistematici che collegano i molteplici diritti del consumatore.
Da qui la necessità di una lettura “nuova” (la cui portata è rimessa alla giurisprudenza) delle norme preesistenti anche in materia di pubblicità, in quanto confluite in un contesto normativo a sua volta nuovo e fortemente unitario.
CAPELLI, La tutela della concorrenza tra diritto comunitario e diritto nazionale, relazione all’incontro di studi organizzato dal CSM in Roma, 23-25 settembre 1999 sul tema : Dalla disciplina della concorrenza sleale alla disciplina della concorrenza a tutela dei consumatori, in xxx.xxxxxx.xx
XXXXXXXXXX, La tutela della libertà di concorrenza innanzi al giudice ordinario, relazione all’incontro di studi organizzato dal CSM in Roma, 23-25 settembre 1999 cit.
XX XXXXXXX, Concorrenza sleale ed interessi tutelati, relazione all’incontro di studi organizzato dal CSM in Roma, 23- 25 settembre 1999 cit.
DELLI PRISCOLI, Norme antitrust e tutela del consumatore, nota a Xxxx. 4 febbraio 2005 n. 2207, Danno e resp., 2005, 949
DONA, Il codice del consumo: più tutela agli utenti ma resta il nodo delle azioni comuni, Dir. e giust., 2005, 37, 103 ELIA, Pubblicità ingannevole. La tutela del consumatore e degli interessi del concorrente, in www.diritto&diritti GHIDINI – XXXXXXXX, Consumatore (tutela del) , Enciclopedia del diritto, aggiornamento V, Milano, 2001, 264.
MELI, Pubblicità ingannevole, pubblicità comparativa e concorrenza sleale, relazione all’incontro di studi organizzato dal CSM in Roma, 4-7 giugno 2001 sul tema: Primo corso di formazione di diritto commerciale: questioni attuali di diritto dell’impresa e di diritto industriale, in xxx.xxxxxx.xx
XXXXXXXX, nota a Cons. Stato 3 febbraio 2005, Foro it., 2005, III, 403.
XXXXXXX, la pubblicità commerciale tra libertà di manifestazione del pensiero e libertà di iniziativa economica, nota a Xxxx. 23 novembre 1999, n. 12993, Giust. civ., 2000, I, 31
XXXXX, Informazione e suggestione del consumatore nella pubblicità comparativa, nota a Corte giust. UE 8 aprile 2003, n. 44/01, Foro It., 2003, IV, 459
SORDELLI, Pubblicità (disciplina della), voce dell’Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XXV, Roma 1991
XXXXXXXXX, Forma scritta ed obblighi di corretta informazione e trasparenza nei contratti dei consumatori. Questioni di invalidità d inefficacia, relazione nell’incontro di studi organizzato dal CSM in Roma, 16-18 febbraio 2004 sul tema: La tutela dei consumatori, in xxx.xxxxxx.xx
XXXXXXXXX (a cura di), Commentario breve al diritto della concorrenza, Padova, 2004, 1719
XXXXXXX, Libertà di concorrenza ed autonomia privata, relazione all’incontro di studi organizzato dal CSM in Roma, 23- 25 settembre 1999 cit.
§ 2) Le definizioni di pubblicità e di pubblicità ingannevole
Il principio fondamentale che qui interessa è contenuto nell’art. 2.1 c) Cod., “diritti dei consumatori” (già nella l. 281/1998, Statuto dei consumatori e degli utenti), che espressamente riconosce ai consumatori e agli utenti il diritto ad una adeguata informazione e ad una corretta pubblicità.
L’art. 20.1. a) (già art. 2 D.lgs 74/1992) definisce la pubblicità come “qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un attività commerciale, industriale, artigianale, o promozionale, allo scopo di promuovere la vendita di beni mobili o immobili, la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi, oppure la prestazione di opere o di servizi”
Si tratta di una definizione molto ampia, come confermato dall’art. 18.1 Cod. (ambito di applicazione), secondo cui le disposizioni del titolo III si applicano a quasiasi forma di comunicazione commerciale, comunque effettuata.
Un messaggio è pubblicitario, quindi, quando è diffuso nell’ambito di una attività economica e con una finalità promozionale, anche indiretta (è il caso delle c.d. pubblicità istituzionali).
Si consideri, inoltre, che il tipico strumento di comunicazione pubblicitaria, lo slogan, costituisce anche segno distintivo atipico dell’attività d’impresa, e pertanto soggetto – quale “diritto di proprietà industriale non titolato”, al Codice della proprietà industriale, D.lgs 30/2004 (le interferenze tra pubblicità e diritti di p.i. possono essere molteplici; co riferimento al marchio e alla concorrenza sleale v. ad es. Trib. Udine 23 febbraio 2004, Dir. ind., 2004, 386). .
Sotto il profilo soggettivo, l’art. 18.2 precisa che, proprio con riferimento alla disciplina della pubblicità, per consumatore ed utente si intende – in aggiunta a quanto disposto dall’art. 3 Cod. – anche la persona fisica o giuridica cui sono dirette le comunicazioni commerciali, o che ne subisce le conseguenze.
Di converso l’operatore pubblicitario, ex art. 20. 1 d) è “il committente del messaggio pubblicitario, ed il suo autore nonché, nel caso in cui non consenta alla identificazione di costoro, il proprietario del mezzo con cui il messaggio pubblicitario è diffuso ovvero il responsabile della programmazione radiofonica o televisiva”
La legge quindi - come accennato – individua con criteri molto ampi sia la pubblicità che i suoi “protagonisti”, sul lato attivo (operatori) e passivo (consumatori).
La ratio è nell’art. 19 (già 1 d.lgs 74/1992) che espressamente enuncia che la disciplina in oggetto ha “lo scopo di tutelare dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali i soggetti che esercitano un’ttività commerciale, industriale, artigianale o professionale, i consumatori ed in genere gli interessi del pubblico nella fruizione di messaggi pubblicitari, nonché di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa”
Infine – per quel che qui interessa – l’ar. 20.1 b) (già 2 D.lgs 74/1992) definisce la pubblicità ingannevole come: “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa l sua presentazione, sia idonea a indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente”.
Di converso l’art. 19.2 precisa che “la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta”
Pur nel silenzio della legge, deve ritenersi che l’elemento differenziale della pubblicità da altre forme di comunicazione aziendale è la destinazione del messaggio alla divulgazione, vale a dire alla diffusione.
§ 3) Profili di giurisdizione: le attribuzioni dell’Autorità garante “Antitrust”
Prima di esaminare – nella prospettiva della tutela dei consumatori – la disciplina della pubblicità ingannevole – va qui richiamato il fondamentale art. 26 “tutela amministrativa e giurisdizionale” (già art. 7 D.lgs 74/1992) che riserva all’autorità garante della concorrenza e del mercato (c.d. autorithy antitrust, d’ora in avanti: AGC) la tutela “paragiurisdizionale” avverso le condotte di pubblicità ingannevole.
Tale attribuzioni all’AGC sono apparse, a molti, anomale e addirittura bizzarre (DI XXXXXXX).
In particolare l’AGC può disporre l’inibitoria degli “atti di pubblicità ingannevole o di pubblicità comparativa ritenuta illecita ai sensi della presente sezione”, nel senso che ne viene inibita la continuazione, se ne iniziata, e ne sono rimossi gli effetti, ovvero venga vietata quella non portata ancora a conoscenza del pubblico (comma 2, 6); l’AGC può anche disporre l’applicazione di una
sanzione amministrativa, da 1000 a 100.000 euro (comma 7); la sanzione può essere disposta anch in caso di inottemperanza ai provvedimenti d’urgenza e inibitori (comma 9).
L’AGC può anche disporre la sospensione provvisoria (cautelare) della pubblicità ingannevole o comparativa ritenuta illecita, in caso di particolare urgenza (comma 3)
I ricorsi avverso le decisioni dell’AGC rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, mentre per le sanzioni amministrative pecuniarie si applicano le disposizioni della l. 689/1981 (comma 12).
Per quanto qui interessa, la legittimazione a promuovere azioni innanzi all’AGC compete anche ai consumatori e alle loro organizzazioni (comma 2).
I consumatori vengono così posti accanto agli imprenditori e si fanno rientrare, con pari dignità, nel novero dei soggetti che l'ordinamento si propone di tutelare.
I rimedi rientranti nelle attribuzioni dell’AGC, è appena il caso di rilevarlo, sono di grande importanza: Il rimedio di carattere risarcitorio, che presuppone la sussistenza e la dimostrazione del danno e del nesso causale con la diffusione del messaggio secondo le norme del codice civile (artt. 2043, 1337 e 1428 c.c.), non è infatti il solo. Di contro, con l’inibitoria, vi è un’anticipazione della soglia di tutela per impedire che l’evento si verifichi e che maturino e si consolidino le intuibili conseguenze lesive (CACCiATORE)
§ 4) Le attribuzioni residue del giudice ordinario; la concorrenza sleale e la tutela dei consumatori
L’art. 26.14 dispone: “E’ fatta comunque salva la giurisdizione del giudice ordinario in materia di atti di concorrenza sleale, a norma dell’art. 2598 del codice civile, nonché per quanto concerne la pubblicità comparativa, in materia di atti compiuti in violazione della disciplina sul diritto d’autore… e del marchio d’impresa…nonché delle denominazioni di origine protette in Italia e di altri segni distintivi di imprese, beni e servizi concorrenti”
Va qui ricordato che la disciplina della concorrenza sleale (pressochè integralmente) e dei diritti di proprietà industriale (questi ultimi disciplinati dal Codice della P.I. cit.) rientra nella competenza funzionale delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale, di cui al D.lgs 168/2003.
Con specifico riferimento alla concorrenza sleale, la pubblicità ingannevole e comparativa illecita può essere sanzionata essenzialmente ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c., che si riferisce a chiunque “si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”
Possono i consumatori, o le loro associazioni rappresentative, adire il giudice ordinario (specificamente le sezioni specializzate cit.) per conseguire la repressione di condotte di concorrenza sleale, realizzate a mezzo di pubblicità ingannevole o comparativa illecita?
E’ qui coinvolto uno degli argomenti “classici” del diritto industriale: l’individuazione degli interessi tutelati dalla disciplina della concorrenza sleale e se, in particolare, possa rientrarvi anche la tutela dei consumatori.
Alla stregua della lettera dell’art. 2598 c.c. sia l’autore dell’illecito concorrenziale, sia il soggetto danneggiato devono appartenere alla medesima categoria di imprenditori concorrenti, sicchè la repressione della concorrenza sleale è diretta a tutelare gli interessi individuali dei concorrenti.
Del resto la norma sopra indicata menziona più volte il “concorrente”, indicando nel n. 3 l’idoneità “a danneggiare l’altrui azienda” e riferendosi non alla correttezza tout-court, ma alla “correttezza professionale”. Ciò presuppone che soggetto attivo e soggetto passivo appartengano alla stessa categoria professionale.
Per i consumatori, dunque, non vi sarebbe spazio.
Essi vengono considerati soltanto “quale strumento per determinare le iniziative preferibili” (XXXXXXXXX); così in giurisprudenza si continua ad affermare prevalentemente che l’interesse dei consumatori costituiva soltanto un metro di valutazione al fine di stabilire se un atto concorrenziale debba ritenersi più o meno sleale.
I loro interessi verrebbero protetti in modo indiretto e mediato, o, secondo altra espressione, la tutela loro accordata sarebbe “secondaria e riflessa”, tant’è che la legittimazione ad agire in concorrenza sleale sarebbe stata riconosciuta ai soli imprenditori concorrenti.
Quand’anche un atto di concorrenza sleale pregiudicasse i consumatori, la tutela inibitoria di cui agli artt. 2598 e ss. c.c. non troverebbe applicazione.
L’unico rimedio, sempre che ne sussistono i presupposti, sarebbe la tutela aquiliana di cui all’art. 2043 c.c.
Anche la Corte Costituzionale, adita dal Trib. di Milano con riferimento all’art. 2601 c.c. , aveva escluso la incostituzionalità di tale norma, che pure preclude alle associazioni dei consumatori la legittimazione all’esercizio delle azioni di concorrenza sleale, “perché compete al legislatore apprestare adeguati strumenti di salvaguardia per il consumatore”, Corte Cost., Ord. 21 gennaio 1988, n. 59, in Foro it., I, 1988, c. 2158 ss , osservando anche che l’art. 2601 “si colloca nell’ambito della disciplina della concorrenza sleale” per cui “non appare neppur ipotizzabile il confronto con enti ed associazioni che abbiano finalità istituzionali diverse dal potenziamento del commercio di un determinato prodotto e che fanno quindi valere interessi del tutto estranei alla correttezza dei rapporti economici di mercato”.
Tuttavia già in passato si era posto il problema se anche i consumatori potessero considerarsi soggettivamente legittimati ad intervenire a fronte di illeciti di carattere concorrenziale e se la disciplina della concorrenza tutelasse anche gli interessi dei consumatori.
Molteplici sono stati, dagli anni sessanta, gli interventi normativi sui consumatori e sulla tutela dei loro interessi, specie facendo leva sull’art. 41, comma 2, Cost., per il quale l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, norma questa che “esprime una chiarissima indicazione funzionale (……) sotto il profilo della coerenza dell’esercizio dell’iniziativa economica con interessi «sociali» riconosciuti come possibilmente confliggenti con quelli imprenditoriali e, in vista di tale possibilità, ad essa sovraordinati” e che ha sostituito un nuovo parametro a quello degli “interessi dell’economia nazionale” di cui all’art. 2595 c.c. (GHIDINI).
Gli imprenditori concorrenti non sarebbero l’unico punto di riferimento della tutela concorrenziale; anche ad altri interessi, come quelli dei consumatori e della collettività, occorrerebbe riconoscere altrettanta rilevanza perché contribuirebbero ad uno svolgimento corretto della concorrenza.
Alla base, dunque, del predetto fermento vi era la considerazione che “l’emergere dei rapporti e contratti sociali di massa, quale fenomeno nuovo e nuovo modo di atteggiarsi della società civile, che è causa ed effetto al tempo stesso della produzione in serie e dei consumi di massa, non è compiutamente censibile sulla base degli istituti, figure ed interpretazioni tradizionali. Emerge la insufficienza di strumenti propri di momenti in cui quei fenomeni erano socialmente meno incidenti, o comunque ispirati ad una logica prodotta dalla cultura giuridica a quei momenti dominante” (XXXXXXX) .
Pertanto “anche sul versante soggettivo (cioè appunto della legittimazione), la repressione della concorrenza sleale sia indotta a servire non più esclusivamente gli interessi «dei concorrenti», bensì tuteli questi ultimi in una prospettiva di necessario rispetto di tutti gli interessi protetti dalla costituzione economica, e riferibili, come rilevato, vuoi alla “altrui libertà di concorrenza”, vuoi alla corretta informazione (nel senso più ampio) del pubblico dei consumatori (GHIDINI).
§ 5) Concorrenza sleale, pubblicità ingannevole e tutela dei consumatori
La pubblicità ingannevole - in quanto fattispecie di concorrenza sleale - comprende, nella sua struttura, due aspetti sostanziali:
- l’idoneità a indurrre in errore le persone fisiche e giuridiche
- la lesione potenziale dell’interesse del concorrente, ricondotto in primo luogo allo sviamento di clientela, derivante dall’ingannevolezza: attraverso il messagio decettivo un imprenditore induce l’acquirente all’acquisto di un bene o di un servizio, così sottraendo una quota di mercato ad altri concorrenti, ovvero conservandone una che, in caso di corretto operare del mercato, gli sarebbe stata sottratta (XXXX). La confusione può realizzarsi nelle più diverse forme (ad es. attraverso l’appropriazione di pregi altrui e riguardare anche prodotti non concorrenti.
L’interesse leso è quindi quello distintivo.
L’interferenza con la tutela dei consumatari è evidente: anzi la comunicazione pubblicitaria ingannevole incide maggiormente sui consumatori, per il forte impatto che ha su di loro e sul processo di scelta che compiono.
Pertanto proprio i casi di pubblicità ingannevole rendevano manifesta l’incongruenza di una disciplina che non consentiva ai consumatori di poter intervenire a tutela dei propri interessi,
relegandoli al ruolo di “sudditi (XXXXXXX), lasciando che gli imprenditori pur aventi lo status di “cittadini”, assumessero per loro l’opportuna iniziativa giudiziaria.
La stessa clausola generale di cui all’art. 2598 n. 3 c.c., cui è generalmente ricondotta la pubblicità ingannevole, richiede di per sé l’individuazione degli interessi protetti, con conseguente coinvolgimento anche di quelli dei consumatori.
Da qui – allora – la (ormai improcrastinabile) introduzione del D.lgs 74/1992, che certo ha aperto “una profonda breccia, assai suggestiva agli occhi di quanti hanno più volte ricercato, invano, un indispensabile bilanciamento di interessi tra categorie non imprenditoriali all’interno della disciplina della concorrenza sleale” (XXXXXXX).
D’altro canto se è vero che l’art. 2 Cod. non riconduce, tra i diritti dei consumatori, quello alla correttezza e lealtà della concorrenza, è anche vero che tale norma (come detto originariamente ricompresa nell’art. 1 l. 281/1998) riconosce i diritti alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali, nonché alla erogazione di servizi secondo criteri che assicurino standard di qualità ed efficienza.
Soprattutto l’art. 2 cit. riconosce, come detto, il diritto del consumatore ad una corretta pubblicità che è correlato, strettamente, al diritto ad un adeguata informazione.
Tutti tali diritti – in ultima analisi - sono diretti a sanzionare comportamenti confusori o ingannatori e che, quindi, si rivolgono a favore del consumatore, collegandosi però in qualche misura con gli atti ed i comportamenti previsti dall’art. 2598 c.c.
La dottrina è però ancora divisa tra chi assume, sul presupposto dell’omogeneità strutturale tra illecito pubblicitario e illecito concorrenziale, che ormai ai singoli consumatori e alle loro associazioni compete la legittimazione attiva all’azione inibitoria ex art. 2598 c.c. e chi, invece, facendo leva sulle evidenziate diversità tra le due ipotesi normative, tuttora reputa che l’azione ex art. 2598 sia riservata solo ad imprenditori (sicchè l’azione del consumatore singolo e della associazione dei consumatori è volta a censurare la ingannevolezza del messaggio, e non anche – o solo eventualmente - le sue conseguenze sleali. Di converso i concorrenti potrebbero, dunque, agire in giudizio solo nelle ipotesi in cui l’avvenuta lesione degli interessi dei consumatori determini per loro conseguenze sleali).
Il Codice non sembra aver risolto la questione, pur se l’art. 139 (riproducendo una norma contenuta nello statuto dei consumatori) riconosce alle associazioni dei consumatori una legittimazione ad agire a tutela degli interessi collettivi molto ampia, pur se non è richiamata, almeno non espressamente, la repressione di condotte di concorrenza sleale.
La questione è effettivamente complessa.
Se è indubbio che sussistano rapporti fra il fenomeno della pubblicità ingannevole e la concorrenza (v. il secondo “Considerando” della direttiva 84/450/CEE, “la pubblicità ingannevole può condurre ad una distorsione della concorrenza all’interno del mercato comune) deve del pari evidenziarsi che non vi è piena coincidenza, nel senso che la prima non rientra sempre e necessariamente nella seconda, né d’altronde la prima è sempre e solo a protezione esclusiva del consumatore.
In altri termini non vi è automaticità tra la lesione del consumatore e quella del concorrente: non sempre la pubblicità ingannevole assume i connotati della concorrenza sleale, né – in via di fatto – vi è sempre l’interesse degli imprenditori concorrenti a perseguire la repressione della pubblicità ingannevole.
D’altronde la disciplina della pubblicità ingannevole ha una sua propria autonomia giuridica, diretta a creare chiarezza e trasparenza nei rapporti commerciali e professionali, senza richiedere la necessaria qualifica imprenditoriale delle due parti.Storicamente, anzi, l’introduzione del divieto generale di pubblicità ingannevole è espressione del passaggio da una ottica esclusivamente privatistica ad una anche pubblicistica del fenomeno.
Da un lato, infatti, vi sono atti o attività pubblicitarie di per sé non dannose per i consumatori, che possono risultare tali se riferiti invece ai rapporti concorrenziali tra imprenditori, dall’altro lato vi sono atti o attività pubblicitarie dannose per i consumatori, che non rientrano nella disciplina della concorrenza (ALPA).
Ad esempio la pubblicità denigratoria, avente ad oggetto affermazioni vere, non costituisce un’ipotesi lesiva degli interessi dei consumatori; anzi, è tale da offrire loro quelle informazioni idonee a determinare le proprie scelte di acquisto in modo consapevole e sulla base delle reali caratteristiche dei prodotti.
La stessa imitazione servile degli altrui prodotti, che ha evidenti risvolti pubblicitari, di per sé non determina per i consumatori un aumento dei prezzi e dei servizi o un peggioramento qualitativo degli uni e degli altri.
Allo stesso risultato conduce – verosimilmente –anche la pubblicità comparativa.
In effetti non sempre sempre il consumatore ha interesse a reagire nei confronti di ogni forma di comunicazione pubblicitaria scorretta, in quanto possono ledere i suoi interessi, ormai giuridicamente tutelati, solo quelle comunicazioni che siano tali da indurlo in errore e da alterare la sua libertà di scelta (con conseguente legittimazione ad adire l’AGC).
Si consideri di contro la pubblicità non veritiera intorno a caratteristiche e proprietà di prodotti, che non ammettono diversificazioni sul piano della qualità; si consideri la stessa pubblicità superlativa.
Si tratta di forme di pubblicità sicuramente dannose per i consumatori ma, ammesso che qui sia configurabile anche la concorrenza sleale, è verosimile che nessun imprenditore avrebbe incentivo a reagire, perché tutti traggono vantaggio dalle false informazioni immesse nel mercato (XXXXXXXXX).
Del pari può configurarsi pubblicità ingannevole, ma non violazione della concorrenza, con riferimento a prodotti nuovi, per i quali non esistono concorrenti nemmeno a livello potenziale; considerazioni non diverse possono svolgersi con riferimento alle situazioni di monopolio, o di oligopolio, in cui i produttori abbiano concertato la diffusione di un messaggio pubblicitario che dia informazioni menzognere, o ometta quelle vere; tali comportamenti collusivi impediscono al mccanismo concorrenziale di operare: è il caso del mercato delle sigarette, in rapporto all’attributo negativo del prodotto per la salute del consumatoere
Pure costituisce pubblicità ingannevole, ma non concorrenza sleale (di per sé) la violazione dell’art. 24 Cod., in materia di pubblicità di prodotti pericolosi.
Lo stesso richiamo, ora nell’art. 19 Cod. alle conseguenze sleali della pubblicità ingannevole, evidenzia un “riparto” della tutela: il consumatore è tutelato contro la pubblicità ingannevole, gli imprenditori, appunto, dalle conseguenze sleali della stessa.
In definitiva, nella vigenza del Codice, la questione dell’ampliamento sul piano soggettivo della disciplina della concorrenza sleale, con conseguente superamento della tradizionale impostazione corporativistica dell’art. 2598 c.c. cit, si pone con forza quantomeno con riferimento alle pubblicità ingannevoli plurioffensive, nel senso che sono idonee a ledere sia l’interesse dei consumatori che degli imprenditoriali.
§ 6) Le possibili conseguenze per i consumatori della sentenza Xxxx. S.U. 2207/2005
La legittimazione dei consumatori (e\o delle loro associazioni) all’esercizio dell’azione ex art. 2598 c.c., per la repressione inibitoria ordinaria di pubblicità ingannevoli o comparative illecite, e – soprattutto – per conseguire il risarcimento del danno a fronte di tali condotte, può trovare importanti argomenti a favore nella ormai notissima Cass. SU 4 febbraio 2005, n. 2207, Xxxxx e resp., 2005, 495.
Tale sentenza ha affermato, in estrema sintesi, il diritto del singolo consumatore ad essere risarcito per il danno subito in caso di comportamento anticoncorrenziale posto in essere da imprese, ai sensi dell’art. 33 l. 287/1990, con conseguente competenza in unico grado della Corte d’appello (ormai, ex art. 134 Cod. P.I., delle sole corti d’appello sede di sezione specializzata PII). La vicenda alla base della sentenza della Cassazione prendeva le mosse da un provvedimento dall’AGC, che aveva individuato una intesa anticoncorrenziale posta in essere da diverse compagnie di assicurazione; un consumatore aveva adito in giudizio innanzi al Giudice di Xxxx una compagnia assicuratrice, chiedendo il rimborso del 20% del premio corrisposto per la polizza, affermando che l’importo era stato illecitamente aumentato sfruttando la posizione di forza derivata alla compagnia dall’intesa. La competenza del giudice di Xxxx si fondava su precedenti pronunce della Cassazione, secondo cui i destinatari direti delle norme che vietano i comportamenti anticoncorrenziali sono solo gli imprenditori commerciali, i quali sono perciò gli unici soggetti legittimati ad avvalersene, mentre il consumatore può trarne un vantaggio solo riflesso ed indiretto. Pertanto il consumatore può ottenere il risarcimento ex art .2043 c.c., non ex art. 33 cit.
La Cassazione ha affermato il principio opposto, pur non affermando che il consumatore danneggiato dalla condotta anticoncorrenziale sia titolare di un diritto soggettivo; ha anzi
richiamato la nota sentenza 500/1999: la tutela aquliana è riconosciuta a fronte di un danno ingiusto, senza che sia richiesta la lesione di un diritto soggettivo.
La Corte ha anche affermato che il singolo consumatore ha diritto al risarcimento del danno ai sensi della legge 287/1990, atteso che quest’ultima prevede genericamente il diritto al risarcimento del danno, senza però contemplare una particolare categoria di soggetti destinatari di tale diritto; l’art. 4 della legge cit., anzi, menziona l’interesse del consumatore quale elemento rilevante nella valutazione dell’intesa anticoncorrenziale, attribuendo quindi a tale soggetto un rilievo che lo rende degno di essere destinatario del risarcimento.
La ratio sottesa alla sentenza in esame si presta ad una estensione anche alle fattispecie di concorrenza sleale realizzate a mezzo di pubblicità ingannevole, di competenza – come detto – del giudice ordinario?.
La sentenza sembra escluderlo, ed anzi insiste nella contrapposizione tra la disciplina della concorrenza sleale, attinente a conflitti interindividuali, e disciplina antitrust, che tutela l’interesse collettivo al buon funzionamento del mercato.
Ciò però è vero in una logica amministrativa: guardando ai rimedi civili conseguenti agli illeciti antitrust deve affermarsi che anche questi afferiscono ad interessi interindividuali (LIBERTINI).
Si è visto che anche l’art. 2598 c.c., nell’impostazione tradizionale, è imperniato sulla esclusiva tutela del singolo imprenditore dall’attività scorretta del concorrente.
La disciplina della concorrenza sleale non si pone in antitesi rispetto a quella della legge antitrust, ma ne costituisce il completamento, andando a coprire tutte quelle condotte distorsive della concorrenza che – per la loro portata ridotta – non assumono rilevanza pubblicistica e sfuggono allora dalla disciplina antitrust (DELLI PRISCOLI). D’altronde, storicamente, in Italia, fino alla legge del 1990, le condotte antitrust di rilevanza non comunitaria erano represse, in quanto possibile, proprio ricorrendo all’art. 2598 c.c.
Ciò pur se la legge antitrust prende in esame condotte lesive della struttura concorrenziale del mercato, il che si risolve pressochè sempre in un danno per i consumatori, mentre la concorrenza sleale ha per riferimento escusivo la violazione di regole di correttezza professionale tra imprenditori, il che – come osservato – non si risolve sempre in danno per i consumatori.
La profonda omogeneità tra antitrust e concorrenza sleale, allora, sembra rendere ammissibile la configurazione del diritto dei consumatori al risarcimento dei danni da condotte concorrenziali illecite, se lesive anche dell’interesse dei consumatori stessi il che, come si è visto, ben è configurabile nell’ambito della pubblicità ingannevole.
Nell’uno e nell’altro caso – quello previsto dalla normativa antitrust e dalla normativa concorrenziale – l’interesse del consumatore leso è quello alla scelta effettiva, libera e consapevole, tra prodotti concorrenti.
E’ stato infine rimarcato che l’art. 2598 c.c. si pone in maniera neutra rispetto ai consumatori, nel senso che – se non attribuiscono loro un diritto al risarcimento – neppure lo esclude tout court.
§ 7) Pubblicità ed informazioni: differenze e interazioni
Il momento dell’ informazione e quello della pubblicità, avvicinati dall’art. 2 Cod., attengono alla fase anteriore alla formazione del contratto, che è quella in cui avviene il contatto sociale tra le parti.
Così la Relazione al Codice, che sottolinea come questo “racchiude…le norme riguardanti ogni fase in cui il consumatore è coinvolto in relazioni giuridiche con i soggetti della catena di produzione e distribuzione di prodotti e servizi”.
E’ allora evidente il grande rilievo che ha la distinzione tra informazione e pubblicità (pur se deve subito segnalarsi che la stessa Relazione cit evidenzia come la legislazione e la riflessione giurisprudenziale, ampie in materia di pubblicità, sono ben più carenti quanto all’informazione).
Tradizionalmente la distinzione è netta, in quanto si individuano tre fasi:
- la pubblicità
- l’ informazione
- la fase contrattuale Ciascuna è retta da regole diverse.
In particolare gli obblighi di informazione appartengono alla fase precontrattuale e ineriscono ai rapporti tra il venditore e il consumatore; essi impongono al destinatario lo svolgimento di una attività informativa, determinandone le modalità di esecuzione.
Di contro la pubblicità intercorre, di norma, tra il produttore e il consumatore, ed è vista come una attività libera nell’an ma vincolata nel quomodo.
E’ poi evidente che la valutazione di ingannevolezza varia a seconda se si tratta di una attività informativa priva di carattere promozionale o di una attività promozionale; altra questione è quella del grado di vincolatività delle informazioni veicolate.
La situazione è però più complessa, e le interazioni ben più ampie.
Infatti la pubblicità commerciale, fenomeno sempre di promozione di un bene o di un servizio, può assolvere sia ad una funzione persuasiva che ad una informativa.
La pubblicità assolve anzi di frequente ad una funzione di informazione precontrattuale, così come gli strumenti di informazione precontrattuale tendono a diventare parte del contratto; lo stesso contratto, anzi, è essenzialmente un insieme di informazioni che le parti si scambiano e determinano per regolare il loro rapporto (da qui, specie a fronte di asimmetrie informative, e a tutela della parte debole, il c.d. “neoformalismo”, ossia la rivalutazione dell’obbligo di forma scritta).
Al limite, vi sono messaggi pubblicitari che si configurano come offerte contrattuali in senso tecnico, veicolando una grande quantità di informazioni, sicchè si inseriscono nella fase della formazione del contratto (es. teleaste). Altri messaggi si pongono in una posizione intermedia, configurando semplici inviti a offrire (es. telepromozioni).
Nei contratti standard la commistione tra profilo informativo e promozionale giunge alla identificazione terminologica; è il caso della normativa sulla trasparenza bancaria, dove il sostantivo pubblicità è riferito non tanto alla promozione del prodotto, quanto alla pubblicizzazione
– nel senso di rendere pubblici - gli elementi essenziali dello stipulando contratto o dell’operazione economica di riferimento.
Più in generale, il fenomeno pubblicitario è collegato a quello informativo proprio nei settori bancario, finanziario e creditizio.
Del pari nella vendita porta a porta, per corrispondenza, televisiva, dove la ordinaria catena di distribuzione è “superata”, la funzione informativa svolge un ruolo strettamente collegato a quello promozionale, pur prevalendo su di esso (con conseguente applicazione della disciplina relativa). D’altro canto neanche è del tutto vero che gli obblighi di informazione gravano essenzialmente sul venditore: rilevanti obblighi di informazione gravano infatti anche sul produttore; si consideri che l’etichetta (l’informazione apposta sui singoli esemplari dei prodotti, o comunque ad essi unita) e le forme di presentazione del prodotto sono tipici veicoli di informazioni la cui trasmissione grava appunto sul produttore.
Di converso anche le etichette, e comunque le indicazioni inserite sulle confezioni dei prodotti, possono avere una funzione promozionale: lo stesso marchio può tradursi in un preciso vanto in ordine ad una caratteristica del prodotto, così orientando le scelte dei consumatori.
Tali indicazioni e segni, in tali casi, costituiscono pubblicità, e sono sottoposte alla relativa disciplina.
Così la AGC, 31 marzo 2003, n. 11809, Dir. ind., 2003, 35, in relazione al caso delle sigarette
light.
E’ stato così ritenuto pubblicitario anche il manuale di istruzioni, come il contenuto di un sito Internet (salvo che non sia possibile distinguere, per questo, la parte informativa sui servizi offerti da quella propriamente pubblicitaria).
La differenza tra informazione e pubblicità tende allora a sfumare: le regole tendono oggi ad uniformarsi, intorno al principio di buona fede precontrattuale.
Questo non comporta l’eliminazione di ogni differenza tra la fase pubblicitaria e quella di informazione precontrattuale.
In particolare l’obiettivo della pubblicità resta quello di vietare l’inganno, non anche quello di garantire determinati standard informativi: le omissioni di informazioni sono censurate, in linea di massima, solo se tali da determinare una impressione ingannevole.
Viceversa la disciplina dei labels pone precisi obblighi minimi di informazione.
Inoltre gli obblighi di informazione (a differenza di quanto attiene alla pubblicità, che impone tout court un obbligo informativo minimale) sono di norma differenziati a seconda della posizione dell’informante nella catena produttiva; ad es. in materia di informazione finanziaria, si distingue tra sollecitazione al pubblico risparmio e obblighi di informazione, cui sono tenuti i promotori nei rapporti con la clientela.
Del resto sono ampiamente diffusi messaggi pubblicitari caratterizzati da scarsissimo contenuto informativo; la pubblicità infatti “tende sempre meno a esaltare o informare sulle qualità del prodotto e sempre più ad indurre all’acquisto, agendo su elementi irrazionali o emotivi ” (FERRI)
D’altro canto l’attenzione degli interpreti è stata anzi focalizzata soprattutto sulla pubblicità cd informativa, mentre è rimasta in ombra quella c.d. suggestiva, che pure meglio si presta a fenomeni ingannatori (per pubblicità suggestiva GHIDINI intende quelle forme di associazione di un prodotto – o piuttosto della sua rappresentazione ideale – che soddisfa determinati bisogni ed interessi, alla soddisfazione di interessi e bisogni del tutto eterogenei: è il caso dell’appello all’istinto sessuale per reclamizzare una marca di sigarette).
Resta però che quando lo strumento pubblicitario assume un valenza prevalentemente informativa, o quando il prospetto o il contratto hanno valenza pubblicitaria, si impone un coordinamento di discipline, con tendenziale prevalenza di quella corrispondente alla funzione di maggior rilievo in concreto espletata.
§ 8) Il contenuto della pubblicità ingannevole
a) in generale
Non è questa la sede per un esame approfondito delle fattispecie di pubblicità ingannevole. Dalla definizione normativa, sopra riportata, emerge che :
- il giudizio di illiceità non presuppone che l’inganno sia andato a segno. È sufficiente l’idoneità del messaggio ad ingannare
- l’errore in cui può essere potenzialmente indotto il consumatore deve essere tale da influenzarne il comportamento economico
- l’inganno può realizzarsi in qualsiasi modo, ivi compresa la presentazione della pubblicità. Si prescinde – ai fini del giudizio di ingannevolezza – dall’elemento soggettivo del dolo o della colpa; i parametri di riferimento sono solo oggettivi (ma l’ingannevolezza è esclusa quando la divaricazione tra la realtà e le affermazioni pubblicitarie e casuale, non imputabile all’operatore). L’ingannevolezza può quindi manifestarsi nella presentazione come nel contenuto della pubblicità.
b) ingannevolezza del contenuto del messaggio
L’ingannevolezza del contenuto attiene alle informazioni che il messaggio veicola i suoi destinatari. L’illecito è a forma libera: può trattarsi di informazioni false, ma anche ambigue, tali da suggerire qualcosa che non è detto esplicitamente, ovvero tali da occultare la parzialità delle affermazioni pure veritiere riportate.
Es. , con riferimento all’ambiguità, l’AGC ha sanzionato:
- l’utilizzo di espressioni tali da accreditare contro il vero l’impressione della totale gratuità del prodotto
- l’utilizzo di espressioni che inducano il destinatario a ritenere di aver già vinto un premio in palio
- l’utilizzo di espressioni ambigue, tali da non rendere comprensibile se i prezzi pubblicizzati da una compagnia aerea fossero comprensivi della sola andata o del viaggio di andata e ritorno
Rileva (pur nel silenzio della legge) anche l’omissione di informazioni rilevanti per la corretta formazione della volontà d’acquisto (sicchè il problema diventa quello della decodifica del messaggio, tenuto anche conto dei destinatari).
Es.sono state sanzionate dal’AGC:
- la omissione della circostanza che i telefoni cordless pubblicizzati non erano omologati, circostanza fonte di responsabilità per l’acquirente detentore
- la omessa indicazione di informazioni dei casi in cui un contraccettivo non era utilizzabile
- la omessa indicazione della qualità di stampa di una stampante per computer ad uso professionale
- l’indicazione della parola “perle”, non accompagnata da alcuna specificaizone che si trattaa di perle industriali
- l’omessa indicazione che una autovettura, presentata come idonea a percorrere qualsiasi tipo di strada, in realtà non poteva montare catene da neve
- la mancata indicazione della percorrenza come limite alternativo a quello temporale, quanto ad una garanzia per automobili
- la mancata indicazione, quanto a prodotti alimentari con una data indicazione geografica, della provenienza delle materie prime da località diverse da quelle indicate
- la mancanza di indicazioni precise sui prezzi dei prodotti o servizi, per consentire al consumatore di rendersi conto dell’effettiva convenienza dell’offerta pubblicizzata. Numerosi provvedimenti riguardano le tariffe telefoniche.
c) ingannevolezza delle modalità di presentazione del messaggio
L’ingannevolezza delle modalità di presentazione pone forse i problemi più rilevanti, tenuto conto anche della pluralità delle forme di pubblicità che l’evoluzione tecnologica ormai consente: d’altronde attualmente i massimi investimenti pubblicitari sono effettuati su Internet, e con riferimento alle promozioni effettuate su telefoni cellulari.
L’AGC ha affermato che, nella presentazione di un prodotto, tutte le informazioni cruciali per l’acqusito devono essere di chiara ed immediata percezione
Ad esempio sono state ritenute ingannevoli i messaggi relativi alla telefonia, che pur riportando integralmente le condizioni tariffarie, attribuivano rilievo scarso o secondario a determinate componenti del prezzo, quali l’IVA o lo catto alla risposta
Con riferimento alle modalità di presentazione la norma di maggior rilievo è però l’art. 23.1 Cod., secondo cui “la pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale. La pubblicità a mezzo stampa deve essere distinguibile dalle altre forme di comunicazione al pubblico, con modalità grafiche di evidente percezione” Il Codice disciplina così con rigore anche le televendite (v. in particolare artt. 27 e 30).
Quindi nessuna tolleranza è concessa riguardo alle forme di pubblicità mascherata da altre forme di comunicazione, es. la pubblicità redazionale (articoli che in raltà mirano subolamente a promuovere l’acquisto di beni o servizi), il mascheramento di iniziative promozionali dietro false offerte di lavoro, le telepromozioni non dichiarate, il c.d . product placement (citazione o esibizione
– in apparenza casuali – all’interno di film di prodotti dai marchi riconoscibili).
d) la pubblicità di prodotti pericolosi
Il Codice (già art. 5 D.lgs 74/1992) prevede una ulteriore forma di pubblicità ingannevole.
Quella di prodotti pericolosi per la salute e la sicurezza dei consumatori.
L’art. 24 dispone che “E’ considerata ingannevole la pubblicità che, riguardando prodotti suscettibili di porre in pericolo la salute e la sicurezza dei consumatori, ometta di darne notizia, in modo da indurre i consumatori a trascurare le normali regole di prudenza e di vigilanza”.
Tale norma quindi fissa il contenuto minimo del messaggio pubblicitario, avente ad oggetto i rischi da pericolosità del prodotto; l’omissione è qui un aspetto dell’onere di completezza dell’informazione; l’obiettivo è di fornire al consumatore le informazioni che gli consentono di valutare i rischi interenti ad un prodotto intrinsecamente pericoloso.
La dottrina ha evidenziato che la norma è in realtà estranea alla disciplina della pubblicità ingannevole, in quanto vuole solo assoggettare la pubblicità per prodotti potenzialmente pericolosi alla stssa disciplina prevista per la pubblicità ingannevole.
§ 9) Pubblicità ingannevole e tutela del consumatore con gli ordinari rimedi civilistici, premessa
La pubblicità ingannevole, in quanto illecito plurioffensivo, è repressa attraverso una pluralità di sistemi sanzionatori.
Interessa ora soprattutto la tutela del consumatore come singolo, vale a dire dell’interesse individuale, non di quello collettivo, alla stregua dell’ordinaria disciplina civilistica.
In altri termini è possibile ricorrere alla disciplina del contratto per salvaguardare il soggetto ingannato da un messaggio pubblicitario decettivo?.
Certo è estremamente difficile adattare le manifestazioni pubblicitarie alle tradizionali categorie civilistiche: d’altronde storicamente la giurisprudenza civile è sempre stata “benevola” verso la pubblicità ingannevole (dolus bonus).
La dottrina – a fronte delle esitazioni della giurisprudenza – ha avuto modo di rilevare, sarcasticamente, che la giurisprudenza è rimasta ferma ad una concezione del mercato e delle contrattazioni propria dell’era preindustriale (CARNEVALI).
Va del pari considerato che l’applicazione delle categorie civilistiche incontra ostacoli normativi obiettivi, in primo luogo il principio di relatività del contratto (art. 1372 c.c.).
Quest’ultimo contrasta con il rilievo che, nella maggior parte dei casi, l’autore dello slogan pubblicitario (identificabile con il produttore del bene reclamizzato) è un soggetto terzo, in quanto non è ricompreso tra le parti contraenti, che concludono il contratto con cui il consumatore acquista il bene o il servizio reclamizzato dalla pubblicità ingannevole (XXXXXXX).
Peraltro ben può esservi coincidenza tra chi emette il messaggio pubblicitario e chi stipula il contratto, come accennato: così nelle ipotesi di offerte fatte direttamente al pubblico l’offerente è di norma anche il venditore.
Un ulteriore ostacolo all’applicazione della normativa civilistica è rappresentato dal rilievo che il fenomeno pubblicitario, di norma, non attiene alla fase delle trattative contrattuali in senso tecnico (VANZETTI).
Xxxxxxx può negarsi, di converso, che il messaggio pubblicitario abbia occasionato la conclusione del contratto, inserendosi nel processo di rappresentazione e di volizione articolatosi nella mente del consumatore, ingenerando in questi un affidamento – giuridicamente rilevante – nella veridicità del messaggio pubblicitario (XXXXX).
E’ stato anzi osservato che quanto “più diventa fattore determinante della propensione al consumo, l’informazione pubblicitaria deve al tempo stesso diventare un medium che impegni l’impresa ad una autentica garanzia di effettività delle sue promesse al pubblico” (BESSONE).
Da qui allora profili di responsabilità per l’autore del messaggio pubblicitario, o per chi comunque se ne avvantaggia.
L’esame che segue dei rimedi riconosciuti (o riconoscibili) al singolo consumatore a fronte di messaggi pubblicitari decettivi darà conto sia dei rimedi risarcitori, che di quelli invalidanti (che, ovviamente, possono interagirsi e cumularsi).
Quanto ai primi, va subito distinto tra le ipotesi di incidenza della pubblicità sul contratto concluso da quelle in cui – invece – il contratto non è concluso.
Nel primo caso si riscontra una fattispecie di responsabilità contrattuale, con profli conseguenziali di tutela da invalidazione o risarcitoria, nel secondo si prospetta, più precisamente, la responsabilità precontrattuale, ex art. 1337 c.c.
In ultimo non va trascurato che il fenomeno in esame è di difficile emersione giurisprudenziale, perché il consumatore, pur accortosi di essere stato ingannato, non ricorrerà al giudice, non avendone la convenienza a fronte dell’acquisto di beni di minuto consumo.
§ 10) Pubblicità ingannevole e conclusione del contratto, l’omissione di clausole promesse
Va subito rilevato che la valutazione di ingannevolezza del messaggio pubblicitario deve essere parametrata alla alla fase contrattuale in cui la pubblicità si situa.
Infatti - almeno quanto alle informazioni incomplete – una stessa enunciazione può risultare ingannevole o meno in relazione al momento della sequenza di formazione del contratto in cui è collocata.
Ad esempio per la pubblicità tabellare si pongono obblighi di completezza della informazione non particolarmente cogenti (salvo che con riferimento ai profili di sicurezza e di pericolo dei prodotti di riferimento), mentre non è così per le offerte fatte direttamente al pubblico, che sono sottoposte a rigorose regole di chiarezza e completezza.
Con specifico riferimento al contratto stipulato successivamente al messaggio pubblicitario decettivo, devono distinuguersi due ipotesi:
- l’emittente comunica nel messaggio pubblicitario informazioni circa le caratteristiche dell’affare, elementi di per sé non incompatibili con le clausole contrattuali, ma che poi non vengono inserite nel regolamento contrattuale, es. garanzie promesse nel messaggio pubblicitario e disattese nelle condizioni contrattuali.
- l’emittente comunica informazioni circa le caratteristiche dell’affare, circostanze poi modificate con l’inserimento di clausole sfavorevoli al consumatore.
Nel primo caso la promessa pubblicitaria ben può costituire parte integrante del contratto, con conseguente obbligo del contraente all’adempimento.
Non si è mai dubitato, infatti, della possibilità di considerare parte del contratto una clausola non esplicitamente richiamata al momento della conclusione (XXXXX).
Sarà l’emittente, anzi, a dover provare l’assenza di un legittimo affidamento nella promessa contenuta nel messaggio pubblicitario e non contrattualizzata, al fine di escluderne l’inserimento nella disciplina contrattuale.
Conclusioni non diverse valgono nell’ipotesi di dissociazione tra emittente del messaggio pubblicitario e chi predispone il regolamento negoziale: qui l’affidamento ingenerato dal messaggio prevale su una concezione formale dell’autonomia privata.
Il predisponente è pertanto tenuto a modificare il contenuto del contratto conformemente a quanto il consumatore poteva legittimamente attendersi in forza del messaggio pubblicitario (v infra per ulteriori rilievi).
§ 11) L’inserimento di clausole difformi: contratti individuali e standard
Nel secondo caso- attinente come detto all’inserimento di clausole difformi da quanto pubblicizzato- va accertata la vincolatività delle informazioni veicolate dal messaggio pubblicitario. Qui i criteri sono due: uno oggettivo, la compiutezza e il livello qualitativo delle informazioni, uno soggettivo, l’intenzione di vincolarsi delle parti.
Xxxxxx sussistere entrambi, ai fini della configurazione dell’offerta al pubblico.
Xxxxxxxxx, l’affidamento del pubblico va tutelato anche a fronte di messaggi pubblicitari che pure non assurgono al ruolo di offerte fatte direttamente al pubblico.
Vi è un altro fattore da considerare: quando alla pubblicità seguano trattative, che possono sfociare nella stipula di un contratto individuale (il cui contenuto non è predisposto unilateralmente), l’emittente ha il diritto di modificare le circostanze oggetto delle informazioni offerte nei messaggi pubblicitari, conformemente a ciò che avviene in generale nel caso di informazioni comunicate in sede di trattative.
Più in generale, la formazione del contratto ha struttura sequenziale, ed è fondata sul principio di libera determinazione del contenuto sino al momento della stipulazione; pertanto tradizionalmente si è ritenuto che il contratto concluso a seguito di messaggio pubblicitario scorretto sia valido.
Lo ius variandi è però subordinato alla comunicazione alla controparte delle modifiche intervenute tra l’emissione del messaggio pubblicitario e l’intervento del regolamento contrattuale.
Lo ius variandi si articolerà poi diversamente a seconda della fase precontrattuale in cui le parti si trovano: si deve infatti tener conto dell’affidamento suscitato nella controparte circa la serietà delle trattative, e comunque del generale canone di buona fede.
L’illegittimo esercizio dello ius variandi comporta però non l’inserimento delle condizioni corrispondenti alla pubblicità, ma il risarcimento del danno.
La questione si pone in termini più complessi quanto l’emittente il messaggio pubblicitario è soggetto diverso fa colui che è parte delle trattative; alla responsabilità precontrattuale del primo corrisponde qui lo ius variandi del secondo.
Quest’ultimo però risponderà in via precontrattuale in concorso con il primo qualora entri in trattative consapevole della falsità o della ambiguità del messaggio, e non chiarisca la divaricazione esistente circa le condizioni dell’affare.
Alla consapevolezza va equiparata la conoscibilità con la ordinaria diligenza.
Il discorso muta per i contratti standard, per i quali, di norma, non c’è una fase di contrattazione e di trattative, specie qualora l’emittente sia anche il predisponente del contratto, vale a dire il venditore del bene.
Il messaggio pubblicitario attraverso il quale si informa il potenziale acquirente delle condizioni delle prestazioni sostituisce, in un certo senso, la fase precontrattuale.
Proprio la mancanza di trattative e di contatti diretti tra le parti comporta un elevato affidamento del consumatore nella comunicazione pubblicitaria, meritevole di tutela.
L’emittente ha allora un obbligo particolarmente cogente, fondato sul principio di buona fede, di non predisporre clausole difformi dal messaggio pubblicitario.
Quando così non è, la scorrettezza non sta allora tanto nell’aver predisposto un messaggio ingannevole, quanto nell’aver predisposto un contratto con clausole difformi dal contenuto del messaggio.
Il richiamo, evidentemente, è al principio di tutela dell’affidamento incolpevole e dell’apparenza del diritto, su cui v. in ultimo Cass. 19 gennaio 2004, n 703.
L’esigenza di base è quella di tutelare – in primo luogo con lo strumento risarcitorio- la incolpevole aspettativa di chi si trova di fronte ad una situazione ragionevolmente attendibile, anche se non conforme alla realtà, non altrimenti accertabile se non attraverso le sue esteriori manifestazioni.
Nel caso dei contratti standard lo lo ius variandi è possibile esclusivamente se la modificazione sia dipesa da eventi imprevedibili, intervenuti tra l’emissione del messaggio e la predisposizione della clausola; in mancanza di sopravvenienze, deve presumersi che l’emittente intendeva predisporre clausole difformi da quelle che il destinatario poteva legittimamente attendersi in forza del messaggio .
Ne segue che anche la comunicazione della difformità non esclude comunque la invalidazione della clausola difforme, ferma comunque la tutela risarcitoria.
§ 12) L’annullabilità per vizi del consenso.
a) Il dolo
Quale è però lo strumento tecnico per conseguire la invalidazione delle clausole difformi?
Dottrina e – molto più timidamente – giurisprudenza hanno tentato di valorizzare le ipotesi di difformità tra contenuto negoziale e precedente rappresentazione pubblicitaria, quale fonte dell’annullabilità del contratto.
D’altronde se è vero che la pubblicità costituisce ormai un fenomeno macroeconomico, idoneo a influenzare i consumi di massa, è del pari vero che è anche una realtà microeconomica, legata alla disciplina dei vizi del consenso.
Il messaggio pubblicitario ingannevole può infatti limitare o escludere la libertà negoziale del consumatore, se in assenza del messaggio ingannevole, il consumatore non avrebbe concluso il contratto, con ad oggetto il bene mendacemente propagandato.
D’altro canto è innegabile che nella società contemporanea la comunicazione pubblicitaria è una delle forme di manifestazione delle informazioni economiche, sicchè essa ben può essere fonte giuridicamente qualificata dell’affidamento manifestato dal consumatore verso il prodotto pubblicizzato nello slogan poi accertato quale decettivo.
L’orientamento maggioritario ha escluso l’annullabilità del contratto per dolo, sostenendo che la pubblicità ingannevole si identifica con il dolus bonus, ed è quindi irrilevante ai fini della configurazione del vizio del consenso.
D’altro canto la struttura del dolo contrattuale è stata elaborata rispetto ad un contratto generato da una precedente relazione qualitativamente significativa tra le parti: la prospettiva è ben diversa per quanto attiene ai contratti standard, come segnalato, per i quali il principale momento di contatto con il produttore è rappresentato proprio dalla informazioni desunte dal messaggio pubblicitario.
E’ stato così segnalato che la pubblicità ingannevole ben può dare luogo a dolo contrattuale, tenuto conto della definizione di ingannevolezza, ora contenuta nell’art. 20 1. b) Cod cit.
Certo la disciplina della pubblicità ingannevole, almeno con riferimento alla tutela degli interessi collettivi (inibitoria, restitutoria) prescinde dall’elemento soggettivo della colpa o del dolo, che invece ha tuttora un ruolo significativo in ambito intersoggettivo.
La dottrina tende comunque a ritenere che la definizione di ingannevolezza operante nel quadro dell’interesse collettivo dei consumatori possa operare anche in relazione alla dimensione della tutela inividuale, quando un contratto sia stato stipulato facendo seguito ad una pubblicità ingannevole (CAFAGGI).
Qui l’ostacolo sopra evidenziato, e rappresentato dalla relatività del contratto, è superato dal richiamo all’art. 1439.2 c.c.: “Quando i raggiri sono stati usati da un terzo, il contratto è annullabile se essi erano noti al contraente che ne ha tratto vantaggio”.
In dottrina, prima del Codice del Consumo, un orientamento minoritario aveva segnalato che il venditore\intermediario del bene propagandato, soggetto professionalmente qualificato, cui incombe un severo obbligo di informazione sulle qualità del bene, versa in uno stato di mala fede in re ipsa, qualora non si avveda che la sua “merce” sia accompagnata da pubblicità mendace.
In altri termini la decettività delle informazioni pubblicitarie relative a quel prodotto non potrebbe non essere nota, se non condivisa, al venditore.
b)Dolus malus e dolus bonus, l’iperbole
La giurisprudenza civile, come accennato, è piuttosto indulgente in tema di dolo pubblicitario.
Il punto più delicato è rapresentato dal parametro di valutazione: la differenziazione tra dolus malus e bonus è rapportata al consumatore medio, dotato di normale ed adeguata capacità di discernimento e di critica del contenuto di qualsiasi messaggio pubblicitario.
Si tratta certamente di un consumatore non esperto del settore; tuttavia si tratta di un pubblico smaliziato, non facilmente influenzabile.
D’altro canto non è di particolare ausilio l’art. 21 Cod., “elementi di valutazione” del carattere ingannevole della pubblicità, atteso che tale norma fa riferimento a requisiti essenzialmente di carattere obiettivo (es. caratteristiche dei beni e dei servizi).
La dottrina è critica verso questo orientamento, in quanto l’efficacia decettiva del messaggio dovrebbe essere valutata con riferimento al consumatore più facilmente influenzabile (GHIDINI).
In altri termini allo stato non sono veramente tutelati i consumatori marginali, che si pongono ai margini del mercato, sprovvisti di ordinaria capacità di valutazione del contenuto dei messaggi pubblicitari.
Ciò è tanto più vero ove si consideri che il richiamo all’art. 1439 c.c. è modellato sul momento dell’emissione pubblicitaria, è rapportata cioè alla massa dei consumatori\destinatari, in tal modo privilegiandosi le capacità percettive medie dei destinatari del messaggio pubblicitario.
Di particolare interesse, per meglio valutare in concreto tali affermazioni, è l’esame del trattamento riservato ai messaggi iperbolici.
La legge tace al riguardo (a differenza del Codice di autodisciplina pubblicitaria, che all’art. 2 cit. dispone che la pubblicità deve evitare ogni ambiguità ed esagerazione che non sia palesemente iperbolica).
In ogni caso, anche alla stregua della definizione legislativa della pubblicità ingannevole, l’iperbole sarà censurabile o meno a seconda della sua attitudine in concreto ad indurre in errore i destinatari del messaggio, sicchè dovrà valutarsi con riferimento al target del messaggio stesso (CAFAGGI, FUSI – TESTA – XXXXXXXXX).
Ciò comporta che l’iperbole dovrà essere riconoscibile come tale, e il relativo concetto non potrà utilizzarsi per dissimulare una sostanziale non verità dei corrispondenti vanti ed affermazioni pubblicitarie.
Sono state ritenute iperboliche affermazioni di primato, inserite in un contesto generico, senza riferimenti specifici relativi alle caratteristiche del prodotto o servizio pubblicizzato; è il caso di espressioni quali: Leader nel Lazio, La più efficiente in campo matrimoniale, la più prestigiosa struttura alberghiera della regione, Il primo prodotto veramente interattivo (riferito ad un modem), Lo strumento indispensabil per tutti coloro che devono verificare impianti elettrici, Sani con gusto (riferito a biscotti a base di ingredienti naturali), Vendita al massimo prezzo possibile (riferito ad una agenzia immobiliare), Il miglior prezzo, A tutti un diploma (per una scuola privata), Miracolosa, anzi miracolississima (riferita ad una acqua minerale).
Sono invece state ritenute non iperboliche promesse ed affermazioni circostanziate, quali La prima percentuale di successi in Italia (riferita ad una agenzia matrimoniale), L’unica agenzia per tutta la vostra pubblicità (riferita ad una agenzia pubblicitaria operante in un ambito circoscritto), Dire addio alla forfora dopo 7 giorni (riferito ad uno shampoo), La vera porta blindata (insertita in un contesto in cui si citavano i risultati di un test televisivo), Interventi di riparazione in 15 – 30 minuti (riferita ad un servizio di riparazioni automoblistiche), Cellulite KO (riferito ad un collant a compressione graduata), la raffigurazione di una calza da donna che, pur rimanendo impigliata in un polsino, non si smaglia.
c) La truffa contrattuale
Di maggiore utilità i tentativi di riconduzione della pubblicità ingannevole al paradigma della truffa, in particolare della truffa contrattuale.
Va ricordato che l’art. 640 c.p. individua il reato di truffa nel fatto di chi – con artifizi o raggiri – induce taluno in errore, procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto; in particolare la truffa contrattuale è la frode pepetrata mediante artifici o raggiri volti a tacere o a dissimulare fatti e circostanze che, se conosciuti, avrebbero indotto la controparte ad astenersi dalla conclusione del contratto: il dolus in contrahendo interviene nella fase di formazione del contratto.
La Cassazione ha costantemente affermato che le dichiarazioni menzognere possono costituire raggiro ai sensi dell’art. 640 c.p., se sono presentate in modo tale da indurre in errore il soggetto passivo, di cui è carpita la buona fede, inducendolo in modo determinante a concludere il contratto; da qui anche l’ingiusto profitto per il soggetto attivo. (XXXXX).
Peraltro la Cassazione ha costantemente affermato che il contratto concluso per effetto di truffa, penalmente accertata, da uno dei contraenti a danno dell’altro non è radicalmente nullo ma annullabile ex art. 1439 c.c., ciò per l’omogeneità tra il dolo costitutivo del delitto di truffa con quello che vizia il consenso negoziale.
Per completezza deve ricordarsi che, sotto un profilo penalistico vengono in rilievo anche gli artt. 516 e 517 c.p. che sanzionano la messa in vendita o in commercio come genuine sostanze alimentari che tali non sono, nonché la messa in vendita o in commercio di “opere dell’ingegno o prodotti industriali con nomi, marchi o segni distintivi nazionali od esteri, atti ad indurre in inganno il compratore sull’origine o provenienza o qualità dell’opera o del prodotto”.
Altre norme del codice penale che possono ledere gli interessi del consumatore sono quelle degli artt. 440, 441 e 442 sulla adulterazione e contraffazione di sostanze alimentari e di altre cose in danno della salute e, ancora, le disposizioni di cui agli artt. 443, 444 e 445 sulla messa in commercio di sostanze alimentari contraffatte o adulterate, di medicinali nocivi e sostanza alimentari anch’esse nocive.
d) Errore
L’annullamento del contratto tra venditore e compratore ingannato è più agevolmente conseguibile invocando la disciplina dell’errore.
Si tratta, in particolare, dell’errore verificatosi in occasione della conclusione del contratto tra intermediario – rivenditore e consumatore, il quale si è determinato ad assoggettarsi al vincolo negoziale in virtù di una falsa o insesatta rappresentazione della realtà, causata dal decettivo comportamento pubblicitario del produttore .- autore di pubblicità mendace.
La più agevole applicazione della disciplina in oggetto discende dal rilievo che l’area dell’errore riconoscibile è più vasta di quella dei raggiri “noti”, rilevanti ai fini dell’annullamento per dolo.
La riconoscibilità dell’errore per il professionista venditore a valutata con i consueti parametri della diligenza.
Si è anche segnalata la omogeneità della nozione di errore nel negozio giuridico ed errore rilevante nel giudizio di ingannevolezza della pubblicità (si è anche parlato di valenza plurioffensiva dell’illecito pubblicitario).
Quindi anche con riferimento all’errore, si tende ad affermare che chi contrae con il consumatore, es. il venditore al dettaglio, è tenuto a tutelare l’affidamento del consumatore stesso, .determinato da informazioni pubblicitarie decettive, ciò pur in assenza di un esplicito richiamo nel regolamento contrattuale, ovvero nel caso di clausola che espressamente contraddica la premessa contenuta nel messaggio.
Può qui richiamarsi un precedente giurisprudenziale, Trib. Bologna 8 aprile 0000, Xxxx Xx., 1997, I, 3064, secondo cui “la decisione con cui l’autorità garante della concorrenza abbia giudicato ingannevole la campagna pubblicitaria di un professionista costitusice elemento indiziario idoneo a far presumere l’induzione in errore del consumatore, ai fini dell’annullamento del contratto stipulato a seguito di campagna pubblicitaria”.
Nella specie si trattava della compravendita di una opera enciclopedica effettuata a seguito di una operazione promozionale che l’Antitrust aveva ritenuto ingannevole, con riferimento alle modalità con cui il professionista entrava in contatto con il consumatore; in particolare si trattava della cessione di alcuni volumi a titolo di omaggio, cui però seguiva automaticamente la vendita dei successivi aggiornamenti dell’opera.
Il giudice – dall’esistenza di una campagna decettiva – ha derivato la presunzione che il consumatore fosse caduto in errore, rilevante ex art. 1429 c.c., in quanto ha ritenuto di sottoscrivere un contratto a titolo gratuito anziché a titolo oneroso.
L’errore è stato ritenuto essenziale e riconoscibile; in particolare la decisione inferisce la riconoscibilità da parte del professionista dalla circostanza che vi era stato un rilevante numero di contestazioni, insorte a seguito della conclusione di contratti similari.
Già A.G.C. 26 gennaio 1995 avva osservato che “al fine di giudicare sulla ingannevolezza di un pubblicità riferibile alle operazioni promozionali basate sulla assegnazione di regali rileva
unicamente la percezione erronea di parte dei consumatori, che sia tale da orientarne le scelte commerciali in maniera falsata con possibile pregiudizio economico nonché danno per i concorrenti”.
Pertanto, alla stregua di tale pronuncia, la condotta dell’operatore commerciale, ingannevole per la massa dei consumatori, costituisce il presupposto per affermare sul piano negoziale la responsabilità precontrattuale del professionista per aver indotto il consumatore in errore sulla natura del contratto.
La dottrina ha però criticato tale trasposizione tout court della valutazione espressa dalla AGC sul piano dei rapporti tra singolo consumatore ed operatore ubblicitario professionista, atteso anche che gli interessi tutelati sono diversi (quello della collettività dei consumatori alla correttezza della pubblicità rispetto a quello del singolo che sia incappato in una campagna pubblicitaria ingannevole). In particolare la valutazione in concreto dell’impatto della campagna pubblicitaria sul consumatore deceptus non può ricavarsi solo dalla idoneità decettiva della campagna sulla massa dei consumatori, pur se accertata dall’ACG (X’XXXXXX).
§ 13) La presupposizione
L’applicazione della disciplina dei vizi del consenso si presenta problematica per i venditori non professionali; è il caso delle vendite solo occasionali di prodotti, oggetto però di generalizzata propaganda, di vendita da consumatore a consumatore, della vendita da parte di venditore non occasionale.
Difficilmente potrebbe affermarsi, riguardo a quest’ultimo, che il carattere decettivo della pubbliciità sia nota (nel dolo) o riconoscibile (nell’errore).
In dottrina si è così invocata la disciplina della presupposizione, intesa come situazione di fatto, passata, presente o futura, comune ad entrambi i contraenti e non incerta, di carattere oggettivo, indipendente dalla volontà delle parti che però l’hanno tenuta presente nell’iter formativo del negozio, pur non facendone in esso espresso riferimento.
L’invalidità è qui riferita ad una fase che precede il momento dell’adesione al negozio, pur fungendone da presupposto oggettivo.
Tale è la situazione dell’affidamento sulla veridicità della informazione pubblicitaria, circostanza estranea al singolo rapporto contrattuale ma che ne costituisce il presupposto oggettivo, nell’ambito di una complessa operazione economica, finalizzata all’acquisto del bene pubblicizzato.
Il momento promozionale, infatti, condiziona ogni successiva determinazione negoziale del consumatore.
Tale centralità riconosciuta alla fase promozionale discende dal rilievo che l’odierno rapporto tra il consumo di massa e il momento della produzione è mediato dalla obiettiva consapevolezza - anche se implicita, al più inconscia – in capo alle parti del gioco economico, della doverosità di una pubblicità non mendace.
Alla mendacità del messaggio pubblicitario consegue così la caducazione del negozio determinato dalla pubblicità mendace, rectius l’inesigibilità delle prestazioni negozialmente assunte, per il venir meno del presupposto logico fattuale della contrattazione, ma anche della complessiva operazione che vedeva nella pubblicità stessa la propria giustificazione, pur se non espressa.
In altri termini – valido o meno che sia il contratto – quel che rileva è che questo è stato concluso in forza di una situazione obiettiva, l’affidamento delle parti su di una pubblicità veritiera, dimostratosi, in seguito, assente.
Si prescinde, qui, dalla buona o mala fede di venditore, professionale o meno, e del compratore, marginale o meno (XXXXX).
§ 14) La risoluzione del contratto
Un recente sentenza del Giudice di Pace di Avellino, 4 febbraio 2005, Corriere del merito, 2005, 755, configura la pubblicità ingannevole come causa di risoluzione del contratto.
Nella specie l’avventore di una nota discoteca aveva chiesto accertarsi l’ingannevolezza del messaggio pubblicitario, un depliant, in cui si diceva che sarebbe stata regalata a tutti i presenti una t – shirt con il logo della discoteca stessa; l’istante era stato così indotto ad andare in discoteca, senza però ricevere, nonostante le sue reiterate richieste, la t – shirt.
Il giudice ha accolto la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento, considerata l’attrazione “che detto capo aveva esercitato sull’aderente alla serata, tenuto anche conto degli attributi intravisti nel capo di abbigliamento; sicchè in assenza della promessa della distribuzione dell’oggetto dei desideri, appare verosimile che l’adesione a quella serata poteva anche non verificarsi…la promessa non onorata della disribuzione di una maglietta, dalla firma di grido, ha orientato il comportamento dell’attore nella scelta di quel locale, facendo assegnare allo stesso la sua predilezione, in funzione proprio di quella promessa”. Il contratto in oggetto è stato qualificato come innominato di spettacolo: la prestazione cui era impegnata la convenuta compendeva anche la consegna della maglietta, per cui il contratto, mancando tale prestazione, pur accessoria, ma determinante nella scelta del locale, deve considerarsi inadempiuto.
Da qui la condanna alla restituzione del costo del biglietto (mentre alcun danno è stato riscontrato nella mancata consegna della maglietta).
§ 15) Pubblicità ingannevole e clausole vessatorie
Il consumatore può quindi trovarsi di fronte all’effetto sorpresa rappresentato da un assetto negoziale diverso da quello atteso, che si era rappresentato in virtù dell’informazione negoziale che ha preceduto la conclusione del contratto, cui – di norma - è semplice aderente, senza quindi avere alcuna possibilità di incidere sul contenuto negoziale in oggetto.
Si determina così uno squilibrio sostanziale e normativo per il consumatore aderente, cui non sono riconosciuti i diritti rappresentati dall’informativa pubblicitaria, che è però stata la causa efficiente della determinazione del consumatore a prestare il consenso.
Tale squilibrio discende – giova ribadirlo – dalla difformità delle clausole vincolanti, effettivamente contenute nel contratto, rispetto a quelle ritenute esistenti per effetto di quanto in precedenza espresso nella pubblicità, ciò indipendentemente dalla trasparenza e dalla intellegibilità delle clausole medesime.
Si pone certo la questione della responsabilità precontrattuale dell’autore della pubblicità, e del diverso soggetto che se ne avvantaggia, ma anche della stessa validità dell’accordo concluso sul presupposto di una informativa precontrattuale diversa da quella recepita nel testo negoziale: è il caso, ad esempio, delle garanzie promesse nel messaggio pubblicitario disattese nelle condizioni generali, poi sottoscritte dal consumatore
In dottrina si è richiamato il sistema delle clausole vessatorie xx xxx. xxx 0000 xxx xx x.x., xxx artt.
33 ss Cod., in forza del quale è vietata (c.d. dovere di comportamento precontrattuale) la predisposizione di condizioni di contratto fonte di squilibrio a danno del consumatore.
E’ qui di ausilio la disposizione contenuta già nell’art. 1469 ter c.c., ora nell’art. 34.1 Cod., secondo cui sono rilevanti, ai fini della valutazione della vessatorietà, tutte le circostanze esistenti al momento della conclusione del contratto.
In tale prospettiva il messaggio pubblicitario è sicuramente un elemento in grado di determinare l’adesione del consumatore all’accordo allo stesso proposto, e quindi può concorrere a fondare un giudizio di vessatorietà.
Tale giudizio è prodromico alla declaratoria di nullità di quelle singole clausole non condivise dal consumatore in quanto difformi dall’assetto negoziale prospettato in sede precontrattuale se e quando il loro ingresso nel contenuto negoziale abbia inciso, in termini peggiorativi, su diritti e obblighi del consumatore, rispetto a come i medesimi erano stati pubblicizzati.
Ulteriore profilo di vantaggio per il consumatore è che l’applicazione di tale normativa prescinde dalla individuazione dell’autore della informativa mendace, se diverso dal professionista controparte contrattuale del consumatore stesso. Infatti il criterio di valutazione ex art. 34 cit. è oggettivo; ne segue che ben può accertarsi un significativo squilibrio anche in assetti negoziali vincolanti il consumatore nonostante la buona fede del professionista
Può richiamarsi la proposta di direttiva del 1990 sulle condizioni generali di contratto, che prevedeva come abusive le clausole che rendono l’esecuzione del contratto significativamente diversa da come il consumatore poteva legittimamente attendersi.
La riconosciuta rilevanza alla pubblicità ingannevole anticipa la soglia di tutela dalla esecuzione alla fase precontrattuale.
Vi è di ciò un preciso riscontro normativo: l’art. 9 della l. 192/1998, disciplina della subfornitura nelle attività produttive, vieta ogni contegno idoneo a generare una situazione di abuso di dipendenza economica dell’imprenditore soggetto all’altrui potere anche contrattuale.
Si consideri poi che l’art. 36 Cod. prevede la nullità delle clausole vessatorie, discostandosi così dall’art. 1469 quinquies, che ne prevedeva solo la inefficacia, peraltro in genere ricondotta proprio alla nullità (si tratta comunque di una nullità sui generis).
Va però segnalato che le conseguenze sanzionatorie potrebbero non essere del tutto soddisfacenti per il consumatore.
In primo luogo anche l’art. 36 cit. prevede la clausola della conservazione della parte residua del contratto. Anche ove la nullità si estenda all’intero contratto, arg. ex art. 35.2 Cod., il risarcimento per responsabilità precontrattuale resta limitatola c.d. interesse negativo.
Soprattutto il consumatore non è compensato dal mancato conseguimento del bene o del servizio alle condizioni contrattuali attese.
Non sembra infatti configurabile l’inserimento nel contratto di un clausola che recepisce la promessa contenuta nel messaggio pubblicitario.
A parte il richiamo generale all’art. 1374 c.c. non mancano però normative settoriali di segno diverso.
Così l’art. 117 D.lgs 385/93, TU in materia bancaria, dispone la nullità delle clausole che prevedono tassi, prezzi e condizioni più sfavorevoli per i clienti, rispetto a quelli pubblicizzati, disponendo anche che vengono sostituiti, quanto ai tassi, secondo criteri legalmente predeterminati, e quanto agli altri prezzi e condizioni, con le clausole pubblicizzate in corso del rapporto.
§ 16) Difetto di informazione ed informazione decettiva e nullità contrattuali
Si è già detto della stretta commistione tra doveri precontrattuali di informazione e pubblicità.
Qui è opportuno solo un cenno alla materia delle informazioni ai consumatori, cui il Codice dedica, in termini generali, l’intero titolo II.
Si consideri poi l’art. 45, sulle informazioni per le contrattazioni fuori dai locali commerciali (art. 45), l’art. 52 sulle informazioni per il consumatore nei contratti a distanza, l’art. 70 sulle informazioni nelle vendite immobiliari, la disciplina del contratto turistico (art. 85- 87, sul divieto di fornire informazioni ingannevoli e sull’opuscolo informativo, il cui contenuto è disciplinato in maniera puntuale, con la previsione che le informazioni ivi contenute vincolano l’organizzatore e il venditore in relaizone alle rispettive responsabilità)
Può allora configurarsi un principio di ordine pubblico economico che sanziona con la nullità qualsiasi clausola contraria alle condizioni prospettate in dichiarazioni precontrattuali decettive, cui segue la sostituzione con la clausola in realtà pubblicizzata (così realizzandosi una fattispecie di risarcimento in forma specifica).
§ 17) La responsabilità precontrattuale
Nel caso di mancata stipulazione del contratto si deve prospettare la responsabilità precontrattuale dell’autore del messaggio pubblicitario decettivo.
Quando l’emittente il messaggio non sia parte delle trattative contrattuali, poi non sfociate nella conclusione del contratto, si pone la questione, nota anche in termini generali, della estensione al terzo, che non è stato parte del contratto, della responsabilità precontrattuale (sempre che non sia configurabile il dolo, v. infra).
La opinione prevalente è che è ipotizzabile la responsabilità precontrattuale anche del soggetto che trasferisce informazioni rilevanti ai fini della conclusione del contratto, pur non essendone parte
Xxxxxxxxx, la mera ricezione del messaggio ingannevole non costituisce pregiudizio significativo ai fini di una eventuale tutela risarcitoria: occorre che l’affidamento ingenerato si sia tradotto in comportamenti concreti, diretti alla conclusione del contratto, ovvero che tale affidamento abbia impedito il consumatore a rivolgere la propria attenzione ad altre opzioni contrattuali.
§ 18) La tutela aquilana
L’approccio fino ad ora analizzato, che vede la comunicazione pubblicitaria come presupposto necessario e casualmente adeguato alla conclusione del contratto con ad oggetto il bene e il servizio oggetto della pubblicità menzognera, si presta anche ad una lettura del fenomeno pubblicitario attraverso le categorie giuridiche della responsabilità extracontrattuale, cui fa pur
sempre capo quella precontrattuale. Si è già fatto accenno alla tutela extracontrattuale, d’altronde, con riferimento alle interazioni con la disciplina della concorrenza sleale.
Il momento negoziale è qui solo il momento finale – qualificabile come danno ingiusto - di un processo che muove pur sempre dalla pubblicità ingannevole.
La disciplina dell’art. 2043 ss c.c., oltretutto, non incontra certo il limite della relatività del contratto: non potrebbe mai aversi dubbio, qui, della corresponsabilità del produttore, quale autore del fatto illecito, vale a dire la pubblicità ingannevole.
In altri termini, anche (e soprattutto) nel’ottica della responsabilità aquiliana, il produttore è passivamente legittimato, quale fonte, giuridicamente rilevante, dell’affidamento generato nel consumatore circa la veridicità della pubblicità.
Ne segue che, pur in mancanza di un rapporto di carattere negoziale (ma vi è contatto sociale, così la Relazione) tra il consumatore e il produttore dei beni oggetto di propaganda, è comunque esigibile da quest’ultimo una informazione pubblicitaria conforme a verità.
Il produttore quindi è portatore di una posizione di garanzia nei confronti dei consumatori.
La pubblicità ingannevole va allora ascritta a colpa o a rischio di impresa, all’origine di un danno ingiusto che determina una responsabilità per fatto illecito, sia verso il consumatore che di qualsiasi utente vittima dei danni imputabili alla pubblicità ingannevole.