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Il concordato preventivo tra cessio bonorum e datio in solutum. Il caso “X. Xxxxxxxx”
Giurisprudenza Commerciale, fasc.6, 2012, pag. 837
Xxxxxx Xxxxx
Sommario
Sommario: 1. L'orientamento del Tribunale di Milano sul contenuto della proposta di concordato preventivo con cessione dei beni: la necessità di un impegno del debitore al pagamento delle percentuali previste. — 2. Le differenze tra concordato preventivo e cessio bonorum sotto il profilo della “liberazione” del debitore. — 3. In caso di concordato con cessio bonorum, non occorre o è irrilevante ai fini della risoluzione oggi come ieri, l'impegno al pagamento delle percentuali offerte ai creditori. — 4. L'alternativa tra concordato mediante cessio bonorum e concordato mediante datio in solutum. — 5. I rischi che il concordato possa diventare aleatorio.
1. L'orientamento del Tribunale di Milano sul contenuto della proposta di concordato preventivo con cessione dei beni: la necessità di un impegno del debitore al pagamento delle percentuali previste. — Il decreto del Tribunale di Milano, che ammette al concordato preventivo il gruppo di imprese che fanno capo alla Fondazione Centro X. Xxxxxxxx del Monte Tabor (*), tratta, in particolare, la questione — affrontata per la verità anche da altri Tribunali, ma con minore ricchezza di argomentazioni — se oggi, tra le condizioni di ammissibilità del concordato, rientri non solo la indicazione, ma anche l'impegno del debitore al pagamento di una precisa percentuale ai creditori chirografari. Il Tribunale, accogliendo la domanda, sulla base di proprie precedenti pronunce e dell'orientamento della Cassazione (1), afferma che è sempre necessario, anche in caso di concordato con cessione dei beni, “un preciso e determinato impegno di pagamento in una certa percentuale verso i creditori chirografari (da pagare peraltro tutti in una percentuale che comunque appaia non irrisoria, pena il difetto di causadella soluzione concordataria proposta)”. Questa tesi — secondo il Tribunale — sarebbe una conseguenza della espunzione/abrogazione dell'art. 186 co. 2 l.f., il quale stabiliva — con regola che secondo il Tribunale era da ritenersi “di natura eccezionale” — che “nel caso di concordato mediante cessione di beni a norma dell'art. 160, comma 2 n. 2, questo non si risolve se nella liquidazione dei beni si sia ricavata una percentuale inferiore al quaranta per cento”. Secondo il Tribunale, tale norma consentiva eccezionalmente la liberazione integrale del debitore, anche in caso di mancato pagamento della percentuale minima del quaranta per cento. Proprio in forza di tale previsione, il concordato per cessione dei beni acquisiva una configurazione autonoma rispetto al modello della cessione dei beni disciplinata dall'art. 1977 x.x. (xx xxxxx, xx xxx. 0000 x.x., x xxxxxxxxxxx nei limiti di quanto viene corrisposto ai creditori).
Oggi — si legge nella motivazione del decreto — dopo la riforma, sarebbe perciò inammissibile una proposta che pretenda di collegare un effetto interamente esdebitatorio alla previsione, come evento semplicemente possibile e non come precipua obbligazione di risultato, di un pagamento di una percentuale ai creditori chirografari senza che tale previsione sia intesa e si traduca in un preciso impegno a pagare una percentuale determinata, e tranne che non ricorra la ipotesi speciale, pure ammessa dall'attuale art. 186 quarto comma, l. fall. di concordato immediatamente liberatorio con assunzione di un terzo. Il concordato per cessione dei beni andrebbe sussunto nella categoria del contratto tipico disciplinato dagli artt. 1977 e ss. c.c., che ha connotazione gestoria, anche se sarebbe possibile una diversa tipologia di cessio bonorum concordataria, avente natura direttamente traslativa, che si ha quando il
xxxxxxxx concordi con i creditori il trasferimento ad essi in proprietà dei suoi beni, in modo che attraverso la cessione traslativa si realizzi l'adempimento secondo un modello assimilabile alla datio in solutum. In questo caso, il trasferimento può atteggiarsi come immediatamente satisfattivo; mentre non può realizzare lo stesso effetto la cessione posta in essere alla stregua del modello gestorio. Dopo la abrogazione dell'art. 186 co. 2 l. fall. non vi è più modo di derogare all'art. 1984 x.x., xx xx xxxxx xxxxx xxxxxxx di contratti ad hoc. Quando l'art. 160 menziona la cessione dei beni recepisce tale strumento nella stessa configurazione in cui esso è disciplinato dal codice civile. Con la espunzione dell'art. 186 co. 2, il legislatore ha voluto conformare la disciplina dell'inadempimento del concordato preventivo alle norme generali in tema di risoluzione civilistica, imponendo di valutare la importanza dell'inadempimento, che può emergere solo se rapportata ad una precisa obbligazione di pagamento assunta dal debitore concordatario (“il concordato non si può risolvere se l'inadempimento ha scarsa importanza”); in mancanza di tale obbligazione, la proposta finirebbe per avere una causa meramente aleatoria, giacché, impedendo di chiedere una risoluzione per inadempimento, finirebbe per traslare per intero il rischio del concordato sui creditori stessi. La cessione dei beni è uno strumento di attuazione e non di sostituzione dell'obbligazione di pagamento. Una configurazione del concordato in termini di assoluta aleatorietà sarebbe anche costituzionalmente illegittima, perché a maggioranza verrebbero sacrificati diritti soggettivi senza alcuna controprestazione e senza possibilità di un rimedio successivo.
Questo è, in sintesi, il contenuto della complessa e delicata decisione del Tribunale.
2. Le differenze tra concordato preventivo e cessio bonorum sotto il profilo della “liberazione” del debitore. — A) Nella motivazione del decreto, l'argomento centrale è quello della esdebitazione dell'imprenditore per effetto del concordato. Il concordato libera interamente il proponente. Ma la liberazione del debitore presuppone l'adempimento del concordato. Se si adottano soluzioni “liberali” sull'adempimento, e sulla risoluzione del concordato per inadempimento, la liberazione del debitore rischierebbe di divenire un beneficio ingiusto, tenendo conto del fatto che nel contratto di cessione dei beni ai creditori, normalmente, se l'adempimento è parziale anche la esdebitazione è parziale e non generale. Secondo il Tribunale, la nuova norma sulla risoluzione esigerebbe la assunzione di un impegno al pagamento delle percentuali. Una mera indicazione delle percentuali renderebbe più difficile, o addirittura impossibile, la risoluzione e, per questa via, si consentirebbe all'imprenditore di fruire illegittimamente del beneficio della esdebitazione concordataria.
La domanda che il Tribunale pone è quella dei rapporti tra il contratto di cessione dei beni ai creditori, prevista dagli artt. 1977 e ss. del codice civile, e il concordato preventivo con cessione dei beni, previsto dalla legge fallimentare, sia pure sotto il solo profilo della “esdebitazione” del debitore. Nessun dubbio vi può essere sulla circostanza che tra i due istituti vi sia un collegamento per quanto riguarda la loro origine storica. Resta da vedere se però la cessione dei beni, sorta in epoca remota, soprattutto per evitare le sanzioni personali contro il debitore, quale l'arresto per debiti, abbia poi assunto un volto ed una funzione diversa, rispetto al modello originario quando, a partire da una certa data, è stata adottata nei vari ordinamenti come strumento di attuazione delle procedure concorsuali concordatarie caratterizzate dall'“abbandono” dei beni. Il Tribunale di Milano fa propria la tesi della sostanziale identità tra i due istituti, e da essa trae alcune importanti conseguenze, per quanto riguarda la ammissibilità della proposta e la risoluzione del concordato (2).
In particolare, il Tribunale sostiene che il concordato preventivo con cessione dei beni prima della riforma, nel vigore della originaria formulazione dell'art. 186 co. 2º il quale stabilisce che nel caso di concordato mediante cessione dei beni, a norma dell'art. 160 comma secondo n. 2, questo non si risolve se nella
liquidazione dei beni si sia ricavata una percentuale inferiore al quaranta per cento avesse, proprio per effetto di questa norma “una configurazione autonoma rispetto al modello normotipico di cessione dei beni disciplinato dal codice civile”; e ciò nel senso che tale norma “eccezionale” costituisse una deroga al principio della cessione dei beni, sancito dall'art. 1984 c.c., secondo cui “se non vi è patto contrario il debitore è liberato verso i creditori solo dal giorno in cui essi ricevono la parte loro spettante sul ricavato della liquidazione,e nei limiti di quanto hanno ricevuto ”. Questa norma “equiordinata di legge”, nel sistema previgente — si legge nel decreto — suppliva alla necessità di un “patto contrario”, di natura contrattuale, richiesto dall'art. 1984 c.c. per ottenere la esdebitazione totale a seguito di pagamenti solo parziali.
Ciò premesso, il presupposto di ogni ragionamento sul tema deve essere che, probabilmente, la esdebitazione del debitore, che sia anche imprenditore commerciale, è e deve essere ispirata a logiche diverse da quelle della esdebitazione del debitore “civile”. Pertanto, se si assume che la cessione dei crediti civilistica, normalmente, e in mancanza di un “patto contrario”, sia liberatoria per il debitore solo nei limiti di quanto viene corrisposto ai creditori a seguito della liquidazione dei beni, la deroga, o la divergenza rispetto ad essa del concordato con cessione, restando al sistema previgente, non si verificava solo quando venissero pagate, con effetto totalmente esdebitatorio, percentuali inferiori al quaranta per cento (dei chirografari), ma si verificava in tutti i concordati che non prevedessero pagamenti integrali ai creditori chirografari (e quindi, statisticamente, in quasi tutti i concordati che hanno visto la luce nel nostro ordinamento). L'opinione preferibile sul sistema previgente è, a mio avviso, quella che assegnava — e assegna — al concordato in sé, e quindi al concordato di ogni e qualsiasi tipo (purché non fosse solamente dilatorio), una efficacia esdebitatoria diversa e più ampia di quella posseduta dalla cessione civilistica dei beni ai creditori. La deroga, infatti, non si aveva solamente se e quando, a seguito della liquidazione, si ottenesse meno del quaranta per cento promesso obbligatoriamente ai creditori chirografari; ma anche quando si promettesse (e si pagasse), per es., il novanta per cento dei creditori chirografari. In tale ultima ipotesi il proponente, pagando novanta, veniva liberato per cento; se si fosse trattato di una cessione dei beni civilistica, pagando novanta sarebbe stato liberato per novanta, e sarebbe comunque sopravvissuta al contratto una percentuale di debiti insoluti pari a dieci.
Il concordato preventivo, quindi, in tutte le sue estrinsecazioni, e soprattutto nella versione caratterizzata dalla cessione dei beni, sul piano dell'efficacia verso i creditori (e senza volere estendere la osservazione all'efficacia verso i creditori non partecipanti, profilo che rafforzerebbe la conclusione della specialità del concordato rispetto alle cessione dei beni ai creditori), aveva in se una portata diversa, e più ampia, della cessione ai creditori di stampo civilistico.
La deroga ai principi generali della cessione contrattuale, e in particolare alla necessità di un patto espresso per la esdebitazione totale in caso di pagamento parziale, non stava nell'art. 186 co. 2 l. fall., ma nell'intera struttura del concordato: diremmo oggi, nella sua filosofia di fondo, che era — e forse è ancora — quella di attribuire alla maggioranza del ceto creditorio, vincolando la minoranza, la decisione sui sacrifici da affrontare; il tutto sotto il controllo dell'autorità giudiziaria, alla quale è affidato il compito di vigilare che i sacrifici siano equamente ripartiti, e che la decisione della maggioranza non sia totalmente opportunistica o irragionevole.
B) Il Tribunale ritiene che, per quanto riguarda la liberazione del debitore, la riforma abbia ricondotto il concordato preventivo mediante cessione nell'alveo originario del contratto di cessione dei beni. Ciò, come si è già osservato, sarebbe avvenuto mediante quella che il Tribunale chiama espunzione/abrogazione della originaria formula dell'art. 186 co. 2 (nel caso di concordato mediante cessione dei beni... questo non si risolve se nella liquidazione dei beni si sia ricavata una percentuale inferiore al quaranta per cento);
formula che oggi è stata sostituita con un enunciato completamente diverso, valevole per ogni tipo di concordato: “il concordato non si può risolvere se l'inadempimento ha scarsa importanza”.
Tenendo conto della nuova disciplina della risoluzione, il Tribunale afferma che oggi il debitore debba non solo indicare ma anche promettere e, in un certo senso — aggiungiamo — garantire (come obbligazione di risultato) il pagamento di precise percentuali per i creditori chirografari. Non basta, come accadeva sotto il vigore del sistema precedente, che il debitore, offra tutti i beni esistenti nel suo patrimonio la cui valutazione faccia fondatamente ritenere che i creditori possano essere soddisfatti almeno nella misura del quaranta per cento, con la conseguenza, espressamente voluta dalla legge, della stabilità e non risolubilità del concordato con cessione, dalla quale si ricavi poi meno della percentuale di legge. Oggi, ricondotto ex lege il concordato nell'alveo del contratto di cessione dei beni ai creditori, per effetto della espunzione/abrogazione della norma sulla risoluzione, non sarebbe possibile — come invece lo era ieri — la esdebitazione totale del proponente a fronte di un suo adempimento parziale, giacché la possibilità di quel “patto contrario” previsto dal codice per eventuali effetti interamente esdebitatori della cessione, non sarebbe più contenuto nella legge, e non sarebbe possibile a maggioranza.
Se questa ricostruzione dell'orientamento giurisprudenziale, cui il Tribunale aderisce, è esatta, resterebbe da dimostrare — riprendendo gli spunti sviluppati nel paragrafo che precede — per quale ragione debba ritenersi che il concordato oggi riproponga in campo fallimentare la regola codicistica dell'art. 1984, assunta come regola generale (quella della liberazione solo se vi è adempimento totale, e quella del non liberazione se vi è adempimento parziale). In realtà, come si è già accennato, il concordato, oggi come ieri, ha in se (assieme ad altre deroghe, come ad quella degli effetti verso i creditori non aderenti) la deroga al principio generale contenuto nell'art. 1984 c.c., perché esso libera interamente il proponente in cambio di pagamenti, e prestazioni varie, che normalmente sono solo parzialmente satisfattive rispetto alle pretese dei creditori.
C) Per la verità, la tesi, fatta propria dal Tribunale, potrebbe contenere un sottile elemento inespresso, che consentirebbe di superare la obiezione appena formulata. Infatti, se si ritiene che il concordato abbia in se valore esdebitatorio, tale effetto potrebbe essere collegato all'adempimento, dopo al passaggio in giudicato del provvedimento di omologazione, dei debiti previsti nel piano e quindi falcidiati, e non quelli originari dai quali è dipesa la crisi. Dal momento della omologazione in poi, l'adempimento, da parte del debitore va riferito a ciò che ha promesso con il piano, e quindi il pagamento delle percentuali concordatarie deve essere considerato adempimento integrale, anche se, rispetto ai debiti dai quali si è partiti, l'adempimento è palesemente parziale. Rivive allora, e diventa evidente, il collegamento tra concordato e contratto di cessione dei beni, la cui esistenza è sostenuta nella motivazione del provvedimento: la liberazione del debitore si ha solo se le obbligazioni concordatarie vengano adempiute; è necessario che in questa direzione l'impegno del debitore sia determinato.
Qualcosa di analogo (la riduzione dell'ammontare dei debiti del proponente) può aversi anche nel caso della cessione dei beni ai creditori al di fuori delle procedure concorsuali. Se infatti la cessione viene preceduta o accompagnata da una transazione sul quantum con efficacia novativa, l'adempimento, e la sua liberatorietà, dovranno essere valutati non con riferimento ai debiti originari ma in relazione ai debiti, come oggi dice la legge fallimentare, “ristrutturati”. Questa sarebbe una via per ottenere la liberazione integrale del debitore, senza ricorrere espressamente al “patto contrario” previsto dall'art. 1984 c.c. Ma questa via (quella della ristrutturazione dei debiti in parallelo alla cessione dei beni) — avverte il Tribunale a proposito del patto contrario dell'art. 1984 c.c. — non potrebbe essere percorsa con una decisione a maggioranza da parte dei creditori interessati alla cessione.
D) Il concordato diverge dunque dalla cessio bonorum perché questa consente anche la liberazione parziale del debitore, risultato che, in alcune circostanze, alle parti può apparire apprezzabile. La causa, o la funzione del concordato è invece la alternativa secca tra liberazione totale o risoluzione e fallimento. Il contratto di cessione permette al debitore di conseguire una liberazione solo parziale, anche se, nella stragrande maggioranza dei casi, è ovvio che il debitore aspiri ad una liberazione integrale o, come diremmo oggi “tombale”. Il risultato della totale esdebitazione può essere conseguito attraverso quel patto aggiunto previsto dall'art. 1984 c.c., nel quale può intravedersi una transazione sul quantum, parallela al contratto di cessione, o con una autonoma pattuizione transattiva a carattere novativo. Se però nel contratto di cessione mancano il patto contrario, o la transazione novativa sulla riduzione degli importi dovuti, il pagamento parziale a) non potrà essere rifiutato e b) lascerà sopravvivere la parte del debito non soddisfatta. Tutto ciò nel concordato non può avvenire. Il concordato omologato, eseguito e non risolto, ha sempre effetto integralmente liberatorio. Già si è fatto cenno alla circostanza che, se si guarda ai debiti complessivi del proponente, e non alle percentuali promesse e realizzate, la procedura concordataria presenta uno scostamento rispetto al contratto di cessione perché ex lege, nel concordato, si raggiunge un effetto totalmente esdebitatorio, pur non essendovi pagamento integrale dei creditori. Ma anche quando il pagamento eseguito mediante il ricavato della liquidazione — inferiore ovviamente al dovuto originariamente — sia per ipotesi anche inferiore alle percentuali promesse nel piano, ma non dia vita a risoluzione, anche in questo caso si dovrà ammettere che il concordato ha efficacia totalmente liberatoria. Come si è già detto, qualora le percentuali distribuibili a seguito della liquidazione siano inferiori (ovviamente) al debito originario, inferiori alle percentuali promesse, e inferiori alla soglia di tolleranza consentita dalla nuova disciplina della risoluzione, non sarà possibile invocare, da parte del debitore, o da parte dei creditori, quella liberazione solo parziale, che sarebbe viceversa l'effetto normale del contratto di cessione. L'epilogo sarà, o la stabilità del concordato con liberazione integrale, o la risoluzione del concordato (salvi i problemi di soluti retentio che potranno porsi per i creditori che abbiano ricevuto pagamenti parziali in esecuzione del concordato poi risolto).
3. In caso di concordato con cessio bonorum, non occorre, o è irrilevante ai fini della risoluzione, oggi come ieri, l'impegno al pagamento delle percentuali offerte ai creditori. — La riforma della norma sulla risoluzione, e la attuale rilevanza dell'inadempimento secondo le regole ordinarie ai fini della risoluzione (solo l'inadempimento di scarsa importanza impedisce la risoluzione), comportano — secondo il Tribunale
— che il debitore oggi debba indicare quali siano le percentuali promesse, e debba garantirne il pagamento. Una proposta concordataria che non indichi le percentuali destinate ai creditori, e che non preveda un impegno del debitore al loro pagamento, sarebbe inammissibile, anche perché trasformerebbe il concordato in una operazione aleatoria a danno dei creditori, e soprattutto a danno dei creditori dissenzienti.
Distinguendo per comodità espositiva l'indicare dal promettere, è sicuramente fondato il rilievo che sia inammissibile una proposta nella quale il debitore non indichi in nessun modo quanto intende offrire ai creditori. Ma questa ipotesi appare puramente teorica e marginale, perché, o attraverso la previsione del ricavato della liquidazione, o attraverso le stime, o attraverso la attestazione del professionista sulla fattibilità, questo elemento della proposta, se non determinato, potrà essere considerato determinabile (3).
Analogamente, e a maggior ragione, è difficile imbattersi in concordati con creditori divisi in classi, nei quali il proponente dimentichi di indicare... le percentuali di pagamento destinate alle classi. Se ciò dovesse accadere, e se la incertezza o la indeterminabilità dovessero perdurare fino alla votazione e alla
omologazione, non vi è dubbio che questo sgangherato concordato dovrà essere considerato inammissibile.
La tesi della inammissibilità non può però essere sostenuta, con la stessa determinazione, per la ipotesi che il debitore, oggi come ieri, offra in cessione i suoi beni, ne quantifichi il presumibile valore di realizzo, indichi analiticamente le percentuali destinate ai creditori o alle classi di creditori, descriva le possibili modalità future di liquidazione, indichi un termine per l'inadempimento, ma non assuma un impegno o una garanzia di pagamento (4).
Nulla vieta che il debitore possa veramente promettere ai creditori, con una pattuizione espressa, e con garanzie vere e proprie, non previste ma nemmeno vietate (5), il pagamento delle percentuali.
Ma, prescindendo da tale ipotesi (che darebbe vita, forse, ad un concordato diverso da quello consistente nella cessione dei beni), anche oggi, nel concordato con cessione dei beni, la promessa, o la garanzia, del debitore circa la effettività dei valori ricavati dalla liquidazione, o si basa su garanzie reali o personali in senso stretto, che andrebbero ad aggiungersi alla garanzia generica del patrimonio, trasformando la natura del concordato; o nulla aggiunge alla struttura legale del procedimento.
Il debitore che ceda tutto il suo patrimonio, anche quello personale, ai creditori, può arricchire, in termini di effettività, la garanzia (generica) costituita dai beni messi a disposizione mediante ulteriori garanzie, personali o reali, tipiche o atipiche, proprie o di terzi. Così facendo, egli assegnerebbe alla cessione una funzione accessoria di garanzia che rafforzerebbe la obbligazione concordataria principale, che sarebbe quella del pagamento. Il concordato, come esattamente è stato messo in risalto da una parte della giurisprudenza, rifluirebbe nell'area del concordato “misto” (6). Ma, prescindendo dalla ipotesi oggi consentita di concordato con cessione solo parziale, se il debitore, senza ricorrere a garanzie ulteriori, si limita a formulare un impegno a pagare in ogni caso le percentuali concordatarie, anche se la liquidazione di tutto il patrimonio offerto non dia i risultati sperati, la promessa o l'impegno nulla aggiungono e per nulla rafforzano la obbligazione concordataria, se non altro perché il debitore, per definizione, non ha più un patrimonio ulteriore al quale attingere.
Il Tribunale di Milano, però, attribuisce alla promessa di pagamento, di cui ipotizza la obbligatorietà (anche) nel concordato mediante cessio bonorum, un valore specifico, collegato alla nuova disciplina della risoluzione. L'impegno del debitore sarebbe indispensabile perché esso renderebbe agevole la applicazione della norma che prevede la risoluzione del concordato, in quanto solo rispetto ad un impegno determinato è possibile valutare se l'inadempimento è grave o lieve. È implicita, nel pensiero del Tribunale, la convinzione che un concordato basato, come accadeva in passato, su risultati aleatori della liquidazione non consenta — soprattutto ai creditori dissenzienti — di difendersi utilizzando il meccanismo della risoluzione. Dunque, l'impegno del debitore al pagamento delle percentuali — senza il ricorso a avere e proprie garanzie aggiunte a quelle della cessione dei beni — avrebbe un significato ed un effetto: quello del rafforzamento, per i creditori dissenzienti, della disciplina della risoluzione del concordato.
La tesi sostenuta dal Tribunale consentirebbe di imporre al debitore una condotta nell'interesse dei soggetti deboli della procedura, prescindendo da agnostici rinvii alle decisioni della maggioranza dei creditori, che consapevolmente assume il rischio della liquidazione e quello di una più blanda risoluzione. In sintesi, la giurisprudenza, a questo proposito, ritiene che si potrebbe imporre ai creditori dissenzienti la falcidia del concordato, ma non anche la aleatorietà della liquidazione e il “depotenziamento” della risoluzione. Ma questo argomento non è decisivo. La nuova disciplina della risoluzione si applica, allo stesso modo ed indifferentemente, sia ai concordati senza la promessa e garanzia di pagamenti delle percentuali,
sia ai concordati con la promessa e garanzia richiesta dal Tribunale di Milano. Un impegno al pagamento, nel concordato mediante cessione, non rafforza veramente la disciplina della risoluzione. Non è, in definitiva, consentito ai creditori “marginali” di togliere al ceto creditorio la possibilità di un concordato mediante cessione e senza impegno di pagamento, quando il debitore non disponga di altri beni, e quando il fallimento matematicamente non dia ai creditori nessuna prospettiva migliore rispetto al concordato. D'altro canto dare ai creditori marginali una risoluzione più forte, se la risoluzione porta al fallimento, ha veramente un senso? Procura veramente un vantaggio? È giusto ed utile dichiarare inammissibile una proposta concordataria solo perché essa riduce (ammesso che la riduca veramente) l'area di una futura, lontana, ipotetica e vana azione di risoluzione?
4. L'alternativa tra concordato mediante cessio bonorum e concordato mediante datio in solutum. — È necessario, secondo l'approfondito ragionamento del Tribunale, distinguere tra concordato che preveda una cessione dei beni di tipo liquidatorio, e una cessione dei beni che rappresenterebbe una datio in solutum, che avrebbe invece valore liberatorio, indipendentemente dal valore realizzato nella liquidazione dei beni (e, aggiungerei, indipendentemente dalla stessa liquidazione dei beni) (7).
La distinzione tra la tesi della cessio e quella della datio riverbera i suoi effetti sulla soluzione di molti problemi, anche pratici, perché la datio in solutum accentua i profili traslativi dal debitore ai creditori che, viceversa potrebbero addirittura del tutto mancare nella cessio bonorum (8). Questa distinzione imporrebbe, per completezza di indagine, di prendere in esame figure di teoria generale più ampie, come il cd. abbandono liberatorio dei beni, di cui erano esempio la procedura di concordat par abbandon d'actif
(9) o le “cessioni liquidative” (10).
L'occasione è propizia per ricordare anche, come elemento di ulteriore complicazione del quadro di insieme, che sempre più frequentemente la cessione concordataria, ha per oggetto beni che non appartengono al debitore ma a terzi estranei (11), il che crea problemi ancora oggi insoluti sul il titolo giuridico che consente la acquisizione e la liquidazione di beni che no appartengono al debitore.
La distinzione tra concordato mediante cessio e concordato mediante datio si baserebbe sulla volontà del proponente, il quale sarebbe libero di offrire ai creditori sia l'una sia l'altra forma di concordato (12), anche se — come afferma il Tribunale di Milano — il concordato mediante datio in solutum finirebbe per avere una causa meramente aleatoria, giacché impedendo di chiedere una risoluzione per inadempimento, trasferirebbe per intero il rischio del concordato sui creditori stessi. La cessione dei beni sarebbe uno strumento di attuazione e non di sostituzione dell'obbligazione di pagamento.
In effetti, anche nel sistema anteriore alla riforma, vi erano grandi ostacoli concettuali a configurare la cessione concordataria come datio in solutumex art. 1197 c.c. Ma ciò non tanto per la aleatorietà del risultato della liquidazione, giacché la datio in solutum, nella sua configurazione tradizionale, se la prestazione in luogo del pagamento consiste nel trasferimento della proprietà di un bene, non comprende un obbligo di liquidazione del bene oggetto della datio, ma implica la soddisfazione dei creditori direttamente attraverso la attribuzione ad essi della proprietà un bene in natura (13).
La cessione concordataria, vista come prestazione in luogo dell'adempimento, determinerebbe una comproprietà o una contitolarità dei beni in capo alla massa dei creditori, e qui esaurirebbe la sua funzione. Poiché però questo istituto non si presta a risolvere i problemi del concorso dei creditori, che esige la liquidazione del patrimonio (liquidazione alla quale fanno riferimento quasi tutte le norme che regolano il concordato mediante cessione), e il riparto rispettando le legittime cause di prelazione (come è imposto dalla legge già nella cessione dei beni ai creditori, e come è naturale che sia nel concordato), esso non può
essere utilizzato dall'imprenditore per la regolamentazione della crisi dell'impresa. In definitiva l'istituto della datio in solutum è fondamentalmente uno strumento di adempimento delle obbligazioni nei rapporti non caratterizzati dalla pluralità e dal concorso dei creditori, come invece è la cessio bonorum. E anche quando esso appare nelle possibilità concesse dal nuovo concordato preventivo, dopo la riforma, non perde questa caratteristica: quando la legge fallimentare, all'art. 160, per la soddisfazione dei creditori... prevede la cessione dei beni... la attribuzione ai creditori di azioni, quote, ovvero obbligazioni o altri strumenti finanziari e titoli di debito e la attribuzione delle attività ad un assuntore con queste varie formule (che spingono un po' tutti ad affermare che il concordato oggi ha un assetto “variabile”) la riforma ha introdotto nel concordato la possibilità di cessioni “non liquidative», e quindi cessioni o attribuzioni con efficacia direttamente estintiva delle obbligazioni, come accade per la datio in solutum o per la assegnazione giudiziale (con enormi complicazioni teoriche o pratiche per quanto riguarda la risoluzione del concordato che abbracci una serie eterogenea di soluzioni) (14). Questo ragionamento vale anche per la attribuzione dei beni all'assuntore, a proposito della quale si era sviluppata in passato una discussione tra coloro che sostenevano che l'assuntore dovesse necessariamente procedere alla liquidazione dei beni, e coloro che — forse più esattamente — sostenevano che l'assuntore avesse un interesse alla proprietà dei beni in sé e per sé.
5. I rischi che il concordato possa diventare aleatorio. — È frequente la affermazione: il concordato con cessione dei beni non può consistere in una operazione “aleatoria” (15).
Sarebbe aleatorio — per i creditori dissenzienti — il concordato mediante cessione, con il rischio della liquidazione interamente a carico dei creditori, approvato a maggioranza. La aleatorietà renderebbe “privo di causa” il concordato (così come “privo di causa” sarebbe il concordato con cessione e con promessa di pagamento di percentuali “irrisorie”) (16).
Il tema della aleatorietà, e quello della risoluzione riportano l'argomento di cui ci occupiamo sul terreno delle ricostruzioni privatistico‐contrattuali. La domanda è se, per contrastare gli abusi della pratica, sia veramente utile ed appropriato il richiamo alla categoria della aleatorietà, che già di per se suscita numerosi ed irrisolti interrogativi (17), oppure se — ferma restando la necessità di non assecondare quegli abusi — l'alea della liquidazione infruttuosa dei beni ceduti non sia di per sé un dato patologico che determini la inammissibilità, la revoca (o anche la risoluzione) del concordato (18). Anche la dottrina dominante tende ad attribuire al concordato con cessione lo stesso tasso di aleatorietà che caratterizza la cessio bonorum (19). L'alea dell'inadempimento o della insolvenza del debitore non dovrebbe, in definitiva, essere rilevante come vizio del procedimento (o del contratto, soprattutto se si accetta la tesi che il concordato sia riconducibile allo schema della transazione).
La tesi della inammissibilità di un concordato aleatorio escluderebbe anche la possibilità di una concordato pro soluto. È nota la distinzione tra concordato pro solvendo, che comporterebbe il diritto del debitore all'eventuale supero del ricavo della liquidazione, e concordato pro soluto che comporterebbe il diritto dei creditori all'intero ricavato della liquidazione, anche se superiore alla percentuale garantita (20).
La ipotesi di concordato pro soluto distribuisce l'alea, come è giusto che sia, in maniera eguale tra le due parti contrapposte: i creditori corrono l'alea della insufficienza, il debitore quella dell'esubero. La necessità (e sufficienza) dell'impegno al pagamento di percentuali determinate — a meno che non si affermi che le percentuali determinate sono le percentuali “minime”— priverebbe i creditori della possibilità di fruire, come accade nel concordato pro soluto, di vantaggi di una liquidazione fruttuosa con risultati superiori alle previsioni.
Per la verità la giurisprudenza che sottolinea la necessità di non assecondare concordati aleatori si riferisce in modo particolare ai diritti dei creditori dissenzienti o di minoranza. L'alea del concordato, normale o anormale che sia, è assunta consapevolmente dai creditori della maggioranza, i quali però non possono imporre il proprio punto di vista agli altri (21). Questo argomento, come suol dirsi, “prova troppo”. È nella filosofia del concordato che la maggioranza decida anche il sacrificio della minoranza. Non si vede quale sia la differenza tra l'ipotesi di una maggioranza di creditori che approvi un concordato, con percentuali ai limiti di quella “irrisorietà” che farebbe scattare l'intervento del tribunale (percentuali minime giustificate dal dissesto senza alternative del debitore), e l'ipotesi di una maggioranza che approvi un concordato “aleatorio”, che però potrebbe dare, nel tempo, risultati migliori di quelli temuti.