CONTRATTI E TARIFFE
CONTRATTI E TARIFFE
Il tavolo "contratti e tariffe" si è aperto con una breve presentazione del progetto ARCHEOCONTRATTI 2016, volto a rendere note, a quanti tra i partecipanti all'assemblea non ne fossero al corrente, le ragioni che furono sottese alla nascita del progetto e le necessità attuali per le quali la CIA ha ritenuto di darne seguito a distanza di 5 anni. L'intenzione iniziale del progetto era quella di monitorare la situazione contrattuale degli archeologi professionisti al fine di rilevare incongruità, errori, clausole obsolete se non addirittura vessatorie di fronte alle quali spesso il professionista non ha gli strumenti necessari per prendere le dovute distanze. Nel corso della riunione è stato spiegato il modus operandi del 2016:
1. Richiesta ai colleghi dell'invio di copie anonime e con i dati sensibili secretati dei contratti, stipulati nel triennio precedente, di cui è stata fatta una sintesi preliminare delle clausole rilevate.
2. Elaborazione di un questionario on line con domande fisse sulle predette clausole, nello specifico proprietà intellettuale, esclusività, recesso, penali, compenso, modalità di pagamento, obblighi.
Con i partecipanti al tavolo, sono stati approfonditi alcuni argomenti quali la proprietà intellettuale e i compensi, ed è emerso che, nonostante il trascorrere del tempo, alcune problematiche risultano tutt'oggi irrisolte. Da ciò la necessità di riproporre ARCHEOCONTRATTI nel 2021, sviluppandolo con le medesime modalità del 2016, risultate efficaci, ma con finalità diverse. Se nel 2016 l'intenzione ultima era quella di realizzare un contratto standard da proporre a colleghi e committenze, strada poi rivelatasi di difficile percorrenza, nel 2021 si pensa all'elaborazione di un vademecum che possa fornire ai professionisti archeologi, soprattutto i più giovani, i mezzi per non cadere nella stipula di contratti capestro.
Muovendo da queste premesse è stata proposta una bozza di programma per Archeocontratti 2021:
1. Avvio progetto il 29-03-2021 con campagna social della durata di 1 o 2 mesi, da costruire con il gruppo comunicazione, per chiedere ai colleghi l'invio dei contratti stipulati dal 2017 a oggi;
2. Esame preliminare a livello nazionale dei contratti suddivisi per tipologia di lavoro e tipologia contrattuale;
3. Estrapolazione dei dati con focus regionali (rispetto al 2016 è previsto un maggiore
coinvolgimento di tutti i gruppi regionali fin dalle prime battute);
4. Elaborazione di un questionario online con ulteriore campagna social (le tempistiche della durata sono da valutare in base ai risultati ottenuti nella fase 1);
5. Realizzazione del vademecum.
Si tratta certamente di un cronoprogramma ancora in fieri, certamente migliorabile e che sicuramente subirà numerosi e anche sostanziali cambiamenti in corso d'opera, come fu nel 2016, ma dal quale ci aspettiamo importanti risultati utili per migliorare la nostra professione.
Al tavolo si lega anche il discorso delle tabelle degli indici tariffari, esposto nella relazione del tavolo evoluzione legislativa.
RIFORME UNIVERSITA’ E DM244
L’attuale situazione normativa relativa al riconoscimento professionale degli archeologi e le norme previste dal DM 244/19 necessitano a nostro avviso di una revisione sia del testo del decreto che dei percorsi formativi. Imprescindibilmente, le due azioni devono essere collegate tra loro se intendiamo apportare delle migliorie che siano effettivamente tali, sia per la reale utilità e attuazione del DM, sia per coniugare la realtà legislativa a quella formativa. Nell’analisi avvenuta, abbiamo ravvisato la necessità di colmare un vulnus “pratico/legislativo” attualmente in essere che colpisce in primis i colleghi della 3° fascia. Oggi il testo del decreto prevede per i triennalisti la necessità di possedere come requisito per l’iscrizione anche 12 mesi di attività pratiche. Come era chiaro fin da prima dell’emanazione del decreto, e come avevamo già segnalato in fase di discussione delle differenti bozze sottoposte, giustamente, al vaglio delle realtà associative, i laureati triennali in Italia risultano i più penalizzati, poiché non riescono a collezionare l’esperienza richiesta, per cui si ritrovano automaticamente sospesi in una realtà che non gli permette né di iscriversi negli elenchi, né di operare per il raggiungimento dei giorni utili a tal fine. La nostra “sensazione” è stata confermata dopo aver inoltrato formale richiesta, a tutti i Dipartimenti universitari e a tutte le Scuole di Specializzazione in Archeologia, sulla quantità di esperienza che ogni singolo studente riesce a mettere insieme in ogni ciclo formativo: triennale, specialistica, post lauream. Le risposte che sono giunte alla nostra associazione sono state diverse tra loro, ma in nessun modo soddisfacenti. Riguardo al percorso triennale, alcune Università dichiarano la possibilità di conseguire solo 6 CFU ai quali si potrebbero aggiungere eventuali attività extra non obbligatorie che verrebbero comunque attestate; l’esempio che potremmo considerare più virtuoso permette allo studente triennalista, tra attività formative e altre attività pratiche, di raggiungere i 14 CFU, che ai fini del calcolo dell’esperienza corrispondono concretamente a sole 44 giornate di lavoro da 8 ore, assolutamente insufficienti a coprire l’anno di esperienza richiesto. Il dato evidente è che oggi nessuno studente triennale riesce ad accumulare i 12 mesi di esperienza richiesta dal DM. In molti casi non risulta possibile neanche per i laureati alla specialistica o gli specializzati/dottorati. Questo dato oggettivo non può far altro che farci ragionare sulla assoluta necessità di procedere in un duplice intervento: da un lato, alzare l’asticella dell’offerta formativa universitaria, coinvolgendo se necessario i Dipartimenti, permettendo ai laureandi di svolgere maggiormente una formazione pratica, anche al di fuori del proprio Ateneo o dei canali universitari, che gli consentirà di uscire dal percorso formativo in modo più completo, dando loro la possibilità di entrare nel mondo lavorativo in modo più agevole e preparato alle necessità che questo richiede.
Non è facile, ne siamo consapevoli, però non possiamo non farci carico di una sfida così ardua, ma assolutamente necessaria se vogliamo tenere questa professione al passo coi tempi e con le novità
legislative. Dall’altro lato, sarà necessario riformulare la richiesta attuale prevista dal DM di 12 mesi rivedendola “al ribasso” anche alla luce del fatto che gli archeologi di 3° fascia non possono in alcun modo operare in autonomia, ma soltanto in affiancamento a colleghi con maggiore esperienza.
Un altro parametro individuato nella nostra discussione è la necessità di stabilire una progressione dell’esperienza per le differenti fasce, così come già fatto per il grado di istruzione.
Riteniamo opportuno quindi pensare di riformulare le tre fasce attuali in questo modo:
3° fascia = laurea magistrale + 6 mesi di esperienza (di cui almeno 3 durante il ciclo formativo) a cui seguono 6 mesi di esperienza da maturare in 3° fascia prima di passare in 2° fascia a prescindere dal titolo conseguito
2° fascia = laurea specialistica + 12 mesi per iscriversi a cui seguono 6 mesi di esperienza da maturare in 2° fascia prima di passare in 1° fascia a prescindere dal titolo conseguito 1° fascia = specializzazione/dottorato + 18 mesi di esperienza
Altro parametro da seguire per una modifica dell’attuale strutturazione è quello di prevedere delle progressioni dalla fascia inferiore a quella superiore, con il raggiungimento di un monte esperienza consistente anche in mancanza del titolo di studio superiore, sulla falsariga di quanto previsto oggi dalle norme transitorie.
Immaginiamo una strutturazione in cui dalla 3° fascia si possa passare in 2°, pur non avendo conseguito la laurea specialistica, ma avendo maturato 48 mesi di esperienza professionale oltre quella già prevista per l’accesso.
Una 2° fascia da cui si possa arrivare in 1° dopo aver conseguito 60 mesi di esperienza professionale oltre a quella prevista dall’accesso, pur non avendo il titolo della Scuola di Specializzazione o di Dottorato, seguendo il principio di scalarità e di progressione tra le fasce proprio dei livelli EQF su cui il DM 244 è imperniato.
Nell’ottica di una generale ristrutturazione ideale dei percorsi formativi, che permetta di convogliare gli aspiranti professionisti nel mondo lavorativo padroni delle dovute conoscenze e di una modesta esperienza, si auspica oltremodo un concreto allineamento tra la realtà legislativa del DM244/2019 e le varie realtà esterne degli sbocchi lavorativi, attualmente normate da principi disallineati che allo stato dei fatti risultano ormai obsoleti e assolutamente ingiustificati; in particolare, rispetto al DM 244 si ritengono necessari: codice appalti - adeguamento dell’ex D.lgs. 50/2016 art. 25; adeguamento dei riferimenti relativi alla Direzione Tecnica OS25 - D.M. 22 agosto 2017, n. 154, art. 13, c. 3c e c. 4; l’accesso a pubblici concorsi che prendano in considerazione i livelli di fascia definiti dal decreto.
MUSEI
Il tavolo ha messo in luce eterogeneità e complessità del lavoro degli archeologi in ambito museale. Voci di liberi professionisti, dipendenti pubblici, concessionari.
A seguito della riunione è stato predisposto un questionario rivolto ai partecipanti del tavolo per raccogliere ulteriori elementi di confronto e bisogni. Il questionario, in forma anonima, è stato compilato da 20 persone. Le indicazioni fornite sono incluse nel documento, di cui costituisce un allegato.
Quadro generale
Una iniziale ricognizione del livello di formazione e delle competenze specifiche ha evidenziato come il percorso di studi in ambito museale, specifico per condurre attività come quelle del curatore, non sia diffuso tra archeologi, che nella maggior parte dei casi compensano con competenze acquisite sul campo nel corso di impieghi specifici, in affiancamento, o grazie ad attività derivanti dalla valorizzazione di interventi di scavo o ricerca, talvolta nell’ambito dei musei universitari. Il tavolo rileva come il mancato riconoscimento delle competenze acquisite sul campo, unito all’assenza di insegnamenti di ambito museologico tra i fondamentali del percorso di studi, comporti preclusioni nell’accesso a esperienze professionali che vanno dall’impossibilità di vedere riconosciute pubblicazioni di ambito archeologico per richiedere l’ASN - Abilitazione Scientifica Nazionale in Museologia,, così come, nel caso di collaborazioni con taluni Concessionari privati di servizi di accoglienza o didattica museale, l’inidoneità per attività di divulgazione o didattica. Tuttavia, ad oggi sempre più archeologi trovano impiego nei musei, negli istituti e nei luoghi della cultura, svolgendo parte dei cosiddetti “servizi aggiuntivi”, elencati nell’art. 117 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.lgs. 42/2004). La gestione indiretta, attuata tramite concessione a terzi è fortemente condizionata dal contratto di servizio e dal potere di mercato della stessa
società concessionaria dei servizi. Inevitabilmente, anche la sorte dei posti di lavoro dei professionisti, i quali spesso lavorano da anni in alcuni luoghi della cultura, dipendono da queste prerogative.
Relativamente alle caratteristiche dell’impiego, da un lato, emerge l’eterogeneità nelle formule contrattuali applicate, dall’altro il ricorso a incarichi anomali specie nelle figure apicali di Istituti museali e parchi archeologici, così come di Soprintendenze, Servizi o Funzioni Operative, con il conseguente mancato riconoscimento di titoli e competenze maturate nel settore.
A tale disallineamento, soggiace il quadro normativo vigente, che vede il mancato coordinamento, in un quadro organico a livello nazionale, dei requisiti per i professionisti impiegati presso musei civici, regionali e statali, nonostante lo sforzo di raccordo e omogeneizzazione avviato, a livello gestionale, grazie all’individuazione dei livelli uniformi di qualità in seno al Sistema Museale Nazionale. È stata sinora posta grande attenzione agli aspetti gestionali e strutturali, mentre è ancora da definire un quadro normativo relativo alle professioni museali, alle mansioni del personale e alle caratteristiche dell’impiego, attualmente delineato unicamente negli aggiornamenti ICOM della Carta delle Professioni Museali, con il conseguente disallineamento tra queste, la normativa vigente a seguito del DM 244/2019, e quanto richiesto per raggiungere i livelli di uniformità SMN.
Riguardo questo specifico aspetto infatti, è ancora carente un pieno riconoscimento dei profili e delle competenze degli archeologi impiegati in ambito museale. Le condizioni contrattuali sono variabili, per la maggior parte consistenti in incarichi libero-professionali. In non pochi casi relativi all’impiego di archeologi da parte di Concessionari di servizi museali, i professionisti vengono contrattualizzati stagionalmente, pur mantenendo, di fatto, un rapporto esclusivo con la società, con la conseguente preclusione di opportunità lavorative alternative con società di servizi concorrenti e la mancanza di impiego nei restanti mesi dell’anno. Analogamente, i compensi sono variabili, non riferiti a livelli e ruoli rivestiti, frequentemente al di sotto dei 5mila euro annui. Il campione portato dal tavolo non ha mancato di evidenziare la presenza di casi virtuosi, che restano purtroppo sporadici.
Un tema a sé riguarda l’impiego di archeologi presso i Musei civici archeologici. Dalla direzione, alle attività di accoglienza e didattica, la presenza di archeologi professionisti non è affatto scontata, a vantaggio di personale dipendente dalle Amministrazioni Comunali non adeguatamente formato, o di terzi, come associazioni culturali costituite da figure non in possesso dei titoli necessari per rivestire le funzioni specifiche. Relativamente agli impieghi presso concessionari di servizi, emerge tuttavia una forte variabilità, spesso relativa al contesto in cui ci si ritrova e alla durata degli appalti.
La conseguenza della mancanza di competenze archeologiche specifiche nella gestione delle aree e dei musei archeologici ha un precedente eclatante in Sicilia: su 14 posizioni in organico, sono presenti 2 architetti e 2 storici dell’arte in posizione apicale, con professionalità museali totalmente disattese. Il tavolo
concorda nell’individuare l’adozione della Carta di Catania come una delle conseguenze della mancanza di professionalità adeguate nelle posizioni di vertice, individuando la cessione ai privati dei materiali conservati nei magazzini come esito dell’assenza di indicazioni da personale in possesso delle competenze necessarie a gestire le esigenze di catalogazione, conservazione, immagazzinamento e studio del patrimonio di beni mobili siciliano, secondo le normative vigenti, oltre che con gli strumenti forniti dagli attuali sviluppi della disciplina. Il pericolo costituito dall’esperienza Siciliana, in quanto possibile “precedente” dell’avocazione ai privati della tutela dei beni mobili, è oggetto di monitoraggio e intervento da parte della Confederazione Italiana Archeologi a livello nazionale. L’Associazione ha infatti già redatto un complesso documento, al quale si rimanda (xxxxx://xxx.xxxxxxxxxx-xxxxxxxx.xx/xx- content/uploads/2021/04/CIA_Carta_di_Catania.pdf), nella consapevolezza che le sorti dei musei siciliani e dei professionisti del settore dipendono da un intervento sostanziale sull’intero sistema. Il tavolo concorda su quanto specificato nel presente documento, che segnala come risulti “incomprensibile come in Sicilia qualsiasi dirigente del ruolo unico, che sia anche agronomo o geologo, possa dirigere Gallerie d’Arte, Parchi e Musei archeologici, secondo quanto si evince dall’organigramma attuale del Dipartimento Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, e non possano farlo gli archeologi e gli storici dell’arte con quasi vent’anni di servizio. Negli ultimi dieci anni, oltre al depotenziamento delle competenze professionali, nell’amministrazione regionale dei beni culturali è avvenuto anche un processo di disarticolazione dello stesso sistema di tutela. Gli esecutivi politici che si sono succeduti hanno privato le Soprintendenze della tutela territoriale per le quali erano state istituite, tramite la creazione ex novo di mega-strutture, utili solo ad una semplice gestione dei custodi dei siti culturali regionali. Questi nuovi Servizi del Dipartimento sono stati chiamati in modi diversi: prima ‘Poli museali’ e adesso ‘Parchi archeologici’. Ma sono rimasti in definitiva solo degli enti burocratici che mettono insieme alla rinfusa piccoli e grandi musei, aree archeologiche, parchi minerari e archeologici, senza riuscire ad avere chiari obiettivi istituzionali di tutela, valorizzazione e ricerca scientifica.”
La Confederazione Italiana Archeologi si impegna affinché le amministrazioni competenti attivino al più presto le azioni necessarie per favorire la catalogazione e l’inventariazione dei beni presenti nei depositi dei musei, da parte di professionisti archeologi in possesso delle competenze specifiche. La catalogazione del patrimonio culturale è infatti compito delle Istituzioni museali e deve essere affidata ai professionisti competenti, ai sensi dell’art. 9 bis del D.lgs. 42/2004 e del DM 244/2019. Come già indicato nel suddetto documento, “il sistema museale siciliano può essere rivitalizzato solo con la costruzione di progetti culturali che, a partire dallo studio delle collezioni, sia quelle esposte che quelle nei depositi, sappiano proporre esperienze collettive di conoscenza e godimento del Patrimonio, riconoscibile quale Bene Comune”.
Le conseguenze dell’emergenza sanitaria attuale nel lavoro degli archeologi in ambito museale
La chiusura dei Musei e dei Luoghi della Cultura a seguito dell'adozione delle misure contenute nei diversi DPCM, emanati tra il 2020 e il 2021, ha portato a evidenti ricadute per gli archeologi al lavoro presso le strutture interessate, in particolar modo per quelli al lavoro con contratti libero-professionali, stagionali o titolari di attività in concessione.
A fronte del mutato quadro economico e della drastica contrazione dell’indotto generato dal turismo e dai consumi culturali, emerge la necessità di una più ampia indagine sulla tenuta del paradigma vigente prima dell’emergenza sanitaria ancora in corso, ed ereditato dagli anni ‘90, che ha visto la diffusa adozione di concessioni a scapito di una gestione diretta da parte delle Istituzioni delle attività legate alla fruizione, accoglienza, divulgazione e valorizzazione del patrimonio, individuato negli scorsi anni come settore di impiego o prospettiva di impresa per archeologi professionisti, anche a seguito dell'impulso dato dalle “riforme Xxxxxxxxxxxx” a realizzare, in seno agli stessi Istituti, attività di valorizzazione tradizionalmente affidate a concessionari di servizi.
Il diffuso sistema dell’esternalizzazione dei servizi educativi si è mostrato particolarmente fragile durante l’anno 2020, anche a seguito della mancanza di regole specifiche legate alla garanzia dei servizi minimi o alla riconversione delle attività in caso di chiusura, come evidenziato dal recupero del rapporto diretto e di fiducia con archeologi interni agli istituti museali, altamente preparati sotto il profilo tecnico-scientifico, sottoposto tuttavia all’improvvisa gestione di una riconversione, in tempi estremamente ridotti, talvolta senza mezzi e strategie adeguate, di piani di comunicazione e didattica in attività on line e a distanza. Gli archeologi impegnati in attività didattiche, spesso liberi professionisti al lavoro a chiamata, a seguito della chiusura degli Istituti hanno interrotto bruscamente il loro percorso professionale, senza tutela alcuna, cercando spesso impiego alternativo nel lavoro di sorveglianza archeologica, legato a codici ATECO non bloccati dalle normative di emergenza. Il tavolo ha dunque concordato nel riscontrare che l’esasperata precarizzazione delle posizioni, il ricorso al lavoro stagionale o a chiamata per attività didattiche o di fruizione, ha fortemente risentito delle conseguenze della chiusura dei Luoghi della cultura, con perdita di posizioni di lavoro dei professionisti a vario titolo impiegati. In senso opposto, la massiccia e diffusa necessità di produrre contenuti digitali per Musei e Parchi archeologici, ha determinato una maggiore ricerca di professionisti pronti a contribuire alla creazione di nuovi contenuti digitali, ponendo maggiore attenzione sulle potenzialità di un mercato appetibile, tanto per le società archeologiche quanto per i liberi professionisti nel settore, con posizioni di notevole vantaggio nel caso del possesso di competenze legate alla mediazione culturale e all’inclusione di pubblici con esigenze specifiche.
La mancanza di organicità nei criteri di reclutamento del personale di ruolo e nell’affidamento degli incarichi ha evidenziato, in questa fase il timore che si ricorra in modo indiscriminato al volontariato per sopperire alla perdita o all’impossibilità di ricorrere all’impiego di archeologi professionisti in possesso delle
competenze specifiche. Il quadro che sta delineandosi vede, a fronte del mancato impiego di archeologi professionisti, l’ampio ricorso al volontariato, a stage, a tirocini e a lavoratori socialmente utili nel settore, attuando di fatto forme di dumping contrattuale, laddove, pur di garantire la funzionalità minima dei musei archeologici si ricorra ad associazioni o figure prive di competenze o titoli per rivestire i ruoli, anche gestionali, necessari a garantire oltre alle attività on line, anche il ripristino delle condizioni necessarie alla riapertura e alle attività di divulgazione, fruizione, tutela e conservazione delle collezioni. Dal tavolo emerge l’insufficienza dei “ristori” a vantaggio di professionisti archeologi al lavoro in cooperative o imprese titolari di servizi in concessione, non adeguati a garantire il mantenimento minimo del servizio, e dunque del personale al lavoro, anche durante il periodo di mancato incasso, dovuto ad azzeramento degli introiti derivanti dalla bigliettazione o dalle attività didattiche. Tale limite è infatti contenuto nella stessa configurazione dei contratti di concessione attualmente in vigore presso i principali Musei italiani, che disciplinano, per la maggior parte, attività on site senza prevedere periodi prolungati di chiusura al pubblico.
Le proposte della CIA
Il ruolo della CIA è essenziale per conciliare le discrasie tra il DM 244/2019, i Requisiti minimi presentati dal Sistema Museale Nazionale e recepiti a vario modo dalle Regioni, e le indicazioni della Carta delle Professioni Museali elaborata da ICOM (con relativi aggiornamenti).
La CIA propone, in seno alla Commissione Musei e valorizzazione, istituita per tutelare gli archeologi professionisti al lavoro nel settore museale
- Nell’ambito della formazione:
• l’indicazione delle competenze utili alla schedatura dei materiali mobili per il lavoro di tutela e catalogazione finalizzata ad allestimenti temporanei, permanenti e ricognizione patrimoniale nei magazzini di Musei e aree archeologiche. Si tratta di una possibilità di impiego essenziale per i professionisti archeologi, anche come curatori di contenuti destinati alla divulgazione in digitale di collezioni non accessibili, o materiale non esposto conservato in magazzino.
• Incontri/interviste digitali per approfondimenti su sbocchi professionali e impiego dei professionisti archeologi nel settore, anche in collaborazione con ICOM Italia, con la nascente associazione degli educatori museali e con le altre associazioni competenti.
• Proposta di inserire il percorso “curatela e museologia” tra gli insegnamenti fondamentali nel percorso di laurea triennale o magistrale, con approfondimenti legati alla “comunicazione accessibile” del patrimonio museale. Si segnala anche la necessità, visto il crescente impiego di
archeologi in attività di divulgazione online e onsite, di completare il percorso formativo di base anche con competenze legate alla mediazione culturale.
e, in collaborazione con la Commissione Formazione
• un aggiornamento della definizione dei settori scientifico-disciplinari, dei settori concorsuali e dei macrosettori concorsuali in modo tale da dare accesso agli archeologi ai settori sinora non accessibili;
• una nuova definizione dei criteri identificanti il carattere scientifico delle ubblicazioni, ai sensi dell'art. 3 ter, comma 2, della L. 9 gennaio 2009, n. 1;
Nell’ambito delle modalità di impiego:
● Proporre alla DGMU un approfondimento su ruoli, figure professionali e corrispondenza a titoli ed esperienze in seno al processo di definizione del Sistema Museale Nazionale
● Revisione dei contratti di concessione con indicazione del servizio minimo da garantire in caso di chiusura al pubblico per causa di forza maggiore, tenendo conto di eventuali proroghe relative alla durata delle concessioni, in modo da recuperare le ore lavorative perse sia per i concessionari che per gli operatori museali in questi ultimi 12 mesi (proroghe che sono già state emanate per quello che riguarda ad esempio la concessione degli impianti sportivi).
● Redazione di un documento da parte di CIA, da trasmettere alle diverse Amministrazioni locali che hanno in capo musei, con raccomandazioni e informazioni inerenti il quadro attuale e la necessità di raccordo tra ruoli e professionisti coinvolti nella gestione e nelle attività museali, con riferimento al DM 244/2019 e alle raccomandazioni ICOM, adeguamento normativo dei bandi su territorio italiano. L’obiettivo è sanare aporia tra teoria legislativa e applicazione pratica ai diversi livelli di autonomia locale; rischio ulteriore entropia con ricorso ad autonomia differenziata.
● Necessità di estensione del documento elaborato in Sicilia riguardo la Carta di Catania, a livello nazionale, in particolare per la cessione del materiale nei magazzini; condivisione del documento al Tavolo delle Associazioni.
● Risulta inoltre indispensabile ragionare non solo in ottica museale, ma in senso più ampio come MAB (Musei, archivi e biblioteche) e collaborare non solo con ICOM, ma anche con le ANAI e AIB, per creare una sinergia e avere un quadro più ampio e sfaccettato di tutte le possibili attività, ruoli e competenze che può avere un archeologo al lavoro nei Luoghi della Cultura così come nei Musei locali.
● Attivare un tavolo su depositi e magazzini
● Attivare commissioni CIA su volontariato, commissione formazione, commissione legislativa. Commissione ICOM Museologia, DGMU e DG XXXX.
EUROPA
Negli ultimi 28 anni, l’archeologia europea, come si è più volte detto e scritto, è stata quasi integralmente associata, almeno per ciò che riguarda l’archeologia commerciale, alla Convenzione di Malta del 1992, che ha ispirato e instradato la legislazione sulla tutela dei Beni Archeologici in tutto il Continente.
Dopo quasi un trentennio, però, l’analisi dei benefici e delle conseguenze portate da questa convenzione, elaborate a livello europeo in decine di conferenze, seminari e dibattiti (si faccia riferimento, almeno, alle conferenze annuali organizzate dall’Europa e Archaeologiae Consortium, EAC, liberamente scaricabili dalla rete all’indirizzo xxx.xxxxxxx-xxxxxxxxxxxxx-xxxxxxxxx.xxx), ha portato quasi tutti gli studiosi del fenomeno (molti dei quali sono stati tra gli autori materiali della Convenzione del 1992) a ritenere che essa abbia bisogno di un aggiornamento.
Mentre, però, gli altri paesi europei, spesso con più soggetti, partecipano a questo dibattito europeo nelle varie sedi in cui questo è affrontato (e ribadiamo la centralità dell’EAC in questo processo), la voce dell’Italia è scarsamente rappresentata, sicuramente non dalle nostre istituzioni, Accademia e MiC sono semplicemente assenti in questo dibattito, ma debolmente anche dalle associazioni professionali.
Un impegno dell’associazione sarà quello di provare a sollevare tale dibattito nel nostro Paese, stimolando anche il Ministero della Cultura a prendere parte in maniera attiva a quel dibattito nei contesti internazionali in cui questo avviene, sviluppando, nel contempo, una capacità analitica e elaborativa che consenta di rappresentare con voce credibile la posizione dell’Italia.
Il dibattito sull’archeologia preventiva, però, non esaurisce le tematiche che l’associazione può o deve affrontare al livello europeo: la nostra presenza in quei contesti ci aiuterà a sviluppare una maggiore consapevolezza su molteplici aspetti della professione e della disciplina.
Per canto nostro abbiamo scelto già da anni l’affiliazione e la presenza nell’EAA, all’interno della quale molti nostri soci, partecipano alle diverse communities: quella delle associazioni professionali europee, quella di DISCO, quella sulla formazione, alcune di archeologia pubblica. In questo senso, il passaggio successivo sarà rappresentato dal diventare ben presto un affiliate organization dell’EAA (xxxxx://xxx.x-x- x.xxx/XXX/Xxxxxxxxxxx/XXX_Xxxxxxxxx_Xxxxxxxxxxxxx/XXX/Xxxxxxxxxx_Xxxxxxxxxxx/XXX_Xxxxxxxxx_Xxxxxxx ations.aspx?hkey=9de239ae-62a3-41b7-a1a3-c4e7bbf81709). Lo sviluppo della nostra presenza nel panorama europeo servirà, inoltre, a mantenere e sviluppare il network di rapporti che già oggi ci hanno consentito non solo il riconoscimento generale (che per esempio ci ha portato a partecipare alle iniziative delle singole associazioni, come Cifa) ma anche di portare avanti progetti, come DISCO o DOVTA, che hanno contribuito a migliorare le nostre capacità di analisi e di intervento sui singoli temi che ci riguardano.
VOLONTARIATO
Volontari ed Indagini Archeologiche
Premesse
Le recenti evoluzioni normative hanno valorizzato il ruolo e la preminenza degli archeologi professionisti negli scavi archeologici. In particolare l’Art. 9 Bis del Dlgs 42/2004 (introdotto al seguito dell’Art. 1 Legge 110/2014) affida la responsabilità e l’attuazione degli “interventi operativi di tutela, protezione e conservazione dei beni culturali nonché quelli relativi alla valorizzazione e alla fruizione dei beni stessi” ai professionisti qualificati, nel pieno rispetto della “Convenzione europea per la salvaguardia del patrimonio archeologico" del Consiglio d'Europa (La Valletta, 16/01/1992) ratificata dal parlamento italiano con la Legge n.57 del 29 aprile 2015.
Inoltre, a questo proposito la Circolare Ministeriale n.4 del 2019 in materia di “concessioni di ricerche e scavi archeologici” a pag. 4 recita “…è esclusa la possibilità che allo scavo possano partecipare soggetti diversi da laureati o studenti universitari in discipline archeologiche o affini o integrative … dovendosi la loro eventuale collaborazione, qualora conseguente ad accordi formalizzati, riservare ad attività collaterali allo scavo od alla assistenza allo stesso scopo didattico”.
Tale normativa ha il pregio di aver sostanzialmente ridotto gli abusi perpetrati da associazioni di volontariato di natura poco limpida e, sostanzialmente, ha il merito di proteggere gli interessi degli archeologi professionisti.
La succitata normativa pone però un problema rispetto ad un altro dato: la presenza storica sul territorio nazionale italiano di associazioni strutturate di volontariato che per decenni hanno operato in scavi archeologici eseguiti tramite accordi formalizzati e sotto la direzione delle locali Soprintendenze. Tali associazioni hanno inoltre spesso ingaggiato archeologi professionisti per il coordinamento, la documentazione e l’esecuzione degli scavi, creando quindi opportunità di lavoro per i professionisti stessi. Questo è ancora più vero per quelle associazioni di volontariato di natura non occasionale, ma che hanno carattere nazionale e che quindi, per i loro stessi statuti, sono soggette a controlli e a regolamentazioni. È importante far notare come, anche considerando questa lunga tradizione di associazionismo di natura archeologica, le normative attuali non prevedano più un coinvolgimento diretto dei volontari nelle attività di scavo, a differenza di quanto era costume fino a pochi anni fa.
Tali associazioni hanno spesso avuto un ruolo essenziale per la tutela, non tanto magari per i siti maggiori e più conosciuti, quanto piuttosto per i piccoli centri e nei territori meno urbanizzati dove le Soprintendenze hanno maggiori difficoltà ad agire, specie in considerazione delle ben note condizioni logistiche ed economiche in cui la maggior parte degli uffici periferici del ministero si trova oggi. A questo proposito si
noti come spesso tali associazioni di volontariato abbiano una capacità di attrarre donazioni e fondi privati che manca alle Soprintendenze, e questo grazie al radicamento nel territorio.
Ovviamente non si può volere che i volontari si sostituiscano in alcun modo agli archeologi professionisti, ma si deve tentare di arrivare a una normativa che in qualche modo rispecchi, non solo le giuste indicazioni della convenzione della Valletta sul ruolo dei professionisti, ma anche lo spirito degli accordi di Faro, atti a potenziare la partecipazione dei cittadini all’eredità culturale. In questo senso, si noti bene come numerosi archeologi professionisti oggi in attività abbiano iniziato il proprio percorso di studi proprio perché ispirati da varie associazioni di volontariato (ad esempio i Gruppi Archeologici o gli Archeoclub) che li hanno coinvolti in giovane età in attività di scavo.
Si ricordi inoltre come all’estero (ad esempio in Gran Bretagna) l’impiego di volontari negli scavi è pratica molto più diffusa e regolamentata. In Italia, al contrario, il volontariato poco regolamentato è stato troppo spesso un problema per il lavoro degli archeologi professionisti, mentre varrebbe la pena di cercare di trasformare il problema in un’opportunità di lavoro per gli archeologi stessi. Al contempo, cercare di normare e potenziare il coinvolgimento responsabile delle associazioni di volontariato negli scavi archeologici può avere come effetto una più piena e consapevole partecipazione della cittadinanza ai beni culturali, che potrebbe anche potenzialmente esprimersi tramite forme di partecipazione alla valorizzazione dei beni del proprio territorio.
Per tale ragione chiediamo
Al fine di perfezionare il ruolo dei volontari sugli scavi si avanzano le seguenti proposte.
● La formazione di un elenco di associazioni di volontariato accreditate presso il MIC. L’iscrizione in tale elenco potrebbe essere il requisito fondamentale per l’accesso agli scavi da parte di un’associazione di volontari. I requisiti di ingresso in tale elenco devono essere concordati con il MIC ma dovrebbero contenere come minimo l’impegno a non eseguire alcuna attività che possa entrare in conflitto/competizione con le attività dei professionisti e/o l’obbligo ad ingaggiare archeologi professionisti tramite regolare contratto lavorativo.
● L’impiego di volontari deve essere limitato solo e soltanto agli scavi programmati di siti specifici, nell’ambito di chiari accordi di programma formalizzati con il MIC e direttamente sotto la direzione scientifica dei funzionari archeologi delle competenti Soprintendenze locali. I volontari non dovrebbero essere impiegati in attività di scavo normali dei professionisti connesse ad operazioni tipiche della professione quali l’assistenza archeologica alle opere.
● I volontari non devono operare in alcun modo sugli scavi archeologici senza la presenza costante in cantiere di almeno un archeologo professionista di I Fascia (riconosciuto ai sensi della Legge 110/2014 e DM 244/2019) con il compito specifico di coordinare e documentare gli scavi. Inoltre il numero di archeologi di fascia anche inferiore presenti sullo scavo ed il cui scopo è supportare i volontari nelle operazioni deve essere congruo e ragionevole: ad esempio almeno un archeologo ogni 2-3 volontari presenti ed attivi sullo scavo.
● Le associazioni di volontariato dovrebbero essere obbligate per legge ad ingaggiare con regolare contratto remunerato tali archeologi, al fine di evitare possibili abusi del reale ruolo del volontariato rispetto a quello degli archeologi professionisti.
● I volontari non dovrebbero essere impiegati negli scavi per compiere attività tipiche dell’Archeologo Professionista ma, al massimo, essere ingaggiati per operazioni che rientrano in quelle normalmente svolte da operai, ma solo e soltanto sotto la direzione stretta di archeologi professionisti presenti in cantiere; ovvero, dare ai volontari la possibilità di svolgere un ruolo suppletivo quale forza lavoro, ma mai sostitutivo di quello dell’archeologo professionista.
● I volontari impiegati negli scavi archeologi dovrebbero essere coperti da regolari assicurazioni.
● Inoltre le associazioni di volontariato stesse dovrebbero essere obbligate ad avere un ruolo attivo nella ricerca di fondi, sempre nei limiti di legge e sotto l’assoluta autorità e coordinamento delle competenti Soprintendenze, per le necessarie attività che seguono lo scavo (ad esempio cercare finanziamenti per le attività di restauro e/o messa in sicurezza dei beni archeologici sottoposti ad indagine). A questo proposito sarebbe d’auspicio che, già a livello di accordi di programma con le Soprintendenze che autorizzano le indagini, le associazioni siano attivamente coinvolte in forme di valorizzazione a livello locale di quanto rinvenuto negli scavi, sempre sotto l’autorità delle competenti Soprintendenze ed impiegando anche professionisti qualificati (in forme grossomodo simili a quanto proposto per gli scavi), al fine di poter favorire la partecipazione culturale dei territori.
● Si potrebbe inoltre pensare a regolamentare (con o senza specifici accordi formalizzati con Università) la presenza di eventuali studenti universitari di archeologia negli scavi archeologici delle associazioni di volontariato in aggiunta (e non in sostituzione) del numero di archeologi professionisti minimo sopra indicato, fermo rimanendo l’obbligo alla copertura assicurativa degli studenti presenti sullo scavo. In questa maniera si potrebbe avere una soluzione anche al problema concreto della formazione degli archeologi, ovvero il fatto che le Università Italiane oggi non offrano possibilità di maturare esperienze concrete di attività archeologiche sul campo in quantità sufficiente da permettere ai neolaureati di triennale di essere riconosciuti almeno come Archeologi
di III Fascia, ai sensi dei requisiti previsti nel DM 244/2019. Le esperienze di scavo con i volontari non sarebbero sostitutive rispetto a quanto offrono le Università, ma potrebbero essere per gli studenti una maniera per completare quanto manca al loro curriculum in termini di esperienza sul campo.
Volontari e musei
Sempre in collegamento con l’art.9 Bis del Dlgs 42/2004 che affida ai professionisti anche gli interventi relativi alla valorizzazione e fruizione dei beni, è giusto inoltre far notare come, soprattutto negli ultimi anni, abbia preso piede la consuetudine di affidare la gestione delle visite guidate e dei laboratori didattici nei musei archeologici ad associazioni di volontari di varia natura (da quelle strutturate a livello nazionale, come Archeoclub e Gruppi Archeologici, a quelle molto più occasionali, di natura locale e meno controllate), con la conseguente sostituzione dei professionisti che vedono diminuire sempre di più le possibilità di un lavoro retribuito all’interno dei musei e con il conseguente abbassamento della qualità dell’offerta formativa. Le nozioni trasmesse da un archeologo professionista ad adulti e bambini durante una visita guidata o un laboratorio non possono essere paragonate a quelle trasmesse dal volontario, talvolta anche errate. Come negli scavi archeologici così nei musei il volontario non può sostituire del tutto il professionista ma eventualmente affiancarlo. Al contempo è doveroso però ricordare come in molte realtà, soprattutto in quelle più piccole di provincia e nei territori lontani dalle grandi città, molti musei e siti archeologici restano aperti soltanto grazie all’opera delle associazioni di volontariato che spesso agiscono in condizioni di totale mancanza di fondi, e nelle quali condizioni è a volte difficile coinvolgere professionisti retribuiti. Senza l’opera di tali volontari numerose realtà potrebbero rimanere inaccessibili. Sono infatti le piccole realtà che formano gran parte del patrimonio culturale diffuso in Italia ad essere quelle più spesso dimenticate nella retribuzione dei fondi pubblici. In tali condizioni non è possibile solo puntare il dito contro le associazioni di volontariato, ma al contempo è necessario che i membri delle stesse associazioni possano ricevere una piena formazione da parte di professionisti, sempre e comunque sotto l’egida delle competenti soprintendenze.
In situazione ideali i volontari dovrebbero limitarsi a mere azioni di “Portineria” e cura generale dei siti e/o dei musei. Si capisce però come in tante situazioni concrete i volontari che accolgono i visitatori si trovano nella necessità di dare alcune informazioni di base sui siti o musei visitati. In questo senso i professionisti della cultura dovrebbero essere comunque coinvolti nelle attività di fruizione, fossero anche di natura occasionale.
Per tali ragioni chiediamo
● La regolamentazione del ruolo dei volontari nei musei archeologici ed un maggiore coinvolgimento dei professionisti nelle loro attività e/o nella loro formazione.
Tutela del patrimonio culturale ed uso illecito del metal detector
Negli ultimi anni stiamo assistendo al dilagante e preoccupante fenomeno dell’utilizzo, pressoché indiscriminato, del metal detector su tutto il territorio nazionale. Questa pratica, sollecitata anche da trasmissione televisive, sta portando a un incremento di azioni che poco possono essere conciliate con la normativa vigente in materia di tutela del patrimonio culturale. L’utilizzo di rilevatori di metalli, infatti, in un territorio ricco di testimonianze sepolte quale è l’Italia, rischia, a nostro parere, sia di compromettere irrimediabilmente la salvaguardia di potenziali contesti archeologici, sia di favorire l’acquisizione illecita e la compravendita sul mercato nero di elementi che potrebbero rientrare all’interno della lista dei soggetti sottoposto a tutela da parte del nostro Codice dei BCP. Inoltre, queste attività vengono spesso illecitamente svolte anche in aree protette, parchi, riserve, sottoposte a regimi di tutela ambientale, anche integrale.
per tale ragione chiediamo
● Una maggior attenzione da parte delle Soprintendenze tutte in merito al problema, con la pubblicazione di una circolare uniforme che specifichi divieti, obblighi e doveri del cittadino in materia di utilizzo illecito del metal detector con distinzione tra rinvenimento fortuito e comportamenti preterintenzionali (uso del metal detector) conseguentemente soggetti a sanzione.
● Un allargamento delle aree sottoposte a tutela, nelle quali non sia consentito l’utilizzo del metal detector a fini ludici, che comprenda non solo i parchi archeologici e le zone sottoposte a vincolo diretto da parte del Ministero, ma anche tutte quelle circoscrizioni ad alto e medio rischio, nonché potenziale archeologico elevato, ove si sia a conoscenza di rinvenimenti occasionali, fortuiti e non.
● Una pubblicità progresso finalizzata all'educazione della popolazione in materia di ricerca e scavo illecito nelle aree sottoposte a tutela ed alla detenzione illegittima di materiale archeologico di proprietà dello stato.
● Un costante aggiornamento delle forze dell’ordine locali da parte del Nucleo Tutela dei Carabinieri che garantisca azioni tempestive mirate alla salvaguardia del patrimonio sepolto, anche per quelle aree solo segnalate e non sottoposte a vincoli specifici.
● Una rivalutazione della Deliberazione della Giunta Regionale del Veneto n 952 del 5 giugno 2012 che costituisce, a nostro parere, una violazione del Codice dei BCP.
EVOLUZIONE LEGISLATIVA
L’esigenza di discutere ancora di archeologia preventiva nasce dalla constatazione che ancora troppo spesso l’utilità di questo strumento non è chiara ai più, specialmente a coloro che, occupando posti di potere, pensano che limitarne l’applicazione, possa favorire lo sviluppo economico del Paese. Chi afferma ciò, però, dimostra di non aver affatto capito la ratio di questo provvedimento che ha invece lo scopo di intervenire prima che i lavori abbiano inizio, in fase di progettazione di fattibilità, dando quindi la possibilità di modificare eventualmente i progetti senza un ulteriore aggravio di costi per la committenza conseguenti alla necessità di rivedere i progetti in corso d’opera.
L’articolo 25 del Codice degli Appalti discende dal principio indicato dall’articolo 9 della Costituzione Italiana, che indica come interesse prioritario della Nazione la tutela del patrimonio archeologico, e dalla Convenzione Internazionale per la Protezione del Patrimonio Archeologico firmata a La Valletta nel 1992 e ratificata dall’Italia nel 2015.
Noi riteniamo invece che questo strumento debba essere implementato. Infatti, nel documento di proposte che la Confederazione Italiana Archeologi ha presentato per la ripresa dell’economia post Covid19 si propone di destinare il credito di imposta nella stessa misura di quello disposto dal decreto “Art Bonus” (DL 83/2014), precisando che anche l’archeologia preventiva è un mezzo di protezione dei beni culturali come sottolineato dall’art. 29 del Codice e consentendo di poter ammortizzare le spese sostenute per la Valutazione di Impatto Archeologico e per l’assistenza in corso d’opera. Istituire un sistema di detrazioni fiscali per il privato che sostenga spese per le operazioni di archeologia preventiva o di assistenza archeologica creerebbe una serie di esternalità positive:
✓ Il privato avrebbe un ritorno economico e sarebbe quindi invogliato a ricorrere maggiormente a queste pratiche
✓ Aumenterebbe conseguentemente la richiesta di tali prestazioni professionali
✓ Essendo gli archeologi per la maggior parte liberi professionisti aumenterebbero considerevolmente gli introiti sia per l’erario sia per l’Inps
✓ Diminuirebbero le opere di distruzione e danneggiamento del nostro patrimonio archeologico
✓ Si creerebbe maggiore cultura della tutela.
Un’altra proposta riguarda l’incremento del contributo economico base per la ricostruzione post sismica per i privati con cantieri ricadenti in area di interesse archeologico. Vista l’eccezionalità della tipologia dei lavori connessi alla ricostruzione dopo eventi sismici, riteniamo che il corretto principio del polluters pay,
previsto anche dai principi della Convenzione per la salvaguardia del patrimonio archeologico firmata a La Valletta nel 1992 e ratificato dall’Italia nel 2015, ovvero degli oneri a carico di colui che costruisce, non sia applicabile al contesto.
Per questo, chiediamo che venga predisposto un fondo cui possano accedere tutti i proprietari che, nelle operazioni di demolizione e ricostruzione delle abitazioni abbattute o danneggiate da un evento sismico, abbiano l’assistenza archeologica ai lavori tra le prescrizioni per la prosecuzione dei lavori.
Il secondo argomento in analisi riguarda la situazione della legislazione di ambito nella Regione Sicilia.
A quarant’anni dalla sua istituzione, il sistema regionale di tutela in Sicilia attraversa una grave crisi che appare essere irreversibile. La cosiddetta Carta di Catania e i decreti emanati dall’assessore regionale al ramo, alla fine dello scorso anno, che danno avvio ad un grande piano di “dismissione” ai privati del patrimonio culturale conservato nei Musei di tutta l’Isola, costituiscono solo l’ultimo atto di una lunga crisi dell’amministrazione regionale dei beni culturali e, paradossalmente, ne rappresentano l’ammissione di colpa da parte dell’esecutivo politico.
I problemi attuali non derivano dalle norme regionali con cui vennero istituite le Soprintendenze territoriali unificate e il ruolo tecnico del personale regionale dei beni culturali (leggi regionali n. 80/1977 e
n. 116/1980), ma dalla loro mancata attuazione e continua disapplicazione.
La Corte Costituzionale ha più volte ribadito che, secondo il principio fondamentale posto dall’articolo 9 della Costituzione, la tutela dei beni culturali e del paesaggio costituisce un interesse costituzionale primario e assoluto che deve essere garantito su tutto il territorio nazionale.
L’autonomia speciale della Regione Siciliana in materia di paesaggio e patrimonio culturale, sancita dall’articolo 14 dello Statuto del 1946, convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948 n. 2, deve collocarsi, quindi all’interno del quadro normativo nazionale di tutela.
La potestà legislativa regionale, infatti, venne rese effettiva solo nel 1975, tramite i decreti di attuazione n. 635 e 637 del Presidente della Repubblica, tramite cui vennero trasferite alla Regione Siciliana le Biblioteche e le Soprintendenze statali, insieme ai compiti costituzionali discendenti dall’applicazione della normativa nazionale di tutela, oggi unificata nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, approvato con Decreto Legislativo n. 42/2004.
Purtroppo, il modello siciliano di tutela pluridisciplinare è stato lentamente snaturato, svuotandolo proprio di quelle competenze scientifiche che ne dovevano essere il motore, pur essendo stati reclutati negli Enti di tutela, tramite il concorso per i ruoli tecnici dei beni culturali del 2000, un centinaio di archeologi e storici dell’arte, che, però, vengono tenuti privi di ruolo professionale e responsabilità direttive.
Il combinato disposto di assunzioni senza concorso dei tecnici della sanatoria edilizia negli anni ‘90, e l’istituzione del “ruolo unico della dirigenza”, a seguito della L.r. 10/2000, ha prodotto un grave esubero del personale dirigenziale della Regione Siciliana. Per questo motivo da vent’anni è invalsa la prassi, tutta siciliana, di affidare ai dirigenti regionali, a prescindere dai requisiti professionali richiesti dalle leggi regionali e nazionali, anche tutti i ruoli non dirigenziali riservati nello Stato ai funzionari direttivi, quali la direzione di Musei ed aree archeologiche.
Ogni due o tre anni, l’esecutivo regionale nomina circa duecento dirigenti in tutte le postazioni dirigenziali e non dirigenziali dei beni culturali, attingendo dai dipartimenti più vari, senza il necessario rispetto dei titoli che sarebbero richiesti dalle leggi nazionali e regionali per i professionisti dei beni culturali. Si tratta di un turnover incessante che ha creato un effetto “porte scorrevoli”, tramite il quale è ormai normale che agronomi dirigano Musei archeologici, geologi Gallerie d’arte e architetti x xxxxxxxxx Biblioteche regionali. Oggi la grande maggioranza dei 14 Parchi archeologici siciliani e delle sezioni archeologiche e storico artistiche delle Soprintendenze è diretta da architetti, come si vede dall’organigramma che si allega al presente documento. Si può concludere affermando che nel territorio della Regione Siciliana non sono più garantite le condizioni amministrative per assicurare l’esercizio efficace dell’azione istituzionale di tutela del patrimonio culturale prescritto dal dettato costituzionale: mancano infatti sia la necessaria specificità professionale dei ruoli direttivi e dirigenziali negli Istituti regionali di tutela dei beni culturali, sia la loro separatezza dall’esecutivo politico. Occorre ripristinare l’unitarietà giuridica del sistema di tutela su tutto il territorio nazionale e restituire la dignità del proprio ruolo pubblico ai professionisti dei beni culturali in servizio presso le Istituzioni di tutela dell’Isola, attualmente privati del riconoscimento dei profili professionali e delle mansioni direttive analoghe a quelle dei funzionari archeologi statali di pari grado. L’assoluta mancanza di un ordinamento dei profili professionali dei ruoli dirigenziali e direttivi dell’amministrazione regionale siciliana dei beni culturali impedisce l’indizione di concorsi regolari per i dirigenti e funzionari archeologi (l’ultimo concorso è stato bandito nel 2000) e nuoce gravemente al riconoscimento dei professionisti archeologi esterni all’amministrazione, per i quali mancano possibilità occupazionali a causa dell’assenza di progetti archeologici da parte degli Istituti regionali di tutela. Il patrimonio culturale della Nazione conservato nei territori siciliani deve tornare a godere della cura istituzionale che solo Organi tecnico scientifici di tutela dotati di personale con elevate competenze professionali specialistiche e di adeguati investimenti pubblici possono assicurare. In considerazione della grave situazione dei Beni Culturali in Sicilia qui solo brevemente illustrata, la CIA chiede alle altre associazioni di categoria e alle Consulte universitarie riunite nel Tavolo nazionale un chiaro pronunciamento a difesa del valore “nazionale” del patrimonio culturale conservato in Sicilia e del rispetto dell’ordinamento professionale dei beni culturali sancito dall’art. 9bis del Codice e dal DM 244/2019. Si chiede quindi un
intervento unitario del Tavolo nazionale nei confronti del MIC e della Regione Siciliana per il ripristino nell’amministrazione regionale dei beni culturali dei ruoli professionali specialistici, quali la figura dell’archeologo secondo quanto già previsto dai profili professionali del Ministero.
In queste poche pagine speriamo di aver reso evidente lo spirito che anima la nostra associazione: evidenziare i problemi e proporre delle soluzioni.
I parametri di compenso per gli archeologi nei Lavori Pubblici
Il decreto parametri è stato introdotto col DM 140/2012 (riforma dei compensi professionali), seguito dal DM 143/2013 che definiva i corrispettivi da porre a base di gara nelle procedure di affidamento di contratti pubblici dei servizi relativi all’architettura e all’ingegneria. In ultimo, il nuovo Codice Appalti prevedeva la possibilità opzionale dell’utilizzo delle tabelle del suddetto DM 17 giugno 2016; a seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. 56/2017 (Correttivo Codice appalti) viene stabilito l’obbligo di utilizzo delle suddette tabelle per il calcolo dei corrispettivi professionali nei lavori pubblici.
Il coefficiente per calcolare il compenso dell’Archeologo risulta pari a 0.015. Sviluppando un calcolo esemplificativo con un ipotetico importo di lavori – 1.000.000 di euro - all’archeologo toccherebbero 1300 euro, calcolati solo sulla base del coefficiente, quindi indipendentemente dalla quantità e dalla qualità del lavoro svolto (art. 36 della Costituzione), ovvero che si tratti di Viarch, saggi preventivi, ecc., e indipendentemente da durata, estensione dei lavori, ecc.
Le tabelle ministeriali sono il punto di partenza di ogni determinazione sui corrispettivi dovuti ai professionisti evitando così che le stazioni appaltanti possano procedere a determinazioni dei corrispettivi professionali in via forfettaria. La norma del Codice Appalti è chiara nell'imporre alle stazioni appaltanti di utilizzare i corrispettivi previsti dalle tabelle ministeriali solo quale parametro iniziale del calcolo del compenso da porre a base di gara, con possibilità di apportare riduzioni percentuali giustificate dalle ragioni che esse potranno discrezionalmente sviluppare. Quindi, in definitiva, i corrispettivi del DM Parametri non costituiscono "minimi tariffari inderogabili" e possono essere soggetti a ribassabilità.
Rapportando il discorso al già esiguo compenso riservato agli archeologi sulla base dell’indice di calcolo, è ancor più evidente la necessità di perseguire strade per l’ottenimento urgente di una revisione dell’indice di calcolo che lo elevi a un valore realistico e dignitoso.
Chiudiamo con la proposta di organizzare una giornata per parlare di questi temi specifici, in cui parleremo di queste proposte e ne presenteremo di nuove.