LA POLITICA DEI DIVIDENDI E IL VALORE DELL’IMPRESA
Dipartimento di Impresa e Management Cattedra: Finanza Aziendale
LA POLITICA DEI DIVIDENDI E IL VALORE DELL’IMPRESA
RELATORE
Xxxx. Xxxxxxxx Xxxxxx
CANDIDATO Xxxxxx Xxxxxxxx
MATR. 186031
ANNO ACCADEMICO
2015/2016
INDICE
INTRODUZIONE
CAPITOLO 1
LA POLITICA DEI DIVIDENDI: LA TEORIA DI XXXXXXXXXX E XXXXXX
1.1 I dividendi: che cosa sono e come vengono distribuiti
1.2 I dividendi e il valore dell’impresa
1.2.1 La Teoria di M&M: ipotesi del modello
1.2.2 L’Irrilevanza dell politica dei dividendi
1.2.3 La politica dei dividendi in condizioni di incertezza
1.2.4 Le imperfezioni del mercato: implicazioni sul modello
1.3 Limiti
CAPITOLO 2
FATTORI SOTTOSTANTI LA SCELTA DI DISTRIBUZIONE DEI DIVIDENDI
2.1 La politica dei dividendi e le imposte
2.2 Il ciclo di vita dell’impresa e le opportunità di investimento
2.3 L’importanza dell’assetto azionario
2.4 Il ruolo della Corporate Governance: conflitto di interesse e problema di agenzia “azionista vs. manager”
2.5 Le aspettative in merito agli utili futuri
2.6 Atteggiamento dei manager in merito alle decisioni di Payout: il ruolo dell’overconfidence e la propensione al rischio
2.7 Il comportamento delle imprese concorrenti
CAPITOLO 3
LA POLITICA DEI DIVIDENDI DEL SETTORE TECNOLOGICO: “MICROSOFT” ED “APPLE”
3.1 Microsoft: Cenni storici
3.2 Da “un’imbarazzante tesaurizzazione” ad una delle più grandi distribuzioni di denaro
3.2.1 La disponibilità di risorse liquide
3.2.2 La riforma del codice tributario nel 2003
3.2.3 La riduzione delle opportunità di crescita
3.3 Apple: cenni storici
3.3.1 Le ragioni sottostanti la politica di distribuzione degli utili
3.3.2 I riflessi sul prezzo delle azioni
CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA
INTRODUZIONE
Quando si parla di “Politica di Dividendi” si fa generalmente riferimento a scelte che ogni giorno le imprese sono chiamate a fare in merito alla possibilità di queste ultime di distribuire gli utili conseguiti, attraverso il pagamento di un dividendo ai propri azionisti. Essa non esaurisce tutte le forme di distribuzione di utili di un’impresa, ma insieme al riacquisto di azioni proprie (buyback) ne inquadra solo una delle modalità principali. Definire una politica di dividendi per un’ impresa significa innanzitutto trovare una risposta a due quesiti: quanta ricchezza distribuire? E soprattutto: in che misura rispetto al riacquisto di azioni?
I quesiti da cui partiremo, tuttavia, nell’analisi che seguirà nei prossimi capitoli saranno di altra natura: si cercherà di capire cosa significa per un’impresa distribuire dividendi, in che modo farlo, i fattori da considerare e quali le implicazioni per tutti gli stackeholders, infine i riflessi sul valore dell’impresa. A questo proposito, il punto di partenza sarà individuato in quella che può essere considerata la pietra miliare della scienza economica in tema di politica dei dividendi, rappresentata dal modello di Xxxxxxxxxx e Xxxxxx (M&M).
L’analisi , quindi troverà fondamento nell’ipotesi dell’irrilevanza della politica dei dividendi (Capitolo 1) mettendo in evidenza punti di forza e di debolezza di tale prospettiva teorica; ci chiederemo quindi in un mercato perfetto,senza imposte e informazione completa se distribuire dividendi è conveniente oppure no. Giungeremo dapprima alla conclusione che, nell’ambito delle ipotesi del modello, la scelta è sostanzialmente ininfluente giacchè il prezzo dell’azione,al momento dello stacco del dividendo viene rettificato del suo valore. Tuttavia il
discorso si arricchirà di ulteriori elementi che porteranno alla valutazione di numerosi fattori (Capitolo 2), nonchè evidenze empiriche che non sono contemplati dalla teoria ma che ne influenzano gli esiti, e che quindi ci indurranno a metterla in discussione.
Ci chiederemo quali saranno le conseguenze per un’impresa nel momento in cui abbandoniamo l’ipotesi dei mercati perfetti, da una prospettiva di analisi esterna; ma si valuteranno anche quegli elementi
, direttamente legati al contesto aziendale interno ( assetto azionario, governance, conflitto di interessi, l’atteggiamento e le preferenze di rischio del management,il ruolo dell’overconfidence), al fine di capire in che misura esse incidono sulle decisioni di payout e di conseguenza sul valore dell’impresa.
A supporto delle elaborazioni teoriche che saranno presentate e all’evidenze a cui si farà riferimento, concluderemo l’analisi (Capitolo 3) proponendo i case studies di due imprese del settore tecnologico, Apple e Microsoft che sono state accomunate da una linea di condotta analoga in termini di distribuzione degli utili, quand’anche in momenti e contesti differenti.
Saranno, dunque, esaminate le caratteristiche principali delle loro politiche di distribuzione e saranno indagati i moventi delle loro condotte, in relazione con i quei fattori sopra citati che troveranno esemplificazione nel corso del Capitolo 2.
L’obiettivo che ci proponiamo è capire come le imprese prendono le loro decisioni di payout, quali gli elementi che tengono in considerazione, quanto la teoria è utile in questo processo e il riflesso che tutto ciò ha sul valore complessivo dell’impresa.
CAPITOLO 1
LA POLITICA DEI DIVIDENDI: LA TEORIA DI XXXXXXXXXX E XXXXXX
1.1 I DIVIDENDI: COSA SONO E COME VENGONO DITRIBUITI
Per dividendo si intende generalmente un pagamento che viene effettuato agli azionisti di un’impresa; si tratta quindi un’erogazione di utili conseguiti in un particolare esercizio e che in virtù di un’attenta valutazione, l’impresa decide di distribuire.
Si può dunque comprendere che si tratta di una mera possibilità, in quanto l’impresa potrebbe altresì stabilire di non erogare dividendi, per cogliere opportunità di investimento particolarmente redditizie, ovvero sanare perdite pregresse, oppure ancora far fronte ad esigenze di liquidità di vario genere.
Tradizionalmente i dividendi vengono distinti in due categorie:
dividendi ordinari e dividendi straordinari.
Gli aggettivi che vengono usati per descrivere tali categorie fanno riferimento alla capacità dell’impresa di poter garantire nel lungo termine il pagamento di essi; ciò significa quindi che i dividendi ordinari sono quelli che l’impresa sa con certezza di poter erogare in maniera stabile e duratura ai propri azionisti;
i dividendi straordinari sono invece legati a eventi circostanziati, generalmente irripetibili o comunque non frequentemente, che gli azionisti non possono vedersi erogati con una certa regolarità e che spesso vengono distribuiti per finaziare operazioni di acquisizione.
Si capisce dunque, che la decisione di pagare dividendi sottende una valutazione attenta non solo del contesto aziendale ma anche dell’ambiente esterno; questo perchè alla distribuzione dei dividendi è legata un’informativa, diretta ai principali portatori di interesse dell’impresa, che nel caso dei dividendi ordinari si concretizza nella capacità aziendale di assicurare un dividendo duraturo. A tal proposito, si parla spesso di contenuto informativo dei dividendi1: l’annuncio di un aumento dei dividendi è un segnale avvertito positivamente dagli investitori, che sono consapevoli del fatto che i manager non saranno disposti a modificare le politiche di payout se non credono che esse possano essere effettivamente sostenute.
Gli investitori, che sono interessati alla variazione del tasso di dividendo più che al loro valore assoluto, nutriranno un certo grado di fiducia circa il rialzo degli utili nel futuro; ciò si rifletterà sul prezzo delle azioni, che come è facile aspettarsi subirà un aumento.
Da ciò deriva che l’impresa valuterà un possibile aumento del tasso di dividendo solo quando sarà abbastanza certa di poterlo garantire nel lungo periodo: questo, insieme ad altri fattori di contesto (imposte, assetto azionario, governance, opportunità di investimento, fabbisogno finanziario) rappresenta spesso un deterrente alla distribuzione degli utili in forma di dividendo.
Ancora, la classificazione include dividendi in contante, distribuiti periodicamente (mensilmente, trimestralmente, semestralmente, annualmente) o erogati sotto forma di azioni (stock dividend), in tal caso si parla spesso di aumento gratuito di capitale (in Italia). L’emissione gratuita di nuove azioni, non comporta una modifica del valore delle attività e passività di un’impresa e di conseguenza anche il valore dell’equity azionario resta immutato. Ciò che varia è solo il numero di azioni in circolazione, che essendo maggiore determinerà
1 “Politica dei Dividendi”; Principi di Finanza Aziendale, R.A. Xxxxxx, S.C. Xxxxxx, X. Xxxxx, X. Xxxxxx.
una diminuzione del loro prezzo, giacchè il valore complessivo è diviso su un numero di azioni più grande.
Per le società di capitali, in relazione ai dividendi ordinari, la decisione viene presa dall’assemblea ordinaria contestualmente all’ approvazione del bilancio d’esercizio ovvero in qualsiasi momento dell’anno; può riguardare gli utili conseguiti ma anche quelli accontonati a riserva. Hanno diritto al dividendo tutti i soci che, alla data di stacco del dividendo, sono intestatari dei titoli azionari presso Monte Titoli. Nello specifico i dividendi saranno pagati a tutti coloro che risulternno registrati entro la data di registrazione.
L’assemblea deve redigere un verbale, soggetto a registrazione presso l’Agenzia delle Entrate, entro i 20 giorni che precedono la delibera assembleare.
Solo gli utili risulatanti da bilancio regolarmente approvato, possono essere distribuiti.
Per i dividendi straordinari, questi possono essere distribuiti se esistono delle riserve liberamente utilizzabili; ciò significa che (ai sensi dell’art. 2433 c.c.) se ci sono state perdite che hanno comportato una riduzione del capitale sociale, gli utili conseguiti nell’ultimo esercizio, non possono essere distribuiti fino a che il capiltale non sia stato reintegrato o ridotto in misura corrispondente alla perdita.
Dal momento che alla distribuzione di dividendi, ed in particolare all’aumento di essi è associato un rialzo delle prezzo delle azioni di un’impresa, è bene chiedersi se la politica dei dividendi ha un qualche effetto sul valore dell’impresa e che influenza eventualmente hanno le decisioni di payout.
Sebbene nella pratica si siano sviluppate diverse correnti di pensiero tra loro contrastanti, assumeremo come punto di partenza l’ipotesi di irrilevanza della politica dei dividendi, prendendo come spunto di analisi la teoria di Xxxxxxxxxx e Xxxxxx (1961) per cui diverse politiche dei dividendi sono tra loro indifferenti.
1.2 I DIVIDENDI E IL VALORE DELL’IMPRESA
Come precedentemente anticipato, la definizione della politica dei dividendi riveste un ruolo significativo per un’impresa, soprattutto se questa ha delle implicazioni sul valore di essa in termini di prezzo delle azioni e questo non soltanto in riferimento agli azionisti che primi tra tutti trovano beneficio da una generosa erogazione di dividendi, ma anche per gli investitori, che devono operare le loro scelte di portafoglio in funzione proprio di tale valore, e per gli economisti che tentano di stimare le relazioni esistenti tra queste variabili: dividendi e valore dell’impresa.
Una cospicua letteratura si è cimentata nel tentativo di fornire una chiave di lettura univoca del problema, soprattutto in termini di definizione di una politica di dividendi ottimale, che massimizzi cioè il valore dell’impresa. L’obiettivo di tale analisi non sarà tuttavia quello di rintracciare tale politica ( il tema ancora oggi rappresenta una delle questioni più spinose della Finanza Aziendale, rimasta per lo più irrisolta), ma semplicemente di mettere in luce che sebbene diverse politiche dei dividendi possono essere tra loro indifferenti, (come M&M stesso ci suggeriscono) in realtà le imprese non fanno scelte di certo dettate dal caso; questo in qualche modo significa che, anche nell’ipotesi di validità della tesi dell’irrilevanza, la politica dei dividendi si allinea agli obiettivi e alle caratteristiche aziendali, motivo per cui ha un impatto più o meno significativo sulla realtà aziendale.
1.2.1 LA TEORIA DI M&M: IPOTESI DEL MODELLO
Abbiamo fatto più volte riferimento alla teoria dell’irrilevanza proposta da Xxxxxxxxxx e Xxxxxx, in tema di politica dei dividendi; prima di esaminare nello specifico le implicazioni di tale modello, definiremo le ipotesi su cui esso si poggia dal momento che assumono un’importanza tale da rappresentare un vincolo significativo per la validità del modello. Senza di esse infatti ci si imbatterebbe in molteplici criticità che, di fatto, saranno analizzate ma in sede più opportuna, nel seguito dell’analisi.
Tre, le condizioni che sono state assunte da M&M come punto di partenza nello svolgimento del proprio lavoro: sono partiti dalla considerazione di quello che hanno definito un mercato perfetto, hanno assunto che gli operatori economici agiscano e prendano decisioni sulla base di un comportamento razionale nonchè operino in un contesto privo di incertezza.
Si tratta di termini ampiamenti adoperati nella teoria economica e proprio per questo appare necessario analizzarne nello specifico il significato.
Dunque, quando un mercato di può definire perfetto? Si può sempre ipotizzare di assumere un comportamento razionale? Le condizioni di contesto sono sempre tali da evitare ogni forma di incertezza?
Innanzitutto partiamo dalla definizione di mercato perfetto; M&M nell’articolo che dà forma alla loro teoria2, si riferiscono ad esso nell’accezione di mercato concorrenziale e, in quanto tale, caratterizzato da operatori che per dimensione non hanno la possibilità
2 Dividend Policy, Growth and The Valuation Of Shares; in “The Journal of Business”, X. Xxxxxxxxxx,
M. H. Xxxxxx 1961
di influenzare il meccanismo dei prezzi di mercato con le loro transazioni. Inoltre, le informazioni (sia sui prezzi, che sulle azioni) sono accessibili a tutti senza bisogno di sostenere alcun costo per ottenerle; non ci sono costi di transazione nè imposte che possano riflettersi sugli scambi, ovvero trattamenti fiscali diversi tra distribuzione e ritenzione di utili, pagamento o meno dei dividendi.
Per comportamento razionale, invece si indende l’attitudine degli investitori a massimizzare il valore del proprio investimento e che nel farlo, sono indifferenti rispetto all’erogazione di maggiore ricchezza in forma liquida come può essere il pagamento di un dividendo, ovvero sottoforma di azioni.
Infine le condizioni di certezza, implicano la sicurezza dell’investimento effettuato, in termini di ritorno futuro garantito, motivo per cui non è necessario distinguere, nell’ottica dell’investitore se la fonte del proprio guadagno è rappresentata da un titolo o da azioni. Come suggerito dalla stessa analisi di M&M, considereremo le azioni l’unica forma di strumento finanziario usata dagli investitori per ottenere un rendimento.
1.2.2 L’IRRILEVANZA DELLA POLITICA DEI DIVIDENDI
Chiarite le assunzioni su cui poggia il modello dell’irrilevanza dei dividendi, possiamo farne derivare un principio fondamentale che introduce l’analisi di Xxxxxxxxxx e Xxxxxx: “per un determinato intervallo di tempo, il prezzo di un’azione deve essere tale che il tasso di rendimento su ogni azione resti costante”; il tasso di rendimento in questione è dato dal dividendo più il guadagno in conto capitale
(anche detto Capital Gain), a sua volta definito dal rapporto tra la variazione del prezzo dell’ azione, nell’intervallo considerato,e il prezzo al quale inizialmente si è acquistata la stessa azione.
In formule: 𝝆(t) = 𝐷𝑗(𝑡) + 𝑃𝑗(𝑡+1)−𝑃𝑗(𝑡)
𝑃𝑗(𝑡)
3 (1)
Dove,
𝝆(t) è il prezzo dell’azione (indipendente da j)
Pj(t) rappresenta il prezzo dell’azione dell’impresa j
Dj(t) il dividendo pagato dall’impresa j
t l’intervallo di tempo
Ne deriva che un investitore, titolare di un’azione con un tasso di rendimento più basso, può decidere di incrementare il proprio profitto futuro, vendendo tale azione e con il ricavato comprarne un’ altra che garantisca un ritorno maggiore. La reiterazione di tale meccanismo da parte di più investitori, favorirà l’aumento del prezzo delle azioni più profittevoli e la diminuzione di quelle azioni che offrono un rendimento più basso: tutto ciò finchè il differenziale di rendimento tra queste tipologie di azioni non si annullerà.
Per comprendere come tutto ciò si collega alla politica dei dividendi, può essere utile considerare la formula precedende sostituendo al prezzo dell’azione (P) il valore dell’impresa (V). Questo perchè, espressa in termini di valore dell’impresa, la relazione mette meglio in risalto le possibili modalità attraverso cui la politica dei dividendi può influenzare tale valore, o indistintamente, il prezzo delle azioni di un’impresa, prese singolarmente.
A questo punto, come gli stessi M&M propongono nell’articolo del 1961 che stiamo considerando, otterremmo la seguente espressione:
𝑽 (𝒕) = 𝟏
𝟏+𝝆(𝒕)
[𝑫(𝒕) + 𝒑(𝒕 + 𝟏)𝒏(𝒕)] (2)
= 𝟏
𝟏+𝝆(𝒕)
[𝑫(𝒕) + 𝑽(𝒕 + 𝟏) − 𝒎(𝒕 + 𝟏)𝒑(𝒕 + 𝟏)]4 (3)
Dove,
V(t) è il valore complessivo dell’impresa
𝝆(t) il prezzo dell’azione
D(t) il dividendo
N(t) il numero delle azioni in t
M(t+1) il numero (eventuale) delle azioni vendute al prezzo ex dividend
La relazione (3) mette in evidenza che il valore dell’impresa sarà influenzato da D(t) in modo diretto, ma anche da V(t+1) che rappresenta il nuovo valore di mercato dell’impresa allo stacco del dividendo. Tale nuovo valore si ipotizza, convenzionalmente, che dipenda esclusivamente da eventi futuri e non legati al passato; pertanto essa sarà funzione della futura politica dei dividendi, non di quella attuale (D(t)). Quest’ultima tuttavia fornisce informazioni strumentali, altrimenti indisponibili, alla politica dei dividendi.
Dire che V(t+1) dipende dalla politica dei dividendi futura (D(t+1)) ci permentte inoltre di chiarire meglio (sebbene provvisoriamente) che la
futura politica di distribuzione è già nota per t+1 ed indipendente da D(t) e che V(t+1) sarà indipendente dalla distribuzione corrente ma potrà dipendere dalla politica di distribuzione futura D(t+1) e tutte quelle successive.
Ma tornando a V(t), il valore corrente dell’impresa può infine essere influenzato attraverso il terzo termine della relazione (3) ossia il valore di nuove azioni eventualmente vendute nel periodo agli outsiders:
−𝑚(𝑡 + 1)𝑝(𝑡 + 1).
È proprio da tale osservazione che si origina il problema della politica dei dividendi: i termini che influanzano V(t), nella relazione (3) , presentano segni diversi, motivo per cui avranno effetti diversi sul valore dell’impresa. Quale sarebbe l’impatto se quest’ultima decidesse un aumento di D(t), ovvero di distribuire più cassa agli attuali azionisti, date le sue politiche di investimento? Sarebbe più o meno sufficiente per compensare la quota più bassa del valore finale? Quale strategia attuare per finanziare gli investimenti: far leva sugli utili trattenuti, o aumentare i dividendi correnti ed emettere nuove azioni?
La questione, sebbene limitatamente a questi aspetti, nel modello dell’irrilevanza, trova una risposta immediata in quanto si assume che i due effetti inversi messi in luce dalla (3) si bilanciano perfettamente, così che la politica dei dividendi futura non avrà influenza alcuna sul prezzo in t.
Per dimostrarlo a M&M è bastato esprimere in funzione di D(t), l’espressione m(t+1)p(t+1), che come ricordiamo rappresenta il numero di nuove azioni vendute nel periodo, al prezzo vigente sul mercato dopo lo stacco del dividendo .
Dunque, indicando con I(t) il livello (dato) degli investimenti ( o alternativamente la variazione degli asset detenuti) dell’impresa e con X(t) l’utile netto di periodo:
𝑚(𝑡 + 1)𝑝(𝑡 + 1) = 𝐼(𝑡) − [𝑋(𝑡) − 𝐷(𝑡)]
sostituendo nella (3) si avrà:
1
𝑉(𝑡) = 1 + 𝜌(𝑡) [𝐷(𝑡) + 𝑉(𝑡 + 1) − 𝑚(𝑡 + 1)𝑝(𝑡 + 1)]
1
=
1 + 𝜌(𝑡)
[𝑋(𝑡) − 𝐼(𝑡) + 𝑉(𝑡 + 1)] = 𝑝(𝑡)𝑛(𝑡)
Con l’eliminazione del termine D(t) si può affermare dunque che il valore corrente dell’impresa è indipendente dalle decisioni di payout al tempo t, dal momento che anche V(t+1), p(t) e I(t) per le assunzioni fatte o per definizione sono già indipendenti da D(t).
A questo punto appare semplice estendere il risultato ottenuto, considerando quindi V(t) indipendente anche dalle decisioni future della politica dei dividendi. Tali decisioni future infatti avrebbero un impatto su V(t) solo attraverso l’effetto che potrebbe riflettersi sul valore dell’impresa in t+1.
Tuttavia, ripetendo il percorso logico utilizzato precedentemente, giungeremmo alla conclusione che se V(t+1) è indipendente da D(t+1) anche V(t) sarà a sua volta indipendente da D(t+1). Estendendo il ragionamneto per n periodi, concluderemo che, data la politica degli investimenti di un’impresa, le decisioni di quest’ultima sull’erogazione dei dividendi non avranno alcun effetto nè sul prezzo corrente delle sue azioni, nè sul rendimento totale del suoi azionisti.
1.2.3 LA POLITICA DEI DIVIDENDI IN CONDIZIONI DI INCERTEZZA
Come più volte precisato, la teoria dell’irrilevanza della politica dei dividendi si fonda su un costrutto di ipotesi che limitano la generale applicabilità del modello in un contesto differente da quello prospettato da M&M.
Nello specifico questi ultimi hanno condotto la loro analisi nell’ambito di un mercato perfetto, in condizioni di assoluta certezza sia dal punto di vista delle aspettative degli operatori che vi partecipano, sia per quanto riguarda la capacità degli stessi di soddisfare le loro esigenze informative.
Potrebbe risultare quindi sensato mettere in discussione la validità del modello di M&M in un contesto dominato da un numero indefinito di variabili casuali, che molto spesso sfuggono alla capacità di controllo dell’uomo. Tuttavia, prima di arrivare a confutare la tesi dell’irrilevanza, seguendo l’approccio di M&M ne analizzeremo l’applicabilità in contesti estremamente variabili.
Il punto di partenza sarà sempre la relazione precedentemente analizzata che racchiude il significato di tutto il modello dell’irrilevanza:
1
𝑉(𝑡) = 1 + 𝜌(𝑡) [𝐷(𝑡) + 𝑛(𝑡)𝑝(𝑡 + 1)]
Il passo successivo sarà quello di abbandonare tutte le ipotesi che prima ci avevano condotto a tale espressione, in particolare quelli che precedentemente erano valori considerati esogeni (già dati), ora dovranno essere considerati come variabili casuali dal punto di vista dell’investitore a partire dal periodo t.
L’obiettivo nella prospettiva di M&M è quello di dimostrare che quand’anche le ipotesi supposte a sostegno della tesi dell’irrilevanza
vengano meno, quindi in condizioni di incertezza, la politica dei dividendi resta ininfluente nei confronti del valore di un’impresa, nel senso che quest’ultima non si qualifica come una determinante di tale valore.
Un aspetto importante da considerare sarà allora, una ridefinizione di una delle ipotesi precedentemente individuate: il comportamento razionale degli investitori, comportamento che in condizione di incertezza è influenzato tanto dai gusti quanto dalle aspettative.
A questo livello di analisi, M&M parlano di imputed rationality e symmetric market rationality5 intendendo col primo termine, che un operatore individuale reputa tutti gli altri operatori del mercato razionali nel senso inizialmente definito6, e con il secondo termine che, se tutti gli operatori del mercato si comportano razionalmente, allora anche il mercato, inteso nel suo complesso, sarà simmetricamente razionale.
Questa nuova definizione di comportamento razionale differisce da quella data inizialmente sotto molteplici aspetti:
Innanzitutto, tale definizione di razionalità riguarda tanto le scelte individuali tanto le aspettative degli altri operatori; in secondo luogo, la definizione data si estende al mercato nel suo complesso e non solo al comportamento individuale; infine non può essere dedotta dalla definizione di razionalità a cui si è fatto riferimento inizialmente, in quanto in quel caso il comportamento razionale di un singolo individuo non implicava per riflesso la razionalità di tutti gli altri. Infatti sotto tale ipotesi, potrebbero essere considerate razionali delle scelte che in contesti diversi risultavano incompatibili con il concetto
5 Dividend Policy, Growth and The Valuation Of Shares; in “The Journal of Business”, X. Xxxxxxxxxx,
M. H. Xxxxxx 1961
6 Gli operatori di mercato sono razionali quando prendono decisioni volte a massimizzare il proprio rendimento e nel farlo sono indifferenti tra l’erogazione di un dividendo o all’acquisto di azioni.
di razionalità; come nel caso in cui un individuo, normalmente razionale, ha buone ragioni per credere che tutti gli altri investitori non metteranno in atto comportamenti razionali. In un contesto simile, è ragionevole ipotizzare che per tale investitore potrebbe essere razionale attuare delle strategie che altrimenti sarebbero state considerate irrazionali.
Tale postulato difatto esclude la possibilità di bolle speculative, come nel caso in cui un investitore acquistasse un titolo ad un prezzo superiore rispetto al suo valore (ad esempio, in relazione alle sue prospettive di rendimento future), nell’aspettativa che potrebbe rivenderlo ad un prezzo ancora maggiore, prima dello scoppio della bolla.
Sulla base di tali ipotesi, l’analisi di M&M prosegue con la dimostrazione che, tenendo conto delle dovute correzioni per effetto dell’incertezza riguardo la dinamica futura dei rendimenti, dei dividendi e degli investimenti (che ancora una volta considereremo come separabili rispetto la politica dei dividendi), le conclusioni a cui si era giunti nelle condizioni precedentemente descritte7, non necessitano di alcuna radicale modifica; ciò significa che anche in presenza di incertezza la politica dei dividendi resta irrilevante rispetto al valore corrente di un’impresa.
Per dimostrarlo, consideriamo il caso in cui gli investitori attuali credano che il futuro flusso dei rendimenti e degli investimenti di due diverse imprese (1 e 2) saranno uguali, a prescindere dal valore corrente che essi assumono. Si considerano inoltre uguali le politiche dei dividendi future, cosicchè l’unico elemento che potrebbe distinguerle è rappresentato dalla politica dei dividendi attuale; in termini di notazione si ha che:
7 Mercato perfetto, comportamento razionale degli investitori, informazione completa,assenza di imposte.
X1(t) = X2(t) per t=0,…∞ I1(t) = I2(t) per t=0,…∞ D1(t) = D2(t) per t=0,…∞ Dove,
X1 e X2 rappresentano l’utile di periodo rispettivamente dell’impresa 1 e 2;
I1 e I2 , gli investimenti;
D1 e D2 i dividendi;
t, l’intervallo di tempo
Con le ipotesi formulate e sulla base delle relazione viste nel paragrafo precedente, possiamo ricavare l’espressione rappresentativa il rendimento che gli attuali azionisti delle due imprese in questione si aspettano di ottenere:
R1(0) = D1(0) + V1(1) – m1(1)p1(1) = V1(1) + X1(0) - I1(0)8
Dal momento che abbiamo assunto che le due imprese hanno uguali flussi di utili, investimento e dividendi futuri, anche per l’impresa 2 la relazione rappresentativa del rendimento atteso dagli azionisti sarà:
R2(0) = V2(1) + X2(0) –I2(0)
Dunque, confrontando le due espressioni, notiamo innanzitutto che i termini X1(0) e X2(0) sono uguali, così come I1(0) e I2(0) per ipotesi. Inoltre i valori futuri delle due imprese V1(1) e V2(1), per le assunzioni fatte in merito alla symmetric market rationality, possono dipendere al più dalle aspettative future circa i dividendi, gli investimenti e gli utili (a partire dal periodo 1), e anche questi per
8 L’espressione si ricava sostituendo a –m1(1)p1(1) la relazione mediante la quale essa viene espressa in funzione di D(t): I1(0) – [X1(0)-D1(0)]
ipotesi sono identici per le due imprese. Ne deriva che ogni investitore giungerà alla conclusione che valori futuri per queste due imprese saranno uguali e quindi R1(0) = R2(0).
Questa conclusione è estremamente importatnte per l’obiettivo che ci siamo proposti di dimostrare, in quanto se i valori futuri delle imprese sono uguali, necessariamente queste devono far riferimento a valori correnti altrettanto uguali, a prescindere da qualsiasi cambiamento possa riguardare la politica dei dividendi nel periodo 0.
Mantenendo invariate le ipotesi precedenti, le conclusioni raggiunte si possono estendere al caso in cui lasciamo variare la politica dei dividendi non solo a partire dal periodo 0 ma anche dal periodo 1, e soprattutto non solo riferendoci al caso di due sole imprese ma di n imprese.
Dunque la valutazione corrente di un’impresa non è influenzata da decisioni che riguardano il pagamento dei dividendi in qualsiasi periodo futuro e che la politica dei dividendi è irrilevante per la determinazione dei prezzi di mercato, data una specifica politica di investimenti.
Seguendo lo stesso procedimento, M&M hanno analizzato un ulteriore aspetto, nella considerazione dell’incertezza nel contesto operativo di riferimento: la possibilità dell’impresa di finanziare i propri investimenti non solo tramite equity, ma ricorrendo al debito, quindi al finanzimento presso terzi, che in un ambiente di riferimento caratterizzato da incertezza, pure deve essere considerato.
Analogamente, M&M si sono chiesti se inserendo questo ulteriore elemento nelle ipotesi già considerate, l’esito della propria analisi si sarebbe modificato in virtù di una qualche interazione tra la politica dei dividendi e quella dell’indebitamento: la conclusione a cui sono
giunti è che la politica dei dividendi resta irrilevante anche in quest’ultima ipotesi.
1.2.4 LE IMPERFEZIONI DEL MERCATO: IMPLICAZIONI SUL MODELLO
A conclusione dell’analisi sulla politica dei dividendi così come proposta da M&M, estenderemo il discorso fin qui presentato alla considerazione di un’altra importante ipotesi: l’abbandono del concetto di mercato perfetto, includendo nell’analisi le cosidette imperfezioni del mercato.
Ricordiamo la definizione di mercato perfetto così come presentata da M&M nell’articolo del 1961, in modo da poter comprendere appieno il significato dell’ipotesi che andremo poi ad introdurre (l’imperfezione, appunto).
M&M definiscono perfetto, un mercato sostanzialmente concorrenziale, in cui gli operatori, per dimensione, non hanno la possibilità di influenzare il meccanismo dei prezzi attraverso le loro transazioni9.
Dunque, abbandoneremo tale assunzione per introdurre il concetto di imperfezione; a tal riguardo numerosi sarebbero i fattori da considerare giacchè esiste non uno ma una moltitudine di elementi che si possono configurare scostamenti dalla perfezione così come intesa precedentemente. Tuttavia quello che presenteremo sarà una
9 La definizione di mercato perfetto è stata introdotta all’inizio del capitolo, a proposito delle ipotesi su cui si fonda il modello dell’irrilevanza.
panoramica generale circosritta all’ambito della politica dei dividendi. Questo si traduce nella nostra indagine (quindi limitatamente alle decisioni di payout) nella valutazione di quegli elementi che nell’ottica degli investitori si qualificano come distorsioni delle loro preferenze in termini di dividendi o capital gain.
Inoltre, quand’anche tali imperfezioni si qualificassero come elementi influenzanti le preferenze degli investitori (ad esempio la possibilità di brokeraggio, che di fatto induce i piccoli risparmiatori a preferire azioni a basso rendimento), esse rappresentano condizioni necessarie ma non sufficienti per imporre un premio di mercato permanente, per una data politica dei dividendi.
Di tutte le imperfezioni che potrebbero essere analizzate nel dettaglio, quella che sembra avere un’importanza maggiore è il diverso trattamento fiscale previsto per dividendi e capital gain e che determina un notevole vantaggio per i guadagni in conto capitale rispetto ai dividendi sotto il profilo della tassazione sul reddito (personale). In particolare, gli investitori potrebbero sviluppare una preferenza per i guadagni in conto capitale dal momento che i dividendi sono tassati contestualmente all’incasso, i capital gain nella sola ipotesi di vendita dell’azione: ciò significa che a parità di aliquota, ovvero quando quella dei dividendi è maggiore rispetto a quella sui capital gain, l’investitore orienterà le proprie preferenze su questi ultimi.
In estrema sintesi se un’impresa non dispone delle risorse necessarie per l’erogazione di dividendi e in più, il regime fiscale è tale da avvantaggiare i guadagni in conto capitale, per tale impresa è auspicabile un’emissione di nuove azioni, per disporre delle risorse necessarie.
Sempre sotto il profilo fiscale, M&M descrivono nel loro lavoro il cosiddetto effetto clientela, per cui si intende che le imprese più indebitate attirano investitori con aliquota marginale di imposta inferiore, mentre quelle con un indebitamento ridotto, attraggono per lo più investitori con aliquote marginali più alte: si verificherà in tal caso una specializzazione della clientela che dipenderà dalle caratteristiche e dagli scaglioni personali di appartenenza.
Nonostante quella descritta si qualifica senza dubbio come un’imperfezione del mercato, non si può in ogni caso assumere, questa, come ipotesi determinante per la confutazione della proposizione dell’irrilevanza per quanto riguarda il ruolo della politica dei dividendi; pertanto restano invariate la conclusioni apportate nei paragrafi precedenti.
1.3 LIMITI
Xxxxxx, anche a distanza di anni, la teoria dell’irrilevanza della politica dei dividendi resta un punto di riferimento emblematico, e forse il risultato teorico più riuscito nell’ambito della Finanza Aziendale in materia di payout, essa come ribadito precedentemente, soffre di alcune criticità che ne invalidano l’applicabilità in alcuni contesti, soprattutto se conformanti ad ipotesi differenti rispetto a quelle assunte come riferimento, per la definizione stessa di tale teoria. E xxxxxx i suoi fautori hanno cercato di provarne la validità anche nell’ambito di questi contesti, sussistono dei problemi che non riescono a trovare soluzione.
Non ultimo, il paragrafo precedente, in tema di imperfezioni del mercato, fornisce spunti diversi per mettere in luce quei limiti che inevitabilmente la teoria di M&M si trova a dover affrontare.
Ricordimo che l’ambito in cui i due economisti hanno elaborato la loro tesi era caratterizzato da perfezione dei mercati, informazione completa, assenza di costi di transazione, assenza di imposte e problemi di agenzia di varia natura, razionalità degli operatori di mercato; il principale limite di tale teoria deriva proprio dalla possibilita di adattamento di tali condizioni in un contesto reale, in cui più spesso le imprese si trovano ad operare. E lo si definisce reale, proprio perchè quello prospettato da M&M è un contesto che, sebbene ci consente di far ricorso ad importanti semplificazioni, che rendono tutto l’impianto teorico più scorrevole e di facile comprensione, si distacca molto dalla realtà operativa delle imprese e si qualifica per lo più come un mondo ideale.
Innanzitutto, quello reale, è un mondo caratterizzato dalla presenza, talvolta anche ingente, delle imposte; e non sempre questo si rivela
indifferente per un investitore che deve scegliere di massimizzare il proprio investimento, attraverso l’acquisto di azioni o l’erogazione di un dividendo: molto spesso i guadagni in conto capitale ( come introdotto anche nel paragrafo precedente) sono tassati meno dei dividendi, e questo la maggior parte delle volte si traduce in una distorsione delle preferenze di tale investitore.
Un ulteriore aspetto che mette in luce come, al contrario rispetto a quanto sostenuto da M&M, la politica dei dividendi non è del tutto irrilevante, è rappresentato dai costi di transazione: l’erogazione di un dividendo, inteso come forma di finanziamento e quindi di reperimento di fondi, evita alle imprese di sostenere costi, spesso molto onerosi, nell’ipotesi di indebitamento presso terzi.
Inoltre, spesso il pagamento dei dividendi è favorito rispetto al riacquisto di azioni, perchè permette alle imprese di sottrarsi a vincoli istituzionali posti dal legisaltore (art. 2357 c.c) e tale elemento può configurarsi rilevante nell’ottica di investitori ed imprese.
Un ruolo importante, in tema di limiti alla teoria dell’irrilevanza, è poi assunto dalle informazioni disponibili e al loro grado di completezza per l’impresa e tutti gli stackeholders; infatti benchè M&M avessero parlato di informazione completa, più spesso si assiste ad asimmetrie informative, dovute al fatto che, non solo i cosiddetti insiders hanno più facile accesso alle informazioni di cui hanno bisogno, ma inoltre la mole di tali informazioni è per essi maggiore rispetto agli outsiders. Il tema in questione ha un immediato riflesso sul contenuto informativo che spesso si associa ai dividendi: se è vero che un aumento dei dividendi può dare un segnale positivo agli investitori sulle capacità dell’impresa di garantire un flusso di utili nel futuro, l’asimmetria informativa spesso può distrorcere questo segnale, e al contrario suscitare una prospettiva di crescita negativa per l’impresa, in termini
di minore opportunità di investimento che giustifichino, a questo punto, la scelta di liberare maggiori fondi.
Per quanto concerne invece il comportamento razionale degli operatori, abbiamo asusnto che essi la maggior parte delle volte cercano di adottare un processo decisionale di tipo razionale; tuttavia, è vero anche che essi sono influenzati da variabili che sfuggono all’alea della razionalità: il più delle volte essi fanno le loro scelte sulla base delle loro preferenze, esperienze passate, propensione al rischio, prassi comunemente accettate.
In ultima analisi, ma non meno importante, si pone spesso un problema di agenzia tra il management e gli azionisti, in quella è spesso definita una contrapposizione di interessi tra queste categorie di soggetti, in cui il pagamento o meno di dividendi può configurarsi come bilanciamento di tali interessi.
Ci limitiamo a questo punto dell’analisi, a fornire un generico spunto di riflessione, dal momento che in sede opportuna il tema sarà trattato più adeguatamente.
Ciò chè è rilevante mettere in evidenza è il fatto che i dividendi possono essere adoperati come uno strumento per limitare il management ad “espropriare” gli azionisti (proprietari dell’impresa), motivo per cui tutto ciò può riflettersi sul valore della stessa.
L’obiettivo da qui in avanti sarà, dunque, quello di fornire accanto alla teoria dell’irrilevanza, delle evidenze empiriche che da prospettive diverse, metteranno in discussione la proposizione per cui “politiche dei dividendi diverse, sono tra loro indifferenti”.
CAPITOLO 2
FATTORI SOTTOSTANTI LA SCELTA DI DISTRIBUZIONE DEI DIVIDENDI
2.1 LA POLITICA DEI DIVIDENDI E LE IMPOSTE
Il tema delle imposte riveste da sempre un ruolo estremamente importante a livello di impresa, per le ricadute che ha su numerosi aspetti legati ad essa, nonchè per questioni di ampio dibattito nell’ambito della Finanza Aziendale.
Più precisamente, la tassazione assume una rilevanza cruciale nei modelli di valutazione, ovvero di politica degli investimenti di un’impresa, in tema di capital theory e per quello che maggiormente ci riguarda, la politica dei dividendi. L’obiettivo, parlando di imposte, è dunque quello di indagare le implicazioni sulle decisioni di payout di un’impresa, e a tale proposito cercheremo di trovare una relazione che esprima il nesso tra la politica dei dividendi e il sistema di aliquote fiscali.
Esistono diverse evidenze empiriche 10 che attestano l’esistenza di un legame tra le imposte e le politiche dei dividendi e questo perchè politiche diverse attraggono categorie differenti di investitori (ad esempio, gli investitori istituzionali, generalmente meno tassati,
10 “Institutional Holdings and Payout Policy”, Xxxxx Xxxxxxxxx and Xxxx Xxxxxxxx in “The Journal of Finance”, 2005. Nell’articolo, gli autori mettono in evidenza diversi punti: gli investitori istituzionali preferiscono le imprese che pagano dividendi a quelle che non lo fanno; gli stessi non hanno preferenze rispetto a quelle imprese che pagano dividendi più alti: molto spesso preferiscono quelle con bassi dividendi; molti preferiscono il riacquisto di azioni; infine l’incremento dei dividendi e la variazione dell’assetto proprietario non sono correlati positivamente.
preferiscono detenere azioni con alti tassi di dividendo, rispetto ai piccoli investitori orientati per lo più a bassi tassi di dividendo). Nonostante ciò, è importante precisare che solo una piccola parte dei financial manager imputa la tassazione come fattore determinante l’erogazione dei dividendi.
Generalmente, le posizioni teoriche che, in materia, si sono contrapposte, vedono da un lato chi convenzionalmente ritiene che il mercato sviluppi una preferenza per i rendimenti delle azioni in forma di dividendi, dal lato opposto, chi riconduce alle imposte il principale deterrente al pagamento dei dividendi, motive per cui il mercato richieda tassi di rendimento più alti per le azioni che erogano i dividendi per compensare il maggior carico fiscale.
Ma partiamo da un quesito chiave: perchè le imposte sono considerate
o dovrebbero essere considerate così importanti per un’impresa?
Innanzitutto, esse giocano un ruolo significativo nella definizione del costo del capitale aziendale; con tale termine si fa riferimento a quel tasso che rende gli azionisti di un’impresa indifferenti rispetto alla ritenzione degli utili o alla loro erogazione sottoforma di dividendi11. Il problema sorge dal momento che i dividendi sono tassati con aliquote diverse rispetto ai capital gain: questo comporterà che il costo delle risorse trattenute sarà funzione del sistema di aliquote; sistema che sarà oltretutto utile per la definizione della politica di investimenti ottimale, che indirettamente avrà ricadute sulle decisioni di payout.
Diversi autori hanno concentrato i loro sforzi nelle ricerca di una relazione che correlasse il sistema di aliquote alle politiche di distribuzione di un’impresa:
11 “ Marginal Stockholder Tax Rates and the Clientele Effect”, Xxxxx J. Xxxxx and Xxxxxx X. Xxxxxx
The Review of Economics and Statistics Vol. 52, No. 1 (Feb., 1970), pp. 68-74
ad esempio, uno studio condotto da Xxxxx, Xxxxx X., and Xxxxxx X. Xxxxxx, riportato in un articolo12 su “The Review of Economics and Statistics” nel 1970, ha messo in evidenza (mediante tecniche di inferenza statistica) che su un campione di società del New York Stock Exchange (che avevano erogato un dividendo tra il 1 Aprile 1966 e il 31 Marzo 1967), il sistema delle aliquote di imposta poteva essere ricavato in relazione all’andamento del prezzo delle azioni ordinarie, a cui venivano vendute sul mercato rispettivamente nel giorno prima e dopo lo stacco della cedola.
In particolare, essi avevano osservato (per un campione di 1418 osservazioni) che (partendo dal presupposto che ciò che rende attraente un investimento per un operatore economico è il dividend yeild e il payout ratio di un’impresa) tra il sistema di aliquote marginali e il dividend yeild avevano mostrato un andamento inverso, ovvero che al crescere dei tassi di dividendo le aliquote di imposta si riducevano nella loro entità. Tale osservazione rappresentava di fatto, una conferma dell’esistenza dell’effetto clientela messo in evidenza da Xxxxxxxxxx e Xxxxxx e già precedentemente menzionato.
Tra i numerosi studiosi che pure hanno apportato un contributo nella’ambito dell’analisi di cui ci stiamo occupando, spiccano i nomi di Xxxxxx X. Xxxxxx e Xxxxx X. Xxxxxxx, autori di un articolo del 1982 pubblicato su “The Journal of Political Economy”, i quali hanno impostato la loro indagine cercando delle prove empiriche che fornissero un supporto alla tesi per cui un investitore che acquisti azioni con un tasso di dividendo maggiore, realizzerà un rendimento più alto in virtù di una maggiore imposizione a cui queste azioni sarebbero sottoposte, rispetto ai capital gains.
Nello specifico, essi cercano di fornire una spiegazione al differenziale di rendimento delle azioni che pagano dividendi più alti
12 Xxxxx, Xxxxx J., and Xxxxxx X. Xxxxxx. “Marginal Stockholder Tax Rates and the Clientele Effect”. The Review of Economics and Statistics 52.1 (1970): 68–74.
nonché una stima dell’effetto fiscale legato al pagamento dei dividendi. Dalla loro indagine è emerso che la stima di tale effetto fiscale non è statisticamente ed economicamente significativa, assestandosi ad un 4%, il differenziale di tassazione implicito. Ciò significava che, tra i rendimenti (ante imposte) delle azioni con alto tasso di dividendo e quelle con basso tasso di dividendo, erano emerse differenze poco significative, così come per i rendimenti al netto delle tasse, come funzione del tasso di dividendo.
Più consistente l’entità del differenziale stimato da Litzemberger e Xxxxxxxxx 13che hanno individuato, per le azioni che mostravano tassi di dividendo e rendimenti superiori, una maggiore imposizione compresa tra il 14% e il 23%14. Questi ultimi, rimarcando l’epilogo di alcuni predecessori che hanno svolto ricerche simili, hanno riscontrato che esiste una relazione positiva ma non lineare, tra il prezzo delle azioni ordinarie e il tasso di dividendo atteso; secondo questi autori, la variazione dell’andamento dei prezzi, dipende esclusivamente dalle informazioni che gli investitori potrebbero detenere ex ante, ma in ogni caso se questa relazione sia dovuta alle imposte o qualche variabile non considerata resta una questione ancora aperta.
Stesso risultato hanno raggiunto Xxxxx e Lemmon15, i quali riprendendo le analisi svolte da Xxxxxxxxxxxx e Xxxxxxxxx, Black e Xxxxxxx, hanno evidenziato che sebbene i rendimenti delle azioni, negoziate nel periodo successivo lo stacco del dividendo, mostrassero dei rialzi anomali, essi non si potevano relazionare ai tassi di dividendo di tali azioni ed inoltre non potevano essere imputati ad effetti fiscali. Nell’impossibilità di addurre motivazioni di carattere
13 “The effects of Dividends on Common Stock Prices: Tax Effects or Information Effects” (in Journal of Finance), R.H. Xxxxxxxxxxxx, X. Xxxxxxxxx;
14 “Principi di Finanza Aziendale”, R.A. Xxxxxx, S.C. Xxxxxx, X. Xxxxx, X. Xxxxxx.
15 “Handbook of Corporate Finance”, Vol. 2 Cap. 10; X. Xxxxx, X. Xxxxxx.
fiscale, Kalay e Xxxxxx, hanno cercato di spiegare questa differenza in termini di rendimento, attraverso un’altra componente: il rischio.
In tal caso il maggiore rendimento delle azioni sarebbe spiegato dal mggior rischio a cui si sottoporrebbero gli investitori nel momento in cui le azioni sarebbero negoziate ad un prezzo ex dividend.
2.2 IL CICLO DI VITA DELLE IMPRESE E LE OPPORTUNITA’ DI INVESTIMENTO
Molto spesso le politiche di distribuzione di utili di un’impresa sono sottese ad analisi che si estendono al di là delle mere disponibilità di cassa. Un manager deve infatti essere consapevole che, abbandonando l’ipotesi di un mercato perfetto e razionale e riconoscendo l’esistenza di un contenuto informativo legato ai dividendi, le ricadute che una certa politica possa avere sul contesto aziendale sono molteplici.
Generalmente, l’utilizzo delle risorse prodotte da un’impresa è vincolato a due fattori: il ciclo di vita dell’impresa e le opportunita di investimento che questa si aspetta di poter sfruttare, in un certo momento della sua vita.
Una start-up giovane ha sicuramente più possibiltà di crescita e sviluppo di un’impresa che attraversa la fase della maturità, e questo ha delle conseguenze che si ricollegano direttamente alla capacità delle imprese di distribuire cassa.
Quando le imprese sono giovani, la possibilità di crescere si traduce in un reinvestimento di utili in progetti a VAN positivo.
Al contrario quando le occasioni di investimento si riducono, spesso l’eccesso di ricchezza accumulato viene distribuito ai soci, sottoforma di dividendi.
Se, in questi temini, il discorso può sembrare banale, è da precisare che le conclusioni a cui si può pervenire, non sono così scontate; questo perchè, innanzitutto, non sempre il ciclo di vita di un’impresa si può prevedere, ed inoltre è difficile per un manager stabilire con esattezza quando un’impresa ha raggiunto un livello di maturità tale da poter giustificare una politica di distribuzione orientata ai dividendi.
Non dimentichiamo che quest’ultima invia precisi segnali agli investitori (se ci affidiamo alle teorie dei segnali), senza tralasciare il fatto che il reinvestimento è spesso preferito per evitare i costi di emissione di titoli ed eventuali oneri fiscali, ovvero politiche di indebitamento messe in atto per reperire i capitali necessari agli investimenti stessi.
Tutto ciò mette in evidenza che le imprese dovrebbero adeguare le loro politiche di payout al proprio ciclo di vita, e se questo non è definibile ex ante, alle condizioni finanziarie ed economiche in cui esse riversano in un certo periodo della propria vita. Ciò significa valutare di volta in volta, la capacità dell’impresa di generare flussi di cassa stabili e consistenti, di poter utilizzare gli stessi in progetti di investimento a VAN positivo (che realizzino gli obiettivi di crescita, finchè le condizioni lo permettono), assicurarsi di aver intrapreso una politica di indebitamento prudente, di aver stimato in modo realistico eventualità improvvise e stanziato per esse riserve idonee a fronteggiarle. Solo l’esito positivo di una tale indagine potrebbe giustificare l’inizio di una politica di distribuzione.
La tesi proprosta, viene supportata da X. XxXxxxxx, X. XxXxxxxx e D. Skinner16: essi affermano che un basso tasso di utili portati a nuovo è sintomo e caratteristica di aziende con buone prospettive di crescita; al contrario, molti utili distribuiti sono tipici di imprese con opportunità di crescita ormai limitate, perchè già mature.
DeAngelo in particolare ha evidenziato l’esistenza di una relazione positiva tra la probabilità che le imprese distribuiscano dividendi e l’entità di utili portati a nuovo, rispetto ai conferimenti. Ciò si traduce in una prova diretta che esiste un ciclo di vita anche per le politiche di payout. Tali risultati sono stati raggiunti attraverso uno studio, rivolto
16 “Corporate Payout Policy” in “Foundation and Trends in Finance”; X. XxXxxxxx, X. XxXxxxxx, X. Xxxxxxx.
ad un campione di imprese degli Stati Uniti, Regno unito, ed altri paesi industrializzati (anche dell’Europa), tenendo in considerazione alcune variabili; tra le più importanti: redditività delle imprese, possibilità di crescita, dimensione, capitale totale e flussi di cassa, politiche dei dividendi precedenti. Gli autori sostengono che, imprese con un basso tasso di ritenzione degli utili, presentano una scarsa probabilità di pagare dividendi, rispetto a quelle che, trattenendo maggiori risorse, sono state in grado di realizzare un maggiore autofinanziamento, che a sua volta si qualifica come punto di partenza cruciale per l’erogazione dei dividendi. Generalmente, bassi tassi di ritenzione sono associate a imprese in crescita, mentre tassi di ritenzione più alti sono tipici di imprese mature.
2.3 L’IMPORTANZA DELL’ASSETTO AZIONARIO
Partendo da uno studio realizzato da X. Xxxx e K. French 17, discuteremo in questo paragrafo della relazione (se esiste e quanto è incisiva) tra decisioni di payout e compagine azionaria: ci chiediamo sostanzialmente, se determinate caratteristiche delle imprese circa l’assetto azionario (più o meno diffuso), ovvero il grado di controllo, possono influenzare le politiche di distribuzione e dunque, l’erogazione di dividendi.
Gli Autori citati assumono un ruolo significativo in quanto, partendo da un’analisi fondata su un campione di imprese quotate e non, hanno cercato di indagare le cause che hanno determinato le variazioni in termini di pagamento dei dividendi, nel periodo 1972-197818. In tale intervallo infatti, si è assistito ad un generale incremento della percentuale di imprese che pagavano dividendi (fino a raggiungere un picco del 66,5 % nel 1978), seguito da un calo che, a partire dal 1978 si è protratto fino al 1999, quando la percentuale si assestò ad un 20,8%.
Le evidenze in questione sollevarono diversi spunti di riflessione volti alla ricerca di una possibile spiegazione del fenomeno, nonchè dei fattori chiave che potessero giustificarne gli esiti; in particolare Fama e French, per dare una soluzione alla questione partirono dall’analisi delle carettaristiche tipiche di quelle imprese che avevano pagato dividendi e sulla base di esse cercarono di capire se le oscillazioni osservate trovavano giustificazione nel mutamento di tali
17 “Desappearing Dividends: Changing in Firm Characteristics or Lower Propensity to Pay?” E. Fama,
K. French.
18 L’analisi in realtà si estende in un orizzonte temporale più vasto che copre gran parte del XX secolo; tuttavia nell’ambito della nostra analisi, il periodo 1972-1978 è quello che più appare interessante per i fini che ci siamo proposti.
caratteristiche nel tempo, o semplicemente perchè tali imprese avevano manifestato una minore propensione a pagare.
Secondo le statistiche fornite dagli autori, quelle che tendenzialmente erogavano dividendi, erano imprese che si trovavano in difficoltà, con bassa redditività e pochi investimenti; al contrario quelle che non avevano mai pagato dividendi erano in condizioni economiche più vantaggiose, mostravano più elevate prospettive di crescita, destinavano le loro risorse in investimenti di ricerca e sviluppo ed infine, presentavano un alto rapporto Valore di mercato-Valore contabile; le prime erano di dimensioni maggiori, le seconde rientravano per lo più nella categoria delle small firm.
Il calo della percentuale delle imprese che pagavano dividendi dopo il 1978 è stato attribuito sostanzialmente ad una minore propensione a pagare delle stesse nonchè ad una tendenza delle imprese quotate a conformarsi alle caratteristiche delle imprese che non vevano mai pagato dividendi: piccole dimensioni, grandi opportunità di crescita, politiche di investimento espansive; ma l’aspetto che più desta attenzione è la correlazione che si stabilisce tra questa inclinazione da parte delle imprese, e una vera e propria esplosione, che si registra nello stesso periodo, di nuove quotazioni: ed è forse l’aspetto che più ci interessa indagare se l’obiettivo è quello di capire come la compagine azionaria possa influenzare le decisioni di payout.
In generale, è stato riscontrato che per i paesi orientati ai mercati finanziari (Stati Uniti e Regno Unito), la variabilità del dividend yield è minore rispetto a quella del paesi orientati maggiormente agli intermediari (Italia, Francia, Germania, Giappone)19. Ciò significa che le imprese quotate, proprio perchè generalmente presentano una struttura ad azionariato diffuso, sono restie a modificare le politiche di payout (per scongiurare scalate ostili) rispetto ad imprese (per
19 “Principi di Finanza Aziendale”, X. Xxxxxx, X. Xxxxx, X. Xxxxxx, S. A. Xxxxxx.
esempio, quelle italiane) dove l’esigenza di mantenere costante i dividendi viene meno, per la presenza di azionisti di controllo che detengono la maggioranza delle azioni.
Proprio in relazione alle imprese italiane, uno studio di Xxxxxxxx Xxxxxx00, può risultare strumentale per avvalorare la tesi proposta, per cui l’assetto azionario influisce sulle decisioni di payout.
In particolare, dall’analisi dell’autore è emerso che all’aumentare della diffusione dell’azionariato segue un aumento dei pagamenti in forma di dividendi; tuttavia una condizione necessaria affinchè ciò si verifichi è che i FCF 21 dell’impresa siano stabili e consistenti, infatti laddove questi sono scarsi la relazione emersa risulta statisticamente poco significativa.
Se invece la variabile di riferimento diventa il grado di controllo dell’azionista dominante, allora l’esito dell’analisi mette in evidenza che, in ipotesi di FCF elevati, il payout diminuisce in corrispondenza di un controllo maggiore; viceversa quando i FCF si fanno meno consistenti, all’aumentare del controllo, il payout aumenta.
Tale risultato desta non poche perplessità per il significato di cui si riveste: ricordando, infatti, che i FCF elevati sono tipici delle cosiddette cash cow (imprese in una fase già matura del loro ciclo di vita, e dunque con limitate possibilità di crescita, ma con entrate di cassa anche molto consistenti) e FCF più modesti provengono generalmente da piccole imprese in crescita o comunque in crisi, appare ingiustificato se non paradossale la conclusione a cui si è pervenuti. Come si può giustificare un più elevato payout (funzione dell’ aumento della quota di controllo) da parte di imprese giovani che per sfruttare le maggiori opportunità di crescita dovrebbero (almeno
20 “ Struttura della proprietà, conflitto di interesse e politica dei dividendi delle imprese italiane” , X. Xxxxxx (Università di Pavia)
21 Free Cash Flow
teoricamente) destinare gran parte delle loro risorse a nuovi investimenti? O addirittura che tale maggiore payout sia associato ad imprese in crisi?
Nel primo caso una giustificazione apportata da Murgia è quella di fornire i fondi necessari per mettere in atto aumenti di capitale; infatti, lo sviluppo delle imprese è condizionato al reperimento di fondi provenienti dall’esterno, se queste poi sono quotate, trovano conveniente reperire tali fondi attravero operazioni di aumento del capitale. L’aumento dei dividendi in questo caso favorisce tale operazione in quanto permette agli azionisti di maggioranza di mantenere inalterata la quota di controllo e all’impresa di mitigare gli effetti fiscali e contenere i costi di transazione.
Nel secondo caso invece, ovvero per quelle imprese in crisi che hanno risorse scarse, un aumento del payout può assumere il significato di un esproprio di risore da parte degli azionisti di controllo: questi infatti, avvantaggiandosi delle asimmetrie informative, possono utilizzare i dividendi per cercare opportunità di investimento più promettenti, diversificare il proprio portafoglio, inserirsi in nuovi business. Questo significa che in entrambi i casi i dividendi, lungi dal rappresentare una sorta di collante all’interno della compagine azionaria, assumono un’importanza a sè stante, diventando uno strumento nelle mani degli azionisti di controllo per espandere (anche altrove) il loro potere. Tutto ciò dimostra che le imprese fortemente controllate che pagano dividendi per favorire l’azionista principale, possono essere portate a prendere decisioni di payout che entrano in contrasto con l’obiettivo di massimizzazione del valore della stessa.
2.4 IL RUOLO DELLA CORPORATE GOVERNANCE:
CONFLITTO DI INTERESSE E PROBLEMA DI AGENZIA “AZIONISTA VS MANAGER”
Molto spesso la politica dei dividendi svolge un ruolo significativo in tema di Corporate Governance, può rappresentare, cioè, un valido strumento informativo, sia quando le imprese sono gestite da una governance efficiente, sia quando essa si presenta più debole e meno trasparente. In tali contesti infatti, gli investitori possono trovare difficile fidarsi delle informazioni fornite dalle imprese, soprattutto di quelle di carattere finanziario, anche in virtù della prassi sempre più comune, di organizzarsi in forma di gruppo. Se a ciò aggiungiamo il fatto che, molto spesso (soprattutto in aziende dove c’è una netta separazione tra proprietà e management) i manager prendono decisioni orientate per lo più a soddisfare i propri, piuttosto che gli interessi degli azionisti, diventa davvero complicato, accettare acriticamente le informazioni che queste forniscono attraverso la loro gestione. In tal caso inoltre, i dividendi saranno anche più bassi, in quanto il management, in virtù della debolezza della governance, tenderà ad usare le risorse aziendali per soddisfare le proprie esigenze.
Ebbene, in uno scenario del genere, la politica dei dividendi può fornire un supporto alle decisioni degli investitori. Questi infatti possono dedurre l’attendibilità delle informazioni fornite, attraverso il comportamento dei manager: generalmente, essi si aspettono una distribuzione di utili più consistente, a seguito del conseguimento di maggiori utili; questo significa che, a parità di altre condizioni, se a una dichiarazione di utili consistente, non segue un’altrettanto consistente distribuzione, molto probabilmente è bene per l’investitore
non fidarsi di tale dichiarazione. In questo senso i dividendi hanno la funzione di rendere più credibile gli utili dichiarati22.
Oltre a fornire un supporto alle decisioni di investimento in presenza di una Corporate Governance debole, la politica dei dividendi può essere utilizzata dalle imprese per gestire e ridurre i costi di agenzia, che molto spesso sono alla base del conflitto di interessi tra azionisti e manager, e rappresentano il principale deterrente all’efficienza della Governance. I costi di agenzia si manifestano quando il valore dell’impresa, gestita da azionisti-proprietari, subisce un decremento, per effetto della cessione da parte di questi, di quote o azioni, ad azionisti di minoranza, che tuttavia non entrano nel computo della gestione.
Per arginare i conflitti di interessi e dunque contenere tali costi, un’impresa potrebbe far leva sulla politica dei dividendi che, distribuendo ricchezza proprio a coloro che l’hanno fornita, ha un duplice effetto: da un lato riduce le risorse finanziare a disposizione del management, dall’altro (limitando il potere del management) allinea gli obiettivi di azionisti di maggioranza e minoranza. Questo perchè i dividendi rappresentano forme visibili dell’operato dei manager23, permettono cioè di verificare, nella loro semplicità, le performance del management senza incorrere in costi troppo eccessivi per effettuare un controllo su di essi. Tutto ciò assume un’importanza maggiore per quelle imprese in cui vi è una sovrapposizione tra proprietà e management, dove la politica dei dividendi, più di altri strumenti (contratti-incentivo24) può essere utile per ridurre i costi di agenzia e i conflitti di interesse.
22 “Principi di Finanza Aziendale”, X. Xxxxxx, S. A. Xxxxxx , X. Xxxxx, X. Xxxxxx.
23 “ Struttura della proprietà, conflitto di interesse e politica dei dividendi delle imprese italiane” , X. Xxxxxx (Università di Pavia)
24 Secondo Fama, i contratti-incentivo rappesentano strumenti idonei più dei dividendi a ridurre conflitti di interesse e costi di agenzia tra azionisti e manager, tuttavia Xxxxxx attraverso analisi ha
In “Agency Problems and Dividend Policy Around the World”25, gli autori hanno analizzato il problema dei costi di agenzia rispetto a due variabili: conflitto di interessi interno (tra gruppo di controllo e manager), e gli outsiders (generalmente, investitori che assumono la qualifica di minoranze); lo studio, che si è fondato su un campione di 4000 imprese appartenenti a 33 paesi del mondo diversi, ha evidenziato che, laddove il capitale aziendale è frazionato in una compagine “diffusa”, il conflitto emerge più insistentemente e quindi i costi di agenzia hanno un impatto maggiore, ove invece la proprietà è tenuta saldamente nelle mani di un gruppo di controllo, il problema dei costi di agenzia perde parte della sua rilevanza.
La prima categoria di imprese appartiene per lo più alla tradizione giuridica di common low, la seconda a quella di civil low. La precisazione non è così scontata come può apparire in quanto, dal momento che qualunque sia l’impatto di tali costi, chi ne risente sono le minoranze (che dunque sviluppano una preferenza per i dividendi), l’appartenenza ad una tradizione giuridica piuttosto che un’altra, fa la differenza. Nei paesi di common low ,infatti, è prevista una maggiore tutela per le minoranze e ciò ha importanti riflessi sull’impresa: il fatto stesso di essere un azionista di minoranza diventa una vera e propria strategia di investimento, piuttosto che una mera scelta economica.
Nell’impossibilità di individuare una soluzione ottimale che consenta al tempo stesso, di appianare i conflitti di interesse e ridurre i costi di agenzia, l’articolo risulta, comunque, funzionale alla comprensione del ruolo che giocano i dividendi in relazione a tali problematiche. I
messo in evidenza l’inconsistenza statistica di una possibile relazione positiva tra valore delle azioni- aumento dei compensi, ritenendo di fatto tali strumenti poco adatti al fine che ci siamo proposti.
25 “Agency Problems and Dividend Policy Around the World”, in The Journal of Finance, X. XxXxxxx,
X. Xxxxx xx Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx e R. W. Xxxxxx.
modelli a cui si fa riferimento sono due: “the outcome model” e “the substitude model”. Il primo modello è così chiamato perché considera la politica di payout come funzione del regime della tutela legale degli azionisti, presente in un’impresa. A parità di condizioni, esso afferma che le imprese con una maggiore protezione legale delle minoranze, tendonono ad erogare maggiori dividendi26; inoltre se queste presentano buone opportunità di investimento, la distribuzione può anche ridursi in quanto l’investitore sa che, sfruttare tali opportunità potrebbe assumere il significato di una maggiorazione dei propri dividendi nel futuro, quando l’impresa potrà beneficiare di una maggiore profittabilità. Al contrario secondo il substitude model, i dividendi assumono un’importanza maggiore nei contesti aziendali caratterizzati da una meno efficiente protezione legale delle minoranze. Queste dunque dovrebbero avere un payout maggiore, per preservare la loro reputazione, necessaria per sperare di ottenere con una maggiore facilità le risorse di cui necessitano per finanziare i propri investimenti.
La tesi per cui le decisioni di payout assumono un ruolo significativo nel mitigare i conflitti di interessi tra azionisti, trova espressione anche in un recente articolo pubblicato in “The Journal of Banking and Finance” 27(2012).
In tale ariticolo si mette in evidenza che esiste una forte relazione tra la struttura proprietaria e decisioni di payout, in presenza di conflitto di interesse tra gli azionisti stessi; in particolare, laddove la struttura proprietaria è più forte e la sua presenza nel processo decisionale più massiccia, si assiste ad una tendenza da parte degli azionisti di fare dei dividendi uno strumento per gestire il conflitto di interesse. Quello che
26 Le minoranze infatti potrebbero utilizzare gli strumenti messi a disposizione dal regime della tutela stesso così da persuadere i manager a non sprecare le risorse aziendali nel perseguimento di interessi personali. Alcuni di questi strumenti sono: meccanismi di voto, facoltà di poter vendere le proprie azioni, citare in giudizio la società.
27 “Stakeholder conflicts and payout policy”, X. Xxxxxx, M.G. Xxxxxxxx, P.E. Xxxxx
ci si chiede, quindi, è se tale strumento aiuta gli azionisti a mitigare piuttosto che intensificare tale conflitto. Evidenze in tal senso, mostrano che maggiore è l’impatto di elevati costi di agenzia sulla struttura proprietaria della società, maggiore sarà la quota dei costi di agenzia che una forte politica di payout riuscirà ad abbattere.
La distribuzione di dividendi, in conclusione, diventa una preoccupazione importante per una società, soprattutto quando chi è investito del potere di prendere queste decisioni è di fatto qualcuno che non rappresenta il proprietario dell’impresa.
Dei due modelli prima presentati, nell’articolo in questione, si dà maggiore risalto al substitude model non per una predilezione degli autori, ma per le evidenze riscontrate, nei campioni di imprese analizzate.
Dunque sulla scia di quanto previsto da tale modello, si mette in evidenza che il payout generalmente aumenta in corrispondenza di un management “non proprietario” che troverà benefici nel futuro da una maggiore distribuzione corrente, in quanto allinea gli interessi riducendo la dimensione dei conflitti con gli azionisti.
2.5 LE ASPETTATIVE IN MERITO AGLI UTILI FUTURI
Secondo Lintner una delle principali determinanti delle decisioni di payout è rappresentata dagli utili di un’impresa. Egli infatti conclude un proprio lavoro del 1956, affermando che grandi cambiamenti nei livelli di utili, non in linea con i tassi di dividendo esistenti, influenzano in maniera incisiva le decisioni riguardanti il pagamento di dividendi di una società.
Dal punto di vista di Lintner ciò deriva, principalmente da 3 fattori: innanzitutto, i manager sanno che gli investitori nel prendere le loro decisioni utilizzano gli utili di un’impresa come parametro di riferimento; in secondo luogo, riflettendo la capacità dell’impresa di generare ricchezza, essi sono soggetti ad ampia “pubblicità”. Infine, l’importanza degli utili è sentita dagli azionisti di una società che, configurandone i proprietari, vantano un diritto “naturale” su di essi.
D’altro canto, dall’analisi di Lintner, emerge anche che i manager, in qualità di “gestori” di risorse di terzi e quindi responsabili, degli investimenti effettuati (per incrementare il valore di tali risorse), si ritengono in dovere di distribuire una parte dell’incremento di utili realizzato, per dare prova dell’impegno preso nell’assicurare sempre la massimizzazione del valore creato.
In genere, se gli investitori riescono tempestivamente a stimare l’ammontare dei pagamenti in denaro che possono ricevere, costi di agenzia e problemi di valutazione dei titoli non influenzano in modo significativo le politiche di investimento e finanziamento delle imprese; tuttavia in un mondo caratterizzato da asimmetria informativa, difficilmente gli investitori riescono ad ottenere senza costo, informazioni circa i FCF realizzati da un’impresa: ciò si traduce, operativamente, nella ricerca di altri indicatori di performance
aziendale, tra questi gli utili contabili. Essi danno un’idea dell’ammontare di cassa che i manager dovrebbero distribuire.
In un’ottica di lungo periodo, il valore dei FCF tende a coincidere con quello degli utili, ma cosiderando tali valori, periodo per periodo, questi potrebbero differire, riflettendo un vantaggio offerto dagli utili sui FCF, come strumento rappresentativo della capacità aziendale di distribuire denaro contante. L’evidenza infatti conferma che gli utili attuali offrono una previsione di quelli che saranno i flussi di cassa futuri, rispetto a quelli correnti in quanto essi sono calcolati a partire da un procedimento contabile che si fonda su un criterio di competenza. Ciò, si traduce in una limitazione della discrezionalità dei manager, che gestiscono di fatto gli utili conseguiti, dal momento che riducono la possibilità di questi ultimi di manipolare i “numeri”.
Molto spesso, utili e FCF vengono considerate se non diverse, comunque due variabili complementari che, quand’anche non offrano la possibilità di delineare una politica di payout ottimale, sicuramente entrano nel computo di quei fattori che possono influenzarla, dal momento che sulla base di essi gli investitori possono capire se i pagamenti che ricevono sono adeguati o troppo bassi; nello specifico essi si rivelano funzionali nella previsione della capicità dell’impresa di distribuire dividendi nel lungo periodo.
Concludendo, se un’impresa, in un dato momento, presenta utili consistenti e contestualmente, buone prospettive future (di lungo periodo) circa i FCF che potrà generare, possiamo aspettarci che essa abbia non solo la possibilità ma anche una maggiore motivazione per sostenere un payout più consistente.28
28 “Corporate Payout Policy”, X. XxXxxxxx, X. XxXxxxxx, D. J. Xxxxxxx
2.6 L’ATTEGGIAMENTO DEI MANAGER IN MERITO LE DECISIONI DI PAYOUT:
IL RUOLO DELL’OVERCONFIDENCE E LA PROPENSIONE AL RISCHIO
In questo paragrafo si analizzano altre due importanti variabili che possono configurarsi come elementi determinanti, ovvero condizionanti le decisioni di payout di un’impresa. Si tratta di fattori legati alla sfera soggettiva e psicologica degli individui e che definiscono una componente fondamentale dell’atteggiamento dei manager in azienda, orientando in una direzione piuttosto che in un’ altra le loro decisioni. In particolare, il focus sarà sul ruolo dell’overconfidence e delle preferenze di rischio di tali soggetti quando la decisione da prendere riguarda l’ampiezza delle distribuzioni di utili.
L’overconfidence riflette più di altre variabili l’atteggiamento e la personalità dei manager nelle decisioni da prendere: si tratta dell’attitudine di questi soggetti ad attribuire un’alea di superiorità alle proprie scelte e quindi solo in certe condizioni si mostrano disponibili a ritrattarle o cambiarle, talvolta anche a spese della massimizzazione del valore dell’impresa. In questo senso, il termine assume anche un’accezione diversa, intesa nel senso di sottovalutazione del rischio, ovvero eccessivo ottimismo per quanto riguarda i risultati futuri.
Un manager overconfident generalmente è convinto che il finanziamento esterno è costoso, quindi per reperire le fonti finanziare da destinare agli investimenti futuri, senza compromettere le condizioni economico-finanziare dell’impresa, tenderà a ridurre l’entità dei dividendi erogati, così da utilizzare principalmente fonti di finanziamento interne.
Evidenze empiriche dimostrano infatti che nelle società in cui è presente un CEO overconfident, il payout si reduce circa di 1/6 rispetto al livello medio dei dividendi pagati da quelle società in cui i CEO sono più razionali e ciò si riscontra più frequentemente per quelle imprese con minori opportunità di crescita e quindi minori flussi di cassa29.
Al contrario, l’effetto dll’overconfidence sarà ridimensionato in quelle imprese che presentano maggiori opportunità di crescita e quindi migliori prospettive in termini di cash flow. Questo di solito accade perchè manager troppo sicuri di sè e delle proprie scelte, tendono a sovrastimare il valore dei nuovi investimenti, ovvero a sottostimarne il rischio.
Tali risultati provengono da un’indagine su un campione di società statunitensi delle quali sono stati analizzai dati relativi a politiche di dividendo e overconfidence dei manager, con l’obiettivo di trovare una relazione che ne spiegasse le dinamiche. I dati si riferiscono al periodo 1980-1994. L’indagine ha dato risalto al ruolo che l’overconfidence riveste in relazione alle decidioni di dividendo, quando variano le condizioni di contesto in termini di opportuntà di crescita, informazioni disponibili, cash flow.
Più specificamente, è stato evidenziato che tale ruolo è più significativo in quelle imprese che, come anticipato, hanno minor possibilità di crescere; inoltre la presenza di un management overconfident, in genere, rafforza la relazione (positiva) tra dividendi e cash flow. I cash flow correnti sono di solito considerati delle variabili in base alle quali è possibile stimare i flussi di cassa futuri. Un manager overconfident, per la definizione stessa che è stata presentata, tenderà a sovrastimare i cash flow correnti e quindi in misura ancora maggiore quelli futuri: da ciò deriva la percezione di
29 CEO Overconfidence and Dividend Policy, Xxxxxx Xxxxxxxx, Xxxxx X. Xxxx , Xxxxx X. Xxx
una minore esigenza di ricorso al finanziamento esterno, e quindi l’incremento del payout.
Infine, in merito alla relazione inversa tra dividendi e asimmetria informativa, non sono state trovate significative differenze tra società caratterizzate da un management più razionale o più overconfident.
Un ultimo aspetto messo in evidenza dall’analisi in questione, e certamente molto importante per i fini che ci siamo proposti, è quello riguardante la risposta del mercato (in termini di variazione dei prezzi delle azioni) agli annunci dei pagamenti dei dividendi in presenza di overconfidence: tale risposta è positiva e ciò dimostra che il mercato riconosce l’esistenza di una relazione tra overconfidence dei manager e dividendi.
L’altra variabile che prendiamo in considerazione nell’analisi della politica dei dividendi, come precedentemente anticipato, è quella delle preferenze di rischio dei manager.
In “CEO Risk Preferences and Dividend Policy Decisions”30, gli autori basandosi su uo studio effettuato su un campione di 2000 imprese, ed elaborando dati sulla propensione a pagare delle stesse, relativi al periodo 2006-2011, hanno riscontrato che esiste una relazione inversa tra la propensione al rischio dei manager e quella degli stessi a pagare: manager con una tolleranza del rischio minore, mostrano una propensione a pagare dividendi maggiore e viceversa.
Se l’alternativa all’erogazione dei dividendi è investire il valore creato in progetti ad alto rischio, è prevedibile allora che un manager con una bassa propensione al rischio sarà orientato ad una politica di dividendi più espansiva. In questo, tuttavia, non bisogna trascurare un problema già posto in evidenza e che in questo contesto ritroviamo nella sua maggiore espressione: i costi di agency; i manager infatti come più
30 “CEO Risk Preferences and Dividend Policy Decisions”, Deren Caliskan and Xxxx A. Xxxxxx.
volte precisato, gestiscono risorse e denaro che proviene dagli azionisti-proprietari, e pagare dividendi significa restituire loro questo denaro, sottraendolo alla possibilità di utilizzarlo in progetti che, per quanto rischiosi, potrebbero rivelarsi particolarmente profittevoli per essi.
Dunque, esiste un trade-off tra dividendi e investimenti: in genere l’aumento dei dividendi riduce il rischio, e dal momento che tale riduzione deriva da un minor investimento in progetti alternativi, ciò si riflette anche in una minore profittabilità.
2.7 IL COMPORTAMENTO DELLE IMPRESE CONCORRENTI
A conclusione dell’analisi che fin qui è stata svolta, nell’ambito dei fattori che un’impresa dovrebbe considerare, nel prendere le proprie decisioni relative alla distribuzione dei dividendi, prenderemo in esame un ulteriore elemento, che spesso viene adoperato dalle imprese come parametro di riferimento in innumerevoli circostanze della sua vita: il comportamento delle imprese concorrenti. A fronte di un’analisi che tenga in considerazione ogni aspetto a cui precedentemente è stato dato risalto, molto spesso i manager orientano le proprie scelte sulla base di ciò che fanno i concorrenti: l’obiettivo è preservare la competitività a livello di mercato, settore, ramo di attività in cui l’impresa opera.
Molto spesso accade anche che l’emulazione dei competitor, viene addotta come giustificazione ad una politica inadeguata, ovvero che si discosta bruscamente dall’obiettivo di massimizzazione del valore creato; ciò si verifica soprattutto per quelle aziende che vivono fasi critiche del loro ciclo di vita e in cui gli azionisti, a fronte di limitate opportunità di sviluppo e investimento, si aspetterebbero distribuzioni di dividendi più consistenti. Talvolta, tuttavia, tali aspettative non trovano riscontro con la realtà effettiva in cui i manager si mostrano per lo più favorevoli ad accumuli di cassa e bassi dividendi; quando ciò non trova giustificazione nella futura redditività degli investimenti, ovvero nella possibilità di far fronte a contingenze future, ecco che il comportamento dei concorrenti viene utilizzato come strumento per mitigare una politica dei dividendi (talvolta) evidentemente sbagliata.
Se un’impresa sceglie di adeguare la propria politica dei dividendi a quella delle imprese comparabili, deve essere in grado di affrontare dei problemi che si pongono, nonchè rischi a cui si espone;
innanzitutto bisogna qualificare il termine comparabile31, per capire se il riferimento è a imprese simili operanti nello stesso settore o, in un’accezione più ampia, nello stesso mercato (considerando dunque la totalità delle imprese).
Un secondo ordine di problemi riguarda la definizione stessa di imprese simili: se i manager potessero definire autonomamente l’insieme di imprese considerate simili, potrebbero difatti giustificare anche una politica dei dividendi non del tutto razionale.
Spesso per imprese simili, i manager tengono in considerazione solo quelle con analoga dimensione o business mix.
In realtà si potrebbe estendere l’ambito di tali imprese, includendovi tutte le imprese del mercato che potrebbero farvi parte se analizzate nella prospettiva di quei fattori determinanti la politica dei dividendi come, opportunità di crescita, politica di investimento, struttura proprietaria e leva finanziaria.
Utilizzando la nozione di settore, politica dei dividendi e tasso di dividendo sono determinati e giudicati idonei o meno, eccessivi oppure no, comparandoli alla media del settore. Se tale conclusione può sembrare banale, non lo sono ugualmente le implicazioni sottese: comparare payout e tasso di dividendo a quelli delle imprese simili per settore di apparteneza significa, infatti, ipotizzare che tutte le imprese hanno un’analoga esigenza di capitale, nonchè investimenti netti uguali; non sempre tutto ciò si rivela essere vero, soprattutto se tali imprese stanno attraversando fasi diverse del loro ciclo di vita. Ma anche se tali imprese vivessero una analoga fase, potrebbero non permettersi una politica dei dividendi in linea con quella del settore.
Secondo una nozione più ampia di imprese comparabili che tenga in considerazione l’intero mercato, come anticipato, dovremmo
31 “Finanza Aziendale. Applicazioni per il Management” X. Xxxxxxxxx
individuare volta per volta il campione di imprese di riferimento prendendo come parametri, quelli esaminati nei paragrafi precedenti.
Evidenze empiriche dimostrano che opportunità di crescita e rischio azionario sono le variabili che più di tutte influenzano la scelta; in particolare un test di regressione effettuato su un campione di imprese statunitensi, ha evidenziato che il 26% delle differenze nei tassi di dividendo e il 20% nei rapporti di distribuzione degli utili tra le varie imprese sono determinate da tali variabili. Le conclusioni a cui si è pervenuti ripercorrono quelle che abbiamo già avuto modo di evidenziare: imprese con maggiori opportunità di crescita potrebbero rinunciare a una distribuzione più consistente, per poter sfruttare la redditività di futuri investimenti, così come un rischio più elevato influsce negativamente sia sui tassi di dividendo che sulla distribuzione di utili in forma di dividendi.
CAPITOLO 3
LA POLITICA DEI DIVIDENDI DEL SETTORE TECNOLOGICO:
IL CASO DI MICROSOFT E APPLE
A supporto dell’analisi che abbiamo svolto nei capitoli precedenti, in questo capitolo, saranno analizzate le politiche dei dividendi adottate da due imprese che possono essere considerate leader dei rispettivi mercati in cui operano: Microsoft ed Apple. Come spesso accade per le imprese del settore tecnologico, che necessitano di ingenti investimenti per crescere e restare competitive, esse hanno per lungo tempo adottato una politica di distribuzione orientata al reinvestimento degli utili realizzati, fino ad una brusca inversione di tendenza che, non senza polemiche e perplessità, le ha viste protagoniste di una delle più grandi distribuzioni di dividendi a cui si è assistito nel tempo,Microsoft a partire dal 2004, Apple più recentemente, dal 2012. L’obiettivo sarà, innanzitutto, quello di capire se tali imprese rispetto agli elementi e alle considerazioni fatte precedentemente, si collocano in una logica di rispondenza, ovvero se ne distaccano in parte o del tutto.
In secondo luogo, indagheremo le ragioni che hanno animato tale scelta per capire quali fattori hanno spinto le due imprese a implementare tale politica e quali le implicazioni sul valore complessivo, in termini di prospettive e opportunità future.
3.1 MICROSOFT: CENNI STORICI
È il 1975 quando Xxxx Xxxxx e Xxxx Xxxxx decidono di dar vita a quella che oggi è una delle più importanti aziende del ramo tecnologico, adibita allo sviluppo di sistemi software ma non solo; l’idea nasce da un sogno condiviso, che riflette la mission attuale di Microsoft, di fornire ogni scrivania e ogni casa di un computer. A distanza di poco più di quaranta anni possiamo dire, che i due fondatori si sono dimostrati assolutamente in grado di dare forma concreta al loro sogno e raggiungere i propri obiettivi. Questo non deve certamente indurre a pensare che il destino di Microsoft sia compiuto, data le potenzialità ancora da sfruttare e le sfide da affrontare per farlo.
Attualmente, opera in qualità di leader nel campo dei software, servizi, e tecnologie Internet per la gestione di informazioni di persone e aziende. Conta più di 92 mila dipendenti, sparsi nelle filiali di tutto il mondo; solo 850 quelli di Microsoft Italia con sede a Roma, Milano e Torino.
Nel 2009 ha registrato un fatturato di 58 miliardi di dollari, rendendola anche a distanza di anni dalla fondazione, uno dei colossi più grandi e importanti al mondo.32
Quanto alla politica di distribuzione, come ci si può attendere da un’impresa come Microsoft, in un settore come quello in cui essa opera, è stato riscontrato
che essa ha sempre fatto leva su una forte politica di reinvestimenti di utili in progetti di lungo periodo, xxxxx in atto per sostenere la crescita e il proprio sviluppo. Con obiettivi del genere che hanno animato la propria condotta, crescita e sviluppo appunto, Microsoft è riuscita in poco più di 30 anni di vita a tesaurizzare somme da capogiro, anche della portata di 1 miliardo di dollari al mese, dandole la possibilità di erogare dividendi e riacquistare azioni proprie in quantità superiori
32 “Il Sole 24 ore”, xxxx://xxxxxxxxx.xxxxxx00xxx.xxx/xxxxxxxxx.xxxx
rispetto ad ogni altra impresa statunitense della sua portata. Questo solo a partire dal 2003, quando la stessa ha annunciato il suo primo dividendo.
Sulla stessa scia, è apparsa una vera e propria inversione di rotta, quella del 2004 quando Microsoft ha annunciato una distribuzione così composta: 30 miliardi di dollari destinati a riaquisti di azioni proprie, 32 miliardi distribuiti in forma di dividendo straordinario e per la parte restante, dopo aver provveduto alla copertura delle spese legali per i contenziosi in cui era coinvolta, era previsto un residuo che le consentiva di raddoppiare il dividendo ordinario di 0,32 dollari per azione all’anno, mediante pagamenti trimestrali.33
A questo punto, le domande che ci poniamo e a cui cercheremo di dare nel seguito una risposta è: quali ragioni sono da individuare dietro questa mossa? Quali i vantaggi auspicati e i riflessi sull’impresa?
33 “Principi di Finanza Aziendale” R.A. Xxxxxxx, S. C. Xxxxxx, X. Xxxxx, X. Xxxxxx; “Corporate Payout Policy”, X. XxXxxxxx, X. XxXxxxxx, D. J. Xxxxxxx.
3.2 DA “UN’IMBARAZZANTE TESAURIZZAZIONE” ALLA PIU’ GRANDE DISTRIBUZIONE DI DENARO.
Prima del 2004 Microsoft aveva guidato una politica di investimenti a lungo termine che rendeva necessario il reinvestimento degli utili realizzati, benchè una consistente parte veniva comuque distribuita ai propri azionisti in forma di azioni proprie; in una teleconferenza con gli analisti di Wall Street, Xxxxx Xxxxxxx (all’epoca CEO di Microsoft) afferma infatti che nei cinque anni precedenti Microsoft aveva erogato qualcosa come 50/60 milardi di dollari ai propri azionisti, rendendola già allora l’azienda con la più grande distribuzione di utili degli Stati Uniti. Inutile anche solo immaginare, a questo punto, che cosa significasse portare quelle cifre già consistenti a 75 miliardi di dollari nei seguenti 4 anni a partire dal 2004.
Nella stessa teleconferenza Xxxx Xxxxxxx (Senior Vice-Presidente e CFO), definisce questa nuova politica, in linea con la loro filosofia immutata e sempre sottesa alla crescita e a pesanti investimenti, a cui si aggiungono due priorità: continuare ad aumentare il dividendo ordinario ed incrementare il livello dei riacquisti di azioni proprie. Nessuna finalità speculativa, sostiene Xxxxxxx, a chi gli chiede se l’intento è quello di porsi al di sopra dell’indice S&P 500, solo la convizione che tale piano fosse perfettamente in regola con le opportunità che le si mostravano in termini di crescita del business. L’idea è che continuando ad investire in software ed innovazioni non solo si creano le basi per un grande business, ovvero le premesse per un payout significativo, ma anche un modo per creare maggior valore ai clienti, influendo sulle loro abitudini di intrattenimento e di lavoro.
Un punto di forza era sicuramente l’entità della cassa generata, nonchè il bilancio stesso di Microsoft, elementi che mettevano in luce le possibilità ancora da sfruttare in termini di acquisizioni e investimenti,
nonchè l’alto livello di performance di cui erano stati capaci. Potevano contare su quella che è stata definita un’imbarazzante tesaurizzazione, frutto della precedente politica di investimenti e payout, che gli ha consentito di poter sostenere una simile distribuzione, nonchè le dimensioni e la stessa reputazione dell’impresa, che la rendeva abbastanza sicura del fatto che, anche in caso di contingenze inaspettate, potevano contare su un più facile accesso a fonti di finanziamento esterne34.
A favorire la nuova gestione di cassa, infine, la risoluzione delle controversie legali, che ha dato modo a Microsoft di liberare ulteriori risorse da destinare alla nuova politica di distribuzione. Negli anni precedenti infatti, l’azienda era stata impegnata nella ricerca, non scevra di difficoltà, di un accordo con il Department of Justice degli USA e l’autorità antitrust, che sanasse la posizione di Microsoft che era stata precedentemente accusata da 19 Stati americani di abuso di posizione dominante, concorrenza sleale e pratiche monopolistiche.
L’accordo sarà raggiunto nel novembre del 2001, ma bisognerà attendere il 2002 affinchè la vicenda americana volga al termine. L’accordo in questione è giudicato un chiaro segnale della disponibilità dell’azienda di risolvere in modo giusto ed adeguato i suoi preoblemi legali; ciò ha infatti dei significativi riflessi, dal momento che permette a Microsoft di ridurre il rischio ma al contempo di avere una maggiore consapevolezza di quello legato a controversie ancora da risolvere, senza tralasciare la possibilità che ne deriva di restituire maggiori risorse ai propri azionisti35.
34 “Corporate Payout Policy” X. XxXxxxxx, X. XxXxxxxx, D.J. Xxxxxxx
35 “xxx.xxxxxxxxx.xx/XxxxXxxxxx/Xxxxxxxx/Xxxxxx.xxxx?XXXxxxxxxx”
3.2.1 LA DISPONIBILITA’ DI RISORSE LIQUIDE
La disponibilità di ingenti risorse liquide ha sicuramente rappresentato il fattore determinante per poter distribuire agli azionisti l’ammontare di 75 miliardi di dollari derivanti come già rcordato da una tesaurizzazione che si assestava ad un miliardo di dollari annui.
Se poi la ricolleghiamo alla fase del ciclo di vita che Microsoft stava vivendo in quel periodo, la politica di cui si è fatta portavoce appare ancor più giustificata.
Ma procediamo per gradi; quando abbiamo parlato di ciclo di vita delle imprese, abbiamo evidenziato che esiste anche un ciclo di vita per la politica dei dividendi e le due dovrebbero procedere di pari passo, se l’obiettivo è la massimizzazione del valore dell’impresa. Abbiamo visto che nella realtà ci sono dei fattori che rendono difficile adattare una politica all’altra, innanzitutto per la difficoltà di definire il passaggio da uno stadio all’altro del ciclo di vita. In generale imprese mature con disponibilità di cassa anche molto consistenti, sono quelle che distribuiscono maggiori dividendi; dovrebbe valere, tuttavia, per tutte una regola di valutazione generale per cui la decisione di espandere l’erogazione dei dividendi dovrebbe essere il risultato di un accertamento riguardo i FCF realizzati, opportunità di investimento a VAN positivo, adeguatezza della politica di indebitamento nonchè del livello di riserve per fronteggiare situzioni impreviste; se questo è valso anche per Microsoft allora la sua politica ha tutte le giustificazioni per trovare applicazione.
In effetti stando alle dichiarazioni del suo management essa all’epoca
xxxx’xxxxxxxx, vantava ancora la possibilità di crescere ulteriormente, lasciando intendere quindi che, senza mutare la propria filosofia rispetto al passato in tema di investimenti e facendo fronte ad eventuali situazioni di incertezza, ovvero spese legali per controversie
in atto, nonchè tenendo conto di poter accedere al credito esterno facilmente, essi sarebbero stati in grado senza particolari difficoltà di mantenere fede al loro annuncio, prevedendo ulteriormente la possibilità di sfruttare il residuo di cassa per pagare anche un dividendo straordinario; tutto ciò a conferma del fatto che la disponibilità di un’ingente ricchezza ha rappresentato per Microsoft e lo è per tutte le imprese il punto di forza più importante, se si vuole intrapredere una politica di distribuzione orientata ai dividendi.
3.2.2 LA RIFORMA DEL DIRITTO TRIBUTARIO DEL 2003
Tra le tante motivazioni che vanno ricercate nella decisione di Microsoft di modificare la propria politica di distribuzione, restituendo ai propri azionisti la cifra di 75 miliardi di dollari distribuiti in 4 anni, si fa spesso riferimento alla riforma del diritto tributario statunitense, in materia di imposte ed in particolare al taglio che questa prevedeva per le imposte sui dividendi che avrebbe reso allettante, anche per un’impresa come Microsoft, orientare il proprio payout in direzione di una maggiore erogazione di dividendi.
Come sappiamo infatti, fino al 2003 la politica di distribuzione dell’azienda aveva sempre previsto riacquisti di azioni proprie, lasciando ai dividendi un ruolo più o meno marginale. Solo qualche mese prima del famoso annuncio del 20 luglio 2004, Microsoft aveva intrapreso una politica dei dividendi che avrebbe portato all’erogazione di un dividendo straordinario di 32 miliardi di dollari e un raddoppio di quello ordinario di 0,32 dollari.
Non pochi sono stati quelli che hanno visto in questa mossa un tentativo da parte dell’impresa non solo di poter migliorare la propria performance finanziaria in virtù dell’impazienza dei mercati nei confronti di Microsoft, ma anche di beneficiare dei nuovi assetti determinati, sul piano fiscale, dalla riforma.
Nel 2003 infatti la normativa fiscale aveva ridotto l’aliquota di imposta sui dividendi portandola al 15 %, eliminando lo svantaggio fiscale rispetto ai capital gain che li rendeva preferibili ai dividendi in virtù di una più bassa aliquota; allineando il sistema di tali aliquote tra le due forme di distribuzione, si rendeva di fatto più difficile la scelta
di ricorrere all’una, ovvero all’altra forma rispetto al passato, quando le plusvalenze da capital gain godevano di un vantaggio fiscale.36
Nello specifico il programma presentato dal presidente Xxxxxx X. Xxxx, seguendo in parte la direttrice italiana, aveva introdotto il cosiddetto regime per trasparenza e quindi la tassazione dei dividendi solo in capo al soggetto che produce reddito, prevedendo il divieto di far confluire i dividendi distribuiti nell’imponibile dei soggetti beneficiari37.
Ciò si traduceva nella possibilità delle imprese di erogare maggiori dividendi, e in un vantaggio per gli azionisti che preferivano le distribuzioni in contanti che, con l’allineamento del trattamento fiscale di dividendi e capital gain, si sottraevano dall’onere di una doppia imposizione.
36 “Finanza Aziendale”, X. Xxxxxxxxx
37 Xxx.xxxxxxx.xxxx.xx, “Trattamento fiscale dei dividendi, degli interessi passivi da finanziamento, soci equiparati e dei crediti d’imposta nelle normative riguardanti l’imposta sulle società negli USA. Comparazione con il trattamento fiscale previsto in Italia”.
3.2.3 LA RIDUZIONE DELLE OPPORTUNITA’ DI CRESCITA
“… Well, the word “stage” is kind of a loaded question. (W)hen we
look out over the next several years, I’m confident we have some of the greatest dollar growth prospects in front of us of any company in the world, full stop, period, without question it’s there So I think of
us as very much in a phase of great opportunity and a phase, frankly, of significant growth”.38
Queste, le parole di Xxxxx Xxxxxxx quando gli viene chiesto a che stadio del ciclo di vita i manager di Microsoft ritenegono essa si trovi al momento dell’annuncio. Esse manifestano la totale fiducia nelle potenzialità dell’azienda e nella totale assenza di legami con le opportunità di crescita, della sua politica di distribuzione. Si parla, al contrario, di acquisizioni e grossi investimenti per il futuro, a sostegno della tesi che tale politica non è sintomo di un potenziale calo della crescita di Microsoft; in effetti agli organi apicali dell’azienda erano offerte diverse possibilità: dall’investimento in ricerca e innovazione al creare alleanze strategiche, ad esempio con SAP, una delle imprese di software tedesche leader nel proprio settore, e che se da un lato poteva apportare dei benefici indubbi, d’altro canto portava con se problematiche per il business di Microsoft, che aveva già (e avrebbe fatto bene ad estendere), partnership con imprese rivali della stessa; senza dimenticare che tale condotta non sarebbe stata accettata dall’autorità antitrust per il peso e il significato che tale forma di allenza avrebbe rivestito per la competitività del settore.39 Quello di Microsoft è un progetto di continua espansione, che ha accompagnato tutto il corso della sua vita e continua a sostenerla con numerosissime
38 “Corporate Payout Policy” X. XxXxxxxx, X. XxXxxxxx, D. J. Xxxxxxx.
39 “An End To Growth?” in The Economist, 2004
acquisizioni: 195 in totale, che segnano la presenza del gigante di Xxxxxxx in 21 paesi del mondo. Da questo si capisce bene che le acquisizioni hanno rappresentato lo strumento cardine della sua polica di investimenti, a cui nessuna distribuzione è riuscita a minarne le basi.
Da Forethought, creatrice di Power Point, che ha sottratto ad Apple a pochi anni dalla fondazione alla più recente, rivolta alla start up bolognese Solair ( attiva nel cloud computing e Internet delle cose) che rappresenta la prima acquisizione di Microsoft in Italia, passando per Skype, Nokia e Dell, per citare solo quelle più note, alcune di successo altre, per quanto poggiassero su intuizioni valide, si sono rivelate dei veri e propri disastri ( tra i casi più emblematici, Nokia).40
40 xxxx://xxxxxxxxxxxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx/00000-00000000-xxxxxxxxx-xxxxxxxxxxxx-xxxxxxx
3.3 APPLE: CENNI STORICI
Apple nasce nel 1976, quando era passato già un anno dal momento in cui Xxxxx Xxxxxxx e Xxxxx Xxxx iniziarono a progettare il loro primo computer nel garage della famiglia di quest’ultimo, battezzato “Apple I”.
Così di fronte la sfiducia mostrata da HP, società per cui lo stesso Xxxxxxx lavorava e a cui doveva presentare in via esclusiva ogni suo progetto, i due insieme al co-fondatore Xxxxxx Xxxxx diedero vita alla Apple Computer Inc. oggi conosciuta semplicemente come Apple e che si configura ai giorni nostri come una delle società a più grande capitalizzazione del mondo.
Essa è stata caratterizzata da subito da una crescita elevatissima e anche a fronte di insuccessi legati a prodotti non hanno riscontrato successo, ha continuato a crescere con ritmi superiori a qualsiasi altra impresa nella storia, anche dopo la quotazione avvenuta nel 1981 quando le sue azioni aumentarono del 1700%.
A metà degli anni ’80 aveva assunto le dimensioni di una multinazionale ma si apprestava ad entrare in una fase di profonda difficoltà derivante in parte dall’abbandono di Xxxx, in parte dalla crisi economico-finanziaria oltre che strategica che l’ha portata vicina al fallimento; fallimento scongiurato dal ritorno di Xxxxx Xxxx alla fine degli anni ’90, che in qualità di nuovo CEO, con un programma rivitalizzante ha saputo risollevare l’azienda dal baratro in cui stava cadendo. L’ha indirizzata al cambiamento e all’innovazione continua, tanto che a distanza di anni dalla sua nascita non si può parlare ancora di maturità per quest’impresa che presenta tutte le condizioni per poter crescere ulteriormente.
Date queste premesse appare logico aspettarsi anche nel caso di Apple una politica molto conservativa in materia di payout. Essa prima del
2012 aveva infatti accumulato un quantità enorme di liquidità pari a
100 miliardi di dollari che Xxxx riteneva necessario riservare a possibili acquisizioni o investimenti futuri. Prima di allora Apple aveva già sperimentato il pagamento di dividendi in contante che ha dovuto obbligatoriamente troncare nel 1995 quando registrò un drastico calo delle riserve di cassa. Probabilmente ciò ha rappresentato un promemoria vivente per Jobs del perchè fosse opportuno puntare su una politica più conservativa, che in effetti ha portato avanti fino alla sua morte nel 2011.
A quel punto anche la maggiore pressione degli investitori affinchè l’azienda distribuisse loro cassa, in virtù della tesaurizzazione realizzata, ha determinato l’annuncio tramite una Conference Call con gli analisti di Wall Street del pagamento di un dividendo di 2,65 dollari per azione, nonchè di un riacquisto di azioni che avrebbe significato per le casse di Apple una spesa di 10 miliardi che nei successivi 3 anni sarebbe arrivata a 45 miliardi di dollari41.
41 “Principi di Finanza Aziendale”, R. A. Xxxxxxx, S. C. Xxxxx, X. Xxxxx, X. Xxxxxx.
3.3.1 LE RAGIONI SOTTOSTANTI LA POLITICA DI DISTRIBUZIONE
Come anticipato, Apple dopo una lunga fase di vita caratterizzata da un radicale conservatorismo in tema di dividendi, ha annunciato nel marzo del 2012 che avrebbe effettuato il pagamento di un dividendo di 2,65 dollari nonchè un esborso di circa 10 miliardi per riacquistare azioni proprie, a cui si aggiungeva un ammontare totale di 45 miliardi di dollari che sarebbero stati pagati in un orizzonte di 3 anni.
A fronte di tale annuncio, diverse sono state le reazioni da parte degli analisti che hanno giudicato talvolta insignificante, tanvolta abbastanza generoso il payout di Apple. Esso trova sicuramente giustificazione nella grande disponibilità di risorse liquide che la società era riuscita ad accumulare nel tempo; e certamente non si può dire che si tratti di un’impresa poco innovativa o che non si sia curata nel tempo di reinvestire le proprie risorse.
Daltronde queste non sarebbero state prodotte in assenza di una politica di investimenti che ne supportasse la creazione; ed in effetti come abbiamo avuto modo di vedere, Apple ha rappresentato e rappresenta tutt’ora una delle imprese che cresce con i ritmi di una start-up in modo più veloce delle altre imprese non solo degli USA ma di tutto lo scenario mondiale. Nuovi grandi investimenti, ricerca e sviluppo, acquisizioni, aperture di nuovi punti vendita al dettaglio, innovazione, tecnologia sono solo alcuni degli impieghi di capitale che ne hanno giustificato l’utilizzo; e nonostante ciò il saldo di cassa di Apple oltre che le prospettive future di incassi lasciano sperare bene per una continua crescita e sostenibilità del business.
La decisione di Apple è stata attesa da tanti investori da molto tempo, ed in seguito alla morte di Xxxx (principale fautore del conservatorismo) le pressioni si sono fatte più insistenti; ma a
differenza di altre imprese che decidono di pagare dividendi quando, raggiunta una fase di maturità in cui hanno limitate opportunità di crescita, devono trovare nuovi impeghi alle risorse accumulate, lo stesso non si può dire di Apple che continua a creare prodotti di successo che le permettono di incrementare sempre più la propria base di clientela, ovvero l’entità delle proprie vendite.
Al di là di una palese disponibilità di denaro che gli ha permensso senza difficoltà di sostenere un tale payout, anche di altra natura sono state le giustificazioni a questa scelta: secondo alcuni dirigenti Apple infatti tale mossa sarebbe giustificata dal tentativo della società di attirare una nuova classe di investitori; infatti molti fondi investimento non permettono agli investitori di possedere azioni se queste non pagano dividendi.
Infine tale decisione, testimonia un cambiamento culturale dell’ Apple come organizzazione, segnato materialmente dal passaggio della direzione da Jobs a Xxxxxxx X. Xxxx che diversamente dal suo predecessore, ha resistito meno alle pressioni derivanti dal mercato e che spingevano l’azienda verso una politica orientata ai dividendi.42
42 “Flush with Cash, Apple Declares a Dividend and Buyback” X. Xxxxxxxxx (in New York Times, 20 Marzo 2012 pp. 81-89)
3.3.2 I RIFLESSI SUL PREZZO DELLE AZIONI
L’effetto immediato all’annuncio del pagamento di dividendi è stato un rialzo del prezzo dell’azione che da 15,53 è passato a 601,10 dollari. Sicuramente un risultato molto positivo per gli inestitori che hanno potuto beneficiare di un aumento della propria valutazione di borsa.
E sicuramente ha assunto un ruolo chiave per l’andamento che il titolo ha rilevato, le aspettative degli analisti in merito alle vendite future e quindi dal fatturato di Apple. Tali vendite infatti, avevano registrato un aumento consistente dal 2009 al 2010 (del 70%) e dal 2010 al 2011 (del 73%) che aveva fatto ben sperare che queste potessero incrementarsi ancora di più, portanto l’azienda a totalizzare un ammontare di cassa di 180 miliardi di dollari, dopo aver effettuato riacquisti e pagato dividendi entro l’anno in cui l’annuncio della nuova politica era stato fatto.
Il rialzo delle azioni potrebbe, altresì, assumere un significato specifico, ossia esso potrebbe rendere ancora più allettante l’azione Apple. Precedentemente, essa era già molto diffusa presso il pubblico degli investitori, quindi la decisione di pagare dividendi potrebbe incentivare il loro acquisto e quindi la loro diffusione, ancora di più. In particolare l’attenzione è rivolta a quelle categorie di fondi di investimento che Xxxx Xxxx, amministratore delegato di Xxxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxx (impresa di servizi finanziari), ha definito “income oriented” e proprio per la loro natura, sarebbero più motivate a detenere azioni Apple in portafoglio, perchè emblema di sicurezza e affidabilità. 43
43 “ Flush With Cash, Apple Plans Xxxxxxx and Dividend ”, XXXX XXXXXXXXX in The New York Times, 19 Marzo 2012.
CONCLUSIONI
Questo elaborato si inserisce in un quadro generale e che, quindi, può comprendere solo parzialmente il fenomeno oggetto di analisi, ovvero la politica dei dividendi.
Questo perchè come abbiamo avuto modo di affermare precedentemente e testare in corso di analisi, la politica dei dividendi rappresenta uno dei problemi “aperti” della finanza aziendale, ancora oggi oggetto di dibattito e studio. Tale scritto non vuole pertanto, racchiudere in poche battute, quella che è certamente una materia dai profili ancora inesplorati, ma che a partire da quanto già noto e consolidato nell’ambito della Teoria in materia (con M&M e la tesi dell’irrilevanza della politica dei dividendi) insieme ai contributi di altri autori che, seguendo una prospettiva diversa, pure hanno arricchito di nuovi elementi la tematica, vuole fornire una chiave di lettura per comprendere come le imprese prendono le loro decisioni di payout ed in particolar modo, quali sono gli elementi che maggiormente incidono nella definizione della politica dei dividendi.
Abbiamo infatti visto che al di là delle considerazioni fatte da M&M, che inducevano a credere che diverse politiche di dividendi erano tra loro indifferenti, esistono tanti fattori non contemplati dalla teoria che ne mettono in discussione gli esiti: imposte, ciclo di vita delle imprese, governance, disponibilità liquide, overconfidence… oltre al fatto che il punto debole più importante della teoria dell’irrilevanza è rappresentato dalle stesse premesse da cui essa parte: mercato perfetto, razionalità degli investitori, informazione completa e assenza di imposte; tutti elementi che non invalidano in senso assoluto la teoria ma limitano la sua applicabilità a modelli ideali, molto spesso estremamente differenti dai contesti reali in cui le imprese operano.
E basandoci proprio sui limiti individuati che abbiamo potuto mettere in evidenza elementi che in misura più o meno incisiva orientano le decisioni di payout in direzione o meno dei dividendi.
Tra questi, le imposte che, generalmente, fungono da deterrente alla distribuzione di dividendi, favorendo al contrario i capital gain che da un punto di vista fiscale sono avvantaggiati da un sistema di aliquote inferiore; il ciclo di vita delle imprese, che impone caratteristiche e comportamenti da parte di esse, in linea con le esigenze poste: dunque la distribuzione di dividendi sarà più contenuta per una giovane impresa con esigenze di crescita e sviluppo, più espansiva per un’impresa che, matura e di dimensioni considerevoli, può far leva su una disponibilità di cassa maggiore, limitate opportunità di crescita, esigenze di investimento minori.
Ancora, da un punto di vista strutturale, abbiamo visto che laddove nelle imprese è presente una governance più autorevole e un management più debole, l’erogazione di dividendi sarà maggiore rispetto ad un’impresa caratterizzata da una struttura proprietaria più debole e un management più ingerente che in virtù delle deleghe conferite e della posizione strategica occupata potrà influenzare in modo più incisivo le decisioni di payout che saranno in questo caso orientate alla ritenzione di risorse, spesso destinate a progetti che sottendono, più che alla redditività dell’impresa, all’interesse personale dei manager.
Tra gli altri elementi considerati, la disponibilità di cassa, le aspettative degli utili futuri, nonchè l’atteggiamento di azionisti e manager, con specifico riferimento al ruolo dell’overconfidence che spesso rappresenta un carattere distintivo ma tante altre volte può rappresentare una debolezza di non poco conto, quando frutto di decisioni sbagliate, le soluzioni implementate hanno riflessi negativi sull’impresa.
A supporto di tutte le considerazioni fatte, si colloca infine, l’analisi delle politiche dei dividendi di Microsoft e Apple; un commune denominatore rappresentato non solo dal ruolo di leader nei settori in cui operano che ha contribuito a renderle ciò che oggi sono (ad esempio in tema di capitalizzazione di mercato), ma anche in relazione alle scelte fatte in tema di payout: dopo anni trascorsi ad accumulare risorse per reivestirle in progetti di crescita e sviluppo, esse hanno iniziato a distribuire dividendi e quello che più desta attenzione è l’entità di questi ultimi, che come abbiamo sottolineato più volte, hanno reso la distribuzione di utili di queste due società una delle più grandi della loro storia. Diverse le interpretazioni fornite per giustificare una condotta simile: si è parlato di finalità speculative, ovvero opportunità di crescita in drastico calo, smentito in entrambi i casi da manager che reputavano tale distribuzione, in linea con le future politiche di investimenti delle società. Altri hanno visto, soprattutto per Microsoft, un tentativo per beneficiare di mutati assetti fiscali, piuttosto che di mere disponibilità di cassa che sotto la pressione degli investitori hanno contribuito a far sì che le società in questione decidessero per una siffatta distribuzione.
In conclusione, possiamo dire che il loro resta sicuramente un caso emblematico che pone degli interrogativi importanti, soprattutto in virtù di quanto visto precedentemente, e rappresenta un chiaro segnale che spesso gli azionisti non si fidano del management e della loro capacità di gestire le risorse aziendali e di trovare per esse investimenti orientati alla creazione di valore e non solo, come spesso accade, alla creazione di imperi dimensionalmente più grandi.
In ultima analisi, conferma ancora una volta quanto il problema dei dividendi, resta aperto a sempre nuove soluzioni.
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