3° RAPPORTO OSSERVATORIO PERMANENTE SUL LAVORO ATIPICO IN ITALIA
3° RAPPORTO OSSERVATORIO PERMANENTE SUL LAVORO ATIPICO IN ITALIA
2008
DONNE E LAVORO ATIPICO:
UN INCONTRO MOLTO CONTRADDITTORIO
di
Giovanna Altieri, Giuliano Ferrucci e Francesca Dota
marzo 2008
Il presente rapporto è frutto di un lavoro collettivo di Giovanna Altieri con Giuliano Ferrucci e Francesca Dota.
Sono stati scritti da Giovanna Altieri e Giuliano Ferrucci, che ha curato in particolare l’elaborazione statistica, i capitoli 1,2,3 e le conclusioni. Francesca Dota ha scritto il capitolo 4.
INDICE
Premessa 5
Capitolo 1
Crescita occupazionale: il protagonismo femminile 7
1.1 Dall’accordo del ’93 alla legge 30: gli anni che sconvolsero il mondo 7
del lavoro
1.2 L’occupazione femminile: le tendenze generali 9
Capitolo 2
L’instabilità lavorativa: una condizione di genere? 21
2.1 Definizione e dimensione dell’area di occupazione instabile 21
2.2 L’instabilità occupazionale: una condizione tipica delle donne 23
2.3 Durata dei contratti e transizioni all’occupazione stabile 29
Capitolo 3
I parasubordinati: una maggioranza al femminile 40
Premessa 40
3.1 Le collaboratrici “a reddito esclusivo” iscritte alla gestione separata
INPS 42
3.2 Lavorare in collaborazioni: poca autonomia in lavori che durano
poco 49
3.3 Redditi da lavoro bassissimi 54
3.4 Criticità al femminile 62
3.5 Le collaborazioni al femminile: una conciliazione difficile 64
Capitolo 4
Le donne nel sistema del lavoro interinale 71
4.1 Dimensioni del fenomeno e dinamiche di trasformazione 71
4.1.1 Un mercato limitato, ma in crescita 71
4.1.2 Le trasformazioni del “sistema interinale”: terziarizzazione e
femminilizzazione 74
4.2 La qualità dei percorsi 84
4.2.1 Settori e professioni: il sex-typing 84
4.2.2 Le durate delle missioni e le condizioni di lavoro 86
4.3 L’interinale: una scelta “imposta” dal mercato? 90
4.4 Il rischio di percorsi “bloccati” 91
Alcune conclusioni 94
1 Il lavoro in Italia: c’è una questione femminile? 94
2 Luci e Ombre 96
2.1 La crescita incompleta 96
2.2 La questione femminile come parte della questione meridionale 97
3 Il tasso di disoccupazione non è più una misura dello stato di salute
del mercato del lavoro 98
4 Qualità del lavoro e fertilità 100
5 L’atipicità-flessibilità del contratto non garantisce la conciliazione, marginalizza il lavoro femminile e deprime il tasso di disoccupazione e di natalità nazionale
102
Bibliografia 105
Premessa
Nel corso dell’ultimo decennio la partecipazione femminile al mercato del lavoro italiano ha seguito un andamento decisamente positivo, come dimostra l’aumento del tasso di attività passato dal 43% del 1996 al 51% del 2006. Le giovani donne, sempre più istruite, si affacciano nel mondo del lavoro con credenziali ed aspettative professionali del tutto simili a quelle dei loro coetanei uomini e, diventate adulte, continuano a lavorare in numero crescente nonostante le difficoltà che incontrano con la nascita di una nuova famiglia: negli ultimi 10 anni (1995‐2006) il tasso di occupazione femminile nella fascia d’età 35‐ 54 anni è aumentato di 14 punti. Tuttavia, le differenze tra centro‐nord e sud piuttosto che ridursi si sono accresciute e la distanza rispetto alla media europea si mantiene intorno ai 12 punti in percentuale.
La dinamica positiva della partecipazione femminile mette, comunque, in luce l’importanza del lavoro delle donne nell’economia familiare, lavoro a cui è sempre più difficile rinunciare e che le donne stesse non intendono abbandonare, soprattutto se hanno fatto un investimento di carattere formativo. Al tempo stesso suggerisce l’ipotesi che, nel nuovo mercato del lavoro “flessibile”, gli spazi per le donne si siano accresciuti e che, quindi, lavoro flessibile e occupazione femminile siano in relazione positiva. Il fenomeno, tuttavia, è articolato e multiforme e va studiato nella sua complessità: in particolare, come vedremo, le dinamiche in corso mostrano che le nuove opportunità occupazionali legate alla flessibilità comportano anche, per le donne, un aumento del rischio di essere relegate all’interno di circuiti chiusi, con poche certezze e scarse prospettive di carriera, e in contesti professionali di basso profilo che rafforzano di fatto la dipendenza dal partner e impediscono il superamento del modello basato sul maschio lavoratore capofamiglia (strong male breadwinner). Per questa via si
innestano altresì circoli viziosi che frenano lo sviluppo ulteriore dell’occupazione femminile; dati quantitativi e risultati di ricerche qualitative dimostrano, infatti, che le nuove forme contrattuali flessibili non sempre aiutano la conciliazione e, anzi, più che sostenere il lavoro delle donne impegnate in attività di cura, spesso le inducono ad abbandonare il mercato oppure a ridimensionare i progetti di maternità.
La ricerca si propone di quantificare e connotare l’area del lavoro atipico femminile combinando diverse fonti statistiche. Si metteranno in luce – anche attraverso i risultati di ricerche qualitative realizzate dall’IRES nell’arco degli ultimi anni ‐ le contraddizioni che derivano dai processi in atto.
Nonostante l’individualizzazione delle relazioni di lavoro (Beck, 2000) aprano il campo a possibili esiti positivi per i singoli e nelle strategie familiari di coppia (Piccone Stella, 2007), di fatto – come emergerà nelle prossime pagine ‐ le forme contrattuali atipiche (fortemente “femminilizzate”) tendono ad influenzare le modalità e i percorsi di vita e di lavoro delle donne, con effetti rilevanti sul sistema economico e sociale del Paese. Nel corso della trattazione metteremo a fuoco questi effetti strutturali cercando di portare elementi conoscitivi utili a riflettere su:
1. le ragioni del divario tra il tasso di occupazione femminile italiano e quello medio dell’Europa occidentale;
2. le implicazioni tra il ritardo nella partecipazione e la tipologia e la qualità dell’occupazione femminile nel nostro Paese;
3. i costi individuali e sociali generati dal modo con cui si sta affermando in Italia il modello della famiglia bireddito;
4. la dicotomia crescente tra Italia centro settentrionale e mezzogiorno;
5. i limiti di sistema ed i rischi di questo modello di partecipazione.
Capitolo 1
Crescita occupazionale: il protagonismo femminile
1.1 Dall’accordo del ’93 alla legge 30: gli anni che sconvolsero il mondo del lavoro
La crisi attraversata dal mondo del lavoro nella prima metà degli anni novanta ha creato le premesse per una sua radicale trasformazione. A fronte delle difficoltà incontrate dall’economia italiana nella competizione internazionale, l’accordo del luglio 1993 ha sancito l’adesione delle parti sociali al programma di ristrutturazione del sistema produttivo, fissando nuove regole contrattuali.
In sintonia con le direttive della nascente Unione Europea, la politica economica è stata orientata alla liberalizzazione di molte attività strategiche prima sotto controllo statale (telecomunicazioni, distribuzione dell’energia, ferrovie…), al decentramento amministrativo in materia fiscale e di programmazione, all’allentamento delle così dette “rigidità” del mercato del lavoro, a cominciare dalle condizioni che regolano i contratti a tempo determinato.
Tra il 1994 e il 2000 il prodotto interno lordo è aumentato a velocità incostante ma nell’insieme soddisfacente e l’occupazione è tornata a crescere ma con ritardo (soltanto nel 2001 il numero di occupati ha uguagliato il picco raggiunto nel 1991). Nei primi anni del nuovo secolo l’economia ha rallentato ma l’incremento degli occupati è stato – con eccezione del 2004 e 2005 – molto sostenuto: si è parlato, infatti, di growthless job.
Contestualmente - a causa dei cambiamenti intervenuti nel sistema economico e nella composizione dell’occupazione - è diminuito il numero di ore lavorate per occupato. Sono spiegazioni plausibili di questo fenomeno: 1. la crescita dei servizi, dove gli orari di lavoro sono relativamente più contenuti; 2. l’aumento considerevole del peso delle donne sull’occupazione totale, con occupazioni prevalentemente part-time; 3. la diminuzione del numero di persone con più lavori.
Per quanto riguarda il processo di “terziarizzazione” dell’economia (il peso dell’occupazione nei servizi è aumentato di 5 punti percentuali in dieci anni, dal
60% del 1995 al 65% del 2005), esso è stato guidato dal settore immobiliare, da quello alberghiero e della ristorazione, della salute e lavori sociali e dai servizi alle persone, tutte attività labour intensive. La produttività del lavoro è, di conseguenza, diminuita.
La crescita dell’occupazione femminile ha portato con se’ l’aumento del lavoro a tempo parziale, il cui peso è sostanzialmente raddoppiato nei dieci anni considerati, attestandosi al 13% circa dell’occupazione totale (26% tra le donne, una quota ancora bassa in relazione agli altri paesi dell’Europa occidentale).
Dal lato della produzione, le imprese hanno risposto alla concorrenza con la flessibilità del lavoro.
L’occupazione a tempo determinato cresce in tutti i settori con eccezione dei servizi domestici dove invece aumenta in modo rilevante il lavoro part-time, modalità questa in espansione nel terziario in genere. Anche il ricorso a contratti di collaborazione – nelle diverse formule che la legislazione ha definito a partire dalla normativa fiscale del 1995 – si è progressivamente diffuso, caratterizzando il mercato italiano per la presenza di lavoratori formalmente autonomi e tuttavia soggetti a vincoli sostanzialmente assimilabili a quelli di un dipendente in senso stretto e per questo definiti “parasubordinati”. Insieme ai lavoratori “temporanei” (e a molti professionisti che lavorano per un unico committente e dipendono da quello), essi rappresentano lo “strumento” della flessibilità nelle mani dell’impresa.
Dalla prospettiva di chi lavora, la flessibilità nella forma di “quasi dipendenza” si risolve nella mancanza di tutele e protezione sociale, nell’esclusione dai programmi di formazione e nella chiusura dei percorsi di carriera.
Il ricorso estensivo al lavoro temporaneo e parasubordinato tende a deteriorare il capitale umano e rischia di compromettere le dinamiche di lungo periodo. Non a caso ancora nel 2006 meno dell’1% del PIL era destinato all’investimento in ricerca e sviluppo. Nonostante l’aumento del numero di laureati, il contributo delle competenze individuali alla generazione di nuove tecnologie è diminuito (sono diminuiti gli “educational premia”, i più bassi nell’Europa comunitaria). Molti laureati, presenti soprattutto nel settore dell’ Istruzione, salute e lavori sociali, in quello immobiliare e in quello dell’intermediazione finanziaria, sono impegnati in attività relativamente meno qualificate, soprattutto tecnici e
commessi: nel 1995 erano impiegati come professionisti il 65% dei laureati, dieci anni dopo solo il 53%.
Sulla base di recenti ricerche sul tema della soddisfazione dei lavoratori italiani, è risultato un giudizio nell’insieme negativo e un numero crescente di persone insoddisfatte che lamentano l’insicurezza, le modalità e l’orario di lavoro, tutte “dimensioni” della flessibilità.
E’ in questo contesto che si sono sviluppate le dinamiche quantitative che andiamo a descrivere nei prossimi paragrafi.
1.2 L’occupazione femminile: le tendenze generali
Tra il 1993 ed il 2006 si registra, dopo una leggera flessione nel 1994, un aumento rilevante dell’occupazione femminile, sia in termini assoluti (1683000 unità, equivalente ad un incremento del 23%), che in termini relativi, tanto che la quota di occupazione totale imputabile alle donne è passata dal 35% del 1993 al 39% del 2006 (figura 1). Soprattutto le donne, infatti, hanno alimentato la crescita del mercato del lavoro, assorbendo il 76% dell’aumento complessivo di occupazione (tabella 1).
Tabella 1. Occupati per sesso (migliaia di unità) – anni 1993 e 2006
Maschi | Femmine | Totale | |
1993 | 13.399 | 7.366 | 20.765 |
2006 | 13.939 | 9.049 | 22.988 |
1993-2006 | +540 | +1.683 | +2.223 |
Fonte: Istat – serie armonizzate
E’ in particolare nel lavoro stabile che le donne sono state protagoniste.
Figura 1 Occupazione totale per genere
L’occupazione complessiva è aumentata di 2223000 unità (+11%)
25.000
35%
39%
20.000
X 1000
15.000
65%
61%
10.000
5.000
0
1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006
Maschi Femmine
Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro
I dati dal 1993 al 2003 sono ricostruiti e coerenti con la metodologia della nuova Rilevazione continua sulle forze di lavoro avviata a partire dal 2004
10
L’occupazione dipendente non a carattere temporaneo è aumentata - tra il 1993 e il 2006 - di 1.390mila unità (+10,4%): tale incremento è spiegato per il 92% dalla componente femminile il cui peso, sul totale dei lavoratori a tempo indeterminato, è cresciuto dal 36% al 41%.
Anche nell’occupazione dipendente a tempo determinato la parte femminile è risultata più dinamica. A fronte di una crescita complessiva di 761mila unità, le donne hanno contribuito per il 57% e già dal 2003 esse costituiscono la maggioranza di questo segmento occupazionale (figura 2).
L’aumento dell’occupazione dipendente a carattere temporaneo è comunque un fenomeno generalizzato: tra il 1997 e il 2000 e, successivamente, dal 2004, il ricorso a questa forma contrattuale è in forte ascesa, sia per gli uomini che per le donne. Si tratta, tuttavia, di dinamiche discontinue e molto sensibili alle fasi del ciclo economico.
A seguito di questi andamenti è cambiata la struttura dell’occupazione.
Nel contesto del lavoro dipendente, si registra un incremento sensibile della componente instabile che passa dal 9,9% al 13,1% (figura 3).
Per quanto riguarda l’occupazione indipendente, il peso relativo sul totale diminuisce rispetto al 1993 (dal 29 al 26% circa) ma la flessione si concentra negli ultimi 2 anni. In definitiva, il lavoro indipendente pesa un po’ meno di qualche anno fa ma è ancora sopradimensionato rispetto ad altri Paesi europei. La quota degli indipendenti sulla totalità degli occupati in Italia supera, infatti, di oltre 10 punti la media europea. Come è stato messo in luce con riferimento alle dinamiche che caratterizzano questo ambito del mercato del lavoro, “la vera novità non è che cresce ma che cambia” (Accornero-Anastasia, 2006). Le variazioni più rilevanti riguardano il calo degli autonomi, dei coadiuvanti familiari e soci di cooperativa e la crescita significativa dei liberi professionisti. Tra questi ultimi vanno inclusi a pieno titolo il gruppo dei collaboratori coordinati e continuativi, a progetto e occasionali, di cui tratteremo ampiamente in seguito.
11
Figura 2
Occupazione dipendente a carattere temporaneo per genere
L’occupazione dipendente a termine è aumentata di 761000 unità (+52%)
pacchetto Treu
2500
51%
2000
X 1000
1500
48%
1000
52%
49%
500
0
1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006
Maschi Femmine
Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro
I dati dal 1993 al 2003 sono ricostruiti e coerenti con la metodologia della nuova Rilevazione continua sulle forze di lavoro avviata a partire dal 2004
Figura 3
Evoluzione delle diverse componenti dell’occupazione
La quota di occupazione dipendente relativa ai contratti a tempo determinato è aumentata di 3,2 punti percentuali tra il 1993 e il 2006, passando dal 9,9 al 13,1%. L’aumento complessivo di occupati (+2223000) è ‘spiegato’ per un terzo dall’aumento di occupati a termine (+761000 - B)
A – Distribuzione delle componenti dell’occupazione dipendente
9,9
13,1
100%
90%
80%
B – Distribuzione dell’aumento di occupazione (1993 – 2006) tra le diverse componenti
3%
34%
63%
70%
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
1993
2006
Dipendenti non a termine Dipendenti a carattere temporaneo Indipendenti
Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro
I dati dal 1993 al 2003 sono ricostruiti e coerenti con la metodologia della nuova Rilevazione continua sulle forze di lavoro avviata a partire dal 2004
I cambiamenti intervenuti nella struttura dell’occupazione hanno interessato diversamente uomini e donne.
Tra le donne aumenta il peso del lavoro dipendente – sia temporaneo che permanente – e diminuisce quello del lavoro indipendente, ridotto nel 2006 al 20% (era il 25% nel 1993). Nell’ambito dell’occupazione dipendente, inoltre, guadagna terreno il lavoro a tempo determinato che passa da poco meno del 13% del 1993 a quasi il 16% del 2006 (figura 4).
Si tratta di variazioni verificate nel corso degli anni in un contesto di crescita notevole dell’occupazione femminile nel suo insieme, per il 75% riferibile alla componente stabile del lavoro dipendente.
L’occupazione maschile ha seguito un andamento più incerto, risultando fortemente penalizzata nel corso degli anni novanta. Inoltre, a fronte della sostanziale stabilità della parte indipendente (30%), il lavoro degli uomini tende a divenire più “precario”: il contributo alla crescita dell’occupazione maschile è, infatti, spiegato per il 60% dalla componente instabile dell’occupazione dipendente (figura 5).
In ogni caso il lavoro a termine degli uomini – nonostante la crescita marcata della seconda metà degli anni novanta e l’aumento più recente registrato dal 2004
– costituisce nel 2006 una quota parte dell’occupazione dipendente maschile (11% circa) decisamente minore rispetto al peso registrato per le donne (quasi 16%).
La presenza femminile nel mercato del lavoro, quindi, si è rafforzata in tutte le componenti e, in particolare, tra i dipendenti a tempo indeterminato.
Il processo è stato guidato dal lavoro part-time che interessa una quota crescente di donne occupate (era il 21% nel 93 e il 26,5% nel 2006). Nel periodo considerato, più della metà della nuova occupazione femminile è a tempo parziale (+855mila persone).
14
Figura 4
Evoluzione delle diverse componenti dell’occupazione Femmine
La quota di occupazione dipendente femminile relativa ai contratti a tempo determinato è aumentata di 3,1 punti percentuali tra il 1993 e il 2006, passando dal 12,7 al 15,8%. L’incremento dell’occupazione femminile totale (+1683000) è ‘spiegato’ per il 75% dall’aumento di occupate a tempo indeterminato (+1278000 - B)
A – Distribuzione delle componenti dell’occupazione dipendente
12,7
15,8
100%
B – Distribuzione dell’aumento di occupazione (1993 – 2006) tra le diverse componenti
25%
0
75%
90%
80%
70%
60%
%*
50%
40%
30%
20%
10%
0%
1993
2006
* Le indipendenti sono diminuite di 31000 unità
Dipendenti non a termine Dipendenti a carattere temporaneo Indipendenti
Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro
I dati dal 1993 al 2003 sono ricostruiti e coerenti con la metodologia della nuova Rilevazione continua sulle forze di lavoro avviata a partire dal 2004
Figura 5
Evoluzione delle diverse componenti dell’occupazione Maschi
La quota di occupazione dipendente maschile relativa ai contratti a tempo determinato è aumentata di 3 punti percentuali tra il 1993 e il 2006, passando dal 8,2 al 11,2%. L’aumento complessivo di occupati (+540000) è ‘spiegato’ per il 60% dall’aumento di occupati a termine (+325000 - B)
A – Distribuzione delle componenti dell’occupazione dipendente
8,2
11,2
100%
B – Distribuzione dell’aumento di occupazione (1993 – 2006) tra le diverse componenti
90%
80%
70%
60%
60%
50%
40%
19%
21%
30%
20%
10%
0%
1993
2006
Dipendenti non a termine Dipendenti a carattere temporaneo Indipendenti
Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro
I dati dal 1993 al 2003 sono ricostruiti e coerenti con la metodologia della nuova Rilevazione continua sulle forze di lavoro avviata a partire dal 2004
Recenti risultati di una ricerca IRES (Altieri, 2007) mostrano che, sebbene il dato medio sia ancora inferiore a quello di molti altri paesi europei a più alto tasso di attività femminile, quasi il 40% delle mamme occupate tra 35 e 44 anni è impegnato part-time. Superata la soglia dei 45 anni, vale a dire con figli più grandi, chi continua a lavorare opta tendenzialmente per un impegno a tempo pieno.
In definitiva possiamo affermare che anche in Italia una parte considerevole delle famiglie affronta il problema della cura dei figli riducendo l’impegno lavorativo della madre. D’altra parte il part-time maschile in Italia, soprattutto in età adulta, è solo residuale. Gli uomini con figli, inoltre, tendono ad avere orari di lavoro più lunghi non soltanto rispetto alle donne madri ma anche rispetto agli uomini che non hanno responsabilità familiari. L’indagine Ires a cui si è fatto riferimento segnala anche che circa il 50% delle donne occupate che hanno figli in età prescolare lavora a tempo parziale. La stessa indagine indica che il modello lavoro-famiglia basato sul part-time della madre e/o del padre interessa il 49% delle famiglie italiane con entrambi i genitori occupati e con figli entro i 15 anni. Dunque, in presenza di figli da accudire e seguire, l’occupazione femminile è possibile nella metà dei casi solo se a tempo parziale. Il part-time si dimostra, quindi, una modalità favorevole alla conciliazione sebbene, declinata prevalentemente al femminile, finisce col ridurre le chances professionali e, in molti casi, le prospettive di carriera.
E’ interessante valutare la relazione tra lavoro della donna e fecondità considerando diversi Paesi europei e la posizione dell’Italia in ambito continentale. La tabella 2 presenta i tassi di occupazione femminile nella fascia di età 20-49 anni per numero di figli e livello di istruzione. In generale, il tasso di occupazione aumenta col titolo di studio e decresce col numero di figli1: risulta molto elevato per le donne laureate senza figli e molto basso per le donne con 3 o più figli e livello di istruzione inferiore2. Inoltre, la presenza di figli deprime
1 Fa eccezione il Portogallo, dove il passaggio alla maternità con 1 o 2 figli non riduce il tasso di occupazione
2 In linea generale il passaggio da 1 o 2 figli ad almeno 3 è associato ad una caduta del tasso di occupazione maggiore rispetto alla diminuzione osservata nella transizione alla maternità (da
l’occupazione femminile soprattutto quando è basso il titolo di studio; viceversa, l’effetto maternità sulle donne più istruite è meno marcato.
Tabella 2. Tasso di occupazione per le donne tra 20 e 49 anni per Paese, livello di istruzione e numero di figli sotto i 12 anni, anno 2003
Paese | Livello di istruzione | ||||||||
inferiore | superiore | universitario | |||||||
Figli | Figli | Figli | |||||||
0 | 1 o 2 | almeno 3 | 0 | 1 o 2 | almeno 3 | 0 | 1 o 2 | almeno 3 | |
Italia | 45 | 34 | 17 | 73 | 61 | 49 | 88 | 80 | 73 |
Grecia | 49 | 42 | 27 | 53 | 49 | 35 | 83 | 79 | 76 |
Spagna | 48 | 37 | 25 | 67 | 56 | 43 | 83 | 75 | 70 |
Portogallo | 73 | 72 | 53 | 84 | 85 | - | 91 | 92 | - |
Francia | 68 | 54 | 28 | 79 | 71 | 39 | 82 | 81 | 59 |
Belgio | 58 | 47 | 20 | 77 | 70 | 46 | 89 | 87 | 77 |
Lussemburgo | 67 | 62 | - | 76 | 61 | - | 88 | 69 | - |
Germania | 65 | 41 | 21 | 80 | 65 | 45 | 89 | 76 | 56 |
Austria | 74 | 58 | 41 | 84 | 76 | 60 | 94 | 86 | 82 |
UK | 56 | 35 | 10 | 85 | 66 | 41 | 92 | 80 | 62 |
Finlandia | 69 | 60 | - | 72 | 71 | 53 | 89 | 82 | 65 |
UE a 25 | 57 | 43 | 22 | 78 | 64 | 43 | 88 | 80 | 63 |
Fonte EuroStat 2005
L’Italia è in ritardo soprattutto per le donne con istruzione inferiore: il loro tasso di occupazione è sensibilmente sotto la media dell’UE indipendentemente dal numero di figli.
nessun figlio ad uno o due). In Italia questo vale soltanto per le donne con basso livello di istruzione.
Nel quadro sopra delineato emergono due aspetti critici dell’universo femminile:
1. il basso livello di partecipazione al lavoro delle donne italiane, ancora lontano da quello medio dell’Europa dei 15;
2. il rischio crescente di svolgere un lavoro instabile. Considerando soltanto il lavoro dipendente, più di una donna su sei aveva nel 2006 un contratto a tempo determinato (le statistiche Istat qui considerate annoverano i collaboratori tra gli indipendenti). Le tendenze recenti dimostrano che le donne rappresentano ancora la componente più dinamica dell’occupazione ma con il baricentro spostato sul lavoro dipendente a termine. A fronte di un numero complessivo di 425mila posti di lavoro creati tra il 2005 ed il 2006, ben 196mila (107mila donne e 89mila uomini) sono dipendenti a tempo determinato e soltanto 186mila permanenti (figura 6).
D’altra parte l’ultimo rapporto Excelsior del 2007 segnala come i contratti a tempo indeterminato continuino a perdere peso nelle preferenze degli imprenditori e siano passati dal 60% del 2001 al 45,4% delle assunzioni previste nell’ultimo anno (Unioncamere, 2007). Un orientamento che, come emergerà di seguito, riguarda in particolare proprio le donne.
Figura 6
Variazioni dell’occupazione 2004-05 e 2005-06 per genere
Totale Dipendente
Dipendente a
Indipendente
500
425
224
202
159
116
42
500
non a termine
299
186
160
139
102
83
500
termine
196
118
107
81
89
36
44
34
10
24-134
-258
-1
200
400
300
200
400
300
200
400
300
200
100
0
-100
100
100
100
-200
0
2004-05
2005-06
0
2004-05
2005-06
0
2004-05
2005-06
-300
Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro
Totale
Maschi
Femmine
I dati dal 1993 al 2003 sono ricostruiti e coerenti con la metodologia della nuova Rilevazione continua sulle forze di lavoro avviata a partire dal 2004
20
Capitolo 2
L’instabilità lavorativa: una condizione di genere?
2.1 Definizione e dimensione dell’area di occupazione instabile
Si è molto discusso negli ultimi anni dello scostamento tra la percentuale relativamente contenuta di occupazione instabile, o a termine, risultante dai dati ufficiali Istat e la percezione diffusa che l’area del lavoro precario sia assai più ampia nel nostro Paese. Il dibattito ha interessato le metodologie di indagine, le fonti e gli strumenti di stima.
In primo luogo c’è da dire che, rispondendo ad obiettivi conoscitivi diversi, non si possono confrontare in modo puntuale le fonti statistiche campionarie e le fonti amministrative1. Le prime – quando disegnate per valutare con buona approssimazione aggregati di grandi dimensioni – sono relativamente deboli nel rappresentare fenomeni di piccola entità; le seconde (archivi Inps, Inpdap, Inail, ecc.) costituiscono banche dati teoricamente esaustive dell’universo ma sovente non aggiornate con tempestività ed elaborate indipendentemente dal momento in cui è accaduto l’evento descritto. Determinante, naturalmente, è anche la definizione dell’aggregato oggetto di misura.
Venendo alla rilevazione sulle forze lavoro curata dall’Istat con periodicità trimestrale, la condizione occupazionale è riferita ad un dato tempo (la settimana di riferimento) e, soprattutto quando il lavoro è a termine, le persone fisiche che la interpretano possono essere diverse nel corso dell’anno. Gli occupati a tempo determinato, quindi, potranno essere in altri periodi ancora occupati - con la stessa o altre forme contrattuali - oppure disoccupati, quando non addirittura usciti dal mercato del lavoro.
1 E’ il caso macroscopico del numero di collaboratori rilevati dall’Istat e di quelli che risultano iscritti al fondo INPS per i parasubordinati; su questo punto si tornerà successivamente
Seguendo questo ragionamento e la strada già proposta da Mandrone e Massarelli2, abbiamo considerato nell’area dell’instabilità non solo i dipendenti con contratto a termine (indipendentemente dalla volontarietà) e i collaboratori a vario titolo ma anche ex dipendenti a termine o parasubordinati (con o senza partita IVA), disoccupati da non più di un anno per scadenza dell’impegno lavorativo3.
Si arriva così a stimare la dimensione dell’area dell’instabilità per il IV trimestre del 2006 in oltre 3milioni e 400mila persone, di cui 608.000 (il 18%) non occupate da non più di 12 mesi (tabella 2). Queste ultime sono espressione di “fisiologica” discontinuità lavorativa piuttosto che di disoccupazione in senso stretto4.
I dipendenti a tempo determinato – quasi tutti “involontari” - sono la grande maggioranza (2313000 - 67,8%) dell’insieme degli instabili5. Molto meno numeroso è il gruppo dei collaboratori (405000 - 11,9%) e quello dei prestatori d’opera (soltanto 85000 - 2,5%). Complessivamente l’occupazione instabile (dipendenti a termine + collaboratori + prestatori d’opera occasionale) conta
2.803.000 unità, il 12,2% dell’occupazione totale (23.018.000, tabella A in appendice). Considerando la componente non occupata dell’area dell’instabilità insieme alla totalità degli occupati, il peso del lavoro instabile risulta uguale a circa il 14% della platea di riferimento (23.626.000 unità): lo stesso rapporto calcolato per genere è 19% per le donne e 11% per gli uomini. Con buona
2 Cfr. Mandrone e Massarelli Quanti sono i lavoratori precari , in la Voce, marzo 2007. L’insieme descritto nell’articolo Quanti sono i lavoratori precari - risultando dalla composizione di indagini diverse, ISTAT e ISFOL – è in ogni caso solo in parte sovrapponibile all’aggregato definito in questa sede. Inoltre, gli autori hanno considerato solo i dipendenti a termine involontari, in linea con l’idea di precarietà percepita, diversamente da quanto fatto nel presente lavoro dove si fa riferimento alla precarietà oggettiva.
3 I non occupati instabili sono stati individuati sulla base delle risposte alle domande della sezione E del questionario ISTAT riservata ai non occupati con precedenti esperienze di lavoro. Si tratta di disoccupati attivi oppure persone inattive disponibili a lavorare, tutti con precedenti esperienze a termine. Gli ex parasubordinati con partita iva, in particolare, sono soggetti non occupati già lavoratori in proprio o liberi professionisti, in cerca di lavoro o disponibili a lavorare, che hanno concluso un’attività a tempo determinato.
4 Ciò è confermato anche dal fatto che il tempo trascorso dall’ultima attività remunerata è sensibilmente minore nel nord est – dove la domanda di lavoro è molto dinamica - rispetto alle altre circoscrizioni geografiche, in particolare il sud
5 L’Istat include tra i dipendenti a tempo determinato anche i lavoratori interinali, gli apprendisti e tutte le altre possibili forme contrattuali che ricadono sotto la formula giuridica della dipendenza a termine.
approssimazione, quindi, una donna “occupata” su cinque sperimenta condizioni di instabilità o precarietà6.
La componente non occupata si caratterizza per la presenza consistente di meridionali (57%) e di soggetti con basso titolo di studio (la metà ha conseguito soltanto la licenza media), evidentemente più esposti al rischio di disoccupazione ricorrente. Le donne sono più della metà (51%) e una su tre svolgeva attività commerciali e di servizio (contro il 24% degli uomini).
Insomma, l’area dell’instabilità è più estesa di quanto non dicano i dati di stock che non raccontano tutta la storia e propongono ancora le categorie tradizionali (occupato/disoccupato/inattivo) nate con il modello occupazionale del breadwinner impegnato full-time con un contratto a tempo indeterminato. In effetti, la condizione di instabilità occupazionale non interessa solo chi ha oggi un lavoro a termine, ma anche chi lo ha perso. I lavori a tempo determinato sono per molti, infatti, soltanto una soluzione temporanea all’interno di un percorso professionale discontinuo e incerto.
2.2 L’instabilità occupazionale: una condizione tipica delle donne
L’area dell’instabilità sopra delineata, vale a dire l’insieme dei lavoratori con contratti di carattere temporaneo e dei disoccupati di breve periodo fotografati nella transizione tra diverse attività a termine, è formata in maggioranza da donne (53%), più numerose degli uomini in tutte le sue componenti, con eccezione della modesta quota degli ex parasubordinati con partita IVA (tabella 3). Le diverse “posizioni” instabili definite in questa sede presentano, quindi, una marcata connotazione di genere, più significativa ove si consideri che le donne costituivano, ancora nel IV trimestre 2006, poco più del 39% dell’occupazione totale.
6 Il rapporto tra occupazione instabile in senso stretto (2.803.000 unità) e la totalità dell’occupazione omologa (dipendenti + collaboratori + occasionali = 17.241.000) risulta 20% per le donne e 13% per gli uomini.
Tabella 3: Area dell’instabilità per sesso (migliaia di unità)
Maschio Femmina Totale
n | % | n | % | n | |
Dipendente a termine volontario | 93 | 46 | 109 | 54 | 202 |
Dipendente a termine involontario | 1009 | 47.8 | 1102 | 52.2 | 2111 |
Collaboratore coordinato e continuativo | 178 | 44 | 227 | 56 | 405 |
Prestatore d'opera occasionale | 32 | 38.1 | 53 | 61.9 | 85 |
Ex occupato dipendente a termine | 254 | 49.6 | 258 | 50.4 | 513 |
Ex collaboratore coord. e cont. | 16 | 46.9 | 18 | 53.1 | 34 |
Ex prestatore d'opera occasionale | 12 | 30.8 | 27 | 69.2 | 39 |
Ex parasubordinato con partita IVA | 15 | 71.2 | 6 | 28.8 | 22 |
Totale | 1610 | 47.2 | 1800 | 52.8 | 3410 |
Fonte: Istat – Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
Mettiamo ora a fuoco i profili prevalenti nell’ambito dell’area dell’instabilità.
La maggioranza dell’aggregato (57,4% degli uomini e 54,6% per le donne) ha meno di 35 anni ma le donne sono in media più anziane degli uomini7. Nelle età centrali della vita attiva (35-54 anni) troviamo il 35,3% degli uomini e ben il 41,4% delle donne (tabella 5)
La diffusione del lavoro precario tra le giovani generazioni si apprezza considerando la quota di instabili sulla totalità degli occupati per classi di età (tabella 4): più della metà delle ragazze occupate di età compresa tra 15 e 24 anni e più di un quarto delle giovani donne occupate (25-34 anni) svolge un lavoro instabile (gli stessi rapporti calcolati per gli uomini sono 39,7% e 15,5% rispettivamente).
7 Tra i maschi instabili prevalgono i giovanissimi (15-24 anni) ed i giovani di età compresa tra 25 e 34 anni (classe modale per uomini e donne).
Tabella 4: Dimensione dell’area di instabilità per sesso ed età pesi percentuali (instabili / occupazione totale)
Maschio | Femmina | Totale | |
15-24 | 39.7 | 50.7 | 44.1 |
25-34 | 15.5 | 25.7 | 19.9 |
35-44 | 8.3 | 15.7 | 11.3 |
45-54 | 5.7 | 11.6 | 8.0 |
55-64 | 6.1 | 8.1 | 6.8 |
65 e + | 8.6 | 7.7 | 8.4 |
Totale | 11.3 | 19.1 | 14.4 |
Fonte: Istat – Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
Le difficoltà incontrate dai giovani in cerca di occupazione – e in particolare di occupazione stabile - sono ben documentate da numerose ricerche, tra cui l’indagine longitudinale sulle famiglie italiane (1997,1999,2001) che ha raccolto le storie lavorative di diverse generazioni. I risultati dimostrano che i percorsi di lavoro maturati a 35 anni di età sono molto diversi tra le coorti di nati negli anni 1948-57, 1958-62 e 1963-67. La percentuale di chi ha potuto conseguire, conservare o riprendere un impiego stabile passa, infatti, dal 55 al 52 al 48 rispettivamente. Inoltre, muovendo dalle generazioni più anziane verso le più giovani, la proporzione di chi - all’età di 35 anni - ha avuto soltanto esperienze di lavoro instabile aumenta di oltre 10 punti percentuali (Barbieri, Scherer, 2005).
Tabella 5: Area dell’instabilità per sesso ed età - pesi percentuali di riga
Maschio | Femmina | |||||||||||
15-24 | 25-34 | 35-44 | 45-54 | 55-64 | 65 e + | 15-24 | 25-34 | 35-44 | 45-54 | 55-64 | 65 e + | |
Dipendente a termine | 25.9 | 32.1 | 23.0 | 13.0 | 5.3 | 0.7 | 18.6 | 36.3 | 27.0 | 14.6 | 3.4 | 0.2 |
Collaboratore coordinato e continuativo | 11.7 | 44.2 | 21.1 | 7.4 | 6.8 | 8.9 | 14.6 | 40.8 | 24.5 | 13.6 | 4.7 | 1.8 |
Prestatore d'opera occasionale | 17.7 | 30.7 | 12.6 | 16.5 | 18.2 | 4.4 | 20.8 | 22.4 | 30.5 | 11.2 | 14.8 | 0.2 |
Disoccupato per scadenza | ||||||||||||
lavoro a termine, disposto a | 26.4 | 31.3 | 24.4 | 12.6 | 5.2 | . | 19.1 | 36.4 | 25.5 | 16.9 | 2.1 | . |
lavorare | ||||||||||||
Totale | 24.2 | 33.2 | 22.9 | 12.4 | 5.7 | 1.5 | 18.2 | 36.4 | 26.6 | 14.8 | 3.6 | 0.3 |
Fonte: Istat – Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
26
La ricerca si arresta al 2001 ma è probabile che da allora la situazione sia peggiorata, come riferito dall’ultimo rapporto Excelsior già citato.
In definitiva l’instabilità del lavoro giovanile si afferma come elemento strutturale del mercato ma interessa più le donne che gli uomini. Inoltre, il rischio di essere impiegati in forma precaria diminuisce con l’età ma è sempre maggiore per le donne (sostanzialmente il doppio nelle classi 35-44 e 45-54 anni, tabella 4).
La probabilità di essere “precario” in età adulta è – come prevedibile - maggiore per chi lavora nel Mezzogiorno. Con riferimento alle classi di età 35-54 anni - quelle della maturità professionale – si osservi la diversa distribuzione geografica del lavoro instabile (tabella 6): esso interessa solo il 4,5% degli uomini occupati del nord ma quasi il 12% degli uomini meridionali occupati. Le stesse statistiche riferite alle donne confermano le differenze territoriali e di genere: il 23% delle lavoratrici meridionali nelle fasce di età centrali (35-54 anni) vivono il disagio dell’instabilità occupazionale - contro il 14.6% delle donne che vivono nel Centro e il 9,5% di quelle del nord – instabilità nella quale, in ragione dell’età relativamente avanzata, rischiano di restare intrappolate.
Nel Mezzogiorno i più esposti sono gli occupati con basso titolo di studio: il 15.3% degli uomini e addirittura un terzo delle lavoratrici che non hanno superato l’obbligo scolastico cade nell’area dell’instabilità (tabella 6). Questo dato fa riflettere e suggerisce l’ipotesi che le scarse prospettive di lavoro – in termini di qualità e sicurezza – abbiano un effetto di scoraggiamento in particolare sulle donne meridionali meno scolarizzate. Di contro, la quota di occupati instabili tra i diplomati e i laureati del Sud è circa la metà di quella stimata per chi ha conseguito solo la licenza media, sia per gli uomini (circa 7,5%) che per le donne (circa 17,5%).
Nelle regioni settentrionali, viceversa, il peso dell’instabilità tra i maschi adulti occupati è basso e non cambia sostanzialmente per titolo di studio; nelle stesse regioni le donne diplomate o laureate di età 35-54 anni sono relativamente protette rispetto alle coetanee meno istruite (8-8,5% di instabili verso quasi 12%).
Tabella 6: Dimensione dell’area di instabilità per titolo di studio, area geografica e sesso
pesi percentuali (instabili / occupazione totale) – età 35-54 anni
Fino a licenza media | Diploma di scuola superiore o assimilati | Laurea o specializzazione post universitaria | Totale | |||||
Maschi | Femmine | Maschi | Femmine | Maschi | Femmine | Maschi | Femmine | |
Nord | 4.4 | 11.6 | 4.3 | 8.3 | 5.5 | 8.5 | 4.5 | 9.5 |
Centro | 6.7 | 16.0 | 5.1 | 12.8 | 9.1 | 16.9 | 6.4 | 14.6 |
Mezzogiorno | 15.3 | 33.2 | 7.7 | 17.7 | 7.2 | 17.2 | 11.7 | 23.1 |
Totale | 8.6 | 17.9 | 5.4 | 11.3 | 6.9 | 13.0 | 7.1 | 13.9 |
Fonte: Istat – Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
Nelle regioni centrali la proporzione di occupati instabili è addirittura maggiore per i laureati rispetto agli occupati con basso titolo di studio. Inoltre, considerando l’Italia nel suo insieme, il peso dell’instabilità tra i laureati nella classe 35-44 anni è sostanzialmente pari al peso registrato nel gruppo di chi ha solo la licenza media (tabella 7): se la laurea aiuta nella ricerca di un lavoro stabile l’effetto si realizza solo nel lungo periodo.
Tabella 7: Dimensione dell’area dell’instabilità per titolo di studio ed età pesi percentuali (instabili / occupazione totale)
Fino a licenza media | Diploma di scuola superiore o assimilati | Laurea o specializzazione post universitaria | ||||
Maschi | Femmine | Maschi | Femmine | Maschi | Femmine | |
15-24 | 33.4 | 38.3 | 43.9 | 53.7 | 55.5 | 67.8 |
25-34 | 13.4 | 21.9 | 14.0 | 20.7 | 27.1 | 39.4 |
35-44 | 9.7 | 18.1 | 6.3 | 13.6 | 9.7 | 17.1 |
45-54 | 7.4 | 17.6 | 4.3 | 8.0 | 3.2 | 6.9 |
55-64 | 7.8 | 11.8 | 4.8 | 4.3 | 2.9 | 5.4 |
65 e + | 5.4 | 4.2 | 16.4 | 5.0 | 9.5 | 34.7 |
Totale | 11.0 | 18.7 | 11.5 | 17.6 | 12.2 | 23.4 |
Fonte: Istat – Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
La tabella 7 dimostra che, a parità di titolo di studio ed età, le donne con lavori instabili rappresentano una quota dell’occupazione femminile sistematicamente maggiore rispetto allo stesso rapporto calcolato per gli uomini: se l’instabilità tende a ridursi con l’età - e attraverso il paese da Sud a Nord - essa presenta, dunque, anche una marcata connotazione di genere.
2.3 Durata dei contratti e transizioni verso un’occupazione stabile
Sono ormai numerose le ricerche qualitative che segnalano l’importanza degli elementi biografici nel comporre la mappa dei rischi e delle opportunità che derivano dal nuovo mercato del lavoro.
Le conseguenze di una occupazione a termine dipendono sostanzialmente dal carattere permanente o transitorio dell’esperienza e dal momento specifico in cui l’esperienza stessa si compie. Le esigenze e la situazione delle persone cambiano nel tempo e con le fasi della vita: così l’impatto di un lavoro instabile e il suo significato non sono gli stessi se si è giovani laureati oppure over 45 poco scolarizzati, donne con esigenze di conciliazione con accanto partner “forti” breadwinner, ovvero donne con esigenze di conciliazione ma separate o con mariti disoccupati. Pure decisivo rispetto all’esito del percorso è il contesto territoriale nel quale si muove il lavoratore: le occasioni e le possibilità di uscire da una condizione occupazionale incerta e precaria sono fortemente condizionate dalla dinamicità della domanda nel proprio bacino di mercato. L’instabilità assume, cioè, connotazioni molto diverse nei diversi contesti territoriali, anche a parità di condizioni soggettive. I mercati locali offrono, infatti, opportunità e soluzioni differenziate – in termini di modalità e tempi di presenza nell’area dell’instabilità
– che definiscono diversi margini di scelta e il ventaglio delle alternative possibili (la possibilità di rifiutare o meno le condizioni offerte).
In sostanza, occorre considerare il fatto che i rischi legati al persistere di un’occupazione temporanea, che si traduce in precarietà, non interessano tutti i lavoratori nello stesso modo ma dipendono anche dalla capacità individuale di proteggersi e trasformare un lavoro discontinuo in opportunità.
La precarietà come fenomeno sociale, in sostanza, non va letta in termini di fotografie di una o più forme contrattuali; essa va interpretata per come si genera
nel tempo e nella vita delle persone attraverso percorsi/transizioni da una forma occupazionale all’altra, da una condizione occupazionale all’altra- (di occupato – permanente o temporaneo – a disoccupato o inattivo).
L’indagine Istat non consente analisi di tipo transizionale e tuttavia offre una serie di dati macro molto utili per configurare alcuni aspetti distintivi del fenomeno dell’instabilità lavorativa nel nostro Paese. Proprio questi caratteri sistemici, infatti, determinano le criticità che interessano, insieme agli individui, il mercato del lavoro nel suo complesso.
Un primo aspetto che si può approfondire riguarda la durata dei contratti di lavoro. Ebbene, l’orizzonte temporale per chi è occupato non supera l’anno nel 70% dei casi. I prestatori d’opera occasionale sono vincolati a contratti in generale più brevi (meno di 1 mese per il 27-28% dei contratti)8. Le collaborazioni e i contratti di dipendenza hanno prevalentemente durata compresa tra 7 e 12 mesi: 54-55% dei collaboratori, 30-40% dei dipendenti9 (tabella 8).
I contratti riservati alle donne hanno durate mediamene più brevi: oltre il 76% non supera l’anno e più di un terzo i sei mesi.
8 Per questa componente la quota di durata non specificata è molto rilevante
9 Il 6% circa dei contratti di dipendenza è a più di 3 anni
Tabella 8: Occupati instabili per sesso e durata del contratto di lavoro pesi percentuali di riga
Maschio | ||||||||
Meno di un mese | Da 1 a 3 mesi | Da 4 a 6 mesi | Da 7 a 12 mesi | Da 13 a 24 mesi | Da 25 a 36 mesi | Più di 36 mesi | Durata non specificata – Non sa | |
Dipendente a termine | 4.9 | 15.2 | 20.4 | 29.4 | 6.6 | 8.7 | 6.3 | 8.5 |
Collaboratore | ||||||||
coordinato e | 0.9 | 8.0 | 14.0 | 53.9 | 6.6 | 4.4 | 1.2 | 10.9 |
continuativo | ||||||||
Prestatore | ||||||||
d’opera | 27.1 | 9.9 | 4.0 | 20.3 | 5.0 | 0.5 | . | 33.2 |
occasionale | ||||||||
Totale | 4.9 | 14.1 | 19.2 | 32.5 | 6.6 | 7.9 | 5.5 | 9.4 |
Femmina | ||||||||
Meno di un mese | Da 1 a 3 mesi | Da 4 a 6 mesi | Da 7 a 12 mesi | Da 13 a 24 mesi | Da 25 a 36 mesi | Più di 36 mesi | Durata non specificata - Non sa | |
Dipendente a termine | 3.3 | 14.2 | 17.2 | 40.4 | 7.0 | 5.5 | 5.8 | 6.6 |
Collaboratore | ||||||||
coordinato e | 1.5 | 13.2 | 14.0 | 54.6 | 6.5 | 1.3 | 0.7 | 8.2 |
continuativo | ||||||||
Prestatore | ||||||||
d'opera | 28.1 | 12.8 | 9.4 | 23.4 | . | 2.4 | 0.4 | 23.5 |
occasionale | ||||||||
Totale | 3.9 | 14.0 | 16.4 | 42.0 | 6.6 | 4.8 | 4.8 | 7.4 |
Fonte: Istat – Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
31
Le donne che lavorano a tempo determinato, oltre ad avere tendenzialmente contratti di più breve durata, sono impegnate mediamente meno ore degli uomini: il 5.3% non più di 10 ore settimanali e il 21% tra 11 e 20 ore. Complessivamente, il 46% non lavora più di 30 ore settimanali (tabella 9).10
Le donne sono largamente maggioritarie tra i lavoratori instabili a tempo parziale: esse rappresentano il 73% degli occupati part-time a termine, dipendenti o parasubordinati.
10Se considerassimo nell’area dell’instabilità anche i lavoratori sottoccupati che “non lavorano più di 20 ore a settimana, che affermano di lavorare di più e sono immediatamente disponibili a farlo”, otterremmo un aggregato pari a 3.776.000 unità: il 16.0% dell’occupazione totale; 21% tra le donne e 12.7% tra gli uomini.
32
Tabella 9: Occupati instabili per sesso e ore di lavoro settimanali - pesi percentuali di riga
ore
Maschio
non più di 10 ore
da 11 a 20 ore
da 21 a 30 ore
da 31 a 40 più di 40 ore
Orario molto variabile/ non sa
Dipendente a termine | 1.7 | 7.6 | 7.3 | 64.7 | 14.8 | 3.9 |
Collaboratore coordinato e 3.8 | 11.5 | 12.6 | 49.9 | 14.9 7.3 | ||
Prestatore d'opera 11.6 | 19.9 | 19 | 23.6 | 11 14.9 |
continuativo
occasionale
Totale 2.2 8.5 8.4 61.7 14.7 4.6
ore
Femmina
non più di 10 ore
da 11 a 20 ore
da 21 a 30 ore
da 31 a 40 più di 40 ore
Orario molto variabile/ non sa
Dipendente a termine 4.2 | 19 | 19.3 | 48.3 | 6 | 3.3 |
Collaboratore coordinato e 8.2 | 27.6 | 20.7 | 33.2 | 5.6 | 4.7 |
Prestatore d'opera 19.2 | 40.7 | 11.5 | 12 | . | 16.5 |
Totale 5.3 | 21.1 | 19.2 | 44.7 | 5.7 | 4 |
continuativo occasionale
Fonte: Istat – Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
33
Di fatto, come si evince dalla tabella 10, il 36% dell’occupazione precaria femminile è a tempo parziale (contro il 15% di quella maschile), un valore che supera di dieci punti percentuali il dato medio nazionale (26%).
Tabella 10: Occupati instabili a tempo parziale per sesso
Maschio | Femmina | Totale |
Dipendente a 12.5 | 30.8 | 22.0 |
Collaboratore coordinato e 24.9 continuativo | 52.8 | 40.5 |
Prestatore d'opera 44.6 occasionale | 76.1 | 64.1 |
Totale 15.0 | 35.7 | 26.0 |
pesi percentuali (instabili a tempo parziale / totale occupazione instabile)
termine
Fonte: Istat – Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
Un dato ulteriormente critico da sottolineare è che tra le lavoratrici con occupazioni di carattere temporaneo e che dichiarano di lavorare part-time, il 15% è impegnato per non più di 10 ore settimanali (tabella 11).
Tabella 11: Donne occupate instabili a tempo parziale per ore di lavoro settimanali - pesi percentuali di riga
non più di 10 ore | da 11 a 20 ore | da 21 a 30 ore | da 31 a 40 ore | Più di 40 ore | Orario molto variabile/ non sa | |
Dipendente a termine | 13.2 | 45.5 | 34.6 | 3.3 | 0.2 | 3.3 |
Collaboratore coordinato e continuativo | 15.5 | 50.3 | 27 | 2.2 | . | 5 |
Prestatore d'opera occasionale | 22.8 | 49.1 | 8.7 | 1 | . | 18.4 |
Totale | 14.5 | 46.8 | 30.9 | 2.8 | 0.1 | 4.8 |
Fonte: Istat – Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
Sono precarie part-time, per scelta o per necessità, soprattutto le diplomate (51%); le donne con titolo universitario sono il 21% di questo sottoinsieme,
relativamente più frequenti nelle collaborazioni (36%) e meno tra le dipendenti (16%, tabella 12).
Tabella 12: Donne occupate instabili a tempo parziale per titolo di studio pesi percentuali di riga
Fino a licenza media | Diploma di scuola superiore o assimilati | Laurea o specializzazione post universitaria | |
Dipendente a termine | 32.1 | 51.8 | 16.2 |
Collaboratore coordinato e continuativo | 15.8 | 48.3 | 36.0 |
Prestatore d'opera occasionale | 24.8 | 55.7 | 19.6 |
Totale | 27.8 | 51.3 | 20.9 |
Fonte: Istat – Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
Considerando la distribuzione dell’occupazione atipica femminile nelle tre grandi circoscrizioni geografiche, il lavoro part-time ha una maggiore prevalenza nelle regioni centrali (40%) rispetto al nord (35%) e al sud (33%). Va sottolineato che nell’area dell’instabilità il tempo parziale rappresenta una scelta consapevole solo per una piccola minoranza di lavoratrici (36%) mentre il 57% delle donne che hanno un contratto part-time stabile non aspira ad un lavoro a tempo pieno. D’altra parte, mentre il tempo parziale in occupazioni garantite sembra affermarsi quale strumento di conciliazione in assenza di servizi di sostegno alla famiglia (tra le madri con contratti stabili il part-time è scelto nel 65% dei casi), nell’area dell’instabilità è sintomo piuttosto di sottoccupazione: lo scelgono solo il 45% delle “madri instabili” impegnate a tempo ridotto (tabella 13).
Tabella 13: Donne occupate a tempo parziale per volontarietà del part-time pesi percentuali
Madri con figli conviventi | Altre donne | Totale | |||||||
Lavoratori stabili | Lavoratori instabili | Totale | Lavoratori stabili | Lavoratori instabili | Totale | Lavoratori stabili | Lavoratori instabili | Totale | |
Non vuole un lavoro a tempo pieno | 64.9 | 44.9 | 61.8 | 43.0 | 29.4 | 38.7 | 57.4 | 36.2 | 52.8 |
Non ha trovato un lavoro a tempo pieno | 20.3 | 48.8 | 24.7 | 44.5 | 63.2 | 50.4 | 28.5 | 56.9 | 34.7 |
Altri motivi | 14.8 | 6.3 | 13.5 | 12.5 | 6.9 | 10.7 | 14 | 6.6 | 12.4 |
Non sa | 0.0 | . | 0.0 | . | 0.5 | 0.2 | 0.0 | 0.3 | 0.1 |
Totale | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 |
Fonte: Istat – Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
36
La scadenza predefinita e la durata breve dei contratti non consentono, in generale, la pianificazione e il rispetto di qualsiasi impegno o investimento personale, economico ed affettivo, e impediscono anche il consolidarsi di relazioni di lavoro sulla cui base si accumulano competenze per il lavoratore e capitale sociale per le imprese.
Nel caso delle donne, soprattutto se con figli piccoli, ogni scadenza contrattuale diventa una occasione per interrogarsi sulla convenienza della ricerca di un nuovo lavoro. Tra le meno scolarizzate, più esposte al rischio di restare intrappolate all’interno di contesti di lavoro poco tutelati e privi di prospettive, è probabile che il quesito si risolva nell’uscita temporanea o definitiva dal mercato11. In generale, più del 7% delle lavoratrici instabili di età 15-54 anni occupate al IV trimestre 2005 lascia l’anno successivo il mercato del lavoro - principalmente per dedicarsi alla cura della casa e/o della famiglia - e più del 5% è disoccupato.
Se un numero non trascurabile di donne con esperienze di lavoro discontinuo alle spalle prima o poi rinuncia, un numero molto maggiore vive la precarietà del lavoro per un lungo periodo di tempo. Valutando le transizioni occorse tra il IV trimestre 2005 e lo stesso trimestre 2006 limitatamente alle classi di età 15 – 54 anni, osserviamo che solo il 17% degli occupati instabili viene assunto a tempo indeterminato. Per le donne, in particolare, il passaggio verso forme contrattuali stabili è ancora più difficile: ha interessato soltanto il 14% circa delle lavoratrici temporanee contro il 20% degli uomini con contratti a tempo determinato o di collaborazione (vedi tabella 14).
In definitiva, se nel “nuovo” mercato del lavoro un numero crescente di persone deve affrontare condizioni di instabilità occupazionale che si protraggono nel tempo, attraversando fasi di sottoccupazione e disoccupazione, tra le donne la precarietà è più diffusa e assume caratteri peculiari: riguarda persone relativamente più adulte ed è caratterizzata da impieghi marginali, contratti di breve durata, impegni orari limitati e imposti, minori opportunità di transizione verso occupazioni stabili.
11 I dati Istat consentono di seguire i percorsi soltanto di anno in anno. Nondimeno offrono informazioni rilevanti proprio per caratterizzare la discontinuità al femminile.
Nei prossimi due capitoli si cercherà di analizzare meglio gli elementi che definiscono la “precarietà al femminile”, studiando in particolare il gruppo dei collaboratori – il più problematico e dai contorni contrattuali ancora incerti – e dei lavoratori interinali, esempio di “flessibilità regolata”.
2006 | 2005 | |||||
Inattivo/ Inabile | Inoccupato/ disoccupato | Dipendente tempo indeterminato | Dipendente tempo determinato | Collab. coord. cont. (con o senza progetto) - prestazione occasionale | Indipendenti* | |
Inattivo/Inabile | 85.3 | 35.4 | 1 | 4.5 | 4.3 | 0.8 |
Inoccupato/disoccupato | 4.8 | 28.3 | 1.2 | 5.6 | 3.9 | 0.6 |
Dipendente tempo indeterminato | 3.4 | 13.2 | 95.2 | 21.6 | 10.3 | 1.0 |
Dipendente tempo determinato | 3.7 | 13.8 | 1.3 | 65.6 | 8.6 | 0.6 |
Collab. coord. cont. (con o senza progetto) - prestazione occasionale | 1.0 | 1.7 | 0.1 | 1.3 | 68.8 | 0.1 |
Indipendenti* | 1.9 | 7.5 | 1.3 | 1.4 | 4.1 | 96.9 |
Totale | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 |
Tabella 14 Matrice di transizione 2005 – 2006 per sesso - (età 15-54 anni) Maschi
Femmine
2006 | 2005 | |||||
Inattivo/ Inabile | Inoccupato/ disoccupato | Dipendente tempo indeterminato | Dipendente tempo determinato | Collab. coord. cont. (con o senza progetto) - prestazione occasionale | Indipendenti* | |
Inattivo/Inabile | 88.9 | 45.2 | 2.4 | 6.9 | 8.6 | 2.5 |
Inoccupato/disoccupato | 4.2 | 27.1 | 1.0 | 4.8 | 7.2 | 0.5 |
Dipendente tempo indeterminato | 2.4 | 9.5 | 94 | 16.2 | 4.0 | 1.5 |
Dipendente tempo determinato | 2.5 | 11.7 | 1.6 | 69.4 | 6.7 | 0.5 |
Collab. coord. cont. (con o senza progetto) - prestazione occasionale | 0.7 | 3 | 0.2 | 2.0 | 68.8 | 0.2 |
Indipendenti* | 1.4 | 3.5 | 0.7 | 0.7 | 4.7 | 94.8 |
Totale | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 |
Fonte: Istat – Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006) *diversi da collaboratori e prestatori d’opera occasionale
39
Capitolo 3
I parasubordinati: una maggioranza al femminile
Premessa
Ci concentreremo in questa parte sulle caratteristiche che assume il lavoro in collaborazione in una prospettiva di genere. E’ possibile, infatti, isolare alcuni aspetti critici del lavoro atipico femminile che, in un contesto strutturalmente difficile per il lavoratore, per mancanza di tutele e impossibilità di pianificazione, non sembra interpretare “in positivo”, come vedremo, il bisogno di conciliazione delle donne italiane. Ricorreremo ad una pluralità di fonti di informazione (INPS, ISTAT, Indagini ad hoc IRES) non già per una stima quantitativa quanto per delineare e interpretare quegli elementi qualitativi che meglio definiscono le differenze di genere nel contesto dellʹoccupazione atipica.
In tema di dimensione del fenomeno – quanti sono i lavoratori sotto contratto di collaborazione o prestazione d’opera occasionale – è bene ricordare che le statistiche disponibili conducono a stime molto discordanti. I dati dell’archivio INPS – gestione separata – registrano per il 2006 un numero di collaboratori molto maggiore rispetto alle stime ISTAT dell’indagine campionaria sulle forze lavoro (IV trimestre 2006). Come già osservato parlando dell’area dell’instabilità, l’indagine ISTAT non è disegnata per quantificare fenomeni specifici di dimensioni limitate; d’altra parte, fotografando numero e profilo dei collaboratori attivi nella settimana di riferimento, è probabile che ad essa sfugga una parte dei contratti che ha maggiore volatilità e durate brevi, contratti che comunque interessano anche soggetti che vedono nella collaborazione la loro attività principale1
1 Poiché l’attenzione è posta sulle collaborazioni come modalità esclusiva di lavoro, abbiamo considerato, nell’ambito dell’indagine campionaria dell’Istat l’insieme dei soggetti che
Nemmeno la corrispondenza tra posizioni previdenziali e numero di collaboratori in carne ed ossa è garantita2. Ciononostante, i dati INPS ‐ per quanto difettosi – rappresentano una sorta di censimento e approssimano meglio la dimensione effettiva del fenomeno. Per questo faremo riferimento ai dati di fonte INPS, integrandoli con informazioni derivate dall’indagine campionaria ISTAT sulle forze lavoro (relativa al IV trimestre 2006 se non diversamente indicato), l’unica che scansioni con continuità e in forma approfondita il mondo del lavoro. La sottostima ‐ sostanzialmente riconosciuta – del numero dei collaboratori non impedisce infatti di avvalersi delle statistiche calcolate su determinate variabili, assumendo che le distribuzioni osservate sul campione siano ‘simili’ a quelle della popolazione reale3.
hanno nella collaborazione la loro attività principale. Sono esclusi quindi coloro i quali svolgono prevalentemente altri lavori (non in collaborazione), i professionisti con partita Iva e gli amministratori che, verosimilmente, si dichiarano imprenditori o lavoratori in proprio.
2 Quando l’imponibile dell’anno è molto basso e il contributo sostanzialmente nullo è lecito dubitare della “consistenza” della collaborazione che si ridurrebbe, in questi casi, ad esperienze episodiche non significative
3 Tale assunzione implica l’ipotesi che non vi siano distorsioni sistematiche nelle procedure di campionamento.
3.1 Le collaboratrici “a reddito esclusivo” iscritte alla gestione separata INPS
Già l’ultimo rapporto dell’Osservatorio permanente sul lavoro atipico del 20064 aveva messo in luce che le donne sono la maggioranza dei parasubordinati attivi a reddito esclusivo, vale a dire quei soggetti che non svolgono alcuna attività al di fuori del lavoro parasubordinato e non fanno parte di quelle categorie professionali che versano al fondo INPS per ragioni fiscali (Amministratori, sindaci e revisori di società). Esse sono circa 490mila e costituiscono il 57% degli “atipici esclusivi” (complessivamente quasi 860mila persone). La prevalenza femminile, peraltro, è confermata – nella stessa misura ‐ dal dato campionario ISTAT sulle collaborazioni coordinate e continuative. Si può sostenere – in definitiva ‐ che il mondo della collaborazione è dominato per numero dalle donne, almeno quella parte che ha in questa modalità di lavoro l’unica (o principale) fonte di remunerazione. Di contro, le donne sono una piccola minoranza (22%) tra i contribuenti dello stesso fondo INPS che svolgono attività “tipiche” (amministratori e sindaci di società e di enti pubblici, partecipanti a commissioni).
Tabella 15: Atipici esclusivi: sesso per età
Femmine | Maschi | Totale | ||||
N | % | N | % | N | % | |
fino a 24 anni | 79646 | 16.2 | 59009 | 16.1 | 138655 | 16.2 |
25‐34 | 228231 | 46.4 | 162390 | 44.3 | 390621 | 45.5 |
35‐44 | 114065 | 23.2 | 81524 | 22.2 | 195589 | 22.8 |
45‐54 | 50069 | 10.2 | 38648 | 10.5 | 88717 | 10.3 |
>54 anni | 19551 | 4 | 25255 | 6.9 | 44806 | 5.2 |
Totale | 491562 | 100 | 366826 | 100 | 858388 | 100 |
Fonte: elaborazione IRES su dati INPS 2006
4 Cfr. Di Nicola P., Mingo I. ( a cura di) “ I lavoratori parasubordinati tra professione e precariato. Rapporto 2006” , Maggio 2007
L’età prevalente tra i collaboratori, sia uomini che donne, è 25‐34 anni (45% dell’aggregato). Se si considera che circa un terzo dei collaboratori ha conseguito un titolo universitario (più del 36% delle donne in collaborazione, meno del 30% degli uomini ‐ Istat, IV trimestre 2006) – vale a dire una quota sensibilmente più alta che nella popolazione occupata ‐ si può ragionevolmente affermare che, almeno per il segmento relativamente più qualificato, la collaborazione rappresenta una modalità di ingresso “preferenziale”, soprattutto per alcuni gruppi professionali. E’ una condizione che tende a permanere per un lungo periodo: l’indagine IRES realizzata nel 2006 (IRES, 2006) aveva infatti rilevato che i collaboratori più qualificati (con titolo di studio più elevato) avevano con maggiore frequenza un passato lavorativo pluriennale tutto interno al mondo delle collaborazioni5. Se, per altro verso, si valutano l’età media (34 anni) e la modesta percentuale di giovani sotto i 25 anni (16%), si comprende come per i collaboratori meno qualificati (con al più un diploma di scuola superiore) – che sono comunque la grande maggioranza – questa forma contrattuale, più che accompagnarli nella fase iniziale all’interno del mondo del lavoro, intervenga in età relativamente avanzata rispetto al percorso formativo scolastico, prefigurando un rapporto professionale di carattere instabile che dura per un lungo periodo. La maggioranza delle collaboratrici non laureate, in particolare, ha più di 35 anni (dati istat del IV trimestre 2006).
5 La stessa ricerca rilevava che la maggior parte dei collaboratori avevano un rapporto di lavoro relativamente stabile con l’attuale datore di lavoro: il 33,5% lavorava con lo stesso datore da due o tre anni; il 32% da più di quattro anni. I rapporti di lavoro più continuativi sono senza dubbio quelli del pubblico impiego, dove ben un collaboratore su due ha un rapporto di lavoro che dura da più di quattro anni ( IRES, 2006).
Tabella 16 Collaboratori:
titolo di studio per sesso ‐ pesi percentuali
Maschio | Femmina | Totale | |
Fino a licenza media Diploma di scuola superiore o assimilati Laurea o specializzazione post universitaria | 19.8 52.8 27.4 | 16.0 47.5 36.5 | 17.6 49.8 32.6 |
Totale | 100.0 | 100.0 | 100.0 |
Fonte: Elaborazione IRES su dati Istat Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
Per quanto concerne l’attività svolta (tabella 17), pesano relativamente di più tra le donne i servizi alle imprese (quasi 25%), il commercio (12,1%), gli altri servizi (11,7%), l’istruzione (10,8%), tutti settori nei quali il contributo del lavoro atipico è prevalentemente femminile. Soltanto nelle professioni strutturalmente maschili (industria, trasporti, edilizia) gli uomini sono maggioranza: così le donne sono il 59% dei collaboratori nel commercio e solo il 20% nell’edilizia. D’altra parte la “natura terziaria” del lavoro parasubordinato è anche alla base della sua marcata connotazione di genere.
Al di là del settore d’attività, dall’analisi dei dati Istat emerge la tendenza all’impiego delle donne in professioni relativamente meno qualificate rispetto agli uomini che svolgono in prevalenza professioni tecniche (40% circa) o intellettuali di elevata specializzazione (18% circa).
Tabella 17: Atipici esclusivi: sesso per attività del committente
Femmine | Maschi | Totale | ||||
N | % | N | % | N | % | |
Estrazione | 2591 | 0.5 | 1499 | 0.4 | 4090 | 0.5 |
Industria | 43584 | 8.9 | 46921 | 12.8 | 90505 | 10.5 |
Edilizia | 4929 | 1 | 19918 | 5.4 | 24847 | 2.9 |
Commercio | 59495 | 12.1 | 41963 | 11.4 | 101458 | 11.8 |
Alberghi ed esercizi pubblici | 10277 | 2.1 | 9044 | 2.5 | 19321 | 2.3 |
Trasporti | 10538 | 2.1 | 21658 | 5.9 | 32196 | 3.8 |
Poste e Telecomunicazioni | 8414 | 1.7 | 6705 | 1.8 | 15119 | 1.8 |
Banche, Assicurazioni, Finanza | 16033 | 3.3 | 11998 | 3.3 | 28031 | 3.3 |
Informatica | 20864 | 4.2 | 26606 | 7.3 | 47470 | 5.5 |
Ricerca | 6455 | 1.3 | 5483 | 1.5 | 11938 | 1.4 |
Servizi alle imprese, consulenza | 121595 | 24.7 | 73988 | 20.2 | 195583 | 22.8 |
Pubblica Amministrazione | 20336 | 4.1 | 11688 | 3.2 | 32024 | 3.7 |
Istruzione | 53122 | 10.8 | 29939 | 8.2 | 83061 | 9.7 |
Sanità | 35179 | 7.2 | 10436 | 2.8 | 45615 | 5.3 |
Altri servizi | 57453 | 11.7 | 33438 | 9.1 | 90891 | 10.6 |
Agricoltura, Pesca, Allevamento | 20697 | 4.2 | 15542 | 4.2 | 36239 | 4.2 |
Totale | 491562 | 100 | 366826 | 100 | 858388 | 100 |
Fonte: elaborazione IRES su dati INPS 2006
45
Le donne, pure impegnate prevalentemente in professioni tecniche (29.8%), svolgono in numero consistente attività amministrative di tipo impiegatizio e, in questo ambito, soprattutto attività poco qualificate e qualificanti, tendenzialmente a carattere esecutivo, quelle per cui verosimilmente il ricorso al contratto para‐subordinato è più discutibile. Esse sono: “personale di segreteria ed operatori su macchine di ufficio”; “personale con funzioni specifiche in campo amministrativo, gestionale e finanziario”; “personale addetto allʹaccoglienza, allʹinformazione e allʹassistenza della clientela”, principalmente operatrici di call center. Più diffuse tra le donne che tra gli uomini sono anche le professioni qualificate nel commercio e nei servizi mentre quelle intellettuali hanno sostanzialmente lo stesso peso tra le collaboratrici e i collaboratori. In realtà, guardando alla distribuzione per titolo di studio (Istat), l’ipotesi che la formazione universitaria sia più “premiante” per gli uomini che per le donne pare confermata: il 52% dei collaboratori laureati è occupato in attività scientifiche e di elevata specializzazione contro solo il 42% delle collaboratrici laureate (tabella 18.1 e 18.2).
46
Tabella 18.1 Collaboratori maschi per titolo di studio e attività svolta pesi percentuali
Fino a licenza media | Diploma di scuola superiore o assimilati | Laurea o specializzazione post universitaria | Totale | |
LEGISLATORI, DIRIGENTI E IMPRENDITORI | 2.8 | 3.4 | 6.1 | 4.0 |
PROFESSIONI INTELLETTUALI, SCIENTIFICHE E DI ELEVATA SPECIALIZZAZIONE | 3.4 | 6.3 | 51.8 | 18.2 |
PROFESSIONI TECNICHE | 18.5 | 52.0 | 28.0 | 38.8 |
IMPIEGATI | 12.4 | 14.4 | 9.0 | 12.5 |
PROFESSIONI QUALIFICATE NELLE ATTIVITA | 11.1 | 9.9 | . | 7.4 |
ARTIGIANI, OPERAI SPECIALIZZATI E AGRICOLTORI | 19.7 | 6.3 | 0.5 | 7.4 |
CONDUTTORI DI IMPIANTI E OPERAI SEMIQUALIFICATI ADDETTI A MACCHINARI FISSI E MOBILI | 13.4 | 3.9 | 1.4 | 5.1 |
PROFESSIONI NON QUALIFICATE | 18.7 | 3.8 | 3.3 | 6.6 |
Totale | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 |
Fonte: Elaborazione IRES su dati Istat Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
Tabella 18.2 Collaboratrici per titolo di studio e attività svolta pesi percentuali
Fino a licenza media | Diploma di scuola superiore o assimilati | Laurea o specializzazione post universitaria | Totale | |
LEGISLATORI, DIRIGENTI E IMPRENDITORI | 2.4 | 3.5 | 2.2 | 2.8 |
PROFESSIONI INTELLETTUALI, SCIENTIFICHE E DI ELEVATA SPECIALIZZAZIONE | 0.1 | 5.1 | 42.4 | 17.9 |
PROFESSIONI TECNICHE | 17.6 | 36.7 | 26.2 | 29.8 |
IMPIEGATI | 9.9 | 29.9 | 18.1 | 22.4 |
PROFESSIONI QUALIFICATE NELLE ATTIVITA | 31.1 | 17.6 | 8.1 | 16.3 |
ARTIGIANI, OPERAI SPECIALIZZATI E AGRICOLTORI | 12.0 | 0.8 | . | 2.3 |
CONDUTTORI DI IMPIANTI E OPERAI SEMIQUALIFICATI ADDETTI A MACCHINARI FISSI E MOBILI | 2.3 | 1.2 | 0.8 | 1.2 |
PROFESSIONI NON QUALIFICATE | 24.5 | 5.1 | 2.2 | 7.2 |
Totale | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 |
Fonte: Elaborazione IRES su dati Istat Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
3.2 Lavorare in collaborazione: poca autonomia in lavori che durano poco
Seguendo la riflessione giuridica (Perulli, 2003), la collaborazione – quando esclusiva – può essere considerata un segnalatore della dipendenza economica anche ove non configuri un rapporto di dipendenza giuridica in senso stretto. Da questo punto di vista, osservando le modalità di lavoro prevalenti (ci soccorre per questo l’indagine Istat sulle forze lavoro), si rileva che, indipendentemente dall’età e dal sesso, il 90% circa dei collaboratori lavora per una sola azienda/cliente (tabella 19)6.
Tabella 19 Collaboratori: età e numero di committenze per sesso pesi percentuali
15‐29 | 30‐44 | 45 e + | Totale | |||||
Maschio | Femmina | Maschio | Femmina | Maschio | Femmina | Maschio | Femmina | |
Per un sola azienda/cliente | 92.9 | 91.9 | 90.7 | 90.6 | 87.9 | 92.5 | 90.8 | 91.4 |
Per più aziende/clienti | 7.1 | 7.7 | 9.3 | 9.4 | 12.1 | 7.5 | 9.2 | 8.4 |
Non sa | . | 0.4 | . | . | . | . | . | 0.2 |
Totale | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 |
Fonte: Elaborazione IRES su dati Istat Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
Fermo restando che è soprattutto tra i collaboratori “puri” monocommittenti che si celano forme mascherate di lavoro dipendente, va detto che esse possono essere presenti anche tra i titolari di partita IVA, nei casi in cui questa sia “imposta” dal datore di lavoro con finalità elusive. Per altro verso, bisogna usare molta cautela nell’assimilare i pluricommittenti ai lavoratori autonomi dotati di potere di mercato: da ricerche qualitative risulta che “la presenza di più committenti può indicare situazioni assai instabili, gestite sul filo di una faticosa autosufficienza economica, mai raggiunta una volta per sempre ed a costante rischio di precarietà” [Adabbo, Borghi 2002]. Così la strategia lavorativa della
6 Il fatto che i collaboratori, soprattutto se mono-committenti – lavorano all’interno dei luoghi di lavoro, perlopiù con una presenza quotidiana e con un orario di lavoro fisso, è un dato ricorrente emerso da tutte le indagini IRES realizzate nel corso del tempo.
multiattività, cioè la combinazione di più rapporti professionali, sarebbe praticata da molti per integrare diversi spezzoni di reddito e garantire il risparmio sufficiente a fronteggiare l’irregolarità delle remunerazioni e l’inoccupazione nell’intervallo tra due contratti [Catania,Vaccaro,Zucca 2004].
D’altra parte, se è vero che “la monocommittenza non costituisce di per sé indice rivelatore di marginalità sociale…”7, è anche vero che lavorare a lungo per un unico committente spesso non paga: con il passare degli anni i collaboratori restano nell’incertezza, senza avanzamenti e senza alternative [Bertolini 2004]. Tutte le ricerche empiriche su questo gruppo di lavoratori [(Semenza R., (2004); Bassanini C., Donati E., (2001); Rizza R., (2003) IRES,2006;] segnalano l’importanza della variabile temporale. In particolare l’indagine IRES 2006, centrata proprio sui collaboratori a reddito esclusivo, rivela che all’aumentare dell’età, degli anni passati nello stesso posto di lavoro o del numero di contratti con lo stesso committente, diminuisce la propensione a concepire quella esperienza lavorativa come transitoria e destinata ad arricchire il proprio curriculum mentre crescono la rassegnazione e la consapevolezza di non avere valide prospettive professionali.
Altri indicatori mostrano i vincoli imposti alle modalità di lavoro. La quota di collaboratori che decide la sede della sua attività ‐ crescente con l’età sia per gli uomini che per le donne ‐ è molto esigua per i giovani fino a 29 anni e in ogni caso contenuta anche tra gli over 45 (tabella 20).
L’autonomia delle collaborazioni è certamente maggiore nella gestione dell’orario di lavoro che nella scelta della sede: anch’essa è crescente con l’età del collaboratore ma è, in generale, esercitata più dagli uomini che dalle donne in tutte le fasce di età (tabella 21).
7 “… è più a rischio un soggetto cui competono pochi e rarefatti versamenti, magari quantitativamente irrilevanti, da parte di più datori, o un individuo cui mensilmente lo stesso datore di lavoro assicura un versamento regolare?” (Marocco, Rustichelli, 2004)
lavorare 11.3 | 6.6 | 14.3 | 14.3 | 20.4 | 26.1 | 14.7 | 14.0 |
Lavora presso lʹazienza/cliente 88.5 | 93.0 | 85.3 | 85.7 | 79.6 | 73.9 | 85.1 | 85.8 |
Non sa 0.2 | 0.4 | 0.4 | 0.0 | . | . | 0.2 | 0.2 |
Totale 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 |
Decide dove
Tabella 20 Collaboratori: età e autonomia di sede per sesso – pesi percentuali
15‐29 30‐44 45 e + Totale
Maschio Femmina Maschio Femmina Maschio Femmina Maschio Femmina
Fonte: Elaborazione IRES su dati Istat Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
Decide
Tabella 21 Collaboratori: età e autonomia di orario per sesso – pesi percentuali
15‐29 30‐44 45 e + Totale
Maschio Femmina Maschio Femmina Maschio Femmina Maschio Femmina
autonomamente 31.6 | 23.4 | 41.3 | 35.6 | 53.8 | 46.3 | 40.7 | 33.6 |
lʹorario Non decide lʹorario 68.2 | 76.1 | 58.1 | 63.9 | 46.2 | 53.7 | 58.9 | 66.1 |
Non sa 0.2 | 0.4 | 0.6 | 0.4 | . | . | 0.3 | 0.3 |
Totale 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 |
Fonte: Elaborazione IRES su dati Istat Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
51
Così stando le cose, viene meno la prerogativa principale delle collaborazioni, la possibilità di gestire in modo autonomo luogo e tempi di lavoro.
Venendo alla stima dell’impegno lavorativo settimanale, anch’esso desumibile unicamente dall’indagine campionaria dell’Istat, esso non supera le venti ore per il 40% delle collaboratrici (rispetto al 18% dei collaboratori) e per il 10% è solo fino a 10 ore/settimana (rispetto al 5% dei collaboratori, tabella 22)8. Il dato è particolarmente interessante poiché – se da un lato prefigura condizioni di sottoccupazione – dall’altro spiega almeno in parte perché il reddito medio delle donne sia, come vedremo più avanti, molto più basso di quello degli uomini.
Tabella 22 Collaboratori: ore di lavoro settimanali per sesso – pesi percentuali
Maschio Femmina Totale
% | % | % | |
non più di 10 ore | 5.0 | 10.3 | 8.0 |
da 11 a 20 ore | 12.8 | 30.1 | 22.7 |
da 21 a 30 ore | 13.6 | 19.0 | 16.7 |
da 31 a 40 ore | 45.8 | 29.2 | 36.3 |
più di 40 ore | 14.3 | 4.6 | 8.8 |
Orario molto | |||
variabile/non sa | 8.5 | 6.9 | 7.6 |
Totale | 100.0 | 100.0 | 100.0 |
Fonte: Elaborazione IRES su dati Istat Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
La durata dei contratti (ricavata dall’archivio Inps) è molto breve – fino a 30 giorni – per il 10,7% delle donne e relativamente estesa (più di 6 mesi) per oltre il 56%. Non si osservano differenze rilevanti per genere (tabella 23).
8 Il numero di ore di lavoro settimanali è sensibilmente maggiore sia per gli uomini che per le donne – sia dipendenti che indipendenti ‐ quando l’impegno non è in collaborazione. Anche nel contesto, molto più ampio e significativo, dell’occupazione complessiva, la differenza di genere è comunque notevole: un terzo delle donne occupate non lavora più di 30 ore/settimana (contro meno del 7% degli uomini)
Tabella 23: Atipici esclusivi: durata del contratto per sesso
Femmine Maschi Totale
N | % | N | % | N | % | |
fino a 30 giorni | 51796 | 10.7 | 39662 | 11 | 91458 | 10.9 |
da 31 a 90 | 75120 | 15.6 | 57591 | 16 | 132711 | 15.7 |
da 91 a 180 | 84227 | 17.5 | 60458 | 16.8 | 144685 | 17.2 |
più di 180 | 271142 | 56.2 | 202753 | 56.2 | 473895 | 56.2 |
Totale | 482285 | 100 | 360464 | 100 | 842749 | 100 |
Fonte: elaborazione IRES su dati INPS
Dal punto di vista della distribuzione sul territorio – del tutto simile per uomini e donne –si può osservare una decisa prevalenza della diffusione del fenomeno nelle circoscrizioni nord‐ovest e centro (64% complessivamente, tabella 24), in ragione della notevole concentrazione di lavoratori atipici in Lombardia e nel Lazio.
Tabella 24: Atipici esclusivi: sesso per ripartizione geografica
Femmine Maschi Totale
N % N % N %
Nord Ovest | 155686 | 31.7 | 112480 | 30.7 | 268166 | 31.3 |
Nord Est | 80488 | 16.4 | 64850 | 17.7 | 145338 | 16.9 |
Centro | 158359 | 32.2 | 120237 | 32.8 | 278596 | 32.5 |
Mezzogiorno | 96680 | 19.7 | 68935 | 18.8 | 165615 | 19.3 |
Totale | 491213 | 100 | 366502 | 100 | 857715 | 100 |
Fonte: elaborazione IRES su dati INPS
Ove si faccia riferimento alla dimensione del mercato del lavoro nelle diverse circoscrizioni, il peso di questa formula contrattuale in rapporto al volume complessivo dell’occupazione risulta particolarmente rilevante nelle aree centrali del Paese (figura 7). In particolare, per le donne occupate del centro la probabilità di svolgere un lavoro in collaborazione esclusiva è il doppio ‐ più o meno – di quella attribuibile alle occupate del nord‐est. Va anche segnalato il peso modesto
delle collaborazioni nel Mezzogiorno, tanto per le donne quanto – e soprattutto – per gli uomini: è ragionevole ipotizzare che la notevole diffusione dell’economia sommersa e del lavoro “in nero” renda poco appetibile anche una forma contrattuale così poco tutelata. Per altro verso, come vedremo, le donne collaboratrici a basso reddito – fino a 5000 euro ‐ sono relativamente più numerose proprio nel mezzogiorno (più del 65%).
Figura 7: rapporto tra numero di lavoratori atipici esclusivi e numero di occupati totali per sesso e circoscrizione geografica.
Fonte: Inps e Istat (medie 2006)
10%
8%
6%
4%
2%
0%
Nord Ovest Nord Est Centro Mezzogiorno Totale
Femmine Maschi Totale
3.3 Redditi da lavoro bassissimi
Vediamo ora dimensioni e distribuzioni dei redditi dichiarati. Per quasi il 20% delle donne – e per poco più del 15% dei maschi - l’imponibile non supera i 1000 euro (tabella 25): si tratta verosimilmente anche di esperienze isolate o posizioni aperte in prossimità della fine dell’anno.
Il 50% delle lavoratrici non arriva a 4000 euro mentre solo il 5,3% dimostra un reddito maggiore di 20000 (contro il 12% degli uomini).
Tabella 25: Atipici esclusivi: imponibile (euro) per sesso
N | Mediana | Media | STD | |
Femmine | 491562 | 3986 | 6582.6 | 7948.5 |
Maschi | 366826 | 5600 | 9655 | 12546 |
Totale | 858388 | 4572 | 7895.6 | 10283.7 |
Femmine | Maschi | Totale | ||||
N | % | N | % | N | % | |
fino a 1000 | 96765 | 19.7 | 56259 | 15.3 | 153024 | 17.8 |
da 1001 a 5000 | 181444 | 36.9 | 116700 | 31.8 | 298144 | 34.7 |
da 5001 a 10000 da 10001 a | 101646 | 20.7 | 71421 | 19.5 | 173067 | 20.2 |
20000 85874 17.5 78538 21.4 164412 19.2
da 20001 a
50000 23892 4.9 36813 10 60705 7.1
più di 50000 1941 0.4 7095 1.9 9036 1.1
Totale 491562 100 366826 100 858388 100
Fonte: elaborazione IRES su dati INPS
La combinazione di imponibile e durata dei contratti registra la correlazione attesa sia per gli uomini che per le donne (tabelle 26.1 e 26.2). Tuttavia, nelle classi di reddito fino a 5000 euro la quota di donne con contratti relativamente più lunghi è maggiore della corrispondente percentuale maschile: le lavoratrici denunciano retribuzioni mediamente più basse a parità di estensione temporale del contratto.
Tabella 26.1: Donne atipiche esclusive: durata del contratto per imponibile (euro)
Durata contratto | Fino a 1000 | da 1001 a 5000 | da 5001 a 10000 | da 10001 a 20000 | da 20001 a 50000 | più di 50000 | ||||||
N | % | N | % | N | % | N | % | N | % | N | % | |
fino a 30 giorni | 40184 | 43.6 | 10356 | 5.8 | 796 | 0.8 | 279 | 0.3 | 163 | 0.7 | 18 | 0.9 |
da 31 a 90 | 30542 | 33.2 | 41473 | 23.3 | 2564 | 2.5 | 424 | 0.5 | 97 | 0.4 | 20 | 1 |
da 91 a 180 | 12765 | 13.9 | 53350 | 30 | 14914 | 14.8 | 2736 | 3.2 | 404 | 1.7 | 58 | 3 |
più di 180 | 8596 | 9.3 | 72845 | 40.9 | 82629 | 81.9 | 82116 | 96 | 23121 | 97.2 | 1835 | 95 |
Totale | 92087 | 100 | 178024 | 100 | 100903 | 100 | 85555 | 100 | 23785 | 100 | 1931 | 100 |
Fonte: elaborazione IRES su dati INPS
Tabella 26.2: Uomini atipici esclusivi: durata del contratto per imponibile (euro)
Durata contratto | fino a 1000 | da 1001 a 5000 | da 5001 a 10000 | da 10001 a 20000 | da 20001 a 50000 | più di 50000 | ||||||
N | % | N | % | N | % | N | % | N | % | N | % | |
fino a 30 giorni | 26673 | 49.7 | 11116 | 9.7 | 1029 | 1.5 | 528 | 0.7 | 253 | 0.7 | 63 | 0.9 |
da 31 a 90 | 16189 | 30.2 | 36165 | 31.6 | 3894 | 5.5 | 952 | 1.2 | 290 | 0.8 | 101 | 1.4 |
da 91 a 180 | 6182 | 11.5 | 33370 | 29.2 | 15149 | 21.4 | 4211 | 5.4 | 1160 | 3.2 | 386 | 5.5 |
più di 180 | 4585 | 8.5 | 33628 | 29.4 | 50649 | 71.6 | 72431 | 92.7 | 34952 | 95.4 | 6508 | 92.2 |
Totale | 53629 | 100 | 114279 | 100 | 70721 | 100 | 78122 | 100 | 36655 | 100 | 7058 | 100 |
Fonte: elaborazione IRES su dati INPS
56
L’analisi dell’imponibile per classi di età segnala la concentrazione dei giovanissimi (fino a 24 anni) nelle classi di reddito più basso (tabelle 27.1 e 27.2): l’80% delle ragazze e il 75% dei ragazzi non supera i 5000 euro. Le donne, però, anche in età adulta dimostrano retribuzioni molto esigue: più del 50% delle lavoratici adulte (45‐54 anni) non riceve più di 5000 euro (contro il 36,5% degli uomini della stessa età).
L’imponibile per area geografica e sesso è illustrato nelle tabelle seguenti (28.1 e 28.2). Le donne a basso reddito – fino a 5000 euro ‐ pesano relativamente di più nel Mezzogiorno (più del 65%) che nelle altre circoscrizioni (nel nord ovest più che nel centro e nel nord‐est). Tra i maschi, ancora il Mezzogiorno presenta la più alta percentuale di redditi molto contenuti (54,8%), comunque assai più bassa della corrispondente quota femminile.
57
Tabella 27.1: Donne atipiche esclusive: imponibile (euro) per età
Età | fino a 1000 | da 1001 a 5000 | da 5001 a 10000 | da 10001 a 20000 | da 20001 a 50000 | più di 50000 | ||||||
N | % | N | % | N | % | N | % | N | % | N | % | |
fino a 24 anni | 29324 | 36.8 | 34375 | 43.2 | 11013 | 13.8 | 4542 | 5.7 | 378 | 0.5 | 14 | 0 |
25‐34 | 38341 | 16.8 | 82038 | 35.9 | 49895 | 21.9 | 47829 | 21 | 9828 | 4.3 | 300 | 0.1 |
35‐44 | 17652 | 15.5 | 40382 | 35.4 | 25449 | 22.3 | 21567 | 18.9 | 8266 | 7.2 | 749 | 0.7 |
45‐54 | 7978 | 15.9 | 17912 | 35.8 | 11236 | 22.4 | 8737 | 17.4 | 3646 | 7.3 | 560 | 1.1 |
>54 anni | 3470 | 17.7 | 6737 | 34.5 | 4053 | 20.7 | 3199 | 16.4 | 1774 | 9.1 | 318 | 1.6 |
Totale | 96765 | 19.7 | 181444 | 36.9 | 101646 | 20.7 | 85874 | 17.5 | 23892 | 4.9 | 1941 | 0.4 |
Fonte: elaborazione IRES su dati INPS
Tabella 27.2: Uomini atipici esclusivi: imponibile (euro) per età
Età | fino a 1000 | da 1001 a 5000 | da 5001 a 10000 | da 10001 a 20000 | da 20001 a 50000 | più di 50000 | ||||||
N | % | N | % | N | % | N | % | N | % | N | % | |
fino a 24 anni | 18930 | 32.1 | 25420 | 43.1 | 9200 | 15.6 | 4866 | 8.2 | 576 | 1 | 17 | 0 |
25‐34 | 21683 | 13.4 | 51521 | 31.7 | 34293 | 21.1 | 41314 | 25.4 | 12844 | 7.9 | 735 | 0.5 |
35‐44 | 8880 | 10.9 | 22820 | 28 | 15916 | 19.5 | 19148 | 23.5 | 12388 | 15.2 | 2372 | 2.9 |
45‐54 | 3886 | 10.1 | 10207 | 26.4 | 7440 | 19.3 | 8283 | 21.4 | 6630 | 17.2 | 2202 | 5.7 |
>54 anni | 2880 | 11.4 | 6732 | 26.7 | 4572 | 18.1 | 4927 | 19.5 | 4375 | 17.3 | 1769 | 7 |
Totale | 56259 | 15.3 | 116700 | 31.8 | 71421 | 19.5 | 78538 | 21.4 | 36813 | 10 | 7095 | 1.9 |
Fonte: elaborazione IRES su dati INPS
Tabella 28.1: Donne atipiche esclusive: imponibile (euro) per ripartizione geografica
Euro | Nord Ovest | Nord Est | Centro | Mezzogiorno | ||||
N % | N % | N % | N % | |||||
fino a 1000 | 33151 | 21.3 | 12314 | 15.3 | 28583 | 18 | 22644 | 23.4 |
da 1001 a 5000 | 54761 | 35.2 | 29253 | 36.3 | 56785 | 35.9 | 40494 | 41.9 |
da 5001 a 10000 | 30283 | 19.5 | 16651 | 20.7 | 35475 | 22.4 | 19182 | 19.8 |
da 10001 a 20000 | 27831 | 17.9 | 16378 | 20.3 | 29479 | 18.6 | 12130 | 12.5 |
da 20001 a 50000 | 8838 | 5.7 | 5473 | 6.8 | 7471 | 4.7 | 2096 | 2.2 |
più di 50000 | 822 | 0.5 | 419 | 0.5 | 566 | 0.4 | 134 | 0.1 |
Totale | 155686 | 100 | 80488 | 100 | 158359 | 100 | 96680 | 100 |
Fonte: elaborazione IRES su dati INPS
Tabella 28.2: Uomini atipici esclusivi: imponibile (euro) per ripartizione geografica
Euro | Nord Ovest | Nord Est | Centro | Mezzogiorno | ||||
N % | N % | N % | N % | |||||
fino a 1000 | 17583 | 15.6 | 7926 | 12.2 | 17997 | 15 | 12703 | 18.4 |
da 1001 a 5000 | 33942 | 30.2 | 19562 | 30.2 | 37950 | 31.6 | 25105 | 36.4 |
da 5001 a 10000 | 20604 | 18.3 | 12047 | 18.6 | 24375 | 20.3 | 14331 | 20.8 |
da 10001 a 20000 | 24342 | 21.6 | 14863 | 22.9 | 26730 | 22.2 | 12557 | 18.2 |
da 20001 a 50000 | 12981 | 11.5 | 8736 | 13.5 | 11372 | 9.5 | 3704 | 5.4 |
più di 50000 | 3028 | 2.7 | 1716 | 2.6 | 1813 | 1.5 | 535 | 0.8 |
Totale | 112480 | 100 | 64850 | 100 | 120237 | 100 | 68935 | 100 |
Fonte: elaborazione IRES su dati INPS
Le figure riportate di seguito illustrano bene le differenze tra le retribuzioni per sesso, differenze che – in misura diversa in relazione ad età, durata dei contratti e area geografica – dimostrano lo svantaggio delle donne rispetto agli uomini.
L’imponibile medio è crescente con l’età – almeno fino alla classe 45‐54 anni per gli uomini e 35‐44 per le donne – e tuttavia la distanza tra i primi e le seconde aumenta progressivamente – sia in termini assoluti che relativi, risultando già molto rilevante nella classe centrale. Di fatto, le retribuzioni medie delle donne aumentano molto poco dopo i 44 anni.
Figura 8: imponibile medio (euro) per classi di età e sesso. Fonte: Inps (2006)
20000
16000
12000
8000
4000
0
fino a 24 anni 25-34 35-44 45-54 >54 anni
Femmine Maschi
Ugualmente crescente è l’andamento per durata del contratto: di nuovo, i redditi delle donne sono, in media, più bassi ma la differenza per difetto, pure aumentando in assoluto al crescere della durata del contratto, è sostanzialmente invariata in termini relativi (l’imponibile medio delle donne rappresenta rispettivamente il 64% e il 68% di quello degli uomini nelle classi <=30 giorni e
>180 giorni).
Figura 9: imponibile medio (euro) per classi di durata del contratto e sesso.
Fonte: Inps (2006)
16000
12000
8000
4000
0
fino a 30 giorni da 31 a 90 da 91 a 180 più di 180
Femmine Mas chi
In relazione alla distribuzione territoriale, infine, la differenza tra sessi è maggiore nel nord‐ovest, dove il reddito delle collaboratrici è ‐ in media – solo il 65% di quello dei collaboratori, e relativamente meno marcata nelle regioni centrali (73%).
Fonte: Inps (2006)
Figura 10: imponibile medio (euro) per circoscrizione geografica e sesso.
12000
8000
4000
0
Nord Ovest
Nord Est
Centro
Mezzogiorno
Femmine Maschi
3.4 Criticità al femminile
Il quadro sopra delineato rivela che le donne – maggioranza schiacciante nel mondo della collaborazione – occupano tendenzialmente spazi di secondo piano, per la natura delle professioni svolte, per la misura ridotta dell’impegno lavorativo, per l’ammontare di reddito percepito. D’altra parte, poiché le opportunità di ottenere un lavoro “family friendly” nell’area della “buona” occupazione nel nostro Paese sono molto rarefatte, è probabile che attraverso contratti più flessibili in fatto di orario e, a volte, di sede, si riesca a rendere compatibili gli impegni di lavoro con quelli di cura. L’alta percentuale di collaboratrici che lavorano part‐time lo testimonia.
Le donne sono relativamente penalizzate rispetto agli uomini anche quando si muovono nello stesso contesto, svolgono le stesse professioni e condividono le stesse incertezze tipiche di questa forma occupazionale.
In primo luogo le madri con carichi familiari, anche se portatrici di buone competenze professionali, rischiano più degli uomini di restare intrappolate in questa condizione. D’altra parte, soprattutto in alcune aree professionali, è alta la probabilità di trovare solo un lavoro in collaborazione una volta uscite dal mercato, magari per una maternità. L’alta percentuale di donne adulte del Nord e del Centro impegnate con contratti di collaborazione è indicativo proprio di questo aspetto. Ancora, nei settori d’attività in cui sono più diffuse forme occupazionali atipiche, come le collaborazioni, i fattori competitivi per stare sul mercato e per affermarsi professionalmente sono fondamentalmente due: una buona dotazione di capitale sociale ‐ vale a dire “una rete di relazioni durevoli che consenta di veicolare risorse fondamentali per la mobilità occupazionale, quali l’informazione e la fiducia ‐ ed essere riconosciuti come membri di una comunità”. Occorre per questo “un continuo aggiornamento del proprio capitale umano” (Barbieri, Rizza, 2003; Fullin, 2004).
Contano, quindi, una buona reputazione e un livello di professionalità elevato, acquisito con l’esperienza. C’è, in definitiva, la necessità di mantenersi costantemente sul mercato, per costruire e stabilizzare una rete di possibili
committenti. L’interruzione dell’attività comporta così un rischio molto elevato di non reinserirsi nel mondo del lavoro. L’uscita, spesso pensata come temporanea, non solo compromette il presente economico della famiglia ma ha un forte impatto sulla “impiegabilità” futura. Quanto più si resta fuori dal lavoro, tanto più alto è, infatti, il rischio di obsolescenza delle competenze di cui si è portatori. Fare progetti a lungo termine richiede un impegno costante per alimentare i contatti professionali e aggiornare le conoscenze, impegno che può essere vanificato dal sopraggiungere della maternità e che in ogni caso rende difficile la conciliazione a chi deve assolvere al lavoro di cura.
Due aspetti emergono con forza.
Da una parte la marginalità relativa delle donne nel mondo della collaborazione, soprattutto di quelle con livelli medio bassi di scolarizzazione e, in generale, delle madri che si trovano nella necessità di conciliare lavoro e famiglia in un contesto privo di opportunità alternative, di servizi e strutture di sostegno.
Dall’altra l’interrogativo a cui devono rispondere le collaboratrici più istruite e più giovani, potenzialmente interessate alla carriera professionale: continuare a svolgere il proprio lavoro rinunciando alla famiglia e differendo la nascita dei figli, impegnarsi nella conciliazione da subito o, ancora, vivere senza compromessi l’esperienza della maternità ritirandosi dal mercato? I dati che presentiamo nel paragrafo successivo illustrano le risposte a questo interrogativo.
3.5 Le collaborazioni al femminile: una conciliazione difficile
In questa parte metteremo a fuoco alcuni aspetti del lavoro in collaborazione dal punto di vista delle donne, con l’obiettivo di valutare proprio quanto esso sia funzionale al bisogno di conciliare famiglia e professione.
L’analisi è stata condotta sui dati Istat del IV trimestre 2006 relativi alle collaboratrici1 - con contratti a progetto o prestazione occasionale2 - di età compresa tra 25 e 49 anni. Esse sono state suddivise in due gruppi, le madri con figli conviventi e le “altre donne”3.
Un primo dato da sottolineare è la prevalenza delle altre donne che costituiscono il 58% del gruppo osservato mentre le madri solo il 42. Se si considera che queste ultime sono la maggioranza dell’occupazione totale femminile nelle fasce di età 25-49 anni (56%), si è indotti ad affermare che la collaborazione non è una formula “preferenziale” per le lavoratrici con figli. L’analisi per fasce di età, come vedremo, condurrà a conclusioni più articolate.
In primo luogo va detto che le madri sono mediamente meno giovani: più del 75% ha almeno 35 anni contro il 27% delle altre donne (tabella 29).
Tra le giovani collaboratrici in età compresa tra 25 e 34 anni le madri rappresentano meno del 19%, una quota modesta in relazione al peso relativo delle madri nell’insieme delle occupate della stessa età (31% circa, tabelle B e C in appendice). La tendenza a differire nel tempo la nascita del primo figlio spiega solo in parte, quindi, l’età relativamente avanzata delle collaboratrici con figli. I risultati indicano invece che la maternità, quando interviene prima della maturità professionale, non trova nella collaborazione la formula lavorativa più idonea.
1 Si fa presente che l’indagine interessa un insieme molto limitato all’interno delle forze lavoro e le stime delle numerosità assolute hanno scarsa attendibilità. Le distribuzioni delle tavole che seguono sono utili per definire i pesi relativi delle diverse modalità e non la loro consistenza assoluta.
2 Le prestazioni occasionali pesano per il 16%, relativamente di più tra le madri (quasi 20%) che tra le altre (13%).
3 Sono considerate madri con figli conviventi – per brevità madri – le donne con figli che appartengono allo stesso nucleo familiare. La scelta di limitare l’analisi alle fasce di età 25-49 anni permette di escludere buona parte delle madri con figli adulti conviventi. Le “altre donne” potrebbero avere figli appartenenti ad altro nucleo
Tabella 29 Donne con contratti di collaborazione per età e condizione familiare (età 25-49 anni) – pesi percentuali
Madri con figli conviventi | Altre donne | Totale | |
25-29 | 4.0 | 44.4 | 27.5 |
30-34 | 19.1 | 28.7 | 24.7 |
35-39 | 31.2 | 12.8 | 20.5 |
40-44 | 27.0 | 6.8 | 15.3 |
45-49 | 18.7 | 7.3 | 12.1 |
Totale | 100.0 | 100.0 | 100.0 |
Fonte: Elaborazione IRES su dati Istat - Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
Le madri sono relativamente meno scolarizzate (tabella 30): quasi una su quattro ha solo la licenza media (contro circa il 7% delle altre donne), e poche di più sono laureate (tra le altre donne, viceversa, più della metà ha un titolo di studio universitario). Va segnalato, inoltre, che la percentuale delle madri che hanno seguito soltanto la scuola dell’obbligo aumenta con il numero di figli tanto che esse sono quasi la metà di quelle con tre o più figli (tabella 31): si delinea per loro un quadro professionale meno qualificato rispetto alle collaboratrici senza figli conviventi.
Tabella 30 Donne con contratti di collaborazione per titolo di studio e condizione familiare (età 25-49 anni) – pesi percentuali
Madri con figli conviventi | Altre donne | Totale | |
Fino a licenza media | 23.8 | 7.4 | 14.3 |
Diploma di scuola superiore o assimilati | 49.7 | 41.4 | 44.8 |
Laurea o specializzazione post universitaria | 26.6 | 51.2 | 40.9 |
Totale | 100.0 | 100.0 | 100.0 |
Fonte: Elaborazione IRES su dati Istat - Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
Tabella 31 Collaboratrici per numero di figli conviventi e titolo di studio (età 25-49 anni) – pesi percentuali
Un figlio | Due figli | Tre o più figli | Totale | |
Fino a licenza media | 15.8 | 24.5 | 49.1 | 23.8 |
Diploma di scuola superiore o assimilati | 54.9 | 48.4 | 37.0 | 49.7 |
Laurea o specializzazione post universitaria | 29.4 | 27.1 | 13.9 | 26.6 |
Totale | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 |
Fonte: Elaborazione IRES su dati Istat - Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
Nelle regioni settentrionali risiede circa la metà delle madri e il 45% delle altre donne (tabella 32). Le collaboratrici con figli sono minoranza in tutte e tre le grandi circoscrizioni geografiche; in particolare al Centro (dove, sulla base dell’archivio Inps, i contratti di collaborazione sono relativamente più frequenti) sono soltanto il 35% circa (tabella D in appendice).
Tabella 32 Donne con contratti di collaborazione
per ripartizione geografica e condizione familiare (età 25-49 anni) pesi percentuali
Madri con figli conviventi | Altre donne | Totale | |
Nord | 50.2 | 45.5 | 47.5 |
Centro | 19.0 | 25.4 | 22.7 |
Mezzogiorno | 30.9 | 29.1 | 29.8 |
Totale | 100.0 | 100.0 | 100.0 |
Fonte: Elaborazione IRES su dati Istat - Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
Veniamo ora all’estensione temporale dei contratti. Quelli di durata compresa tra 7 e 12 mesi sono i più ricorrenti, tanto tra le madri (46%) quanto tra le altre (52%).
Tabella 33: Collaboratrici per durata del contratto e condizione familiare (età 25-49 anni) – pesi percentuali
Madri con figli conviventi | Altre donne | Totale | |
Meno di un mese | 5.9 | 5.3 | 5.5 |
Da 1 a 3 mesi | 11.1 | 14.5 | 13.1 |
Da 4 a 6 mesi | 11.6 | 16.0 | 14.2 |
Da 7 a 12 mesi | 45.9 | 52.0 | 49.4 |
Da 13 a 24 mesi | 5.8 | 4.9 | 5.3 |
Da 25 a 36 mesi | 3.1 | 0.8 | 1.8 |
Più di 36 mesi | 0.9 | 0.2 | 0.5 |
Durata non specificata - Non sa | 15.7 | 6.3 | 10.2 |
Totale | 100.0 | 100.0 | 100.0 |
Fonte: Elaborazione IRES su dati Istat - Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
E’ difficile confrontare le due distribuzioni a causa del numero elevato di non risposte da parte delle madri (16% circa). Tuttavia, se è lecito ritenere che prevalgano i contratti relativamente più lunghi nell’insieme di chi ignora la durata del rapporto di lavoro, le madri hanno contratti relativamente più lunghi delle altre donne.
Le madri lavorano mediamente meno ore a settimana (tabella 34): quasi la metà di loro è impegnata non più di 20 ore a settimana rispetto a circa il 30% delle altre donne. Le collaboratrici con figli, inoltre, ricorrono più spesso al tempo parziale (66% delle madri contro 44% delle altre donne, tabella 35).
Tabella 34: Collaboratrici per ore di lavoro a settimana e condizione familiare (età 25-49 anni) – pesi percentuali
Madri con figli conviventi | Altre donne | Totale | |
non più di 10 ore | 10.6 | 8.9 | 9.6 |
da 11 a 20 ore | 37.1 | 20.7 | 27.6 |
da 21 a 30 ore | 23.4 | 18.5 | 20.5 |
da 31 a 40 ore | 21.5 | 40.0 | 32.2 |
più di 40 ore | 1.1 | 8.0 | 5.1 |
Orario molto variabile/non sa | 6.4 | 4.0 | 5.0 |
Totale | 100.0 | 100.0 | 100.0 |
Fonte: Elaborazione IRES su dati Istat - Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
Tabella 35: Collaboratrici per modalità di lavoro e condizione familiare (età 25-49 anni) – pesi percentuali
Madri con figli conviventi | Altre donne | Totale | |
tempo pieno tempo parziale | 34.3 65.7 | 55.7 44.3 | 46.7 53.3 |
Totale | 100.0 | 100.0 | 100.0 |
Fonte: Elaborazione IRES su dati Istat -Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
Le professioni tecniche sono quelle più frequenti sia tra le madri che tra le altre donne (31% circa, tabella 36): in particolare, in questo ambito prevalgono le “professioni tecniche nell'amministrazione e nelle attività finanziarie e commerciali”. Anche le impiegate sono più del 20% sia tra le madri che tra le altre donne4.
Tabella 36: Collaboratrici per attività svolta e condizione familiare (età 25-49 anni) – pesi percentuali
Madri con figli conviventi | Altre donne | Totale | |
LEGISLATORI, DIRIGENTI E IMPRENDITORI | 3.5 | 1.5 | 2.4 |
PROFESSIONI INTELLETTUALI, SCIENTIFICHE E DI ELEVATA SPECIALIZZAZIONE | 13.8 | 23.0 | 19.1 |
PROFESSIONI TECNICHE | 30.6 | 31.5 | 31.1 |
IMPIEGATI | 21.2 | 20.7 | 20.9 |
PROFESSIONI QUALIFICATE NELLE ATTIVITA’ | 18.1 | 14.6 | 16.1 |
ARTIGIANI, OPERAI SPECIALIZZATI E AGRICOLTORI | 1.7 | 1.5 | 1.6 |
CONDUTTORI DI IMPIANTI E OPERAI SEMIQUALIFICATI ADDETTI A MACCHINARI FISSI E MOBILI | 1.6 | 1.7 | 1.7 |
PROFESSIONI NON QUALIFICATE | 9.5 | 5.4 | 7.1 |
Totale | 100.0 | 100.0 | 100.0 |
Fonte: Elaborazione IRES su dati Istat - Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
Le professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione sono più diffuse tra le altre donne (23%) che tra le madri (solo 14%), in linea con la minore preparazione che le madri hanno accumulato nel loro percorso formativo.
4 In particolare, le professioni più diffuse tra le impiegate parasubordinate sono: “personale di segreteria ed operatori su macchine di ufficio”; “personale con funzioni specifiche in campo amministrativo, gestionale e finanziario”; “personale addetto all'accoglienza, all'informazione e all'assistenza della clientela”.
Circa il 90% delle collaboratrici osservate lavora per una sola azienda/cliente. Una frazione più grande delle madri decide dove lavorare (15% rispetto a circa il 10% delle altre donne), soprattutto nella fascia di età 45-49 anni (più del 26%, tabella 37). L’autonomia in termini di orario è certamente maggiore (tabella 38), rispetto alla possibilità di scegliere la sede (quasi il 40% delle madri e circa il 26% delle altre donne lo gestiscono liberamente): ancora una volta le madri “più anziane” sono relativamente più indipendenti (più del 50%).
Nel mondo della collaborazione, in definitiva, le donne con figli trovano spazio in età più avanzata quando è maggiore l’autonomia in fatto di sede e, soprattutto, di orario di lavoro. Sono mamme con figli mediamente più grandi, che richiedono verosimilmente meno cure e tempo da parte dei genitori, tendenzialmente meno scolarizzate delle altre collaboratrici e impegnate in professioni meno qualificate. Per le madri adulte la collaborazione rappresenta una occasione per (ri)entrare nel mercato del lavoro e contribuire al reddito familiare, anche se in posizioni sovente marginali.
In sostanza le statistiche suggeriscono l’ipotesi che la collaborazione sia poco“conciliativa” e funzionale alla famiglia. La scelta di avere un bambino corrisponde, in generale, al bisogno di definire e coltivare uno spazio per sé e la famiglia, bisogno che configge con le condizioni e le esigenze di lavoro quando mancano i meccanismi di tutela e gli strumenti di conciliazione: il ritardo della maternità può essere conseguenza del senso di incertezza e precarietà che il lavoro in collaborazione spesso porta con sé. D’altra parte, anche i risultati di altre ricerche dimostrano che, a parità di titolo di studio e di età, le scelte finanziarie - come l’acquisto di una casa o l’apertura di una pensione integrativa - e quelle di carattere familiare - come l’uscita dalla famiglia d’origine, il matrimonio, i figli – dipendono più dalle modalità contrattuali dell’impiego che dal contesto territoriale (Bertolini, 2006).
Tabella 37: Collaboratrici per autonomia di sede, età e condizione familiare (età 25-49 anni) – pesi percentuali
25-29 | 30-34 | 35-39 | 40-44 | 45-49 | Totale | |||||||
Madri con figli conviventi | Altre donne | Madri con figli conviventi | Altre donne | Madri con figli conviventi | Altre donne | Madri con figli conviventi | Altre donne | Madri con figli conviventi | Altre donne | Madri con figli conviventi | Altre donne | |
Decide dove lavorare Lavora presso l'azienza/cliente Non sa | 9.0 91.0 . | 3.6 95.5 0.9 | 7.8 92.2 . | 17.7 82.3 . | 14.1 85.9 . | 15.4 84.4 0.2 | 15.0 85.0 . | 8.9 91.1 . | 26.2 73.8 . | 3.3 96.7 . | 15.2 84.8 . | 9.5 90.1 0.4 |
Totale | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 |
Fonte: Elaborazione IRES su dati Istat - Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
Tabella 38: Collaboratrici per autonomia di orario, età e condizione familiare (età 25-49 anni) - pesi percentuali
25-29 | 30-34 | 35-39 | 40-44 | 45-49 | Totale | |||||||
Madri con figli conviventi | Altre donne | Madri con figli conviventi | Altre donne | Madri con figli conviventi | Altre donne | Madri con figli conviventi | Altre donne | Madri con figli conviventi | Altre donne | Madri con figli conviventi | Altre donne | |
Decide autonomamente l'orario Non decide l'orario Non sa | 9.0 91.0 . | 20.2 79.0 0.9 | 34.3 65.7 . | 38.5 61.5 . | 39.1 32.2 58.9 67.8 2.0 . | 37.0 63.0 . | 17.7 82.3 . | 52.7 47.3 . | 10.6 89.4 . | 38.9 60.5 0.6 | 26.1 73.5 0.4 | |
Totale | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 | 100.0 |
Fonte: Elaborazione IRES su dati Istat - Indagine sulle forze lavoro (IV trimestre 2006)
70
Capitolo 4 Le donne nel sistema del lavoro interinale
4.1 Dimensioni del fenomeno e dinamiche di trasformazione
4.1.1 Un mercato limitato, ma in crescita
A partire dalla sua introduzione il lavoro interinale (o somministrato) ha conosciuto una espansione considerevole, seppure la pratica di utilizzo di questo strumento di flessibilità “regolata” (Carmignani-Rustichelli-Marzano, 2001) sia relativamente diffusa nel sistema delle imprese italiane. Vi ricorrono, infatti, l’1,8% delle imprese italiane, secondo Fonti Isfol-Ministero del lavoro1, soprattutto grandi imprese (oltre la metà supera i 100 addetti) attive in specifici ambiti settoriali e territoriali2.
Vi sono ancora difficoltà nel definire in modo puntuale sia la dimensione quantitativa del fenomeno che gli aspetti qualitativi relativi alle caratteristiche dei soggetti coinvolti. È possibile, tuttavia, attraverso l’utilizzo di fonti differenziate, sia di carattere ufficiale che risultati di ricerche ad hoc, realizzate nel corso degli anni, ricostruire un quadro dell’evoluzione quantitativa del fenomeno. Inoltre, vi è la possibilità di mettere a fuoco opportunità offerte ai lavoratori e criticità di questa particolare forma occupazionale di carattere temporaneo.
1 Si tratta dei dati relativi alla Rilevazione longitudinale su imprese e lavoro, 2005. Il dato non è molto discordante da quello rilevato da Confindustria nel 2005 che segnala una percentuale di utilizzo da parte delle del campione di imprese considerate nella propria indagine pari all’1,4%. (Confindustria, 2007)
2 D’altra parte, l’utilizzo del lavoro interinale riguarda soprattutto le grandi imprese, secondo Ebitemp (2007) il 34% della domanda di lavoro interinale proviene dalle imprese con 250 addetti e se si prende in considerazione la soglia di 100 addetti, la quota di interinali impiegata passa al 48%. Per approfondimenti cfr. Osservatorio Ebitemp, 2007, Il lavoro interinale negli archivi Inail. Un aggiornamento del quadro statistico
Attraverso i dati degli archivi Inail3, si ha modo di ricostruire il trend di sviluppo che ha caratterizzato il segmento del lavoro interinale a partire dalla sua introduzione, sancita dal “pacchetto Treu” del 1997. Nel periodo considerato il lavoro interinale (o somministrato) ha avuto una diffusione crescente e pressoché stabile nel mercato del lavoro italiano, anche se i picchi più significativi si sono registrati nei periodi immediatamente successivi alla sua introduzione (1998-994) e, in parte, nel biennio 2002-03 (vedi tabella 39).
3 Attraverso i modelli di denuncia degli assicurati è possibile, infatti, risalire al numero di persone che nel corso dei mesi o dell’anno hanno lavorato con contratti di somministrazione.
4 Infatti, anche se la legge 196/97 ha introdotto in Italia il lavoro interinale, l’avvio effettivo dell’istituto risale alla metà del 1998, periodo in cui vennero concesse le prime autorizzazioni alle agenzie (Ires, 2002)
Tabella 39. Lavoratori interinali assicurati all'INAIL 1998-2006
Anno Italiani Variazioni annue
Immigrati Variazioni annue
Totale Variazioni annue
1998 | 22.387 | - | 2.493 | - | 24.880 | |
1999 | 76.864 | 243,3% | 9.707 | 289,4% | 86.571 | 247,9% |
2000 | 89.659 | 16,6% | 17.032 | 75,5% | 106.691 | 23,2% |
2001 | 108.073 | 20,5% | 25.282 | 48,4% | 133.355 | 25,0% |
2002 | 167.781 | 55,2% | 41.072 | 62,5% | 208.853 | 56,6% |
2003 | 290.063 | 72,9% | 71.242 | 73,5% | 361.305 | 73,0% |
2004 | 320.780 | 10,6% | 79.314 | 11,3% | 400.094 | 10,7% |
2005 | 358.875 | 11,9% | 81.980 | 3,4% | 440.855 | 10,2% |
2006 | 405.047 | 12,9% | 103.281 | 26,0% | 508.328 | 15,3% |
Fonte: Osservatorio Ebitemp su Archivi DNA - Inail
73
Complessivamente, si è passati dai 24.880 lavoratori interinali assicurati presso l’Inail nel 1998 ai 508.328 assicurati nel 2006.
Anche considerando un ulteriore indicatore degli andamenti complessivi del comparto, come il numero medio di missioni svolto dai lavoratori e dalle lavoratrici del comparto, si rileva un trend crescente, seppur con una variabilità ciclica5: infatti, mentre nel 2002 veniva rilevato un valore pari a 1,56 missioni per ciascun lavoratore, nel 2006 in media si sono superate le 2 missioni. La durata media delle missioni, al contrario, sembrerebbe registrare un trend decrescente, rispetto agli inizi del 2000, che si assesterebbe secondo valutazioni Ebitemp (2007) a 43,3 giornate retribuite per missione. Ciò è probabilmente connesso all’estensione dell’interinale in settori che tendenzialmente utilizzano questo strumento di flessibilità per periodi molto brevi. Come vedremo successivamente, infatti, nel corso degli anni 2000 il comparto ha subito profonde trasformazioni in termini di settori di impiego.
4.1.2 Le trasformazioni del “sistema interinale”: terziarizzazione e femminilizzazione
In questi dieci anni il segmento del lavoro interinale ha visto ampliarsi sia la platea delle imprese utilizzatrici che quella dei lavoratori interinali. Progressivamente, si è allargato il bacino dei settori di impiego e delle figure professionali richieste dalle imprese e, di conseguenza, il profilo dei lavoratori interinali si è tendenzialmente differenziato, non essendo più sintetizzabile esclusivamente nella figura del maschio-operaio-industriale (Altieri-Oteri, 2004).
Inizialmente, infatti, il lavoro interinale interessava soprattutto i profili operai e le grandi imprese industriali del Nord; ed è per questo che si è caratterizzato come un fenomeno e una modalità di lavoro più diffusa al Nord Italia che altrove, soprattutto nel Meridione. D’altra parte, nel 2001 l’Isfol segnalava la parziale “estraneità” nei confronti del lavoro interinale da parte del settore terziario e dell’offerta di lavoro più istruita: secondo le fonti amministrative analizzate, a quella data, il settore tipico di impiego del lavoro interinale era
5 In realtà, il picco maggiore si è registrato nel 2004 con un numero medio di 2,16 missioni per lavoratore, in decisivo aumento rispetto al biennio 2002-2003 (Ebitemp-Osservatorio Centro Studi, 2007)
l’industria, nella quale si concentravano circa i 2/3 delle missioni, con una netta prevalenza del settore metalmeccanico. Il resto delle missioni si distribuiva nel settore dei servizi tradizionali, commerciali e turistico-alberghieri, con una relativa diffusione anche nei servizi di pulizia.
Attualmente, oltre alle zone industriali del Nord, il lavoro interinale sta interessando anche le aree a maggior diffusione dei servizi - soprattutto pubblici
- del Centro Italia. Inoltre, il fenomeno sta conoscendo una graduale diffusione anche al Sud e Isole, dove la percentuale di lavoratori interinali assicurati presso l’Inail, pur essendo relativamente contenuta, è passata dall’8% del 2003 al 9% nel 2006, a seguito di un picco raggiunto nel 2005 pari al 9,6%.
Di fatto, nel tempo si è assistito ad una progressiva terziarizzazione del comparto interinale, testimoniata anche dal fatto che la quota di missioni destinate all’industria è diminuita di 15 punti in circa 5 anni, passando dal 70% del 2000 al 55,9% del 2004 (Ebitemp-Osservatorio Centro Studi, 2005), mentre nel periodo 2002-2004 si stima che circa il 51,7% dell’incremento delle missioni di lavoro interinale si è realizzato grazie all’espansione del settore dei servizi.
Inoltre, la dinamica positiva del comparto emerge anche ove si consideri che la terziarizzazione del sistema interinale sembra dovuta al maggior peso che il settore dei servizi ha assunto nel sistema economico, più che ad una riduzione della richiesta espressa dal sistema industriale, che rimane il principale settore di impiego di questa modalità contrattuale.
Tabella 40. Lavoratori interinali assicurati all'INAIL per settore economico. Andamento 2002-2006
v.a. | % | v.a. | % | v.a. | % | v.a. | % | v.a. | % |
Agricoltura, 408 | 0,2 | 705 | 0,2 | 864 | 0,2 | 939 | 0,2 | 688 | 0,1 |
Industria 119.389 | 57,2 | 196.852 | 54,5 | 212.395 | 53,1 | 224.167 | 50,8 | 271.248 | 53,4 |
Costruzioni 4.024 | 1,9 | 6.813 | 1,9 | 8.629 | 2,2 | 9.610 | 2,2 | 10.687 | 2,1 |
Servizi privati 70.355 | 33,7 | 136.116 | 37,7 | 152.914 | 38,2 | 175.362 | 39,8 | 191.129 | 37,6 |
Servizi pubblici 14.516 | 7,0 | 20.720 | 5,7 | 25.157 | 6,3 | 30.543 | 6,9 | 33.882 | 6,7 |
Attività non determinate 162 | 0,1 | 115 | 0,0 | 136 | 0,0 | 236 | 0,1 | 694 | 0,1 |
Totale 208.854 | 100,0 | 361.321 | 100,0 | 400.095 | 100,0 | 440.857 | 100,0 | 508.328 | 100,0 |
Settore 2002 2003 2004 2005 2006
pesca, attività estrattive
Fonte: Elaborazioni Ires su Archivi DNA - Inail
Tabella 41. Variazioni percentuali per settore di impiego. Andamento 2002-2006
Settore | 2002-2003 | 2003-2004 | 2004-2005 | 2005-2006 |
Agricoltura, pesca, attività estrattive Industria | 72,8 64,9 | 22,6 7,9 | 8,7 5,5 | -26,7 21 |
Costruzioni | 69,3 | 26,7 | 11,4 | 11,2 |
Servizi privati | 93,5 | 12,3 | 14,7 | 9 |
Servizi pubblici | 42,7 | 21,4 | 21,4 | 10,9 |
Attività non determinate | -29,0 | 18,3 | 73,5 | 194,1 |
Totale | 73,0 | 10,7 | 10,2 | 15,3 |
Fonte: Elaborazioni Ires su Archivi DNA- Inail
Una delle conseguenze più rilevanti della diffusione del lavoro interinale nel settore terziario è proprio la sua progressiva femminilizzazione, dovuta in modo specifico alla tendenziale diffusione del lavoro interinale in settori non manifatturieri come il commercio, la pubblica amministrazione e i servizi privati (Altieri-Oteri, 2004) e non più, soltanto, al comparto metalmeccanico - da sempre uno dei maggiori utilizzatori dello strumento – che tradizionalmente offre lavori più “maschili”.
Infatti, nel 2000 secondo fonti Isfol (Carmignani-Rustichelli-Marzano, 2001) il lavoro interinale era un fenomeno prevalentemente maschile e le donne rappresentavano solo il 30% del totale, risultando in minoranza anche rispetto all’occupazione complessiva, nella quale le donne rappresentavano il 37% del totale.
Dal 2002 fino ad oggi, invece, sia le fonti statistiche che la letteratura specialistica hanno evidenziato un progressivo e graduale incremento della presenza femminile tra i lavoratori in somministrazione6. Se ci riferiamo alle fonti Inail, notiamo che la componente femminile del segmento interinale è cresciuta in modo significativo tra il 2002 e il 2006, facendo registrare un incremento pari al
+ 162,2% circa; in modo particolare, le lavoratrici interinali sono passate dalle
83.400 unità del 2002 alle 218.750 unità del 2006. Rispetto al totale dei lavoratori interinali, la percentuale della presenza femminile è passata dal 39,9% del 2002 al 43% del 2006.
Di conseguenza, se all’inizio la presenza femminile tra gli interinali era addirittura inferiore a quella media dell’occupazione totale, attualmente la percentuale di lavoratrici interinali sul totale rimane decisamente sovradimensionata rispetto all’occupazione complessiva, che nel 2006 ha raggiunto il 39%. Così, l’incidenza della presenza femminile anche nel lavoro
6 Ichino A., Mealli F., Nannicini T., 2003, Il lavoro interinale in Italia. Trappola del precariato o trampolino verso un impiego stabile?, Rapporto per il Ministero del lavoro; Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Rapporto di monitoraggio sulle politiche occupazionali e lavoro, n. 1/2001, Angeli, Milano; Ires, 2003, Ragioni e articolazione territoriale del lavoro interinale, Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali; Ministero del lavoro e delle politiche sociali, “Monitoraggio delle Politiche occupazionali e del lavoro”, 2003; Aa.Vv., 2004, (IRS, Studio APS, Enaip Lombardia; Ial Piemonte), Lavoro interinale e formazione. Analisi delle caratteristiche socio-professionali dell’offerta di lavoro interinale, Dicembre 2004; Ires, 2006, (Altieri G., Oteri C., Pedaci M.,), Dal lavoro interinale alla somministrazione di lavoro: primo monitoraggio su cosa cambia per le agenzie per il lavoro e per le imprese utilizzatrici, Collana dell’Osservatorio Centro studi Ebitemp.
interinale, come nelle altre forme di lavoro atipico, ha assunto un peso rilevante e, come vedremo successivamente, presenta caratteristiche peculiari.
Tabella 42. Andamenti del lavoro interinale per sesso
Anno | Uomini | Donne | Totale | Uomini | Donne | Totale Variazione percentuale lavoratrici interinali | |
2002 125.451 | 83.403 | 208.854 | 60,10% | 39,90% | 100,00% | 2002-2003 | + 81,3% |
2003 210.101 | 151.220 | 361.321 | 58,10% | 41,90% | 100,00% | 2003-2004 | +12,4% |
2004 230.215 | 169.880 | 400.095 | 57,50% | 42,50% | 100,00% | 2004-2005 | +12,7% |
2005 249.357 | 191.500 | 440.857 | 56,60% | 43,40% | 100,00% | 2005-2006 | +14,3% |
2006 289.578 Fonte: Elaborazioni Ires su | 218.750 Archivi DNA- Inail | 508.328 | 57,00% | 43,00% | 100,00% | 2002-2006 | +162,2% |
80
Oltre che nella connotazione di genere, il profilo dei lavoratori interinali si è modificato anche nelle fasce di età, con tutta probabilità ciò è dovuto tanto alla graduale femminilizzazione del comparto, quanto alla crescente difficoltà di reinserimento nel mondo del lavoro degli uomini over 40 espulsi dal sistema produttivo. Se all’inizio, infatti, il lavoro interinale interessava soprattutto i giovani, negli ultimi anni tra i lavoratori del comparto si è riscontrato un tendenziale spostamento verso le fasce di età più adulte: se la classe dei 30-39enni era pari al 29,7% nel 2002, nel 2006 ha raggiunto un peso pari al 31,8%, mentre gli over 40 sono passati dal 10% del 2002 al 14% circa del 2006 (Ebitemp- Osservatorio Centro Studi, 2007).
In ogni caso, sono proprio le lavoratrici ad essere mediamente più adulte degli uomini e questi trend trovano conferma in diverse indagini recenti. Difatti, secondo un’indagine Irs7 (A.a.V.v, 2004) l’età media delle donne risulta superiore a quella dei propri colleghi, pari a 31,4 anni rispetto ai 30,1 anni degli uomini. Tra le lavoratrici interinali, infatti, il 38,4% si colloca nella classe di età centrale, compresa tra i 30-39 anni, contro il 30,4% degli uomini; mentre tra gli ultraquarantenni le donne rappresentano il 15,3% rispetto al 12,9% dei propri colleghi.
Anche le evidenze empiriche di una recentissima indagine Ires (2008)8 evidenziano andamenti analoghi: è tra gli over 40, infatti, che si rileva lo scarto più elevato tra lavoratori e lavoratrici, queste ultime superano di quasi tre punti percentuali gli uomini (il 21% rispetto al 17,7% dei coetanei maschi). Questa tendenza in parte sembra testimoniare che, all’aumentare dell’età, sono soprattutto le donne ad utilizzare il lavoro interinale, probabilmente, per inserirsi nuovamente nel mercato del lavoro dopo esserne fuoriuscite per far fronte ai
7 Si tratta di un’indagine realizzata dall’Irs nel 2004 in collaborazione con altri istituti (Ref., Studio APS, Enaip Lombardia; Ial Piemonte) su un campione rappresentativo di 2336 lavoratori che hanno svolto almeno una missione di lavoro interinale nei 12 mesi precedenti l’indagine (che per semplicità sarà citata come indagine Irs).
8 Si tratta di un’indagine condotta dall’Ires-Cgil per conto dell’Osservatorio Centro Studi Ebitemp nel 2007. L’indagine è stata realizzata su un campione rappresentativo di circa 1000 lavoratori e lavoratrici interinali che hanno svolto almeno una missione interinale nei 12 mesi antecedenti all’indagine; attualmente, il lavoro è in corso di completamento e in questa sede verranno anticipati solo alcuni dei principali risultati. Il titolo provvisorio del progetto di ricerca è il seguente: “I lavoratori interinali: caratteristiche e percorsi”.
carichi familiari. Sembrerebbe, quindi, che anche nel comparto degli interinali le donne giovani seguano i comportamenti dei coetanei maschi e utilizzino questo strumento come canale di ingresso nel mercato del lavoro. Nelle fasce di età più adulte, invece, per le donne in particolare, l’interinale si rivela un valido strumento per rientrare nel mercato del lavoro dopo un periodo di inattività (Ires, 2006) o, ad ogni modo, come un’opportunità per continuare a rimanere sul mercato anche se con un lavoro temporaneo 9.
D’altra parte, questa tendenza viene confermata anche dalle condizioni famigliari delle lavoratrici interinali che, più dei colleghi uomini, vivono in coppia: infatti, proprio l’indagine Irs (A.a. V.v., 2004) segnala che le donne coniugate e/o conviventi sono quasi il doppio rispetto agli uomini (41,3% circa vs. 23,3% degli uomini). Sempre dal punto di vista delle condizioni famigliari, se si considera anche la presenza di figli, la più recente indagine Ires (2008), già citata, rileva che se tra i giovani (under 30) le differenze di genere non sono affatto significative, anzi uomini e donne si attestano su valori percentuali molto simili, al crescere dell’età la situazione cambia. La percentuale di chi ha figli aumenta decisamente per le donne tra i 30 e i 39 anni, rispetto agli uomini (34,7% vs. 21,4%), mantenendosi molto elevata anche tra le over 40 (il 78,1% rispetto al 68,8% degli uomini). Quindi, è piuttosto palese che le donne adulte che utilizzano l’interinale, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno problemi di conciliazione. Va ad ogni modo sottolineato che, mentre il 26,7% del campione non ha figli a causa della prevalenza delle fasce giovanili tra i lavoratori interinali, fa riflettere il fatto che le lavoratrici interinali intervistate di età compresa tra i 30-39 anni non hanno figli nel 65,2% dei casi (rispetto al 78,6% degli uomini). In sostanza, anche in questo segmento di lavoro atipico si riconferma che le donne lavorano con un contratto temporaneo perché hanno problemi di conciliazione, ma, nel contempo, se hanno un contratto temporaneo con più difficoltà riescono a progettare la maternità.
9 Infatti, se consideriamo l'occupazione complessiva (Istat, 2006) nella quale prevalgono i lavoratori “standard”, si rilevano andamenti opposti rispetto a quelli rilevati tra i nostri intervistati, in quanto, considerando tutti gli occupati, l'incidenza degli uomini è superiore tra gli ultraquarantenni (53,6% rispetto al 50,3% delle donne), mentre le donne si concentrano in prevalenza tra gli adulti in età centrale (30-39 anni: il 32% circa rispetto al 30% degli uomini) e tra i lavoratori più giovani (under 30: il 17,6% rispetto al 16,5% degli uomini). (fonte: Elaborazioni Ires su micro-dati Istat relativi alle Forze lavoro 2006).
La crescente femminilizzazione del segmento interinale, avvenuta nell’ultimo quinquennio, ha determinato anche un incremento dei livelli di scolarizzazione della platea dei lavoratori. Questo andamento, tra l’altro, trova spiegazione anche nella diversificazione dei profili professionali avvenuta nell’interinale; la terziarizzazione del comparto, infatti, ha indirizzato la domanda delle imprese anche verso profili professionali più elevati e quindi verso lavoratori e lavoratrici mediamente più istruiti.
In ogni caso, guardando alla distribuzione dei titoli di studio per genere, anche nel caso del lavoro interinale, così come avviene nel complesso, le donne risultano relativamente più istruite degli uomini10. Infatti, la prima indagine più completa sui lavoratori interinali, condotta dall’Isfol (Carmignani, Rustichelli, Marzano, 2001), attestava che il 44,2% delle donne aveva un diploma o titolo superiore rispetto al 30,2% degli uomini. La stessa indagine condotta dall’Irs (A.a. V.v., 2004), relativa al 2004, rilevava tra le donne intervistate livelli di istruzione mediamente più alti rispetto agli uomini: infatti, oltre ad essere più concentrate tra i diplomati, ben il 19,6% delle donne aveva un diploma di laurea rispetto al 10,9% degli uomini. Tendenze analoghe risultano anche dall’indagine Ires (2008): nel campione di interinali intervistati, le lavoratrici presentano titoli di studio più elevati rispetto ai propri colleghi: il 23% circa ha la laurea (rispetto al 17,6% degli uomini) e il 52,6% ha un diploma (rispetto al 46,2% degli uomini). Questa tendenza rimane invariata a prescindere dalla classe di età, l’unica eccezione riguarda gli ultraquarantenni tra i quali sono i laureati a superare ampiamente le laureate (il 15% vs. il 10% circa).
10 Anche tra gli occupati nel complesso le donne risultano sempre più istruite degli uomini: il 68,4% ha conseguito un diploma, una laurea o una specializzazione post universitaria, rispetto al 54,7% degli uomini; mentre, tra gli occupati meno istruiti (solo licenza media) le donne rappresentano il 31,5% rispetto al 45,3% dei maschi (cfr. Elaborazioni Ires su RFCL, 2006).
Tabella 43. Andamenti del lavoro interinale per classi di età
Classi di Età | 2002 | 2006 | ||
v.a. | % | v.a. | % | |
Fino a 24 anni | 63.151 | 30,20% | 138.106 | 27,20% |
25 - 29 | 57.438 | 27,50% | 118.044 | 23,20% |
30 - 34 | 38.731 | 18,50% | 96.817 | 19,00% |
35 - 39 | 23.374 | 11,20% | 65.245 | 12,80% |
40 e oltre | 26.157 | 12,5 | 90.116 | 17,7 |
Totale | 208.851 | 100,00% | 508.328 | 100,00% |
Fonte: Elaborazioni Osservatorio Centro Studi-Ebitemp su Archivi DNA- Inail
4.2 La qualità dei percorsi
4.2.1 Settori e professioni: il sex-typing
Dal punto di vista dei settori di utilizzo, emerge il classico sex-typing: rispetto agli uomini, le donne sono meno presenti nell’industria e maggiormente inserite in attività dei servizi, sia attività manuali del basso terziario che nelle professioni impiegatizie dei servizi. Non a caso, come mostrano i risultati dell’indagine Irs (A.a. V.v., 2004), le lavoratrici interinali risiedono in prevalenza al Centro-Nord (il 57%), dove l’interinale ha una precisa connotazione terziaria. Viceversa, il lavoro interinale viene poco utilizzato dalle donne del Meridione: solo il 30% degli interinali inseriti in aziende del Sud e Isole sono donne. D’altra parte, il Meridione è un contesto che in generale continua ad essere meno interessato dalla diffusione dell’interinale, anche perché le imprese che operano nel terziario, spesso di piccole dimensioni, fanno ricorso al lavoro sommerso o tendono a preferire rapporti di lavoro atipici più convenienti del lavoro in somministrazione (Altieri-Oteri, 2004).
Entrando nel dettaglio delle figure professionali, sin dalla prima ricognizione del fenomeno operata dall’Isfol (Carmignani, Rustichelli, Marzano, 2001), da
subito si sono evidenziate due aree socio-lavorative ben differenziate e connotate dal punto di vista di genere. Una prima, costituita da manodopera operaio- industriale, giovane e con bassi livelli di scolarizzazione, composta dalla maggior parte degli uomini (88,6%) e da poco più della metà delle donne (56% circa). Un secondo gruppo, rappresentato dal lavoro non manuale del terziario, che coinvolge prevalentemente le donne, le quali, come segnalato, hanno livelli di istruzione mediamente più elevati rispetto ai propri colleghi.
Sempre da questa prima indagine è stato possibile individuare i settori di impiego principali di lavoratori e lavoratrici interinali: coerentemente, gli uomini prevalgono nel comparto industriale, in particolare nel metalmeccanico, che raccoglie il 50,2% degli uomini e circa il 30% delle donne; mentre queste ultime sono più concentrate nel terziario, soprattutto nel commercio (26,3% rispetto all’11,4% degli uomini) e negli alberghi e ristoranti (3% vs. 0,9% degli uomini). L’indagine Irs, relativa al 2004, conferma queste evidenze empiriche: infatti, gli uomini hanno più possibilità di inserimento nell’industria (64% vs. 49,4% delle donne) e le donne nei servizi (50% vs. 35,5% degli uomini), in particolare nel commercio (13,4% vs. 8,6% degli uomini), nella pubblica amministrazione (9,4% vs. 5,6% degli uomini), nell’istruzione, sanità ed altri servizi sociali (6,7% vs. 3% degli uomini) e negli alberghi e ristoranti (2,7 vs. 1,9%). Considerando nel dettaglio i profili professionali, le donne sono sovrarappresentate tra gli impiegati (48,3% vs. 22,5% degli uomini) e, al contrario, sono meno presenti tra i profili operai e le professioni non qualificate.
Dunque, anche nell’interinale si riproducono le tradizionali forme di partecipazione femminile al mercato del lavoro. Le risultanze della più recente indagine Ires (2008), oltre ad evidenziare andamenti analoghi, consentono di approfondire le caratteristiche dei profili professionali femminili. Le lavoratrici più istruite sono in prevalenza impiegate o addette a mansioni di segreteria (il 35,9% contro il 19,5% degli uomini). Scendendo nella gerarchia delle professioni, altra prevalente attività che coinvolge le lavoratrici interinali è quella relativa al comparto commerciale-turistico-alberghiero (21,8% vs. 7% degli uomini), tra queste ultime si concentrano tanto le meno istruite quanto quelle con titoli di studio più alti, con ciò si spiega anche la presenza, tra queste, sia delle più giovani (under 30: 25%) che delle più adulte (over 40: 32,5%). Tuttavia, non
sempre l’inserimento lavorativo corrisponde al livello di istruzione posseduto, infatti tra le lavoratrici occupate in professioni non qualificate del terziario (addette alle pulizie, operatrici call center, data entry ecc.) si rileva una quota non trascurabile di laureate (15,2%), nonostante la componente maggioritaria sia costituita dalle meno istruite (il 21,4% ha la licenza media e/o elementare). Queste ultime sono anche le lavoratrici più adulte (si tratta del 19,5% delle over 40); viceversa, al diminuire dell’età si riduce anche la percentuale di donne impiegate in questo tipo di professioni (il 12,2% delle 30-39enni; il 7,4% delle under 30).
Dunque, già è possibile individuare alcuni profili differenziati tra le lavoratrici interinali: le giovanissime o di età inferiore ai 40 anni, mediamente più istruite occupate in professioni impiegatizie o di tipo tecnico-amministrativo, e quelle più adulte, che hanno superato i 40 anni, occupate in professioni che non richiedono alcuna qualifica professionale, tendenzialmente meno istruite, ma anche sottoccupate con titoli di studio elevati (le ultraquarantenni addette alle pulizie laureate sono il 22,2% rispetto al 9,2% del totale, a parità di età non vi sono uomini nella medesima condizione!). Infine, vi sono le lavoratrici del comparto commerciale-turistico-alberghiero, si tratta in prevalenza di over 40, con scarsi livelli di istruzione (dall’attestato di qualifica alla sola licenza media o elementare).
4.2.2 Le durate delle missioni e le condizioni di lavoro
La qualità dei percorsi femminili all’interno dell’interinale tende a differenziarsi rispetto a quella dei lavoratori.
Se consideriamo le durate delle missioni che vedono impegnate le lavoratrici notiamo che queste ultime tendono ad avere esperienze di lavoro in somministrazione mediamente più brevi dei propri colleghi. Già nel 2001 l’Isfol (Carmignani, Rustichelli, Marzano, 2001) rilevava che il 20,5% delle donne aveva missioni di lavoro di durata non superiore ai 5 giorni, rispetto al 14,2% degli uomini.
D’altra parte, sono le imprese attive nel commercio e nel comparto degli alberghi e ristoranti ad utilizzare missioni più brevi: circa il 69,5% ha attivato
missioni di durata inferiore ai 3 mesi, stando ai risultati di un’indagine Ires (2006), condotta su un campione di circa 300 imprese utilizzatrici dislocate nelle diverse aree territoriali del Paese. Sempre negli stessi comparti oltre la metà delle imprese ha attivato missioni di durata non superiore ad un mese. È quindi la relativa prevalenza della componente femminile nei comparti del commercio e degli alberghi e ristoranti a far sì che le donne abbiano missioni mediamente più brevi rispetto ai propri colleghi. Dunque, la segregazione orizzontale gioca un ruolo significativo nel definire il ventaglio di opportunità offerte alle donne nel mercato del lavoro.
Dal punto di vista degli orari di lavoro le donne, più degli uomini, si caratterizzano per essere impiegate con modalità orarie part-time; tuttavia, va sottolineato che modalità orarie e durate delle missioni dipendono molto dalle specificità dei settori di inserimento e delle figure professionali coinvolte, ad esempio nella grande distribuzione il part-time è più diffuso (Altieri-Oteri, 2004)11.
Anche l’indagine Isfol, citata in precedenza, ha evidenziato che, a prescindere dal settore di inserimento, modalità orarie part-time coinvolgevano circa un quarto delle lavoratrici interinali contro il 10% dei maschi. Invece, le evidenze empiriche emerse dalla recente indagine Ires (2008) condotta su un campione di lavoratori e lavoratrici interinali ci consentono di operare ulteriori approfondimenti riguardo al profilo delle lavoratrici interinali e alle loro condizioni di lavoro. Innanzitutto, si conferma che le lavoratrici intervistate, oltre ad essere inserite in professioni tipicamente femminili e a svolgere missioni molto brevi, lavorano anche meno in termini di ore di lavoro settimanali: di queste il 27% circa non supera le 24 ore settimanali (contro poco meno del 10% degli uomini). Inoltre, lavora a part-time il 40,7% delle donne, contro solo il 19,2% degli uomini. Oltre a ciò, va rilevato che, nonostante i modelli orari siano connessi ai settori di impiego dell’interinale, ci sono comunque differenze significative legate al genere. Nel settore del commercio, dove è particolarmente
11 Secondo l’indagine Ires condotta su un campione di imprese utilizzatrici, in Puglia dove è molto diffuso l’impiego dell’interinale nella grande distribuzione, oltre il 40% dei lavoratori interinali lavora part-time, contro l’11% dei dipendenti. Viceversa, in Veneto, dove il lavoro somministrato è più diffuso nel settore industriale, il ricorso al part-time è meno frequente tra gli interinali e più utilizzato tra i dipendenti.
diffuso il lavoro part-time, questa modalità oraria coinvolge gli uomini solo se giovani, mentre tra le donne è diffuso tanto tra le giovani quanto tra le più adulte.
Considerando solo la componente femminile, lavorano prevalentemente part- time anche le lavoratrici impiegate in professioni non qualificate; dunque, queste ultime, oltre ad avere durate contrattuali più basse, lavorano anche con orari più ridotti.
Le dinamiche descritte, come prevedibile, si riflettono sui livelli retributivi, così che, complessivamente, le donne guadagnano meno degli uomini: poco più del 70% guadagna meno di 1000 euro al mese, mentre solo poco meno del 50% degli uomini si trova nella medesima condizione. Una situazione di parziale parità, rispetto agli uomini, viene raggiunta dalle lavoratrici soltanto lavorando fino e oltre le 45 ore settimanali e raggiungendo livelli di reddito compresi tra i 1000 e i 1500 euro (il 58,8% delle donne vs. il 58,2% degli uomini).
Tabella 44. Orario di lavoro effettivo settimanale (in classi) per fasce di reddito netto mensile di lavoratori e lavoratrici
Orario di lavoro settimanale
fino a 16 ore | da 17 a 24 ore | da 25 a 36 ore | da 37 a 40 ore | Più di Totale 40 ore | |||
Maschio | meno di 800 euro | 60,0 | 85,3 | 22,6 | 8,8 | 6,6 | 17,3 |
da 801 a 1.000 euro | 20,0 | 8,8 | 34,5 | 37,3 | 25,3 | 32,2 | |
da 1.001 a 1.500 | 10,0 | 5,9 | 40,5 | 51,2 | 58,2 | 46,6 | |
oltre 1.500 | 10,0 | - | 2,4 | 2,7 | 9,9 | 4,0 | |
100,0 | 100,0 | 100,0 | 100,0 | 100,0 | 100,0 | ||
Femmina | meno di 800 euro | 77,3 | 90,3 | 36,3 | 14,7 | 36,4 | |
da 801 a 1.000 euro | 9,1 | 6,9 | 39,8 | 47,2 | 35,3 | 34,9 | |
da 1.001 a 1.500 | 13,6 | 2,8 | 22,1 | 36,8 | 58,8 | 27,2 | |
oltre 1.500 | - | - | 1,8 | 1,2 | 5,9 | 1,5 | |
100,0 | 100,0 | 100,0 | 100,0 | 100,0 | 100,0 |
Fonte: Ires, indagine diretta
89
Tuttavia, è comprensibile che si guadagna se si lavora: ciò è tanto più vero per le donne che hanno missioni mediamente più brevi e che alternano con maggior frequenza periodi di lavoro con altri di disoccupazione. Infatti, nonostante nel campione considerato la maggior parte dei lavoratori ha realizzato missioni non superiori ai 6 mesi, la percentuale di donne in questa condizione è più elevata rispetto a quella dei colleghi uomini (l’82,8% rispetto al 78,5%).
4.3 L’interinale: una scelta “imposta” dal mercato?
Come mostrato ampiamente dalle diverse fonti analizzate, tra le forme contrattuali non standard, anche quella del contratto interinale coinvolge in modo sempre più marcato l’universo femminile dell’offerta di lavoro: sia le giovani con elevati titoli di studio, al primo ingresso nel mondo del lavoro, che ricorrono all’interinale come “strategia di attesa” (Fullin–Magatti, 2002), in vista di una più stabile collocazione occupazionale, sia le più adulte, che utilizzano questo strumento per rientrare nel mercato del lavoro e per continuare a restarci, cercando di conciliare il lavoro retribuito con quello legato ai carichi famigliari e di cura. Dunque, andando a fondo delle motivazioni che inducono le lavoratrici a ricorrere al lavoro interinale si evidenzia un utilizzo prevalentemente strumentale di questa modalità di lavoro (Ibidem, 2002), che d’altra parte riflette quello, altrettanto funzionale, di “recupero strutturale di flessibilità” (Carmignani-Rustichelli-Marzano, 2001), effettuato dalle imprese.
Una scelta strumentale imposta dalle tendenze della domanda di lavoro: infatti, secondo la ricognizione effettuata dall’Irs (A.a. V.v., 2004), la “scelta” del lavoro interinale sembrerebbe legata proprio alle difficoltà di inserirsi nel mercato del lavoro con altri tipi di contratto, una condizione più avvertita dalle donne che dagli uomini (il 38,4% rispetto al 34,3%).
Tuttavia, tra le motivazioni delle lavoratrici emergono anche le esigenze di conciliazione: tra i vantaggi associati al lavoro interinale, infatti, le lavoratrici in somministrazione del campione Irs (2004) hanno indicato la possibilità di conciliare il lavoro con altre esigenze di vita come aspetto positivo, soprattutto se hanno figli (34%). La stessa differenza non si osserva tra gli uomini. Anzi, la quota di lavoratori con figli è più elevata nel campione, che nel sottogruppo che
considera la conciliazione come aspetto positivo; ciò può dipendere dal fatto che gli uomini che indicano la possibilità di conciliare la sfera lavorativa con quella privata, individuano con quest’ultima soprattutto gli ambiti di realizzazione individuale, più che familiare. Inoltre, anche tra i lavoratori intervistati dall’Ires (2008), la possibilità di conciliazione dei periodi di lavoro con altre esigenze e attività costituisce un vantaggio soprattutto per le donne (14% vs. 9% degli uomini) e, in particolar modo, se hanno figli (quasi il 22% di chi ha più di un figlio rispetto al 6% dei maschi).
4.4 Il rischio di percorsi “bloccati”
Dunque, il lavoro interinale rappresenterebbe, come altre modalità di lavoro atipico, un’opportunità per le donne giovani di entrare nel mondo del lavoro, al pari dei coetanei maschi, ma anche un’occasione di reinserimento per quelle più adulte che, assolti i carichi famigliari, intendono “rimettersi in gioco” nel mercato del lavoro. Ciò è reso possibile anche grazie al ruolo di intermediazione ricoperto dalle agenzie per il lavoro nel facilitare l’incontro con la domanda di lavoro (Fullin-Magatti, 2002).
Tuttavia, il lavoro interinale, pur risultando un efficace canale di reingresso nel mercato del lavoro, non offre garanzie di una successiva collocazione occupazionale stabile, in particolar modo per le lavoratrici più adulte, che rischiano di rimanere intrappolate in percorsi di transizione “bloccati”, che fanno sì che non si riesca a trovare l’impiego desiderato e si continui a lavorare con contratti atipici. Seppure, una recente ricognizione effettuata dal Ministero del lavoro12 a 36 mesi dall’ingresso nel lavoro interinale registri che circa il 40,7% dei lavoratori transita in un’occupazione permanente - a testimonianza della discreta capacità stabilizzante di questa forma contrattuale- si può rilevare che i settori tipici di impiego al femminile, più limitatamente offrono concrete opportunità di stabilizzazione al termine di una missione.
D’altra parte, le lavoratrici che entrano nel segmento dell’interinale, più degli uomini, provengono dall’area della non occupazione; in base ai risultati
12 Si tratta di un’indagine realizzata dal Ministero del lavoro mediante elaborazioni su archivio CLAP per eventuali approfondimenti si rimanda a “Occupazione e forme di lavoro precario – Sintesi per la stampa”, Novembre 2007 http:// www.lavoro.gov.it.
dell’indagine Irs (2004), le donne intervistate prima di avere la propria esperienza di lavoro interinale erano prevalentemente in cerca di occupazione (52%) o in altra condizione di inattività (60%). In modo particolare tra i disoccupati di lunga durata la presenza femminile è ancora una volta maggioritaria: il 57,7% erano disoccupate da oltre 12 mesi rispetto al 42,3% degli uomini.
L’indagine Ires (2008) già menzionata, ci consente di avere qualche informazione in più rispetto ai percorsi precedenti all’ultima esperienza di lavoro interinale effettuata: considerando i cinque anni che precedono questa esperienza, la maggior parte delle lavoratrici ha cumulato dalle 3 alle 5 esperienze di lavoro (41,2% vs. 42% circa del totale), in modo quasi analogo ai lavoratori (42,5%). Tuttavia, se si considerano i lavoratori e le lavoratrici per le diverse classi di età una differenza significativa si riscontra tra i 30-39enni, tra i quali le donne che hanno svolto dai 3 ai 5 lavori, nei 5 anni precedenti l’indagine, superano di gran lunga gli uomini (53,2% vs. 40%); ciò testimonia, che nonostante i più elevati livelli di istruzione, per le lavoratrici i percorsi dentro e fuori il mercato del lavoro sono molto più frammentati, soprattutto al crescere dell’età.
Infatti, è soprattutto tra le donne che si concentra la maggior parte di quelli che hanno concluso “non volontariamente”13 il rapporto di lavoro immediatamente precedente alla prima esperienza di lavoro interinale, realizzata nel proprio percorso di lavoro, (il 44,3% contro il 31,3% degli uomini); e le percentuali aumentano al crescere dell’età, arrivando al 44% circa tra le 30-39enni (rispetto al 32% degli uomini) e al 56% tra le over 40 (rispetto al 36% degli uomini).
Esiti occupazionali più positivi non sembrano caratterizzare neanche i percorsi in uscita dall’esperienza di lavoro interinale: l’indagine Irs (2004) ha mostrato che la probabilità di uscita verso la disoccupazione sembra maggiormente influenzata dalle caratteristiche individuali più che da quelle dell’impresa: essa aumenta significativamente per le donne, i lavoratori coniugati e coloro che vivono con i genitori, al contrario si riduce per i residenti al Nord e all’aumentare dei livelli di istruzione.
13 Per scadenza di contratto, licenziamento o cessazione attività azienda.
È noto, tra l’altro, che missioni più lunghe spesso si associano anche a maggiori possibilità di transitare verso un’occupazione stabile, ma ciò si verifica quasi sempre per i lavoratori e le lavoratrici più giovani, i più istruiti che hanno svolto attività professionali e più qualificate, inseriti con contratto interinale in previsione di una loro futura assunzione.
Le lavoratrici, soprattutto se più adulte, inserendosi in determinati settori (commercio, alberghi e ristoranti) tendono a svolgere, più dei colleghi maschi, missioni molto brevi, correndo il rischio di transitare nuovamente nell’area dell’instabilità e dell’inoccupazione.
A conferma di questa tendenza, i risultati dell’indagine Ires (2007) testimoniano che le donne più degli uomini entrano da disoccupate nel lavoro interinale e in tale condizione rimangono successivamente all’esperienza di lavoro maturata (il 54,4% rispetto al 40% degli uomini). Va segnalato, inoltre, che le lavoratrici prima di entrare nell’interinale, pur transitando verso l’area dell’occupazione, lo fanno in prevalenza con modalità di lavoro atipiche: con contratto a tempo determinato (il 57,6% contro il 48,3% degli uomini) o con collaborazioni e altri contratti a termine (circa il 6% rispetto al 3,3% degli uomini).
Dunque, sembrerebbe che proprio per le lavoratrici, soprattutto se più adulte e occupate in determinate professioni, il lavoro interinale più che rappresentare un trampolino verso la stabilità, costituisca piuttosto un’ulteriore occasione per transitare temporaneamente nel mercato del lavoro, senza avere neanche la consolazione di vedere aumentata la propria occupabilità.
Alcune conclusioni
1. Il lavoro in Italia: c’è una questione femminile?
Bastano pochi dati per convincersi di sì:
√ il tasso di disoccupazione femminile nelle classi di età 25-34 e 35-54 anni è molto più elevato di quello maschile nelle stesse classi (10 e 5.3% contro 6.2 e 2.7% rispettivamente – dati ISTAT del II trimestre 2007);
√ il tasso di occupazione delle donne (59.5% in entrambe le classi) è, di contro, molto più basso di quello degli uomini (81.7 e 90.5%);
√ il tasso di attività femminile (15-64 anni), il più basso dell’Europa occidentale, supera di poco il 50%
Si tratta di statistiche che non possono essere spiegate con la “fisiologia di genere” se è vero, come è vero, che siamo - in fatto di occupazione femminile - ultimi nell’Europa dei 15.
Una donna occupata su cinque, inoltre, ha un lavoro temporaneo. Nella società italiana, ancora dominata dagli uomini per numero di occupati e posizione nella professione, prende corpo un’area - prima marginale - ad alta prevalenza femminile, quella del lavoro instabile e precario.
Le conseguenze sui comportamenti e le attitudini sociali sono molteplici e congiurano tutte contro l’affermazione della donna nel mondo del lavoro. Costrette sovente a svolgere occupazioni marginali, poco qualificate e qualificanti, nell’impossibilità spesso di far valere al pari degli uomini la formazione scolastica o universitaria, assorbite dalla cura dei figli e della casa in un contesto ostile alla conciliazione – per mancanza di strutture pubbliche di sostegno e per la scarsa inclinazione dell’uomo a collaborare – molte donne italiane abbandonano prematuramente il mercato del lavoro o vi restano in condizione di instabilità o sottoccupazione.
Le tendenze registrate negli ultimi anni dimostrano, da una lato, l’aumento dell’occupazione femminile a termine- in particolare nel 2006 è aumentato il numero delle dipendenti a termine più di quanto sia cresciuto il numero di quelle
a tempo indeterminato – e, dall’altro, la stabilità – se non flessione – del tasso di attività femminile dopo anni di costante aumento.
(fonte: ISTAT)
56
52
48
%
44
40
36
trim estri
Figura 11 Tasso di attività femminile (15-64 anni)
1993
1996
1999
2002
2005
A fronte delle crescenti difficoltà determinate dalla riduzione del potere d’acquisto dei salari e dalla rigidità della domanda di lavoro da parte delle imprese – che interpretano la flessibilità come strumento di riduzione dei costi a basso valore aggiunto – le donne italiane scelgono in maggioranza di differire il tempo della maternità partecipando alla formazione del reddito familiare salvo poi, nel pieno della vita attiva, decidere loro malgrado di ritirarsi dal lavoro o continuarlo in un regime di basso profilo.
Questa, in estrema sintesi, la situazione presente, l’esito di trasformazioni profonde che hanno interessato il mondo del lavoro negli ultimi trent’anni, scosse telluriche che ancora lo attraversano rendendolo estremamente “fluido” e in continuo divenire, oggetto di spinte contrapposte, “progressive” e “regressive”.
2. Luci e ombre
2.1 La crescita incompleta
A prescindere dall’attuale congiuntura, che merita un’analisi più approfondita e sulla quale torneremo, non si possono tacere le dinamiche positive verificate negli ultimi dieci anni.
La crescita dell’occupazione femminile è stata molta sostenuta nella seconda metà degli anni novanta e, nell’insieme, molto più marcata di quella maschile (nel 2006 sfiorava ormai il 40% dell’occupazione complessiva). L’aumento, peraltro, ha interessato soprattutto la parte stabile dell’occupazione. Anche nel lavoro a termine, tuttavia, la partecipazione delle donne è aumentata sensibilmente al punto che già nel 2003 esse erano maggioranza tra i dipendenti a tempo determinato.
Contestualmente, anche il tasso di attività femminile ha seguito un andamento crescente che solo nell’ultimo periodo ha subito una battuta di arresto.
L’aumento del tempo parziale, prerogativa tipicamente femminile, può essere interpretato come una soluzione possibile alle necessità di conciliazione in mancanza di servizi efficienti ma, d’altra parte, la quota prevalente di part-time subìto denuncia lo scarto tra volontà e possibilità concreta di lavorare.
La presenza femminile nella pubblica amministrazione, largamente maggioritaria, se per un verso è spiegabile con la natura delle attività svolte – si pensi all’istruzione – per altro verso è la naturale conseguenza delle opportunità offerte dal settore pubblico in fatto di modalità e tempi di lavoro, sicuramente più “concilianti” rispetto a quelli prevalenti nel privato dove è ancora difficile far valere le prerogative previste dalla legge in materia di maternità e congedi parentali.
D’altra parte, che il contesto di lavoro e le infrastrutture di sostegno alla famiglia siano determinanti nel generare l’offerta di lavoro delle donne è documentato dalle statistiche sull’occupazione femminile nelle aree del paese dove quel contesto è più family friendly e quelle infrastrutture sono più diffuse ed efficienti, tipicamente nelle regioni centro settentrionali del paese.
Quelle statistiche, insieme ai dati sulla natalità e sull’offerta di asili nido, dimostrano che il lavoro delle donne e la famiglia non sono affatto in contraddizione quando il tessuto socio-economico in cui si sviluppano è
“conciliante”: da una parte, la prospettiva di sostenere i costi crescenti della famiglia inducono a superare lo stereotipo del breadwinner - della famiglia monoreddito - e spingono le donne sul mercato del lavoro; dall’altra, la maggiore redditività, insieme alla riduzione del rischio derivante dalla pluralità delle entrate, garantisce la necessaria stabilità economica senza la quale non è possibile “progettare” la famiglia.
I dati aggregati a livello nazionale, in definitiva, documentano il positivo andamento dell’occupazione femminile nel lungo periodo che dimostra l’affermarsi delle donne – nonostante le difficoltà – nell’economia del paese. La natura, la qualità e le condizioni di lavoro sono però le vere discriminanti su cui indagare.
Rimanendo sul tema delle quantità, è evidente la dicotomia tra centro-nord e mezzogiorno, talmente marcata da chiedersi ormai se la questione femminile non sia, di fatto, un pezzo della questione meridionale.
2.2 La questione femminile come parte della questione meridionale
L’Italia non è un corpo omogeneo, non lo è mai stato: le due realtà del paese sono così diverse sotto l’aspetto sociale ed economico che descrivere le dinamiche a livello nazionale è non solo improprio ma anche fuorviante. Con l’accelerazione dei meccanismi di integrazione europea si è accentuata la divaricazione tra centro-nord e mezzogiorno d’Italia, il primo sostanzialmente organico al contesto continentale, il secondo sempre più lontano dagli standard definiti a livello comunitario. Le problematiche relative all’occupazione femminile non sfuggono a questa dicotomia. Se il tasso di attività femminile nel mezzogiorno è storicamente molto inferiore a quello registrato nelle altre regioni, le statistiche relative agli ultimi tre anni dimostrano che la distanza è aumentata ulteriormente: i dati trimestrali riferiscono la diminuzione del numero delle donne meridionali in cerca di occupazione, la sostanziale stabilità del contingente delle occupate e, quindi, un incremento delle inattive, in particolare di coloro che “cercano lavoro non attivamente” o “non lo cercano ma sono disponibili a lavorare”. L’abbandono del mercato da parte di molte donne (effetto scoraggiamento) è più grave che in passato – quando interessava figure
marginali , soprattutto casalinghe attive in modo episodico e con finalità soltanto integrative del reddito familiare – poiché altera equilibri costruiti sulla centralità del lavoro femminile. Lo scoraggiamento, tuttavia, è un fenomeno che non interessa soltanto le donne del sud ma, nell’attuale congiuntura, investe per la prima volta anche la componente maschile delle forze lavoro meridionali: “La comparsa della figura del maschio adulto scoraggiato è indubbiamente un fatto nuovo nella configurazione sociale del mercato del lavoro; potrebbe implicare una situazione di crisi fortemente sottovalutata o, più probabilmente, trasformazioni profonde nei modi di funzionamento del mercato stesso che le vecchie categorie non sono più in grado di interpretare” (CNEL, rapporto trimestrale n.5, giugno 2007).
L’area grigia delle NON forze lavoro (NFL), di chi lascia il mercato restandone in contatto, è il serbatoio dell’economia sommersa e ha nel Mezzogiorno una consistenza di quasi un milione e settecentomila unità, più del doppio dei disoccupati della stessa circoscrizione.
3. Il tasso di disoccupazione non è più una misura dello stato di salute del mercato del lavoro
L’andamento della disoccupazione non è più legato, specialmente nelle regioni depresse, alle variazioni dell’occupazione: occorre ripensare le chiavi di lettura del mercato del lavoro e gli stessi indicatori usati per rappresentarlo. Il tasso di disoccupazione – da solo – non misura più lo stato di salute del mondo del lavoro, va contestualizzato e integrato con altre informazioni. Il lavoro temporaneo è in crescita costante da 15 anni e presenta oggi, nel suo insieme una numerosità complessiva stimata nell’ordine di due volte il numero dei disoccupati. E’ un aggregato per sua natura instabile poiché le persone che lo compongono cambiano continuamente, transitando per altre “stazioni” del mercato, la disoccupazione e quell’area grigia delle NFL che a pieno titolo andrebbe rivalutata nell’ambito del mercato. Le migrazioni da una condizione lavorativa ad un’altra sono un fatto percepito come fisiologico nell’attuale contesto e interessano anche il lavoro autonomo e quello dipendente (nella sua totalità): “E’ certo che nel mezzogiorno occupazione dipendente e autonoma sembrano muoversi in opposizione, il che rafforza la convinzione che il lavoro
autonomo si configuri, in parte, come rifugio momentaneo, in posizioni marginali, di fronte alla difficoltà di trovare una occupazione dipendente” (CNEL, rapporto trimestrale n.5, giugno 2007).
Il divario tra Centro-Nord e Sud appare in tutta la sua drammaticità non tanto
– o non solo – per la diversa consistenza numerica degli aggregati che compongono le forze lavoro delle due circoscrizioni, quanto per le dinamiche che le attraversano. In questo quadro la questione femminile rivela in pieno la sua spiccata connotazione territoriale e porta con sé le implicazioni sociali e culturali che hanno segnato la storia del nostro mezzogiorno. Negli ultimi tre anni il peso dell’occupazione dipendente a carattere temporaneo sull’occupazione totale è aumentato nel sud di due punti percentuali: per le donne l’incremento è stato di
2.6 punti, attestandosi il rapporto al 22.6% nel secondo trimestre 2007. Anche al centro-nord il lavoro dipendente a tempo determinato guadagna rapidamente spazio ma su livelli molto più bassi, meno del 10% per gli uomini e del 15% per le donne.
Il termometro della crisi meridionale è l’andamento del tasso di attività che nel Mezzogiorno, muovendo da valori già estremamente modesti, perde due punti in 3 anni, sia per gli uomini che per le donne, risultando nel secondo trimestre 2007 uguale a 68.5% per i primi e a 36.4% per le seconde: quasi due donne meridionali su tre non sono sul mercato, per scelta consapevole o perché respinte dalla mancanza di prospettive accettabili in un contesto - già gravato da carenze strutturali croniche - in cui la precarietà diventa “normale”. Nel Sud, infatti, non solo il lavoro temporaneo è molto più diffuso ma è anche mediamente meno qualificato e peggio retribuito rispetto al Centro-Nord dove – di contro - il tasso di attività femminile è aumentato ancora negli ultimi tre anni di un punto e mezzo (stabile nell’ultimo anno, tra il secondo trimestre 2006 e lo stesso trimestre 2007) e si colloca attualmente su valori europei, prossimo ormai al 60%.