MISURE DI CONTRASTO ALLE DELOCALIZZAZIONI E TUTELA DEL LAVORO
UNIVERSITÀ XXXXX “XXXXX XXXXX” DI ROMA DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO E IMPRESA XXXIII CICLO
MISURE DI CONTRASTO ALLE DELOCALIZZAZIONI E TUTELA DEL LAVORO
SUPERVISOR: CANDIDATO:
Prof. Xxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxx
Indice
CAPITOLO 1: ANALISI DEL FENOMENO DELLA DELOCALIZZAZIONE E DEI SUOI PROFILI LAVORISTICI 7
1. Le definizioni del concetto di delocalizzazione nel “senso generalmente compreso” e nel contesto normativo 7
2. Le ragioni strategiche sottese alla scelta di delocalizzare la produzione 15
3. Le “forme” giuridiche delle delocalizzazioni 21
4. I fattori di sviluppo del fenomeno 25
5. Gli effetti delle delocalizzazioni sull’occupazione e sulla regolamentazione del lavoro 30
6. La libertà d’impresa nel quadro giuridico del mercato globale 39
7. I possibili strumenti di contrasto alle delocalizzazioni e di tutela dei lavoratori 44
CAPITOLO 2: I LIMITI ALLE DELOCALIZZAZIONI NELLA NORMATIVA EUROUNITARIA 53
1. Le libertà economiche fondamentali e le delocalizzazioni nell’Unione europea 53
2. I limiti alle delocalizzazioni nel contesto della politica di coesione: rilievi introduttivi 58
3. La disciplina degli aiuti di Stato nell’ordinamento eurounitario..
.................................................................................................. 61
4. Gli obblighi di mantenimento nella disciplina degli aiuti a finalità regionale agli investimenti e degli aiuti agli investimenti a favore delle PMI 69
5. I limiti alle delocalizzazioni verso gli stabilimenti incentivati: il contrasto alla pratica della c.d. “caccia alla sovvenzione” 78
6. La stabilità delle operazioni nella disciplina dei Fondi SIE 87
7. Cenni sui possibili scenari de iure condendo 95
CAPITOLO 3: LE MISURE DI CONTRASTO ALLE DELOCALIZZAZIONI NELLA NORMATIVA NAZIONALE
........................................................................................................... 101
1. Rilievi introduttivi 101
2. Breve excursus normativo 105
3. Le misure per il contrasto alla delocalizzazione nel d.l. n. 87 del 2018: la ratio legis 115
4. Le fattispecie decadenziali e sanzionatorie di cui all’articolo 5...
................................................................................................ 122
5. Gli aiuti di Stato che prevedono l’effettuazione di investimenti produttivi ai fini dell’attribuzione del beneficio 126
6. Il concetto di “delocalizzazione” preso in considerazione dal Decreto dignità 131
7. Le clausole di salvezza: i vincoli derivanti dai trattati internazionali e dalla normativa europea 139
8. Alcune riflessioni conclusive 143
Bibliografia 148
CAPITOLO 1: ANALISI DEL FENOMENO DELLA DELOCALIZZAZIONE E DEI SUOI PROFILI LAVORISTICI
Sommario: 1. Le definizioni del concetto di delocalizzazione nel “senso generalmente compreso” e nel contesto normativo; 2. Le ragioni strategiche sottese alla scelta di delocalizzare la produzione; 3. Le “forme” giuridiche delle delocalizzazioni; 4. I fattori di sviluppo del fenomeno; 5. Gli effetti delle delocalizzazioni sull’occupazione e sulla regolamentazione del lavoro; 6. La libertà d’impresa nel quadro giuridico del mercato globale; 7. I possibili strumenti di contrasto alle delocalizzazioni e di tutela dei lavoratori.
1. Le definizioni del concetto di delocalizzazione nel “senso generalmente compreso” e nel contesto normativo
Individuare una definizione esatta del concetto di “delocalizzazione” non è compito di agevole portata, stante la notevole complessità del fenomeno e la potenzialità espansiva dei suoi confini, in grado di ricomprendere al suo interno molteplici “fattispecie” tra loro eterogenee1.
1 Cfr. X. XXXXXXX, De-localizzazioni industriali e tutela dell’occupazione. Qualche riflessione, in AA.VV., Studi in onore di Xxxxxxx Xxxx. Lavoro, istituzioni, cambiamento sociale, vol. III, Diritto della previdenza sociale e del mercato del lavoro. Diritto europeo – Lavoro pubblico, Napoli, 2011, 1329, la quale evidenzia come siano note le incertezze definitorie (persino terminologiche: delocalisation, relocation, offshoring) relative alla identificazione del fenomeno della delocalizzazione. Vd., al riguardo, le definizioni fornite dall’Eurofound (European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions), che, tra i diversi tipi di “ristrutturazione” presi in considerazione dai suoi report
Nei più recenti vocabolari della lingua italiana, il termine delocalizzazione è definito come quel fenomeno, in ambito economico, caratterizzato dallo “spostamento di un impianto industriale da un paese a un altro in cui la manodopera è più a buon mercato, per realizzare economie di impresa” (xxx.xxxxxxxx.xx), ovvero dal “trasferire un’attività economica o alcune fasi di essa, specialmente in un luogo in cui i costi di produzione o di gestione sono più bassi” (xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx)2.
Nell’ambito degli studi di economia aziendale, chiaramente, particolare attenzione è riservata, nell’analisi della nascita stessa di un’impresa, alla scelta del luogo dove “localizzare” l’attività economica3, e i fattori che influenzano tale scelta ubicativa sono molteplici.
Tra gli altri, possono menzionarsi, a mero titolo esemplificativo: (i) la vicinanza ai mercati di approvvigionamento delle materie prime; (ii) la disponibilità di fonti energetiche; (iii) la vicinanza dei mercati di sbocco dei prodotti (beni e servizi); (iv) l'esistenza di infrastrutture; (v) la disponibilità di personale idoneo; (vi) la possibilità di usufruire di
statistici e di monitoraggio, esplicitamente annovera i seguenti fenomeni: (i) “Relocation”, ovvero quando l’attività rimane all’interno della stessa impresa ma è rilocalizzata nello stesso paese; (ii) “Outsourcing”, ovvero quando l’attività è affidata a un’altra impresa nello stesso paese; (iii) “Offshoring/delocalisation”, ovvero quando l’attività è rilocalizzata o esternalizzata al di fuori dei confini nazionali. In tal senso, EUROFOUND, ERM Annual Report 2013. Monitoring and managing restructuring in the 21st century, Lussemburgo, 2013, in xxx.xxxxxxxxx.xxxxxx.xx, 9. Sulla distinzione tra delocalizzazione ed esternalizzazione vd. infra, par. 3.
2 Anche la parola inglese “offshoring” viene definita come il “trasferimento di un’attività economica o di alcune fasi di essa in un luogo in cui i costi di produzione o di gestione sono più bassi o la fiscalità è meno rigorosa” (xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx).
3 Vd., X. XXXXX, Localizzazione e spazio economico. Una generale teoria relativa alla localizzazione industriale, aree di mercato, uso della terra, commercio e struttura urbana, Milano, 1956; X. XXXXXXXX, La localizzazione. Aspetti e riflessi economico-aziendali, Pisa, 1990; M.G. CAROLI, Globalizzazione e localizzazione dell’impresa internazionalizzata, Milano, 2000, 34 ss. Più recentemente, in termini generali, vd. X. XXXXXX, Economia aziendale, Padova, 2018, 23 ss.
incentivi pubblici; (vii) la presenza di particolari condizioni fisiche e climatiche; (vii) il contesto normativo di riferimento; (viii) i costi dei fattori produttivi, etc.4.
Xxxxxx, come si desume dallo stesso dato letterale del termine, la de-localizzazione consiste nello “spostamento geografico”, in tutto o in parte, di un’attività economico-produttiva d’impresa preesistente, e già “localizzata” in un determinato territorio5.
In particolare, come evidenziato dal Parlamento europeo, affinché si verifichi una delocalizzazione, “nel senso generalmente compreso”, è necessario che - simultaneamente o, quantomeno, in un arco di tempo relativamente breve - si verifichi la chiusura, totale o parziale, di un sito produttivo dell'impresa seguita dallo spostamento dell’attività ivi esercitata in un altro sito, già esistente o creato attraverso nuovi investimenti, ubicato in una zona “economica” diversa6.
Anche nel contesto normativo nazionale, il recente comma 6 dell’articolo 5 del d.l. n. 87 del 2018 (come modificato dalla legge di conversione n. 96 del 2018), c.d. Decreto dignità, ha precisato che, con il termine “delocalizzazione”, ai fini di operatività delle norme di contrasto ivi previste, debba intendersi “il trasferimento dell’attività economica” (in quel caso, specificamente incentivata dagli aiuti di Stato
4 Nell’ambito degli studi di geografia economica, vd., tra gli altri, X. XXXXXX, P.R. XXXXXXX,
A.J. XXXXXXXX, The Spatial Economy: Cities, Regions and Xxxxxxxxxxxxx Xxxxx, Xxxxxxxxx, 0000; X. XXXXXX, Offshoring, outsourcing and the economic geography of Europe, in Papers in Regional Science, vol. 96, n. 2, 2017.
5 Cfr., X. XXXXXXXXXXXXXX, X. XXXXXXXX, International relocation of production: where do firms go?, in Scottish Journal of Political Economy, vol. 53, n. 4, 2006, 430 ss.
6 In tal senso, PARLAMENTO EUROPEO, Relazione sulle delocalizzazioni nel contesto dello sviluppo regionale, 30 gennaio 2006, in xxx.xxxxxxxx.xxxxxx.xx.
agli investimenti) “o di una sua parte dal sito produttivo” (anch’esso, in quel caso, specificamente incentivato) “ad altro sito”7.
L’essenza del fenomeno in analisi, dunque, va riscontrata nello spostamento geografico dell’attività economico-produttiva, in senso lato, da un sito ad un altro8, spesso connotato da elementi di transnazionalità9.
Ed infatti, come visto, nelle stesse definizioni “comuni” del fenomeno sopra menzionate, si fa riferimento, generalmente, alla sola delocalizzazione c.d. “internazionale”, che ha luogo verso un paese diverso rispetto a quello di provenienza, presumibilmente poiché è questa la tipologia del fenomeno che maggiormente alimenta il dibattito pubblico ed attraversa il comune sentire, a tal punto da influenzarne lo stesso significato generalmente inteso.
Anche in dottrina, del resto, il fenomeno della delocalizzazione è stato recentemente definito come la conseguenza dell’odierna
7 Da parte della medesima impresa beneficiaria dell’aiuto o di altra impresa che sia con essa in rapporto di controllo o collegamento ai sensi dell’art. 2359 c.c. (vd. infra, cap. 3, par. 6).
8 Cfr., O.E. XXXXXXX, Deslocalización, globalización y derecho del trabajo, in IUSLabor, 2007, n. 1, 2, il quale evidenzia che la delocalizzazione è rappresentata da “cualquier cierre total o parcial de la empresa seguido o acompañado de la ubicación de todo o parte de la misma en otro lugar”.
9 Come evidenziato in dottrina, infatti, con il termine delocalizzazione si allude alla scelta dell’impresa di spostare, totalmente o parzialmente, la propria attività produttiva altrove, “e nella larga maggioranza dei casi in un diverso Paese”. Così, M.T. CARINCI, Le delocalizzazioni produttive in Italia: problemi di diritto del lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT, 2006, n. 44, 3. Vd., anche, X. XXXXX, X. XXX (ed. by), Relocation of Economic Activity. Contemporary Theory and Practice in Local, Regional and Global Perspectives, Berlino, 2019. La presente analisi si concentrerà soprattutto sulle delocalizzazioni che avvengono da uno stato all’altro (sebbene saranno analizzate anche normative, nazionali ed europee, che, al fine di tutelare i territori oggetto degli aiuti pubblici economici, fanno riferimento anche alle delocalizzazioni infra-nazionali). Per un’analisi, nel settore della geografia economica, delle rilocalizzazioni che avvengono tra le diverse aree e regioni di un medesimo paese, cfr. P.H. XXXXXXXXXX, X.X.X. XXX XXXXXX, X. XXX XXXX, Firm relocation: state of the art and research prospects, in Research Report 02D31, University of Xxxxxxxxx, 0000; X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, La delocalizzazione delle imprese italiane nel Mezzogiorno e nei paesi dell’Europa sud-orientale. Due sistemi in competizione?, in Riv. Econ. Mezzogiorno, 2002, n. 4, 745 ss.
organizzazione imprenditoriale, basata sulla “transnazionalizzazione del processo produttivo, i cui segmenti si dislocano in territori diversi secondo una logica di ottimizzazione del rapporto costi/profitti, in rapporto alle opportunità offerte dal territorio”10.
Lo stesso Comitato economico e sociale europeo, inoltre, ha definito la delocalizzazione come quel fenomeno che consiste nella cessazione, totale o parziale, di un’attività, e nella sua successiva ripresa “all'estero” per mezzo di un investimento diretto11.
Nell’ordinamento normativo eurounitario, d’altra parte, secondo l’art. 2, punto 61 bis, del Regolamento n. 651 del 2014 (recentemente introdotto dal Regolamento n. 1084 del 2017), per delocalizzazione deve intendersi “il trasferimento della stessa attività o attività analoga o di una loro parte da uno stabilimento situato in una parte contraente dell’accordo SEE (stabilimento iniziale) verso lo stabilimento situato in un’altra parte contraente dell’accordo SEE in cui viene effettuato l’investimento sovvenzionato (stabilimento sovvenzionato)” (vd. infra, cap. 2, par. 5).
10 Così, X. XXXXXXX, Delocalizzazioni e tutela dell’occupazione nel governo multi-livello del mercato globale. Problemi e prospettive, in Arg. dir. lav., 2019, n. 5, 980, che richiama, sulla trans-nazionalizzazione del processo produttivo, quale elemento connotante l’odierna globalizzazione, X. XXXXXXX, La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna, 2006, spec. 86 ss. e 157 ss.; X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, Diritto del commercio internazionale, Padova, 2011, 71 ss.; F. XXXXXXX, X. XXXXX, Storia d’impresa. Complessità e comparazioni, Milano, 2011, 315-324. Le delocalizzazioni, spesso, implicano una “frammentazione” del processo produttivo, rappresentando, quindi, un modello di frattura rispetto al sistema di produzione verticalmente integrato di stampo fordista, in cui ogni singola fase di produzione avviene nello stesso luogo. Così, il Dizionario di Economia e Finanza Treccani, voce “delocalizzazione”, in xxx.xxxxxxxx.xx, 2012.
11 Così, il Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema Portata ed effetti della delocalizzazione delle imprese (2005/C 294/09), Bruxelles, 14 luglio 2005, reperibile in eur- xxx.xxxxxx.xx. Tuttavia, come evidenziato da X. XXXXXXX, De-localizzazioni industriali, cit., 1330, lo stesso CESE ha, in realtà, successivamente precisato come non tutti gli investimenti esteri siano finalizzati alle delocalizzazioni e non tutte le delocalizzazioni avvengano attraverso IDE. Cfr. CESE, Analisi settoriale delle delocalizzazioni: quadro fattuale di riferimento, Relazione finale 19 maggio 2006, 2006, in xxx.xxxxxx.xx.xx, 4.
Il legislatore eurounitario, poi, fornisce alcune precisazioni, le quali, se, da un lato, hanno la funzione di specificare il campo di applicazione delle norme anti-delocalizzazione ivi previste (vd. infra, cap. 2, par. 5), dall’altro, e per quanto qui più d’interesse, si rivelano utili al fine di individuare alcune caratteristiche del fenomeno in analisi. Ed infatti, prosegue l’art. 2, punto 61 bis, “vi è trasferimento se il prodotto o servizio nello stabilimento iniziale e in quello sovvenzionato serve almeno parzialmente per le stesse finalità e soddisfa le richieste o le esigenze dello stesso tipo di clienti e vi è una perdita di posti di lavoro nella stessa attività o attività analoga in uno degli stabilimenti
iniziali del beneficiario nel SEE”.
Il legislatore eurounitario, quindi, nella definizione del fenomeno, anzitutto, pone l’accento sull’impatto occupazionale che esso determina nel paese d’origine (su cui si tornerà nel par. 5 del presente capitolo), e, poi, chiarisce cosa debba intendersi per “stessa attività o attività analoga” oggetto del trasferimento, fornendo un utile dato normativo di riferimento per orientare gli interpreti nell’attività di individuazione del significato del termine delocalizzazione.
Ciò che conta, inoltre, con riferimento al fenomeno della delocalizzazione, è che vi sia un “trasferimento” dell’attività di economico-produttiva, dei beni e dei servizi, all’estero (in tutto o in parte, e con le diverse forme giuridiche che saranno analizzate nel prosieguo), non rientrando, ad esempio, nel proprio ambito di attinenza, quelle fattispecie di migrazione societaria (come il mero trasferimento della sede legale all’estero) che non incidono sui “luoghi” dell’attività
aziendale e che non impattano, generalmente, sulla forza lavoro degli stabilimenti “d’origine”12.
La rilevanza della riduzione occupazionale, del resto, quantomeno nella considerazione normativa del fenomeno, è evidenziata, oltre che, come visto, dal legislatore comunitario, anche nell’ambito della definizione di “delocalizzazione” (rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 1, comma 60, della legge n. 147 del 2013) fornita dalla direttiva del Ministero dello sviluppo economico del 25 novembre 2015, all’art. 1, lett. b), ove si specifica che, per essa, debba intendersi “l’avvio” (entro tre anni dalla concessione da parte del MISE di un contributo in conto capitale) presso “un’unità produttiva” ubicata in uno Stato non appartenente all'Unione europea, “della produzione di uno o più prodotti già realizzati, con il sostegno pubblico, presso un'unità produttiva ubicata in Italia” (da parte della medesima impresa beneficiaria del contributo o di altra impresa con la quale vi sia un rapporto di controllo o collegamento ai sensi dell'art. 2359 c.c.), “in concomitanza con la riduzione dei livelli produttivi presso la predetta unità in Italia e la conseguente riduzione dell'occupazione pari almeno al 50 per cento”.
12 Vd., al riguardo, F. PERNAZZA, La mobilità delle società in Europa da Daily Mail a Fiat Chrysler Automobiles, in Dir. Comm. Int., 2015, n. 2, 439 ss., il quale evidenzia, però, che “sebbene il trasferimento di sede della holding ed il mutamento di ordinamento applicabile non comportino gli effetti, in termini di impieghi e di indotto, della delocalizzazione di una struttura produttiva, essi implicano il radicale mutamento di attività e servizi che a tali elementi sono logicamente connessi: così sia per i servizi di carattere logistico, sia per alcuni servizi di consulenza (ad es. l'assistenza legale e contabile) e di carattere finanziario, tipicamente accentrati nelle holding”, rilevando, anche, come sia altrettanto presumibile che una serie di rapporti di lavoro connessi alla presenza dell'amministrazione centrale mutino o si esauriscano nello Stato di provenienza, venendo meno le attività connesse alla presenza della sede, ai vertici aziendali, allo svolgimento delle assemblee e tutte le attività correlate. Vd., anche, X. XXXXXX, Trasferimento di sede all’estero, cambiamento della lex societatis e tutela dei lavoratori a seguito delle sentenze Cartesio e Vale, in Riv. Giur. Lav., 2016, I, 189 ss.
Analizzando le definizioni “comuni” del fenomeno sopra menzionate emerge, poi, un ulteriore elemento d’interesse.
Come visto, infatti, in tali definizioni, non ci si limita ad evidenziare il mero “spostamento geografico” dell’attività economico- produttiva (elemento essenziale della fattispecie), ma si fa riferimento anche alle “motivazioni” che determinano tale spostamento (la ricerca di convenienze economiche in altri paesi), con una tendenziale connotazione del fenomeno in termini negativi13.
Ciò allude, evidentemente, alla considerazione del fenomeno in analisi come rientrante in quello, più ampio, del c.d. “dumping sociale”, ovvero dello “sfruttamento”, da parte delle imprese, per localizzare e distribuire le relative attività produttive e commerciali, delle “differenze di regolamentazione sociale proprie dei singoli ordinamenti che, di converso, determinano (direttamente o indirettamente) diversità di costi del fattore lavoro”14.
13 Ciò deriva, probabilmente, anche dal fatto che l’Italia rappresenta, generalmente, un “paese di origine” nelle delocalizzazioni produttive e, pertanto, la definizione stessa del fenomeno è influenzata delle possibili ricadute socioeconomiche ed occupazionali che esso può determinare. Cfr., sul tema, O.E. XXXXXXX, Xxxxxxxxxxxxxxx, xxxxxxxxxxxxx x xxxxxxx xxx xxxxxxx, xxx., 0. Come evidenziato in dottrina, del resto, nello stesso “linguaggio aziendalistico”, la delocalizzazione è descritta come quel processo di “esternalizzazione” della produzione in paesi esteri, “solitamente caratterizzati da sistemi regolativi meno avanzati e in questo senso più attrattivi per le imprese”. Così, X. XXXXX, Delocalizzazioni e misure di contrasto, in X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), “Decreto Dignità” e Corte Costituzionale n. 194 del 2018, 2019, Torino, 116, che richiama X. XXXXXXX, X. XXXX, X. XXXXX, Andarsene per continuare a crescere. La delocalizzazione internazionale come strategia competitiva, Xxxx, 0000.
14 Così, X. XXXXX, Dumping sociale e diritto del lavoro, in Riv. Dir. Sic. Soc., 2011, n. 3, 617, il quale evidenzia come, con l’espressione dumping sociale, si faccia riferimento, oltre alla delocalizzazione della produzione verso ambiti caratterizzati da livelli remunerativi e regimi normativi più favorevoli, anche all’importazione di prodotti provenienti da stati in cui esistono condizioni lavorative non dignitose secondo i parametri delle democrazie occidentali, ovvero alle prestazioni di servizi transfrontalieri in cui le imprese utilizzano manodopera meno costosa di quella locale. Vd., al riguardo, anche X. XXXX CAEN, A proposito di dumping sociale, in Lav. Dir., 2011, 7 ss.
2. Le ragioni strategiche sottese alla scelta di delocalizzare la produzione
Come evidenziato dall’Osservatorio sulla ristrutturazione in Europa (c.d. ERM, European Restructuring Monitor), istituito presso l’Eurofound, gli studi sulle “ristrutturazioni transnazionali” hanno fatto emergere come vi siano molteplici ed eterogenee motivazioni15 alla base delle decisioni delle imprese di trasferire la produzione oltre confine (le quali, in definitiva, coincidono con quelle, già menzionate, relative alla stessa “localizzazione” ex novo delle imprese), ma la riduzione del costo del lavoro rimane una delle principali16.
Lo stesso Governo italiano, nella Relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del d.l. n. 87 del 2018, ha, infatti, definito il fenomeno della delocalizzazione delle attività economiche delle imprese come lo spostamento di attività o di processi produttivi, o delle loro fasi, nel territorio di altri Stati, “per ottenere vantaggi competitivi, derivanti da un minor costo della manodopera e da una minore regolamentazione del mercato del lavoro, ovvero altri vantaggi, soprattutto in termini fiscali”17.
15 Cfr., tra gli altri, X. XXXX, F. XXX XXX XXXXX, X.X. VOLBERDA, Offshoring strategy: Motives, functions, locations, and governance modes of small, medium-sized and large firms, in International Business Review, 2011, 314 ss.
16 Vd., in tal senso, EUROFOUND, Relazione 2020 dell’ERM: ristrutturazioni transfrontaliere. Xxxxxxx, in xxx.xxxxxxxxx.xxxxxx.xx, 10 novembre 2020. Cfr., anche, X. XXXXXXX, Y. XXXXX, X.X. HADJ-ALOUANE, Supply chain design in the delocalization context: Relevant features and new modeling tendencies, in International Journal of Production Economics, 2008, vol. 113, 641, secondo cui “delocalization commonly refers to the transfer of production activities from developed to developing countries, essentially to benefit from lower labor costs”.
17 Sicché, il trasferimento (in tutto o in parte) del processo produttivo, generalmente rilevante ai fini dell’integrazione del fenomeno, è quello che avviene verso aree geografiche o Paesi in cui esistono vantaggi competitivi, i quali consistono, soprattutto, nel minore costo dei
In realtà, come evidenziato in dottrina, va precisato che, secondo le teorie economiche, le imprese intendono trasferire oltre confine fasi consistenti della produzione non solo (e non tanto) perché all’estero alcuni fattori di produzione, in primis il lavoro, abbiano un prezzo più basso, quanto piuttosto “perché il costo dei fattori produttivi nel Paese di origine non è compensato da una adeguata produttività”, sicché “il valore discriminante non è il livello del costo del lavoro, ma il costo del lavoro rapportato alla produttività relativa del lavoro stesso”18.
In ogni caso, è certamente l’ottimizzazione del rapporto tra costi produttivi e profitti, dovuta allo sfruttamento delle differenti condizioni territoriali, a costituire una delle principali cause della delocalizzazione e, in generale, della “transnazionalizzazione” del processo produttivo19. Ed infatti, le imprese adottano un vero e proprio approccio strategico alla delocalizzazione, rispetto alla quale, come visto, sono i costi e le condizioni d’uso della forza lavoro ad assumere un ruolo decisivo20 (anche se, ovviamente, vi sono anche altri fattori che determinano un abbattimento dei costi produttivi, come, ad esempio, i
fattori produttivi e in particolare della manodopera. In tal senso, il Dizionario di Economia e Finanza Treccani, voce “delocalizzazione”, cit., ove si precisa, in ogni caso, che tra i motivi che spingono le imprese a delocalizzare vi sono anche, tra gli altri, le agevolazioni derivanti dagli incentivi legati a politiche economiche di sviluppo messe in atto da governi locali e nazionali per attirare investimenti diretti esteri, nonché la possibilità di sfruttare i benefici che derivano dalla prossimità fisica a mercati più ampi o dinamici, oppure l’opportunità di migliorare l’accesso a reti di fornitura (vd. infra).
18 Così, X. XXXXX, Delocalizzazione e dumping sociale. La prospettiva delle teorie economiche, in Lav. Dir., 2011, n. 1, 46. Vd., al riguardo, anche K.B. XXXXX, Productivity Impacts of Offshoring and Outsourcing: A Review, in STI Working Paper, 2006, n. 1.
19 La maggior parte della produzione all’estero, del resto, a prescindere dalla forma economica e giuridica attraverso cui la delocalizzazione viene effettuata, è destinata ad essere reimportata nel paese d’origine per usi finali. Con riferimento all’Italia, vd., in tal senso, ISTAT, Censimento permanente delle imprese 2019: i primi risultati, 7 febbraio 2020, in xxx.xxxxx.xx, 24-25.
20 Vd., X. XXXXXXX, De-localizzazioni industriali, cit., 1330-1331, la quale evidenzia che, da un punto di vista aziendale, “non sorgono dubbi sulle conseguenze positive in termini di produttività totale e, soprattutto, del lavoro”.
regimi fiscali più vantaggiosi, le normative di tutela dell’ambiente meno stringenti, o, come si vedrà, la possibilità di usufruire di aiuti economici pubblici).
Scavando più a fondo nelle decisioni imprenditoriali, tuttavia, va evidenziato come, in realtà, la scelta di delocalizzare la produzione (ottimizzando il rapporto costi/benefici) può essere determinata da una serie di cause, tra loro anche notevolmente eterogenee.
Essa può sorgere, infatti, non solo dalla mera ed esclusiva volontà di sfruttare, come visto, i minori “costi di sistema” del paese di destinazione (spesso al fine di reimportare i prodotti e i servizi nel Paese d’origine), ma anche, ad esempio, dall’esigenza di sopravvivere ad una crisi (ovvero quale extrema ratio per risollevare un deficit di bilancio non transitorio), oppure dalla volontà di “penetrare” mercati esteri in espansione, talvolta anche in ragione della saturità del mercato locale21. Pertanto, la decisione di trasferire la produzione all’estero può essere influenzata non solo, e non sempre, dalla semplice volontà di sfruttare condizioni di produzione più favorevoli, alla ricerca di un
abbattimento dei costi della manodopera, ma anche da altre ragioni22.
21 In tal senso, X. XXXXXXX, Delocalizzazioni e tutela, cit., 981. Come evidenziato da M.T. CARINCI, Le delocalizzazioni produttive, cit., 5, la scelta di delocalizzare la produzione può avere, ad esempio, alla base ragioni di natura organizzativa (come razionalizzare certe funzioni nell’ambito dei gruppi), di natura economica (come produrre lo stesso bene a costi inferiori, realizzando risparmi soprattutto sul costo del lavoro), di natura commerciale (come produrre il bene nel luogo in cui verrà venduto, creando così condizioni favorevoli ad una sua più ampia diffusione). Cfr., anche, X. XXXXXXX, Prefazione, in X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, Delocalizzazione, migrazione societaria e trasferimento sede, Milano, 2014, VII, la quale evidenzia che le ragioni economiche su cui si fonda un’operazione di riorganizzazione internazionale possono essere, tra le altre, rappresentate dalla massimizzazione di sinergie ed economie di scala, dalla razionalizzazione della gestione delle linee di business, dal miglioramento dell’efficienza della catena del valore, dalla penetrazione in mercati strategici, o dalla possibile ottimizzazione del carico fiscale.
22 La scelta di delocalizzare potrebbe, del resto, anche rientrare in una “genuina” strategia di internazionalizzazione, “ossia in una strategia di ricerca di elementi di competitività non semplicemente in termini di costi, ma anche in termini di accesso alle reti internazionali della tecnologia, della ricerca, della conoscenza”. Così, X. XXXXX, Le misure per il contrasto alla
Inoltre, in un mondo sempre più globalizzato, spesso la delocalizzazione all’estero dei processi produttivi si rende necessaria (quando non inevitabile) per le imprese, al fine di restare competitive sui propri prodotti, posto che i mercati e la concorrenza globali “hanno spostato i confini e la geografia dell’industria”23.
Ed infatti, come evidenziato in dottrina, con riferimento al contesto nazionale, alla base della scelta v’è, spesso, l’alto costo del lavoro, nel senso che “tutte quelle produzioni che non consentono di erogare agli addetti un salario sufficiente (ex art. 36 Cost.), non potrebbero essere più effettuate nel nostro Paese”24.
Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, risulta, quindi, evidente l’estrema difficoltà di “valutare” le reali motivazioni imprenditoriali sottese alla decisione di delocalizzare la produzione, distinguendo, in particolare, i comportamenti opportunistici dalle fisiologiche scelte di “internazionalizzazione” delle imprese.
delocalizzazione, in Dir. Merc. Lav., 2019, n. 1, 15. Vd., anche, X. XXXXX, Delocalizzazione e dumping sociale, cit., 46, secondo il quale, in questi casi, trattasi “di un processo che, nel medio periodo, dovrebbe rafforzare le capacità competitive del sistema produttivo”. Ovviamente, anche la scelta del paese di destinazione ha una sua rilevanza strategica. Secondo l’Istat, infatti, la decisione di trasferire l’attività produttiva ha come principale motivazione l’accesso a nuovi mercati nel caso di investimenti nei paesi dell’Area Euro o in America, mentre il contenimento del costo del lavoro prevale tra le imprese che scelgono come mercato di delocalizzazione gli altri paesi non euro ed extra Ue, come i paesi dell’area asiatica. Così, ISTAT, Censimento permanente delle imprese 2019, cit., 24.
23 Così, X. XXXXX, Presentazione, in X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, Delocalizzazione, migrazione societaria, cit., IX. Vd., al riguardo, X. XXXXXXX, Development, economic geography and economic theory, Xxxxxxxxx, 0000.
24 Così, X. XXXXXXXXXXX, Categorie giuridiche, lavoro, welfare: l’evoluzione degli istituti giuridici, in Arg. Dir. Lav., 2017, n. 2, 313, il quale evidenzia che “oggi siamo al punto che si rischia di delocalizzare anche produzioni di rilievo strategico per il Paese, sintomo di una impostazione socio-economica in crisi”; ed infatti, “se da una parte non c’è lavoro, dall’altra il lavoro che c’è costa troppo e, pertanto, non è più conveniente utilizzarlo”. Secondo l’Autore, quale soluzione al problema, tra le altre cose, potrebbe ipotizzarsi un mix “tra reddito da lavoro (insufficiente) e contributo assistenziale, così superando quella concezione ad escludendum per cui l’intervento del welfare è oggi ammesso solo in assenza di reddito da lavoro, ciò che favorisce, peraltro, anche la delocalizzazione delle attività a basso valore aggiunto nei Paesi che praticano il dumping sociale” (318-319).
Va, in ogni caso, rilevato come il “risparmio” economico non costituisce, certamente, l’unico parametro di valutazione nelle scelte localizzative delle imprese, giacché, altrimenti, il fenomeno della delocalizzazione sarebbe molto più diffuso rispetto a quanto non lo sia allo stato attuale.
Ed infatti, la “strategia” di delocalizzazione è ritenuta da molte imprese una scelta non particolarmente proficua, soprattutto nel lungo termine, preferendosi, ad esempio, non prescindere da una “stretta contiguità fisica, linguistica e culturale tra i centri di produzione e quelli di ricerca e sviluppo”, che garantisca “continuità e proficuità dello scambio d’informazioni e conoscenze”25.
Altro dato da prendere in considerazione, nell’analisi del fenomeno, è che la delocalizzazione interessa, generalmente, i centri di produzione dell’azienda di “stretta” manodopera, e meno i dipartimenti che richiedono, invece, la presenza di professionalità particolarmente avanzate (ove si sviluppa il c.d. know-how dell’impresa)26.
25 Ciò, anche al fine di contenere il rischio che, nel lungo periodo, la diffusione del proprio know-how nelle unità produttive estere, spesso dotate di larga autonomia gestionale, possa determinare la nascita di potenziali concorrenti. Così, X. XXXXXXX, Il rapporto di lavoro nel trasferimento d’azienda, Milano, 2020, 19. Riprendendo quanto già anticipato in premessa, del resto, va ricordato che, in termini generali, le imprese basano la decisione di “localizzazione” dell’attività economico-produttiva anche in funzione, tra gli altri fattori, dei servizi pubblici, della stabilità politica, dell'esistenza di istituzioni sufficientemente affidabili, della prossimità dei mercati, della presenza di risorse produttive, di un livello di formazione adeguato dei lavoratori, delle infrastrutture, dell'efficienza dell'amministrazione pubblica, etc. Pertanto, il costo del lavoro non è l’unico “criterio” di scelta delle imprese e, in ogni caso, esso, come visto, dev’essere ponderato con la produttività, giacché è il rapporto produttività/costo ad essere determinante per la competitività. In tal senso, il Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema Portata ed effetti della delocalizzazione delle imprese, cit.
26 In particolare, come evidenziato in dottrina, la globalizzazione (vd. infra), in ragione dell’integrarsi dei mercati dei vari paesi, determina, spesso, che “il fabbricare prodotti elementari e le manifatture ad alta intensità di lavoro vengono monopolizzate da paesi dove la manodopera costa poco o niente, dove non esistono diritti delle persone e tanto meno diritti dei lavoratori”, con una conseguente “competizione sfrenata dei mercati stessi”. Così,
X. XXXXXXXX, Diritti dei lavoratori e mutamenti economico-produttivi, Napoli, 2014, 52.
Inoltre, anche la dimensione dell’impresa costituisce un fattore di rilievo nella scelta di delocalizzare27, sebbene la crescente internazionalizzazione dei mercati abbia determinato un graduale aumento delle strategie di delocalizzazione, quantomeno parziale, anche delle piccole e medie imprese28.
In ogni caso, nel contesto economico del mercato globale, ove le imprese multinazionali29 rappresentano, come evidenziato nell’ultimo Report dell’Osservatorio sulla ristrutturazione in Europa, un’ampia percentuale della produzione globale e dell’occupazione, nonché una percentuale ancora maggiore del commercio globale, risulta evidente come siano soprattutto le decisioni assunte da queste imprese in merito a dove localizzare le propria attività economico-produttiva ad influenzare lo status occupazionale di milioni di lavoratori, nonché la prosperità di intere comunità e xxxxxxx00.
Da ultimo, va evidenziato che la predisposizione di un’impresa alla delocalizzazione è necessariamente influenzata anche (i) dal tipo di attività economica esercitata, posto che vi sono produzioni più inclini
27 La stessa Relazione illustrativa al Decreto dignità fa riferimento ad un aumento, negli ultimi anni, del fenomeno delle delocalizzazioni con riferimento alle imprese per lo più appartenenti a multinazionali o a gruppi industriali di rilevanti dimensioni in termini di fatturato e occupazione.
28 In tal senso, P.H. XXXXXXXXXX, X.X.X. XXX XXXXXX, X. XXX XXXX, Firm relocation, cit., 34. Vd., anche, il Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema Portata ed effetti della delocalizzazione delle imprese, cit.
29 Cfr., P. DI MAGGIO (a cura di), The Twenty-First-Century Firm. Changing Economic Organization in International Perspective, Xxxxxxxxx, 0000; X. XXXXX, X. ONIDA, X. XXXXXXXX, Vecchie e nuove imprese multinazionali italiane, in X. XXXXXXX (a cura di), L’Italia e l’economia mondiale dall’Unità a oggi, Venezia, 2013.
30 In tal senso, EUROFOUND, Relazione 2020 dell’ERM: ristrutturazioni transfrontaliere. Sintesi, cit., ove si evidenzia che, in parte in risposta alla loro crescente influenza economica, l’Unione europea ha sviluppato politiche di sostegno alla rappresentanza dei lavoratori a livello transnazionale (soprattutto in termini di diritti di informazione e consultazione) per riequilibrare le prerogative delle parti sociali, in particolare nei casi di ristrutturazioni transnazionali. Vd. la Direttiva n. 38 del 2009 “riguardante l’istituzione di un comitato aziendale europeo o di una procedura per l’informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensioni comunitarie”.
al fenomeno (come quelle effettuate dalle imprese tessili, meccaniche, siderurgiche, o, comunque, labour intensive), nonché (ii) dal grado di autonomia dell’impresa, in funzione della sua struttura societaria e tecnologica, in quanto le filiali di imprese multinazionali con sede in un paese straniero o le imprese che non possiedono le tecnologie relative ai loro prodotti o processi risultano quelle “maggiormente a rischio”31.
3. Le “forme” giuridiche delle delocalizzazioni
La delocalizzazione internazionale è, di per sé, un fenomeno “composito”, giacché diverse sono le sue forme di realizzazione e, in particolare, gli “strumenti” giuridici attraverso cui l’attività economico- produttiva precedentemente svolta nel paese d’origine può essere “continuata” all’estero32.
Sicché, come evidenziato in dottrina, non è semplice isolare e qualificare un fenomeno economico-aziendale così complesso, distinguendolo anche “dalle forme più tradizionali di esternalizzazione (decentramento, subfornitura, outsourcing) nel mercato interno o verso i Paesi terzi e, più in generale, dall’espansione commerciale e dall’articolazione dei gruppi multinazionali, che pure determinano conseguenze rilevanti sull’occupazione”33.
31 Così, il Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema Portata ed effetti della delocalizzazione delle imprese, cit.
32 In tal senso, cfr. X. XXXXXX, Il trasferimento d’impresa tra legge e “case law”. Italia e Gran Bretagna a confronto, Napoli, 2012, 156; ID., voce Esternalizzazioni (dir. lav.), in xxx.xxxxxxxx.xx, 2014.
33 Così, X. XXXXXXX, De-localizzazioni industriali, cit., 1329-1330. Vd. X. XXXXX, Delocalizzazioni e misure di contrasto, cit., 116, secondo cui sul piano giuridico va registrata una sostanziale difficoltà nel “mettere a fuoco” il fenomeno delle delocalizzazioni sia in
Alla luce delle definizioni del fenomeno sin qui analizzate, può essere evidenziato come il caso “tipico” di delocalizzazione (che potremmo definire “in senso stretto”) sia rappresentato, come visto, dalla “chiusura”, totale o parziale, di uno stabilimento produttivo e dalla successiva “apertura” di un altro stabilimento all’estero, ove viene “trasferita” la medesima attività economico-produttiva precedentemente esercitata nello stabilimento d’origine34.
Ciò, generalmente, avviene nell’ambito di uno stesso gruppo di imprese35, attraverso lo spostamento dell’attività dal sito produttivo di una società controllata (o collegata) nel paese d’origine al sito
ragione delle molteplici rappresentazioni che lo stesso assume sul piano fattuale sia per una sua “naturale inclinazione a rifuggire da qualsiasi tentativo di regolazione e sistematizzazione”. Cfr, al riguardo, X. XXXXXXXX, Internazionalizzazione e delocalizzazione. Strategie e processi per la migrazione delle aziende, Milano, 2015; X. XXXXXXX, Outsourcing in the new strategy of multinational companies: foreign investment, international subcontracting and production relocation, in Papeles de Europa, 2009, 18, 5 ss.
34 Cfr. X. XXXXXXX, Delocalizzazioni e tutela, cit., 981, il quale evidenzia che nella prassi, in un’ottica nazionale, le delocalizzazioni consistono nella chiusura (totale o parziale) di uno stabilimento nel nostro Paese, seguita dalla “più o meno contestuale apertura, in altro Paese (UE o extra-UE), d’un nuovo stabilimento che produce gli stessi beni e/o servizi”. Il termine “apertura” di un nuovo stabilimento non va, come già evidenziato, considerato in termini rigorosi, in quanto lo stabilimento di destinazione può anche essere già esistente, dovendosi porre, in prevalenza, l’accento sul “trasferimento” geografico dell’attività economico- produttiva da un sito di provenienza (che viene chiuso o, quantomeno, la cui capacità produttiva viene ridotta) ad un altro sito (che viene aperto o, quantomeno, la cui capacità produttiva viene ampliata) all’estero.
35 Cfr., OECD, Offshoring and employment. Trends and impacts, 2007, 15, ove si evidenzia la differenza tra (i) il c.d. “offshore in-house sourcing”, che corrisponde al trasferimento all’estero, totale o parziale, della produzione di beni e servizi all’interno dello stesso gruppo di imprese, dove l’affiliata estera può essere già esistente o creata da zero (c.d. xxxxxxxxxx affiliates), e (ii) il c.d. “offshore outsourcing”, che rappresenta il trasferimento totale o parziale della produzione a un’impresa estera non affiliata (vd. infra).
produttivo di altra affiliata (già esistente o di nuova costituzione)36 nel paese di destinazione37.
Una pratica diffusa, invero, come evidenziato in dottrina, è quella di delocalizzare una parte più o meno rilevante (da un punto di vista sia qualitativo che quantitativo) della produzione attraverso la “creazione di una nuova società all’estero (una new corporation di diritto cinese, di diritto rumeno ecc.), con assunzione di nuovo personale locale”38.
Le strategie di delocalizzazione, tuttavia, “aggirano”, tendenzialmente, gli strumenti giuslavoristici (avvalendosi delle soluzioni offerte dal diritto commerciale), sicché, nelle ipotesi menzionate, le scelte imprenditoriali implicano, di norma, nel paese d’origine, “dimagrimenti” dell’impresa, o addirittura la cessazione dell’attività, e, quindi, il ricorso in Italia ai licenziamenti collettivi (cfr. art. 24 della legge n. 223 del 1991)39, ovvero ai licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo.
Il concetto di delocalizzazione (che potremmo definire “in senso ampio”), poi, può coincidere con quello di outsourcing, sicché, in questi
36 Attraverso, in termini economici, i cc.dd. investimenti diretti esteri. Vd., al riguardo, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXXX (ed. by), Foreign Direct Investment and the Xxxxxxxxxxxxx Xxxxxxxxxx, Xxxxxxxxx, 0000; X. XXXXX, The delocalization of production to Poland, in Production Engineering Archives, 2019, 48.
37 Per un’analisi delle varie articolazioni aziendali, sebbene nell’ambito della disciplina dei licenziamenti collettivi, vd. X. XXXXXXXXX, I confini dell’impresa nella disciplina dei licenziamenti collettivi. Stabilimento, unità produttiva e impresa controllata eterodiretta tra nozioni europee e nazionali, in X. XXXXXXX (a cura di), L’idea di diritto del lavoro, oggi. In ricordo di Xxxxxxx Xxxxxx, Padova, 2016, 539 ss.
38 Così, M.T. CARINCI, Le delocalizzazioni produttive, cit., 3-7. E ciò, anche al fine (i) di ridurre i rischi finanziari dell’operazione, rendendo autonome le due società, (ii) di usufruire degli eventuali benefici (in primis fiscali) legati alla disciplina giuridica delle società nel paese di destinazione, e (iii) di evitare l’applicazione di eventuali normative protezionistiche previste da alcuni paesi extra UE.
39 In tal senso, ancora, M.T. CARINCI, Le delocalizzazioni produttive, cit., 5-7, la quale evidenzia che “raro è invece l’uso del trasferimento di ramo d’azienda, per il rilevante costo che implicherebbe lo spostamento all’estero del complesso di beni, strumenti, attrezzatura necessari alla produzione; è molto più economico impiantare ex novo degli stabilimenti all’estero”.
casi, una parte, più o meno rilevante, dell’attività economico-produttiva dell’impresa viene “esternalizzata” in favore di una società “terza” operante all’estero, che stipula con l’impresa “d’origine” un contratto commerciale (di vendita, di appalto, di subfornitura, etc.)40, con ciò creandosi, comunque, una rete transnazionale di imprese41.
Il processo di esternalizzazione (ovvero della sostituzione del make con il buy) dei segmenti produttivi ha, del resto, già di per sé, la finalità di far fronte, anche sul piano dei modelli organizzativi, alle sfide della competizione globale42.
Tuttavia, come evidenziato in dottrina, il fenomeno della delocalizzazione è distinto da quello della esternalizzazione43, giacché (sebbene, come visto, talvolta le due scelte possono essere contestuali), con il primo termine si “allude ad un mero spostamento geografico
40 Secondo l’Istat, nel 2018, con riferimento alla maggior parte delle imprese che ha dichiarato di aver realizzato all’estero almeno parte della propria produzione, la delocalizzazione produttiva è avvenuta in forma “leggera”, cioè solo attraverso la stipula di accordi o contratti, mentre la restante parte realizza la produzione estera tramite investimenti diretti. Vd., ISTAT, Censimento permanente delle imprese 2019, cit., 24.
41 In tal senso, X. XXXXXX, Il trasferimento d’impresa, cit., 156. L’European Observatory of Working Life (c.d. Eurwork) definisce il concetto di offshoring come la “sostituzione” di una determinata attività economica con la produzione “straniera” degli stessi beni e servizi, dovuta alla decisione del produttore di cessare o ridurre una specifica attività produttiva domestica “to purchase or outsource it abroad” (specificando che “the offshored activities may either continue to be owned by the company or may be outsourced”), la quale, spesso, si accompagna al permanere l’impresa produttrice originaria nello Stato d’origine (in termini di commercializzazione dei beni e servizi prodotti, in tutto o in parte, dopo la delocalizzazione, all’estero). Così, EURWORK, voce Offshoring, in xxx.xxxxxxxxx.xxxxxx.xx, 6 dicembre 2009.
42 Così, X. XXX XXXX XXXXXX, Ragioni e regole del decentramento produttivo, in Dir. Rel. Ind., 2005, n. 2, 307, il quale evidenzia che, a partire dalla fine degli anni ’80 dello scorso secolo, la tendenza all’esternalizzazione (che prima aveva interessato segmenti periferici e marginali del ciclo produttivo) ha investito anche funzioni di centralità per l’impresa, “sino a lambire il core business, mediante l’affidamento a società specializzate della logistica interna allo stabilimento, della produzione di parti rilevanti del prodotto finale, della gestione del magazzino ricambi etc.”.
43 Vd., sulle principali differenze tra outsourcing e offshoring, X. XXXXX, X. XXXXX, Offshoring e reshoring nelle strategie di internazionalizzazione, Milano, 2020, 13 ss. Vd., anche, X. XXXXXXXXXX, L’outsourcing e la delocalizzazione transnazionale dell’impresa, in X. XXXXXXX (a cura di), L’idea del diritto del lavoro, cit., 648.
dell’attività produttiva, a prescindere da ogni variazione della struttura giuridica del soggetto imprenditore (può così accadere che una medesima casa-madre apra una filiale o unità produttiva all’estero continuando a produrre in prima persona lo stesso bene o servizio, ma in un luogo diverso)”, mentre con il secondo si allude “alla dismissione di una fase o parte dell’attività produttiva prima realizzata dall’impresa al suo interno, seguita dalla riacquisizione del prodotto, del semilavorato, del servizio realizzato ora da un terzo, a prescindere da ogni variazione spaziale”44.
In ogni caso, stante la molteplicità delle “forme” che il concetto di “delocalizzazione” può assumere45, il termine, in sé, sembra essere poco pregnante da un punto di vista giuridico, se non considerato nel suo senso comune (sopra analizzato).
4. I fattori di sviluppo del fenomeno
44 Così, M.T. CARINCI, Le delocalizzazioni produttive, cit. 3.
45 Ricorrendo ad una schematizzazione fornita dalla dottrina economico-aziendalista, le forme più diffuse di “delocalizzazione” sono rappresentate: (i) dallo spostamento degli impianti produttivi in altre aree geografiche: (ii) dagli investimenti diretti all’estero tramite apertura di nuove strutture o mediante operazioni di fusione e acquisizione; (iii) da joint venture focalizzate su specifici progetti, in relazione ai quali due o più imprese uniscono le proprie competenze con la condivisione dei rischi economici; (iv) dai contratti di subfornitura per l’esternalizzazione di attività operative a basso valore aggiunto; (v) dalla creazione di unità commerciali. In tal senso, X. XXXXXXX, Corporate governance e mercati globali, Milano, 2010, 10, la quale richiama, per approfondimenti sul tema, E.M. MOUHOUD, Mondialisation et délocalisation des entreprises, Parigi, 2006; X. XXXXXX, X. XXXXXXX, Impact of international offshoring on the labour market. A reflection on the conceptual and methodological aspects, in Papeles de Europa, 2009, n. 18, 50 ss.; X. XXXXXXX (a cura di), Innovazione e delocalizzazione? Solo qualche volta, Milano, 2007. Vd., anche, X. XXXXXXXXXXX, La delocalizzazione nei mercati internazionali. Dagli IDE all’offshoring, Milano, 2007.
Profili di complessità si rinvengono, altresì, nell’analisi dell’effettiva portata del fenomeno della delocalizzazione (in termini dimensionali, statistici, di evoluzione storica, etc.)46, anche in ragione della difficoltà di stabilirne i “criteri” d’indagine47.
A livello europeo, in ogni caso, a decorrere dal 2002, un parziale monitoraggio del fenomeno (e, in generale, degli impatti lavoristici determinati dalle ristrutturazioni aziendali su larga scala) è effettuato, annualmente, dall’Eurofound (la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro48), attraverso il c.d. Osservatorio sulla ristrutturazione in Europa49.
46 Con riferimento all’Italia, nella stessa relazione illustrativa della bozza del Decreto dignità del 2 luglio 2018 (vd. infra, cap. 3), il Governo italiano aveva espressamente evidenziato come non esistessero “statistiche ad hoc e complete in grado di fotografare con precisione il fenomeno della delocalizzazione delle imprese italiane all’estero”.
47 Del resto, come evidenziato da X. XXXXXXXX, Contrasto alla precarietà e delocalizzazioni nel Decreto Dignità, in X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), “Decreto Dignità”, cit., 170, disporre di una base di dati adeguata e coerente (con riferimento al quantum, al “tipo” di aziende, ai luoghi di destinazione, etc.), sarebbe fondamentale, de iure condendo, al fine di disegnare interventi normativi efficaci di contrasto.
48 Vd., con riferimento agli obiettivi e ai compiti della Fondazione, il Regolamento n. 1365 del 1975, recentemente sostituito dal Regolamento n. 12 del 2019.
49 Cfr. EUROFOUND, ERM Report 2020: Restructuring across borders, Lussemburgo, 2020; EUROFOUND, ERM report 2018: Impact of restructuring on working conditions, Lussemburgo, 2018; EUROFOUND, ERM Annual Report 2016: Globalisation slowdown? Recent evidence of offshoring and reshoring in Europe, Lussemburgo, 2016; EUROFOUND, ERM Annual Report 2013. Monitoring and managing restructuring in the 21st century, Lussemburgo, 2013; EUROFOUND, ERM Report 2012. After restructuring: Labour markets, working conditions and life satisfaction, Lussemburgo, 2012; EUROFOUND, ERM Report 2010. Extending flexicurity – The potential of short-time working schemes, Lussemburgo, 2010; EUROFOUND, ERM Report 2009. Restructuring in recession, Lussemburgo, 2009; EUROFOUND, ERM Report 2008. More and better jobs: Patterns of employment expansion in Europe, Lussemburgo, 2008; EUROFOUND, ERM Report 2007. Restructuring and employment in the EU: The impact of globalisation, Lussemburgo, 2007; EUROFOUND, Restructuring and employment in the EU: Concepts, measurement and evidence, Lussemburgo, 2006, tutti in xxx.xxxxxxxxx.xxxxxx.xx.
Come evidenziato in dottrina, un dato certo è che la “mobilità geografica” del capitale attraverso il riposizionamento internazionale delle imprese è in atto da tempo, e in modo ciclico e ricorrente50.
Una prima vera “esplosione” del fenomeno della delocalizzazione internazionale, tuttavia, si è verificata verso la fine degli anni ’80 del secolo scorso, soprattutto in ragione della progressiva liberalizzazione del commercio, della crescente concorrenza dei Paesi in via di sviluppo e della necessità di internazionalizzare l’attività di impresa per mantenere un elevato grado di competitività nei mercati51.
Alla base del recente sviluppo dei processi di delocalizzazione produttiva (e di migrazione capitalistica internazionale) v’è, dunque, indubbiamente, la c.d. globalizzazione dell’economia52, ovvero quel “fenomeno per cui le economie nazionali, per effetto dell’internazionalizzazione di importanti mercati (dei beni e dei capitali), dell’influenza delle multinazionali, dello sviluppo delle telecomunicazioni e delle tecnologie informatiche, sono sempre più interdipendenti, fino a diventare parte di un unico sistema mondiale”53.
50 Così, X. XXXXXXX, De-localizzazioni industriali, cit., 1329, la quale richiama D. SACCHETTO, Mobilità della forza lavoro e del capitale. Alcune note a partire dalle esperienze dell’Europa orientale, in D. XXXXXXXXX, X. XXXXX (a cura di), La lunga accumulazione originaria. Politica e lavoro nel mercato mondiale, Verona, 2008.
51 In tal senso, X. XXXXX, Presentazione, cit., IX.
52 In tal senso, X. XXXXXXX, Concorrenza ed equità nel mercato europeo: una scommessa difficile (ma necessaria) per il diritto del lavoro, in Riv. It. Dir. Lav., 2018, I, 200.
53 Così, la definizione di “globalizzazione” in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx. In dottrina, vd. X. XXXXXX, Le nuove misure amministrative di contrasto alle delocalizzazioni e di salvaguardia dei livelli occupazionali nelle imprese beneficiarie di aiuti pubblici, in Scritti in onore di Xxxxxxx Xxxxxxx, Napoli, 2019, 1635, secondo il quale la globalizzazione può essere sinteticamente definita come quel “complesso insieme di fenomeni che hanno determinato un’unificazione dei mercati a livello mondiale e che è stata resa possibile, dal punto di vista sostanziale, dalla diffusione delle innovazioni tecnologiche, specie nel campo della telematica, che hanno fatto emergere modelli di consumo e di produzione più uniformi e convergenti e che hanno facilitato la circolazione dei capitali”.
Lo sviluppo tecnologico (in primis dei trasporti), in particolare, ha rappresentato un importante fattore di sviluppo delle delocalizzazioni, avendo fortemente agevolato la commercializzazione dei beni su larga scala, a prescindere dal loro luogo geografico di produzione, nonché le comunicazioni tra le imprese.
Esso, in uno con la strutturazione del mercato a livello sempre più globale (i.e. con l’incremento delle dinamiche di domanda/offerta dei beni e dei servizi in termini transnazionali), ha, infatti, “facilitato” il trasferimento delle funzioni produttive, in tutto o in parte, all’estero (in paesi, più o meno lontani, ritenuti maggiormente convenienti dalle imprese)54.
Inoltre, va evidenziato che il modello di teoria economica che si è maggiormente diffuso a livello globale, a partire dagli anni ’80, è stato, soprattutto, quello (neo)liberista, in virtù del quale, come noto, il mercato è in grado di garantire l’equilibrio efficiente, mentre lo Stato rimane relegato al marginale ruolo di garante dell’ordine pubblico55.
La crescente globalizzazione economica sviluppatasi negli ultimi anni (nell’ambito della quale le frontiere hanno perso sempre più di significato), ha determinato, dunque, l'internazionalizzazione del commercio e l’aumento degli investimenti transfrontalieri,
54 Vd., al riguardo, X. XXXXXXXX, Diritti dei lavoratori, cit., 52.
55 Vd., ex aliis, X. XXXXXX, Breve storia del neoliberismo, Milano, 2007. Nel contesto della liberalizzazione dei mercati, la delocalizzazione può essere considerata, semplicemente, come una ulteriore forma di commercio con vantaggi comparativi. Cfr., al riguardo, sebbene in termini critici, O.E. XXXXXXX, Deslxxxxxxxxxxx, xxxxxxxxxxxxx x xxxxxxx xxx xxxxxxx, xxx., 0, xx quale evidenzia che “así como yo puedo vender porque mi producto es mejor o más bonito, también puedo vender porque mis costos son más bajos (y en “costos bajos” entra absolutamente todo, incluido el costo laboral)”, e da questa prospettiva “ultraliberal, aquí no habría ninguna novedad, nada diferente, nada extraño que buscar, ni nada de qué preocuparse”.
“stemperando” l’identità geografica e consentendo alla “competitività” di raggiungere una dimensione globale56.
Lo sviluppo del fenomeno della delocalizzazione57 costituisce, pertanto, uno degli elementi connotanti la globalizzazione dei mercati.
In particolare, com’è stato evidenziato, la delocalizzazione rappresenta una delle caratteristiche più “innovative” dell’attuale fase di globalizzazione economica, ove si assiste non solamente a un incremento del volume degli scambi, ma altresì a “una dislocazione orizzontale delle fasi produttive che compongono il prodotto finito (cc.dd. commodity chains), nell’ambito di una integrazione logistica della forza lavoro transnazionale”58.
Il mercato globale, del resto, anche in ragione del superamento delle barriere nazionali, incentiva le imprese, nell’ambito delle scelte influenzate dai fattori economici, a delocalizzare la produzione nei paesi ove i costi produttivi sono più bassi59.
56 In tal senso, il Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema Portata ed effetti della delocalizzazione delle imprese, cit. Come evidenziato in dottrina, gli effetti della globalizzazione hanno determinato, da un lato, una spinta inarrestabile dei paesi più poveri a realizzare una diversa redistribuzione della ricchezza, e, dall’altro lato, una pressione sempre più forte della concorrenza internazionale. Così, X. XXXXX, Manuale del nuovo corsx xxx xxxxxxx xxx xxxxxx, Xxxxxx, 0000, 0. Vd., anche, X. XXXXXXX, El dxxxxxx xx xxxxxxx xx xx xxxxx xx xx xxxxxxxxxxxxxxx xx xxx xxxxxxxx, xx XX.XX., XV Pre Congxxxx xx Xxxxxxxxxxxxx xx Xxxxxxxx xxx Xxxxxxx, Xxxxxxx, 0000, 007.
57 E, in generale, della transnazionalizzazione del processo produttivo.
58 Così, X. XXXXXXX, Il rapporto di lavoro nel trasferimento d’azienda, cit., 19. Negli ultimi anni sono, infatti, sensibilmente mutati i confini geografici dell’attività d’impresa, e le aziende (soprattutto di grandi dimensioni) “hanno abbattuto le barriere spaziali allargando il proprio perimetro di riferimento anche a Paesi esteri, mediante strategie di delocalizzazione dirette a cogliere nuove opportunità di successo economico e competitivo”. Così, X. XXXXXXX, Corporate governance e mercati globali, cit., 9.
59 E ciò, sempre nel segno della “competitività”, che si configura sempre più come l'obiettivo generale della dimensione economica. In tal senso, il Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema Portata ed effetti della delocalizzazione delle imprese, cit. Tra i cambiamenti determinati dalla globalizzazione, v’è, dunque, sia il fatto che i flussi di capitale sono più liberi di muoversi nei mercati economici sempre più aperti ed integrati, sia il fatto che intere fasi dei processi produttivi vengono spostate all’estero, anche perché “i mercati promuovono l’efficienza attraverso la competizione, la divisione del lavoro e la specializzazione, che permette a ciascuna economia di concentrarsi su ciò che le riesce
Da ultimo, va evidenziato che un altro “fattore di accelerazione”60 delle riorganizzazioni industriali nello spazio globale, è certamente rappresentato dalle recenti “crisi” economiche internazionali, che possono, anche incidendo sulle scelte localizzative delle xxxxxxx00, determinare effetti dirompenti sui rapporti individuali e collettivi di lavoro62.
5. Gli effetti delle delocalizzazioni sull’occupazione e sulla regolamentazione del lavoro
meglio” e la delocalizzazione della produzione rappresenta la “forza trainante di questo processo”. Così, OSSERVATORIO FILAS, Delocalizzazione: perché le imprese puntano sull’estero?, in xxx.xxxxx.xx.
60 In tal senso, X. XXXXXXX, De-localizzazioni industriali, cit., 1329.
61 Vd. X. XXXXXXX, Prefazione, cit., VII, secondo la quale, con riferimento alla crisi del 2008, il fenomeno della delocalizzazione delle imprese ha rappresentato una delle “leve strategiche” per gestire la crisi del sistema economico. Cfr., anche, X. XXXXXXX, Export, delocalizzazione, internazionalizzazione. Un’opportunità delle aziende per superare la crisi, Milano, 2013.
62 Vd., in generale, sul tema, AA.VV., Il diritto del lavoro al tempo della crisi. Atti del XVII Congresso nazionale di diritto del lavoro. Pisa, 7-9 giugno 2012, Milano, 2013; AA.VV., La crisi economica e i fondamenti del diritto del lavoro. Atti delle giornate di studio nel cinquantenario della nascita dell’associazione. Bologna, 16-17 maggio 2013, Milano, 2014;
X. XXXXXXX, L’Europa e il lavoro. Solidarietà e conflitto in tempo di crisi, Bari, 2013; X. XXX (a cura di), Diritto del lavoro e crisi economica. Misure contro l'emergenza ed evoluzione legislativa in Italxx, Xxxxxx x Xxxxxxx, Xxxx, 0000; X. XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXX, X. XXXXXXXXX, Dialogo sociale e crisi economica globale in alcuni Paesi dell'Europa centrale e orientale, in Dir. Lav. Merc., 2020, n. 1, 183 ss.; X. XXXXXXXX, X. XXXXXXXXX, Dentro la crisi. Spunti comparati sull'impatto delle "riforme strutturali" nel diritto del lavoro in Italia, Portogallo e Spagna, in Riv. Giur. Lav., 2018, n. 4, 643 ss.; X. XXXXXXXXXX, Crisi economica, contrattazione collettiva e ruolo della legge, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 2016, 3 ss.; X. XXXXXXX, La tutela dei diritti sociali in tempo di crisi economica, in Rass. Dir. Pubb., Eur.,
n. 2, 37 ss.; M.T. XXXXXXX, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi: modelli europei e "flexicurity" "all'italiana" a confronto, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 2012, 527 ss.; O.E. XXXXXXX, La crisi finanziaria globale e il diritto del lavoro, in Lav. Dir., 2010, 279 ss.
Anche la valutazione delle “conseguenze” del fenomeno in analisi pone questioni di problematicità, giacché numerosi sono i fattori e gli interessi che devono essere presi in considerazione al riguardo63.
In particolare, i processi di delocalizzazione sono caratterizzati, come evidenziato in dottrina, da una “cifra ambivalente”, nel senso che se, da un lato, essi fotografano le dinamiche di internazionalizzazione prodotte dalla globalizzazione dei mercati e dalla finanziarizzazione dell’economia, dall’altro lato, gli stessi possono tradursi, ove non adeguatamente governati, in una minaccia per i livelli occupazionali e per i sistemi normativi più evoluti64.
Nella dottrina economica, in ogni caso, non v’è univocità di vedute in merito al reale impatto delle delocalizzazioni sull’occupazione65.
63 Da ultimo, con particolare riferimento ai profili occupazionali, vd., D. XXXXXXXXXXX, X. XXXXXXXXX, X. XXXXX, Offshoring and non-monotonic employment effects across industries in general equilibrium, in European Economic Review, 2020, vol. 130, 103583.
64 Così, X. XXXXX, Delocalizzazioni e misure di contrasto, cit., 116-117. Al riguardo, l’Autrice richiama il concetto del c.d. “offshoring dilemma”, nel senso che, per un verso, “le delocalizzazioni sono espressione naturale dell’evoluzione del mercato ed hanno un impatto positivo sulle imprese e sui consumatori”, per altro verso, invece, “incidono sui livelli occupazionali mettendo in crisi il tessuto economico e sociale dei paesi di origine”, citando, in termini comparatistici, quanto verificatosi negli Stati Uniti a fronte delle tensioni tra i fautori di un ritorno al protezionismo e quelli del libero mercato (vd. V.L. XXXXXXXX, X.X. LITAN, “Offshoring” Service Jobs: Bane or Boon and What to Do?, in xxx.xxxxxxxxx.xxx, 1 aprile 2004; J.L. XXXXX, A summary of Issues Raised in “Offshoring” Legislation, in 40 Procurement Law 10, n. 13, 2005).
65 Al riguardo, la letteratura è vastissima. Cfr., tra gli altri, X. XXXXXXX, X. XXXX, Relocation of EU Industry. An Overview of Literature, in xxx.xxxxxxxx.xxxxxx.xx, dicembre 2006; C. XXXXXXX, X. XXX XXXXXXX, S. VANORMELINGEN, The impact of service and goods offshoring on employment: Firm-level evidence, in NBB Working Paper, 2017, n. 319; J.F. XXXXXXXXXX, Offshoring, Outsourcing, and Production Relocation - Labor-Market Effects in the OECD Countries and Developing Asia, in PIIE Workin Paper Series, luglio 2007; X. XXXXX, X. XXXXX, X. XX XXXXX, Offshoring, Firm Performance and Establishment-level Employment – Identifying Productivity and Downsizing Effects, in xxx.xxx.xxx, agosto 2010; X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXXXXX, X. XXXXXXXXX, Offshoring, industry
heterogeneity and employment, in xxx.xxxxxxxxx.xx, maggio 2017; OECD, Offshoring and employment: trends and impacts, 2007, in xxx.xxxx.xxx; D. XXXXX, X. XXXXXX, Offshoring and unemployment, in NBER Working Paper, n. 13149, 2007; X. XXXXXXX, X. XXXXX, X. XXXXXXX, Offshoring and the labour market: What are the issues?, in Economic and Labour Market Paper, ILO, 2007, n. 11; X. XXXXX, X. XXXXX, X. XXXXXXXX, Job Losses, Outsourcing and Relocation: Empirical Evidence Using Microdata, in IZA DP, 2007, n. 2978; B.
Sulla base di dati empirici, ad esempio, è stato evidenziato come, con riferimento all’Italia, le aree più colpite dal fenomeno nel corso degli ultimi decenni (in particolare quelle del nord-est), risultano anche essere quelle in cui è più elevato il tasso di occupazione attuale66.
Inoltre, talvolta, come visto, la scelta delle imprese di delocalizzare all’estero è mossa dalla necessità di dover “sopravvivere” nei mercati globali, sicché, spesso, tale scelta ha consentito a molte imprese di continuare ad operare, garantendo il lavoro domestico residuo67.
In ogni caso, come evidenziato in dottrina, “al fondo” deve riconoscersi che, in molti casi, le delocalizzazioni industriali, quantomeno nel breve periodo, si associano “normalmente alla riduzione dei livelli occupazionali (job displacement)”68.
XXXXXXXX, X. XXXXX, X. XXXX (ed. by), Jobs on the Move. An Analytical Approach to ‘Relocation’ and Its Impact on Emplxxxxxx, Xxxxxxxxx, 0000; X. SCHRODER, Offshoring, employment, and aggregate demand, in Journal of Evolutionary Economics, 2020, 179 ss.;
X. XXXXXXXXXXXXX, Delocalizzazione internazionale e occupazione: un’analisi per i settori tradizionali italiani, in F.R. XXXXXXX (a cura di), Globalizzazione, istituzioni e coesione sociale, Roma, 0000.
06 In tal senso, X. XXXX, Delocalizzazione internazionale e crescita competitiva delle imprese, in X. XXXXXXXXX, X. XXXXXX, X. XXXX (a cura di), Frontiere mobili. Delocalizzazione e internazionalizzazione dei territori produttivi, Venezia, 2009, 131 ss. Vd., anche, X. XXXXXXXXX, Offshoring and the migration of jobs, in IZA World of Labor, luglio 2015, secondo il quale “offshoring has little net effect on domestic employment, while pushing domestic workers toward more complex jobs”. Sul tema dell’impatto occupazionale delle delocalizzazioni nei paesi di origine, cfr, tra gli altri, X. XXXXXXXXX, X. XXXXX, Does relocation of economic activities hurt labour in the home country?, in Giorn. Econ. Ann. Econ., 2001, vol. 60, n. 1, 97 ss.; X. XXXXX, S.J. XXX, Fear of Service Outsourcing: Is it Justified?, in NBER Working Paper Series, n. 10808, 2004; X. XXXXX, X. XXXXXXX, The Impact of Offshoring on Home Country’s Employment, in Estud. Econ., São Paulo, 2019, vol. 49, n. 4, 751 ss.; A. HIJZEN, X. XXXXX, Does offshoring reduce industry employment?, in Nional Institute Economic Review, 2007, n. 201, 86 ss.; X. XXXXXXXXX-DERLACZ, X. XXXXXXX, Does offshoring affect industry employment? Evidence from a wide European panel of countries, in Journal of International Studies, 2015, vol. 8, n. 1, 41 ss.
67 In tal senso, X. XXXXX, Delocalizzazione e dumping sociale, cit., 15.
68 E, spesso, accentuano la disparità salariale e il divario tra gli standard retributivi nei paesi d’origine. In tal senso, X. XXXXXXX, De-localizzazioni industriali, cit., 1331, la quale evidenzia anche i “costi di aggiustamento” creati dalle delocalizzazioni nel mercato del lavoro. Il riferimento è a quei lavoratori coinvolti nelle ristrutturazioni su scala globale che, come evidenziato da alcuni studi, “tardano a ricollocarsi e subiscono una maggiore contrazione salariale rispetto a coloro che perdono il posto di lavoro per altre cause”.
Come visto, da un punto di vista giuslavoristico, in Italia, le delocalizzazioni assumono, di solito, la “forma giuridica” del licenziamento (in genere collettivo), talvolta preceduto da un trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda69.
E la perdita di posti di lavoro (associata alla diminuzione delle opportunità occupazionali) determina, inevitabilmente, la necessità di stanziare più risorse per far fronte all'aumento delle spese per le prestazioni sociali, quantomeno nelle regioni e nei settori interessati dal fenomeno.
Peraltro, con riferimento agli Stati d’origine, la riorganizzazione internazionale dell’impresa (di cui la delocalizzazione costituisce una delle più importanti manifestazioni)70, oltre a generare disoccupazione e ad incidere sulle condizioni di lavoro, tendenzialmente indebolisce la base produttiva e determina minor gettito fiscale e contributivo, costituendo un fatto negativo per l’interesse generale71.
Il fenomeno delle delocalizzazioni può comportare, infatti, in tali paesi, una certa de-industrializzazione, assoluta o relativa, con
69 Vd., X. XXXXXXX, Delocalizzazioni e tutela, cit., 981, il quale rileva che “l’esperienza insegna, infatti, che quest’ultimo può essere utilizzato anche come strumento per avviare un processo di dismissione di attività ritenute non più funzionali al ciclo economico aziendale stanziato su un determinato territorio”.
70 Vd. EURWORK, voce Restructuring, in xxx.xxxxxxxxx.xxxxxx.xx, 2 dicembre 2019, ove si fa riferimento a sette tipi di “ristrutturazione”: relocation, outsourcing, offshoring/delocalisation, bankruptcy/closure, merger/acquisition, internal restructuring, business expansion.
71 Cfr., in tal senso, X. XXXXXX, Le nuove misure amministrative di contrasto alle delocalizzazioni, cit., 1636. Vd., anche, X. XXXXXXX, Delocalizzazioni e tutela, cit., 982, il quale evidenzia che i Paesi che subiscono le delocalizzazioni si vedono “depauperati” di importanti risorse, in una sorta di circolo vizioso, fonte di “allarme sociale” e di squilibri nel sistema economico nazionale, in quanto “un minor numero di imprese significa minore occupazione e dunque minor livello salariale e capacità d’accumulo di risparmio (con conseguente effetto depressivo sulla domanda interna), oltre che minor gettito fiscale e contributivo a sostegno di finanze pubbliche sempre più esangui ed impegnate nell’erogazione di varie forme di sostegno al reddito ed alla formazione/riqualificazione professionale”.
riferimento ai settori produttivi maggiormente interessati, e una minore crescita dell’economia, provocata anche da una contrazione della domanda interna, conseguenza a sua volta dell'effetto che la moderazione salariale, la perdita di posti di lavoro e il deterioramento delle opportunità nel mercato del lavoro hanno sulla popolazione72.
Anche a livello comunitario, il Parlamento europeo ha evidenziato che le delocalizzazioni possono incidere in maniera negativa sullo sviluppo economico dell’Unione, in ragione dei “drammi sociali” riconducibili alle perdite occupazionali, dirette o indirette, nelle aree interessate, le cui “capacità di riconversione” sono spesso “modeste o inesistenti”73.
La stessa “minaccia” della delocalizzazione da parte delle imprese, del resto, può comportare l’accettazione, da parte dei lavoratori e delle rappresentanze sindacali, di salari e condizioni di lavoro meno elevati, al fine di evitare il rischio della perdita dei posti di lavoro (c.d.
72 Così, il Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema Portata ed effetti della delocalizzazione delle imprese, cit., ove si evidenzia, inoltre, che il fenomeno delle delocalizzazioni potrebbe creare ulteriori problemi di “concorrenza” nei confronti delle imprese che rimangono nei territori di origine, le quali potrebbero (i) vedersi obbligate a far fronte a costi più elevati rispetto ai loro concorrenti (con una perdita di quote di mercato nel commercio mondiale), e (ii) essere costrette eventualmente ad investire sempre meno nella ricerca, con una perdita di capacità di innovazione, fattore determinante per la sopravvivenza nel mercato attuale. Con riferimento all’Italia, in particolare, le conseguenze determinate dal fenomeno in analisi, nonché, più in generale, dalla globalizzazione e dalla competizione internazionale, sono particolarmente gravose, in quanto, come evidenziato in dottrina, trattasi di un paese “di trasformazione”, ovvero “povero di risorse naturali e ricco di risorse umane, ma certamente impreparato, quanto a innovazione e formazione professionale, ad affrontare una situazione del tutto nuova e, più o meno colpevolmente, imprevista”. Così, X. XXXXXXXX, Diritti dei lavoratori, cit., 52.
73 Così, Risoluzione del Parlamento europeo sulle delocalizzazioni nel contesto dello sviluppo regionale, 14 marzo 2006, in xxx.xxxxxxxx.xxxxxx.xx. I settori economici più vulnerabili sono, del resto, quelli caratterizzati da una prevalenza di posti di lavoro poco qualificati, come, ad esempio, quelli tessili, di abbigliamento e calzature, metallurgici e manifatturieri. Vd., in tal senso, PARLAMENTO EUROPEO, Come gestire la globalizzazione: le risposte dell’UE, in xxx.xxxxxxxx.xxxxxx.xx, 11 settembre 2019.
delocalizzazione inversa), determinando anche possibili concorrenze tra lavoratori74.
Diversa è, invece, la prospettiva dal lato dei paesi di “destinazione”, giacché, in essi, la delocalizzazione contribuisce all’incremento dell’occupazione75 (sebbene l’effetto potrebbe anche essere quello di determinare un mero aumento del numero di lavoratori che operano in condizioni di lavoro poco dignitose).
Tali paesi, invero, “sfruttando” generalmente il vantaggio competitivo costituito dal basso livello del costo del lavoro e della pressione fiscale, attraggono gli investimenti produttivi ed incentivano le imprese a praticare il c.d. dumping normativo (sociale, fiscale, ambientale, etc.), di cui il fenomeno della delocalizzazione costituisce una delle più rilevanti manifestazioni76.
74 Con riferimento al c.d. caso Fiat, vd. X. XXXXXXX, Delocalizzazione produttiva e relazioni industriali nella globalizzazione. Note a margine del caso Fiat, in Lav. Dir., 2011, n. 2, 347. Cfr., anche, in termini generali, X. XXXXXX, F. OEZ, X. XXXXXXX, Company Relocation: The Consequences for Employees - An Analysis of the WSI Works Council Survey, in WSIDiskussionspapier, 2007, n. 151; X. XXXXXXX, Note su conflitto collettivo e democrazia industriale nell’economia postindustriale, in X. XXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), Risistemare il diritto del lavoro. Liber amicorum Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx, Milano, 2012, 101, la quale evidenzia che il caso della minaccia di delocalizzazione esprime, in modo netto, come il potere dell’imprenditore si eserciti spesso a monte del rapporto di lavoro, “e finanche a monte della costituzione stessa della impresa – o piuttosto a monte della collocazione di questa in un determinato ambito nazionale”, sicché i meccanismi di controllo sindacale del potere imprenditoriale cui siamo abituati “appaiono armi spuntate a fronte di un datore di lavoro che valuta dove collocare le proprie attività e comunque considera di spostarle al di fuori del territorio dello Stato”.
75 In tal senso, X. XXXXXX, Le nuove misure amministrative di contrasto alle delocalizzazioni, cit., 1635-1636. La delocalizzazione, quindi, incide, in genere, sul mercato del lavoro, con variazioni rilevanti nei livelli del salario e dell’occupazione, sia nel Paese di origine, sia in quello di destinazione: nel primo, determina, tendenzialmente, come visto, una riduzione della domanda di lavoro (spesso a svantaggio soprattutto dei lavoratori non qualificati, data la propensione a dislocare fasi di produzione a basso valore aggiunto); nel secondo “si osserva generalmente un incremento dell’occupazione”. Così, il Dizionario di Economia e Finanza Treccani, voce “delocalizzazione”, cit.
76 Vd., X. XXXXXX, Delocalizzazioni, occupazione e aiuti di Stato nel “Decreto Dignità”, in Dir. Xxx. Xxxx., 0000, X, 00; X. XXXXXXX, L’idea del diritto del lavoro, oggi, in X. XXXXXXX (a cura di), L’idea del diritto del lavoro, cit., LV.
Il circolo vizioso creato da tali pratiche spesso conduce, poi, alla tendenza dei legislatori nazionali alla c.d. race to the bottom77, ovvero, con riferimento al settore lavoristico, al ridimensionamento “verso in basso” dei diritti e delle tutele sociali precedentemente acquisiti, al fine di rimanere competitivi nell’ambito della concorrenza internazionale tra stati78 e, dunque, di attrarre o mantenere investimenti produttivi nel proprio territorio79.
Come evidenziato in dottrina, infatti, lo sfruttamento, da parte delle imprese, delle differenze di regolamentazione degli ordinamenti, “tende ad orientare i legislatori nazionali verso un progressivo abbassamento dei livelli delle garanzie sociali, finalizzato a mantenere un adeguato livello di competitività dei singoli sistemi-paese, in coerenza ai principi della competizione regolativa”80.
77 Cfr., tra gli altri, X. XXXXXXX, Social Dumping and the Race to the Bottom: Some Lessons for the European Union from Delaware?, in European Law Review, 2000, 57 ss.
78 Vd., X. XXXXX, Manuale del nuovo corso, cit., 12, il quale evidenzia che la concorrenza internazionale può determinare il pericolo di un “regresso” nel patrimonio dei diritti acquisiti in larga parte dei paesi più sviluppati. Cfr., anche, X. XXXXXXX, Concorrenza tra ordinamenti e diritto del lavoro, in X. XXXXX (a cura di), La competizione tra ordinamenti giuridici, Milano, 2007.
79 Com’è stato evidenziato, tuttavia, le politiche di bassi salari, precarizzazione del lavoro e riduzione dei diritti dei lavoratori potrebbero non risultare efficaci nel contrastare le scelte di delocalizzazione “per il possibile innescarsi di una spirale perversa, che va dalla caduta dei salari al ristagno della domanda aggregata interna (a causa della contrazione della domanda di beni di consumo) e può portare al disinvestimento in quell’area e ad ulteriori compressioni salariali”. Così, X. XXXXXX DAVANZATI, La spirale perversa delle delocalizzazioni, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 24 novembre 2010.
80 Così, X. XXXXX, Dumping sociale e diritto del lavoro, cit., 617. Vd., anche, X. XXXXXX, Le delocalizzazioni aziendali tra ragioni dell'economia e tutela dei lavoratori, in Lav. Giur., 2010, n. 11, all. 1, 42 ss. Nell’ambito della globalizzazione, quindi, i diritti nazionali, che sono nati proprio per sottrarre il lavoro alla concorrenza, diventano essi stessi sempre più soggetti a concorrenza reciproca e giudicati in base all’efficienza ed ai relativi costi. In tal senso, X. XXXXXXX, Delocalizzazioni e tutela, cit., 981, che richiama, emblematicamente, i rapporti annuali Doing Business della Banca Mondiale che comparano la disciplina normativa che si applica alle imprese durante il loro intero ciclo di vita. Al riguardo, vd., anche X. XXXXXX, Delocalizzazioni, cit., 65-66, la quale evidenzia che, nel classificare l’attrattività delle discipline nazionali sulla base (anche) della Labour market regulation, viene data particolare importanza alla flessibilità della regolazione lavoristica.
Inoltre, come anticipato, è nel contesto della globalizzazione dei mercati (e di una sempre più ricercata divisione internazionale del lavoro, connessa alla mobilità dei capitali), che sempre più imprese decidono di delocalizzare le attività produttive al di fuori del territorio nazionale, e la globalizzazione indica proprio il passaggio da un'economia internazionale, nella quale nazioni indipendenti organizzano il loro spazio economico, ad un'economia globale che non è legata alle normative nazionali81.
Negli ultimi anni, pertanto, si è assistito ad un progressivo “esautoramento” dei poteri in capo ai diritti nazionali-territoriali82, sempre più impotenti dinanzi alle logiche del mercato globalizzato.
In particolare, la globalizzazione economica ha determinato, dal punto di vista soggettivo, un potenziamento dei poteri d’influenza esercitati dalle imprese multinazionali, le cui decisioni hanno, oramai, “come ambito spaziale di riferimento lo scacchiere mondiale”, ed incidono “su una platea sempre più vasta di soggetti (cittadini, consumatori, lavoratori, sindacati)”83.
Il superamento del “paradigma territoriale” dell’economia ha avuto, dunque, “un’inevitabile risonanza sul carattere statuale della produzione giuridica in generale e della disciplina lavoristica in
81 In tal senso, il Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema Portata ed effetti della delocalizzazione delle imprese, cit.
82 Vd., X. XXXXXXX, Costituzionalismo della società transnazionale, in Rivista XXX, 0000, n. 4.
83 Così, X. XXXXXX, Diritto del lavoro e aiuti all’occupazione: verso una (parziale) convergenza valoriale, in Lav. Dir., 2016, 341. Come evidenziato in dottrina, quindi, a disciplinare il complesso ed articolato sistema globale di relazioni economiche e commerciali “non sono più – o sono sempre meno – le regole statuali, comunitarie o dei trattati internazionali, ma sono i rapporti di forza che determinano i contratti tra le grandi società multinazionali”. Così, X. XXXXXXXX, Diritti dei lavoratori, cit., 54-55. Vd., xx riguardo, M.R. FERRARESE, Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni, Bologna, 2002.
particolare” 84, nata, del resto, essa stessa, con una forte vocazione anticoncorrenziale.
La globalizzazione economica, infatti, ha creato un conseguente mercato del lavoro globale, nel quale l’incontro tra domanda ed offerta segue l’evoluzione degli scambi internazionali, e che non è più governato dal diritto del lavoro che abbiamo conosciuto sinora85.
L’impatto della globalizzazione economica, invero, è così accentuato da mettere in discussione, radicalmente, la capacità dei sistemi di relazioni industriali, finora nazionali, di creare regole adatte alle nuove dimensioni dei mercati86, anche perché la contrattazione collettiva, come la legge, “sono in grado di prevalere sui fenomeni economici, regolandoli e indirizzandoli verso la realizzazione di fini sociali, soltanto se e nella misura in cui operino dentro gli stessi confini in cui agiscono gli attori del mercato”87.
84 In tal senso, X. XXXXXX, Delocalizzazioni, cit., 64, la quale, sul punto, richiama X. XXXX, Sovranità regolativa e subordinazione del diritto del lavoro, in Lav. Dir., 2017, 16; X. XXXXXX (diretto da), La solidarité. Enquête sur un principe juridique, Parigi, 2015, 25. Sotto il profilo giuslavoristico, dunque, una delle principali sfide che deriva dalla globalizzazione economica è rappresentata dallo “spiazzamento geografico dei tradizionali modelli di regolazione del lavoro e dall’ampliamento dei loro ambiti di riferimento”, nonché “dal modificarsi dell’oggetto e degli obiettivi della stessa regolazione, costretta a far fronte alle durezze della transizione nel mercato globale per ridurne le conseguenze negative sul tessuto sociale”. Così, X. XXXXXXX, De-localizzazioni industriali, cit., 1329. Il diritto del lavoro, del resto, è “cresciuto in un’epoca di stabilità degli strumenti produttivi, è stato costruito su un modello di impresa monolitica, pensato per una competizione tendenzialmente interna ai confini nazionali ed elaborato nel contesto di un’economia affluente e per un tasso di disoccupazione più o meno stabile”. Così, X. XX XXXX XXXXXX, La flessibilità nel diritto del lavoro: dalla articolazione del tipo alla gestione deregolata del rapporto, in AA.VV., Diritto del lavoro e mercato globale. Atti del Convegno in onore di Xxxxx Xxxx (Torino, 11-12 aprile 2014), Napoli, 2014, 41.
85 Così, ancora, X. XXXXXXX, De-localizzazioni industriali, cit., 1330. Vd., al riguardo, X. X’XXXXXX, Diritto del lavoro di fine secolo: una crisi di identità?, in Riv. Giur. Lav., 1998, 311 ss.
86 In tal senso, X. XXXX, Compiti e strumenti delle relazioni industriali nel mercato globale, in Lav. Dir., 1999, 192.
87 Così, X. XXXXX, Manuale del nuovo corso, cit., 2, il quale evidenzia, in particolare, che la globalizzazione dell’economia “compromette la efficacia regolatoria dei diritti nazionali del lavoro, sia perché le imprese di altri paesi possono sottrarre fette di mercato (sia interno che internazionale), riducendo l’occupazione e la ricchezza disponibile a fini sociali, sia perché
Del resto, come evidenziato in dottrina, “l’essenza del capitale è globale”, mentre (di regola) il lavoro è “locale”88, e tale legame rende i lavoratori e le persone in cerca di occupazione più esposti nella distribuzione dei rischi connessi alla competizione internazionale89.
6. La libertà d’impresa nel quadro giuridico del mercato globale
In ragione delle conseguenze negative provocate dal fenomeno delle delocalizzazioni nei paesi d’origine, non stupisce che i legislatori di tali paesi, sollecitati anche dall’opinione pubblica, si adoperino per cercare di predisporre misure tese a contrastarne la diffusione90.
Tuttavia, occorre prendere atto che le delocalizzazioni si svolgono nell’ambito di un ampio e complesso “quadro giuridico di multi-level governance del mercato globale”91 (nazionale, europeo ed internazionale), ove le libertà d’impresa e di mercato sono fortemente garantite92.
gli stessi capitali nazionali possono fuggire alla ricerca di investimenti più redditizi, anche in tal modo depauperando le opportunità di lavoro e le risorse distribuibili a livello nazionale”.
88 Vd. X. XXXX, Il lavoro nell'epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile, Milano, 2000, 68.
89 In tal senso, X. XXXXXXX, De-localizzazioni industriali, cit., 1330-1331.
90 Com’è stato evidenziato, infatti, è naturale che venga a porsi una esigenza di contenimento delle delocalizzazioni, in quei paesi che, come l’Italia, tendono soprattutto a subirle per gli elevati costi di sistema che gravano sulla permanenza nel territorio degli insediamenti produttivi. Così, X. XXXXXXX, Delocalizzazioni e tutela, cit., 982.
91 In tal senso, ancora, X. XXXXXXX, Delocalizzazioni e tutela, cit., 981-982.
92 Secondo X. XXXXXXX, De-localizzazioni industriali, cit., 1337, ad esempio, l’eventuale introduzione di costi d’uscita a carico dell’impresa che intenda delocalizzare o di costi d’entrata gravanti su beni e merci re-importate da insediamenti all’estero, “finirebbe per evocare l’antica e scomoda rappresentazione dello Stato doganale”, e difficilmente
In particolare, come evidenziato in dottrina, il fenomeno delle delocalizzazioni “ha radici diversificate e, in parte, difficilmente sradicabili, nella misura in cui quel fenomeno è legato ai principi del libero commercio e della libertà di stabilimento delle imprese”, che sono riconosciuti “e addirittura promossi” dai trattati internazionali e dall’ordinamento eurounitario93.
Nel contesto internazionale, possono menzionarsi, soprattutto, i principi di libero scambio di cui all’Accordo istitutivo dell’Organizzazione mondiale del commercio, concluso a Marrakech il 15 arile 1994 (ratificato dall’Italia con la legge 29 dicembre 1994, n. 747), che dal 1° gennaio 1995 ha assorbito l’Accordo generale sulle tariffe e sul commercio (c.d. GATT, General Agreement on Tariffs and Trade).
In particolare, uno dei principi fondamentali sul quale si basa l’OMC è quello della non discriminazione tra gli stati contraenti, da cui discende la c.d. regola della “nazione più favorita”94, la quale deve essere garantita ed applicata da tutti gli stati membri dell’Organizzazione95, e che vincola tali stati “a concedersi
supererebbe “il vaglio liberista delle istituzioni europee e l’ostacolo del riconoscimento ormai universale della libera concorrenza negli scambi”.
93 Così, X. XXXXX, Le misure per il contrasto alla delocalizzazione, cit., 14. Dal punto di vista giuridico-istituzionale, la stessa globalizzazione ha “tratto forza dall’affermarsi di moduli di integrazione internazionale tra Stati e relativi sistemi economici” operanti su scala sia planetaria, come l’Organizzazione mondiale del commercio, che regionale, come l’Unione europea, e dal seguente ridimensionamento dell’importanza dei dazi statali di importazione, esportazione e transito, ovvero dei tradizionali ostacoli pubblicistici al commercio transnazionale. In tal senso, X. XXXXXX, Le nuove misure amministrative di contrasto alle delocalizzazioni, cit., 1635.
94 Come evidenziato in dottrina, in linea generale, l’intera normativa di diritto materiale dell’OMC si ispira, in primis, al principio base di non discriminazione commerciale, il quale regola, ad esempio, l’estensione automatica ed incondizionata a tutti i membri dello status di nazione più favorita ed il trattamento nazionale. In tal senso, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, Diritto del commercio internazionale, cit., 231.
95 Vd. il Dossier del Servizio Studi di Camera e Senato del 3 agosto 2018, Schede di lettura relative al progetto di conversione in legge del d.l. n. 87 del 2018, 52, ove si evidenzia che
reciprocamente il trattamento più favorevole che abbiano concesso o eventualmente concederanno in futuro in una determinata materia”96. Come evidenziato in dottrina, del resto, la “conoscenza” delle principali norme materiali dell’OMC risulta indispensabile per le imprese transnazionali, poiché tali regole incidono sulla possibilità di “ideare e progettare un prodotto in un dato Paese, fabbricare i componenti in un altro Paese, realizzare le operazioni finali di assemblaggio in un terzo Paese e quindi esportare il prodotto finito nel
resto del mondo”97.
L’Accordo di Marrakech, in definitiva, riconosce “formalmente” il modello della globalizzazione economica che identifica il mercato attuale, perseguendo la liberalizzazione delle transizioni economiche e il libero movimento delle merci e della produzione98.
l’azione dell’OMC è intesa: (i) a migliorare le condizioni di accesso ai mercati, tramite la riduzione delle barriere artificiali che ostacolano i flussi commerciali, e (ii) a promuovere la concorrenza leale, attraverso l'elaborazione e l’applicazione rigorosa delle normative in materia di commercio internazionale, volte ad evitare forme di concorrenza sleale, quali il dumping (commerciale) o i sussidi alle esportazioni.
96 Così, X. XXXXXXX, Delocalizzazioni e tutela, cit., 990. Vd., in particolare, l’art. I, par. 1, del GATT, secondo cui “tutti i vantaggi, benefici, privilegi o immunità, accordati da una Parte contraente ad un prodotto originario di, o destinato a qualsiasi altro Paese, saranno immediatamente e senza condizioni, estesi a tutti i prodotti simili originari del, o destinati al territorio di tutte le altre Parti contraenti. Questa disposizione riguarda i dazi doganali e le imposizioni di qualsiasi genere che colpiscono le importazioni o le esportazioni, o che sono percepiti in occasione di importazioni o di esportazioni, così come quelli che colpiscono i trasferimenti internazionali di fondi effettuati in regolamento delle importazioni o delle esportazioni, nonché per ciò che concerne il modo di percezione di tali dazi ed imposizioni, l’insieme della regolazione e delle formalità afferenti alle importazioni o alle esportazioni”. 97 Così, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, Diritto del commercio internazionale, cit., 236
98 Così, X. XXXXXX, X. XXXXXXXXXX, Il mancato sviluppo: le conseguenze sugli individui e gli stati delle patologie della migrazione, in X. XXXXXXXX, X. XXXXXXXXXX (a cura di), Migrazione e sviluppo: una nuova relazione?, Roma, 2012, 156. Il mercato globale, dunque, si è dotato di proprie regole ed istituzioni volte ad assicurarne l’autonomo ed efficiente funzionamento, creando, in particolare, l’Organizzazione mondiale del commercio, la quale “obbliga gli stati aderenti ad aprire le proprie frontiere commerciali”, e, peraltro, “dispone, per la repressione delle violazioni, di un incisivo apparato sanzionatorio e di un organo giurisdizionale per la risoluzione delle controversie”. Così, X. XXXXX, Manuale del nuovo corso, cit. 12. Vd., anche,
X. XXXXXX, Giustizia sociale e liberalizzazione del commercio internazionale, in Lav. Dir., 2011, n. 3, 510.
Per quanto riguarda l’Italia, a livello costituzionale, come noto, è l’articolo 41, comma 1, Cost. a riconoscere la libertà dell’iniziativa economica privata, cosicché le scelte imprenditoriali attinenti all’organizzazione produttiva (e alle conseguenti ricadute sulla gestione dei rapporti di lavoro) “sono insindacabili”99.
Il riconoscimento della libertà d’impresa rappresenta un principio centrale nella Costituzione italiana, che garantisce ai privati di organizzare la propria attività economico-produttiva, decidendo liberamente cosa, quanto, come e “dove” produrre.
Nel settore giuslavoristico, a mero titolo esemplificativo, può farsi riferimento agli, oramai consolidati, orientamenti giurisprudenziali sviluppatisi in materia di licenziamento per ragioni oggettive, in base ai quali l’autorità giudiziaria non può sindacare il “merito” della scelta dell’imprenditore100 (proprio in virtù della libertà di cui all’art. 41 Cost.), potendo solo verificare l’effettività del ridimensionamento aziendale e l’esistenza di un nesso di causalità con il licenziamento101.
99 In tal senso, X. XXXXXXX, Delocalizzazioni e tutela, cit., 983
100 Vd., a livello normativo, l’art. 30, comma 1, della legge n. 183 del 2010 (come modificato dall’art. 1, comma 43, legge n. 92 del 2012), secondo cui “in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile e all’ articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai princìpi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente”. In dottrina, cfr. X. XXXXX, Licenziamento individuale per motivi economici e controllo giudiziario nella riforma del lavoro, in Lav. Giur., 2013, n. 3, 255 ss.
101 Vd., ex multis, Xxxx. 11 luglio 2011, n. 15157. Considerazioni analoghe possono essere svolte, ad esempio, con riferimento al “trasferimento” del lavoratore da un’unità produttiva ad un’altra, ove il controllo giudiziale non può estendersi al merito del provvedimento datoriale, ma deve limitarsi alla verifica dell’effettività delle comprovate ragioni aziendali (cfr. Cass. 2 marzo 2011, n. 5099). In dottrina, vd. X. XXXXXXX, R. DE XXXX XXXXXX, X. XXXX,
X. XXXX, Il rapporto di lavoro subordinato, Torino, 2016, 327 ss.
Sicché, le scelte tecniche di organizzazione, dimensionamento, strutturazione e localizzazione dell’azienda, e l’individuazione dei criteri economico-produttivi ad esse sottesi, rientrano nella piena sfera di libertà dell’imprenditore.
Come altresì noto, è lo stesso articolo 41 Cost. a prevedere, nei commi successivi, che l’esercizio dell’impresa non può “svolgersi” in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (comma 2), attribuendo alla legge il compito di determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere “indirizzata e coordinata” a fini sociali (comma 3).
Tuttavia, anzitutto, come evidenziato in dottrina, va rilevato che la “intrinseca contraddittorietà” dei tre commi dell’articolo 41 (che tutelano valori tra loro, in linea di principio, confliggenti), “congiunta all’indeterminatezza di taluni termini adottati (spec. l’utilità sociale)” e alla posizione dell’articolo nella carta costituzionale, “ne hanno fatto una delle norme di più controversa interpretazione fra quelle comprese nel titolo dedicato ai rapporti economici”102.
Inoltre, come altresì evidenziato in dottrina, sebbene le norme in analisi potrebbero far trasparire una visione imperativa e totalitaria della legge, e dunque dello Stato, nel governo dell’economia, tale visione è stata, invece, generalmente disattesa dalla legislazione ordinaria, anche in ragione dell’influenza sempre crescente dell’ordinamento europeo (supportata dal principio della primazia), volto alla costruzione di un
102 Così, X. XXXX, Commento all’art. 41 Cost., in X. XX XXXX XXXXXX, X. XXXXXXXX (diretto da), Commentario breve alle leggi sul lavoro, Padova, 2018, 128. Rileva lo “spessore problematico” dei limiti alla libertà di iniziativa economica privata, anche X. XXXXXXXX, Commento all’art. 41 Cost., in X. XXXXXXX, X. XX XXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), Diritto del lavoro. La Costituzione, il Codice civile e le leggi speciali, Milano, 2017, 382.
mercato unico e aperto, “in cui possano liberamente circolare tutti i fattori della produzione: merci, capitali, servizi e persone”103.
Sicché, alla luce dei principi sin qui richiamati, appare evidente come le eventuali misure legislative di contrasto alle delocalizzazioni rischino di entrare in tensione con “l’assetto di principi e disposizioni volto a tutelare le libertà economiche e la concorrenza dentro e fuori i confini europei”104.
7. I possibili strumenti di contrasto alle delocalizzazioni e di tutela dei lavoratori
Si è già evidenziato come, a livello giuslavoristico, uno dei maggiori profili di complessità del fenomeno delle delocalizzazioni sia rappresentato dal fatto che tali operazioni spesso “aggirano” gli istituti lavoristici, preferendo quelli messi a disposizione dal diritto commerciale, i quali sono “per lo più impermeabili a qualsiasi implicazione di ordine sociale”105.
Possibili meccanismi di tutela dei lavoratori, in ogni caso, potrebbero essere rinvenuti nell’ipotesi del c.d. trasferimento d’impresa transnazionale, che talvolta “accompagna” la delocalizzazione, sebbene
103 Così, X. XXXXXXX, Delocalizzazioni e tutela, cit., 983, il quale sottolinea l’influenza sempre più condizionante e pervasiva esercitata dall’ordinamento dell’Unione europea, i cui Trattati sono ispirati a una diversa decisione di sistema, ormai prevalente rispetto all’originaria impostazione costituzionale, volta all’edificazione di un mercato “aperto” (a livello continentale).
104 Così, X. XXXXX, Delocalizzazioni e misure di contrasto, cit., 122.
105 Così, ancora, X. XXXXX, Delocalizzazioni e misure di contrasto, cit., 116, che ricorda i recenti casi Fiat, Embraco, Honeywell e Bekaert.
la fattispecie sia, di per sé, difficilmente configurabile, soprattutto con riferimento al requisito della c.d. retention of identity106.
Nella maggior parte dei casi, come anticipato, la conseguenza della delocalizzazione, in termini lavoristici, sarà quella del licenziamento, a seconda del numero di lavoratori coinvolti, o individuale per giustificato motivo oggettivo o (più spesso) collettivo107.
Soprattutto in quest’ultimo caso, un ruolo importante per la tutela dei lavoratori coinvolti può essere svolto dall’attività sindacale, nell’ambito della procedura di esame congiunto, indirizzata, tra le altre cose, anche all’individuazione di misure alternative agli esuberi108.
L’attività sindacale, in generale, potrebbe rappresentare un rilevante strumento di contrasto alle delocalizzazioni (e, in generale, al dumping sociale), soprattutto ove presa in considerazione in termini di transnazionalità109, incentivando un sistema di relazioni industriali “costruito” a misura della competizione globale, con una riscoperta della “vocazione originaria del movimento sindacale, cioè quella di
106 Vd., al riguardo, con particolare riferimento alle norme applicabili di diritto internazionale privato, tra gli altri, K.C. XXXXXXX, Cross-border transfers of undertakings, University of Xxxxxxxxx, 0000; X. XXXXXX, Il trasferimento d’impresa, cit., 155 ss.
107 Vd., in dottrina, tra gli altri, X. XXXXXXXXXXX, Impresa e lavoro: il nuovo bilanciamento nei licenziamenti collettivi, Roma, 2017; X. XXXXX, X. XXXXXXXXX, X. XXXXXX (a cura di), Il licenziamento collettivo in Italia nel quadro del diritto dell'Unione Europea, Milano, 2016;
X. XXXXXXX, Il licenziamento collettivo. Interessi, procedure, tutele, Milano, 2004; X. XXXXXXXXX, Il licenziamento individuale e collettivo. Lavoro privato e pubblico, Padova, 2015; X. XXXXXXXXX, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Dalla legge 604 del 1966 al contratto a tutele crescenti, Torino, 2016; X. XXXXXXX (a cura di), Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Torino, 2017; X. XXXXXX, La fattispecie “giustificato motivo oggettivo” di licenziamento tra storie e attualità, in WP C.S.D.L.E. "Xxxxxxx X'Xxxxxx" .IT, 2017, n. 323.
108 Cfr., X. XXXXXXX, Crisi dell’impresa, eccedenze di personale e misure alternative ai licenziamenti collettivi, in Riv. It. Dir. Lav., 1996, 63 ss.; X. XXXXXXXX, Strumenti di flessibilità alternativi alle riduzioni del personale (il contratto di solidarietà difensivo), in Arg. Dir. Lav., 2010, 353 ss.
109 Cfr., X. XXXXXXXX, Gli accordi transnazionali a livello di impresa: uno strumento per contrastare il social dumping?, in Lav. Dir., 2011, 119 ss.; X. XXXXXXXXX, Relocation of production and industrial relations, in EIROnline, 2006.
costituire uno strumento necessario per la regolazione del mercato, che oggi si è fatto globale”110.
Altra strada percorribile, al fine di contrastare il fenomeno in analisi, è, poi, quella di incrementare il sostegno delle imprese (soprattutto di quelle in crisi, ed esposte alla concorrenza internazionale) nell’ambito di un’“attività di concertazione” che coinvolga i diversi sistemi interessati (istituzionale, industriale, creditizio, etc.)111.
In ambito nazionale, stante la rilevante incidenza del fenomeno sui livelli occupazionali (e, in generale, sulla stessa tenuta economico- sociale) di alcuni settori e territori, spesso vengono aperti “tavoli” di confronto sulle crisi industriali112, cui partecipano i rappresentanti aziendali, istituzionali e dei lavoratori coinvolti113.
L’obiettivo di fondo di tali “concertazioni” è, in primis, quello cercare soluzioni “conciliative” tese ad evitare le delocalizzazioni o, quantomeno, a reindustrializzare il sito produttivo coinvolto (con la ricerca di nuovi investitori), possibilmente salvaguardando i lavoratori, ad esempio con accordi di riassorbimento del personale114.
110 Così, X. XXXXX, Dumping sociale e diritto del lavoro, cit., 628. Vd., anche, X. XXXXXXXX, Le relazioni industriali possono aiutare a regolare il mercato globale?, in Quad. Rass. Sind., 2011, 25 ss.; I. REGALIA, Riflettendo sul futuro delle relazioni industriali in epoca di globalizzazione, ivi, 33 ss.; X. XXXX, Gli accordi in deroga in Europa e la sfida ai sistemi contrattuali, ivi, 51 ss.; X. XXXXXXXXXX, I. DA XXXXX, X. XXXXXX, X. XXXXXXXX, X. XXXXXX,
Accordi quadro internazionali: un nuovo strumento di relazioni industriali transnazionali, ivi, 145 ss.; X. XXXX, I sindacati europei dopo la crisi globale, ivi, 157 ss.
111 Vd., in tal senso, X. XXXXXXX, De-localizzazioni industriali, cit., 1338.
112 Vd., con riferimento alle “strutture” del Ministero dello Sviluppo economico dedicate alle crisi di impresa, l’art. 1, comma 852, della legge n. 296 del 2006 e l’art. 12 del d.l. n. 101 del 2019 (rubricato “Disposizioni urgenti per la tutela del lavoro e per la risoluzione di crisi aziendali”), convertito dalla legge n. 128 del 2019.
113 Vd., X. XXXXXXX, I ruoli del sindacato e delle istituzioni per la soluzione delle crisi occupazionali, in Dir. Rel. Ind., 2017, n. 3, 729 ss.
114 Vd. MISE, Informativa sulle crisi aziendali, 20 novembre 2019, in xxx.xxxx.xxx.xx.
In un’ottica di tutela dei lavoratori ex post (e, dunque, con interventi di tipo difensivo, a valle della decisione già assunta dall’impresa di delocalizzare la produzione)115, un importante contributo può essere svolto, chiaramente, anche dagli strumenti di tutela del reddito e di politica attiva del lavoro116.
Con particolare riferimento agli effetti provocati dalla delocalizzazione (e, in generale, dalla globalizzazione), d’altra parte, molteplici sono state negli ultimi anni le risorse economiche stanziate, tempo per tempo, attraverso specifici fondi, sia a livello europeo che nazionale117.
In termini di politica economica, chiaramente, al fine di arginare le delocalizzazioni, sarebbe necessario implementare politiche che rendano conveniente la permanenza delle attività economiche sul
115 In tal senso, vd. M.T. CARINCI, Le delocalizzazioni produttive, cit., 26.
116 Vd., X. XXXXXXX-XXXXXXXXXX, Diritto dei lavori e dell’occupazione, Torino, 2020, 599 ss.; C.A. XXXXXXXX (a cura di), Gli ammortizzatori sociali riformati, Milano, 2018; X. XXXXX,
X. XXXXXXX XXXXXXX (a cura di), Ammortizzatori sociali e politiche attive per il lavoro. D.lgs
n. 22 del 4 marzo 2015 e nn. 148 e 150 del 14 settembre 2015, Torino, 2017. Con particolare riferimento al tema delle delocalizzazioni, vd. D. XXXXXXXXX, X. XXXXXXX, Delocalizzazione produttiva e ammortizzatori sociali. La tessitura Mosti Spa, in Econ Soc. Reg., 2008, 64 ss. Vd., anche, X. XXXXX, Lezioni di diritto del lavoro, Torino, 2016, 85, secondo cui “preso atto che la globalizzazione consente solo un governo parziale dei fenomeni, laddove reagisce a processi compressivi per via di delocalizzazione, l’azione regolativa, pur non abbandonando il presidio della meritevolezza e dell’inderogabilità, deve concentrare le risorse disponibili sul contrasto alle variabili negative del mercato”, e “da qui l’esigenza di un sistema di welfare orientato a tutelare la continuità del reddito, le opportunità di impiego, la persistenza dell’occupabilità per via di formazione continua, l’equa distribuzione di risorse e di tutele tra lavoratori stabili e lavoratori precari”.
117 Vd., tra gli altri, il Fondo per la salvaguardia dei livelli occupazionali e la prosecuzione dell’attività d’impresa (art. 43 del d.l. n. 34 del 2020, c.d. Decreto Rilancio, e D.M. del MISE del 29 ottobre 2020); il D.M. del MISE del 7 maggio 2018, rubricato “Interventi di sostegno agli investimenti e all'occupazione volti a contrastare fenomeni di cessazione delle attività o di delocalizzazione produttiva”; il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (vd. Regolamento n. 1309 del 2013). Vd., più in generale, il d.l. n. 120 del 1989 (convertito con legge n. 181 del 1989), rubricato “Misure di sostegno e di reindustrializzazione in attuazione del piano di risanamento della siderurgia”; l’art. 27 (rubricato “Riordino della disciplina in materia di riconversione e riqualificazione produttiva di aree di crisi industriale complessa”) del d.l. n. 83 del 2012, convertito con legge n. 134 del 2012.
territorio nazionale118, sia in termini generali (ad esempio, attraverso la riduzione della pressione fiscale o gli interventi strutturali sulla regolamentazione del mercato del lavoro119), sia in termini di concessione di aiuti economici alle imprese, sebbene nel rispetto delle regole di concorrenza europee (vd. infra, cap. 2)120.
118 In tal senso, X. XXXXXX, Le nuove misure amministrative di contrasto alle delocalizzazioni, cit., 1636, il quale evidenzia che “tali politiche possono avere un’incidenza immediata e diretta sull’Erario, traducendosi in esenzioni fiscali, aiuti di Stato o programmi di lavoro pubblici, ma possono anche assumere le sembianze di riforme volte a semplificare l’ordinamento giuridico o amministrativo o a razionalizzare la spesa pubblica”. Ciò, al fine di rendere competitivo il “sistema Paese” nei mercati globali, riducendo, anche, gli oneri, soprattutto finanziari e burocratici, per gli imprenditori, affinché si creino le condizioni per investire e gestire al meglio l'impresa.
119 Del resto, anche il contrasto al fenomeno delle delocalizzazioni rappresenta, in definitiva, uno degli obiettivi perseguiti attraverso le recenti riforme strutturali del mercato del lavoro in Italia. Vd., tra gli altri, X. XXXXXXX, X. XXXXX (a cura di), Diritto del lavoro in trasformazione, Bologna, 2014; X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), Il nuovo diritto del mercato del lavoro. La legge n. 92 del 2012 (cd. "riforma Fornero") dopo le modifiche introdotte dalla legge n. 99 del 2013, Torino, 2013; X. XXXXXXXX, Le tutele dei lavoratori dal rapporto al mercato del lavoro. Dalla postmodernità giuridica verso la modernità economica?, Torino, 2017; X. XXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), Diritto del lavoro e mercato. L'impatto delle riforme del lavoro nell'analisi giuridica dei dati sull'occupazione, Padova, 2015. Vd., anche, X. XXXXXXX, Social Dumping at the Core of National Labour Law Reforms, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 2018, 871 ss. Sottolinea il collegamento tra l’evoluzione recente del diritto del lavoro italiano e l’economia globalizzata (ove i “paesi che hanno salari più bassi, imposte più basse e non rispettano le norme a tutela dell’ambiente hanno un vantaggio comparativo enorme nei confronti dell’Italia”), X. XXXXXXXXX, Evoluzione del diritto del lavoro ed economia, in Mass. Giur. Lav., 2019, n. 2, 391 ss. Vd., anche, AA.VV., Retribuzione e occupazione, in A. VALLEBONA (a cura di), Colloqui Giuridici sul Lavoro, 2014, n. 1.
120 Ad esempio, con riferimento alle possibili politiche industriali di incentivo al c.d. back reshoring, vd. le mozioni concernenti iniziative volte a favorire il rientro delle imprese italiane che hanno delocalizzato la produzione all'estero approvate dalla Camera dei deputati l’11 settembre 2018, in xxx.xxxxxx.xx. Da un punto di vista di diritto del lavoro, vd., da ultimo, X. XXXXXXXXX, Covid: norme per proteggere l’occupazione, in Mass. Giur. Lav., 2020, n. 2, 443 ss., che propone, tra le disposizioni da emanare per proteggere l’occupazione, anche la seguente: “Le imprese italiane, che provano di essersi delocalizzate in altri stati anche cambiando il nome della società prima dell’entrata in vigore del presente decreto legge, possono rientrare in Italia assumendo cittadini italiani con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato o a termine con una retribuzione fino al trenta per cento inferiore a quella indicata dai contratti collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentativi del settore, con una decontribuzione totale per tre anni e con una imposta sul reddito del quindici per cento se il reddito non superi i sessantacinquemila euro o del venti per cento se il reddito è superiore”. Sul tema del reshoring, vd., tra gli altri, X. XXXXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXX, X. XXXXXXX, Strategie di back-reshoring in Italia: vantaggi competitivi per le aziende, opportunità di sviluppo per il Paese, in xxx.xxxxx.xx, 2015; X. XXXXXX (ed. by), Reshoring of Manufacturing. Drivers,
Nell’ambito delle teorie economiche, in ogni caso, negli ultimi anni si sono sviluppate diffuse rivalutazioni dell’ideologia neoliberista, e, in particolare, l’esigenza di contrastare il dumping normativo “ha massicciamente condizionato le più recenti elaborazioni teoriche generando voci di dissenso e rigurgiti di protezionismo”121.
La letteratura giuslavoristica si è sovente posta nei confronti del fenomeno del dumping sociale (di cui la delocalizzazione rappresenta, come visto, un’importante manifestazione) in un’ottica di transnazionalità, indagando soprattutto sulle possibili soluzioni di regolamentazione del commercio globale nel segno di un contemperamento tra esigenze concorrenziali del mercato e tutela dei diritti sociali122.
Opportunities, and Xxxxxxxxxx, Xxxxxxx, 0000; X. XXXXXXX, Reshoring. Come e perché far rientrare la produzione in Italia, Milano, 2016.
121 Così, X. XXXXXX, Delocalizzazioni, cit., 66, che richiama, tra gli altri, D. RODRIK, La globalizzazione intelligente, Bari, 2011; H.J. XXXXX, 23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo, Milano, 2010, 80, e, a proposito del fallimento degli assiomi delle teorie neoliberali, X. XXXXXXX, Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Milano, 2013, 256, secondo cui “la globalizzazione fondata su massicci investimenti diretti all’estero e le delocalizzazioni che ne sono derivate hanno soppresso milioni di posti di lavoro negli Usa, Regno Unito, Germania, Francia, Italia e altri Paesi, provocando in essi una marcata deindustrializzazione”. Con riferimento alle recenti politiche commerciali internazionali degli Stati Uniti, vd. X. XXXXXXXXX, Protezionismo e delocalizzazioni: perché la politica di Xxxxx è sbagliata, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 11 gennaio 2019.
122 Cfr., X. XXXXX, Dumping sociale e diritto del lavoro, cit., 619 ss.; M. XXXXXX, Droit du travail ou droit de la concurrence sociale? Essai sur un droit de la dignité de l’Homme au travail (re)mises en cause, Bruxelles, 2009; X. XXXXXXX, Globalizzazione e dumping sociale: quali rimedi?, in Lav. Dir., 2011, 13 ss.; X. XXXXX, X. XXXXXXX, Delocalizzazioni produttive e dumping sociale. Presentazione, ivi, 3 ss.; X. XXXXXXXX, Preferenze tariffarie generalizzate e core labour standards, ivi, 105 ss.; A. LYON-CAEN, X. XXXXXXX (a cura di), Liberalizzazione degli scambi, integrazione dei mercati e diritto del lavoro, Padova, 2005;
X. XXXXXXXX, Lavoro decente e responsabilità delle imprese multinazionali per le produzioni delocalizzate: panorama della legislazione italiana, in Lex social, 2020, vol. 10,
n. 2, 224 ss.; X. XXXX, Globalizzazione e diritti umani. Le clausole sociali dei trattati commerciali e negli scambi internazionali fra imprese, in WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.INT, 2017, n. 133; X. XXXXXXX, Diritti sociali e commercio internazionale: riflessioni in occasione di un centenario, in X. XXXXXXXX (a cura di), A tutela della prosperità di tutti. L’Italia e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro a cent’anni dalla sua fondazione, Milano, 2020, 65 ss.; X. XXXXX, Diritto del lavoro e catene globali del valore. La regolazione dei rapporti di lavoro tra globalizzazione e localismo, Torino, 2020; ID.,
Il presente studio si concentrerà, invece, sull’individuazione ed analisi di quelle norme, vigenti nell’ordinamento eurounitario e nazionale, che, in maniera più o meno diretta ed esplicita, pongono dei limiti al fenomeno delle delocalizzazioni, valutandone, nel dettaglio, i maggiori profili di criticità interpretativa ed applicativa.
Trattasi, per lo più, di previsioni “non di caratura strettamente lavoristica”123, le quali tuttavia interessano gli operatori e gli studiosi del mondo del lavoro, giacché sono dirette anche (se non principalmente) alla tutela dell’occupazione124.
Come già evidenziato, i principi della libertà d’impresa e del libero commercio rendono oltremodo complesso, per il legislatore (nazionale ed europeo), predisporre misure di contrasto, sic et simpliciter, alle delocalizzazioni, come del resto evidenziato anche dalla scarsa produzione normativa, al riguardo, sviluppatasi a livello comparatistico, nei paesi ove vigono i medesimi principi125.
Spiragli di fair trade nel commercio internazionale, in Dir. Lav. Merc., 2011, 419 ss.; X. XXXXXXX, Verso un nuovo diritto internazionale del lavoro?, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 2019, 487 ss.; X. XXXXXXXX, Globalizzazione e responsabilità sociale delle imprese transnazionali, in Lav. Dir., 2006, 149 ss.; X. XXXXX, Lavoro, mercato, “ordine spontaneo”, regolazione transnazionale, in Riv. It. Dir. lav., 2009, 277 ss.
123 In tal senso, X. XXXXX, Delocalizzazioni, cit., 117. Parla di “interventi di stampo giuslavoristico in senso ampio”, V. FILÌ, Decreto legge n. 87 del 2018 convertito nella legge
n. 96 e dignità dei lavoratori, in Lav. Giur., 2018, n. 10, 869, con riferimento alle misure anti-delocalizzazione previste dal recente Decreto dignità (vd. infra, cap. 3, par. 4).
124 Con riferimento alle cc.dd. norme-incentivo sul versante della promozione dell’occupazione, in un’ottica di raccordo tra diritto del lavoro e diritto pubblico dell’economia, vd., in dottrina, X. XXXXXXXXXX, Incentivi alla occupazione, aiuti di Stato, diritto comunitario della concorrenza, Torino, 2002. Vd., anche, X. XXXXXX, Sostegno all’occupazione e aiuti di stato “compatibili”, Xxxxxx, 0000.
000 Xx., xxxxxxxx, xx xxxxxx xxxxxxx, xx x.x. xxx Xxxxxxxx (x. 384 del 2014) in Francia, la quale prevede che le grandi imprese (e i gruppi) con oltre 1.000 dipendenti, ove decidano di cessare l’attività produttiva, sono obbligate ad individuare un acquirente per il sito produttivo dismesso, a tutela dell’occupazione. Cfr., X. XXXXX, X. XXXXXXX, L’ambition contrariée du dispositif «Florange» (à propos de la recherche d’un repreneur en cas de fermeture de site), in X. XXXXXXX, G. BORENFREUND (a cura di), Licenciements pour motifs économiques et restructuration, 2015, Parigi, 135 ss.; A. LYON-CAEN, Censure, in Revue de Droit du Travail, 2014, 221. Con riferimento agli Stati Uniti d’America, vd. X. XXXXXXX, A
Pertanto, a dispetto di titoli e rubriche di legge126, dev’essere, preliminarmente, precisato che la maggior parte delle misure che si andranno ad analizzare non hanno una portata di contrasto generale nei confronti del fenomeno, riferendosi solo alle delocalizzazioni effettuate da imprese che abbiano beneficiato, o che intendano beneficiare, di aiuti pubblici economici127.
Proposal to Prevent Offshoring: An Analysis of the Latest Anti-Offshoring Proposals, in Journal of International Business and Law, 2012, vol. 11, 205 ss; X. XXXXXXXX, Anti- Offshoring Legislation: The New Wave of Protectionism- The Backlash Against Foreign Outsourcing of American Service Jobs, in Richmond Journal of Global Xxx & Xxxxxxxx, 0000, 00 xx.; X. XXXXX, X. XXX, Xxxx-Xxxxxxxxxx Xxxxxxxxxxx xxx Xxxxxx Xxxxxx Federalism: The Constitutionality of Federal and State Measures Against Global Outsourcing of Professional Services, in Texas International Law Journal, 2009, 629 ss.
126 I quali, com’è stato evidenziato in dottrina, “sono naturalmente e inevitabilmente espressioni sintetiche e non assolvono, né possono assolvere, il compito di descrivere compiutamente il contenuto delle norme” e, talvolta, “possono indurre una inesatta rappresentazione dell’oggetto e delle finalità della legge, soprattutto tra i non addetti ai lavori e nell’ambito dei circuiti di comunicazione non tecnica”. Così, X. XXXXX, Le misure per il contrasto alla delocalizzazione, cit., 4. Il riferimento è, in particolare, alle disposizioni introdotte dal capo II, rubricato “Misure per il contrasto alla delocalizzazione e la salvaguardia dei livelli occupazionali” del d.l. n. 87 del 2018 (c.d. Decreto dignità).
127 Vd., ancora, sempre con riferimento alle misure del recente Decreto dignità, X. XXXXX, Le misure per il contrasto alla delocalizzazione, cit., 4, secondo il quale sarebbe più corretto parlare, tecnicamente, di misure dirette ad introdurre condizioni di legittimità ai fini del diritto al mantenimento degli aiuti di Stato concessi alle imprese beneficiarie.
CAPITOLO 2: I LIMITI ALLE DELOCALIZZAZIONI NELLA NORMATIVA EUROUNITARIA
Sommario: 1. Le libertà economiche fondamentali e le delocalizzazioni nell’Unione europea; 2. I limiti alle delocalizzazioni nel contesto della politica di coesione: rilievi introduttivi; 3. La disciplina degli aiuti di Stato nell’ordinamento eurounitario; 4. Gli obblighi di mantenimento nella disciplina degli aiuti a finalità regionale agli investimenti e degli aiuti agli investimenti a favore delle PMI; 5. I limiti alle delocalizzazioni verso gli stabilimenti incentivati: il contrasto alla pratica della c.d. “caccia alla sovvenzione”; 6. La stabilità delle operazioni nella disciplina dei Fondi SIE; 7. Cenni sui possibili scenari de iure condendo.
1. Le libertà economiche fondamentali e le delocalizzazioni nell’Unione europea
Come anticipato, la tutela delle libertà economiche fondamentali del mercato “unico” interno (libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali) rappresenta uno dei principi cardine su cui si basa l’Unione Europea, che favorisce l’integrazione economica degli Stati membri attraverso l’eliminazione delle barriere nazionali128.
128 Vd., tra gli altri, X. XXXXXXXXXXX, X. XXXXXXXX, X. XXXXXXXX, Il mercato interno: principi generali, in xxx.xxxxxxxx.xxxxxx.xx, dicembre 2020; A. ARENA, X. XXXXXXXX, X. XXXXXXXXXX, Mercato unico e libertà di circolazione nell'Unione europea, Torino, 2020; X. XXXXXXX, Diritto del mercato unico europeo e dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia,
Con riferimento allo specifico tema in analisi, risulta evidente come, anzitutto, la libera circolazione delle merci129 costituisca un importante fattore di sviluppo del fenomeno delle delocalizzazioni, soprattutto in quanto le imprese possono decidere di localizzare l’attività economico-produttiva in qualunque Stato membro, senza che ciò possa incidere sulla “commercializzazione” dei prodotti negli altri (spesso proprio quelli d’origine).
Come noto, il Titolo IV della parte terza (rubricata “Politiche e azioni interne dell’Unione”) del TFUE, disciplina, poi, la “libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali”130 e, in particolare, il capo 2 di tale Titolo disciplina il c.d. “diritto di stabilimento”131.
Al riguardo, l’art. 49 del TFUE prevede che le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro sono vietate, e che “tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursali o
Milano, 2019; X. XXXXXXXX, Il mercato interno dell'Unione europea. Le quattro libertà. Raccolta commentata di giurisprudenza della Xxxxx xx xxxxxxxxx xxxx'Xxxxxx xxxxxxx, Xxxxxx, 0000; X. XXXXXXX, Istituzioni di Diritto dell’Unione europea, Bari, 2011, 28; X. XXXXXXXXXXX, Il mercato unico europeo, Bologna, 2007.
129 L’art. 28, par. 1, del TFUE prevede che “l’Unione comprende un'unione doganale che si estende al complesso degli scambi di merci e comporta il divieto, fra gli Stati membri, dei dazi doganali all'importazione e all'esportazione e di qualsiasi tassa di effetto equivalente, come pure l'adozione di una tariffa doganale comune nei loro rapporti con i paesi terzi”.
130 Nel capo 1 di tale Titolo, dedicato ai “lavoratori”, l’art. 45, par. 1, del TFUE assicura “la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione”, la quale implica “l'abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro” (art. 45, par. 2). Ciò, è funzionale, evidentemente, alla costruzione di un mercato del lavoro europeo, “inteso quale logico e indispensabile complemento del mercato unico”. Così, M.A. IMPICCIATORE, Commento all’art. 45 TFUE, in X. XX XXXX XXXXXX, X. XXXXXXXX (diretto da), Commentario breve alle leggi sul lavoro, cit., 193.
131 In dottrina, vd., ex aliis, X. XXXXXXXXXX, La libertà di stabilimento, in X. XXXXXXX (a cura di), Diritto dell’Unione europea. Parte speciale, Torino, 2017, 175 ss. In prcedenza, vd. X. XXXXXXX, Free Movement in Xxxxxxxx Xxxxxxxxx Xxx, Xxxxxx, 0000; X. XXXXXXXX, La libertà di circolazione e di stabilimento nei paesi della Comunità economica europea, Xxxx, 0000.
filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro” (par. 1)132.
Ai sensi dell’art. 54 del TFUE, inoltre, “le società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale, l'amministrazione centrale o il centro di attività principale all'interno dell'Unione, sono equiparate”, ai fini dell'applicazione delle disposizioni del capo in analisi, “alle persone fisiche aventi la cittadinanza degli Stati membri”133.
Pertanto, in ambito eurounitario, è riconosciuta alle imprese la possibilità di trasferirsi in uno Stato membro diverso da quello di origine per ivi esercitare la propria attività economico-produttiva, in via primaria o secondaria134.
132 Il paragrafo 2 dell’art. 49 prevede che “la libertà di stabilimento importa l'accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell'articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del Paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali”. Vd., M.A. IMPICCIATORE, Commento all’art. 49 TFUE, in X. XX XXXX XXXXXX, X. XXXXXXXX (diretto da), Commentario breve alle leggi sul lavoro, cit., 206 ss.
133 Il paragrafo 2 dell’art. 54 prevede che “per società si intendono le società di diritto civile o di diritto commerciale, ivi comprese le società cooperative, e le altre persone giuridiche contemplate dal diritto pubblico o privato, ad eccezione delle società che non si prefiggono scopi di lucro”.
134 Così, R. TORINO, Diritto di stabilimento delle società e trasferimento transnazionale della sede. Profili di diritto europeo e italiano, in AA.VV., Aspetti di interesse notarile nel diritto dell'Unione europea, Viterbo, 2012, 158. Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, infatti, le disposizioni dei Trattati concernenti la libertà di stabilimento “sono applicabili anche a misure dello Stato di origine volte a ostacolare lo stabilimento in un altro Stato membro di uno dei suoi cittadini o di una società costituita conformemente al suo diritto”. Così, X. XXXXXXXX, La salvaguardia dei livelli occupazionali nel “decreto dignità”, in Lav. Giur., 2018, n. 12, 1086, che richiama, al riguardo le sentenze 11 marzo 2004, causa C-9/02; 27 novembre 2008, causa C-418/07; 1° ottobre 2009, causa C-247/08; 21 gennaio 2010, causa C-311/08. In particolare, la giurisprudenza comunitaria ha, in più di un’occasione, affermato l’incompatibilità con l’ordinamento europeo delle norme nazionali tese a limitare la libertà di stabilimento delle imprese, attraverso l’imposizione di limiti legali sia “all’entrata” di società incorporate in altri Stati membri (c.d. “host state point of view”) sia “all’espatrio” di società costituite in accordo con la legge dello stesso Stato membro (c.d. “home state point of view”). Al riguardo, vd., tra gli altri, F. PERNAZZA, La mobilità delle società in Europa da Daily Mail a Fiat Chrysler Automobiles, cit., 439 ss.; X. XXXX- XXXXXXX, The Governing Law of Companies in EU Law, Oxford, 2012; F.M. MUCCIARELLI,
La giurisprudenza comunitaria, nell’ambito di alcune ormai note recenti pronunce, ha, del resto, spesso sancito una tendenziale prevalenza delle libertà economiche rispetto ai diritti sociali e collettivi (sebbene nel contesto di un loro, comunque necessario, bilanciamento)135.
Xxxxxx, come evidenziato in dottrina, è soprattutto in relazione alla libertà di stabilimento europea che sono emersi, con maggiore evidenza, gli elementi di concorrenza tra sistemi, “frutto di libertà di circolazione non adeguatamente accompagnate da azioni di armonizzazione delle
Società di capitali, trasferimento all’estero della sede sociale e arbitraggi normativi, Milano, 2010; X. XXXXXXX TAGNANI, Mobilità transnazionale e stabilimento delle società nell’odierno mercato unico europeo, in Contr. Impr. Eur., 2015, 285 ss.
135 Il riferimento è, in particolare, alle sentenze della Corte di giustizia 11 dicembre 2007, C- 438/05, Viking; 18 dicembre 2007, C-341/05, Laval; 3 aprile 2008, C-346, Rüffert; 19 giugno 2008, C-319/06, Commissione c. Lussemburgo. In dottrina, tra i moltissimi, vd., T. XXX XXXX, Collective Labour Law after Viking, Laval, Rüffert, and Commission v. Luxembourg, in International Journal of Comparative Labour Law and Industrial Relations, 2009, 81 ss.;
X.X. XXXXXXXXX, X.X. XXXXXX, Xxxxxx, Xxxxx xxx Xxxxxx, Xxxxxx, 0000; N. HOS, The principle of proportionality in Viking and Laval: an appropriate standard of judicial review?, in Eur. Lab. Law Jour., 2010, n. 2, 236 ss.; X. XXXXXXXXX, Note critiche a margine delle sentenze della Corte di giustizia nei casi Laval e Viking, in Dir. Lav. Rel. Ind., 2008, 160 ss.;
X. XXXXXX, I diritti sociali nello spazio sociale sovranazionale e nazionale: indifferenza, conflitto o integrazione? (Prime riflessioni a ridosso dei casi Laval e Viking), in WP
C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.INT, 2008, n. 61; X. XXXXXX, La concorrenza fra ordinamenti in Europa dopo Laval, in Lav. Dir., n. 3, 2011, 467 ss.; F. XXXXXXXXXX, L’esercizio del diritto all’azione collettiva contro le libertà economiche fondamentali dopo i casi Laval e Viking, in Dir. Lav. Merc., 2008, n. 3, 493 ss.; M.V. BALLESTRERO, Le sentenze Viking e Laval: la Corte di giustizia “bilancia” il diritto di sciopero, in Lav. Dir., 2008, n. 2, 371 ss.; X. XXXXXXX, Viking e Laval: diritti collettivi e mercato nel recente dibattito europeo, in Lav. Dir., 2008, n. 2, 245 ss.; M. PALLINI, Law shopping e autotutela sindacale nell’Unione europea, in Riv. Giur. Lav., 2008, II, 3 ss.; A. LO FARO, Diritto al conflitto e conflitto di diritti nel mercato unico: lo sciopero al tempo della libera circolazione, in Rass. Dir. Pub. Eur., 2010, 45 ss. Vd., anche, Corte di giustizia 21 dicembre 2016, C-201/2015, AGET Iraklis, su cui cfr. M.D. FERRARA, Diritto al lavoro e libertà di stabilimento: quale è il pilastro e quale il basamento?, in Var. Dir. Lav., 2017, 1111 ss.; X. XXXXXXXXX, Libertà di stabilimento versus diritto del lavoro: ancora un bilanciamento “sbilanciato” tra libertà economiche e diritti dei lavoratori, in Dir. Lav. Rel. Ind., 2017, 203 ss. Con specifico riferimento al tema delle delocalizzazioni, vd. X. XXXXXXXXXX, Delocalizzazioni di imprese e azioni sindacali secondo la sentenza Viking, in Riv. Dir. Int., 2008, 776 ss.
regole applicabili a quelle attività economiche, tanto dal punto di vista del regime sociale, quanto dal punto di vista del regime fiscale”136.
E “il frutto avvelenato di una scelta non equilibrata” si riscontra, da un lato, nella “dannosissima” concorrenza fiscale che porta a una (incontrollata) delocalizzazione finanziaria, dall’altro, nelle delocalizzazioni produttive, derivanti appunto da “una inadeguata combinazione di libertà di stabilimento e di circolazione delle merci (o di prestazione dei servizi), in assenza di condizioni sociali omogenee”137.
Un importante fattore di incremento del fenomeno in analisi, poi, è rappresentato dal recente “allargamento” dell’Unione europea verso i paesi dell’Europa centro-orientale138, il quale - sebbene avvenuto, soprattutto, con la finalità di ottenere vantaggi economici (in termini di dimensioni del mercato interno), nonché di rafforzare la competitività europea nell’economia mondiale139 - ha, tuttavia, certamente acuito il problema delle delocalizzazioni intra UE140.
136 Così, X. XXXXXXX, Riflessioni sull’autonomia come limite: l’equilibrio tra libertà e condizionamento nel diritto dell’Unione europea, tra Unione, Stati membri ed individui, in AA.VV., Liber Amicorum Xxxxxxx Xxxxxxx. De la Cour CECA à la Cour de l’Union: le long parcours de la justice européenne, Torino, 2018, 234, il quale evidenzia che non è un caso che siano proprio questi i regimi “le cui diversità inducono più marcatamente la concorrenza tra sistemi nazionali”, trattandosi di due ambiti in cui l’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri è sottoposta a procedure speciali che richiedono l’unanimità nel Consiglio. 137 Così, ancora, X. XXXXXXX, Riflessioni sull’autonomia come limite, cit., 234.
138 Repubblica ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia e Slovenia (oltre a Malta e Cipro). Vd. il Trattato di Adesione firmato ad Atene il 16 aprile 2003. Successivamente, sono divenuti Stati membri anche la Bulgaria e la Romania, dal 1° gennaio 2007, e la Croazia, dal 1° luglio 2013.
139 Cfr. il Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema Gli effetti dell'ampliamento dell'Unione sul mercato unico (2003/C 85/23).
140 Xx, X. XXXXXXX, Industrial Relocation and Labour Relations: The Case of Central and Eastern Europe, in International Journal of Comparative Labour Law and Industrial Relations, 2007, vol. 23/1, 35 ss.; B.M. XXXXXXXXX, The Political Economy of Outsourcing in the European Union and the East-European Enlargement, in Business and Politics, 2006, 8(2), 1 ss.
Ed infatti, anche se le comunità europee sono sempre state caratterizzate da squilibri regionali (“nei livelli di reddito, di occupazione e di produttività, i quali a loro volta riflettono le differenze nei livelli di indebitamento, nei vantaggi fiscali e nell'atteggiamento verso l'innovazione”), è evidente che dopo tale ampliamento queste disparità regionali si siano notevolmente accentuate141, incrementandosi la “costruzione di arcipelaghi produttivi a salari e condizioni di lavoro differenziati”142.
2. I limiti alle delocalizzazioni nel contesto della politica di coesione: rilievi introduttivi
La predisposizione, in ambito eurounitario, di misure di contrasto, tout court, al fenomeno delle delocalizzazioni, ad ogni modo, risulta alquanto complessa, in ragione, tra l’altro, della eterogeneità degli stati membri, del difficile inquadramento del fenomeno (vd. supra, cap. 1), e della, poc’anzi evidenziata, importanza attribuita alle libertà di mercato e d’impresa143.
141 Così, il Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema Portata ed effetti della delocalizzazione delle imprese, cit., ove si evidenzia che i paesi dell’Europa centro-orientale hanno “un vantaggio per quanto concerne le industrie ad alta intensità di manodopera, risorse ed energia, mentre soffrono di svantaggi comparati in termini di industrie ad alta intensità di capitale, tecnologia e qualificazioni”. Vd., X. XXXXXXXXXXX, Le scelte di delocalizzazione produttiva nell’Europa centro-orientale, Xxxx, 0000.
142 Così, D. XXXXXXXXX, Mobilità della forza lavoro e del capitale, cit., 139. E ciò, del resto, mettendo “in pericolosa concorrenza i sistemi (sociali e politici) nazionali: a tutto discapito della sostenibilità politica di lungo termine del progetto di integrazione europea”. Così, X. XXXXXXX, Riflessioni sull’autonomia come limite, cit. 234.
143 Vd., anche, l’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che riconosce “la libertà d’impresa, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali”. La stessa Commissaria europea per l'Occupazione, gli affari sociali, le competenze e la mobilità dei lavoratori (Xxxxxxxx Xxxxxxx), nella risposta all’interrogazione del Parlamento europeo del 15 marzo 2018, E-001584-18, intitolata “Delocalizzazione
Ciò non significa, tuttavia, che non esistano (né possano esistere) normative europee che perseguano una finalità di contrasto alle delocalizzazioni, rinvenibili soprattutto nell’ambito dello specifico settore ordinamentale della politica di coesione economica, sociale e territoriale (vd. infra, par. 6).
Come vedremo, in ambito europeo, la possibilità di concedere benefici economici “pubblici” alle imprese (finanziati dagli Stati membri o dalla stessa Unione) è sottoposta a stringenti regole causali, soprattutto a tutela della libera concorrenza.
Tuttavia, una volta riconosciuta la legittimità del beneficio, è evidente come sorga, in capo alle istituzioni pubbliche che lo concedono, l’interesse acché lo stesso sia “mantenuto” nel territorio beneficiario, al fine di raggiungere l’obiettivo prefissato (per il quale l’aiuto è stato riconosciuto) e di radicare la presenza delle imprese (aiutate) in quel determinato territorio, anche contrastandone la delocalizzazione.
Il fine principale è, dunque, quello di non “sprecare”, le risorse derivanti dalla finanza pubblica, frustrando gli obiettivi di interesse generale, in primis occupazionali, per i quali i benefici pubblici vengono concessi.
selvaggia verso l'Est Europa. Urge intervento della Commissione per frenare il dumping sociale nell'UE”, in xxx.xxxxxxxx.xxxxxx.xx, ha ammesso che la Commissione europea non ha “il potere di interferire nelle decisioni delle imprese in merito ai piani di riorganizzazione”, potendo, al più, solo esortare le stesse ad attenersi alle “buone pratiche in materia di anticipazione e gestione socialmente responsabile delle ristrutturazioni”. Vd., anche, le risposte della Commissione europea n. E-6133/2009 del 24 marzo 2010, ove si evidenzia che “the Commission does not have the power to issue fines or judgments on relocating firms, nor is it aware of any such fines or judgments being made by other EU institutions or Member State bodies”, e n. E-009357/2011 del 16 novembre 2011 all’interrogazione parlamentare rubricata “Possible state aid use in relocation of Givaudan factory” del 19 ottobre 2011, ove viene evidenziato che la Commissione “has no authority to interfere with decisions taken by private companies concerning closure, restructuring or relocation of establishments”.
Sicché, nella normativa eurounitaria, sono rinvenibili talune fattispecie “sanzionatorie” (o, meglio, “revocatorie” o “decadenziali”), che riguardano soprattutto il sostegno agli investimenti produttivi, le quali perseguono l’obiettivo di non vanificare, a causa delle delocalizzazioni, le finalità di sviluppo cui il sostegno è finalizzato.
Inoltre, come vedremo, in una diversa prospettiva, nella normativa eurounitaria sono, altresì, rinvenibili misure limitative del fenomeno delle delocalizzazioni collegate al momento della concessione stessa del beneficio, la quale viene vincolata al fatto che l’impresa non abbia, per beneficiare dell’aiuto, delocalizzato (o comunque non abbia intenzione di delocalizzare) l’attività economico-produttiva verso lo stabilimento incentivato.
In questo caso, quindi, la finalità è soprattutto quella di limitare la
c.d. unfair competition di alcuni Stati membri che, tramite la concessione di aiuti (spesso finanziati dagli stessi fondi comunitari), attirano gli investimenti delle imprese nel proprio territorio.
Le normative che saranno analizzate sono, quindi, prevalentemente tese a regolare la concessione dei finanziamenti pubblici, evitandone usi abusivi e fraudolenti, come “argomento di contrasto” alle delocalizzazioni.
Come evidenziato dalla stessa Relazione illustrativa al Decreto dignità, la disciplina europea ammette, infatti, vincoli alle imprese nella materia di tali finanziamenti, quali limiti, in senso ampio, alle delocalizzazioni, “sul presupposto logico e giuridico che essi costituiscono in senso proprio oneri al fine di beneficiare del sussidio pubblico e non quindi obblighi che comprimono ingiustificatamente la libertà di impresa nelle sue varie espressioni”.
Anzitutto, è opportuno ricostruire, sinteticamente, il quadro normativo delle regole (concorrenziali144) che disciplinano la materia degli aiuti di Stato nell’ordinamento eurounitario145, in quanto è soprattutto in tale settore normativo che sono riscontrabili le principali misure anti-delocalizzazione.
3. La disciplina degli aiuti di Stato nell’ordinamento eurounitario
Come noto, il TFUE prevede, all’interno del Titolo VII (“Norme comuni sulla concorrenza, sulla fiscalità e sul ravvicinamento delle legislazioni”), capo 1 (“Regole di concorrenza”), sezione 2 (“Aiuti concessi dagli Stati”), che “salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante
144 Cfr., X. XXXXXXXX, La tutela della concorrenza mediante il divieto di aiuti di Stato, in Dir. Pubb., 2010, 195 ss.; J.J. XXXXXXX XXXXX, The Concept of State Aid under EU Law. From internal market to competition and beyond, Xxxxxx, 0000.
145 Sulla disciplina degli aiuti di Stato nell’ordinamento comunitario, cfr., tra gli altri, X. XXXXX DAL POZZO, Codice degli aiuti di Stato, Torino, 2019; X. XXXXX, Xxxxxxxx Xxxxx Xxx xx Xxxxx Xxx, Xxxxxx, 0000; X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX (ed. by), State Aid Law of the Xxxxxxxx Xxxxx, Xxxxxx, 0000; X. XXXXXX, X. XXXXXXXXX (ed. by), EU State Aid Control. Law and Economics, Alphen aan den Rijn, 2017; X. XXXXXXX, Gli aiuti di Stato, in X. XXXXXXX (a cura di), Diritto dell’Unione europea. Parte speciale, Torino, 2017, 381 ss.; C.E. BALDI, La disciplina comunitaria degli aiuti di Stato. Manuale critico ad uso delle amministrazioni e delle imprese, Rimini, 2016; X. XXXXXXX, Aiuti di Stato: profili sostanziali e rimedi giurisdizionali, Padova, 2012; X. XXXXXXX, Aiuti di Stato, in Dig. disc. pubbl., agg., IV, Torino, 2010, 1 ss.; X. XXXXXXX, Gli aiuti di Stato nel diritto comunitario, Napoli, 1995; C. MALINCONICO, Aiuti di Stato, in M.P. XXXXX, X. XXXXX (a cura), Trattato di diritto amministrativo europeo, Parte speciale, Tomo I, Milano, 2007, 65 ss.; A. BIONDI, Gli aiuti di Stato, in X. XXXXXXXX, X. XXXXXXXXX (a cura di), La concorrenza, in X. XXXXX, G.A. BENACCHIO (diretto da), Trattato di diritto privato dell’Unione Europea, Torino, 2006, 447 ss.; X. XXXXXXXX (a cura di), Gli aiuti di Stato alle imprese nel diritto comunitario, Milano, 1998; X. XXXXXXXXX, X. XXXXXXX, Gli aiuti di Stato nel diritto comunitario, Napoli, 1997.
risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza” (art. 107, par. 1, TFUE)146.
Sicché, in ragione di tale fonte primaria dell’ordinamento comunitario, gli aiuti economici alle imprese concessi dagli Stati membri sono, in linea di principio, vietati, in quanto incompatibili con il mercato interno147.
Con riferimento al tema specifico delle delocalizzazioni, tale divieto costituisce, già di per sé, un possibile fattore di sviluppo del fenomeno, rappresentando un limite, in particolare, per quegli Stati membri che volessero “incentivare” le imprese a restare nel proprio territorio148.
Mutatis mutandis, va evidenziato, tuttavia, che anche le deroghe a tale divieto (di cui si dirà a breve), possono creare distorsioni nel mercato interno, nel senso di “incentivare” le delocalizzazioni delle attività economico-produttive verso quegli Stati che sono legittimati a
146 Vd. X. XXXXX, Commento all’art. 107 TFUE, in X. XX XXXX XXXXXX, X. XXXXXXXX (diretto da), Commentario breve alle leggi sul lavoro, cit., 220 ss.
147 Sebbene il divieto non abbia un effetto prescrittivo diretto, nel senso che, come si vedrà, il riconoscimento dell’incompatibilità di un aiuto con il mercato interno avviene tramite un apposito procedimento di competenza della Commissione europea, ex articolo 108 del TFUE. In tal senso, le Schede di lettura del Decreto dignità, cit.
148 Gli Stati membri, dunque, possono intervenire solo con misure di ausilio consentite dalle regole europee o, comunque, attraverso misure generali di politica economica e sociale. Vd.,
X. XXXXXXXX, Aiuti di Stato, misure generali di politica economica e sociale ed incentivi assunzionali, in WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT, 2018, n. 369; X. XXXXX, D. XXXXXXXXX, Can general measures be … selective? Some thoughts on the interpretation of a State aid definition, in Common Market Law Review, 2008, vol. 45, 159 ss. In ambito politico nazionale, ad esempio, l’ex ministro dello Sviluppo economico (Xxxxxxx) aveva sollevato la questione di poter prevedere, in ambito europeo, delle deroghe alla normativa sugli aiuti di stato che consentissero di offrire aiuti ad hoc alle imprese intenzionate a delocalizzare, per neutralizzare le differenze di costo nei fattori produttivi. Vd., al riguardo, in termini critici (in ragione della ritenuta “spirale” di minacce da parte delle imprese che ne potrebbe conseguire), X. XXXXXXXXXXX, Delocalizzare (non) stanca: il caso Embraco e la vibrante protesta del ministro, in xxx.xxxxxxxxxxxxxx.xxxx, 21 febbraio 2018.
concedere gli aiuti, alimentando pratiche di c.d. “caccia alla sovvenzione” (vd., infra, par. 5).
La Commissione europea ha, di recente, nel quadro della c.d. modernizzazione degli aiuti di Stato149, fornito, con la Comunicazione 2016/C 262/01 del 17 luglio 2016150, una serie di precisazioni in ordine alla nozione di aiuto di Stato (di cui all'art. 107, par. 1, del TFUE), “onde garantire un'applicazione più agevole, trasparente e coerente di questa nozione in tutta l'Unione” (punto 1).
Al riguardo, la Commissione ha precisato che la nozione di aiuto di Stato rappresenta un concetto giuridico oggettivo151, che è caratterizzato dai seguenti elementi costitutivi: “la sussistenza di un'impresa, l'imputabilità della misura allo Stato, il suo finanziamento tramite risorse statali, il conferimento di un vantaggio, la selettività della misura e i suoi effetti sulla concorrenza e sugli scambi tra Stati membri”152.
149 Vd. la Comunicazione della Commissione europea COM(2012) 209 final dell’8 maggio 2012, sulla “modernizzazione degli aiuti di Stato dell’UE”. In dottrina, cfr. X. XXXXXXXXXX, Il processo di modernizzazione della normativa sugli aiuti di Stato con particolare riferimento al nuovo regime delle responsabilità nazionali e delle imprese nella sistematica degli aiuti di Stato, in X. XXXXXXXX (a cura di), La politica della concorrenza e degli aiuti di Stato in Europa. Quali strumenti di garanzia per l’evoluzione del mercato interno?, Lussemburgo, 2014, 53 ss.; X. XXXXXXXX (a cura di), La “modernizzazione” della disciplina sugli aiuti di Stato. Il nuovo approccio della Commissione europea e i recenti sviluppi in materia di public e private enforcement, Torino, 2011.
150 Rubricata “Comunicazione della Commissione sulla nozione di aiuto di Stato di cui all'articolo 107, paragrafo 1, del trattato sul funzionamento dell'Unione europea”.
151 Cfr. la sentenza della Corte di giustizia del 22 dicembre 2008, British Aggregates/Commissione, C-487/06, punto 111.
152 Come evidenziato in dottrina, la nozione di aiuto di Stato rilevante ai fini degli scambi intracomunitari, consta, in particolare, della presenza di quattro elementi: a) il vantaggio economico per l’impresa beneficiaria; b) l’incidenza sul commercio nel mercato interno; c) la selettività, nel senso della propensione a favorire solo alcune imprese e non la totalità delle imprese nazionali; d) il trasferimento di risorse pubbliche. Così, X. XXXXXX, Le nuove misure amministrative di contrasto alle delocalizzazioni, cit., 1641. Vd., anche, X. XXXXXXXXX, Aiuti di Stato (diritto dell’Unione europea), in Enc. Dir., ann., IV, Milano, 2013, 19 ss.
In particolare, è il criterio della selettività153 che, principalmente, differenzia gli aiuti di Stato dalle misure generali di politica economica e sociale (anche di politica attiva per il lavoro154), e per qualificare una misura come selettiva occorre stabilire se, nell’ambito di un dato regime giuridico, il provvedimento statale sia tale da favorire talune imprese rispetto ad altre che si trovino in una situazione fattuale e giuridica analoga e che sono, quindi, “oggetto di un trattamento differenziato idoneo, in sostanza, ad essere qualificato come discriminatorio”155.
Il successivo paragrafo 2 dell’art. 107 TFUE prevede, tuttavia, come anticipato, alcune deroghe al principio generale di incompatibilità degli aiuti di Stato con il mercato interno, stabilendo, anzitutto, che sono legittimi (i) gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori, a condizione che siano accordati senza discriminazioni determinate dall'origine dei prodotti e (ii) gli aiuti destinati a ovviare ai
153 Cfr., tra gli altri, X. XXXXX, Recenti sviluppi sulla nozione di selettività in materia di aiuti di Stato, in AA.VV., Liber Amicorum Xxxxxxx Xxxxxxx. De la Cour CECA à la Cour de l’Union: le long parcours de la justice européenne, Torino, 2018, 210 ss.; A. CUOCO, X. XXXXXXXXX, Il requisito della selettività degli aiuti di Stato in una recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 2017, I, 217 ss.
154 Vd., P. POZZAGLIA, I limiti alla delocalizzazione e la salvaguardia dell’occupazione nel caso di fruizione di aiuti di Stato, in X. XXXXXX, P. POZZAGLIA, Il Decreto dignità. Commento alle norme lavoristiche, Torino, 2018, 86.
155 Così, X. XXXXXX, Limiti alle delocalizzazioni e modelli di aiuti, in X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), “Decreto Dignità”, cit., 125, che richiama, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, le sentenze 28 giugno 2018, ANGED/Diputación General de Xxxxxx, cause riunite C-236/16 e 237/16, punti 25-36; 28 giugno 2018, Xxxx Xxxxxx/Commissione, causa C-203/16 P, punti 80-83; 21 dicembre 2016, Commissione/World Duty Free Group e a., C- 20/15 P e C-21/15 P, punto 54; 15 novembre 2011, Commissione e Spagna/Government of Gibraltar e Regno Unito, C-106/09 P, punto
74. L’Autrice, inoltre, evidenzia che la valutazione di una misura in termini di “selettività” non è, in ogni caso, semplice, giacché il suo carattere selettivo può desumersi da diversi criteri, come, ad esempio, dall’individuazione di imprese aventi caratteristiche specifiche o dal tipo di operazione economica, poiché favorendo talune operazioni economiche si favoriscono talune imprese (ad esempio le imprese che effettuano operazioni transfrontaliere e non le imprese che effettuano le medesime operazioni a livello nazionale), o ancora “si può adottare come contesto giuridico di riferimento il territorio dello Stato membro nella sua interezza, oppure la porzione di territorio nel quale un’autorità regionale o locale esercita la competenza che le deriva dalla costituzione o dalla legge”.
danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali156.
Il paragrafo 3 dell’art. 107 TFUE, poi, prevede che “possono” considerarsi compatibili con il mercato interno: a) gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle “regioni” ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure ove si abbia una grave forma di “sottoccupazione”, nonché quello delle regioni di cui all'articolo 349 TFUE157, tenuto conto della loro situazione strutturale, economica e sociale; b) gli aiuti destinati a promuovere la realizzazione di un importante progetto di comune interesse europeo oppure a porre rimedio a un grave turbamento dell'economia di uno Stato membro; c) gli aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune “attività” o di talune “regioni economiche”, sempre che non alterino le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse; d) gli aiuti destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio, quando non alterino le condizioni degli scambi e della concorrenza nell'Unione europea in misura contraria all'interesse comune; e) le altre categorie di aiuti, determinate con decisione del Consiglio, su proposta della Commissione158.
156 Con riferimento agli aiuti di Stato concessi nell’ambito dell’emergenza sanitaria da Covid- 19, vd., X. XXXXX, COVID-19 e aiuti di Stato: il Quadro temporaneo introdotto dalla Commissione e le misure di sostegno adottate dagli Stati membri, in AA.VV., L’emergenza sanitaria Covid-19 e il diritto dell’Unione europea. La crisi, la cura, le prospettive, 2020, Milano, 149 ss.
157 Il riferimento è alle cc.dd. regioni ultraperiferiche. Si tratta più precisamente dei territori francesi della Guadalupa, della Guyana, della Martinica, della Riunione e di Saint Xxxxxx, di quelli portoghesi delle Azzorre e di Madera, nonché di quelli spagnoli delle isole Canarie. Vd. X. XXXXXXXXX, Commento all’art. 349 del TFUE, in A. TIZZANO (a cura di), Trattati dell’Unione Europea, Milano, 2014, 2529 ss.
158 Vd., X. XXXXXXXX, Aiuti di Stato, cit., 3, il quale evidenzia che “all’iniziale impostazione, che vedeva la creazione del mercato comune strettamente legata all’abolizione di ogni limitazione alla circolazione di merci e persone e alla garanzia di una effettiva paritaria concorrenza tra le imprese, con la creazione dell’Unione Europea si sono affiancati sempre di più obiettivi di natura sociale, che determinano un inevitabile bilanciamento con i principi
A livello procedurale, secondo l’art. 108, paragrafo 3, del TFUE, gli Stati membri devono notificare alla Commissione europea, in tempo utile affinché possa presentare le sue osservazioni, i progetti diretti a istituire o modificare gli aiuti (e ove la Commissione li ritenga incompatibili con il mercato interno sarà attivata la procedura d’infrazione prevista dal paragrafo 2 dello stesso articolo 108).
Il paragrafo 4 dell’art. 108 del TFUE, infine, prevede che la Commissione può adottare regolamenti concernenti le categorie di aiuti di Stato per le quali il Consiglio abbia stabilito, conformemente all'art. 109 del TFUE159, che possono essere dispensate dalla procedura di cui al paragrafo 3 dello stesso art. 108.
Come noto, con il Regolamento n. 994 del 7 maggio 1998, il Consiglio ha autorizzato la Commissione a dichiarare, mediante regolamenti cc.dd. “di esenzione”, che, a determinate condizioni (inerenti, soprattutto, alla minimizzazione delle possibili distorsioni della concorrenza, alla limitazione dei costi, etc.), possono essere esentate dall'obbligo di notifica (e dunque sono compatibili con il mercato interno) alcune categorie di aiuti di Stato, tra cui: (i) quelli a favore delle piccole e medie imprese (PMI)160; (ii) quelli per la ricerca
posti a garanzia della concorrenza”. Sul tema dello sviluppo sostenibile in un’economia sociale di mercato (vd. art. 2, comma 3, TUE), l’Autore richiama, tra gli altri, X. XXXXX, Diritto del lavoro, concorrenza e mercato. Le prospettive dell’Unione Europea, Padova, 2012, 6 ss.; X. XXXXXXXX, Tutela del lavoro e concorrenza tra imprese nell’ordinamento dell’Unione Europea, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 2010, 511 ss.; P. XX XXXXXXXX, Xxxxxx concorrenza ed economia sociale nel Trattato di Lisbona, in Dir. Pubb. Comp. Eur., 2009, 85 ss. Vd., anche, X. XXXXXX, Diritto del lavoro e sviluppo sostenibile, Xxxxxx, 0000.
159 L’art. 109 del TFUE stabilisce che “il Consiglio, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, può stabilire tutti i regolamenti utili ai fini dell'applicazione degli articoli 107 e 108 e fissare in particolare le condizioni per l'applicazione dell'articolo 108, paragrafo 3, nonché le categorie di aiuti che sono dispensate da tale procedura”.
160 Cfr. la Raccomandazione della Commissione europea del 6 maggio 2003 relativa alla definizione delle microimprese, piccole e medie imprese.
e lo sviluppo; (iii) quelli per la tutela dell'ambiente; (iv) quelli all'occupazione e alla formazione; (v) quelli conformi alla carta approvata dalla Commissione per ciascuno Stato membro per l'erogazione degli aiuti “a finalità regionale”161.
Su tale base, la Commissione ha adottato, da ultimo, prima, il Regolamento n. 800 del 2008 (“Regolamento della Commissione che dichiara alcune categorie di aiuti compatibili con il mercato comune in applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato”162) - vigente, ai sensi del Regolamento n. 1224 del 2013, sino al 30 giugno 2014 – e, successivamente, nell’ambito della c.d. strategia di modernizzazione degli aiuti di Stato dell’Unione europea, il Regolamento del n. 651 del
17 giugno 2014, rubricato “Regolamento della Commissione che dichiara alcune categorie di aiuti compatibili con il mercato interno in applicazione degli articoli 000 x 000 xxx xxxxxxxx”, xx vigore dal 1° luglio 2014 fino al 31 dicembre 2023163.
161 Il Regolamento n. 994/98 è stato successivamente modificato dal Regolamento n. 733 del 22 luglio 2013, che ha individuato nuove categorie di aiuti che beneficiano dell'esenzione, tra cui: gli aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati da determinate calamità naturali, quelli a carattere sociale per i trasporti a favore dei residenti in regioni remote, quelli per le infrastrutture a banda larga, quelli a favore dell'innovazione, gli aiuti per la cultura e la conservazione del patrimonio e gli aiuti per le infrastrutture sportive e le infrastrutture ricreative multifunzionali. Il Regolamento n. 994/98 è stato successivamente abrogato dal Regolamento del 13 luglio 2015 n. 2015/1588, “sull'applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea a determinate categorie di aiuti di Stato orizzontali”, che ha “codificato” la materia a fini di chiarezza e razionalizzazione. Da ultimo, il Regolamento del 2015 è stato modificato dal Regolamento n. 1911 del 26 novembre 2018 che ha aggiunto le ulteriori categorie dei finanziamenti erogati mediante strumenti finanziari o garanzie di bilancio dell'UE a gestione centralizzata o da essi sostenuti (qualora l'aiuto sia concesso sotto forma di un finanziamento aggiuntivo fornito mediante risorse statali) e dei progetti sostenuti da programmi di cooperazione territoriale europea dell'Unione.
162 Corrispondenti agli attuali articoli 107 e 108 TFUE. Con riferimento ai precedenti singoli regolamenti di esenzione particolari, vd. X. XXXXXXX, I regolamenti di esenzione per categoria nel settore degli aiuti di Stato, in Conc. Merc., 2001, 355 ss.
163 L’estensione della validità temporale del GBER è stata effettuata dall’art. 2, par. 1, punto 5, del Regolamento n. 972 del 2 luglio 2020 (“Regolamento della Commissione che modifica il regolamento (UE) n. 1407/2013 per quanto riguarda la sua proroga e il regolamento (UE)
n. 651/2014 per quanto riguarda la sua proroga e gli adeguamenti pertinenti”).
Tale Regolamento “generale di esenzione per categoria” (c.d. GBER, General Block Exemption Regulation) stabilisce, dunque, le condizioni affinché i “regimi di aiuti”, gli aiuti ad hoc e gli aiuti individuali164 possano essere considerati compatibili con il mercato interno ai sensi dell'art. 107, parr. 2 e 3, TFUE e, quindi, siano esentati dall'obbligo di notifica di cui all'art. 108, par. 3, TFUE (vd. art. 3 del GBER)165.
I principi comuni su cui si fondano le norme di esenzione sono quelli “atti a garantire che l'aiuto persegua obiettivi di interesse comune, abbia un chiaro effetto di incentivazione, sia opportuno e proporzionato, sia concesso in piena trasparenza e sottoposto a un meccanismo di controllo e a una periodica valutazione e non alteri le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse”166.
164 Ai sensi dell’art. 2, nn. 14) e 15), del GBER, gli aiuti individuali sono gli aiuti ad hoc e gli aiuti concessi a singoli beneficiari nel quadro di un “regime di aiuti” (definito come qualsiasi atto in base al quale, senza che siano necessarie ulteriori misure di attuazione, possono essere concessi aiuti individuali a favore di imprese definite in maniera generale e astratta nell'atto stesso, così come qualsiasi atto in base al quale un aiuto non legato a un progetto specifico può essere concesso a una o più imprese per un periodo di tempo indefinito e/o per un ammontare indefinito).
165 Sicché, in definitiva, nell’ambito della disciplina europea in tema di aiuti di Stato, con riferimento al percorso di verifica della loro compatibilità, sono riscontrabili, da un lato, gli aiuti c.d. “notificati”, i quali “possono risultare compatibili all’esito di un (lungo) percorso che parte dalla notifica alla Commissione e sfocia nella decisione dell’organo di controllo con un obbligo di stand-still nelle more della pronuncia stessa”, e, dall’altro lato, gli aiuti
c.d. “esentati”, che, invece, “transitano per un canale privilegiato che sposta a una fase successiva (ed eventuale) il controllo sopranazionale, ma impone la conformità della misura interna alle condizioni fissate nell’apposito GBER e consente l’erogazione dei benefici”. Così, X. XXXXXX, Delocalizzazioni, cit., 71-72, che richiama, per una valutazione critica di tale sistema “a due velocità”, J.L. XXXXXXX SIERRA, ‘Small On Small’: Towards a Two-Speed State Aid Control?, in EStAL, 2016, n. 4, 501.
166 Così il Considerando n. 5 del GBER. Cfr., sulla dimensione sociale della normativa sugli aiuti di Stato, X. XXXXX, X.X. XXXXXXX XXXXX, The Social Dimension of EU State Aid Law and Policy, in Cambridge Yearbook of European Legal Studies, 2019, n. 21, 75 ss.
4. Gli obblighi di mantenimento nella disciplina degli aiuti a finalità regionale agli investimenti e degli aiuti agli investimenti a favore delle PMI
Nell’economia del presente studio, assume rilievo, in primis, quanto previsto dall’art. 14 del GBER, rubricato “aiuti a finalità regionale agli investimenti”, i quali, ai sensi dell’art. 2, punto 41, del GBER sono quegli “aiuti a finalità regionale concessi per un investimento iniziale o per un investimento iniziale a favore di una nuova attività economica”167, in una determinata area territoriale168.
Gli aiuti a finalità regionale promuovono, dunque, la coesione economica, sociale e territoriale degli Stati membri e dell'Unione nel suo complesso (vd. infra, par. 6)169, incoraggiando lo sviluppo (anche
167 Secondo il paragrafo 3 dell’articolo 14 del GBER gli aiuti a finalità regionale possono essere concessi per un qualunque investimento iniziale (i.e., come specificato nel Considerando n. 31 del GBER, la creazione di un nuovo stabilimento, l'ampliamento della capacità di uno stabilimento esistente, la diversificazione della produzione di uno stabilimento o un cambiamento fondamentale del processo produttivo complessivo di uno stabilimento esistente), a prescindere dalle dimensioni del beneficiario, nelle zone assistite che soddisfano le condizioni di cui all’art. 000, xxx. 0, xxxx. x), XXXX; mentre, in quelle che soddisfano le condizioni di cui all’art. 107, par. 3, lett. c), TFUE, gli aiuti a finalità regionale possono essere concessi (rectius, esentati dall’obbligo di notifica) solo in favore delle PMI per qualsiasi forma di investimento iniziale, potendo quelli alle grandi imprese essere concessi solo per un investimento iniziale “a favore di una nuova attività economica” nella zona interessata. Ciò in quanto, rispetto alle PMI, le grandi imprese, nell’ottica del legislatore europeo, tendono ad essere meno esposte agli svantaggi regionali quando investono in una zona che soddisfa le condizioni di cui all'articolo 107, par. 3, lett. c), TFUE (in tal senso, ancora, il Considerando n. 31 del GBER). Vd., X. XXXXXXXXXXXX, Aiuti di Stato a finalità regionale, in xxx.xxxxxxxx.xxxxxx.xx, dicembre 2020.
168 Con riferimento all’Italia, vd. Commissione Europea, “Aiuto di Stato SA.38930 (2014/N)
– Italia. Carta degli aiuti di Stato a finalità regionale 2014-2020”, C(2014) 6424 final, Bruxelles, 16 settembre 2014.
169 Al riguardo, cfr. X. XXXXXXXX, Contrasto alla precarietà e delocalizzazioni, cit., 171, il quale evidenzia che trattasi di aiuti localmente vincolati “perché sono finalizzati alla coesione economica e sociale, con l’obiettivo di garantire una crescita diffusa dell’economia europea”.
occupazionale) delle regioni più sfavorite, “tramite incentivi agli investimenti e la creazione di posti di lavoro in un contesto sostenibile” (vd. il Considerando n. 31 del GBER)170.
Il paragrafo 2 dell’art. 14 del GBER, anzitutto, specifica che tali aiuti sono concessi nelle zone assistite di cui all’art. 107, par. 3, lett. a) e c) (vd. supra), mentre il paragrafo 4 dello stesso articolo stabilisce che sono, a tal fine, ammissibili: a) i costi per gli investimenti materiali e immateriali; b) i costi salariali stimati relativi ai posti di lavoro creati per effetto di un investimento iniziale, calcolati su un periodo di due anni; o c) una combinazione dei costi di cui alle lettere a) e b), purché l'importo cumulato non superi l'importo più elevato fra i due171.
Come evidenziato dal Considerando n. 35 del GBER, infatti, per evitare di favorire solo gli investimenti in capitale rispetto agli investimenti nei costi del lavoro, “è necessario che gli aiuti a finalità regionale agli investimenti siano misurabili sulla base sia dei costi di investimento che dei costi salariali relativi ai posti di lavoro creati direttamente da un progetto d'investimento”.
170 Il diritto eurounitario, in particolare, consente agli Stati, per finalità di coesione economica e sociale, di erogare forme di sostegno ad investimenti produttivi aventi una destinazione territoriale specifica, “essendo la riduzione delle disparità di sviluppo fra le circoscrizioni interne dei Paesi membri uno degli scopi dell’azione dell’Unione europea”. Così, X. XXXXXX, Le nuove misure amministrative di contrasto alle delocalizzazioni, cit., 1649.
171 Secondo l’art. 2 del GBER, (i) gli attivi materiali sono quelli consistenti in terreni, immobili e impianti, macchinari e attrezzature (n. 29), (ii) gli attivi immateriali sono quelli, diversi da attivi materiali o finanziari, che consistono in diritti di brevetto, licenze, know-how o altre forme di proprietà intellettuale (n. 30), e (iii) i costi salariali sono l’importo “totale effettivamente pagabile dal beneficiario dell'aiuto in relazione ai posti di lavoro interessati, comprendente la retribuzione lorda prima delle imposte e i contributi obbligatori, quali gli oneri previdenziali e i contributi assistenziali per figli e familiari durante un periodo di tempo definito” (n. 31).
Ebbene, di notevole rilevanza ai nostri fini è, anzitutto, quanto disposto dal paragrafo 5 dell’art. 14 del GBER, che introduce una prima misura “dissuasiva” rispetto al fenomeno delle delocalizzazioni172.
Ed infatti, tale paragrafo prevede che, “una volta completato, l'investimento è mantenuto nella zona beneficiaria per almeno cinque anni o per almeno tre anni nel caso delle PMI”, precisando che ciò, tuttavia, “non osta alla sostituzione di impianti o attrezzature obsoleti o guasti entro tale periodo, a condizione che l'attività economica venga mantenuta nella regione interessata per il pertinente periodo minimo”.
Sicché, in virtù della “condizione risolutiva” prevista dalla norma in analisi, l’attività economica incentivata (tramite l’aiuto all’investimento) dev’essere mantenuta nella zona beneficiaria per un determinato lasso temporale (cinque o tre anni), al fine di “garantire che l’investimento rappresenti un contributo reale e sostenibile allo sviluppo regionale”173, anche (indirettamente) in termini occupazionali174, riducendo le possibili distorsioni nel mercato interno. In termini di ratio legis, quindi, la norma è indirizzata, principalmente, a reprimere il comportamento di quelle imprese che, dopo aver beneficiato di aiuti (pubblici) agli investimenti a finalità regionali, cessino di mantenere l’attività economico-produttiva incentivata all’interno del territorio beneficiato, “frustrando” la finalità
per la quale tali aiuti erano stati concessi.
172 In tal senso, X. XXXXXXXX, Commento all’art. 5 del d.l. n. 87/2018, in R. DEL PUNTA, X. XXXXXXXXX (a cura di), Codice commentato del lavoro, Milano, 2020, 3289.
173 Così, il punto 36 della Comunicazione della Commissione europea 2013/C 209/01, rubricata “Orientamenti in materia di aiuti di Stato a finalità regionale 2014-2020”.
174 Vd., X. XXXXXX, Delocalizzazioni, cit., 82, che parla di “link tra investimento e occupazione”.
In tal caso, dunque, l’obbligo di mantenimento è previsto in ragione della natura specifica dell’aiuto, che è legato alle difficoltà di un determinato ambito territoriale175.
Tuttavia, come evidenziato in dottrina, va precisato che la norma in analisi, “nonostante le apparenze, non è diretta a impedire le delocalizzazioni intese nel significato tecnico che a questo termine è assegnato dalla disciplina eurounitaria” (vd. infra), perché l’obbligo di mantenimento ivi previsto “non comporta (o meglio non coincide con) il divieto di trasferimento dell’attività, o di parte dell’attività”176.
Il vincolo posto dalla norma europea è costruito, invero, in maniera ampia, facendo riferimento a tutte le forme di “abbandono” dell’investimento dalla zona beneficiaria (ricomprendendo, dunque, anche le ipotesi di cessazione dell’attività, alienazione, distrazione, etc.), e non è, quindi, direttamente finalizzato al contrasto delle delocalizzazioni177.
In ogni caso, il “trasferimento” dell’attività economico- produttiva178 dal sito incentivato verso altro sito (a prescindere, peraltro, dall’ubicazione del luogo di destinazione, all’interno o all’esterno dei confini europei o nazionali) rientra, comunque, anch’esso nell’ambito
175 In tal senso, X. XXXXXX, Le nuove misure amministrative di contrasto alle delocalizzazioni, cit., 1630.
176 Così, X. XXXXX, Le misure per il contrasto alla delocalizzazione, cit., 9.
177 Del resto, come visto (cfr. supra, capitolo 1), il fenomeno delle delocalizzazioni, ove considerato in termini di dumping sociale, presenta delle peculiarità specifiche, legate soprattutto alla volontà, da parte delle imprese, di “sfruttare” le condizioni (in primis, lavoristiche) più favorevoli presenti nei paesi di destinazione (che consentono un abbattimento dei costi di produzione). Nel caso in analisi, tuttavia, molte delle regioni beneficiate (che possono coincidere con uno Stato membro o con una parte di esso) rappresentano, generalmente, proprio quelle aree meno sviluppate che, di solito, costituiscono i luoghi di destinazione del fenomeno delle delocalizzazioni, come sin qui descritto.
178 Sembrerebbe, anche se in assenza di specifiche indicazioni al riguardo da parte della norma, totale o parziale, e a prescindere dall’entità dell’eventuale impatto occupazionale.
di applicazione della norma in analisi179, la quale, d’altra parte, persegue, tra le altre, anche la finalità di limitare la pratica della c.d. “caccia alla sovvenzione”, evitando che una stessa impresa possa, in tempi ravvicinati, “trasferire” la propria attività produttiva nelle diverse aree territoriali, tempo per tempo, oggetto di specifici aiuti economici pubblici180.
Il termine minimo di “mantenimento” stabilito dal legislatore comunitario è, come visto, quello di 3 anni per le PMI e quello di 5 anni per le altre imprese beneficiarie, e il dies a quo è individuato dal legislatore comunitario nel momento della “realizzazione” dell’investimento (“una volta completato”), anche se non vi sono ulteriori specificazioni al riguardo.
Come evidenziato in dottrina, nella determinazione di tale lasso temporale, la norma europea ha individuato un punto di equilibrio tra, da un lato, l’interesse degli Stati membri (e dell’Unione) a sostenere determinate aree regionali con aiuti pubblici, e, dall’altro, il principio della libertà di concorrenza, con le connesse libertà di circolazione e di stabilimento, che sono, come visto, alla base dell’intera costruzione dell’Unione europea181.
179 L’ampiezza della norma, del resto, parrebbe far rientrare all’interno del suo campo di applicazione qualsiasi “forma” di delocalizzazione. Vd., X. XXXXXXX, De-localizzazioni industriali, cit., 1337, che evidenzia, in generale, come tali tipologie di norme possano svolgere “un’efficace azione di contrasto rispetto alle iniziative fraudolente: basta pensare al cd. caporalato internazionale; alle filiere di sub-appalti e sub-forniture transfrontaliere; ai flussi di merci prodotte all’estero e re-importate o assemblate in Italia al solo fine di lucrare un fittizio Made in Italy”.
180 Ed infatti, la norma in analisi mira anche ad impedire la chiusura degli stabilimenti incentivati seguita dalla delocalizzazione dell’attività economico-produttiva altrove, motivata, tra l’altro, dai livelli più elevati di aiuti pubblici disponibili in altri paesi. In tal senso, vd. l’intervento del Commissario europeo Xxxxxxxx Xxxxxx al Parlamento europeo del
24 novembre 2009 nell’ambito della discussione sul tema “Trasferimento di imprese nell'Unione europea e ruolo degli strumenti finanziari dell'Unione europea”.
181 In tal senso, X. XXXXX, Le misure per il contrasto alla delocalizzazione, cit., 10.
Inoltre, quanto allo specifico termine inferiore stabilito per le PMI, deve evidenziarsi come esso sia “espressione di uno specifico orientamento di favore nei confronti di queste ultime che emerge da molteplici disposizioni dell’ordinamento comunitario”182.
In termini di conseguenze derivanti dalla violazione dell’obbligo di mantenimento in analisi, può richiamarsi quanto specificato dal Considerando n. 29 del GBER del 2014, secondo il quale “qualora non soddisfino le condizioni di compatibilità di cui ai capi I e III, gli aiuti concessi non sono coperti dal presente regolamento e costituiscono, pertanto, aiuti illegali che la Commissione valuterà nel quadro della pertinente procedura stabilita nel regolamento (CE) n. 659/1999”183.
I paragrafi successivi dell’art. 14 del GBER prevedono, poi, ulteriori obblighi di “mantenimento” degli investimenti regionali agevolati.
Il paragrafo 6 dell’art. 14 del GBER, dopo aver specificato che gli attivi acquistati devono essere nuovi (tranne che per le PMI o per l'acquisizione di uno stabilimento), stabilisce che i costi relativi alla locazione di attivi materiali possono essere presi in considerazione solo, per i terreni e gli immobili, ove la locazione prosegua “per almeno cinque anni dopo la data prevista di completamento del progetto di investimento nel caso delle grandi imprese o per tre anni nel caso delle PMI” (comma 1, lett. a).
182 Così, ancora, X. XXXXX, Le misure per il contrasto alla delocalizzazione, cit., 10, che richiama l’art. 71, comma 2, del Regolamento n. 1303 del 2013 e gli artt. 14, comma 9, e 17, comma 5, del GBER.
183 Oggi sostituito dal Regolamento del n. 1589 13 luglio 2015, “recante modalità di applicazione dell'articolo 108 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea” (vd., in particolare, l’art. 16, rubricato “recupero degli aiuti”). Vd., anche, la Comunicazione della Commissione europea del 23 luglio 2019 n. 2019/C247/01, “sul recupero degli aiuti di Stato illegali e incompatibili”. Cfr., sul tema, S.P. EMILIANI, Recupero degli aiuti di Stato, termine di prescrizione e principio di eguaglianza, in Arg. Dir. lav., 2009, 1355 ss.
Il paragrafo 8 dell’art. 14 del GBER prevede, poi, che gli attivi immateriali sono ammissibili per il calcolo dei costi di investimento solo se, tra le altre cose, “sono utilizzati esclusivamente nello stabilimento beneficiario degli aiuti”, “sono ammortizzabili” e “restano associati al progetto per cui è concesso l'aiuto per almeno cinque anni o tre anni nel caso di PMI”.
Di notevole interesse è, inoltre, quanto stabilito dal paragrafo 9 dell’art. 14 del GBER, secondo il quale, quando i costi ammissibili sono calcolati facendo riferimento ai costi salariali stimati (come indicato nel già menzionato paragrafo 4, lett. b), e, dunque, nella misura in cui il beneficio interessi direttamente la forza lavoro, si applicano le seguenti condizioni: a) il progetto di investimento deve determinare un incremento netto del numero dei dipendenti impiegati in un dato stabilimento rispetto alla media dei 12 mesi precedenti (il che significa che ogni posto soppresso va detratto dal numero apparente di posti di lavoro creati nel corso dello stesso periodo)184; b) ciascun posto di lavoro deve essere occupato entro tre anni dal completamento dei lavori; c) ciascun posto di lavoro creato attraverso l'investimento deve essere mantenuto nella zona interessata per un periodo di almeno cinque anni dalla data in cui è stato occupato per la prima volta, o di tre anni nel caso delle PMI.
Sicché, con riferimento alla rilevanza del “fattore lavoro” nell’ambito degli aiuti a finalità regionale agli investimenti, sussiste, in capo al beneficiario dell’aiuto, un obbligo a non abbassare i livelli occupazionali (e dunque a mantenere i posti di lavoro creati attraverso
184 L’art. 2, n. 32), del GBER specifica che “i posti di lavoro soppressi in tale periodo devono essere dedotti e il numero di lavoratori occupati a tempo pieno, a tempo parziale o stagionalmente va calcolato considerando le frazioni di unità di lavoro-anno”.
l’investimento) per il lasso temporale indicato da tale paragrafo 9 dell’art. 14 del GBER, e nei limiti del campo di applicazione di tale norma.
In ogni caso, come evidenziato in dottrina, da una lettura complessiva dell’art. 14 del GBER, può ritenersi configurabile, in capo al beneficiario, “un obbligo a non abbassare i livelli occupazionali a prescindere dall’eventualità che lo stesso abbia operato a monte la scelta di inserire tra i costi ammissibili quelli salariali”185.
Con riferimento agli aiuti agli investimenti a favore delle PMI, inoltre, il GBER prevede ulteriori obblighi di “mantenimento” degli investimenti agevolati.
Anche in questo caso, è previsto che i costi ammissibili possano corrispondere a uno dei seguenti costi (o a entrambi): a) i costi degli investimenti materiali e immateriali; b) i costi salariali stimati relativi ai posti di lavoro direttamente creati dal progetto di investimento, calcolati su un periodo di due anni (art. 17, par. 2, del GBER)186.
185 Così, X. XXXXXX, Limiti alle delocalizzazioni, cit., 128. Ed infatti, come visto, il paragrafo 5 dell’art. 14 del GBER prevede, a prescindere dall’eventualità che tra i costi di realizzazione dell’investimento vi sia il fattore lavoro, l’obbligo di mantenere l’investimento nella zona oggetto dell’aiuto, per almeno 5 anni (o 3 anni in caso di PMI), e sembrerebbe doversi escludere “che il beneficiario possa sganciare il fattore lavoro dagli altri fattori produttivi (così che procedano su binari distinti)”. Così, ID., Delocalizzazioni, cit., 75. In tal modo, dunque, la salvaguardia dei livelli occupazionali è implicitamente ed indirettamente garantita attraverso la fissazione di un vincolo temporale di mantenimento dell’investimento (e, quindi, anche di divieto di delocalizzazione da parte dell’impresa beneficiaria degli aiuti di Stato). Vd., in tal senso, anche se con riferimento alle norme di cui al Decreto dignità, X. XXXXXXXX, La salvaguardia dei livelli occupazionali, cit., 1091.
186 Anche in tali ipotesi, quindi, “i posti di lavoro creati costituiscono una variante (del tutto possibile, ma non necessaria) dei costi ammissibili”. Così, ancora, X. XXXXXX, Delocalizzazioni, cit., 73, la quale evidenzia che l’investimento in posti di lavoro non rappresenta un elemento necessario per fruire dell’esenzione e, in ogni caso, l’eventuale opzione per la creazione di posti di lavoro prescinde del tutto dalle caratteristiche soggettive del lavoratore, potendosi qualificare, dunque, questa tipologia di aiuti (come, del resto, anche quella degli aiuti agli investimenti a finalità regionale), alla stregua di “aiuti all’occupazione tout court”. Vd., anche, ID., Xxxxx (dir. lav.), in X. XXXXXXX, X. XXXX, X. XXXXX XX., D.U. XXXXXXXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), Digesto delle discipline privatistiche - Sezione
Tuttavia, rispetto alla disciplina dettata dall’art. 14 del GBER per gli aiuti agli investimenti a finalità regionale, l’art. 17 del GBER non prevede alcun obbligo di mantenimento territoriale tout court dell’investimento, e ciò, presumibilmente, perché, come visto, quell’obbligo si fonda, principalmente, sulla necessità di garantire l’effettivo sviluppo di un determinato territorio (beneficiario).
L’art. 17, par. 5, del GBER, però, stavolta in maniera analoga rispetto a quanto previsto dall’art. 14, par. 9, del GBER, stabilisce che, ove invece si opti per la variante del fattore lavoro, i posti di lavoro direttamente creati da un progetto d'investimento devono soddisfare le seguenti condizioni: a) devono essere creati entro tre anni dal completamento dell'investimento; b) devono produrre un aumento netto del numero di dipendenti dello stabilimento interessato rispetto alla media dei dodici mesi precedenti (con riferimento, quindi, all’intero organico); c) devono essere mantenuti per un periodo minimo di tre anni a partire dalla data in cui sono stati occupati per la prima volta.
D’altra parte, come evidenziato anche nel Considerando n. 40 del GBER, le PMI svolgono un ruolo determinante per la creazione di posti di lavoro e costituiscono, più in generale, un fattore di stabilità sociale e di sviluppo economico187.
commerciale - Aggiornamento, 2015; ID., State Aid for Employment after the New General Block Exemption Regulation, in EStAL, 2015, n. 21, 242.
187 Sicché, gli aiuti alle PMI, insieme ai già menzionati aiuti a finalità regionale agli investimenti, rappresentano delle “categorie di aiuti esenti da notifica, espressamente richiamate nel Regolamento 651/2014, che si collegano più o meno direttamente a politiche occupazionali” e, dunque, sebbene non abbiano “natura prettamente lavoristica”, creano, comunque, “interferenze con il piano lavoristico”. Così, X. XXXXXXXX, Aiuti di Stato, cit., 40- 41.
5. I limiti alle delocalizzazioni verso gli stabilimenti incentivati: il contrasto alla pratica della c.d. “caccia alla sovvenzione”
Il legislatore eurounitario prevede, poi, nell’ambito della disciplina degli aiuti a finalità regionale agli investimenti, ulteriori misure di contrasto al fenomeno delle delocalizzazioni.
La versione originaria188 dell’art. 13 del GBER, alla lettera d), prevedeva che gli aiuti a finalità regionale agli investimenti non potevano essere esentati dall'obbligo di notifica (e, dunque, rientrare nel campo di applicazione del GBER), nel caso in cui fossero stati concessi a favore di un beneficiario che, “nei due anni precedenti la domanda di aiuti a finalità regionale agli investimenti”, avesse “chiuso la stessa o un'analoga attività nello spazio economico europeo o che, al momento della domanda di aiuti”, avesse avuto “concretamente in programma di cessare l'attività entro due anni dal completamento dell'investimento iniziale oggetto dell'aiuto nella zona interessata”189.
Il paragrafo 16 dell’art. 14 del GBER, inserito nel 2017190, prevede, ora, riferendosi in maniera ancor più specifica al fenomeno delle delocalizzazioni, che il beneficiario dell’aiuto deve confermare di “non aver effettuato una delocalizzazione verso lo stabilimento in cui deve svolgersi l'investimento iniziale per il quale è richiesto l'aiuto, nei due
188 Precedente alle modifiche apportate dall’art. 1, par. 1, punto 9, del Regolamento n. 1084
del 14 giugno 2017.
189 Vd., per un’applicazione della norma, COMMISSIONE EUROPEA, C(2016) 6269 final, 3 ottobre 2016, Bruxelles, “State aid case SA.44547 – Italy – LIP - Aid to STMicroelectronics
S.r.l. (M9)”, in xxx.xx.xxxxxx.xx.
Il paragrafo è stato aggiunto dall’art. 1, par. 1, punto 10, lett. c), del Regolamento n. 1084 del 2017.
anni precedenti la domanda di aiuto”, e, inoltre, deve impegnarsi “a non farlo nei due anni successivi al completamento dell'investimento iniziale per il quale è richiesto l'aiuto”191.
Sicché, in questo caso, la delocalizzazione viene configurata dal legislatore europeo in termini di condizione ostativa ai fini dell’accesso, da parte del potenziale beneficiario, all’aiuto di Stato, e, come evidenziato dalla Relazione illustrativa al Decreto dignità, l’intento principale della norma è quello di contrastare il fenomeno della c.d. “caccia alla sovvenzione”192, scongiurando “il rischio che la politica di coesione europea contribuisca ad incentivare la delocalizzazione produttiva delle imprese, determinando una distorsione collaterale e involontaria della concorrenza”193.
I limiti posti dalla norma in analisi si collocano, dunque, nella fase della “concessione” dell’aiuto di Stato agli investimenti a finalità regionale e mirano, soprattutto, a garantire che vi sia un utilizzo corretto ed appropriato delle politiche di coesione territoriale europee.
La finalità, in altri termini, è quella di evitare che si verifichino delocalizzazioni194 provocate dagli aiuti che alcuni Stati membri, anche
191 Vd., P. XXXXXXXXX, Sensitive Issues in the Regulation of Regional Aid and Its Application, in EStAL, 2017, n. 4, 566.
192 Del resto, come evidenziato dalla Commissione europea, uno degli obiettivi principali del controllo, a livello europeo, degli aiuti di Stato a finalità regionale, oltre alla necessità di limitare al minimo gli effetti degli aiuti sugli scambi e sulla concorrenza, è proprio quello di concedere aiuti destinati allo sviluppo regionale garantendo al contempo parità di condizioni tra gli Stati membri, in particolare cercando di evitare “corse alle sovvenzioni” che potrebbero verificarsi nel tentativo di attirare o mantenere le imprese nelle zone svantaggiate dell’Unione europea. Cfr. la Comunicazione 2013/C 209/01, “Orientamenti in materia di aiuti di Stato a finalità regionale 2014-2020”, punto 3.
193 Cfr., precedentemente, in dottrina, sul tema, X. XXXXXXXXXX, X. XXXXXXXX, Relocation and public aid. A first report, in X. XXXXXXX, J.L. XXXXXXXXXX (ed. by), Multinational Firms: The Global-Local Dilemma, Londra, 2002, 178 ss.; K.H. XXXXXXXXX-KNARVIK, H.G. XXXXXXX, Delocation and European Integration: Is Structural Spending Justified?, in Economic Policy, 2002, vol. 17, n. 35, 321 ss.
194 Vd., P. XXXXXXXXX, Sensitive Issues in the Regulation of Regional Aid, cit., 560, il quale evidenzia che, nel dibattito in ordine all’aggiornamento delle regole sugli aiuti regionali (per
in ragione dei finanziamenti loro riconosciuti dall’Unione europea, possono offrire alle imprese (anche straniere) per investire nel loro territorio195.
Il tema del trasferimento delle attività economico-produttive “causato” dalle sovvenzioni pubbliche, del resto, è molto sentito, da un punto di vista socioeconomico e politico, in molti stati membri dell’Unione europea, come è dimostrato dalle numerose interrogazioni parlamentari nei confronti della Commissione europea avanzate sul tema196.
il periodo 2014-2020), uno dei temi più controversi è stato quello di come escludere che tali aiuti fossero utilizzati per delocalizzare le attività economiche all’interno dell’Unione europea, specificando che “some Member States insisted on this point as manufacturing companies in some economic sectors are exceedingly labour-cost driven and State aid can also add to the effects of this attitude, thereby have an impact on the location decision in a way which would not serve the common European interest”, mentre, “on the other hand, Member States where undertakings consider relocating their activities due to different costs- factors were highlighting that excessively strict rules might undermine the competitiveness of the European Union and State aid rules should not be a barrier for undertakings from third countries when considering their location decision as their future decisions will be subject to legal constrains”.
195 Vd., al riguardo, l’interrogazione del Parlamento europeo del 15 marzo 2018, E-001584- 18, intitolata “Delocalizzazione selvaggia verso l'Est Europa. Urge intervento della Commissione per frenare il dumping sociale nell'UE”, cit., ove si evidenzia la possibile “concorrenza sleale” di alcuni Stati membri (soprattutto dell’Est) rispetto agli altri, che deriva dallo sfruttamento di un mercato comunitario “asimmetrico”. Tale asimmetria, ovviamente, è dovuta non solo alla possibilità di beneficiare di finanziamenti europei (o, comunque, di poter concedere aiuti di Stato) al fine di attrarre gli investimenti, ma anche dalle “asimmetriche” condizioni strutturali dei diversi paesi, con riferimento soprattutto all’imposizione fiscale e al costo del lavoro. La stessa interrogazione parlamentare appena richiamata evidenziava, a titolo esemplificativo, che, “secondo Eurostat, un'ora di lavoro in Bulgaria costava nel 2016 in media alle imprese soli 4,4 euro, un costo sei volte inferiore rispetto al costo di un'ora lavorativa in Italia (27,8 euro)”. Vd., X. XXXXXXXXX (ed. by), Market Expansion and Social Dumping in Europe, Londra, 2015; X. XXXXX, Abuse of EU Law and Regulation of the Internal Market, Oxford, 2014.
196 Vd. le risposte della Commissione europea: n. E-005116/2020 del 20 novembre 2020 all’interrogazione rubricata “In 2009 Smart Mercedes received EUR 400 million in EU lending to build a factory in Hungary. In 2019 Smart closed down its car plants in France”;
n. E-003253/2020 del 24 luglio 2020 all’interrogazione rubricata “State aid” del 28 maggio 2020; n. E-001536/2020 del 30 giugno 2020 alle interrogazioni rubricate “Redundancies at the tyre manufacturer Apollo Vredestein in the Netherlands” del 25 marzo 2020 e “Mass redundancies at the tyre manufacturer Vredestein” dell’11 marzo 2020; n. E-001294/2018 del 1 giugno 2018 all’interrogazione rubricata “The Embraco case: redundancies and relocation to Slovakia” del 1 marzo 2018; n. E-008698/2016 del 23 gennaio 2017
E, chiaramente, tale “sensibilità” deriva, in primis, dal fatto che i trasferimenti provocano (spesso ingenti) perdite di posti di lavoro nel territorio d’origine.
Come evidenziato dall’Osservatorio sulla ristrutturazione in Europa, invero, un settore di potenziale “contesa transfrontaliera” (tra gli Stati membri) nelle ristrutturazioni transnazionali riguarda proprio l’uso (reale o percepito) di sussidi, regionali o nazionali, che spesso incentivano le imprese a delocalizzare la produzione197.
Tali sussidi determinano, infatti, casi di potenziale unfair competition tra Stati membri all’interno dell’Unione europea, che sono, com’è evidente, di difficile governabilità198.
all’interrogazione rubricata “Closure of the British American Tobacco (BAT) plant in Bayreuth” del 21 novembre 2016; n. P-003232/2016 del 18 maggio 2016 all’interrogazione rubricata “Relocation of businesses to Poland with a tax subsidy” del 21 aprile 2016: n. E- 005132/2015 del 19 giugno 2015 all’interrogazione rubricata “Loss of jobs as a result of EU or State aid for unlawful relocation” del 31 marzo 2015; n. E-005665/2015 del 12 giugno 2015 all’interrogazione rubricata “State aid for job relocation” del 9 aprile 2015; n. E- 002087/2015 del 27 aprile 2015 all’interrogazione rubricata “Use of regional aid funding to relocate jobs” del 9 febbraio 2015; n. E-009672/2014 del 3 febbraio 2015 all’interrogazione rubricata “Tax-free zones and relocation of jobs” del 24 novembre 2014; n. E-009617/2014 del 30 gennaio 2015 all’interrogazione rubricata “Indirect state aid in the form of tax-free zones” del 21 novembre 2014; n. E-006515/2014 del 23 ottobre 2014 all’interrogazione rubricata “Relocation of abattoir jobs” del 3 settembre 2014; n. E-009357/2011 del 16 novembre 2011 all’interrogazione rubricata “Possible state aid use in relocation of Givaudan factory” del 19 ottobre 2011; n. P-8072/2010 del 19 novembre 2010 all’interrogazione rubricata “Relocation of Fiat production operations to Serbia” del 6 ottobre 2010; tutte reperibili in xxx.xxxxxxxx.xxxxxx.xx.
197 Tali aiuti, infatti, “possono dare adito all’ipotesi che alla base delle decisioni aziendali che potrebbero comportare significative perdite di posti di lavoro e difficoltà umane vi siano motivazioni legate alla disponibilità di sussidi tanto quanto ad altre considerazioni commerciali”. Così, EUROFOUND, Relazione 2020 dell’ERM: ristrutturazioni transfrontaliere. Sintesi, cit.
198 Vd., in ogni caso, X. XXXXXXXX, Contrasto alla precarietà e delocalizzazioni, cit., 170, secondo cui una strada percorribile da parte dello Stato membro “vittima” potrebbe essere quella di applicare lo stesso diritto europeo, denunciando alla Commissione europea come incompatibili con l’assetto di cui agli artt. 107 ss. del TFUE “quei casi di aiuti di stato ad hoc - quali soluzioni fiscali negoziate o riduzioni contributive/retributive o prestiti senza garanzie per la realizzazione di impianti nel loro territorio – concessi dai Paesi UE che intendono attrarre imprese già stabilite in un altro Paese”.
Orbene, da un punto di vista definitorio, secondo l’art. 2, punto 61 bis, del GBER (anch’esso introdotto dal Regolamento n. 1084 del 2017), come anticipato (vd. supra, cap 1, par. 1), per delocalizzazione si intende “il trasferimento della stessa attività o attività analoga o di una loro parte da uno stabilimento situato in una parte contraente dell’accordo SEE (stabilimento iniziale) verso lo stabilimento situato in un’altra parte contraente dell’accordo SEE in cui viene effettuato l’investimento sovvenzionato (stabilimento sovvenzionato)”.
E, prosegue la disposizione, “vi è trasferimento se il prodotto o servizio nello stabilimento iniziale e in quello sovvenzionato serve almeno parzialmente per le stesse finalità e soddisfa le richieste o le esigenze dello stesso tipo di clienti e vi è una perdita di posti di lavoro nella stessa attività o attività analoga in uno degli stabilimenti iniziali del beneficiario nel SEE”.
A seguito dell’emergenza covid-19, tuttavia, nel comma 16 dell’art. 14 del GBER è stato aggiunto un ulteriore periodo in base al quale “per quanto riguarda gli impegni assunti prima del 31 dicembre 2019, qualsiasi perdita di posti di lavoro nella stessa attività o attività analoga in uno degli stabilimenti iniziali del beneficiario nel SEE, verificatasi tra il 1° gennaio 2020 e il 30 giugno 2021, non è considerata un trasferimento a norma dell'articolo 2, paragrafo 00 xxx, xxx xxxxxxxx regolamento”199.
Ciò, evidentemente, nell’ottica del legislatore comunitario, in quanto, in tale periodo, la perdita occupazionale potrebbe essere determinata (sino ad assurgere a presunzione) non già dalla mera delocalizzazione dell’attività produttiva verso lo stabilimento
199 Cfr. art. 2, par. 1, punto 4, del Regolamento n. 972 del 2 luglio 2020.
incentivato, quanto, piuttosto, dalle conseguenze derivanti dalla crisi pandemica200.
La definizione di delocalizzazione adottata dal legislatore comunitario rappresenta, come già evidenziato, un importante punto di riferimento al fine di ricostruire il significato stesso del fenomeno e di precisare le definizioni di quest’ultimo adottate anche in altri contesti (come quello normativo nazionale, vd. infra, cap. 3, par. 6).
Oltre a quanto già evidenziato in apertura, va evidenziato, tuttavia, come tale nozione presenti diversi profili di complessità, sia dal punto di vista interpretativo che applicativo.
Anzitutto, come visto, il legislatore europeo fa riferimento al trasferimento, in tutto o in parte, della “stessa” attività o di un’attività “analoga” rispetto a quella espletata nello stabilimento iniziale201.
Il richiamo alle attività analoghe, però, com’è stato rilevato in dottrina, pur evidenziando una particolare attenzione rispetto a possibili strategie elusive della normativa, offre, in ogni caso “spazi interpretativi così ampi da avallare una eccessiva compressione della libertà di iniziativa economica privata ovvero, in senso opposto, una scarsa valenza antielusiva della disciplina”202.
200 In Italia, in ogni caso, come noto, il legislatore dell’emergenza ha previsto un “divieto” dei licenziamenti per ragioni economiche in tale periodo (vd. art. 46 del d.l. n. 18 del 2020 e xx.xx.). Cfr., al riguardo, X. XXXXX (a cura di), Divieto di licenziamenti e libertà d’impresa nell'emergenza Covid. Principi costituzionali, Torino, 2020.
201 L’art. 2, n. 50, del GBER definisce come “attività uguali o simili” quelle “attività che rientrano nella stessa classe (codice numerico a quattro cifre) della classificazione statistica delle attività economiche NACE Rev. 2 di cui al regolamento (CE) n. 1893/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 dicembre 2006, che definisce la classificazione statistica delle attività economiche NACE Revisione 2 e modifica il regolamento (CEE) n. 3037/90 del Consiglio nonché alcuni regolamenti (CE) relativi a settori statistici specifici”. Il riferimento è ai codici NACE delle attività economiche nell’Unione europea, corrispondenti, sostanzialmente, ai codici ATECO nazionali.
202 Così, P. POZZAGLIA, I limiti alla delocalizzazione, cit., 88-89, il quale evidenzia, in particolare, che il “rischio potrebbe essere quello di considerare analoghe anche tutte quelle attività direttamente o indirettamente favorite da quella non delocalizzabile”. In senso
Anche il riferimento alla necessaria esistenza di gruppi omogenei di consumatori (con riguardo al determinato bene o servizio la cui produzione viene delocalizzata) pone evidentemente problemi di identificazione della fattispecie, giacché non è affatto semplice stabilire, individuando criteri univoci, quando un prodotto “serve almeno parzialmente per le stesse finalità e soddisfa le richieste o le esigenze dello stesso tipo di clienti”.
In particolare, il fatto che i beni o servizi prodotti in entrambi gli stabilimenti (iniziale e nuovo/sovvenzionato) debbano servire allo stesso scopo sembra fare quasi più riferimento al concetto di “mercato rilevante”, soprattutto nella prospettiva dei consumatori, utilizzato nel diritto della concorrenza203.
Inoltre, neppure il riferimento alla necessaria “perdita di posti di lavoro” nello stabilimento iniziale offre spunti interpretativi univoci, in considerazione, da un lato, delle difficoltà di individuare un effettivo nesso eziologico tra delocalizzazione e diminuzione dei livelli occupazionali, e, dall’altro, del rischio di valorizzare qualsiasi perdita occupazionale (anche non immediatamente generata dalla apertura di una attività identica o analoga)204.
Del resto, la norma europea non indica alcuna soglia minima per quanto riguarda la diminuzione dei livelli occupazionali (o l’entità del
opposto, prosegue l’Autore, “qualunque attività che, per il suo svolgimento, non abbia richiesto in alcuna misura l’utilizzo degli asset produttivi acquisiti grazie al finanziamento pubblico, non potrebbe definirsi analoga, risultando così la fattispecie di scarsa applicazione in quanto non invocabile in tutte le ipotesi di utilizzo di macchinari differenti per produrre un bene o servizio identico a quello incentivato ma da questo evidentemente favorito”. Evidenzia, inoltre, l’eccessiva ampiezza del riferimento ai codici NACE, P. STAVICZKY, Sensitive Issues in the Regulation of Regional Aid, cit., 561.
203 Vd., al riguardo, in generale, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXXX, X. XXXXXXXX, Concorrenza, mercato e diritto dei consumatori, Torino, 2018.
204 In tal senso, ancora, P. POZZAGLIA, I limiti alla delocalizzazione, cit., 89.
trasferimento “parziale” dell’attività), sicché, nel caso in cui dovessero sussistere altresì tutti gli altri elementi della fattispecie, quest’ultima sembrerebbe doversi ritenere integrata anche nell’ipotesi di perdita di posti di lavoro numericamente contenuta205.
Quanto al limite temporale di efficacia della condizione ostativa alla delocalizzazione previsto dal paragrafo 16 (due anni prima della domanda dell’aiuto e due anni dopo il completamento dell’investimento iniziale per il quale l’aiuto è stato richiesto), anch’esso “sembra poter costituire il punto di compromesso tra la ritenuta esigenza di un uso virtuoso delle politiche di coesione territoriale e i principi di libertà di circolazione e di stabilimento”206.
Profili di problematicità sono rinvenibili, da un punto di vista soggettivo, anche con riferimento al concetto di “beneficiario” dell’aiuto di Stato (che non deve delocalizzare o aver delocalizzato), soprattutto in quanto il legislatore comunitario non fa alcun esplicito riferimento alle dinamiche relative al controllo o al collegamento societario.
Tuttavia, la Commissione europea, sebbene con riferimento alla precedente norma di cui all’art. 13, lett. d), del GBER (ma con
205 Con riferimento alla norma analoga originariamente contenuta nell’art. 13, lett. d), del GBER (vd. supra), invece, la Commissione europea aveva precisato quanto segue: “the concept of closing down means that the activity is fully (100%) closed at the establishment concerned or that the activity is partially closed when this results in substantial job losses. For the purpose of this provision substantial job losses are defined as losses of at least 100 jobs or as a job reduction of at least 50% of the workforce in the establishment on the date of the application (compared to the average employment in the establishment in any of the two years preceding the date of application)”. Così, Commissione europea, “Practical Guide: General Block Exemption Regulation (GBER) Frequently Asked Questions - Date of publication: Q&A to Articles 1 to 35: July 2015; Q&A to Articles 36 to 58: March 2016”, in xxx.xx.xxxxxx.xx. Tali limiti, tuttavia, come visto, non sono stati riportati nel nuovo art. 2, punto 61 bis, del GBER. Vd., al riguardo, P. XXXXXXXXX, Sensitive Issues in the Regulation of Regional Aid, cit., 564.
206 Così, X. XXXXX, Le misure per il contrasto alla delocalizzazione, cit., 12.
considerazioni, si ritiene, applicabili anche alla nuova fattispecie in analisi), ha evidenziato che il beneficiario deve essere definito a livello di gruppo, “which is considered to be an economic entity with a common source of control rather than just a single subsidiary (a single legal entity)”207.
Da ultimo, va evidenziato che, anche nel caso in analisi, la violazione del divieto di delocalizzazione comporta l’illegalità dell’aiuto (e, dunque, il suo necessario recupero), o, quantomeno, il venir meno dell’operatività dell’esenzione208, sicché la misura di aiuto di Stato dovrebbe essere notificata alla Commissione europea, che valuterà la misura in base alle regole contenute negli Orientamenti sugli aiuti regionali 2014-2020, prestando particolare attenzione al “nesso di causalità” che sussiste tra la chiusura dell’attività nello Stato membro d’origine e l'avvio della stessa (o analoga) attività in quello di destinazione209.
207 Così, ancora, Commissione europea “Practical Guide: General Block Exemption Regulation (GBER) Frequently Asked Questions - Date of publication: Q&A to Articles 1 to 35: July 2015; Q&A to Articles 36 to 58: March 2016”, cit.
208 Lo stesso paragrafo 1 dell’art. 14 del GBER prevede che “le misure di aiuto a finalità regionale agli investimenti sono compatibili con il mercato interno ai sensi dell'articolo 107, paragrafo 3, del trattato e sono esentate dall'obbligo di notifica di cui all'articolo 108, paragrafo 3, del trattato purché soddisfino le condizioni di cui al presente articolo e al capo I”.
209 Vd. il punto 122 di tali Orientamenti, secondo cui “qualora il beneficiario chiuda un’attività uguale o simile in un’altra zona all’interno del SEE e sposti tale attività verso la zona prescelta, se vi è un nesso causale tra l’aiuto e il trasferimento, ciò comporterà un effetto negativo che difficilmente sarà compensato da un qualche elemento positivo”. Vd., al riguardo, P. XXXXXXXXX, Sensitive Issues in the Regulation of Regional Aid, cit., 562, il quale evidenzia che “as relocation generates negative effects within the internal market and is an explicit manifestation of the subsidy race among Member States, one can conclude that the Commission would never allow granting aid in these cases since this is violating the basic aim of Article 107(1) of the TFEU”.
6. La stabilità delle operazioni nella disciplina dei Fondi SIE
Misure limitative nei confronti delle delocalizzazioni sono contenute anche all’interno della normativa che disciplina, a livello eurounitario, le risorse economiche concesse dalla stessa Unione europea nell’ambito della c.d. politica di coesione.
Come noto, il TFUE, nel Titolo XVIII, rubricato “coesione economica, sociale e territoriale”210, stabilisce, all’art. 174, che, al fine di promuovere uno sviluppo “armonioso” dell'insieme dell'Unione, quest’ultima “sviluppa e prosegue” la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione (appunto, economica, sociale e territoriale), mirando, in particolare, “a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite” (parr. 1 e 2)211.
Come evidenziato dalla stessa Commissione europea, gli obiettivi primari della politica di coesione sono la crescita e la creazione di nuovi
210 Cfr., in dottrina, X. XXXXXXX, Dallo sviluppo alla coesione. Storia e disciplina vigente dell'intervento pubblico per le aree insufficientemente sviluppate, in Riv. Trim. Dir. Pubb., 2018, n. 2, 579 ss.; X. XXXXXXX, Le politiche di sviluppo territoriale e la coesione economica e sociale, in Riv. Giur. Mezzogiorno, 2000, 1325 ss.; X. XXXXXX (a cura di), Le politiche di coesione territoriale. Un confronto tra Italia e Stati Uniti, Catanzaro, 2017; M.C. CARTA, Dalla libertà di circolazione alla coesione territoriale nell’Unione europea, Napoli, 2018;
X. XXXXXX, M. D’ORSOGNA (a cura di), Le politiche comunitarie di coesione economica e sociale. Nuovi strumenti di sviluppo territoriale in un approccio multidimensionale, Napoli, 2011; X. XXXXXX, X. XXXXXXXXX, La politica di coesione nell'Unione europea allargata. Aspetti economici, sociali e territoriali, Xxxxxxx, 0000.
211 Il par. 3 dell’art. 174 del TFUE stabilisce che, tra le regioni interessate, “un'attenzione particolare è rivolta alle zone rurali, alle zone interessate da transizione industriale e alle regioni che presentano gravi e permanenti svantaggi naturali o demografici, quali le regioni più settentrionali con bassissima densità demografica e le regioni insulari, transfrontaliere e di montagna”.
posti di lavoro in tutta l’Unione europe e, in particolare, nelle regioni e Stati membri più svantaggiati212.
Secondo il successivo art. 175, par. 1, del TFUE, l’Unione sostiene la realizzazione di tali obiettivi “anche con l'azione che essa svolge attraverso fondi a finalità strutturale (Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia, sezione “orientamento”, Fondo sociale europeo, Fondo europeo di sviluppo regionale), la Banca europea per gli investimenti e gli altri strumenti finanziari esistenti”213.
Sicché, i cc.dd. Fondi SIE (strutturali e di investimento europei) rappresentano i principali strumenti finanziari di attuazione della politica “regionale” a livello europeo214.
212 In tal senso, vd. la risposta della Commissione europea n. E-010525/2010 del 31 gennaio 2011 alle interrogazioni parlamentari rubricate “Finanziamenti dell'UE” del 15 dicembre 2010, “Impiego inappropriato dei fondi regionali dell'UE” del 16 dicembre 2010, “Destino ed efficacia del Fondo di coesione” del 20 dicembre 2010, “Fondi strutturali dell'UE alle multinazionali anziché alle PMI” del 20 dicembre 2010, “Carenze organizzative relative al Fondo strutturale” del 20 dicembre 2010, “Sussidi, provenienti dai fondi europei, per il trasferimento di attività all'interno dell'UE” del 4 gennaio 2011, “Finanziamento di multinazionali di rilevanza mondiale da parte del Fondo di coesione” del 6 gennaio 2011, “Sovvenzioni dell'Unione europea destinate alla delocalizzazione di imprese” del 6 gennaio 2011, e “Gestione dei finanziamenti del Fondo europeo per lo sviluppo regionale” del 13 gennaio 2011, tutte in xxx.xxxxxxxx.xxxxxx.xx.
213 L’art. 176 del TFUE, in particolare, precisa che il Fondo europeo di sviluppo regionale è destinato a “contribuire alla correzione dei principali squilibri regionali esistenti nell'Unione, partecipando allo sviluppo e all'adeguamento strutturale delle regioni in ritardo di sviluppo nonché alla riconversione delle regioni industriali in declino”. Cfr., al riguardo,
X. XXXXXXXXXX, X. XXXXXXX, Sviluppo regionale, in M.P. XXXXX, X. XXXXX (a cura), Trattato di diritto amministrativo europeo. Parte speciale. Tomo IV, Milano, 2007, 1999 ss.; X. XXXXXXXX, Profili giuridico-amministrativi in ordine all’emergenza dell’utilizzo dei fondi europei da parte degli enti locali territoriali, in AA.VV., Il diritto amministrativo dell’emergenza. Annuario AIPDA 2005, Milano, 2006, 129 ss.; X. XXXXXXXXXX, Le “Regioni” nel diritto dell’Unione europea: limiti, potenzialità e visioni, in Xxxxxxxxxxx.xx, 2020, n. 7, 61 ss. L’art. 177, par. 2, prevede, poi, l’istituzione di un Fondo di coesione “per l'erogazione di contributi finanziari a progetti in materia di ambiente e di reti transeuropee nel settore delle infrastrutture dei trasporti”.
214 Sul tema, vd., tra gli altri, X. XXXXXXXX, I fondi strutturali e di investimento europei, Venezia, 2020; X. XXXXXXXX, Guida ai Fondi Strutturali Europei 2014-2020, Xxxxxxx, 0000; X. XXXXXXX, Diritti fondamentali e coesione economica e sociale. L’azione dei fondi strutturali, Venezia, 2007; X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX, Politiche regionali e fondi strutturali. Programmare nel sistema di governo della UE, Catanzaro, 2005; X. XXXXXXX, Il ruolo dei fondi strutturali nello sviluppo economico del paese, Roma, 2003; X. XXXXXXXXX,
Secondo l’art. 177, par. 1, del TFUE, inoltre, il Parlamento europeo e il Consiglio (mediante regolamenti adottati in base alla procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni) “definiscono i compiti, gli obiettivi prioritari e l'organizzazione dei fondi a finalità strutturale” e definiscono “le norme generali applicabili ai fondi, nonché le disposizioni necessarie per garantire l'efficacia e il coordinamento dei fondi tra loro e con gli altri strumenti finanziari esistenti”.
Ebbene, in attuazione di tale disposizione, è stato emanato, da ultimo, nell’ambito del quadro finanziario pluriennale 2014-2020, il Regolamento n. 1303 del 17 dicembre 2013, recante disposizioni comuni e generali sui Fondi SIE215, “al fine di migliorare il coordinamento e armonizzare l'attuazione dei fondi che forniscono sostegno nell'ambito della politica di coesione” (considerando n. 2).
Nell’ambito del Titolo VII (rubricato “sostegno finanziario fornito dai fondi Sie”), capo III (rubricato “ammissibilità della spesa e stabilità”), anzitutto, l’art. 70 (rubricato “ammissibilità delle operazioni
Finanziamenti comunitari e politiche dello sviluppo. I fondi strutturali dalla programmazione comunitaria all'attuazione regionale e locale, Bari, 2001; X. XXXXXXXXXXX, L'Europa della coesione. I Fondi strutturali comunitari 2000-2006: origini, funzionamento, prospettive, Perugia, 2000; X. XXXXXXXX (a cura di), Fondi strutturali e coesione economica e sociale nell'Unione europea, Milano, 1995; G. GALLIZIOLI, I fondi strutturali delle comunità europee, Xxxxxx, 0000.
215 Il regolamento è rubricato, testualmente, “Regolamento del parlamento europeo e del consiglio recante disposizioni comuni sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo, sul Fondo di coesione, sul Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale e sul Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca e disposizioni generali sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo, sul Fondo di coesione e sul Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca, e che abroga il regolamento (CE) n. 1083/2006 del Consiglio”. Al riguardo, cfr. X. XXXXXXXXX, Le politiche di coesione e la gestione dei fondi strutturali europei nella programmazione 2014-2020, in Giorn. Dir. Amm., 2014, n. 6,
563 ss. Sul tema del “procedimento coamministrato” tra amministrazioni nazionali ed europee, di cui la disciplina dei fondi SIE (cc.dd. finanziamenti indiretti) rappresenta un importante esempio, vd. F. D’ANGELO, Relazioni organizzative, coamministrazione, principio di cooperazione, in Riv. It. Dir. Pubb. Com., 2017, n. 5, 1185 ss.
a seconda dell'ubicazione”) dispone, al par. 1, quale regola generale, che “le operazioni sostenute dai fondi SIE sono ubicate nell'area del programma”216.
L’art. 71 del Regolamento n. 1303 del 2013, inoltre, prevede una serie di norme che disciplinano la “stabilità delle operazioni”217, fissando alcuni vincoli di destinazione degli investimenti (e, dunque, anche limiti alle delocalizzazioni eventualmente effettuate dai beneficiari del sostegno economico).
In particolare, il primo paragrafo stabilisce che, nel caso di un’operazione che comporti investimenti in infrastrutture o investimenti produttivi218, “il contributo fornito dai fondi SIE è rimborsato laddove, entro cinque anni dal pagamento finale al beneficiario o entro il termine stabilito nella normativa sugli aiuti di Stato, ove applicabile” (vd. supra, par. 4)219, si verifichi, tra le altre
216 Secondo l’art. 2, n. 7), del Regolamento n. 1303 del 2013, per area del programma si intende una zona geografica coperta da un programma specifico o, nel caso di un programma che copre più di una categoria di regioni, l'area geografica corrispondente a ciascuna categoria di regioni.
217 Ai sensi dell’art. 2, lett. 9), dello stesso Regolamento, per “operazione” si intende “un progetto, un contratto, un'azione o un gruppo di progetti selezionati dalle autorità di gestione dei programmi … o sotto la loro responsabilità, che contribuisce alla realizzazione degli obiettivi di una o più priorità correlate”.
218 Nelle ipotesi, invece, di operazioni, sostenute dal Fondo Sociale Europeo o da altri fondi SIE, che non comportano investimenti in infrastrutture o investimenti produttivi, il paragrafo 3 dell’art. 71 stabilisce che il contributo del fondo “è rimborsato solo quando le operazioni sono soggette a un obbligo di mantenimento dell'investimento ai sensi delle norme applicabili in materia di aiuti di Stato e quando si verifichi la cessazione o la rilocalizzazione di un'attività produttiva entro il periodo stabilito da dette norme”.
219 Il riferimento originario dell’art. 71 del Regolamento n. 1303 del 2013 era, in particolare, alla disciplina contenuta nel Regolamento GBER n. 800 del 2008, il quale, con riferimento agli aiuti a finalità regionale, all’art. 13, par. 2, prevedeva che l’investimento dovesse essere “mantenuto nella regione beneficiaria per almeno cinque anni, o per tre anni nel caso di PMI, una volta completato l'intero investimento”. Vd., anche, con riferimento al mantenimento dei posti di lavoro creati dal progetto di investimento, l’art. 12, par. 3, del Regolamento n. 800 del 2008.
cose, la cessazione o “rilocalizzazione” di un'attività produttiva al di fuori dell'area del programma (comma 1)220.
Inoltre, prosegue il paragrafo 1 dell’art. 71, il limite temporale stabilito nel primo comma può essere ridotto a tre anni dagli Stati membri, nei casi relativi al “mantenimento” degli investimenti o dei posti di lavoro creati dalle PMI.
Pertanto, come precisato dal Considerando n. 64 del Regolamento
n. 1303 del 2013, affinché l'intervento dei fondi SIE possa essere “efficace ed equo” e produrre “un impatto sostenibile”, il legislatore comunitario ha previsto misure che garantiscano il carattere durevole degli investimenti e che impediscano che i fondi SIE siano sfruttati per produrre un vantaggio indebito (e “l'esperienza ha dimostrato che un periodo di cinque anni è un periodo minimo appropriato da applicare, tranne nel caso in cui le norme sugli aiuti di Stato prevedano un periodo diverso”; e, ancora, “in linea con il principio di proporzionalità, è
220 Le ulteriori ipotesi al ricorrere delle quali è previsto il rimborso del contributo sono (i) il cambio di proprietà di un'infrastruttura che procuri un vantaggio indebito a un'impresa o a un ente pubblico e (ii) una modifica sostanziale che alteri la natura, gli obiettivi o le condizioni di attuazione dell'operazione, con il risultato di comprometterne gli obiettivi originari. Anche i precedenti Regolamenti che disciplinavano i Fondi SIE, nell’ambito degli allora vigenti quadri finanziari pluriennali, prevedevano norme analoghe relative alla durata e alla stabilità degli investimenti. Cfr., tra gli altri, l’art. 30, comma 4, del Regolamento n. 1260 del 21 giugno1999, secondo il quale “gli Stati membri si accertano che la partecipazione dei Fondi resti attribuita ad un'operazione esclusivamente se quest'ultima entro cinque anni dalla data della decisione delle competenti autorità nazionali o dell'autorità di gestione relativa alla partecipazione dei Fondi, non subisce modificazioni sostanziali: a) che ne alterino la natura o le modalità di esecuzione, o che procurino un vantaggio indebito a un'impresa o a un ente pubblico, e b) che determinino un cambiamento nella natura della proprietà di un'infrastruttura oppure la cessazione o il cambiamento di localizzazione di un'attività produttiva”; l’art. 57 del Regolamento n. 1083 dell’11 luglio 2006, secondo cui “lo Stato membro o l’autorità di gestione accertano che la partecipazione dei fondi resti attribuita ad un’operazione comprendente investimenti in infrastrutture o investimenti produttivi esclusivamente se quest’ultima, entro cinque anni dal completamento dell’operazione, non subisca modifiche sostanziali causate da un cambiamento nella natura della proprietà di un’infrastruttura o dalla cessazione di un’attività produttiva e che alterino la natura o le modalità d’esecuzione dell’operazione o procurino un vantaggio indebito a un’impresa o a un ente pubblico”.
possibile che un periodo più limitato, pari a tre anni, sia giustificato qualora l'investimento riguardi il mantenimento di investimenti o posti di lavoro creati da PMI”).
Gli importi indebitamente versati in relazione all'operazione, poi, dovranno essere “recuperati” dallo Stato membro (che, poi, provvederà a rimborsare il Fondo) “in proporzione al periodo per il quale i requisiti non sono stati soddisfatti” (così, ancora, il paragrafo 1 dell’art. 71).
Onde, con specifico riferimento alla fattispecie della delocalizzazione, il recupero del contributo non avverrà per l’intero, bensì sarà proporzionale al periodo coperto dal trasferimento dell’attività221.
Il paragrafo 2 dell’art. 71 dispone, poi, un inasprimento sanzionatorio per le ipotesi di delocalizzazione che avvengono verso paesi extra UE.
Ed infatti, la norma stabilisce che, sempre nel caso di un’operazione che preveda un investimento in infrastrutture ovvero un investimento produttivo, il contributo fornito dai fondi SIE “è rimborsato” (stavolta in toto) ove, entro dieci anni dal pagamento finale al beneficiario, “l'attività produttiva sia soggetta a delocalizzazione al di fuori dell'Unione”, precisando, tuttavia, (i) che fa eccezione l’ipotesi in cui il beneficiario sia una PMI e (ii) che, “qualora il contributo fornito dai fondi SIE assuma la forma di aiuto di Stato, il periodo di dieci anni è sostituito dalla scadenza applicabile conformemente alle norme in materia di aiuti di Stato” (vd., ancora, supra, par. 4).
Nonostante l’ambito di applicazione limitato della norma, va evidenziato come essa costituisca un importante dato di riferimento,
221 In tale senso, X. XXXXXXXX, Commento all’art. 5 del d.l. n. 87/2018, cit., 3289.
anche in un’ottica prospettica, poiché reca in sé un principio di maggiore sfavore (aumentando il termine di mantenimento e il profilo sanzionatorio) nei confronti delle delocalizzazioni effettuate verso i paesi non membri dell’Unione europea222.
Il paragrafo 4 dell’art. 71 in analisi, poi, stabilisce l’inapplicabilità delle norme previste dai paragrafi precedenti, “ai contributi forniti a o da strumenti finanziari, al leasing ai sensi dell'articolo 45, paragrafo 2, lettera b), del regolamento (UE) n. 1305/2013 né a operazioni per le quali si verifichi la cessazione di un'attività produttiva a causa di un fallimento non fraudolento”223.
Da ultimo, va menzionato, ai nostri fini, anche il Considerando n. 92 dello stesso Regolamento n. 1303 del 2013, ove è espressamente specificato che i finanziamenti dei cc.dd. “grandi progetti” (ovvero le operazioni che superano determinate soglie economiche) devono continuare ad essere sottoposti a specifiche procedure di approvazione, previste dallo stesso regolamento (artt. 100-103), e che la domanda per poterne usufruire deve contenere tutte le informazioni “necessarie a garantire che il contributo finanziario dei Fondi non dia adito a una
222 Da un punto di vista ordinamentale, ovviamente, una siffatta tendenza risulta assecondata dal fatto che all’interno dei confini dell’Unione europea le esigenze di “mantenimento” degli investimenti agevolati devono essere, comunque, contemperate con le garanzie delle libertà economiche fondamentali di circolazione e di stabilimento (vd. supra, par. 1).
223 Cfr. X. XXXX, “Custodia attiva” dell’azienda fallita e mantenimento di contributi pubblici, in Dir. Fall., 2017, n. 2, 659 ss. Infine, il paragrafo 5 dell’art. 71 del Regolamento
n. 1303 del 2013 prevede l’inapplicabilità dei primi tre paragrafi anche alle persone fisiche beneficiarie di un sostegno agli investimenti che, dopo il completamento dell'operazione di investimento, diventano ammissibili al sostegno (e lo ricevono) nell'ambito del Regolamento
n. 1309 del 2013, che disciplina il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (vd. infra), ove l'investimento in questione sia direttamente connesso al tipo di attività individuata come ammissibile al sostegno di tale ultimo fondo.
significativa perdita di posti di lavoro in centri di produzione già esistenti all'interno dell'Unione”224.
Ciò, dunque, con la principale finalità di limitare il già menzionato fenomeno della c.d. “caccia alla sovvenzione”, in termini analoghi a quanto disposto dalla norma di cui al paragrafo 16 dell’articolo 14 del GBER (vd. supra, par. 5).
In tale ottica, del resto, la Commissione europea, nella Proposta di Regolamento concernente la disciplina delle disposizioni comuni e delle regole finanziarie applicabili ai Fondi SIE per il quadro finanziario pluriennale per il periodo 2021-2027, del 29 maggio 2018225, al fine di “evitare un'improduttiva concorrenza tra sovvenzioni” (così la Relazione alla proposta), ha previsto, all’art. 60 (rubricato “Delocalizzazione”), esplicitamente che “le spese a sostegno di una delocalizzazione come definita all'articolo 2, punto 26, non sono ammissibili al contributo dei fondi” (par. 1)226.
224 Vd. l’art. 101 del Regolamento n. 1303 del 2013, rubricato “Informazioni necessarie per l'approvazione di un grande progetto”.
225 Cfr. COM(2018) 375 final, 2018/0196 (COD), “Proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio recante le disposizioni comuni applicabili al Fondo europeo di sviluppo regionale, al Fondo sociale europeo Plus, al Fondo di coesione, al Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca e le regole finanziarie applicabili a tali fondi e al Fondo Asilo e migrazione, al Fondo per la Sicurezza interna e allo Strumento per la gestione delle frontiere e i visti”, 29 maggio 2018, in xxx.xx.xxxxxx.xx.
226 Da un punto di vista definitorio, l’art. 2, n. 26), della Proposta fa riferimento, in merito al concetto di delocalizzazione, al “trasferimento dell'attività o di attività simile o di sua parte” ai sensi del (già analizzato) articolo 2, punto 61 bis, del GBER. Inoltre, prosegue l’art. 60 della Proposta, “se un contributo dei fondi configura un aiuto di Stato, l'autorità di gestione si accerta che il contributo non fornisca sostegno a una delocalizzazione in conformità all'articolo 14, paragrafo 16, del regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione” (par. 2). Del resto, la Commissione europea ha da tempo sostenuto che, in sede di negoziazione dei programmi di sostegno da parte dei fondi, “i finanziamenti europei non debbano essere accordati a imprese che provochino perdite di posti di lavoro in un'altra regione UE, poiché l'effetto netto dei fondi investiti potrebbe risultare nullo o addirittura negativo”. Così la risposta della Commissione europea n. E-010525/2010 del 31 gennaio 2011, cit. Vd., al riguardo, X. XXXXXX, F. OEZ, X. XXXXXXX, Company Relocation: The Consequences for Employees - An Analysis of the WSI Works Council Survey, in WSIDiskussionspapier, 2007, n. 151, 25.
7. Cenni sui possibili scenari de iure condendo
Le norme sin qui analizzate prevedono, indubbiamente, importanti misure di contrasto (più o meno diretto) al fenomeno delle delocalizzazioni (sebbene nello specifico ambito dei finanziamenti pubblici), e, quindi, in chiave prospettica, andrebbero certamente implementate, anche prevedendo una serie di aggiustamenti al fine di renderle più incisive ed uniformi, e di risolvere i problemi interpretativi ed applicativi che sollevano.
In un’ottica di limitazione delle implicazioni del fenomeno in analisi, il legislatore europeo, inoltre, come anticipato nel capitolo 1, ha anche stanziato una serie di risorse economiche tese a sostenere (ex post) i lavoratori maggiormente colpiti dalle delocalizzazioni.
Oltre agli stessi Fondi SIE analizzati nel paragrafo che precede (e, in particolare, al Fondo sociale europeo), nel 2006 è stato costituito in ambito comunitario il c.d. Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione227, proprio con la finalità di offrire sostegno a quei lavoratori che perdono il posto a seguito dei mutamenti strutturali del commercio mondiale dovuti alla globalizzazione, ad esempio in caso di chiusura di un'impresa o delocalizzazione di una produzione in un paese
227 Cfr., X. XXXXXX, F. MUSTILLI, Trade and labour adjustment in Europe: what role for the european globalization adjustment fund?, in xxx.xxxxx.xx.xxxxxx.xx, 2017; G. GIARDINIERI, Il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione come strumento solidaristico dell'Unione, in Riv. Dir. Sic. Soc., 2016, n. 3, 527 ss.; ID., Il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione fra potenzialità e scarso utilizzo, in Riv. Dir. Sic. Soc., 2013, n. 1, 79 ss.; X. XXXXXX, Primo bilancio del Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione: le istanze di una maggiore partecipazione delle parti sociali alla Governance, in Dir. Rel. Ind., 2010, n. 1, 275 ss.
extra UE, oppure a seguito della crisi economica e finanziaria mondiale228.
Allo stato, la disciplina di tale fondo (per il periodo 2014-2020) è contenuta nel Regolamento n. 1309 del 17 dicembre 2013, che ha abrogato il precedente Regolamento n. 1927 del 2006.
L’art. 2 (“ambito di applicazione”) del regolamento del 2013 specifica che esso si applica alle domande presentate dagli Stati membri per contributi finanziari a valere sul FEG a favore di azioni indirizzate al sostegno “dei lavoratori collocati in esubero e dei lavoratori autonomi la cui attività sia cessata in conseguenza di trasformazioni rilevanti della struttura del commercio mondiale dovute alla globalizzazione”, dimostrate, in particolare, tra le altre cose, “da una delocalizzazione di attività verso paesi terzi”229, a condizione che tali esuberi abbiano un impatto negativo di rilievo sull’economia locale, regionale o nazionale (art. 2, lett. a)230.
La Commissione europea, inoltre, ha recentemente proposto di ampliare il campo di applicazione del FEG anche ai licenziamenti
228 In tal senso, COMMISSIONE EUROPEA, Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (FEG), in xxx.xx.xxxxxx.xx. Vd., anche, PARLAMENTO EUROPEO, Come gestire la globalizzazione: le risposte dell’UE, in xxx.xxxxxxxx.xxxxxx.xx, 11 settembre 2019, ove si precisa che tale fondo solidale di emergenza co-finanzia fino al 60% delle politiche per il lavoro, per orientare i lavoratori o sostenere lo sviluppo d’impresa, e che i progetti finanziati comprendono, ad esempio, la formazione e l’accompagnamento nella ricerca del lavoro e nella creazione dell’impresa.
229 Oppure, (i) da un sostanziale aumento delle importazioni nell’Unione, (ii) da un cambiamento radicale del commercio di beni e servizi nell’Unione, o (iii) da un rapido declino della quota di mercato dell’Unione in un determinato settore.
230 Tale lettera è stata, da ultimo, sostituita dall’ art. 1 del Regolamento n. 1796 del 24 ottobre 2019, a decorrere dal 1° novembre 2019. La lettera b) dell’art. 2, fa, invece, riferimento ai lavoratori collocati in esubero e ai lavoratori autonomi la cui attività sia cessata a causa del persistere della crisi finanziaria ed economica globale affrontata nel Regolamento n. 546 del 2009 oppure a causa di una nuova crisi finanziaria ed economica globale.
causati da qualsiasi evento di ristrutturazione di una certa dimensione231.
Le difficoltà di predisporre ulteriori misure di contrasto alla delocalizzazione nell’ordinamento normativo europeo sono già state ampiamente evidenziate in apertura del presente capitolo232.
Nella prospettiva eurounitaria, la “sfida” delle delocalizzazioni potrebbe essere affrontata con diversi approcci, a seconda che le stesse siano indirizzate verso altri Stati membri, ovvero verso paesi terzi.
Soprattutto con riferimento a questi ultimi tipi di delocalizzazione, de iure condendo, potrebbero ipotizzarsi normative di limitazione più incisive, stante la possibilità, in questi casi, di non dover rigorosamente
231 Vd. la Comunicazione n. 380 del 30 maggio 2018. Secondo alcuni, in ogni caso, allo stato, il Fondo, oltre ad avere una capienza “inadeguata” (con una dotazione annua massima per il periodo 2014-2020 di 150 milioni di euro, utilizzabile non tanto per sussidi di disoccupazione o simili, bensì per corsi di riqualificazione, orientamento professionale, imprenditorialità e creazione di nuove aziende), scaricherebbe anche “sui soli lavoratori tutta la responsabilità della disparità competitiva tra sistemi economici nazionali compresi in un mercato iper- liberalizzato delle merci e dei capitali”. Così, X. XXXXXXXXXXX, Delocalizzare (non) stanca, cit.
232 Vd. PARLAMENTO EUROPEO, Relazione sulle delocalizzazioni nel contesto dello sviluppo regionale, cit., ove si evidenzia che “in seno all'Unione, è gioco forza constatare che la libera circolazione delle persone, dei beni e dei capitali è sancita dal trattato istitutivo della Comunità europea e che pertanto è difficile caldeggiare un divieto assoluto di scelta del luogo di stabilimento della propria sede di attività tanto più che un siffatto divieto comporterebbe un immobilismo negativo per l'economia europea”. Secondo il Comitato economico e sociale europeo, in termini generali, onde limitare gli effetti negativi del fenomeno delle delocalizzazioni in Europa, dovrebbe farsi leva, tra gli altri, sui seguenti aspetti: (i) istruzione, formazione e qualificazione dei lavoratori, rappresentando il capitale umano e il know-how vantaggi concorrenziali; (ii) ricerca e innovazione; (iii) maggiore interconnessione tra la politica di concorrenza e la politica industriale; (iv) sensibilizzare i consumatori sulle ripercussioni del loro comportamento; (v) predisporre strumenti finanziari flessibili per far fronte a shock imprevisti; (vi) migliorare i servizi pubblici e le infrastrutture;
(vii) concepire e applicare adeguatamente politiche sociali dirette a promuovere un atteggiamento positivo nei confronti del cambiamento, a permettere che i lavoratori adattino e migliorino le loro capacità, e a incentivare la creazione di posti di lavoro; (viii) aumentare il dialogo sociale a livello aziendale, settoriale e interprofessionale; (ix) tener conto della dimensione sociale della globalizzazione e cercare un'adeguata interazione tra le politiche dell'UE per dare impulso alla cooperazione tra l'OMC e l'OIL. Così, il Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema Portata ed effetti della delocalizzazione delle imprese, cit.
sottostare ai principi di garanzia delle libertà economiche fondamentali vigenti nell’ordinamento eurounitario.
Del resto, come previsto dai Trattati, nella definizione delle sue politiche e azioni, l’Unione europea tiene conto, tra le altre cose, “delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione”233, ed in quest’ottica potrebbero incrementarsi le misure tese al contrasto delle delocalizzazioni extra UE234.
Per quanto riguarda, invece, le delocalizzazioni intra UE, una possibile soluzione potrebbe essere, ovviamente, quella di incrementare l’uniformazione (o, quantomeno, l’armonizzazione) dei sistemi sociali (e fiscali) degli Stati xxxxxx000.
Tuttavia, le differenze esistenti tra le legislazioni dei diversi Stati membri, derivanti anche da ragioni storico-culturali, sono evidentemente difficilmente appianabili, e, comunque, risulta complicato individuare un punto di mediazione tra un’uniformità verso l’alto (che aumenti gli standard dei paesi meno sviluppati) ed
233 Così, art. 9 del TFUE. Vd., anche, artt. 145 ss. del TFUE e art. 3 del TUE.
234 Sebbene sempre nell’ottica di un necessario bilanciamento con la libertà d’impresa (tutelata anche a livello europeo) e con i principi del libero commercio internazionale.
235 Così, la Risoluzione del Parlamento europeo sulle delocalizzazioni nel contesto dello sviluppo regionale, cit. Come evidenziato nel preambolo della proposta di legge nazionale n. 2021 del 12 novembre 2020, sarebbe necessario porre a livello europeo le questioni “dirimenti di una tassazione omogenea dei profitti aziendali e di un salario minimo europeo”, nonché favorire “un coordinamento delle politiche europee per arginare l’abuso di finanziamenti pubblici da parte di società che praticano la delocalizzazione all’interno dell’Unione europea mettendo in concorrenza tra loro i territori europei”. Da ultimo, vd. COM(2020) 682 final del 28 ottobre 2020, con cui la Commissione europea ha proposto di emanare una direttiva “relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea”. Al riguardo, cfr., A. LO FARO, L’iniziativa della Commissione per il salario minimo europeo tra coraggio e temerarietà, in Lav. Dir., 2020, n. 3, 539 ss.; X. XXXXXXX, Il salario minimo legale. Tra la dimensione europea e le compatibilità ordinamentali, Bari, 2020. Vd., inoltre, il c.d. Pilastro europeo dei diritti sociali del 17 novembre 2017. Cfr., X. XXXXXXXXXXXXX, X. XXXXXXX,
X. XX XXXXX, A European Social Union after the Crisis, Cambridge, 2017.
un’eventuale uniformità verso il basso (che diminuisca quelli dei paesi più sviluppati per renderli maggiormente attrattivi)236.
Inoltre, come evidenziato in dottrina, per riequilibrare le storture del mercato interno (sempre più “disinvolto nel profittare del dumping sociale”), certamente bisognerebbe tentare di superare quel dualismo che ha sinora contrapposto regolamentazione e concorrenza nell’ordinamento eurounitario, favorendo, invece, “una relazione sinergica capace d’includere norme e standard di protezione del lavoro”237.
236 Del resto, anche a livello europeo, oltreché nel contesto internazionale, “va registrata la diffidenza da parte di paesi caratterizzati da differenti tradizioni storiche, culturali e politiche verso l’imposizione di standard minimi di tutela del lavoro”. Così, X. XXXXX, Manuale del nuovo corso, cit., 10, il quale evidenzia che tale diffidenza “si traduce spesso in ferma opposizione, soprattutto da parte di quei paesi che lamentano che le proprie condizioni non consentono neppure di assicurare quegli standard minimi, oppure rivendicano il diritto di competere nel mercato globale (attirando investimenti di capitali e promuovendo esportazioni di beni e servizi) sfruttando l’unica leva di cui dispongono, e cioè il minor costo del lavoro”.
237 In tal senso, X. XXXXXXX, De-localizzazioni industriali, cit., 1331, Vd., anche, tra gli altri,
X. XXXXXXXX, Tutela del lavoro e concorrenza tra imprese nell’ordinamento dell’Unione europea, in Dir. Lav. Rel. Ind., 2010, 518 ss.; X. XXXXXXXXX, Europa dei mercati e conflitto sociale, Bari, 2009; X. XXXX, Diritto del lavoro e libera prestazione di servizi nell’Unione europea, Bologna, 2008; P. DE PASQUALE, L’economia sociale di mercato nell’Unione europea, in Scritti in onore di Xxxxxxxx Xxxxxxx, Napoli, 2014, 1643 ss. Vd., anche, X. XXXXX, Manuale del nuovo corso, cit., 13, secondo il quale “è inevitabile ritenere che sia indispensabile, per quanto complesso (e forse illusorio), ricercare un nuovo assetto delle regole del commercio che tenga conto dei loro effetti sul piano sociale, muovendo dal presupposto che il fine (e il valore) fondamentale resta la realizzazione dei valori della persona, mentre il mercato è soltanto uno strumento”.