Edizione di martedì 10 ottobre 2017
Edizione di martedì 10 ottobre 2017
Agevolazioni fiscali, GESTIONE DELLA PROFESSIONE E SOFTWARE
Spesometro: il termine per l’invio slitta al 16 ottobre
di Redazione
Famiglia e successione
Sull’ammissibilità della rinuncia all'azione di restituzione
di Xxxxxxx Xx Xxxx
Diritto del Lavoro
Il contratto di apprendistato
di Xxxxxxxxxxx Xxxxxx
DIRITTO D'IMPRESA, Diritto e reati societari
Quando la lavorazione incide sulla non imponibilità della cessione UE
di Redazione
DIRITTO D'IMPRESA, Diritto e reati societari
Il procedimento penale 231: la Cassazione prende posizione su vari aspetti controversi con la sentenza n. 41768/2017
di Xxxxxxx Xxxxx
Diritto Bancario
Banca e cliente: distribuzione degli oneri probatori
di Xxxxx Xxxxxxxx
ESECUZIONE FORZATA E PROCEDURE CONCORSUALI, Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Nel concordato in bianco può essere autorizzata la sospensione dei contratti pendenti - anche inaudita altera parte - ma non lo scioglimento
di Xxxx Xxxxxx
ESECUZIONE FORZATA E PROCEDURE CONCORSUALI, Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Nel concordato in bianco può essere autorizzata la sospensione dei contratti pendenti - anche inaudita altera parte - ma non lo scioglimento
di Xxxx Xxxxxx
Procedimenti di cognizione e ADR, PROCEDIMENTI SPECIALI E ADR
E’ possibile partecipare al procedimento di mediazione mediante conferimento di procura speciale all’avvocato
di Xxxxxx Xxxxx
Procedimenti di cognizione e ADR, PROCEDIMENTI SPECIALI E ADR
E’ possibile partecipare al procedimento di mediazione mediante conferimento di procura speciale all’avvocato
di Xxxxxx Xxxxx
Impugnazioni
Garanzia del contraddittorio e applicazione del procedimento camerale di cui all’art. 380 bis.1
c.p.c. fuori dai casi previsti dalla legge
di Xxxxxx Xxxxx
Procedimenti di cognizione e ADR
Violazione del consenso informato e onere della prova
di Xxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxxxx
Procedimenti di cognizione e ADR
Querela di falso contro documenti di formazione pubblica. Condizioni e limiti d’impiego
di Xxxxx Xxxxx
Agevolazioni fiscali, GESTIONE DELLA PROFESSIONE E SOFTWARE
Spesometro: il termine per l’invio slitta al 16 ottobre
di Redazione
DIRITTO D'IMPRESA, Diritto e reati societari
Quando la lavorazione incide sulla non imponibilità della cessione UE
di Redazione
DIRITTO D'IMPRESA, Diritto e reati societari
Il procedimento penale 231: la Cassazione prende posizione su vari aspetti controversi con la sentenza n. 41768/2017
di Xxxxxxx Xxxxx
Agevolazioni fiscali, GESTIONE DELLA PROFESSIONE E SOFTWARE
Spesometro: il termine per l’invio slitta al 16 ottobre
di Redazione
Con il comunicato stampa n. 163 di ieri il Ministero dell’economia e delle finanze ha annunciato l’ennesima proroga del termine per effettuare la comunicazione all’Agenzia delle Entrate dei dati delle fatture emesse e ricevute relative al primo semestre del 2017.
La nuova scadenza, fissata al prossimo 16 ottobre, è prevista da un apposito DPCM, emanato su proposta del ministro Xxxx Xxxxx Xxxxxx, il quale ha firmato il provvedimento nella giornata di ieri.
In pratica, per procedere all’invio dello spesometro, si avranno 11 giorni in più, atteso che l’Agenzia, con il comunicato dello scorso 25 settembre, aveva fatto slittare il termine del 28 settembre a oggi, 5 ottobre.
È stata, quindi, accolta la richiesta di ulteriore rinvio avanzata da parte di professionisti e imprese per le difficoltà riscontrate al momento della trasmissione telematica dei documenti fiscali. Difficoltà che sono derivate, sia dalla incapacità del sistema di gestire l’ingorgo dei dati inviati nei momenti di picco (tra la fine di settembre e questi ultimi giorni sono state inviate al Fisco oltre un miliardo e seicento milioni di fatture), sia dalla sospensione della trasmissione della comunicazione a causa dei noti problemi di privacy.
Xxxxxxx, tuttavia, evidenziare che il comunicato di ieri del MEF non interviene sull’aspetto sanzionatorio. Al riguardo, si ricorda che il comunicato stampa dell’Agenzia dello scorso 25 settembre, oltre a annunciare la proroga dell’adempimento, aveva affermato che, laddove fossero state riscontrate obiettive difficoltà per i contribuenti, “a discrezione degli uffici dell’Agenzia potranno essere disapplicate le sanzioni:
per meri errori materiali e/o nel caso in cui l’adempimento sia stato effettuato dopo il 5 ottobre, ma entro i 15 giorni dall’originaria scadenza”.
Ora sul tema si aprono due questioni. La prima riguarda il fatto che, anche volendo intendere come originaria scadenza il 28 settembre, l’ultraperiodo utile per la disapplicazione delle sanzioni, esaurendosi il 13 ottobre (28 settembre + 15 giorni), scade prima della nuova scadenza fissata al 16 ottobre.
Il secondo aspetto è relativo alla discrezionalità: è evidente che lasciare ai singoli uffici dell’Agenzia la valutazione sulla non applicazione delle sanzioni – “per meri errori materiali” – rischia di generare spiacevoli disparità di trattamento.
Articolo tratto da “Euroconferencenews“
Famiglia e successione
Sull’ammissibilità della rinuncia all'azione di restituzione
di Xxxxxxx Xx Xxxx
Può capitare che, nella trattativa circa l’acquisto di un immobile, emerga che uno degli atti di provenienza è una donazione. Si parla in tal caso del problema della c.d. “provenienza donativa”, insorgente dagli artt. 561 e 563 c.c.
In particolare, il legislatore prevede, all’art. 563 c.c., la facoltà per il legittimario (cioè per il coniuge, il discendente o, in assenza di discendenti, l’ascendente) che sia stato leso nei diritti ereditari ad esso riservati dalla legge, di agire non solo – con l’azione di riduzione – contro i donatari di beni immobili, ma anche – con l’azione di restituzione – contro coloro che hanno acquistato, a qualsiasi titolo, dai donatari stessi.
In altri termini il legittimario insoddisfatto può aggredire, per i vent’anni successivi alla trascrizione della donazione, oltre che il patrimonio del donatario, anche il patrimonio dei suoi aventi causa (che spesso sono acquirenti in buona fede). Ulteriore complicazione discende dal fatto che il legittimario che agisce in restituzione ottiene la proprietà dei beni oggetto di donazione libera da pesi e ipoteche. Ciò comporta che le banche difficilmente finanziano un’operazione di acquisto immobiliare in presenza del rischio dell’azione di restituzione.
Ulteriore premessa risiede nell’art. 557 c.c., che prevede che i legittimari non possano rinunziare all’azione di riduzione fintantoché è in vita il donante.
Secondo l’interpretazione tradizionale, l’art. 557 c.c. avrebbe permesso di risolvere il problema della provenienza donativa solo dopo la morte del donante: da quel momento i legittimari possono rinunziare a ogni azione relativa all’eredità, compresa la sola azione di restituzione, per permettere una più semplice circolazione dei beni che siano stati oggetto di donazione.
Si negava invece la possibilità di una rinunzia all’azione di restituzione durante la vita del donante, in quanto si riteneva che il divieto di rinunzia ex 557 c.c. si estendesse non solo all’azione di riduzione ma anche all’azione di restituzione (interpretata come ancillare, se non addirittura species del genus della riduzione).
La dottrina (ex multis XXXXXXXXX), anche di seguito alla riforma attuata con il D.L. 35/2005, ha iniziato a suggerire l’esperibilità di una rinunzia, per atto notarile, all’azione di restituzione anche durante la vita del donante, meglio se contestuale all’atto di donazione stessa. Si ammette cioè la rinunzia all’azione di restituzione anche durante la vita del donante poiché si tratterebbe di un’azione autonoma, non ricompresa nel divieto ex 557 c.c., che – come ogni norma di divieto – dovrebbe avere carattere tassativo e non essere interpretata per analogia.
La giurisprudenza di merito negli ultimi tre anni si sta iniziando a schierare a favore della tesi più moderna.
Un primo arresto del Tribunale di Torino, in data 26 settembre 2014, aveva confermato l’ammissibilità della rinunzia all’azione di restituzione.
Più di recente il tribunale di Pescara, con decreto del 25 maggio 2017, ha conferma tale ricostruzione. Il ragionamento è svolto in tre punti:
L’azione di restituzione è “del tutto diversa e distinta” dall’azione di riduzione; la sua rinunzi abilità si può desumere dal fatto che la novella del 2005 ha introdotto un termine ventennale, e così, implicitamente, la facoltà di rinunziare a detto termine, anticipando gli effetti del suo decorso.
La rinunzia all’azione di restituzione non può essere considerata un patto successorio rinunziativo, nullo ex art. 458 c.c., in quanto con la donazione il bene fuoriesce dal patrimonio del donante prima del suo decesso. Ciò significa che non si può considerare una rinunzia a un bene che sarà nel patrimonio del donante al momento della sua morte.
Non si può trascrivere autonomamente la rinunzia all’azione di riduzione, ma dev’essere ammessa l’annotazione a margine della trascrizione della donazione, con funzione informativa per i terzi.
Seguendo la strada segnata dalla dottrina e dai tribunali di merito si può certamente limitare, nel caso in cui in famiglia vi sia condivisione delle scelte del donante, il rischio di problemi nella circolazione del bene di provenienza donativa.
Tribunale di Pescara, decreto del 25 maggio 2017 n. 250
L’azione di restituzione ai sensi dell’art. 563 c.c. è legislativamente ritenuta, per via implicita, rinunciabile con l’introduzione (novella 80/2005), nell’ambito del disposto del primo comma dell’articolo in esame, del limite temporale di esercizio del ventennio dalla trascrizione della donazione. Né tale rinunzia costituisce un patto successorio rinunciativo, nullo ex art. 458 c.c., visto che con la donazione il bene è fuoriuscito dal patrimonio del donante, futuro de cuius, prima del suo decesso. Tale rinunzia può essere annotata, a titolo informativo, a margine della donazione.
Diritto del Lavoro
Il contratto di apprendistato
di Xxxxxxxxxxx Xxxxxx
Xxxxx xx Xxxxxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxx, 00 luglio 2017, n. 17373
Contratto di apprendistato – qualificazione come rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – recesso durante fase formativa – qualificazione come licenziamento
MASSIMA
L’apprendistato, anche in vigenza della precedente disciplina, è da considerarsi un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, caratterizzato da una prima fase a causa mista, in virtù dello scambio tra attività lavorativa e formazione professionale, ed una seconda fase eventuale, condizionata al mancato recesso ex art. 2118 c.c., che rientra nel novero del rapporto di lavoro subordinato. Ne consegue che il licenziamento intimato durante la prima fase non può considerarsi recesso “ante tempus” come nel rapporto di lavoro a tempo determinato.
COMMENTO
Un dipendente con qualifica di apprendista tornitore impugnava il suo licenziamento per giusta causa e chiedeva la condanna della Società al pagamento delle retribuzioni che avrebbe percepito lavorando sino alla scadenza del contratto di apprendistato. Sia il Tribunale sia la Corte d’Appello riconoscevano l’illegittimità del licenziamento e il diritto al risarcimento delle retribuzioni spettanti al lavoratore. La Società, pertanto, ricorreva in Cassazione, eccependo la violazione degli art. 8 l. 604/66 e art. 1 D.lgs. 167/2011: la tutela riconosciuta al lavoratore dalla sentenza impugnata era più forte di quella che gli sarebbe spettata se il rapporto fosse stato correttamente qualificato come a tempo indeterminato. La Suprema Corte ha accolto il ricorso della Società, riconoscendo che il legislatore ha previsto anche per gli apprendistati le tutele ordinarie. La Cassazione anzitutto ha chiarito che, pur essendo applicabile al caso di specie la disciplina previgente (L. 25/1955), nulla cambia nel merito dell’oggetto in disamina. Tutte le normative sull’apprendistato (quella applicabile rationae temporis, quella richiamata dal Ricorrente – D.lgs. 167/2011 – e quella ora vigente – D.lgs. 81/2015 –) riconoscono che il contratto di apprendistato è un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bi-fasico: la prima fase si caratterizza per essere a causa mista (da una parte lo scambio tra la prestazione di lavoro e la retribuzione, dall’altra lo scambio tra attività lavorativa e formazione professionale), la seconda (eventuale) fase è un rapporto di lavoro subordinato pieno. Di conseguenza, l’apprendistato deve essere assimilato interamente a un rapporto di lavoro ordinario: sul punto, peraltro, la stessa Corte Costituzionale ha da tempo esteso la disciplina di cui alla L. 604/66 anche al contratto di apprendistato. Tanto premesso, la Corte ha dato atto
che nelle proprie difese il controricorrente sosteneva di aver chiesto il risarcimento del danno per l’inadempimento contrattuale derivato dal licenziamento illegittimo, ma, come puntualmente osservato dalla Corte, il legislatore ha previsto due regimi tra loro sostitutivi e non alternativi: non si può, quindi, prescindere dalla corretta qualificazione del contratto di apprendistato come contratto a tempo indeterminato o determinato. In definitiva, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata, evidenziando come l’unica tutela applicabile ad un apprendista licenziato sia quella di cui al regime ordinario dei contratti a tempo indeterminato. La Cassazione, infine, ha aggiunto che sarebbe stato onere del Giudice del rinvio accertare la dimensione occupazionale della Società al fine di stabilire quale tutela fosse effettivamente applicabile nel caso di specie.
Articolo tratto dalla Rivista Euroconference “IL GIURISTA DEL LAVORO”
DIRITTO D'IMPRESA, Diritto e reati societari
Quando la lavorazione incide sulla non imponibilità della cessione UE
di Redazione
Nella sentenza Xxxxxxx, di cui alla causa C-386/16 del 26 luglio 2017, la Corte di giustizia ha dovuto stabilire non solo se l’esenzione prevista per le cessioni intraunionali di beni sia applicabile nella specifica vendita “a catena” presa in considerazione, ma anche se
la lavorazione avente per oggetto i beni già oggetto di cessione possa incidere sul regime di esenzione ad essa applicabile.
Come altrove ricordato (xxxx://xxx.xxxxxx.xx/xxxxxxxxxxxx-xxxxxx-xxxxx-xxxxxxxxxxx-xxx-xxxxx- triangolazione/), il caso esaminato è quello di una società lituana che cede i beni ad una società estone con consegna in Lituania, quindi con clausola “franco partenza”. A sua volta, la società acquirente vende i beni ai propri clienti, identificati ai fini IVA in altri Paesi membri, organizzando il relativo trasporto “a destino”.
Dai fatti di causa si desume che la società lituana, dopo la cessione, custodisce i beni in attesa del loro trasporto nel Paese di destinazione finale, che deve avvenire entro 30 giorni.
Nella situazione descritta, in cui il primo cedente assume la veste di depositario dei beni, la Corte ha ritenuto che la corrispondente cessione sia imponibile, con esenzione limitata
alla seconda cessione, alla quale è riconducibile il trasporto intraunionale organizzato dalla società estone.
Come anticipato, con la pronuncia richiamata, l’ulteriore questione risolta dai giudici dell’Unione è se l’esenzione prevista per le cessioni intraunionali sia applicabile nel caso in cui i beni già oggetto della cessione iniziale siano lavorati su incarico del soggetto intermedio.
In proposito, viene osservato che l’articolo 138, par. 1, della Direttiva n. 2006/112/CE, nel definire le condizioni sostanziali dell’esenzione, nulla prevede in ordine all’ipotesi in cui la lavorazione sia effettuata dopo la prima cessione, per cui – conclude la Corte – “una trasformazione dei beni, durante una catena di due successive cessioni, come quella di cui al procedimento principale, sulla base delle istruzioni dell’acquirente intermediario ed effettuata prima del trasporto verso lo Stato membro dell’acquirente finale, non incide sulle condizioni dell’eventuale esenzione della prima cessione, allorché tale trasformazione è posteriore alla prima cessione”.
Ai fini dell’individuazione delle condizioni sostanziali dell’esenzione, il riferimento
giurisprudenziale è dato dalla sentenza Euro Tyre (causa C-21/16 del 9 febbraio 2017), in base alla quale è richiesto che il potere di disporre del bene come proprietario sia stato trasmesso all’acquirente e che il venditore provi che tale bene sia stato spedito o trasportato in altro Stato membro.
È, inoltre, indispensabile che il cessionario sia un soggetto passivo che agisce in quanto tale in uno Stato membro diverso da quello di partenza dei beni, laddove la nozione di soggetto passivo è quella definita dall’articolo 9, par. 1, della Direttiva n. 2006/112/CE, che fa riferimento esclusivamente a chi svolge, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica, quali che siano gli scopi e i risultati di tale attività. La soggettività passiva prescinde, quindi, sia dal possesso del numero di identificazione IVA, eventualmente specifico per la realizzazione di operazioni intracomunitarie, sia dall’iscrizione nel sistema VIES, che rappresentano requisiti soltanto formali, non idonei in quanto tali a porre in discussione il diritto del cedente a beneficiare dell’esenzione se ricorrono le predette condizioni sostanziali; sicché, in merito al profilo da ultimo considerato, non v’è dubbio che la disciplina italiana in materia di VIES sia tuttora illegittima sul piano unionale, anche dopo le semplificazioni introdotte dal D.Lgs. 175/2014 (xxxx://xxx.xxxxxx.xx/xxxxxxxxxx-xx-xxxx-xxxxxxxxxxx-xx-xxxx- dellesenzione-iva/).
L’irrilevanza della lavorazione sul trattamento di esenzione eventualmente applicabile alla prima cessione è coerente anche con la sentenza Fonderie 2A (causa C-446/13 del 2 ottobre 2014), secondo cui, per attribuire la detassazione ad una operazione, deve sussistere un “nesso temporale e sostanziale sufficiente” tra la cessione e la spedizione.
Tale nesso manca se, come nel caso esaminato dalla pronuncia, la spedizione transfrontaliera è finalizzata in un primo tempo alla lavorazione, mentre s’intende realizzato quando i beni spediti all’acquirente sono conformi alle previsioni contrattuali.
Nella fattispecie dedotta in giudizio, una società italiana ha venduto pezzi metallici ad una società francese previa verniciatura effettuata, per conto della società italiana, da un’altra società francese.
Dato che, ai sensi dell’articolo 32 della Direttiva n. 20067112/CE, per le cessioni di beni con trasporto/spedizione rileva il luogo in cui il bene si trova nel momento iniziale del trasporto/spedizione a destinazione dell’acquirente, si tratta di stabilire se la spedizione delle parti metalliche a destinazione del cliente francese sia iniziata in Italia, quando il fornitore ha spedito i beni al terzista francese ai fini della verniciatura, oppure in Francia, quando le parti metalliche, una volta verniciate, sono state consegnate al cliente.
La Corte di giustizia ha affermato che la cessione non può considerarsi effettuata in Italia, in quanto il contratto di compravendita ha per oggetto il prodotto finito, cioè le parti metalliche verniciate, presenti in Francia (e non in Italia) nel momento iniziale del trasporto/spedizione a destinazione dell’acquirente, per cui il luogo della cessione – inteso come quello in cui avviene il trasferimento all’acquirente del potere di disporre del bene come proprietario, ai sensi
dell’articolo 14, par. 1, della Direttiva n. 2006/112/CE – non è l’Italia, ma la Francia.
Sussiste, pertanto, un “nesso sostanziale” della spedizione con la lavorazione del bene, anziché con la sua cessione all’acquirente, quando il “nesso sostanziale sufficiente” della spedizione del bene con la cessione dello stesso sorge in un secondo tempo, nella specie quando la merce spedita all’acquirente è conforme alle previsioni contrattuali.
La conclusione della Corte conferma la legittimità della previsione di non imponibilità prevista dall’articolo 41, comma 1, lett. a), del D.L. 331/1993, riconosciuta anche se i beni sono “sottoposti per conto del cessionario, ad opera del cedente stesso o di terzi, a lavorazione, trasformazione, assiemaggio o adattamento ad altri beni”.
In pratica, occorre distinguere a seconda che l’ordine di acquisto del cliente comunitario abbia per oggetto il bene lavorato o il bene non lavorato.
Nel primo caso (cessione del bene lavorato), in cui il costo della lavorazione, essendo fatturato dal terzista nei confronti del cedente italiano, è incorporato nel prezzo di vendita del bene ceduto, ai fini della fatturazione in regime di non imponibilità della cessione è richiesto che la lavorazione sia effettuata in Italia, in conformità alle indicazioni della sentenza Fonderie 2A.
Nel secondo caso (cessione del bene da lavorare), invece, in cui il costo della lavorazione, essendo fatturato dal terzista direttamente nei confronti del cessionario comunitario, non risulta incorporato nel prezzo di vendita praticato dal cedente italiano, si rientra nell’articolo 41, comma 1, lett. a), del D.L. 331/1993, nella parte in cui stabilisce che le cessioni intracomunitarie si considerano non imponibili anche se i beni sono “sottoposti per conto del cessionario, ad opera del cedente stesso o di terzi, a lavorazione, trasformazione, assiemaggio o adattamento ad altri beni” (si veda anche la C.M. n. 13-VII-15-464/1994, § B.2.1).
Articolo tratto da “Euroconferencenews“
DIRITTO D'IMPRESA, Diritto e reati societari
Il procedimento penale 231: la Cassazione prende posizione su vari aspetti controversi con la sentenza n. 41768/2017
di Xxxxxxx Xxxxx
Competenza per territorio e competenza per connessione rispetto a reati non oggetto di addebito 231, contestazione 231 con rinvio ai capi di imputazione per le persone fisiche, utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, indipendenza delle impugnazioni dell’imputato e dell’ente, queste le principali questioni procedimentali e processuali affrontate nelle 146 pagine della sentenza della Cassazione penale, Sez. VI, n. 41768 depositata il 13.9.2017.
Con tale pronuncia la Suprema Corte ha assunto precisa e motivata posizione su alcuni degli aspetti più controversi della disciplina processual-penalistica dell’accertamento della Responsabilità degli enti, in bilico tra norme del codice di procedura penale e disposizioni speciali di cui al D.Lgs. 231/01.
Competenza per territorio e connessione
“Il <<giudice penale competente>> a conoscere gli illeciti amministrativi dell’ente è il medesimo
<<giudice penale competente>> per i reati dai quali gli stessi dipendono, anche se la sua competenza in relazione a questi ultimi discende dall’applicazione delle regole di connessione”.
La Cassazione, dunque, sancisce la competenza in relazione al procedimento 231 in capo al giudice, non solo astrattamente, ma in concreto competente a decidere in merito al reato presupposto, a nulla rilevando che tale competenza sia determinata per connessione rispetto ad un diverso reato addebitato esclusivamente a persone fisiche.
Tale conclusione sarebbe per la Corte in linea con l’intenzione del legislatore tesa ad “agevolare il più possibile, la celebrazione di un simultaneus processus ed evitare contrasti di giudicato con conseguenti giudizi di revisione”.
Contestazione 231 con rinvio ai capi di imputazione per le persone fisiche
Secondo la Suprema Corte non è affetta da nullità la contestazione nei confronti dell’ente, laddove, come nel caso all’esame, gli elementi essenziali della stessa siano ricavabili dal rinvio ai capi di imputazione a carico delle persone fisiche.
La sentenza fa salva la contestazione, quanto all’indicazione dei rapporti ex art. 5 D.Lgs. 231/01 tra imputati persone fisiche ed ente, in quanto la contestazione stessa “opera un
espresso analitico riferimento ai capi di imputazione addebitati alle persone fisiche, al dichiarato fine tanto dell’individuazione dei singoli reati-presupposto, quanto del tipo di rapporto intercorrente… tra l’ente e la persona fisica che agiva per suo conto”.
Il rinvio al contenuto di altri capi accusatori sanerebbe le lacune della contestazione specifica all’ente anche con riguardo all’individuazione dei requisiti di interesse e vantaggio. Si legge infatti: “è vero che il capo 90.f non esplicita puntualmente il profilo del vantaggio o dell’interesse dell’ente. Tuttavia, le singole contestazioni cui fa rinvio il capo 90.f consentono di individuare i vantaggi indebitamente conseguiti dalle società… in relazione a ciascun reato e gli interessi per le stesse illecitamente perseguiti”.
Utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche
La questione specifica è da sempre stata oggetto di dibattito dottrinale. Parte della dottrina escludeva l’utilizzabilità delle intercettazioni per l’accertamento dell’illecito amministrativo, in considerazione del fatto che le intercettazioni vengono autorizzate dal giudice solo in presenza di uno dei reati previsti dall’art. 266 c.p.p., non quindi in caso di “illeciti amministrativi dipendenti da reato”. Altra parte della dottrina riteneva che le intercettazioni fossero utilizzabili per effetto del richiamo alle regole generali del rito penale, anche al di fuori della simultaneità processuale, ovviamente solo nei casi in cui ciò sia consentito in relazione al particolare reato presupposto che si persegue.
In giurisprudenza si è spesso assistito, in concreto, ad un ampio utilizzo delle intercettazioni telefoniche, effettuate in relazione ai reati presupposto, anche nei confronti dell’ente incolpato ai sensi del D.Lgs. 231/01.
Un esempio è dato dalla sentenza n. 37712/14 della Corte di Cassazione, II Sezione Penale, che espressamente pone in risalto le risultanze di intercettazioni telefoniche in sede cautelare 231, al fine di trarre da esse conferma circa “la sussistenza del concreto pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede”.
La recentissima sentenza qui in esame affronta direttamente la questione, per rispondere alle doglianze della difesa, affermando che “è indiscusso che le disposizioni del codice di procedura penale in materia di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni si applichino anche nei confronti degli enti”.
La motivazione si fonda innanzitutto sul disposto degli artt. 34 e 35 D.Lgs. 231/01 che richiamano l’applicabilità delle disposizioni del codice di procedura penale in quanto compatibili e l’applicabilità all’ente delle disposizioni processuali relative all’imputato. Dettati normativi che, secondo la Corte, sarebbero corroborati dalla Relazione Ministeriale al X.Xxx.
231/01 laddove si osserva che “Poiché l’illecito penale è uno dei presupposti della responsabilità, occorre disporre di tutti i necessari strumenti di accertamento di cui è provvisto il procedimento penale…”.
La sentenza richiama “il consolidato orientamento giurisprudenziale”, secondo cui “i risultati delle intercettazioni telefoniche disposte per uno dei reati rientranti tra quelli indicati nell’art. 266
c.p.p. sono utilizzabili anche con riferimento ad altri reati che emergano dall’attività di captazione, ancorchè per essi le intercettazioni non sarebbero state consentite, purchè tra il contenuto dell’originaria notizia di reato alla base dell’autorizzazione e quello dei reati per cui si procede separatamente vi sia una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico, cosicchè il relativo procedimento possa ritenersi non diverso rispetto al primo, ai sensi dell’art. 270 c.p.p., comma 1”.
Da tale orientamento la Suprema Corte deduce che “sembra ragionevole concludere che i risultati desumibili dalle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni ordinate per il reato presupposto sono comunque utilizzabili anche per accertare la responsabilità dell’ente, ed anche se il procedimento relativo a quest’ultimo sia stato formalmente separato per vicende successive.
Invero, pure a voler sottolineare che altro è il reato presupposto ed altro è l’illecito amministrativo dipendente dal reato presupposto, è innegabile l’esistenza di una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico, tra il contenuto dell’originaria notizia di reato alla base dell’autorizzazione e quello dell’illecito amministrativo dipendente dal medesimo reato”.
Indipendenza delle impugnazioni dell’imputato e dell’ente
Sul punto la Suprema Corte afferma che “… le impugnazioni dell’imputato persona fisica e dell’ente sono e restano tra di loro indipendenti: è solo l’eventuale risultato positivo che si estende per evitare giudicati contrastanti che potrebbero imporre la revisione della sentenza dichiarativa di responsabilità nei confronti dell’ente…”.
Tale principio, che discenderebbe da un lato dalla “limitazione soggettiva” prevista dall’art. 71 D.Lgs. 231/01, che individua nell’ente e nel pubblico ministero i soli soggetti legittimati ad impugnare le sentenze che applichino le “sanzioni amministrative” 231, dall’altro dall’art. 72 del decreto stesso, laddove prevede che le impugnazioni di imputato ed ente “xxxxxxx, rispettivamente, all’ente e all’imputato…”, determina che “… l’imputato persona fisica autore del reato presupposto, anche quando sia rappresentante legale e socio della persona giuridica, non è legittimato, né ha interesse ad impugnare il capo della sentenza relativo all’affermazione di responsabilità amministrativa dell’ente…”.
Queste sono solo alcune delle interessanti posizioni assunte dalla Suprema Corte in seno alla sentenza in oggetto, cui altre se ne aggiungono sul piano processuale e sostanziale e con le quali non sarà possibile non confrontarsi nell’esperimento della difesa penale degli enti.
Diritto Bancario
Banca e cliente: distribuzione degli oneri probatori
di Xxxxx Xxxxxxxx
Gli aspetti inerenti alla distribuzione degli oneri probatori è di perdurante interesse per gli operatori del diritto bancario.
Punto di partenza è il principio dispositivo della prova, desumibile dal combinato disposto di cui agli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., secondo cui coloro i quali intendono far valere un proprio diritto in giudizio, devono provare i fatti che ne costituiscono il fondamento: onus probandi incumbit ei qui dicit, non ei qui negat.
Tale principio, costituendo l’architrave dell’intero sistema processuale, non può soffrire deroghe se non nei casi espressamente previsti dalla legge, con la conseguenza che il Giudice non può porre a fondamento della propria decisione circostanze che non siano state provate da chi intenda avvalersene.
La giurisprudenza di legittimità, nella nota sentenza Xxxx., Sez. Un., n. 13533/2001, ha chiarito in che modo debba essere ripartito tale onere probatorio, stabilendo che il creditore che agisce in giudizio deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto ed allegare l’inadempimento (o l’inesatto adempimento) del debitore, sul quale, invece, incombe l’onere di dimostrare l’avvenuto esatto adempimento dell’obbligazione (ovvero un fatto estintivo o modificativo della stessa).
Nelle controversie aventi ad oggetto rapporti bancari 1) qualora ad agire in giudizio sia la Banca, grava su quest’ultima l’onere di produrre in giudizio il contratto, unitamente alla documentazione contabile (estratti conto e riassunti scalari) dall’inizio del rapporto, con la conseguenza che la ricostruzione dell’andamento del rapporto – sulla base del contratto prodotto in atti dalla banca – deve essere effettuata partendo dal saldo del primo estratto conto disponibile, se a credito per il cliente; nel caso in cui, invece, il primo estratto conto disponibile sia a debito per il cliente, occorre ripartire dal saldo zero (cfr. Cass. n. 9695/2011, Cass. n. 1842/2011, Cass. n. 23974/2010); 2) qualora, invece, sia il correntista ad agire in ripetizione o comunque per l’accertamento del dovuto, la ricostruzione dei rapporti di dare/avere – sulla base del contratto prodotto in atti da quest’ultimo – va circoscritta al periodo in relazione al quale risultano prodotti gli estratti conto (senza potere muovere dal saldo zero
in caso di un primo estratto conto a debito per il cliente): pertanto, se il correntista agisce in giudizio contro la Banca, ha l’onere, innanzitutto, di produrre il contratto, e, in mancanza, la relativa domanda deve essere rigettata (ex multis Cass. n. 9201/2015; Tribunale Bari, 1.3.2016; Trib. Vicenza 28.1.2016; Trib. Cagliari 16.6.2015; App. Milano 6.12.2012, Trib. Xxxxxx Inferiore 29.1.2013; Trib. Bari, sez. dist. Monopoli, 17.11.2011; Trib. Roma 1.4.2010; Trib. Bari 2.12.2008;
di recente, Trib. Benevento 5.7.2017).
ESECUZIONE FORZATA E PROCEDURE CONCORSUALI, Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Nel concordato in bianco può essere autorizzata la sospensione dei contratti pendenti - anche inaudita altera parte - ma non lo scioglimento
di Xxxx Xxxxxx
Tribunale di Rovigo decreto 9 agosto 2017
[1] Concordato preventivo – concordato in bianco – autorizzazione allo scioglimento dei contratti pendenti – Esclusione – Sospensione dei contratti in corso di esecuzione – Ammissibilità. (R.d. 16 marzo 1942 n. 267, legge fallimentare, art. 169 bis)
[2] Concordato preventivo – Sospensione dei contratti in corso di esecuzione – Provvedimento inaudita altera parte – Necessità del contraddittorio – Esclusione. X.x. 00 marzo 1942 n. 267, legge fallimentare, art. 169 bis)
[1] Durante la fase in bianco del concordato preventivo è preclusa l’autorizzazione allo scioglimento dai contratti pendenti dei quali il tribunale può autorizzare soltanto la misura cautelare della sospensione ai sensi dell’art. 169 bis l. fall.
[2] La natura cautelare del provvedimento di autorizzazione della sospensione dei contratti pendenti nel concordato preventivo giustifica il richiamo all’art. 669-sexies c.p.c. e dunque, la possibilità di emissione del provvedimento inaudita altera parte nei casi in cui la mancata sospensione fino all’udienza possa recare grave pregiudizio alle ragioni dell’imprenditore.
CASO
[1, 2] Una società per azioni proponeva al Tribunale di Xxxxxx domanda di concordato in bianco ai sensi dell’art. 161, comma 4, l. fall. cui faceva seguito il decreto di accoglimento.
Prima della scadenza del termine fissato dal giudice per la presentazione della proposta, del piano e della documentazione prescritta dai commi secondo e terzo dell’art. 161 l. fall., la società ammessa alla procedura concorsuale formulava istanza di sospensione di alcuni contratti pendenti.
A sostegno della istanza la ricorrente deduceva l’antieconomicità e l’assenza di funzionalità
dei contratti rispetto al piano concordatario e, sotto il profilo del periculum in mora, prospettava la maturazione di cospicui debiti in prededuzione nell’ipotesi di mancata sospensione durante la pendenza del termine di cui all’art. 161, comma 4, l.fall.
Poiché il pericolo si prospettava anche in relazione ai tempi di celebrazione dell’udienza di comparizione delle parti, l’istante chiedeva che la sospensione fosse autorizzata con provvedimento inaudita altera parte .
SOLUZIONE
[1, 2] il Tribunale di Rovigo, accoglie l’istanza affermando il principio che nella fase c.d. preconcordataria del concordato in bianco è preclusa l’autorizzazione allo scioglimento dai contratti pendenti. Pertanto l’unico rimedio che in questa fase l’imprenditore può invocare rispetto ai contratti in corso non più funzionali rispetto al redigendo piano concordatario è rappresentato dalla sospensione.
La sospensione dei contratti viene autorizzata con decreto inaudita altera parte dal tribunale che, nel silenzio della norma di cui all’art. 169 bis l. fall. ed in relazione alla natura cautelare del provvedimento di sospensione, applica analogicamente la disposizione di cui all’art. 669 sexies c.p.c. della quale ritiene sussistere i presupposti.
QUESTIONI
[1] La questione dell’’ammissibilità della richiesta di scioglimento/sospensione dei contratti pendenti nella fase c.d. preconcordataria del concordato in bianco è controversa sin dall’introduzione dell’art. 169 bis l. fall. che si limita a legittimare il debitore a richiedere dette autorizzazioni “nel ricorso di cui all’art. 161 o successivamente”, senza operare alcuna distinzione tra le tipologie di concordato.
Le problematiche applicative, in mancanza di un esplicito riferimento normativo, nascono dalla constatazione che nella fase c.d. prenotativa, non sono stati ancora depositati la proposta definitiva ed il piano concordatario con la conseguenza che il tribunale non dispone di sufficienti elementi per esprimersi sull’opportunità in concreto della prosecuzione o meno del rapporto contrattuale.
La difficoltà di effettuare un adeguato vaglio di compatibilità e funzionalità dello scioglimento dai contratti in corso rispetto ad un piano del quale il giudicante non ha la disponibilità, ha portato alcuni tribunali, tra i quali il tribunale di Rovigo, ad escludere che nella fase c.d. preconcordataria possa essere autorizzato lo scioglimento dai contratti in corso, per gli effetti definitivi che esso determina, e ad ammettere la sola misura della sospensione la cui natura cautelare sarebbe più adeguata alla c.d. fase prenotativa. (cfr. Tribunale Vicenza, 25 giugno 2013; Tribunale Ravenna, 24 dicembre 2012 e Tribunale Pistoia, 31 ottobre 2012, entrambe in Foro it. 2013, 4, I, 1338 ss., con nota di Xxxxxxx La prima disciplina dei contratti pendenti nel concordato preventivo; Trib. Padova 15 novembre 2013 e 28 novembre 2013 Tribunale Rovigo,
27 settembre 2016,
In contrasto con le sopra citate pronunce si pone un rilevante settore della giurisprudenza che, invece, ammette la possibilità dell’autorizzazione allo scioglimento sempre che il debitore, nel motivare l’istanza, fornisca un’anticipazione sul contenuto dei redigendi piano e proposta con riferimento agli specifici contratti dai quali intende sciogliersi, in modo da consentire al tribunale un’analisi di funzionalità e convenienza dell’interruzione dei rapporti contrattuali rispetto al piano concordatario. (cfr. Corte appello Milano, sez. IV, 4 febbraio 2015, in Xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx 27 febbraio 2015; Tribunale Bolzano, 5 aprile 2016, ivi, 22 aprile 2016;
Tribunale Treviso, sez. II, 24 febbraio 2015, ivi, 2 maggio 2015)
La possibilità dello scioglimento dai contratti in corso sulla base di detta disclosure operata dal proponente del concordato in bianco va riconosciuta , secondo tali pronunce, sulla base dell’identità di ratio rispetto ad altre misure anticipatorie che il legislatore ha espressamente previsto per tale fase concordataria, quali le autorizzazioni al compimento di atti urgenti di straordinaria amministrazione di cui all’art 161, comma 7, l. fall., le autorizzazioni ai finanziamenti di cui all’art. 182 quinquies, comma 1, l. fall. e le autorizzazioni al pagamento dei crediti anteriori nel concordato con continuità aziendale previste dall’art. 182 quinques, comma 4, l. fall.
Secondo questo orientamento, le autorizzazioni allo scioglimento sarebbero ammesse anche nella fase preconcordataria in quanto figure affini agli istituti sopra menzionati, tutti accomunati dal “favor per l’accesso al concordato e la protezione della fase preparatoria del piano, anche con sacrificio degli interessi dei singoli creditori” (cfr. Corte appello Milano, sez. IV, 4 febbraio 2015).
L’impostazione seguita al tribunale di Rovigo è da preferire: essa soddisfa l’esigenza di non gravare il concordato dei costi di prosecuzione dei contratti, rinviando ad una fase successiva al deposito del piano concordatario l’esame dei presupposti per l’autorizzazione del più drastico rimedio dello scioglimento .
[2] La questione sulla necessità o meno dell’instaurazione del contraddittorio ai fini dell’emissione delle autorizzazioni allo scioglimento ed alla sospensione dei contratti pendenti nel concordato preventivo è stata ampiamente dibattuta nella vigenza della precedente formulazione dell’art 169 bis l. fall. che non conteneva una statuizione esplicita sul punto.
La nuova formulazione introdotta con il d.l. 27 giugno 2015 n. 83, convertito in l. 6 agosto 2015 n. 132, che ha aggiunto alla prima parte della norma le parole “sentito l’altro contraente, assunte ove occorra sommarie informazioni”, ha risolto la questione limitatamente alla necessità della preventiva instaurazione del contraddittorio nel caso di richiesta di scioglimento dei contratti pendenti ma ha lascito aperti i dubbi interpretativi relativamente alle autorizzazioni alla sospensione, la cui disciplina è rimasta invariata.
Il Tribunale di Rovigo colma la lacuna attraverso un richiamo delle norme sul processo cautelare uniforme ed in particolare dell’art. 669 sexies c.p.c., che applica analogicamente in considerazione dell’indiscussa natura cautelare del provvedimento richiesto.
Si segnalano pronunce di segno opposto che, anche ai fini dell’emanazione del provvedimento autorizzativo della sospensione ritengono essenziale la preventiva audizione dell’altra parte contrattuale (cfr. Tribunale Reggio Xxxxxx, sez. fallimentare, 8 luglio 2015; Corte appello Venezia, sez. fallimentare, 20 novembre 2013, n. 1878, in Xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx 7 marzo 2014) .
Sull’istituto in esame v. pure X. Xxxxxx, Concordato preventivo, scioglimento dei contratti pendenti e disciplina delle «offerte concorrenti», in xxx.xxxxxxx.xx 4 aprile 2017.
ESECUZIONE FORZATA E PROCEDURE CONCORSUALI, Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Nel concordato in bianco può essere autorizzata la sospensione dei contratti pendenti - anche inaudita altera parte - ma non lo scioglimento
di Xxxx Xxxxxx
Tribunale di Rovigo decreto 9 agosto 2017
[1] Concordato preventivo – concordato in bianco – autorizzazione allo scioglimento dei contratti pendenti – Esclusione – Sospensione dei contratti in corso di esecuzione – Ammissibilità. (R.d. 16 marzo 1942 n. 267, legge fallimentare, art. 169 bis)
[2] Concordato preventivo – Sospensione dei contratti in corso di esecuzione – Provvedimento inaudita altera parte – Necessità del contraddittorio – Esclusione. X.x. 00 marzo 1942 n. 267, legge fallimentare, art. 169 bis)
[1] Durante la fase in bianco del concordato preventivo è preclusa l’autorizzazione allo scioglimento dai contratti pendenti dei quali il tribunale può autorizzare soltanto la misura cautelare della sospensione ai sensi dell’art. 169 bis l. fall.
[2] La natura cautelare del provvedimento di autorizzazione della sospensione dei contratti pendenti nel concordato preventivo giustifica il richiamo all’art. 669-sexies c.p.c. e dunque, la possibilità di emissione del provvedimento inaudita altera parte nei casi in cui la mancata sospensione fino all’udienza possa recare grave pregiudizio alle ragioni dell’imprenditore.
CASO
[1, 2] Una società per azioni proponeva al Tribunale di Rovigo domanda di concordato in bianco ai sensi dell’art. 161, comma 4, l. fall. cui faceva seguito il decreto di accoglimento.
Prima della scadenza del termine fissato dal giudice per la presentazione della proposta, del piano e della documentazione prescritta dai commi secondo e terzo dell’art. 161 l. fall., la società ammessa alla procedura concorsuale formulava istanza di sospensione di alcuni contratti pendenti.
A sostegno della istanza la ricorrente deduceva l’antieconomicità e l’assenza di funzionalità
dei contratti rispetto al piano concordatario e, sotto il profilo del periculum in mora, prospettava la maturazione di cospicui debiti in prededuzione nell’ipotesi di mancata sospensione durante la pendenza del termine di cui all’art. 161, comma 4, l.fall.
Poiché il pericolo si prospettava anche in relazione ai tempi di celebrazione dell’udienza di comparizione delle parti, l’istante chiedeva che la sospensione fosse autorizzata con provvedimento inaudita altera parte .
SOLUZIONE
[1, 2] il Tribunale di Rovigo, accoglie l’istanza affermando il principio che nella fase c.d. preconcordataria del concordato in bianco è preclusa l’autorizzazione allo scioglimento dai contratti pendenti. Pertanto l’unico rimedio che in questa fase l’imprenditore può invocare rispetto ai contratti in corso non più funzionali rispetto al redigendo piano concordatario è rappresentato dalla sospensione.
La sospensione dei contratti viene autorizzata con decreto inaudita altera parte dal tribunale che, nel silenzio della norma di cui all’art. 169 bis l. fall. ed in relazione alla natura cautelare del provvedimento di sospensione, applica analogicamente la disposizione di cui all’art. 669 sexies c.p.c. della quale ritiene sussistere i presupposti.
QUESTIONI
[1] La questione dell’’ammissibilità della richiesta di scioglimento/sospensione dei contratti pendenti nella fase c.d. preconcordataria del concordato in bianco è controversa sin dall’introduzione dell’art. 169 bis l. fall. che si limita a legittimare il debitore a richiedere dette autorizzazioni “nel ricorso di cui all’art. 161 o successivamente”, senza operare alcuna distinzione tra le tipologie di concordato.
Le problematiche applicative, in mancanza di un esplicito riferimento normativo, nascono dalla constatazione che nella fase c.d. prenotativa, non sono stati ancora depositati la proposta definitiva ed il piano concordatario con la conseguenza che il tribunale non dispone di sufficienti elementi per esprimersi sull’opportunità in concreto della prosecuzione o meno del rapporto contrattuale.
La difficoltà di effettuare un adeguato vaglio di compatibilità e funzionalità dello scioglimento dai contratti in corso rispetto ad un piano del quale il giudicante non ha la disponibilità, ha portato alcuni tribunali, tra i quali il tribunale di Rovigo, ad escludere che nella fase c.d. preconcordataria possa essere autorizzato lo scioglimento dai contratti in corso, per gli effetti definitivi che esso determina, e ad ammettere la sola misura della sospensione la cui natura cautelare sarebbe più adeguata alla c.d. fase prenotativa. (cfr. Tribunale Vicenza, 25 giugno 2013; Tribunale Ravenna, 24 dicembre 2012 e Tribunale Pistoia, 31 ottobre 2012, entrambe in Foro it. 2013, 4, I, 1338 ss., con nota di Xxxxxxx La prima disciplina dei contratti pendenti nel concordato preventivo; Trib. Padova 15 novembre 2013 e 28 novembre 2013 Tribunale Rovigo,
27 settembre 2016,
In contrasto con le sopra citate pronunce si pone un rilevante settore della giurisprudenza che, invece, ammette la possibilità dell’autorizzazione allo scioglimento sempre che il debitore, nel motivare l’istanza, fornisca un’anticipazione sul contenuto dei redigendi piano e proposta con riferimento agli specifici contratti dai quali intende sciogliersi, in modo da consentire al tribunale un’analisi di funzionalità e convenienza dell’interruzione dei rapporti contrattuali rispetto al piano concordatario. (cfr. Corte appello Milano, sez. IV, 4 febbraio 2015, in Xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx 27 febbraio 2015; Tribunale Bolzano, 5 aprile 2016, ivi, 22 aprile 2016;
Tribunale Treviso, sez. II, 24 febbraio 2015, ivi, 2 maggio 2015)
La possibilità dello scioglimento dai contratti in corso sulla base di detta disclosure operata dal proponente del concordato in bianco va riconosciuta , secondo tali pronunce, sulla base dell’identità di ratio rispetto ad altre misure anticipatorie che il legislatore ha espressamente previsto per tale fase concordataria, quali le autorizzazioni al compimento di atti urgenti di straordinaria amministrazione di cui all’art 161, comma 7, l. fall., le autorizzazioni ai finanziamenti di cui all’art. 182 quinquies, comma 1, l. fall. e le autorizzazioni al pagamento dei crediti anteriori nel concordato con continuità aziendale previste dall’art. 182 quinques, comma 4, l. fall.
Secondo questo orientamento, le autorizzazioni allo scioglimento sarebbero ammesse anche nella fase preconcordataria in quanto figure affini agli istituti sopra menzionati, tutti accomunati dal “favor per l’accesso al concordato e la protezione della fase preparatoria del piano, anche con sacrificio degli interessi dei singoli creditori” (cfr. Corte appello Milano, sez. IV, 4 febbraio 2015).
L’impostazione seguita al tribunale di Rovigo è da preferire: essa soddisfa l’esigenza di non gravare il concordato dei costi di prosecuzione dei contratti, rinviando ad una fase successiva al deposito del piano concordatario l’esame dei presupposti per l’autorizzazione del più drastico rimedio dello scioglimento .
[2] La questione sulla necessità o meno dell’instaurazione del contraddittorio ai fini dell’emissione delle autorizzazioni allo scioglimento ed alla sospensione dei contratti pendenti nel concordato preventivo è stata ampiamente dibattuta nella vigenza della precedente formulazione dell’art 169 bis l. fall. che non conteneva una statuizione esplicita sul punto.
La nuova formulazione introdotta con il d.l. 27 giugno 2015 n. 83, convertito in l. 6 agosto 2015 n. 132, che ha aggiunto alla prima parte della norma le parole “sentito l’altro contraente, assunte ove occorra sommarie informazioni”, ha risolto la questione limitatamente alla necessità della preventiva instaurazione del contraddittorio nel caso di richiesta di scioglimento dei contratti pendenti ma ha lascito aperti i dubbi interpretativi relativamente alle autorizzazioni alla sospensione, la cui disciplina è rimasta invariata.
Il Tribunale di Rovigo colma la lacuna attraverso un richiamo delle norme sul processo cautelare uniforme ed in particolare dell’art. 669 sexies c.p.c., che applica analogicamente in considerazione dell’indiscussa natura cautelare del provvedimento richiesto.
Si segnalano pronunce di segno opposto che, anche ai fini dell’emanazione del provvedimento autorizzativo della sospensione ritengono essenziale la preventiva audizione dell’altra parte contrattuale (cfr. Tribunale Reggio Xxxxxx, sez. fallimentare, 8 luglio 2015; Corte appello Venezia, sez. fallimentare, 20 novembre 2013, n. 1878, in Xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx 7 marzo 2014) .
Sull’istituto in esame v. pure X. Xxxxxx, Concordato preventivo, scioglimento dei contratti pendenti e disciplina delle «offerte concorrenti», in xxx.xxxxxxx.xx 4 aprile 2017.
Procedimenti di cognizione e ADR, PROCEDIMENTI SPECIALI E ADR
E’ possibile partecipare al procedimento di mediazione mediante conferimento di procura speciale all’avvocato
di Xxxxxx Xxxxx
Tribunale di Verona, ord., 11 maggio 2017 – Xxxxxxx Xxxxxxx
Mediazione – Partecipazione personale delle parti – Rapporti con il processo, condizione di procedibilità – Rappresentanza in giudizio – Procura alle liti (D.lgs. 4 marzo 2010, n 28, Attuazione dell’art. 60 della l. 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, art. 5, 8; cod. proc. civ., art. 83).
[1] Le parti possono conferire procura speciale ad altri soggetti, compresi i loro difensori, per farsi rappresentare nel procedimento di mediazione, a condizione che sia espressamente conferito loro il potere di parteciparvi.
CASO
[1] La pronuncia si sofferma sulla possibilità per la parte di delegare il proprio difensore a partecipare alla procedura di mediazione nel caso in cui la controversia rientri nell’ambito di applicazione della condizione di procedibilità ai sensi dell’art. 5, comma 2°, d.lgs. n. 28 del 2010.
Nel procedimento di mediazione instaurato ante causam su iniziativa dell’attrice, la convenuta non ha partecipato mentre l’attrice ha partecipato tramite un avvocato delegato dal proprio difensore, come si evinceva dal verbale prodotto in causa.
La mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione può costituire, per la parte attrice, causa di improcedibilità della domanda e, in ogni caso, per tutte le parti costituite, presupposto per l’irrogazione – anche nel corso del giudizio – della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 8, comma 0 xxx, x.xxx. x. 00 xxx 0000 (Xxxx. Xxxxxxx 22 dicembre 2015, in xxx.xxxxxx.xx; Trib. Verona 12 novembre 2015, ivi.) oltre che fattore da cui desumere argomenti di prova, ai sensi dell’art. 116, comma 2°, c.p.c. (Trib. Roma 29 maggio 2014, Rass. forense, 2015, 1015; nel senso che in questo caso possa aversi anche la condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. della parte nel successivo giudizio: Trib. Roma 29 maggio 2014, in xxx.xxxxxx.xx).
Pertanto, affinché possa ritenersi espletata la condizione di procedibilità occorre prendere posizione sull’annoso dibattito in ordine alla portata dell’obbligo di partecipazione della parte;
se sia cioè necessaria la sua personale presenza o sia consentito, e sufficiente, il conferimento del potere di rappresentanza sostanziale al difensore.
SOLUZIONE
Il provvedimento interlocutorio in commento afferma il principio per cui la parte può conferire procura speciale ad un altro soggetto, compreso il suo difensore, affinché la rappresenti nel procedimento di mediazione (in senso conforme Trib. Verona, 28 settembre 2016, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx), in aperto contrasto con l’indirizzo dominante (Trib. Firenze 26 novembre 2014, in Riv. dir. proc., 2015, 559, con nota critica di Xxxxx; Trib. Firenze, 19 marzo 2014, in Giur. it., 2015, 641, con nota adesiva di Xxxxxxx; Trib. Palermo, 16 luglio 2014, in Giur. it., 2015, 639; Trib. Vasto 9 marzo 2015, in Giur. it., 2015, 1885, con nota di Mottironi; Trib.
Roma 19 febbraio 2015 e Trib. Roma 14 dicembre 2015, entrambe in xxx.xxxxxx.xx; Trib. Bologna 11 novembre 2014, Trib. Bologna ord. 5 giugno 2014, entrambe in xxx.xxxxxxxxx.xx).
In particolare, si sottolinea come né l’art. 8 d.lgs. n. 28 del 2010, né altra norma facciano riferimento alla presenza obbligatoria della parte alla procedura di mediazione, così come, al contempo, non si rinviene alcuna norma che vieti alla parte di conferire tale specifico potere rappresentativo al proprio difensore. Al contrario, il fondamento normativo della possibilità di attribuire a quest’ultimo una procura a conciliare può rinvenirsi nel generale disposto
dell’art. 83 c.p.c., tant’è che detto potere viene solitamente inserito nella procura alle liti.
Diversamente, ad avviso del Tribunale veronese, si verificherebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra la parte che ha interesse alla realizzazione della condizione di procedibilità e le sue controparti, perché solo la prima è realmente esposta alla sanzione ipotizzata (sul punto si veda anche: Trib. Taranto, ord. 16 aprile 2015, in xxx.000xxxxxxxxx.xx; Trib. Firenze, 21 aprile 2015, ivi). Infatti, il comportamento della parte che non partecipi in alcun modo alla procedura di mediazione, senza giustificato motivo, assumendo un comportamento più grave di quello della parte che vi partecipi tramite il proprio difensore, non dà luogo all’improcedibilità della domanda giudiziale, non essendo una siffatta conseguenza contemplata dalla norma, ma addirittura esclusa. In tal caso, l’unica conseguenza nella quale la parte che non partecipa alla mediazione potrebbe imbattersi, è la condanna al pagamento del contributo unificato e la possibilità per il giudice di desumere dal suo comportamento argomenti di prova.
Nonostante la netta presa di posizione, la condizione di procedibilità non può ritenersi realizzata nel caso di specie, poiché dall’esame della procura alle liti risultante dagli atti è emerso che non era stato attribuito al proprio difensore nessuno specifico potere di partecipare al procedimento di mediazione né, tantomeno, quello di delegarlo a terzi. Non si reputa sufficiente, dunque, la procura alle liti contenente il potere di rappresentare l’assistito dinanzi al giudice all’udienza di prima comparizione ed un generico potere di conciliare e transigere la lite.
QUESTIONI
In seguito alla riforma del 2013, affinché possa ritenersi espletata la condizione di procedibilità dell’avvenuto esperimento del «procedimento di mediazione» (espressione utilizzata in vari passi dell’articolato e, in particolare, negli artt. 5 e 8 d.lgs. n. 28 del 2010) è necessaria la partecipazione al primo incontro. Per l’opinione maggioritaria il vincolo di partecipazione è limitato all’incontro informativo preliminare (Xxxxx Xxxxx, La nuova mediazione. Profili applicativi, Torino, 2013, 117 ss.; A.D. De Santis, La mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali: le novità del 2013, in Foro it., 2013, V, 265; Lupoi, Ancora sui rapporti tra mediazione e processo civile, dopo le ultime riforme, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2016, 12; per una lettura critica x. Xxxxx, Primo incontro in mediazione e condizione di procedibilità della domanda ai sensi del novellato art. 5, comma 2° bis, d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28, in Riv. dir. proc., 2015, 564 ss.; cfr. Trib. Verona 24 marzo 2016, in xxx.xxxxxx.xx). Tuttavia, si è fatta strada una posizione particolarmente rigorosa secondo cui le sanzioni – improcedibilità
inclusa – scattano anche in caso di rifiuto, al primo incontro, di proseguire nella fase successiva del vero e proprio tentativo di mediazione (Trib. Vasto, ord. 23 aprile 2016, in xxx.xxxxxx.xx; Trib. Pavia, ord. 17 giugno 2015, in xxx.000xxxxxxxxx.xx; Trib. Pavia, ord. 18 maggio 2015, ivi).
La nobile ragione dell’«effettività», che tale ultimo orientamento millanta di voler garantire, non sembra rispondere alla volontà del legislatore del 2013 di reintrodurre l’obbligatorietà alleggerendo l’onere “economico” della parte (sia in termini di costi che di tempi: Xxxxx, op. cit., 565).
Sempre nell’ottica di rendere maggiormente «effettivo» il tentativo di mediazione, parte della giurisprudenza (Trib. Firenze 26 novembre 2014, cit.; Trib. Firenze 19 marzo 2014, cit.; Trib.
Vasto 9 marzo 2015, cit.; Trib. Roma 19 febbraio 2015, cit.; Trib. Modena, ord. 2 maggio 2016, in xxx.xxxxxxxx.xx) ritiene che ai fini dell’assolvimento della condizione di procedibilità prevista dall’art. 5, comma 1° bis, d.lgs. n. 28 del 2010 sia indispensabile la partecipazione personale della parte in sede di primo incontro di mediazione, a fianco del proprio difensore (valorizza la partecipazione personale quale condotta minima necessaria a garantire le condizioni di una negoziazione effettiva Ferraris, Partecipazione personale ed effettività del procedimento: due elementi essenziali per il corretto espletamento del tentativo “obbligatorio”,
in Contratti, 2015, 691, in nota a Trib. Vasto 9 marzo 2015, cit.).
La giurisprudenza ha intrapreso un percorso di rafforzamento dell’imposizione anche con riferimento della mediazione delegata post riforma 2013, decretando una sorta di automatismo tra mancata comparizione e sanzioni (Trib. Roma, ord., 26 ottobre 2015; Trib. Roma, ord., 26 ottobre 2015), così colmando artatamente la lacuna dell’apparato normativo (si
v. le critiche di Xxxxxxxx, In tema di mediazione delegata dal giudice, in Nuova proc. civ., 2015, 2; cfr. Trib. Palermo 16 luglio 2014, in Giur. it., 2015, 639).
In quest’ottica, si afferma che la parte non potrebbe ricorrere ad alcuna forma di rappresentanza, né a favore del proprio avvocato né di altri soggetti, in ragione della natura
«personalissima» delle attività da compiersi nel procedimento di mediazione (Trib. Vasto 9 marzo 2015, cit.; Trib. Firenze 26 novembre 2014, cit. secondo cui è la stessa «natura della mediazione» ad esigere che siano presenti le parti di persona; mentre Xxxx. Siracusa, 17 gennaio 2015, ammette non precisati «casi eccezionali» in cui sarebbe ammesso un
rappresentante sostanziale della parte munito dei necessari poteri). L’indirizzo si fonda principalmente sul dato normativo letterale, ovvero i riferimenti che l’art. 8 comma 1°, d.lgs. n 28 del 2010, nel descrivere le modalità di svolgimento della mediazione, fa alla parte e al difensore quali soggetti che vi partecipano, a cui il Tribunale di Verona, all’opposto, attribuisce natura meramente descrittiva del possibile sviluppo della procedura.
In realtà, la normativa interna ed europea consente di inferire un mero dovere di partecipazione informata, salvaguardando la libertà di ciascuna parte in ordine alla prosecuzione del procedimento. Per questo altre recenti decisioni (Trib. Taranto 16 aprile 2015, in Contratti, 2015, 605 e in Quotidiano giur., 2015, con nota di Xx Xxxxx, Mediazione delegata: l’improcedibilità non può essere una sanzione atipica; Trib. Palermo 16 luglio 2014, cit.) escludono l’applicazione della sanzione di improcedibilità della domanda quando la mediazione sia stata anche solo formalmente esperita.
L’assenza di un riferimento normativo espresso che prescriva la presenza personale della parte suggerisce di mitigare l’interpretazione letterale, consentendo alla parte di conferire all’avvocato che l’assiste anche il potere di rappresentarla, possibilità d’altronde
pacificamente ammessa già nel precedente contesto normativo (né da atto Cuomo Xxxxx, op. cit., 82; cfr. Xxxxxx, La mediazione ex officio iudicis e la proposta conciliativa ex art. 185 bis c.p.c., Corriere giur., 2014, 1006). La pretesa inammissibilità della rappresentanza nell’ambito del procedimento di mediazione si pone anche in contraddizione con la natura necessariamente disponibile dei diritti oggetto dello stesso e con il dominio della volontà delle parti in ogni passaggio del procedimento (cfr. Lupoi, op. cit., 18).
Sebbene la partecipazione personale sia opportuna e debba essere caldeggiata laddove vi sia la volontà di entrare nel vivo della mediazione, non deve prestarsi a «strumentalizzazioni finalizzate alla dilazione del termine massimo di integrazione della condizione di procedibilità» (Raiti, op. cit., 575). Quanto al conferimento del potere rappresentativo, anche le pronunce che ritengono ammissibile la comparizione delle parti tramite un delegato richiedono che questi sia a conoscenza dei fatti e sia munito del potere di conciliare (oltre alla pronuncia in nota v. Trib. Bologna, ord. 6 novembre 2014, in xxx.xxxxxxxxxxx.xx; Trib. Bologna 16 ottobre 2014, ivi.; Trib. Pavia 1° aprile 2015, cit.; Trib. Cassino, 16 dicembre 2014, in xxx.000xxxxxxxxx.xx, il quale peraltro connette la predetta facoltà ad una espressa previsione, in tal senso, nel regolamento dell’organismo adito). Quindi la procura deve conferire uno specifico potere “sostanziale” di partecipare al procedimento di mediazione e in ciò si distingue rispetto alla procura alle liti (Xxxxxxxx, voce Rappresentanza processuale, in Enc. Giur. Treccani, XXV, Roma, 1987, 5). A tal fine, potrebbe risultare sufficiente il conferimento del potere di transigere e conciliare, purché riferito al contesto stragiudiziale e specifico del procedimento di mediazione.
Correttamente, poi, il Tribunale di Verona, constatata la carenza di potere rappresentativo, assegna un nuovo termine per la reiterazione del tentativo di mediazione, consentendo di evidenziare la deriva a cui giunge l’orientamento opposto sopra menzionato (rib. Vasto, 23 giugno 2015) che dichiara improcedibile la domanda disapplicando il disposto dell’art. 5,
comma 1 bis, d.lgs. n. 28 del 2010.
Procedimenti di cognizione e ADR, PROCEDIMENTI SPECIALI E ADR
E’ possibile partecipare al procedimento di mediazione mediante conferimento di procura speciale all’avvocato
di Xxxxxx Xxxxx
Tribunale di Verona, ord., 11 maggio 2017 – Xxxxxxx Xxxxxxx
Mediazione – Partecipazione personale delle parti – Rapporti con il processo, condizione di procedibilità – Rappresentanza in giudizio – Procura alle liti (D.lgs. 4 marzo 2010, n 28, Attuazione dell’art. 60 della l. 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, art. 5, 8; cod. proc. civ., art. 83).
[1] Le parti possono conferire procura speciale ad altri soggetti, compresi i loro difensori, per farsi rappresentare nel procedimento di mediazione, a condizione che sia espressamente conferito loro il potere di parteciparvi.
CASO
[1] La pronuncia si sofferma sulla possibilità per la parte di delegare il proprio difensore a partecipare alla procedura di mediazione nel caso in cui la controversia rientri nell’ambito di applicazione della condizione di procedibilità ai sensi dell’art. 5, comma 2°, d.lgs. n. 28 del 2010.
Nel procedimento di mediazione instaurato ante causam su iniziativa dell’attrice, la convenuta non ha partecipato mentre l’attrice ha partecipato tramite un avvocato delegato dal proprio difensore, come si evinceva dal verbale prodotto in causa.
La mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione può costituire, per la parte attrice, causa di improcedibilità della domanda e, in ogni caso, per tutte le parti costituite, presupposto per l’irrogazione – anche nel corso del giudizio – della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 8, comma 0 xxx, x.xxx. x. 00 xxx 0000 (Xxxx. Xxxxxxx 22 dicembre 2015, in xxx.xxxxxx.xx; Trib. Verona 12 novembre 2015, ivi.) oltre che fattore da cui desumere argomenti di prova, ai sensi dell’art. 116, comma 2°, c.p.c. (Trib. Roma 29 maggio 2014, Rass. forense, 2015, 1015; nel senso che in questo caso possa aversi anche la condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. della parte nel successivo giudizio: Trib. Roma 29 maggio 2014, in xxx.xxxxxx.xx).
Pertanto, affinché possa ritenersi espletata la condizione di procedibilità occorre prendere posizione sull’annoso dibattito in ordine alla portata dell’obbligo di partecipazione della parte;
se sia cioè necessaria la sua personale presenza o sia consentito, e sufficiente, il conferimento del potere di rappresentanza sostanziale al difensore.
SOLUZIONE
Il provvedimento interlocutorio in commento afferma il principio per cui la parte può conferire procura speciale ad un altro soggetto, compreso il suo difensore, affinché la rappresenti nel procedimento di mediazione (in senso conforme Trib. Verona, 28 settembre 2016, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx), in aperto contrasto con l’indirizzo dominante (Trib. Firenze 26 novembre 2014, in Riv. dir. proc., 2015, 559, con nota critica di Xxxxx; Trib. Firenze, 19 marzo 2014, in Giur. it., 2015, 641, con nota adesiva di Xxxxxxx; Trib. Palermo, 16 luglio 2014, in Giur. it., 2015, 639; Trib. Vasto 9 marzo 2015, in Giur. it., 2015, 1885, con nota di Mottironi; Trib.
Roma 19 febbraio 2015 e Trib. Roma 14 dicembre 2015, entrambe in xxx.xxxxxx.xx; Trib. Bologna 11 novembre 2014, Trib. Bologna ord. 5 giugno 2014, entrambe in xxx.xxxxxxxxx.xx).
In particolare, si sottolinea come né l’art. 8 d.lgs. n. 28 del 2010, né altra norma facciano riferimento alla presenza obbligatoria della parte alla procedura di mediazione, così come, al contempo, non si rinviene alcuna norma che vieti alla parte di conferire tale specifico potere rappresentativo al proprio difensore. Al contrario, il fondamento normativo della possibilità di attribuire a quest’ultimo una procura a conciliare può rinvenirsi nel generale disposto
dell’art. 83 c.p.c., tant’è che detto potere viene solitamente inserito nella procura alle liti.
Diversamente, ad avviso del Tribunale veronese, si verificherebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra la parte che ha interesse alla realizzazione della condizione di procedibilità e le sue controparti, perché solo la prima è realmente esposta alla sanzione ipotizzata (sul punto si veda anche: Trib. Taranto, ord. 16 aprile 2015, in xxx.000xxxxxxxxx.xx; Trib. Firenze, 21 aprile 2015, ivi). Infatti, il comportamento della parte che non partecipi in alcun modo alla procedura di mediazione, senza giustificato motivo, assumendo un comportamento più grave di quello della parte che vi partecipi tramite il proprio difensore, non dà luogo all’improcedibilità della domanda giudiziale, non essendo una siffatta conseguenza contemplata dalla norma, ma addirittura esclusa. In tal caso, l’unica conseguenza nella quale la parte che non partecipa alla mediazione potrebbe imbattersi, è la condanna al pagamento del contributo unificato e la possibilità per il giudice di desumere dal suo comportamento argomenti di prova.
Nonostante la netta presa di posizione, la condizione di procedibilità non può ritenersi realizzata nel caso di specie, poiché dall’esame della procura alle liti risultante dagli atti è emerso che non era stato attribuito al proprio difensore nessuno specifico potere di partecipare al procedimento di mediazione né, tantomeno, quello di delegarlo a terzi. Non si reputa sufficiente, dunque, la procura alle liti contenente il potere di rappresentare l’assistito dinanzi al giudice all’udienza di prima comparizione ed un generico potere di conciliare e transigere la lite.
QUESTIONI
In seguito alla riforma del 2013, affinché possa ritenersi espletata la condizione di procedibilità dell’avvenuto esperimento del «procedimento di mediazione» (espressione utilizzata in vari passi dell’articolato e, in particolare, negli artt. 5 e 8 d.lgs. n. 28 del 2010) è necessaria la partecipazione al primo incontro. Per l’opinione maggioritaria il vincolo di partecipazione è limitato all’incontro informativo preliminare (Xxxxx Xxxxx, La nuova mediazione. Profili applicativi, Torino, 2013, 117 ss.; A.D. De Santis, La mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali: le novità del 2013, in Foro it., 2013, V, 265; Lupoi, Ancora sui rapporti tra mediazione e processo civile, dopo le ultime riforme, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2016, 12; per una lettura critica x. Xxxxx, Primo incontro in mediazione e condizione di procedibilità della domanda ai sensi del novellato art. 5, comma 2° bis, d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28, in Riv. dir. proc., 2015, 564 ss.; cfr. Trib. Verona 24 marzo 2016, in xxx.xxxxxx.xx). Tuttavia, si è fatta strada una posizione particolarmente rigorosa secondo cui le sanzioni – improcedibilità
inclusa – scattano anche in caso di rifiuto, al primo incontro, di proseguire nella fase successiva del vero e proprio tentativo di mediazione (Trib. Vasto, ord. 23 aprile 2016, in xxx.xxxxxx.xx; Trib. Pavia, ord. 17 giugno 2015, in xxx.000xxxxxxxxx.xx; Trib. Pavia, ord. 18 maggio 2015, ivi).
La nobile ragione dell’«effettività», che tale ultimo orientamento millanta di voler garantire, non sembra rispondere alla volontà del legislatore del 2013 di reintrodurre l’obbligatorietà alleggerendo l’onere “economico” della parte (sia in termini di costi che di tempi: Xxxxx, op. cit., 565).
Sempre nell’ottica di rendere maggiormente «effettivo» il tentativo di mediazione, parte della giurisprudenza (Trib. Firenze 26 novembre 2014, cit.; Trib. Firenze 19 marzo 2014, cit.; Trib.
Vasto 9 marzo 2015, cit.; Trib. Roma 19 febbraio 2015, cit.; Trib. Modena, ord. 2 maggio 2016, in xxx.xxxxxxxx.xx) ritiene che ai fini dell’assolvimento della condizione di procedibilità prevista dall’art. 5, comma 1° bis, d.lgs. n. 28 del 2010 sia indispensabile la partecipazione personale della parte in sede di primo incontro di mediazione, a fianco del proprio difensore (valorizza la partecipazione personale quale condotta minima necessaria a garantire le condizioni di una negoziazione effettiva Ferraris, Partecipazione personale ed effettività del procedimento: due elementi essenziali per il corretto espletamento del tentativo “obbligatorio”,
in Contratti, 2015, 691, in nota a Trib. Vasto 9 marzo 2015, cit.).
La giurisprudenza ha intrapreso un percorso di rafforzamento dell’imposizione anche con riferimento della mediazione delegata post riforma 2013, decretando una sorta di automatismo tra mancata comparizione e sanzioni (Trib. Roma, ord., 26 ottobre 2015; Trib. Roma, ord., 26 ottobre 2015), così colmando artatamente la lacuna dell’apparato normativo (si
v. le critiche di Xxxxxxxx, In tema di mediazione delegata dal giudice, in Nuova proc. civ., 2015, 2; cfr. Trib. Palermo 16 luglio 2014, in Giur. it., 2015, 639).
In quest’ottica, si afferma che la parte non potrebbe ricorrere ad alcuna forma di rappresentanza, né a favore del proprio avvocato né di altri soggetti, in ragione della natura
«personalissima» delle attività da compiersi nel procedimento di mediazione (Trib. Vasto 9 marzo 2015, cit.; Trib. Firenze 26 novembre 2014, cit. secondo cui è la stessa «natura della mediazione» ad esigere che siano presenti le parti di persona; mentre Xxxx. Siracusa, 17 gennaio 2015, ammette non precisati «casi eccezionali» in cui sarebbe ammesso un
rappresentante sostanziale della parte munito dei necessari poteri). L’indirizzo si fonda principalmente sul dato normativo letterale, ovvero i riferimenti che l’art. 8 comma 1°, d.lgs. n 28 del 2010, nel descrivere le modalità di svolgimento della mediazione, fa alla parte e al difensore quali soggetti che vi partecipano, a cui il Tribunale di Verona, all’opposto, attribuisce natura meramente descrittiva del possibile sviluppo della procedura.
In realtà, la normativa interna ed europea consente di inferire un mero dovere di partecipazione informata, salvaguardando la libertà di ciascuna parte in ordine alla prosecuzione del procedimento. Per questo altre recenti decisioni (Trib. Taranto 16 aprile 2015, in Contratti, 2015, 605 e in Quotidiano giur., 2015, con nota di Xx Xxxxx, Mediazione delegata: l’improcedibilità non può essere una sanzione atipica; Trib. Palermo 16 luglio 2014, cit.) escludono l’applicazione della sanzione di improcedibilità della domanda quando la mediazione sia stata anche solo formalmente esperita.
L’assenza di un riferimento normativo espresso che prescriva la presenza personale della parte suggerisce di mitigare l’interpretazione letterale, consentendo alla parte di conferire all’avvocato che l’assiste anche il potere di rappresentarla, possibilità d’altronde
pacificamente ammessa già nel precedente contesto normativo (né da atto Cuomo Xxxxx, op. cit., 82; cfr. Xxxxxx, La mediazione ex officio iudicis e la proposta conciliativa ex art. 185 bis c.p.c., Corriere giur., 2014, 1006). La pretesa inammissibilità della rappresentanza nell’ambito del procedimento di mediazione si pone anche in contraddizione con la natura necessariamente disponibile dei diritti oggetto dello stesso e con il dominio della volontà delle parti in ogni passaggio del procedimento (cfr. Lupoi, op. cit., 18).
Sebbene la partecipazione personale sia opportuna e debba essere caldeggiata laddove vi sia la volontà di entrare nel vivo della mediazione, non deve prestarsi a «strumentalizzazioni finalizzate alla dilazione del termine massimo di integrazione della condizione di procedibilità» (Raiti, op. cit., 575). Quanto al conferimento del potere rappresentativo, anche le pronunce che ritengono ammissibile la comparizione delle parti tramite un delegato richiedono che questi sia a conoscenza dei fatti e sia munito del potere di conciliare (oltre alla pronuncia in nota v. Trib. Bologna, ord. 6 novembre 2014, in xxx.xxxxxxxxxxx.xx; Trib. Bologna 16 ottobre 2014, ivi.; Trib. Pavia 1° aprile 2015, cit.; Trib. Cassino, 16 dicembre 2014, in xxx.000xxxxxxxxx.xx, il quale peraltro connette la predetta facoltà ad una espressa previsione, in tal senso, nel regolamento dell’organismo adito). Quindi la procura deve conferire uno specifico potere “sostanziale” di partecipare al procedimento di mediazione e in ciò si distingue rispetto alla procura alle liti (Xxxxxxxx, voce Rappresentanza processuale, in Enc. Giur. Treccani, XXV, Roma, 1987, 5). A tal fine, potrebbe risultare sufficiente il conferimento del potere di transigere e conciliare, purché riferito al contesto stragiudiziale e specifico del procedimento di mediazione.
Correttamente, poi, il Tribunale di Verona, constatata la carenza di potere rappresentativo, assegna un nuovo termine per la reiterazione del tentativo di mediazione, consentendo di evidenziare la deriva a cui giunge l’orientamento opposto sopra menzionato (rib. Vasto, 23 giugno 2015) che dichiara improcedibile la domanda disapplicando il disposto dell’art. 5,
comma 1 xxx, x.xxx. x. 00 del 2010.
Impugnazioni
Garanzia del contraddittorio e applicazione del procedimento camerale di cui all’art. 380 bis.1 c.p.c. fuori dai casi previsti dalla legge
di Xxxxxx Xxxxx
Xxxx. Sez. II 25 luglio 0000, x. 00000, xxx., Pres. Matera, Rel. Xxxxx Marcheis
Ricorso per cassazione – Revocazione – Inammissibilità – Procedimento camerale – Applicazione. (Cod. proc. civ., art. 380 bis, 380 bis.1, 391 bis, comma 4).
[1] Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso per revocazione si applica il procedimento di cui all’art. 380 bis.1 c.p.c., poiché il rispetto del principio del contraddittorio consente di superare il dato letterale dell’art. 391 bis, comma 4 c.p.c. nella parte in cui rinvia al procedimento di cui all’art. 380 bis c.p.c.
IL CASO
[1] Un decreto di rigetto emesso dalla Corte d’appello veniva impugnato in Cassazione per violazione dell’art. 4, L. n. 89/2001 ed il ricorso veniva respinto. La sentenza di rigetto della Cassazione veniva impugnata per revocazione, censurandosi un errore di fatto ex art. 391 bis, comma 1, c.p.c.
LA SOLUZIONE
[1] La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c., ma ha escluso l’applicazione del procedimento di cui all’art. 000 xxx x.x.x., xxxxxxxxxx xxxxx xxxxx, xx favore del procedimento camerale disciplinato dall’art. 380 bis.1 c.p.c., ritenuto maggiormente conforme al principio del contraddittorio.
LE QUESTIONI
[1] Secondo la S.C. la «maggiore articolazione del contraddittorio» nel procedimento in camera di consiglio previsto dinanzi alle sezioni semplici di cui all’art. 380 bis.1 c.p.c. consente di superare il testuale rinvio dell’art. 391 bis, comma 4, c.p.c. al procedimento per la declaratoria di inammissibilità dinanzi alla sezione cd. filtro (sezione sesta) di cui all’art. 380 bis c.p.c.
È noto che il d.l. 31 agosto 2016, n. 168, conv. con modificazioni dalla l. 25 ottobre 2016, n. 197 ha reso il procedimento in camera di consiglio la regola generale della definizione del
giudizio di cassazione (per approfondimenti si rinvia a X. Xxxxx, La nuova stagione della Corte di cassazione e il tramonto della pubblica udienza, in Riv. Dir. Proc., 2017, 5 ss.) e, relativamente alla declaratoria di inammissibilità, il procedimento è diversificato a seconda che si svolga dinanzi alla sezione sesta o alle sezioni semplici.
Nel primo caso, previsto dall’art. 380 bis c.p.c. come modificato dalla riforma, quando il relatore della sezione “filtro” ravvisa un’ipotesi di inammissibilità, il presidente fissa l’adunanza in camera di consiglio con decreto, che viene notificato agli avvocati almeno venti giorni prima dell’adunanza; non oltre cinque giorni prima della data fissata per l’adunanza gli stessi possono presentare memorie. È stata eliminata la previsione per cui, unitamente alla notificazione del decreto di fissazione dell’adunanza, le parti ricevono la «relazione con la concisa esposizione delle ragioni» fondanti la pronuncia di inammissibilità; nella nuova disciplina, dunque, le parti hanno contezza esclusivamente del motivo per cui è stata fissata l’adunanza (inammissibilità, manifesta infondatezza o fondatezza del ricorso), ma non delle ragioni sottostanti. Per tale motivo parte della dottrina ha espresso il dubbio di legittimità della nuova previsione rispetto agli artt. 24, comma 2 e 111, comma 2 Cost. (v. C. Carratta, La
«cameralizzazione» del giudizio in Cassazione e la garanzia del contraddittorio a rischio, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx), ma la questione è stata dichiarata manifestamente infondata dal giudice di legittimità (x. Xxxx., 10 gennaio 2017, ord. n. 395, in Foro it., 2017, I, 538, con nota di
X. Xxxxxxxxxx).
Con la pronuncia in commento, la seconda sezione si è discostata da quest’ultimo orientamento, escludendo l’applicazione del procedimento de quo a causa della scarsa
«articolazione del contraddittorio», in favore del procedimento ex art. 380 bis.1 c.p.c., introdotto dalla riforma del 2016. La scelta appare singolare, considerate le criticità, non meno rilevanti, insite nella nuova previsione.
L’art. 380 bis.1 c.p.c. prevede infatti che la fissazione dell’adunanza è comunicata agli avvocati ed al pubblico ministero almeno quaranta giorni prima della stessa; il pubblico ministero e gli avvocati possono depositare conclusioni e memorie, rispettivamente, non oltre venti e dieci giorni prima dell’adunanza; è esclusa la partecipazione del pubblico ministero e degli avvocati alla camera di consiglio.
I primi interpreti hanno evidenziato che tale disciplina presenta gravi profili di contrasto con il principio del contraddittorio ed il diritto di difesa, per due ordini di ragioni. In primo luogo, premesso che la riforma del 2016 ha reso la decisione con ordinanza in camera di consiglio la regola generale per la decisione in cassazione (v. art. 375, comma 2, c.p.c.), al momento della notificazione del decreto di fissazione dell’adunanza le parti non hanno conoscenza del motivo per cui è disposto il procedimento camerale, che può seguire sia una valutazione di insussistenza di questioni di diritto particolarmente rilevanti (art. 375, comma 2, c.p.c.), sia una valutazione di inammissibilità o di manifesta infondatezza o fondatezza del ricorso (art. 375, comma 1, nn. 1 e 5, c.p.c.). Dinanzi a tale alternativa, le difese delle parti sono svolte “al buio” al momento del deposito delle memorie (e senza alcuno “sfalzamento” dei termini, v. Carratta, La «cameralizzazione» del giudizio in Cassazione e la garanzia del contraddittorio a rischio, cit.), e
senza la prospettiva di un successivo adeguamento all’effettiva valutazione del collegio, considerato il divieto di partecipazione all’adunanza (cfr. X. Xxxxxxxxxx, Suprema Corte: una cura sbagliata che incide sui diritti, in Guida dir., 2016, fasc. 47, 10 ss.).
Procedimenti di cognizione e ADR
Violazione del consenso informato e onere della prova
di Xxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxxxx
Xxxx. civ., Sez. III, 5 luglio 2017, n. 16503 – Pres. Travaglino – Est. Di Xxxxxxx
Prova civile – Lesione del diritto al consenso informato – Risarcimento del danno –
Ripartizione dell’onere probatorio (Cost. artt. 3, 32; Cod. civ. art. 2697; l. 23 dicembre 1978, n.
833, art. 33).
[1] In caso di violazione del diritto al consenso informato, il paziente può essere risarcito per lesione del diritto al consenso informato anche se non dimostra che, ove correttamente informato, non si sarebbe sottoposto al trattamento medico .
IL CASO
[1] Con atto di citazione notificato nel marzo del 2007, l’attore si rivolge al Tribunale per chiedere la condanna sia dell’Azienda ospedaliera, che del medico, al risarcimento del danno iatrogeno e quello derivato dalla mancata informazione circa la natura e le conseguenze dell’intervento medico. In primo grado le domande attoree vennero respinte, mentre in secondo grado, la Corte di Appello ritenne fondata esclusivamente la domanda relativa al danno derivato dalla mancata corretta informazione, escludendo la responsabilità in relazione all’intervento in sé considerato, essendo stato questo eseguito a regola d’arte nonostante l’esito sfavorevole per il paziente. Nel giudizio di cassazione instaurato dal paziente, i convenuti propongono ricorso incidentale nel quale contestano la mancata allegazione e prova del fatto che, in presenza di più compiuta informazione, il paziente non si sarebbe sottoposto all’intervento.
LA SOLUZIONE
[1] Con la pronuncia in epigrafe, la Corte di cassazione, nel confermare la decisione della Corte di appello, ritiene non corretta la tesi prospettata dai ricorrenti incidentali in virtù della quale l’inadempimento dell’obbligo informativo si avrebbe solo in caso di allegazione e prova, da parte del paziente, di un suo probabile rifiuto all’intervento in caso di avvenuta adeguata informazione; al riguardo, la Corte di cassazione evidenzia la natura contrattuale dell’obbligo gravante sul medico e quindi la sufficienza dell’allegazione dell’inadempimento da parte del paziente-creditore. Dunque, secondo la Suprema Corte, il paziente deve essere risarcito anche se l’intervento è stato eseguito a regola d’arte, in quanto l’obbligo informativo che grava sul medico ha natura contrattuale e trova il proprio fondamento nel diritto all’autodeterminazione e non nel diritto alla salute ex art. 32 Cost.
LA QUESTIONE
[1] Con la sentenza in esame la Suprema Corte respinge l’orientamento dottrinale minoritario secondo il quale l’obbligo informativo gravante sul medico è da ricondursi al principio di buona fede, al cui rigoroso rispetto sono tenute le parti nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.c.), la cui violazione da parte del sanitario integrerebbe responsabilità di tipo extra-contrattuale, con la conseguenza che la prova del fatto illecito – la mancata acquisizione del consenso – dovrebbe essere fornita dal paziente. Dunque, la Corte di cassazione accoglie la tesi contrattuale del rapporto medico-paziente, in virtu’ della quale l’illustrazione al paziente delle caratteristiche e dei rischi del trattamento medico, al fine di ottenere il consenso dello stesso, costituisce obbligazione, il cui adempimento deve essere provato dal sanitario a fronte dell’allegazione dell’inadempimento da parte del paziente. Con la sentenza in commento la Corte sconfessa altresì una pronuncia della sua terza sezione (Cass. 9 febbraio 2010, n. 2847) che specificava che se il paziente lamentava anche la lesione del diritto alla salute per mancanza del consenso informato, questo doveva dimostrare che, se messo al corrente dei rischi, non si sarebbe sottoposto all’intervento; al riguardo, la Suprema Corte evidenzia come l’acquisizione da parte del medico del consenso informato costituisce prestazione altra e diversa da quella relativa all’intervento medico, assumendo autonoma rilevanza ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria in caso di mancata prestazione da parte del paziente (Xxxx. 16 maggio 2013, n. 11950); in altre parole, la Corte di cassazione distingue nettamente tra il diritto all’autodeterminazione del paziente, al quale si collega il consenso informato e il diritto alla salute che si collega, invece, al trattamento terapeutico; in base a questa distinzione, la Corte afferma che la lesione del primo diritto – quello all’autodeterminazione – si verifica per il solo fatto che il medico compie atti sul paziente senza averne ottenuto il consenso (c.d. danno evento), e dove il danno conseguenza è rappresentato dall’effetto pregiudizievole nella sfera del paziente; sul punto, la Suprema Corte precisa che la sofferenza e la contrazione della libertà di disporre di se stessi sono certamente effetti pregiudizievoli derivanti dal compimento di atti terapeutici senza consenso, tali per cui il paziente deve ritenersi esentato dall’onere di fornire prova specifica, salvo che voglia far valere conseguenze ulteriori e più gravi, quali, ad esempio, la decisione di non sottoporsi all’intervento o di acquisire pareri e soluzioni alternative (in senso conforme anche Xxxx. 23 novembre 2015, n. 23204). In conclusione, il paziente che intenda formulare domanda risarcitoria invocando la violazione del consenso informato, dovrà limitarsi ad allegare l’inadempimento del sanitario, dovendosi ritenere provato sulla base di nozioni di comune esperienza il danno evento nelle forme della sofferenza e della costrizione della libertà.
Per approfondimenti: Xxxxxxxxxx, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 3, 436; Xxxxxxxx, Il consenso del paziente al trattamento medico-chirurgico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1957, 949; Xxxxxx, Xxxxxxxx informato e onere della prova, in Xxxxx e resp., 2010, 690; Gorgoni, Il diritto alla salute e il diritto all’autodeterminazione nella responsabilità medica, in Obbl. e contr., 2011, 911; Riccio, La violazione dell’autodeterminazione è, dunque, autonomamente risarcibile, in Contr. impr., 2010, 313.
Procedimenti di cognizione e ADR
Querela di falso contro documenti di formazione pubblica.
Condizioni e limiti d’impiego
di Xxxxx Xxxxx
1.L’effetto processuale dell’attestazione del pubblico ufficiale.
L’art. 2699 c.c., definendo l’atto pubblico come “il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato”, prevede la necessità di tre elementi: quello oggettivo, inerente al rispetto di determinate formalità e individuato per relationem nelle prescrizioni contenute nella normativa speciale; quello soggettivo, attinente allo status del “notaio” ovvero dell’“altro pubblico ufficiale” che ha redatto il documento; e infine quello c.d. funzionale [in cui Carnelutti, voce “Documento (Teoria moderna)”, in Noviss. Dig. it., VI, Torino, 1960, 89 vedeva il segno che la legge non si accontenta che l’atto pubblico “sia formato da un pubblico ufficiale, ma dal pubblico ufficiale che sia investito della funzione documentaria”], consistente nella specifica autorizzazione della legge ad attribuire efficacia probatoria “rafforzata” a quanto attestato dal soggetto pubblico.
In presenza di tali elementi, il codice deroga alla regola generale della libera apprezzabilità prevista dall’art. 116, comma 1 c.p.c. e riconosce valore di “piena prova” all’attestazione effettuata dal pubblico ufficiale.
Ciò corrisponde ad un duplice effetto.
La parte che assuma la falsità delle risultanze dell’atto risulta onerata della proposizione della querela di falso: la possibile contestazione della verità di quanto attestato dal pubblico ufficiale viene dunque limitata all’ottenimento di una pronuncia giurisdizionale che ne accerti la difformità dal vero.
Sul piano processuale, il valore di prova piena si traduce così nell’irrilevanza e nella conseguente inammissibilità delle istanze di prova orale vòlte a confutare, fuori dal contesto della querela di falso, la mancata verificazione di quanto invece affermato dal pubblico ufficiale.
2.Le dichiarazioni coperte dal valore di prova piena.
Xxxxx dice in realtà il codice sull’oggetto dell’attestazione, ossia su quali affermazioni del pubblico ufficiale siano idonee alla pubblica fede, e dunque, in quanto sottratte all’area della
libera valutabilità da parte del giudice, alla contestabilità nelle sole forme della querela di falso.
Tale elemento è ricavato dagli interpreti sulla base della tradizionale distinzione tra verità intrinseca ed estrinseca – la sola coperta da pubblica fede – delle attestazioni contenute nel documento (si osserva per inciso che la formula dell’art. 1317 del codice civile del 1865, diversamente da quello attuale, attribuiva espressamente “piena fede” non solo alla “convenzione” ma anche ai “fatti seguiti alla presenza del notaio o d’altro pubblico uffiziale che lo ha ricevuto”; il legislatore del 1940 giustificò il “notevole ritocco” osservando che “l’atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, non propriamente della convenzione, ma delle dichiarazioni delle parti” e “lo speciale grado di efficacia probatoria non si estende alla sincerità di tali dichiarazioni”).
E’ opinione comune che la pubblica fede investa anche le indicazioni, non espressamente menzionate dalla norma eppure derivanti dalla diretta percezione del reale da parte del pubblico ufficiale, relative al luogo di redazione dell’atto – elemento indispensabile all’accertamento della competenza territoriale del rogante, espressamente richiesta dall’art. 2699 c.c. – e alla data in cui esso è stato formato: in riferimento a quest’ultima, l’efficacia di prova piena è ricavabile a contrario dal fatto che il successivo art. 2704 c.c. considera “certa” l’esistenza della scrittura privata a partire dal momento in cui il suo contenuto è riprodotto “in atti pubblici” (Xxxxxxxxxx, La prova civile, Roma, 1947, 206; Comoglio, Le prove civili, Torino, 2010, 434; Biorci, L’atto pubblico e gli altri documenti di formazione pubblica, in Il documento nel processo civile, a cura di X. Xxxxx, Bologna, 2011, 47).
Per le ragioni esposte la giurisprudenza ritiene necessario l’esperimento della querela di falso per la contestazione delle indicazioni temporali riportate dall’ufficiale giudiziario nella c.d. relata di notifica, mentre la pubblica fede non si estende alla veridicità intrinseca delle dichiarazioni rese al pubblico ufficiale quali l’effettiva delega al ritiro da parte di chi ha materialmente ricevuto il plico (Cass., 29 marzo 2016, n. 6046) o l’affermata situazione di convivenza del consegnatario dell’atto (Cass., 24 settembre 2015, n. 18892; Trib. Milano, 9
luglio 2008, in xxx.xxxxxxxxxxxx.xx; Cass., 6 giugno 2007, n. 13216; Cass., 11 aprile 2000, n.
4590; Cass., S.U., 15 giugno 1993, n. 6635).
Nei documenti pubblici di formazione notarile sono inoltre coperte da pubblica fede, e non possono dunque essere contestate se non nelle forme della querela di falso, le attestazioni riguardanti l’identità dei dichiaranti: la fonte è l’art. 49, L. 89/1913 come modificato dalla L. 1° maggio 1976, n. 333, che assegna al notaio il compito di verificare l’identità personale delle parti precisando che egli “può raggiungere tale certezza, anche al momento della attestazione, valutando tutti gli elementi atti a formare il suo convincimento” e, se del caso, avvalendosi anche ex art. 49, comma 2 “di due fidefacienti da lui conosciuti, che possono essere anche i testimoni”.
3. Le dichiarazioni implicanti un lavoro di ricostruzione storica ovvero un giudizio da parte del verbalizzante.
Dall’esame dei principali orientamenti sull’individuazione del contenuto estrinseco dell’atto pubblico, emerge quindi che la struttura dell’art. 2700 c.c. attribuisce pubblica fede alla sola descrizione del reale che il pubblico ufficiale ha percepito con i propri sensi, rientrando invece nell’area della libera apprezzabilità qualsiasi attestazione che esuli dalla mera rappresentazione di quanto avvenuto in presenza dell’ufficiale rogante.
Due appaiono dunque le principali ipotesi in cui l’effetto di prova legale non si produce.
La prima riguarda la verità intrinseca delle dichiarazioni che vengono rese dalle parti al pubblico ufficiale in ordine ad accadimenti di cui egli non ha cognizione diretta, e da ciò si ricava, indirettamente, che l’atto pubblico fa invece piena prova riguardo al fatto storico che in presenza del pubblico ufficiale le dichiarazioni sono state effettivamente rese e i fatti descritti sono realmente accaduti. La dottrina, a tal proposito, individua il residuo margine di efficacia di prova legale dell’intrinseco (come tale attaccabile soltanto con querela di falso) proprio in questo “contenuto ‘descrittivo’ dell’attestazione di fatti dichiarativi od operativi, avvenuti in presenza del pubblico ufficiale o da lui compiti” [Xxxxxxxx, op. cit., 435; Xxxxxx, voce “Atto pubblico (dir. priv.)”, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 270].
E’ il caso, ricorrente nella prassi negoziale, in cui i soggetti comparsi davanti al notaio si limitano ad affermare che il pagamento del prezzo pattuito è stato corrisposto, ma nessun trasferimento di denaro avviene effettivamente alla presenza dell’ufficiale rogante e, dunque, come pacificamente affermato dalla giurisprudenza, l’efficacia di prova legale può riguardare il solo fatto storico che la dichiarazione è stata resa.
L’effetto di contestabilità con i mezzi probatori ordinari deve pertanto riconoscersi all’ipotesi in cui una delle parti alleghi la difformità tra il prezzo dichiarato in quella sede e quello, già pattuito con negozio simulato, effettivamente corrisposto (Cass., 9 maggio 2013, n. 11012; applica il principio Cass., 30 luglio 1998, n. 7500, che ritiene “ammissibile la prova per testi, dedotta dal terzo, per dimostrare la simulazione di un contratto stipulato per atto pubblico, perché l’efficacia probatoria privilegiata di esso è limitata ai fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza e alla provenienza delle dichiarazioni, senza implicare l’intrinseca veridicità di esse o la loro rispondenza all’effettiva intenzione delle parti, come nel caso di dichiarazione di prezzo ricevuto in cambio del bene, difforme dal vero”; Cass., 5 luglio 1994, n. 6346, e, nella giurisprudenza di merito, Trib. Isernia, 6 marzo 2008, in Not., 2008, 232, secondo cui “se quanto risulta dall’atto notarile, pur corrispondendo alle dichiarazioni rese al notaio al momento della stipula dell’atto pubblico, non corrisponde alla comune volontà delle parti o alla volontà di una delle parti, si è completamente fuori dall’istituto della querela di falso, rientrando la fattispecie nel primo caso sotto la disciplina della simulazione e nel secondo caso in quella dei vizi del consenso”).
In sintesi non necessita dunque di essere veicolata nelle forme della querela di falso la contestazione delle dichiarazioni del pubblico ufficiale che costituiscono il risultato di un lavoro di ricostruzione storica.
Come tali, anch’esse sono sottratte all’efficacia probatoria rafforzata poiché frutto di un ragionamento induttivo che non corrisponde allo schema legale della circostanza che l’ufficiale attesta “avvenuta in sua presenza”: esso implica infatti un giudizio critico dei dati raccolti, e con ciò prescinde dalla percezione sensoriale diretta (Xxxx, I documenti, in La prova nel processo civile, a cura di Xxxxxxx, Milano, 2012, 601).
Un esempio, nella casistica giurisprudenziale, è costituito dalla fattispecie in cui agenti di pubblica sicurezza verbalizzino nel proprio rapporto non soltanto i fatti di cui hanno avuto percezione diretta a partire dal momento in cui sono giunti sul luogo del sinistro, ma anche l’orario dell’incidente o la verosimile dinamica che lo ha prodotto (Cass., 22 ottobre 2013, n. 23977; Cass., 9 settembre 2008, n. 22662; Cass., 26 giugno 2003, n. 10128) o ancora, come precisato da una recente decisione della Cassazione, il “contenuto informativo di quanto appreso o constatato” dai carabinieri in occasione di una relazione di servizio e, nella fattispecie, “l’individuazione della persona del guidatore del veicolo al momento del sinistro” (Cass., 28 luglio 2017, n. 18757).
A tal proposito si segnala una pronuncia di merito (Trib. Legnano, 10 marzo 2011, in xxx.xxxxxx.xx) che precisa come il rapporto di polizia faccia piena prova, fino a querela di falso, solo delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti come avvenuti in sua presenza, mentre per quanto riguarda le “altre circostanze di fatto accertate nel corso dell’indagine in seguito ad altri accertamenti”, l’attendibilità del verbale possa essere confutata anche da una prova libera di segno contrario, e, nel caso di specie, ha confermato la sanzione amministrativa comminata ad un automobilista per il passaggio con il semaforo
rosso – con violazione dunque dell’art. 146 cod. strad. – sulla base di una ricostruzione della dinamica del sinistro operata “sulla scorta delle dichiarazioni rese nell’immediatezza del sinistro dal conducente di uno dei veicoli coinvolti, da una testimone oculare estranea all’incidente, dai rilievi eseguiti in loco, dalla natura dei danni subiti dai veicoli coinvolti e dalla posizione di quiete degli stessi, dal regolare funzionamento dell’impianto semaforico”.
Lo stesso principio – ossia l’inconfigurabilità di una prova piena in caso di verbalizzazione frutto di ricostruzione storica e non di percezione visiva – è affermato dalla giurisprudenza anche in casi in cui il verbalizzante si limita a semplici deduzioni: è dunque contestabile con prova libera l’affermazione dell’agente accertatore che il soggetto sanzionato avesse “guidato” con patente scaduta, desunta dal fatto che egli fosse “disceso da un automezzo lasciato in sosta poco prima” e non fondata invece sulla diretta osservazione della marcia dell’autoveicolo (Cass., 16 marzo 2011, n. 6196).
Non formano poi prova legale le attestazioni dell’ufficiale derivanti da apprezzamenti soggettivi sulla capacità di intendere e di volere delle persone (Cass., 5 giugno 2014, n. 12960; Cass., 9 marzo 2012, n. 3787; Cass., 27 aprile 2006, n. 9649; ciò ancorché, secondo la giurisprudenza di merito, “l’accertamento del notaio, quale pubblico ufficiale preposto al controllo della mancanza di cause di nullità dell’atto”, possa “ritenersi un significativo elemento di prova della capacità di testare” nelle ipotesi in cui la controparte non abbia “fornito la prova, neppure di carattere presuntivo, del fatto che il testatore fosse incapace di
intendere e di volere al momento del testamento, né del fatto che la relativa volontà fosse stata in qualche modo coartata dal soggetto beneficiario”, come affermato da Trib. Lucca, 7 luglio 2016, in xxx.xxxxxx.xx) e, per rimanere nell’ambito della circolazione stradale, la superiorità della velocità di marcia del veicolo rispetto al limite consentito [Malinverni, voce “Atto pubblico (dir. pen.)”, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 273 ss.], salvo che l’eccessiva andatura sia stata visivamente constatata dall’ufficiale, in quanto rilevata da un meccanismo di c.d. “telelaser” e verbalizzata sul momento (Cass., 28 ottobre 2005, n. 21017).
In queste ipotesi, non soltanto non sussiste l’onere della querela di falso ma, al contrario, l’eventuale istanza vòlta all’instaurazione del subprocedimento andrebbe incontro ad una pronuncia di inammissibilità, dal momento che il fatto, non essendo suscettibile di accertamento in termini di falsità o verità, costituisce “percezione sensoriale implicante margini di apprezzamento” e, come tale, è contestabile con mezzi di prova liberamente valutabili.
Anche in questo caso la giurisprudenza è consolidata: così Cass., 16 maggio 2016, n. 9974, per cui, all’interno delle dichiarazioni contenute in un verbale di accertamento di una violazione del codice della strada, l’efficacia probatoria privilegiata deve essere esclusa sia con riferimento ai giudizi valutativi in esso contenuti, sia con riguardo ai fatti che in ragione della loro modalità di accadimento repentino non siano verificabili in modo oggettivo e abbiano potuto dare luogo a una percezione sensoriale caratterizzata da margini di apprezzamento soggettivo, come si verifica quando la rilevazione riportata sul verbale riguarda il transito mentre il semaforo vietava il passaggio (nello stesso senso Xxxx., 29 agosto 2008, n. 21816, che ha cassato la sentenza del giudice di pace che aveva dichiarato inammissibili le istanze di prova orale tese a dimostrare che la parte, contrariamente a quanto ricostruito dai verbalizzanti, era transitata “con il rosso”), mentre l’“accadimento repentino” è escluso dalle Corti di merito qualora l’accertamento riguardi la “guida parlando con il telefono cellulare”, che “non implica alcuna attività di valutazione o di elaborazione da parte dell’agente accertatore” e “pertanto, con riferimento al relativo verbale, se non risulta esperito il rimedio della querela di falso, a fronte della fede privilegiata conferita allo stesso dall’art. 2700 c.c. non possono mettersi in discussione le relative risultanze” (Trib. Bari, 27 giugno 2012, in xxx.xxxxxx.xx).
Agevolazioni fiscali, GESTIONE DELLA PROFESSIONE E SOFTWARE
Spesometro: il termine per l’invio slitta al 16 ottobre
di Redazione
Con il comunicato stampa n. 163 di ieri il Ministero dell’economia e delle finanze ha annunciato l’ennesima proroga del termine per effettuare la comunicazione all’Agenzia delle Entrate dei dati delle fatture emesse e ricevute relative al primo semestre del 2017.
La nuova scadenza, fissata al prossimo 16 ottobre, è prevista da un apposito DPCM, emanato su proposta del ministro Xxxx Xxxxx Xxxxxx, il quale ha firmato il provvedimento nella giornata di ieri.
In pratica, per procedere all’invio dello spesometro, si avranno 11 giorni in più, atteso che l’Agenzia, con il comunicato dello scorso 25 settembre, aveva fatto slittare il termine del 28 settembre a oggi, 5 ottobre.
È stata, quindi, accolta la richiesta di ulteriore rinvio avanzata da parte di professionisti e imprese per le difficoltà riscontrate al momento della trasmissione telematica dei documenti fiscali. Difficoltà che sono derivate, sia dalla incapacità del sistema di gestire l’ingorgo dei dati inviati nei momenti di picco (tra la fine di settembre e questi ultimi giorni sono state inviate al Fisco oltre un miliardo e seicento milioni di fatture), sia dalla sospensione della trasmissione della comunicazione a causa dei noti problemi di privacy.
Xxxxxxx, tuttavia, evidenziare che il comunicato di ieri del MEF non interviene sull’aspetto sanzionatorio. Al riguardo, si ricorda che il comunicato stampa dell’Agenzia dello scorso 25 settembre, oltre a annunciare la proroga dell’adempimento, aveva affermato che, laddove fossero state riscontrate obiettive difficoltà per i contribuenti, “a discrezione degli uffici dell’Agenzia potranno essere disapplicate le sanzioni:
per meri errori materiali e/o nel caso in cui l’adempimento sia stato effettuato dopo il 5 ottobre, ma entro i 15 giorni dall’originaria scadenza”.
Ora sul tema si aprono due questioni. La prima riguarda il fatto che, anche volendo intendere come originaria scadenza il 28 settembre, l’ultraperiodo utile per la disapplicazione delle sanzioni, esaurendosi il 13 ottobre (28 settembre + 15 giorni), scade prima della nuova scadenza fissata al 16 ottobre.
Il secondo aspetto è relativo alla discrezionalità: è evidente che lasciare ai singoli uffici dell’Agenzia la valutazione sulla non applicazione delle sanzioni – “per meri errori materiali” – rischia di generare spiacevoli disparità di trattamento.
Articolo tratto da “Euroconferencenews“
DIRITTO D'IMPRESA, Diritto e reati societari
Quando la lavorazione incide sulla non imponibilità della cessione UE
di Redazione
Nella sentenza Xxxxxxx, di cui alla causa C-386/16 del 26 luglio 2017, la Corte di giustizia ha dovuto stabilire non solo se l’esenzione prevista per le cessioni intraunionali di beni sia applicabile nella specifica vendita “a catena” presa in considerazione, ma anche se
la lavorazione avente per oggetto i beni già oggetto di cessione possa incidere sul regime di esenzione ad essa applicabile.
Come altrove ricordato (xxxx://xxx.xxxxxx.xx/xxxxxxxxxxxx-xxxxxx-xxxxx-xxxxxxxxxxx-xxx-xxxxx- triangolazione/), il caso esaminato è quello di una società lituana che cede i beni ad una società estone con consegna in Lituania, quindi con clausola “franco partenza”. A sua volta, la società acquirente vende i beni ai propri clienti, identificati ai fini IVA in altri Paesi membri, organizzando il relativo trasporto “a destino”.
Dai fatti di causa si desume che la società lituana, dopo la cessione, custodisce i beni in attesa del loro trasporto nel Paese di destinazione finale, che deve avvenire entro 30 giorni.
Nella situazione descritta, in cui il primo cedente assume la veste di depositario dei beni, la Corte ha ritenuto che la corrispondente cessione sia imponibile, con esenzione limitata
alla seconda cessione, alla quale è riconducibile il trasporto intraunionale organizzato dalla società estone.
Come anticipato, con la pronuncia richiamata, l’ulteriore questione risolta dai giudici dell’Unione è se l’esenzione prevista per le cessioni intraunionali sia applicabile nel caso in cui i beni già oggetto della cessione iniziale siano lavorati su incarico del soggetto intermedio.
In proposito, viene osservato che l’articolo 138, par. 1, della Direttiva n. 2006/112/CE, nel definire le condizioni sostanziali dell’esenzione, nulla prevede in ordine all’ipotesi in cui la lavorazione sia effettuata dopo la prima cessione, per cui – conclude la Corte – “una trasformazione dei beni, durante una catena di due successive cessioni, come quella di cui al procedimento principale, sulla base delle istruzioni dell’acquirente intermediario ed effettuata prima del trasporto verso lo Stato membro dell’acquirente finale, non incide sulle condizioni dell’eventuale esenzione della prima cessione, allorché tale trasformazione è posteriore alla prima cessione”.
Ai fini dell’individuazione delle condizioni sostanziali dell’esenzione, il riferimento
giurisprudenziale è dato dalla sentenza Euro Tyre (causa C-21/16 del 9 febbraio 2017), in base alla quale è richiesto che il potere di disporre del bene come proprietario sia stato trasmesso all’acquirente e che il venditore provi che tale bene sia stato spedito o trasportato in altro Stato membro.
È, inoltre, indispensabile che il cessionario sia un soggetto passivo che agisce in quanto tale in uno Stato membro diverso da quello di partenza dei beni, laddove la nozione di soggetto passivo è quella definita dall’articolo 9, par. 1, della Direttiva n. 2006/112/CE, che fa riferimento esclusivamente a chi svolge, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica, quali che siano gli scopi e i risultati di tale attività. La soggettività passiva prescinde, quindi, sia dal possesso del numero di identificazione IVA, eventualmente specifico per la realizzazione di operazioni intracomunitarie, sia dall’iscrizione nel sistema VIES, che rappresentano requisiti soltanto formali, non idonei in quanto tali a porre in discussione il diritto del cedente a beneficiare dell’esenzione se ricorrono le predette condizioni sostanziali; sicché, in merito al profilo da ultimo considerato, non v’è dubbio che la disciplina italiana in materia di VIES sia tuttora illegittima sul piano unionale, anche dopo le semplificazioni introdotte dal D.Lgs. 175/2014 (xxxx://xxx.xxxxxx.xx/xxxxxxxxxx-xx-xxxx-xxxxxxxxxxx-xx-xxxx- dellesenzione-iva/).
L’irrilevanza della lavorazione sul trattamento di esenzione eventualmente applicabile alla prima cessione è coerente anche con la sentenza Fonderie 2A (causa C-446/13 del 2 ottobre 2014), secondo cui, per attribuire la detassazione ad una operazione, deve sussistere un “nesso temporale e sostanziale sufficiente” tra la cessione e la spedizione.
Tale nesso manca se, come nel caso esaminato dalla pronuncia, la spedizione transfrontaliera è finalizzata in un primo tempo alla lavorazione, mentre s’intende realizzato quando i beni spediti all’acquirente sono conformi alle previsioni contrattuali.
Nella fattispecie dedotta in giudizio, una società italiana ha venduto pezzi metallici ad una società francese previa verniciatura effettuata, per conto della società italiana, da un’altra società francese.
Dato che, ai sensi dell’articolo 32 della Direttiva n. 20067112/CE, per le cessioni di beni con trasporto/spedizione rileva il luogo in cui il bene si trova nel momento iniziale del trasporto/spedizione a destinazione dell’acquirente, si tratta di stabilire se la spedizione delle parti metalliche a destinazione del cliente francese sia iniziata in Italia, quando il fornitore ha spedito i beni al terzista francese ai fini della verniciatura, oppure in Francia, quando le parti metalliche, una volta verniciate, sono state consegnate al cliente.
La Corte di giustizia ha affermato che la cessione non può considerarsi effettuata in Italia, in quanto il contratto di compravendita ha per oggetto il prodotto finito, cioè le parti metalliche verniciate, presenti in Francia (e non in Italia) nel momento iniziale del trasporto/spedizione a destinazione dell’acquirente, per cui il luogo della cessione – inteso come quello in cui avviene il trasferimento all’acquirente del potere di disporre del bene come proprietario, ai sensi
dell’articolo 14, par. 1, della Direttiva n. 2006/112/CE – non è l’Italia, ma la Francia.
Sussiste, pertanto, un “nesso sostanziale” della spedizione con la lavorazione del bene, anziché con la sua cessione all’acquirente, quando il “nesso sostanziale sufficiente” della spedizione del bene con la cessione dello stesso sorge in un secondo tempo, nella specie quando la merce spedita all’acquirente è conforme alle previsioni contrattuali.
La conclusione della Corte conferma la legittimità della previsione di non imponibilità prevista dall’articolo 41, comma 1, lett. a), del D.L. 331/1993, riconosciuta anche se i beni sono “sottoposti per conto del cessionario, ad opera del cedente stesso o di terzi, a lavorazione, trasformazione, assiemaggio o adattamento ad altri beni”.
In pratica, occorre distinguere a seconda che l’ordine di acquisto del cliente comunitario abbia per oggetto il bene lavorato o il bene non lavorato.
Nel primo caso (cessione del bene lavorato), in cui il costo della lavorazione, essendo fatturato dal terzista nei confronti del cedente italiano, è incorporato nel prezzo di vendita del bene ceduto, ai fini della fatturazione in regime di non imponibilità della cessione è richiesto che la lavorazione sia effettuata in Italia, in conformità alle indicazioni della sentenza Fonderie 2A.
Nel secondo caso (cessione del bene da lavorare), invece, in cui il costo della lavorazione, essendo fatturato dal terzista direttamente nei confronti del cessionario comunitario, non risulta incorporato nel prezzo di vendita praticato dal cedente italiano, si rientra nell’articolo 41, comma 1, lett. a), del D.L. 331/1993, nella parte in cui stabilisce che le cessioni intracomunitarie si considerano non imponibili anche se i beni sono “sottoposti per conto del cessionario, ad opera del cedente stesso o di terzi, a lavorazione, trasformazione, assiemaggio o adattamento ad altri beni” (si veda anche la C.M. n. 13-VII-15-464/1994, § B.2.1).
Articolo tratto da “Euroconferencenews“
DIRITTO D'IMPRESA, Diritto e reati societari
Il procedimento penale 231: la Cassazione prende posizione su vari aspetti controversi con la sentenza n. 41768/2017
di Xxxxxxx Xxxxx
Competenza per territorio e competenza per connessione rispetto a reati non oggetto di addebito 231, contestazione 231 con rinvio ai capi di imputazione per le persone fisiche, utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, indipendenza delle impugnazioni dell’imputato e dell’ente, queste le principali questioni procedimentali e processuali affrontate nelle 146 pagine della sentenza della Cassazione penale, Sez. VI, n. 41768 depositata il 13.9.2017.
Con tale pronuncia la Suprema Corte ha assunto precisa e motivata posizione su alcuni degli aspetti più controversi della disciplina processual-penalistica dell’accertamento della Responsabilità degli enti, in bilico tra norme del codice di procedura penale e disposizioni speciali di cui al D.Lgs. 231/01.
Competenza per territorio e connessione
“Il <<giudice penale competente>> a conoscere gli illeciti amministrativi dell’ente è il medesimo
<<giudice penale competente>> per i reati dai quali gli stessi dipendono, anche se la sua competenza in relazione a questi ultimi discende dall’applicazione delle regole di connessione”.
La Cassazione, dunque, sancisce la competenza in relazione al procedimento 231 in capo al giudice, non solo astrattamente, ma in concreto competente a decidere in merito al reato presupposto, a nulla rilevando che tale competenza sia determinata per connessione rispetto ad un diverso reato addebitato esclusivamente a persone fisiche.
Tale conclusione sarebbe per la Corte in linea con l’intenzione del legislatore tesa ad “agevolare il più possibile, la celebrazione di un simultaneus processus ed evitare contrasti di giudicato con conseguenti giudizi di revisione”.
Contestazione 231 con rinvio ai capi di imputazione per le persone fisiche
Secondo la Suprema Corte non è affetta da nullità la contestazione nei confronti dell’ente, laddove, come nel caso all’esame, gli elementi essenziali della stessa siano ricavabili dal rinvio ai capi di imputazione a carico delle persone fisiche.
La sentenza fa salva la contestazione, quanto all’indicazione dei rapporti ex art. 5 D.Lgs. 231/01 tra imputati persone fisiche ed ente, in quanto la contestazione stessa “opera un
espresso analitico riferimento ai capi di imputazione addebitati alle persone fisiche, al dichiarato fine tanto dell’individuazione dei singoli reati-presupposto, quanto del tipo di rapporto intercorrente… tra l’ente e la persona fisica che agiva per suo conto”.
Il rinvio al contenuto di altri capi accusatori sanerebbe le lacune della contestazione specifica all’ente anche con riguardo all’individuazione dei requisiti di interesse e vantaggio. Si legge infatti: “è vero che il capo 90.f non esplicita puntualmente il profilo del vantaggio o dell’interesse dell’ente. Tuttavia, le singole contestazioni cui fa rinvio il capo 90.f consentono di individuare i vantaggi indebitamente conseguiti dalle società… in relazione a ciascun reato e gli interessi per le stesse illecitamente perseguiti”.
Utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche
La questione specifica è da sempre stata oggetto di dibattito dottrinale. Parte della dottrina escludeva l’utilizzabilità delle intercettazioni per l’accertamento dell’illecito amministrativo, in considerazione del fatto che le intercettazioni vengono autorizzate dal giudice solo in presenza di uno dei reati previsti dall’art. 266 c.p.p., non quindi in caso di “illeciti amministrativi dipendenti da reato”. Altra parte della dottrina riteneva che le intercettazioni fossero utilizzabili per effetto del richiamo alle regole generali del rito penale, anche al di fuori della simultaneità processuale, ovviamente solo nei casi in cui ciò sia consentito in relazione al particolare reato presupposto che si persegue.
In giurisprudenza si è spesso assistito, in concreto, ad un ampio utilizzo delle intercettazioni telefoniche, effettuate in relazione ai reati presupposto, anche nei confronti dell’ente incolpato ai sensi del D.Lgs. 231/01.
Un esempio è dato dalla sentenza n. 37712/14 della Corte di Cassazione, II Sezione Penale, che espressamente pone in risalto le risultanze di intercettazioni telefoniche in sede cautelare 231, al fine di trarre da esse conferma circa “la sussistenza del concreto pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede”.
La recentissima sentenza qui in esame affronta direttamente la questione, per rispondere alle doglianze della difesa, affermando che “è indiscusso che le disposizioni del codice di procedura penale in materia di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni si applichino anche nei confronti degli enti”.
La motivazione si fonda innanzitutto sul disposto degli artt. 34 e 35 D.Lgs. 231/01 che richiamano l’applicabilità delle disposizioni del codice di procedura penale in quanto compatibili e l’applicabilità all’ente delle disposizioni processuali relative all’imputato. Dettati normativi che, secondo la Corte, sarebbero corroborati dalla Relazione Ministeriale al X.Xxx.
231/01 laddove si osserva che “Poiché l’illecito penale è uno dei presupposti della responsabilità, occorre disporre di tutti i necessari strumenti di accertamento di cui è provvisto il procedimento penale…”.
La sentenza richiama “il consolidato orientamento giurisprudenziale”, secondo cui “i risultati delle intercettazioni telefoniche disposte per uno dei reati rientranti tra quelli indicati nell’art. 266
c.p.p. sono utilizzabili anche con riferimento ad altri reati che emergano dall’attività di captazione, ancorchè per essi le intercettazioni non sarebbero state consentite, purchè tra il contenuto dell’originaria notizia di reato alla base dell’autorizzazione e quello dei reati per cui si procede separatamente vi sia una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico, cosicchè il relativo procedimento possa ritenersi non diverso rispetto al primo, ai sensi dell’art. 270 c.p.p., comma 1”.
Da tale orientamento la Suprema Corte deduce che “sembra ragionevole concludere che i risultati desumibili dalle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni ordinate per il reato presupposto sono comunque utilizzabili anche per accertare la responsabilità dell’ente, ed anche se il procedimento relativo a quest’ultimo sia stato formalmente separato per vicende successive.
Invero, pure a voler sottolineare che altro è il reato presupposto ed altro è l’illecito amministrativo dipendente dal reato presupposto, è innegabile l’esistenza di una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico, tra il contenuto dell’originaria notizia di reato alla base dell’autorizzazione e quello dell’illecito amministrativo dipendente dal medesimo reato”.
Indipendenza delle impugnazioni dell’imputato e dell’ente
Sul punto la Suprema Corte afferma che “… le impugnazioni dell’imputato persona fisica e dell’ente sono e restano tra di loro indipendenti: è solo l’eventuale risultato positivo che si estende per evitare giudicati contrastanti che potrebbero imporre la revisione della sentenza dichiarativa di responsabilità nei confronti dell’ente…”.
Tale principio, che discenderebbe da un lato dalla “limitazione soggettiva” prevista dall’art. 71 D.Lgs. 231/01, che individua nell’ente e nel pubblico ministero i soli soggetti legittimati ad impugnare le sentenze che applichino le “sanzioni amministrative” 231, dall’altro dall’art. 72 del decreto stesso, laddove prevede che le impugnazioni di imputato ed ente “xxxxxxx, rispettivamente, all’ente e all’imputato…”, determina che “… l’imputato persona fisica autore del reato presupposto, anche quando sia rappresentante legale e socio della persona giuridica, non è legittimato, né ha interesse ad impugnare il capo della sentenza relativo all’affermazione di responsabilità amministrativa dell’ente…”.
Queste sono solo alcune delle interessanti posizioni assunte dalla Suprema Corte in seno alla sentenza in oggetto, cui altre se ne aggiungono sul piano processuale e sostanziale e con le quali non sarà possibile non confrontarsi nell’esperimento della difesa penale degli enti.