La cessione del contratto di lavoro
Articolo pubblicato sul numero 29|2016 del 01/08/2016
La cessione del contratto di lavoro
di Xxxxxxx Xxxxxxx
Esaminiamo la disciplina della cessione del contratto di lavoro, il negozio giuridico mediante il quale il titolare di un rapporto contrattuale sostituisce a sé un terzo, con il consenso dell’atra parte.
Istituto in generale
Lavoro : Rapporto di lavoro : Disposizioni in genere
Cod.Civ., art. 1268
Cod.Civ., art. 1273
Cod.Civ., art. 1406
Cod.Civ., art. 2112
Cod.Civ., art. 2740
X.Xxxx., Sent. n. 5932 del 5 marzo 2008
X.Xxxx., Sent. n. 13171 del 8 giugno 2009
X.Xxxx., Sent. n. 8756 del 2014
X.Xxxx., Sent. n. 2955 del 4 aprile 1997
Legge n. 428 del 1990, art. 47
D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 30, comma 1
In ambito civilistico, la cessione del contratto è disciplinata dagli artt. 1406 e ss. cc. e costituisce quel negozio giuridico mediante il quale il titolare di un rapporto contrattuale sostituisce a sé un terzo con il consenso dell’atra parte.
In pratica, la fattispecie prevede la partecipazione di tre soggetti: il cedente, il cessionario e il ceduto, il quale consenso di quest’ultimo rappresenta un elemento costitutivo della cessione e non una semplice adesione all’accordo già intervenuto.
In altre parole, con tale istituto si realizza la sostituzione non solo nel debito o nel credito, ma in tutte le posizioni attive o passive, principali e accessorie, pertinenti al rapporto giuridico ceduto. In termini più prettamente giuridici si realizza un’ipotesi di successione inter vivos a titolo particolare.
Tale figura si distingue da un’altra fattispecie affine che è la cessione del credito, dove il trasferimento ha ad oggetto il solo lato attivo anche se talvolta i limiti sono molto confusi e, invero, la giurisprudenza e la dottrina discutono spesso sulla qualificazione di una determinata fattispecie in termini di cessione del credito o del contratto.
In dottrina si discute, inoltre, se la cessione del contratto sia un contratto tipico o un effetto contrattuale. Al riguardo, taluni autori (1), propendendo per la prima tesi, individuano nella cessione un contratto tipico e trilaterale e vedono nella stessa una vendita del contratto, giungendo persino a ravvisare la causa dell’istituto nello scambio tra il prezzo della cessione e la sostituzione nella qualità di parte.
Altri, invece (2), sostengono che la cessione non sia un contratto tipico, né un modo di formazione del contratto ma si tratta invece di una vicenda volontaria, che può riguardare qualunque contratto, tipico o atipico. In sostanza, secondo tale indirizzo, la cessione non è un contratto, ma l’effetto di un contratto diverso (vendita, permuta, donazione) che si innesta su un altro contratto tipico che costituisce l’oggetto della cessione (vendita, locazione, fornitura, ecc.).
A sostegno di questa tesi si evidenzia il fatto che il legislatore abbia inserito la cessione nella parte del contratto in generale e non nella sezione dedicata ai contratti tipici e, inoltre, anche per la previsione del termine “cessione”, che tecnicamente va riferito al trasferimento di un diritto, sia esso a titolo gratuito o oneroso.
Un altro aspetto di cui si è discusso in dottrina è se possa essere ammessa la cessione del contratto a titolo gratuito con l’intento di arricchire il contraente cessionario.
In merito, si ricorda che anche qui si sono affermati due contrapposti orientamenti.
Il primo, che propende in senso negativo ritiene che la causa liberale sarebbe abnorme e che ripugnerebbe alla cessione, posto che questa deve necessariamente avere, come punto di riferimento, contratti con prestazioni corrispettive.
Un altro indirizzo è invece dell’idea che la cessione non è un contratto tipico, ma l’effetto di un negozio diverso (vendita, donazione, permuta) e dunque non sussiste nessun problema nell’ammettere una donazione del contratto.
Tale tesi sarebbe confermata anche dal fatto che nel codice non c’è traccia di una soluzione in senso negativo ed è un dato acquisito che la donazione può avere ad oggetto qualsiasi diritto o obbligazione.
Cessione del contratto di lavoro
Il contratto di lavoro se pur sul piano concettuale è un contratto come altri, come tuttavia è noto, presenta alcune peculiarità essendo governato da molte disposizioni che sono speciali e proprie del settore lavoro.
L’ipotesi della cessione del contratto in tema di lavoro, dunque, è diversamente regolata dalla legge, a seconda che tale cessione sia o meno la conseguenza di una cessione di azienda o di un ramo della stessa. Infatti, qualora l’oggetto del trasferimento fosse l’azienda, o un suo ramo autonomo, la contestuale cessione dei relativi rapporti di lavoro sarebbe una conseguenza necessaria, automaticamente prevista dall’art. 2112 c.c.
Va subito precisato che per configurare l’ipotesi prevista dall’art. 2112 c.c., è necessario che vi sia il trasferimento dell’insieme di beni che, organizzati dall’imprenditore, costituiscono l’azienda. Al
contrario, qualora non fossero ceduti beni strumentali, o comunque i beni ceduti non fossero tali da costituire una azienda, la cessione del rapporto di lavoro sfuggirebbe alla disciplina della norma sopra citata e, dunque, non costituirebbe più una conseguenza automatica e necessaria.
Quest’ultimo caso è disciplinato dall’art. 1406 c.c., che regolamenta la cessione del contratto e, come prima accennato, la norma dispone che uno dei due contraenti possa cedere ad un terzo il contratto, a condizione però che l’altro contraente sia consenziente.
Ciò vuol dire che, in assenza di tale consenso, la cessione del contratto non si perfeziona e non ha alcuna efficacia. Con particolare riferimento a tale ultima fattispecie, la giurisprudenza ha interpretato l’art. 1406 c.c. affermando che il dissenso deve essere esplicito e tempestivo.
In altre parole, il lavoratore ceduto potrebbe manifestare validamente il suo consenso qualora cominciasse a lavorare per il nuovo datore di lavoro senza protestare. Pertanto, nel caso di cessione del singolo contratto di lavoro, il lavoratore può certamente opporsi al trasferimento del proprio contratto di lavoro, a condizione però che manifesti il proprio dissenso in maniera esplicita e con opportuna tempestività.
Tra gli elementi propri della cessione, in genere, ai fini della sua ammissibilità, va ricondotta la corrispettività tra le parti tenute all’esecuzione, cioè una parte è tenuta a fare delle cose e l’altra parte è tenuta a farne altre. La peculiarità ulteriore è data dal fatto che la cessione non cada solamente su quanto già si è perfezionato e definito, ma dinamicamente si sospinga anche all’impegno futuro analogo a quello preesistente. Il cedente (precedente datore di lavoro) non è liberato da quanto da lui dovuto se non vi è il consenso del lavoratore; l’opposizione del lavoratore che non aderisse alla liberazione farebbe conservare al lavoratore i diritti nei confronti del debitore cedente.
Il cessionario con il subentro conserverà la possibilità di fare valere tutte le eccezioni che trovino fondamento nel precedente rapporto con l’esclusione di eccezioni di natura personale. Il punto delicato è rappresentato dalla eventuale elusione di talune garanzie che il lavoratore si vedrebbe mancare in quanto parte più debole, nel senso che potrebbe aderire volontariamente alla cessione temendo come soluzione alternativa il licenziamento e quindi la perdita del posto di lavoro.
Cessione del contratto di lavoro senza consenso: la cessione del ramo d’azienda
Nel rapporto obbligatorio il debitore è, di regola, indifferente al mutamento della persona del creditore, mentre il cambiamento della persona del debitore può ledere l’interesse del creditore. In base a questo principio – espresso nell’art. 2740 c.c., art. 1268 c.c., comma 1, art. 1273 c.c., comma 1, e art. 1406 c.c. – la giurisprudenza dominante (Cass. 9 maggio 2014, n. 10128) considera inefficace la cessione del contratto di lavoro qualora il lavoratore, titolare di crediti verso il datore, non abbia prestato il consenso di cui all’art. 1406 cit.
Costituisce eccezione al detto principio quanto previsto dall’art. 2112 c.c., che permette all’imprenditore il trasferimento dell’azienda, con successione del cessionario negli obblighi del cedente senza necessità di consenso del lavoratore, e non si applica se non sia identificabile, quale oggetto del trasferimento, un’azienda o un suo ramo, da intendere come entità economica
organizzata in maniera stabile e con idoneità alla produzione e allo scambio di beni o di servizi.
Il fine perseguito dalle norme comunitarie in merito (Dirr. CE nn. 98/50 e 2001/23) ed interne (art. 2112 c.c., comma 5), come più volte affermato dalla giurisprudenza (Cass., 6 febbraio 2013, n. 2766), in linea con la prevalente dottrina formatasi sul punto, è quello di evitare che il trasferimento si trasformi in semplice strumento di sostituzione del datore di lavoro, in una pluralità di rapporti individuali, compromettendo le tutele nei confronti dei lavoratori interessati.
La citata direttiva comunitaria richiede, pertanto, che il ramo d’azienda oggetto del trasferimento costituisca un’entità economica con propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati per un’attività economica, essenziale o accessoria, e, analogamente, l’art. 2112 x.x., xxxxx 0, xx riferisce alla parte d’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata. Deve, quindi, trattarsi di un’entità economica organizzata in modo stabile e non destinata all’esecuzione di una sola opera (Corte di Giustizia CE, Sent. 24 gennaio 2002, C-51/00), ovvero di un’organizzazione quale legame funzionale che renda le attività dei lavoratori interagenti e capaci di tradursi in beni o servizi determinati (Cass. 8 giugno 2009, n. 13171).
Ne consegue che ai fini dell’integrazione del concetto di preesistenza l’entità economica deve ritenersi necessariamente riferito ad una articolazione funzionalmente autonoma dell’azienda, posto che qualunque lavorazione aziendale, per poter essere ceduta, non potrebbe che preesistere al negozio traslativo, essendone il necessario oggetto contrattuale.
La giurisprudenza (Cass. 5 marzo 2008, n. 5932) tende a distinguere l’ipotesi della cessione di ramo di azienda dalla della mera esternalizzazione di servizi giacché nella prima si realizza la successione legale nel rapporto di lavoro del cessionario senza bisogno del consenso dei contraenti ceduti, mentre nel caso ricorre la fattispecie della cessione dei contratti di lavoro, si richiede per il suo perfezionamento il consenso dei lavoratori ceduti.
La Corte di giustizia europea (Sent. UE 6 marzo 2014, n. C- 458/12) ha confermato quanto detto. Da essa risulta infatti che:
● non si ha trasferimento di ramo d’azienda qualora il ramo non preesista alla cessione;
● in tal caso spetta all’ordinamento nazionale di garantire il lavoratore.
Differenze tra il trasferimento di azienda e la cessione del contratto individuale di lavoro subordinato
Due concetti vanno tenuti distinti in tema di vicende modificative del contratto di lavoro: l’autonomia funzionale del ramo ceduto e la sua consistenza, posto che il tema dell’articolazione funzionalmente autonoma individua un concetto di natura organizzativa, cioè delle esistenze di una organizzazione dotata della idoneità a svolgere un determinato servizio ovvero a produrre un determinato bene.
Ciò premesso, la cessione di contratto di lavoro ha come finalità giuridica la prosecuzione del rapporto senza alcuna soluzione di continuità, il che comporta oltre che il mantenimento dei trattamenti retributivi e della anzianità di servizio maturata anche la conferma di diritto dei trattamenti normativi in essere al momento della cessione.
Sotto il profilo della consistenza dell’azienda, l’art. 2555 c.c. definisce quest’ultima come il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa e la sua nozione codicistica rivela come l’azienda assurga a bene giuridico qualificato nella misura in cui può rappresentare uno strumento atto a permettere l’attività dell’imprenditore, o più precisamente l’attività d’impresa.
Azienda ed impresa hanno quindi significati giuridicamente vicini: la prima è un complesso di beni organizzati, mentre la seconda si può ricavare indirettamente dall’art. 2082 c.c. e può essere rappresentata come una entità economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o di servizi.
Nella nozione di azienda il concetto dell’organizzazione ha un ruolo centrale; essa invero, rappresenta il collegamento tra i fattori di produzione, definito dall’imprenditore al fine di esercire l’impresa. Il bene il cui utilizzo è finalizzato all’attività d’impresa, indipendentemente dal fatto che esso sia di proprietà o meno dell’imprenditore, è definito bene aziendale.
La giurisprudenza e la dottrina prevalenti considerano bene aziendale ogni elemento patrimoniale facente capo all’imprenditore nell’esercizio della propria attività, e più in generale tutto ciò che può costituire oggetto di tutela giuridica. In tale accezione rientrano nell’organizzazione aziendale anche i rapporti contrattuali stipulati per l’esercizio dell’impresa, i crediti verso la clientela ed i debiti verso i fornitori, l’avviamento ed i rapporti di lavoro con il personale (Xxxx. 15 aprile 2014, n. 8756).
In tema di trasferimento d’azienda l’art. 2112 c.c. dispone una disciplina speciale a favore dei lavoratori.
Quando, in conseguenza di una vicenda traslativa (vendita, affitto, comodato, usufrutto), muta il titolare del complesso dei beni aziendali, l’ordinamento appresta una particolare tutela a beneficio dei lavoratori subordinati con una disciplina speciale che, in deroga alle disposizioni del capo I, Titolo VIII c.c., si applica ai rapporti contrattuali tra l’azienda ed i propri dipendenti ed ai crediti originati da tali rapporti contrattuali.
Tale tutela si estrinseca fondamentalmente nel garantire al lavoratore alcuni presupposti: la continuità del rapporto di lavoro alle dipendenze del cessionario, rafforzando (con la previsione della responsabilità solidale del cedente e del cessionario) e la tutela dei crediti che il lavoratore aveva al momento del trasferimento dell’azienda.
In particolare, alla luce dell’art. 2112 c.c. – come novellato dall’art. 32 del D.Lgs. n. 276/2003 e come affermato dalla unanime giurisprudenza (ex plurimis, Cass. n. 8756/2014) – per trasferimento di azienda si intende qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione comporti il mutamento della titolarità di una attività economica organizzata, con o senza fini di lucro, preesistente al trasferimento e che con il trasferimento stesso conserva la sua identità.
Elementi costitutivi della fattispecie sono pertanto il mutamento della titolarità del complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’attività economica e l’identificazione di un’attività economico produttiva, che deve sussistere, prima della cessione, l’idoneità funzionale alla produzione di beni e servizi.
La sostituzione del soggetto titolare dei beni destinati all’esercizio dell’impresa può essere
conseguita attraverso le più diverse fattispecie traslative (vendita, affitto, usufrutto, comodato) anche qualora essa si realizzi attraverso una pluralità composita di negozi.
Non rappresenterebbe invece trasferimento d’azienda, l’ipotesi della cessione del pacchetto azionario, in quanto non comporta un passaggio nella titolarità dell’impresa, né incide sull’autonoma soggettività giuridica delle società interessate, ed i rapporti di lavoro continuano ad avere corso e ad imputarsi alle singole aziende (Corte App. Milano, 9 luglio 2004).
Al riguardo, va ricordato che l’art. 2112 c.c. trova applicazione non solo quando oggetto del trasferimento è l’intero complesso dei beni aziendali, ma anche quando il trasferimento riguarda un singolo ramo di azienda (purché vi sia un passaggio di beni di non trascurabile entità, ossia tale da consentire lo svolgimento di una specifica impresa).
Al riguardo, il concetto di ramo d’azienda è contenuto nella medesima norma, la quale definisce lo stesso come un’articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento.
Il ramo d’azienda in quanto articolazione dotata di autonomia funzionale deve essere identificato come tale dal cedente e dal cessionario all’atto di procedere al suo trasferimento. In altre parole, l’accertamento del trasferimento non può prescindere dall’analisi della volontà del cedente e del cessionario e cioè se le parti abbiano voluto operare il trasferimento della titolarità dei beni aziendali considerati nel loro collegamento funzionale, oppure se abbiano più semplicemente inteso trasferire la titolarità di singoli beni considerati nella loro individualità. Inoltre, si ritiene che il requisito dell’autonomia funzionale debba preesistere: il ramo d’azienda non può quindi essere creato solo in occasione della cessione, in quanto ciò consentirebbe di estromettere dall’impresa i lavoratori eccedenti, senza rispettare per questi ultimi le garanzie previste dal rapporto di lavoro in corso.
Le conseguenze sui rapporti di lavoro
In caso di trasferimento di azienda il rapporto di lavoro prosegue senza soluzione di continuità con il cessionario. Il trasferimento d’azienda può quindi configurarsi some successione legale nel contratto. Pertanto, differentemente da quanto accadrebbe in caso di cessione del contratto, gli effetti del passaggio si producono automaticamente, senza necessità di consenso da parte del lavoratore; automatismo che opera a condizione che il rapporto di lavoro, all’atto del trasferimento, sia in corso con il cedente.
Non vi sarà pertanto prosecuzione automatica per i rapporti di lavoro che alla data del trasferimento siano già terminati, ovvero legittimamente risolti.
Oltre alla continuità occupazionale, la legge protegge la posizione dal lavoratore, che conserva tutti i diritti derivanti dal pregresso rapporto di lavoro alle dipendenze del cedente e non soltanto quelli derivanti dall’anzianità.
In tal modo l’ordinamento vuole impedire che attraverso una fittizia e fraudolenta risoluzione del rapporto seguita dalla riassunzione alle dipendenze del cessionario possa violarsi il diritto alla infrazionabilità della anzianità, con conseguenze negative non solo sul piano del trattamento di fine rapporto, ma anche sulla determinazione della anzianità necessaria per l’accesso agli ammortizzatori
sociali in caso di crisi aziendale.
Il lavoratore può impedire l’automatica prosecuzione del rapporto di lavoro alle dipendenze del cessionario, rassegnando le dimissioni.
Il trasferimento non opererà per quel lavoratore che, nonostante la cessione, continua a prestare la propria attività lavorativa in favore dell’imprenditore cedente senza passare di fatto al servizio del cessionario.
Riguardo i contratti collettivi, il cessionario è tenuto ad applicare fino alla scadenza ai lavoratori il trattamento economico e normativo previsto dai contratti collettivi di lavoro, nazionali, territoriali ed aziendali vigenti all’atto del trasferimento.
Tale previsione è finalizzata a tutelare i lavoratori garantendo loro la protezione offerta dalla contrattazione collettiva che regolava il loro rapporto presso l’azienda ceduta, soprattutto nel caso in cui la cessionaria non applichi alcun contratto collettivo.
Gli accordi in essere possono però essere sostituiti da altri contratti collettivi applicati dal cessionario, a condizione che i contratti collettivi siano di pari livello, che non implica la garanzia di eguali condizioni, potendo accadere che vi sia un peggioramento determinato dalla sostituzione (Cass. 4 aprile 1997, n. 2955). Tale peggioramento non può però pregiudicare i diritti acquisiti dal lavoratore nel corso della precedente contrattazione.
In occasione del trasferimento d’azienda con oltre 15 dipendenti è necessaria l’attivazione di una procedura di consultazione sindacale
Al riguardo, ai sensi della art. 47, legge n. 428/1990, come modificata dall’art. 1, D.Lgs. n. 18/2001, è prevista una speciale procedura di informazione e consultazione con i sindacati.
Il cedente e il cessionario debbono infatti comunicare il trasferimento alle rappresentanze sindacali aziendali (RSA) ovvero alle rappresentanze sindacali unitarie (RSU) delle unità produttive interessate ed ai sindacati di categoria che hanno stipulato il contratto collettivo applicato alle imprese oggetto dell’operazione almeno venticinque giorni prima che si perfezioni l’atto di cessione o l’obbligo di procedere alla cessione.
Tale obbligo sussiste anche quando la decisione del trasferimento sia stata assunta da altra impresa controllante il cedente.
La comunicazione, effettuata direttamente dalle imprese interessate alla cessione ovvero per il tramite della associazione sindacale cui le predette imprese aderiscano od alla quale abbiano conferito mandato, deve contenere:
● la data effettiva del trasferimento ovvero la data proposta per il trasferimento;
● i motivi del programmato trasferimento;
● le conseguenze giuridiche, economiche e sociali che il trasferimento produrrà sui lavoratori;
● le eventuali misure previste in favore dei lavoratori stessi.
A fronte dell’informazione suddetta, le organizzazioni sindacali possono chiedere entro i sette giorni
successivi al cedente ed al cessionario di attivare un esame congiunto, che dovrà essere avviato entro il settimo giorno successivo al ricevimento della richiesta. Decorsi dieci giorni dall’inizio della fase di esame congiunto, anche in assenza di accordo, la procedura di consultazione si intenderà in ogni caso esperita.
Il mancato espletamento della procedura, pur non inficiando la validità dell’atto e quindi il trasferimento, costituisce condotta datoriale qualificabile come antisindacale ai sensi dell’art. 28, legge n. 300/1970.
Lo scopo della procedura è quello di consentire al sindacato di conoscere la capacità di gestione del cessionario e le sue intenzioni con riferimento ai piani di investimento, ai programmi produttivi, ai livelli occupazionali e alle condizioni di lavoro assicurate ai dipendenti. Sono escluse dall’obbligo di informativa le vicende di carattere economico-finanziario, in quanto integranti il diritto di iniziativa privata propria del datore di lavoro e la tutela in materia di concorrenza.
Forma
Il nostro ordinamento non prescrive nessuna indicazione relativamente alla forma della cessione del contratto, tuttavia per la dottrina maggioritaria dovrebbe applicarsi il principio generale di simmetria dei negozi accessori.
Questa regola della simmetria dovrebbe valere anche quando il contratto base non richiede per legge la forma scritta ma le parti lo abbiano stipulato in tale forma. La stessa regola varrà poi per l’accettazione del ceduto.
La giurisprudenza dal suo canto afferma invece costantemente che l’accettazione può anche essere tacita, anche se ciò, secondo taluni autori, entra in contraddizione con la teoria del contratto plurilaterale, o perlomeno si introduce una deroga al sistema difficilmente giustificabile. Infatti, se è vero che la cessione è un contratto unitario, allora identica deve essere la forma con cui le varie manifestazioni di volontà devono essere manifestate.
La cessione, invece, dovrà rivestire la forma pubblica anche quando il contratto base sia a forma libera solo quando integri gli estremi di una donazione.
Da notare che l’art. 1407 c.c. parla di forma ma in realtà nel primo comma si fa cenno solo al problema della notifica della cessione e dell’accettazione del ceduto (senza peraltro precisare in quale forma devono essere effettuati entrambi gli atti) e nel secondo comma si dice che quando il contenuto del contratto base è inserito in un documento all’ordine la girata del documento produce gli effetti della cessione.
Cessione del contratto nella P.A.
In tema di mobilità del personale delle PP.AA., l’art. 30, comma 1, del D.Lgs. n. 165/2001, nella sua formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla legge n. 246/2005, designava la mobilità con la formula atecnica di passaggio diretto. Da qui il dubbio che questa comportasse una cesura nella continuità del rapporto di lavoro o comunque l’estinzione del contratto di lavoro con l’Amministrazione di provenienza e la contemporanea stipulazione di uno nuovo con quella di
destinazione, similmente a come avveniva, nel settore privato, nel contesto della disciplina del collocamento pubblico, dove il passaggio diretto consisteva nell’estinzione consensuale e nella contemporanea costituzione di un nuovo rapporto di lavoro con un altro datore di lavoro.
L’art. 16, 1º comma, lett. a), legge n. 246/2005 sostituì la formula passaggio diretto con quella più tecnica di cessione di contratto, il che valse a troncare in radice ogni discussione.
Successivamente, la novella introdotta dall’art. 4, legge n. 114/2014 ha riesumato l’antica definizione di passaggio diretto, della quale peraltro è sempre rimasta traccia nella rubrica dell’art. 30, D.Lgs. n. 165/2001, oltre che in altri articoli del medesimo decreto legislativo, (es. art. 33, 6º comma). Ma l’ancoraggio al modello di cui all’art. 1406 e ss. c.c. non dovrebbe essere rimesso in discussione. Esso ha base, più che nella definizione legislativa della mobilità, nella disciplina positiva dei suoi effetti essenziali, i quali ricalcano pur sempre quelli tipici della cessione del contratto, come si argomenta bene sulla base del disposto dell’art. 34-bis, 2º comma, ultimo periodo, D.Lgs. n. 165/2001, ove la proposizione che il rapporto giuridico instaurato con l’Amministrazione cedente conserva la sua fonte e la sua identità, continuando senza soluzione con quella cessionaria. Tale conclusione è confermata dal contenuto precettivo dell’art. 55-bis, 8º comma, D.Lgs. n. 165/2001, il quale dispone che in caso di trasferimento del dipendente, a qualunque titolo, in un’altra Amministrazione pubblica, il procedimento disciplinare è avviato o concluso e la sanzione è applicata presso quest’ultima. Il dubbio che la mobilità comporti una cesura nella continuità del rapporto di lavoro e una rinnovazione della sua fonte non dovrebbe, pertanto, riproporsi.
Al riguardo, giova far rilevare che la giurisprudenza ha sempre affermato che il passaggio diretto da un’Amministrazione all’altra da parte di un lavoratore integra la fattispecie civilistica della cessione del contratto, non determinando dunque la costituzione di un nuovo rapporto di pubblico impiego o una nuova assunzione ma la sola modificazione soggettiva del rapporto di lavoro già in atto (C.d.S., sez. III, 28 novembre 2014, n. 5903).
A sgombrare il campo da ogni eventuale dubbio, le Sezioni Unite della Corte di cassazione, con la Sent. n. 26420 del 12 dicembre 2006, confermata nella Sent. Cass. SS.UU. n. 24724 del 2014, hanno chiarito che la mobilità volontaria nell’ambito del pubblico impiego, prevista dal D.Lgs. n. 165/2001, integra una modificazione soggettiva del rapporto di lavoro, con il consenso di tutte le parti, e quindi una cessione del contratto, ammissibile anche per il contratto di lavoro, istituto che comporta il trasferimento soggettivo del complesso unitario di diritti ed obblighi derivanti dal contratto, lasciando immutati gli elementi oggettivi essenziali. Tale qualificazione – hanno osservato le S.U. – riceve conforto dalla L. 28 novembre 2005, n. 246, art. 16, il quale, nel modificare il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 30, pur mantenendo la rubrica di "passaggio diretto", nel testo della norma parla testualmente di "cessione del contratto", così offrendo un elemento per la interpretazione dell’espressione atecnica "passaggio diretto" anche per il passato.
Da tale principio discendono diverse conseguenze e, in particolare:
● il dipendente ha diritto a mantenere l’anzianità ed il trattamento economico goduto presso l’Amministrazione di appartenenza;
● il trattamento economico acquisito dal lavoratore deve essere determinato considerando tutti i compensi fissi e continuativi erogati quali corrispettivi della mansioni svolte ed attinenti, logicamente, alla professionalità tipica della qualifica rivestita. Non rientrano, quindi, nel computo
le voci retributive erogate una tantum e simili;
● il trattamento economico goduto nell’Amministrazione di provenienza viene mantenuto nei limiti della regola del riassorbimento in occasione di miglioramenti di inquadramento e di trattamento economico riconosciuti dalle normative applicabili per effetto del trasferimento;
● la predetta regola dell’assorbibilità discende dal divieto di reformatio in pejus, che giustifica la conservazione del trattamento più favorevole, attraverso l’attribuzione dell’assegno ad personam, solo sino a quando non subentri, per i dipendenti dell’Amministrazione di destinazione, un miglioramento retributivo (se così non fosse, il divario retributivo tra i dipendenti sarebbe ingiustificato).
In aggiunta alle elencate conseguenze, nel caso di specie, è vi è l’ulteriore effetto per cui, secondo quanto di norma previsto dai contratti collettivi, la retribuzione professionale costituisce un compenso fisso e continuativo per sua propria natura, in quanto è sempre corrisposto in misura non variabile, per dodici mensilità. Ne consegue, dunque, che tra gli emolumenti fissi e continuativi vada incluso anche l’assegno personale laddove in godimento.
Pertanto, secondo la giurisprudenza, nel passaggio da un’Amministrazione all’altra deve essere mantenuta l’anzianità maturata presso l’Amministrazione di provenienza, così come deve essere mantenuto il trattamento economico già goduto, compresa l’inclusione dell’assegno ad personam, vigendo comunque la regola dell’assorbibilità dell’assegno personale in caso di miglioramenti retributivi destinati ai dipendenti dell’Amministrazione di destinazione.
NOTE
(1) Messineo, Il contratto in genere, t.2, in Tratt.dir.civ. e comm., diretto da Cicu-Messineo, Milano, 1972.
(2) Carresi, La cessione del contratto, Milano, 1950.