capitolo X
capitolo X
I CONTRATTI DI LAVORO SUBORDINATO
Sommario: 1. Dal contratto di lavoro unico alla pluralità dei tipi. – 2. Il contratto a tempo determinato. – 2.1. Le ragioni giustificatrici per l’apposizione del termine sino al D.Lgs. n. 81/2015. – 2.1.1. L’apposizione del termine nel D. Lgs. n. 81/2015 (Jobs Act). – 2.2. La nuova disciplina del contratto a tempo determinato dopo il D.L. n. 87/2018 convertito in legge n. 96/2018 (c.d. Decreto Dignità). – 2.2.1. I contratti a termine nelle start up innovative. – 2.3. Il regime delle impugnazioni e gli strumenti di tutela. – 2.4. La contribuzione aggiuntiva nel contratto a tempo determinato. – 3. I rapporti di lavoro con orario flessibile. – 3.1. Il lavoro a tempo parziale. – 3.2. Il lavoro intermittente. – 4. I contratti con finalità formativa.
– 4.1. L’apprendistato: disciplina generale. – 4.1.1. Le tipologie di apprendistato. – 4.1.2. Le tipologie di apprendistato. – 4.4. I tirocini formativi. – 5. I rapporti interpositori. – 5.1. La somministrazione di lavoro. – 5.2. L’appalto e il distacco. – 6. Le altre tipologie di lavoro subordinato. – 7. Il rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione. –
7.1. I profili di specialità del rapporto di lavoro pubblico. – 7.2. I contratti di lavoro con la pubblica amministrazione.
1. Dal contratto di lavoro unico alla pluralità dei tipi
L’ordinamento giuslavoristico si è configurato sin dagli albori della Rivolu- zione industriale intorno al tipo unico del lavoro subordinato a tempo inde- terminato, sul quale si è plasmato l’intero sistema dello statuto protettivo del prestatore di lavoro.
La struttura del rapporto di lavoro a tempo indeterminato si è con il tempo arricchita di una serie di tutele e di garanzie operanti durante lo svolgimento dello stesso e di un’elaborata disciplina dei licenziamenti, finalizzata a rendere quanto più possibile stabile il contratto ed impedire il recesso del datore di lavoro senza una comprovata motivazione. Si è passati, quindi, da un sistema del lavoro fondato su rapporti con natura temporanea a sistemi fortemente stabili e garantiti. In quest’ottica, il lavoro subordinato a tempo indeterminato si è proposto come il tipo unico e fondamentale nel diritto del lavoro.
Questa impostazione si è tradotta a livello legislativo nella previsione del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato come tipo legale or- dinario e preponderante, lasciando spazi limitatissimi alle tipologie di lavoro con durata predefinita.
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Solo più recentemente, le modifiche del sistema economico hanno mostra- to l’inadeguatezza del sistema codicistico e si sono sviluppate forme contrat- tuali di lavoro subordinato diversificate e più flessibili, rispetto al tipo legale, che sono state per lungo tempo classificate come eccezionali o atipiche, dive- nendo oggetto di legificazione solo in tempi più recenti.
Il moltiplicarsi delle tipologie lavorative subordinate permettono oggi di parlare non più di contratto di lavoro, ma di contratti di lavoro subor- dinato, stante la proliferazione dei tipi legali, che non ha favorito, invero, l’aumento dell’occupazione. Al contrario, il mancato sviluppo di sistemi di tutela adeguati per le nuove tipologie lavorative ha incrementato la con- tenziosità, volta ad ottenere la riqualificazione dei rapporti di lavoro e la riconduzione degli stessi all’interno del tipo legale del lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Alla luce delle varie riforme intervenute è oggi possibile elencare accanto al lavoro subordinato a tempo indeterminato una serie di tipologie differenti caratterizzate da elementi di flessibilità, o dalla specialità del datore di lavoro o dalla finalità formativa.
Si tratterà quindi del contratto a tempo determinato, della somministra- zione di lavoro, dei contratti con finalità formativa, del lavoro domestico, a domicilio e del lavoro pubblico, dei rapporti di lavoro con orario modulato (tempo parziale, intermittente, ripartito).
2. Il contratto a tempo determinato
Il contratto di lavoro a tempo determinato realizza un’esigenza di flessibi- lità nell’utilizzo della prestazione lavorativa, poiché l’apposizione del termine finale permette la cessazione del rapporto senza la necessità dell’intimazione del recesso (dies interpellat pro homine).
È pur vero, però, che l’esigenza di flessibilità deve essere bilanciata dalla tutela del prestatore di lavoro sia in termini di stabilità dell’occupazione, sia sotto il punto di vista dell’applicazione delle tutele al fine di evitare che l’ap- posizione del termine si trasformi in strumento di elusione del regime vincoli- stico del licenziamento. Infatti, per lungo tempo si è ritenuto – a ragione – che un’applicazione disinvolta del termine finale al contratto di lavoro, nonché la possibilità di stipulare rapporti a termine in successione senza limitazioni, avrebbe come diretta conseguenza la disapplicazione integrale della disciplina in tema di licenziamento e delle relative tutele.
In quest’ottica, il legislatore, nel corso dei decenni, ha sempre dovuto con- temperare le opposte esigenze dei datori di lavoro e dei lavoratori elabo- rando una disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato che, di conseguenza, si è fortemente stratificata, ma anche arricchita di contraddizioni e di difficoltà interpretative. E quanto sia complesso rinvenire una soluzione equilibrata o soddisfacente lo dimostrano i continui interventi del legislatore
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in tema di contratto a termine, di ragioni giustificatrici, di proroga e di succes- sione di contratti.
Di conseguenza, le condizioni per l’apposizione del termine ad un contrat- to di lavoro subordinato sono state oggetto di diversi interventi legislativi e di molteplici cambi di impostazione. Solo per rimanere all’ultimo triennio, il Le- gislatore, da una parte, con il D.L. n. 34/2014 convertito in legge n. 78/2014
– e successivamente assorbito con alcune modifiche dal D.Lgs. n. 81/2015 – ha eliminato la giustificazione dell’apposizione del termine creando un contratto di natura integralmente acausale, dall’altra con il D.L. n. 87/2018 converti- to in Legge n. 96/2018 ha nuovamente previsto la causale giustificativa per l’apposizione del termine, limitando la durata complessiva del contratto e il numero delle proroghe.
2.1. Le ragioni giustificatrici per l’apposizione del termine fino al D.Lgs. n. 81/2015
Originariamente il Codice civile all’art. 2097 prevedeva che l’apposizione del termine al contratto di lavoro dovesse essere giustificata dalla specialità del rapporto, purché il termine non divenisse uno strumento per l’elusione delle tutele riconosciute al rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Il legislatore del 1942, quindi, pur non fornendo un’indicazione tassativa delle ipotesi di apposizione del termine al contratto, poneva il doppio requi- sito della eccezionalità – prendendo di fatto posizione sulla preferenza per il rapporto a tempo indeterminato – e sul principio della non fraudolenza del contratto a termine che non doveva essere finalizzato all’elusione delle tutele previste per il lavoratore a tempo indeterminato.
Successivamente nel 1962, ad opera della legge n. 230, fu soppresso l’art. 2097 c.c. e il sistema venne profondamente modificato, passando da un ve- lato sfavore nei confronti del contratto a tempo determinato ad una vera e propria avversione. Furono così previste ipotesi tipiche e tassative che legitti- mavano la stipulazione del contratto a termine, trasformando la fattispecie in una tipologia del tutto eccezionale e per certi versi assolutamente marginale.
La legge n. 230/1962 prevedeva quindi delle causali ben definite. Si andava dall’as- sunzione a tempo determinato in caso di intensificazione dell’attività lavorativa (c.d. punte stagionali) ai casi di scritture dello spettacolo, o per alcune lavorazioni inerenti ai programmi radiotelevisivi, ovvero ancora ai rapporti di lavoro nel tra- sporto aereo e aeroportuale. Fuori da queste ipotesi il contratto di lavoro subordi- nato non poteva che essere a tempo indeterminato.
Un fondamentale intervento si ebbe nel 1987, quando con la legge n. 56 si elaborò forse l’unica vera liberalizzazione dell’istituto, conferendo al contrat-
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to collettivo la possibilità di individuare tutte le ipotesi nelle quali si potesse procedere, in ciascun settore, alla stipulazione del contratto a tempo determi- nato. Il contratto collettivo ricevette, di fatto, una delega in bianco da parte del legislatore per l’indicazione delle causali e delle motivazioni legittimanti la stipulazione del contratto con durata predeterminata, al di fuori delle causali legali.
Il sistema così elaborato fu totalmente trasformato nel 2001, con l’obietti- vo di aumentarne ulteriormente gli spazi di applicazione, quando, in attuazio- ne della direttiva comunitaria 28 giugno 1999 n. 99/70, il legislatore approvò il D. Lgs. n. 368, il quale sancì che si potesse procedere alla stipulazione del contratto a tempo determinato qualora ricorressero le ragioni giustificatrici “(…) di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se ri- feribili alla ordinaria attività del datore di lavoro (…)” di cui all’art. 1 comma
1. Con la nuova disciplina, insomma, il legislatore aveva inteso perseguire una vera e propria liberalizzazione dell’istituto del contratto a termine rispetto al regime vincolistico previgente.
Nonostante il profondo cambio di impostazione nella disciplina del rappor- to di lavoro a termine, effettuata con il passaggio dal sistema della tassatività al sistema delle causali tipiche, non si è realizzata quell’effettiva liberalizzazio- ne dell’istituto che il legislatore si proponeva, a causa proprio dell’astrattezza e genericità delle ragioni giustificatrici, l’applicazione delle quali ha richiesto un forte lavoro interpretativo della giurisprudenza.
D’altro canto, lo stesso atteggiamento del legislatore è sempre stato ondi- vago sulla questione dell’ampiezza dell’applicazione del contratto a termine, atteso che, da una parte, si è voluti uscire dal sistema della tassatività, ma dall’altra si è sempre guardato con diffidenza se non addirittura con sfavore il tipo contrattuale e la sua diffusione.
Ciò nonostante con la legge n. 92/2012 – la c.d “riforma Fornero” – si è effettuato un nuovo intervento sul testo dell’art. 1 del D. Lgs n. 368/2001 nel dichiarato fine di garantire maggiore stabilità del lavoro e di contrastare le forme precarie di occupazione, anche se, in effetti, l’esito delle modifiche apportate si sono, di fatto, dirette in una direzione opposta.
Con il primo intervento di modifica il comma 01 dell’art. 1 del decreto
n. 368 veniva stato sostituito dalla nuova stesura secondo la quale il contratto di lavoro a tempo indeterminato è “(…) la forma comune di rapporto di la- voro (…)”. Il legislatore ha espresso in modo altisonante il principio di favore per il contratto di durata indeterminata, ribadendo e rafforzando quanto già sancito dal precedente intervento operato dalla legge n. 247/2007 con l’in- troduzione del detto comma.
Il detto principio, però, veniva immediatamente contraddetto dalla pre- visione del comma 1-bis dell’art. 1 con il quale si stabiliva, di fatto, l’amplia- mento delle causali per l’apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato.
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La legge del 2012, infatti, pur confermando le ragioni giustificatrici del comma 1 – e sulle quali si è formata nell’ultimo decennio una copiosa giuri- sprudenza di merito e di legittimità – con il citato comma 1-bis stabiliva che, in via eccezionale, fosse possibile in due ipotesi tassative procedere alla stipulazione di un contratto a tempo determinato senza l’indicazione delle ragioni giustificatrici. Ciò poteva avvenire per il primo contratto a tempo determinato intervenuto tra le parti per il quale si poteva omettere l’indi- cazione della causale giustificatrice di cui al comma 1, per qualunque tipo di mansione e per una durata non superiore a dodici mesi, non suscettibile di proroga ai sensi del comma 2-bis dell’art. 4 del D. Lgs. n. 368/2001 introdotto dalla medesima novella. All’esito della scadenza del detto termine, il datore di lavoro poteva decidere di interrompere il rapporto di lavoro, ovvero di proseguirlo indicando specificamente la ragione giustificatrice di cui al comma
1. La circolare n. 18/2012 del Ministero del lavoro si premurava di specificare che tra le medesime parti poteva intervenire un unico contratto “acausale” anche se la sua durata fosse stata inferiore ai dodici mesi. Fuori dall’indicata ipotesi, il legislatore conferiva ai contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazio- nale la possibilità di prevedere che l’assunzione a tempo determinato po- tesse avvenire fuori dalle ragioni giustificatrici di cui al comma 1 dell’art. 1, purché le assunzioni avvenissero nell’ambito di un processo organizzativo determinato dall’avvio di una nuova attività, dal lancio di un prodotto o di un servizio innovativo, dall’implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico, dalla fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo, dal rinnovo o dalla proroga di una commessa consistente nei limiti però del sei per cento del totale dei lavoratori occupati nell’unità produttiva. La previsione della legge n. 92/2012 ha rappresentato la più importante e dirompente innovazione nell’ambito dell’ordinamento giuslavoristico, poiché non si era mai giunti a prevedere la possibilità di stipulare un contratto di la- voro a termine in forma assolutamente acausale, essendosi il legislatore sin dal
principio posto il problema di giustificare l’apposizione del termine.
Con l’art. 7 comma 1 della legge n. 99/2013 (c.d. Pacchetto Xxxxxxxxxx) il legislatore è intervenuto nuovamente sulle due ipotesi di contratto acausale di cui al comma 1-bis del del D.lgs. n. 368/2001, modificandone ulteriormente il contenuto ed ampliando le ipotesi di ricorso al contratto a tempo determina- to senza indicazione delle causali giustificative. La prima modifica ha previsto la possibilità di stipulare un contratto a tempo determinato acausale per un periodo non superiore a dodici mesi, ma fornendo la possibilità di proroga- re, nell’ambito della medesima durata, il contratto stipulato per una durata inferiore (possibilità negata nella vigenza della previgente disciplina alla luce del fatto che il contratto acausale venisse inteso come strumento di sperimen- tazione delle capacità e delle competenze e come tale non fosse suscettibile di prolungamento).
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Peraltro, proprio in quest’ottica il legislatore sopprimeva il comma 2bis dell’art. 4 del D. Lgs. n. 368/2001 che vietava la proroga del contratto stipu- lato ai sensi della lettera a) del comma 1-bis.
Parimenti innovativa era la previsione della lettera b) del nuovo comma 1bis dell’art. 1 del D. Lgs. n. 368/2001, che prevedeva una delega piena, senza il limite delle causali organizzative, alla contrattazione collettiva sia di livello nazionale sia di livello aziendale stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, ossia quella che è stata chiamata “acausalità contrattata”.
L’art. 1 del D. Lgs. n. 368/2001 e specificamente i commi 1 e 1-bis sono stati oggetto di un ulteriore intervento modificativo ad opera del D.L. n. 34/2014 convertito con modifiche in legge n. 78/2014 (c.d. Xxxxxxxxx Xxxxxxx) con il quale si è dato un taglio netto alla questione della giustificazione dell’apposi- zione del termine al rapporto di lavoro, optando per un sistema totalmente acausale ed abrogando integralmente sia il comma 1 relativo alle causali giu- stificative del contratto a termine, sia del comma 1-bis relativo alle ipotesi c.d. acausali.
Il nuovo comma 1 stabiliva, pertanto, che “(…) è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe, concluso fra un datore di lavoro o utilizzatore e un lavoratore per lo svolgimento di qualun- que tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato ai sensi del comma 4 dell’articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (…)”.
Prescindendo dalla chiarezza linguistica della formula del comma 1, la nor- ma sanciva la definitiva cancellazione della causale giustificatrice dell’apposi- zione del termine, stabilendo per la prima volta nella storia del nostro ordina- mento giuridico, la possibilità di stipulare un contratto a tempo determinato senza alcuna giustificazione ed anche per esigenze ordinarie e non tempora- nee. L’unico limite posto dalla novella del 2014 era la durata del contratto che non poteva eccedere il periodo di trentasei mesi comprensivo delle eventuali proroghe e il numero dei rapporti di lavoro stipulabili all’interno della me- desima azienda che non poteva superare – fatto salvo il disposto dell’art. 10 comma 7 del D. Lgs. n. 368/2001 – la percentuale del 20 per cento del nu- mero dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato ed in forza all’azienda alla data dell’1 gennaio dell’anno di assunzione. Solo per i datori di lavoro con meno di cinque dipendenti era prevista la possibilità di stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato. Nell’ipotesi di superamento della detta percentuale, il datore di lavoro incorreva in una sanzione amministrati- va, come previsto dall’art. 5 comma 4-septies.
È pur vero che la previsione legislativa iperliberale si poneva come una reazione al sistema incerto delle causali dell’art. 1 co. 1 che – come detto –
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hanno reso, nella loro genericità e suscettibilità di interpretazione giudiziale, insidioso il ricorso al contratto a tempo determinato, proprio per il pericolo della conversione giudiziale in rapporto a tempo indeterminato. Anche se il legislatore del 2012 e del 2013 si era mosso, più prudentemente, nella mede- sima direzione, la novella del 2014 disegna un sistema che difficilmente potrà essere in grado di favorire la diminuzione della precarietà o della instabilità occupazionale, potendo, in verità, le nuove regole favorire se non addirittu- ra incrementare forme di provvisorietà ed incertezza dell’occupazione. Ed è addirittura dubitabile che la nuova previsione possa incrementare il tasso di occupazione, atteso che lo stesso è influenzato non solo dagli strumenti con- trattuali o dalla loro mancanza di flessibilità, ma da una economia ferma ed incapace di crescere.
2.1.1. L’apposizione del termine nel D. Lgs. n. 81/2015 (Jobs Act)
L’art. 19 del D. Lgs. n. 81/2015 disciplina i casi di apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato.
E infatti, con una norma laconica e lapidaria, il comma 1 consente “(…) l’apposizione di un termine al contratto di lavoro subordinato, di durata non superiore ai trentasei mesi (…)”. Viene, quindi, ribadita la scelta della “acausa- lità piena” del contratto a tempo determinato, già introdotta con la legge n. 78/2014, fissando come unico limite la durata del contratto.
Il comma 2 dell’art. 19 si pone il problema del computo del termine massi- mo di trentasei mesi fissato dal precedente comma 1, stabilendo che il compu- to deve avvenire in relazione a tutti i rapporti di lavoro intercorsi tra il datore di lavoro e lo stesso lavoratore, anche per effetto di una successione di più contratti, indipendentemente dai periodi di interruzione per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale.
Affinché il limite di durata di 36 mesi non sia fraudolentemente aggirato dall’utilizzo dei sistemi di interposizione di manodopera, la norma dell’art. 19 comma 2 stabilisce che nel computo della durata complessiva dei rap- porti di lavoro a termine devono conteggiarsi anche i rapporti di lavoro a tempo determinato intervenuti con le agenzie di somministrazione di lavoro.
La durata massima fissata dall’art. 19 comma 1 può essere derogata (an- che se non è specificato se in aumento o in diminuzione) dalle disposizioni dei contratti collettivi anche aziendali stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e dalla stipula- zione di un ulteriore contratto a tempo determinato della durata massima di dodici mesi, innanzi alla Direzione territoriale del lavoro competente per territorio, pena la trasformazione del contratto in rapporto a tempo indeter- minato dalla data della stipula.
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2.2. La disciplina del contratto a tempo determinato dopo il D.L. n. 87/2018 convertito in legge n. 96/2018 (c.d. Decreto Dignità)
La legge n. 96/2018 – c.d. Decreto Dignità – interviene sulla disciplina del contratto a tempo determinato dettata dal D. Lgs. n. 81/2015 prevedendo – con un evidente ritorno al passato – l’obbligo di apposizione di una causale giustificativa del termine, ponendosi, in tal modo, in netta contrapposizione rispetto al precedente Legislatore che aveva privilegiato la flessibilità di utiliz- zo del contratto a tempo determinato ed aveva optato per una liberalizzazio- ne piena dell’istituto.
Ad esclusione di tale previsione, la novella interviene soltanto sul termine per l’impugnazione giudiziale del contratto a tempo determinato e sulla con- tribuzione aggiuntiva quale strumento di contrasto all’utilizzo indiscriminato del contratto a termine.
La novella legislativa trova, innanzi tutto, applicazione solo ai contratti a tempo determinato stipulati dopo l’entrata in vigore del decreto n. 87/2018
– ovvero a far data dal 14 luglio 2018 – e in ogni caso ai contratti già esistenti, ma prorogati o rinnovati successivamente alla data del 31 ottobre 2018. Non si applicano, invece, le nuove norme ai contratti a tempo determinato stipu- lati dalla Pubblica Amministrazione, per la quale continuerà ad applicarsi la disciplina legislativa previgente.
In primo luogo, la legge n. 96/2018 interviene sulla durata del contratto a tempo determinato stabilendo che non può essere apposto un termine ad un contratto di lavoro subordinato per una durata superiore a ventiquat- tro mesi, riducendo la previgente durata di trentasei mesi. Il datore di lavoro potrà, quindi, stipulare un singolo contratto a termine della durata massima di ventiquattro mesi, ovvero più contratti di lavoro a termine per lo svolgimento delle medesime mansioni o di mansioni equivalenti (stessa categoria e livello) per la durata complessiva di ventiquattro mesi, a prescindere dai periodi di interruzione tra un contratto e l’altro.
Il superamento della detta durata comporta la trasformazione del contrat- to in un normale rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data in cui il limite è stato superato.
In secondo luogo, la novella legislativa specifica che – a differenza del siste- ma previgente nel quale solo il contratto di lavoro a tempo determinato poteva essere stipulato in assenza di qualsiasi giustificazione ferma restando la durata mas- sima – il datore di lavoro potrà apporre il termine finale al contratto di lavoro subordinato senza alcuna giustificazione causale solo limitatamente ai primi dodici mesi di rapporto. E ciò, sia se venga stipulato un unico contratto di lavoro della durata di dodici mesi, sia che venga stipulato un contratto di durata inferiore successivamente prorogato entro gli indicati limiti, per mansioni equivalenti.
In tutti gli altri casi – stipulazione di un contratto di durata superiore ai dodici mesi, ovvero proroga di un contratto di lavoro di durata pari a dodici