CAPITOLO 2 - IL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO
CAPITOLO 2 - IL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO
Sommario
2.1. Subordinazione e autonomia nel rapporto di lavoro - 2.2. Il contratto di lavoro: volontà, forma, oggetto e causa - 2.3. Il contratto di lavoro: condizione e termine - 2.4. Il periodo di prova - 2.5. L'oggetto dell'obbligazione di lavoro: mansioni, qualifica e categorie - 2.6. Lo ius variandi: limiti - 2.7. Le categorie legali - 2.8. Poteri del datore di lavoro: direttivi, organizzativi, di controllo - 2.9. Obblighi del lavoratore: obbedienza, diligenza, fedeltà e non concorrenza - 2.10. Il patto di non concorrenza - 2.11. Il potere disciplinare - 2.12. Libri obbligatori di lavoro e dichiarazione di assunzione -
2.13. Obblighi in materia di privacy e trattamento dati
2.1. Subordinazione e autonomia nel rapporto di lavoro
Argomento centrale e, spesso, assai problematico dell'intero Ordinamento giuslavoristico è quello inerente la corretta qualificazione dei rapporti di lavoro. È evidente, infatti, che, in un sistema economico in costante evoluzione, l'orga- nizzazione del lavoro si arricchisce continuamente di nuove dinamiche produt- tive e di figure contrattuali dai contorni giuridici piuttosto sfumati, la cui natura è difficilmente classificabile all'interno delle due macro categorie - quella del la- voro subordinato e quella del lavoro autonomo - contemplate dall'Ordinamen- to. Non è sempre agevole, infatti, rinvenire, all'interno di un determinato rap- porto di lavoro, il carattere dell'autonomia ovvero della subordinazione e, tut- tavia, l'operazione è assolutamente imprescindibile per poter individuare il re- gime giuridico (recante in sé la regolamentazione economica, normativa, assi- curativa, fiscale, amministrativa e processuale) applicabile al singolo rapporto lavorativo per tutta la sua esistenza e, spesso, anche oltre.
Il punto di partenza dell'analisi non può che essere individuato nel principio, assolutamente pacifico e consolidato, in base al quale ogni attività umana, economicamente rilevante, può essere oggetto sia di un rapporto di lavoro subordinato che di un rapporto di lavoro autonomo, e che la natura della fatti- specie contrattuale deve essere apprezzata in concreto, con riferimento al caso singolo, astenendosi, per quanto possibile, da ogni tentativo di generalizzazione e avendo riferimento non solo alla specificità dell'incarico oggetto del contratto, ma anche, e soprattutto, alle modalità della sua attuazione. In buona sostanza, ciò che distingue - ai fini della disciplina giuridica applicabile - una tipologia di lavoratore dall'altra non va tanto ricercato nell'oggetto della prestazione, quanto
nella maniera in cui la stessa viene resa, non essendo sempre possibile ritenere la struttura dell'obbligazione di lavoro subordinato diversa da quella di lavoro autonomo.
2.1.1. Il lavoratore subordinato
Il nostro Ordinamento non fornisce la definizione del contratto, bensì quella del prestatore di lavoro subordinato, indicando come tale colui che "si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore" (art. 2094 c.c.). In questo lapidario precetto, frutto di un'elaborazione legislativa risalente al diritto romano, e ripetutamente oggetto di osservazione giurisprudenziale e dottrinale, sono contenuti tutti gli elementi che permettono di inquadrare il prestatore di lavoro all'interno della categoria giuridica cui realmente appartiene.
Il primo di tali elementi, peraltro comune a tutte le tipologie di lavoro, è quello dell'onerosità. Ogni rapporto di lavoro, infatti, trova la sua origine in un contratto oneroso a prestazioni corrispettive (o sinallagmatico), avente la pro- pria causa nello scambio fra prestazione e relativo compenso. Ne consegue che, ogni qualvolta ci si troverà in presenza di una prestazione di attività, resa nell'interesse di terzi ma senza la previsione di un corrispettivo (e, quindi, a tito- lo gratuito), tale prestazione non potrà in alcun modo essere definita come "la- voro", ma, più probabilmente, ci si troverà in presenza di altre fattispecie giuri- diche, come, ad esempio, quella del volontariato o della prestazione resa per motivi di affetto (c.d. affectionis vel benevolentiae causa), parimenti degne di tutela giuridica, ma certamente non rientranti nell'alveo del diritto del lavoro, se non per aspetti del tutto marginali.
Un secondo elemento è rinvenibile nell'ampio concetto della collaborazio- ne, il cui significato letterale ("lavorare insieme") rivela la volontà del Legislato- re del '42 di attenuare e superare ogni forma di conflitto di classe, avvicinando, almeno in senso ideale, gli interessi dei singoli contraenti sotto il comune scopo della produttività. Oggi, il concetto di collaborazione all'interno dell'impresa va inteso in senso lato, dovendosi identificare non solo con lo scopo, ovvero con il risultato tecnico-funzionale della prestazione, ma soprattutto con l'inserimento, o integrazione, più o meno stabile, del lavoratore all'interno dell'organizzazione produttiva o sociale facente capo al datore di lavoro. Giova sottolineare che tale inserimento non può e non deve essere inteso in senso necessariamente fisico o logistico, ma in senso molto più ampio, essendovi figure di lavoratori subordi- nati, ma anche di aziende (si pensi al mondo di internet), che esplicano la pro-
pria attività prescindendo dalla materiale e tradizionale organizzazione degli ambienti di lavoro. In definitiva, dunque, la collaborazione andrà intesa quale integrazione organica e idealmente continuativa del lavoratore all'interno del sistema produttivo o sociale diretto dal datore di lavoro.
Ma l'elemento fondamentale del contratto di lavoro subordinato, che lo di- stingue dal lavoro autonomo, consiste proprio nell'eterodeterminazione dell'attività lavorativa, essendo la prestazione resa «alle dipendenze e sotto la dire- zione dell'imprenditore». La subordinazione implica infatti l'esistenza di un vinco- lo gerarchico fra le parti, e la consequenziale soggezione del lavoratore al po- tere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, rinvenibile nell'emanazione di ordini specifici e nell'esercizio di una attività di vigilanza e controllo (più o meno marcata) sull'esecuzione delle prestazioni lavorative e sulla loro conformità alle direttive impartite.
Il rinvenimento di un potere di controllo, tuttavia, non va sopravvalutato, nel senso che l’esercizio di una certa vigilanza sul lavoratore non ne fa necessa- riamente un dipendente, essendo comunque compatibile anche con la supervi- sione sulla realizzazione in autonomia di una determinata opera (si veda, recen- temente, Cass. n. 8845/2011).
Il dato su cui piuttosto occorre concentrarsi, riguarda la posizione di supre- mazia gerarchica del datore di lavoro, che consente a quest'ultimo di stabilire non solo le caratteristiche dell'opera o del servizio da realizzare, ma anche, e soprattutto, di dettare le modalità con le quali la prestazione di lavoro deve es- sere fornita, avendo riguardo, ad esempio, agli strumenti e alle tecniche da uti- lizzare, ai tempi e ai luoghi di lavorazione e, in generale, al comportamento da osservare durante il lavoro. A tale potere di determinazione e controllo della prestazione, che naturalmente incontra i limiti imposti dall'Ordinamento e che risulta, in definitiva, l'elemento peculiare del contratto di lavoro subordinato per ciò che concerne la figura del datore di lavoro, corrisponde l'obbligo, da parte del lavoratore, di eseguire la prestazione con la diligenza richiesta dalla natura della stessa e dalle esigenze dell'impresa, ma, soprattutto, di «osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende» (art. 2104 c.c.). Tale nor- ma, nel rendere con assoluta efficacia il concetto di subordinazione, consente che il potere del datore di lavoro possa essere da questi trasferito gerarchica- mente verso il basso nella scala piramidale aziendale, senza con questo com- promettere o revocare in dubbio l'esistenza del vincolo di dipendenza ma, anzi, confermandola ulteriormente.
Infine, a completamento del quadro giuridico, occorre evidenziare l'elemen- to della soggezione del lavoratore al potere disciplinare del datore di lavoro (art. 2106 c.c.), da esercitarsi attraverso le procedure previste dall'Ordinamento. Il potere direttivo sarebbe, infatti, svuotato di ogni significato se il datore di la- voro, in caso di inosservanza delle disposizioni impartite, non potesse adottare particolari pene private, dette sanzioni disciplinari, da graduare in proporzione alla gravità dell'infrazione commessa. Naturalmente, per qualificare un deter- minato rapporto di lavoro come subordinato, non è necessario che l'esercizio del potere disciplinare venga effettivamente riscontrato attraverso la contesta- zione formale di infrazioni e la conseguente irrogazione di sanzioni (dato che il dipendente potrebbe avere sempre tenuto una condotta corretta), ma è necessa- rio che esso sia configurabile, almeno in via potenziale.
In definitiva, ogni qualvolta ci si troverà in presenza di un'attività persona- le, svolta a titolo oneroso nei confronti di un altro soggetto, verso il quale esiste un vincolo di dipendenza (caratterizzato dagli elementi sopra descritti), tale rapporto sarà da considerare lavoro subordinato: tale fattispecie è sempre ipo- tizzabile in astratto, tranne in un caso: quello dell'amministratore unico di società, che non può cumulare su di sé, evidentemente, la qualifica di datore di lavoro e di lavoratore subordinato (di sé stesso).
E’ interessante notare come il concetto di lavoratore subordinato delineato dal diritto italiano non si discosti essenzialmente dal concetto di “lavoratore” individuato dall’Ordinamento comunitario: sul punto, una recente sentenza della Corte di Giustizia Ue (procedimento C-232/09 dell’11 novembre 2010) ha affermato che la nozione di “lavoratore” non può essere interpretata in vario modo, con riferimento agli ordinamenti nazionali, ma deve essere definita in base a criteri obiettivi in relazione ai diritti e obblighi dei soggetti interessati. Per i Giudici di Lussemburgo, la caratteristica essenziale di un rapporto di lavo- ro è la circostanza che il soggetto fornisca, per un certo periodo di tempo, a fa- vore di un altro soggetto e sotto la direzione di quest’ultimo, determinate pre- stazioni, ricevendone in cambio una retribuzione. Di conseguenza, per stabilire se vi sia o meno un vincolo di subordinazione ai sensi della definizione comuni- taria di “lavoratore”, va fatta una verifica caso per caso, in funzione di tutti gli elementi e delle circostanze che caratterizzano i rapporti fra le parti.
2.1.2. Gli indici sussidiari della subordinazione
Nella dinamica dei rapporti di lavoro, purtroppo, non è sempre agevole rin- venire ovvero escludere l'esistenza del vincolo di subordinazione, poiché è evi-
dente che, in alcuni casi, l'oggetto o le modalità dell'attività prestata, ovvero la particolare professionalità o le qualità soggettive del lavoratore, sono tali da non consentire un'immediata ricostruzione giuridica della fattispecie.
Si pensi, ad esempio, ai rapporti di alto contenuto professionale e di elevata responsabilità, come possono essere quelli con i ruoli dirigenziali, cui sono connessi autonomi poteri decisionali e di spesa, ovvero, in senso diametralmen- te opposto, agli incarichi comprendenti mansioni di carattere talmente elemen- tare e ripetitivo che l’ingerenza organizzativa del datore di lavoro diviene persi- no superflua e, di fatto, non è rinvenibile. Si pensi ancora a prestazioni lavora- tive dotate di contenuto intellettuale e altamente creativo, quali, ad esempio, quelle del giornalista, rispetto alle quali il potere direttivo e disciplinare risulta fortemente attenuato, ovvero ancora a figure professionali di recente concezio- ne (la guida o l’animatore turistico, l’operatore di call-center, il procacciatore di affari, il web-master), i cui rapporti con il committente sono spesso definiti in maniera molto sommaria. E’ evidente che, in tutti questi casi, l’esistenza del vincolo di subordinazione va concretamente apprezzata con riguardo alla speci- ficità dell'incarico conferito, facendo ricorso ad indici sussidiari o presuntivi che nel corso del tempo sono stati elaborati dalla giurisprudenza e dalla dottrina. Il ricorso a tali indici è consentito tanto in caso di mansioni ad alto contenuto professionale, quanto in presenza di mansioni assolutamente semplici e routi- narie, rispetto alle quali l'esercizio del potere direttivo del datore di lavoro po- trebbe non avere occasione di manifestarsi (Cass. n. 10629/2009). Del resto, in giurisprudenza è stato correttamente segnalato che, se l’esistenza del potere di- rettivo e disciplinare del datore di lavoro è certamente indice di subordinazione, la relativa assenza non è - di sicuro - indice di autonomia (Cass. n. 3674/2000).
Di qui il principio di diritto, pacifico in giurisprudenza e in dottrina, secon-
do il quale, nel caso in cui la subordinazione non si manifesti con sufficiente immediatezza ed evidenza, occorre far ricorso ad una serie di indicatori reali, la cui esistenza va verificata con riferimento al singolo caso concreto, e che pos- sono fungere da elementi indiziari, almeno in via presuntiva, della subordina- zione. È bene ribadire ancora una volta, però, che tali indici devono essere uti- lizzati con estrema cautela, e solo quando non sia immediatamente riscontrabi- le l'elemento dell’eterodirezione della prestazione lavorativa, consistente nella soggezione del lavoratore al potere direttivo, di controllo e disciplinare del da- tore di lavoro.
Il più utilizzato di tali indizi, normalmente, è rappresentato dall'esistenza di un orario di lavoro fisso o predeterminato ad opera del datore di lavoro (art.
2107 c.c.). È evidente, infatti, che la più immediata manifestazione del potere organizzativo datoriale sia quella di fissare i tempi di lavoro con riguardo alle proprie esigenze: in linea generale, perciò, tanto più è riscontrabile rigidità nei tempi di lavoro assegnati, tanto più sarà lecito presumere l'esistenza di una qualche dipendenza.
D'altra parte, poiché nella prassi sono rinvenibili una molteplicità di figure di lavoratori dipendenti non legati dal rispetto rigoroso di un orario di lavoro (si pensi ai quadri o ai dirigenti), e tuttavia inseriti gerarchicamente in un contesto sociale, a diventare determinante potrebbe essere proprio l'inserzione, in via continuativa, del prestatore di lavoro in tale contesto, in maniera tale da atte- starne non solo l'elemento della collaborazione, ma anche la continuità ideale della messa a disposizione di energie lavorative a favore del datore di lavoro, tale da inserire la prestazione stessa nell'organizzazione aziendale: in tal senso, la continuità rappresenta un connotato essenziale della collaborazione (Ghera). Strettamente connessa alla continuità della prestazione di lavoro è la com- ponente retributiva, che, normalmente, nel lavoro subordinato, è commisurata al tempo di lavoro (inteso appunto come periodo di disponibilità) ed è indipen- dente dal risultato utile prodotto a vantaggio dal datore. In sostanza, mentre nel lavoro subordinato la retribuzione viene normalmente stabilita in maniera fissa rispetto all'unità di tempo (ore, giorni, mesi) presa a base di commisurazione, nel lavoro autonomo il compenso dovrebbe essere definito in funzione dell'ope- ra o del servizio finito da realizzare. Tuttavia, anche in questo caso, non è in- frequente la prassi di accordi economici fra le parti che prevedano, oltre ad una retribuzione fissa, anche una componente variabile, proporzionale alla produ- zione effettivamente realizzata (si pensi alla retribuzione a cottimo, alle provvi-
gioni o ai premi di produzione).
Altro indicatore importante potrebbe essere rappresentato dalla proprietà dei mezzi di produzione: normalmente, mentre il lavoratore subordinato si av- vale di mezzi e attrezzature forniti dal datore, il lavoratore autonomo conserva una propria organizzazione produttiva. Anche in questo caso, d'altra parte, è facile riscontrare che, nella realtà dei fatti, potrebbe legittimamente accadere il contrario (si pensi, ad esempio, al libero professionista contabile che si avvale di mezzi informatici e software di proprietà dell'azienda sua cliente).
Elemento importante e, spesso, decisivo, è quello dell'infungibilità della prestazione di lavoro subordinato: essa, infatti, ha carattere esclusivamente personale ("prestando il proprio lavoro", art. 2094 c.c.): ciò significa che il soggetto obbligato a rendere la prestazione non può che essere il lavoratore parte del
contratto; nel contratto di lavoro autonomo, invece, tale aspetto non è essenzia- le: cosicché, se nel caso specifico venisse dimostrato che il lavoratore, per adempiere alla propria obbligazione, si sia avvalso dell'opera di propri collabo- ratori, ciò sarebbe certamente un indizio di autonomia, e non di subordinazione.
Un ulteriore indizio di subordinazione può essere tratto nel caso in cui ven- ga constatata l'esclusività della prestazione lavorativa, nel senso che essa vie- ne resa a favore di un unico soggetto. Tuttavia, anche tale presunzione, che viene fatta discendere, in parte, dall'obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c., non va sopravvalutata, in quanto, attraverso due o più contratti a tempo parziale, il prestatore potrebbe obbligarsi nei confronti di altrettanti datori di lavoro senza con questo poter essere ritenuto un lavoratore autonomo.
Ultimo indizio, che va utilizzato, si badi bene, solo nel caso in cui tutti gli altri elementi non riescano a condurre ad una soluzione positiva della questio- ne, è quello della volontà dei contraenti, ovvero del nomen iuris attribuito dalle parti al negozio giuridico posto in essere. Infatti, la qualificazione di un rappor- to di lavoro non può essere aprioristicamente effettuata avendo riguardo all'in- tenzionalità delle parti, rilevata nel momento costitutivo del rapporto (ad esem- pio attraverso la stipula formale di un contratto), ma occorre valutare la situa- zione di fatto determinatasi nella fase attuativa dell'accordo. Ed anche se la giu- risprudenza più recente sembra aver enormemente rivalutato l'importanza della volontà delle parti (si veda Cass. n. 13884/2004; n. 9264/2007; n. 5645/2009), qualora espressa in modo chiaro ed inequivocabile, e magari da soggetti dotati di una certa cultura professionale, per orientamento consolidato non si può pre- scindere, nella qualificazione di un rapporto lavorativo, dall'accertamento del comportamento effettivamente tenuto dalle parti.
Infine, particolare attenzione va riservata all'elemento del rischio del lavoro
e alla sua ripartizione sui contraenti, da considerare non solo come un indizio della natura del contratto, ma anche come un effetto derivante dalla sua qualifi- cazione giuridica. Il rischio del lavoro consiste infatti nell'impossibilità di ren- dere alla controparte la prestazione lavorativa (in tutto o in parte), ovvero un ri- sultato utile della stessa, a causa di fattori ostativi vari, comunque indipendenti dalla volontà del prestatore. Si pensi, ad esempio, alle ipotesi di malattia o in- fortunio, ai problemi di approvvigionamento delle materie prime, all'inefficien- za delle attrezzature, o ancora alla classica calamità naturale che distrugge la produzione. Tale rischio, nel rapporto di lavoro subordinato, grava sul datore di lavoro, mentre, nel caso di lavoro autonomo, grava sul prestatore d'opera.
2.1.3. Il lavoro nei rapporti associativi e nelle società
Mentre il lavoro subordinato e quello autonomo si concretizzano in un con- tratto che presuppone prestazioni corrispettive in termini di lavoro/compenso, ponendo le parti su posizioni contrapposte (ciascuna con il proprio tipico inte- resse contrattuale ad ottenere la prestazione dell'altra), nei rapporti associativi, invece, vi è l’interesse comune al buon andamento dell’attività economica e al raggiungimento dell'obiettivo comune, che è il fine ultimo da cui dipende la soddisfazione di ciascun associato.
È questo il motivo per cui, nei rapporti associativi, anche laddove sussista l'elemento dell'eterodirezione, generalmente, salvo verifica o prova contraria, non si configura un rapporto subordinato, anche per la mancanza dell'alienità dei mezzi di produzione utilizzati dal prestatore (Corte Cost., 12 febbraio 1996, n. 30).
Nelle società, soprattutto di persone, e in misura minore in quelle di capitali (ove si può ravvisare meglio un’autonoma personalità giuridica della società stessa e un controllo gerarchico disgiunto ed indipendente dal socio lavoratore stesso), sono soprattutto gli enti di previdenza che tendono ad indagare a fondo i motivi che stanno alla base della prestazione lavorativa e a verificare se l'attivi- tà configura in realtà prestazione di lavoro subordinato o invece semplice adempimento dell'oggetto sociale e/o apporto del socio sotto forma di presta- zione lavorativa. La verifica di una fattispecie o di un'altra rileva in modo deci- sivo, perché ad essa sono correlati gli adempimenti formali e sostanziali delle leggi speciali previsti per la corretta contribuzione previdenziale del socio, non- chè, dopo l'approvazione della riforma del diritto societario, problematiche fiscali complesse relative alla quantificazione degli apporti sociali in beni o servizi.
Se la causa associativa è tanto prevalente da escludere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra la società ed il socio, ci si trova di fonte alla figura del socio d'opera, che conferisce la propria attività nelle società di perso- ne a scopo di lucro (artt. 2247; 2263, comma 2; 2286, comma 2, c.c.), parteci- pando ai guadagni ed alle perdite insieme agli altri soci. Tale socio d'opera ha una sua normativa specifica, oltre che dal punto di vista previdenziale, anche per quanto riguarda l'assicurazione INAIL contro gli infortuni e la copertura non squisitamente pensionistica fornita dall'INPS (ad esempio, indennità di maternità).
Nelle società di capitali, almeno fino alla recente riforma del diritto societa- rio, era generalmente escluso il conferimento di prestazioni d'opera (art. 2342, comma 2, c.c.); tuttavia, l'atto costitutivo poteva stabilire l'obbligo statutario dei
soci di eseguire prestazioni accessorie all'apporto in denaro o in beni con com- penso non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi per rapporti aventi ad oggetto le stesse prestazioni (art. 2345, comma 1, c.c.). Ciò in quanto il capi- tale sociale posto a garanzia dei terzi deve essere costituito da fattori certi e co- munque di agevole quantificazione economica: tale certezza e facilità non sono ravvisabili nell'impegno preso da un socio di apportare come partecipazione so- ciale la sola prestazione lavorativa. Si segnala, però, che la riforma del diritto societario (soprattutto per le società a responsabilità limitata) mitiga tale prece- dente esclusione assoluta, consentendo ciò che prima non era possibile, ferma restando l’adozione di specifiche misure di garanzia a tutela dei terzi creditori.
2.1.4. Il lavoro nell'impresa familiare
Il lavoro svolto nell'ambito della famiglia dai suoi componenti si presume gratuito, salvo che non sia prestato in modo continuativo nell'impresa familiare, poiché, in questo caso, si determina un rapporto di lavoro di tipo associativo di- sciplinato dall'art. 230-bis c.c.
All'impresa familiare partecipano, anche se non conviventi, il coniuge, i pa- renti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado (art. 230-bis, comma 3). I partecipanti all'impresa familiare hanno diritto non solo al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia, ma anche ad una quota de- gli utili dell'impresa, dei beni acquistati con tali utili e degli incrementi dell'a- zienda, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato a prescindere dal sesso (art. 230-bis, commi 1 e 2).
I collaboratori familiari non rientrano né fra i lavoratori subordinati, né fra le forme di lavoro atipico (salvo il caso in cui sussista un contratto o incarico in tale senso). La loro attività deve essere caratterizzata dalla continuità intesa come “continuità dell’apporto”, mentre potrebbe risultare irrilevante la conti- nuità della presenza in azienda (Cass., Sez. lav., sent. n. 13849, 23 settembre 2002). In tal senso, la giurisprudenza di legittimità, nel tempo, ha provveduto a specificare che i requisiti della prestazione dei collaboratori all’interno dell’impresa familiare sono la continuità, la coordinazione, l’esplicazione pre- valentemente personale dell’attività.
In maniera ancora più sottile, la giurisprudenza ha segnalato che, nell’ambito dell’istituto dell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis, cod. civ., caratterizzato dall’assenza di un vincolo societario e dall’insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra i familiari e la persona del capo (quale rico- nosciuto dai partecipanti in forza della sua anzianità e/o del suo maggiore ap-
porto all’impresa stessa), vanno distinti un aspetto interno, costituito dal rap- porto associativo del gruppo familiare quanto alla regolamentazione dei van- taggi economici di ciascun componente, e un aspetto esterno, nel quale ha rile- vanza la figura del familiare-imprenditore, effettivo gestore dell’impresa, che as- sume in proprio i diritti e le obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi e ri- sponde illimitatamente e solidalmente con i suoi beni personali, diversi da quel- li comuni e indivisi dell’intero gruppo, anch’essi oggetto della generica garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c.: da ciò consegue che il fallimento dell’imprenditore non si estende automaticamente al semplice partecipante all’impresa familiare.
Dal punto di vista previdenziale, i collaboratori familiari devono essere ob- bligatoriamente iscritti alle apposite gestioni dei lavoratori autonomi presso l’Inps (Commercianti o Artigiani) quando l’impresa familiare esercita un’attività ascrivibile a tali categorie e quando la prestazione resa dal collabora- tore possiede i caratteri della prevalenza e dell'abitualità.
Dal punto di vista assicurativo, ai sensi dell’art. 4 del D.P.R. n. 112/1965, il coniuge, i figli, anche naturali o adottivi, gli altri parenti, gli affini, gli affiliati e gli affidati del datore di lavoro che prestano con o senza retribuzione, alle sue dipendenze, opera manuale e non, sono soggetti all’assicurazione obbligatoria presso l’Inail. In forza di una celebre sentenza della Corte Costituzionale (sen- tenza Corte Costituzionale del 1987, n. 476), tale disposizione si estende anche ai parenti entro il terzo grado ed agli affini entro il secondo che prestano attività lavorativa nell’ambito dell’impresa familiare.
Quanto alla gestione ordinaria dell'impresa, alle decisioni riguardanti l'im- piego degli utili e degli incrementi, alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alle decisioni strategiche, tutte queste sono adottate dai familiari partecipanti a maggioranza, a prescindere dal valore delle quote (art. 230-bis, comma 1). Il diritto di partecipazione può essere trasferito solo ad un altro fa- miliare con il consenso di tutti i partecipanti e può essere liquidato in danaro in caso di alienazione dell'azienda o di uscita del singolo dall'impresa, per qualsia- si causa (art. 230-bis, comma 4). In caso di divisione ereditaria o di trasferimen- to dell'azienda i partecipanti hanno diritto di prelazione sull'azienda medesima (art. 230-bis, comma 5). L'impresa familiare per essere opponibile ai terzi credi- tori prevede la stesura di un atto privato fra le parti (preventivo come decorren- za rispetto all'anno di imposta che si vuole sia interessato dalla impresa familia- re), con data certa, in modo da consentire all'imprenditore di applicare appieno
tutte le implicazioni fiscali connesse a questa impostazione societaria, soprattut- to per quanto riguarda poi la suddivisione dell'utile fiscale dell'impresa.
Infine, si ricorda che, per quanto riguarda le prestazioni di natura occasiona- le rese dal familiare in piccole realtà imprenditoriali, che spesso possono creare imbarazzo sotto il profilo della vigilanza, il Ministero del Lavoro è intervenuto in modo pragmatico con lettera circolare n. 10478 del 10 giugno 2013, dettando particolari istruzioni al personale ispettivo.
Il Ministero ritiene che le prestazioni di pensionati, parenti o affini entro il terzo grado (quarto grado per il settore agricolo) dell'imprenditore, rese in via occasionale e gratuita, per un massimo di 720 ore o 90 giorni all’anno, ovvero rese in sostituzione o in affiancamento del titolare, non possano essere ricon- dotte alle ordinarie fattispecie lavorative e, pertanto, non possano essere assog- gettate alla gestione assicurativa di competenza.
2.1.5. Il lavoro gratuito e il volontariato
Abbiamo visto come il rapporto di lavoro subordinato sia caratterizzato dall’onerosità della prestazione lavorativa (art. 2094 c.c. «mediante retribuzione»): sicché, il connotato della gratuità, che deve essere voluto esplicitamente dalle parti e deve caratterizzare in modo inequivocabile la causa della prestazione (per ragioni di ordine affettivo, solidaristico o ideologico), sottrae tali tipi di rapporti alla disciplina giuslavoristica in senso stretto.
In particolare, l’eventuale gratuità del lavoro reso proietta lo stesso al di fuo- ri dello schema negoziale del lavoro subordinato (art. 2094 c.c.), rendendolo oggetto di un contratto atipico lecito se collegato ad un interesse meritevole di tutela (art. 1322 c.c.). Peraltro, quando la prestazione lavorativa viene eseguita esclusivamente in adempimento di doveri morali o sociali, spesso risulta assen- te il fondamentale vincolo della subordinazione tecnico-funzionale.
L’esempio tipico, che accade con frequenza, è quello del rapporto di lavoro fra coniugi o stretti congiunti, che si presume svolto affectio vel benevolentiae, sal- vo prova contraria con onere a carico di chi, al contrario, ne invoca l’onerosità. Si deve inoltre segnalare che la gratuità del lavoro reso all’interno del contesto familiare si riferisce non soltanto alla prestazione del coniuge, ma si allarga a tutti i parenti e affini conviventi. Per altro verso, l'oggetto del lavoro familiare non è confinato al lavoro domestico, ma si estende a qualsiasi attività che faccia capo al coniuge o familiare in favore del quale la prestazione lavorativa viene resa. Infatti, anche il lavoro prestato in favore del coniuge professionista o im- prenditore individuale si presume gratuito, così come il lavoro prestato dal fa-
miliare in favore di un socio di una società di persone che abbia il controllo del- la società (socio di maggioranza o amministratore unico). Tuttavia, se il coniu- ge che beneficia della prestazione lavorativa è socio di una società di capitali, la presunzione di gratuità della prestazione potrebbe cadere, in quanto la stessa è resa a favore di un soggetto - la società - diverso dal coniuge o dal familiare convivente, fatta eccezione per le società di capitali a socio unico.
Addirittura, la presunzione di gratuità del lavoro coniugale è stata estesa an- che alla convivenza more uxorio (si veda Cass. n. 5215/2000), ma, in questo ca- so, è richiesto che il datore di lavoro che invoca la gratuità del rapporto dimo- stri che la suddetta convivenza sia analoga a quella legittima, non solo sul pia- no spirituale della solidarietà personale, ma anche sul versante economico.
Mentre il lavoro prestato gratuitamente dal singolo individuo al di fuori di una specifica organizzazione finalizzata ai fini sopra descritti non è oggetto di disciplina sistematica da parte del Legislatore, con la legge n. 266/1991 è stata disciplinata l'attività di volontariato prestata in apposite organizzazioni a tal scopo costituite.
L'art. 2 della legge n. 266/1991 definisce come attività di volontariato quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l'organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà.
Tale attività non può essere retribuita (essendo ammessi unicamente i rim- borsi spese) ed è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro, auto- nomo o subordinato, con l'organizzazione di appartenenza.
Al lavoro di volontariato non si applica dunque la disciplina del lavoro, ec- cetto l'obbligo di assicurazione dei volontari presso l’Inail contro gli infortuni e le malattie professionali connesse all'attività prestata, nonchè l’obbligo di assi- curazione per la responsabilità civile verso terzi.
La stessa legge n. 266/1991 ha, peraltro, dettato particolari disposizioni al fine di rendere compatibile l'espletamento dell'attività di volontariato con altro rapporto di lavoro subordinato eventualmente in corso.
Può qualificarsi come volontariato anche il lavoro prestato in favore delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (c.d. ONLUS) di cui al D.Lgs. n. 460/1997 (ovvero associazioni, fondazioni e cooperative aventi come esclusivo oggetto sociale il perseguimento di finalità di solidarietà sociale) e delle associa- zioni di promozione sociale di cui alla legge n. 383/2000. Nell'impresa sociale, regolamentata con il D.Lgs. n. 155/2006, il volontariato è ammesso solo nei limiti del 50% dei lavoratori a qualunque titolo impiegati nell'impresa sociale.
2.2. Il contratto di lavoro: volontà, forma, oggetto e causa
Il contratto di lavoro subordinato rappresenta uno specifico accordo tra le parti, a cui si applicano in generale le norme stabilite dal codice civile sui con- tratti in generale (artt. 1325 e seguenti - libro IV del codice civile). Rientra cioè nella più vasta area normativa del lavoro in generale che, seppure con contorni non sempre definiti, comprende anche la disciplina del lavoro autonomo e dell'attività d'impresa in forma individuale e associata.
Per la corretta conclusione e per la validità del contratto, è necessario, prima di tutto, che entrambe le parti abbiano la capacità giuridica, cioè la capacità di es- sere destinatari di diritti e di obblighi giuridici (che nel nostro Ordinamento si acquista al momento della nascita), nonché la capacità di agire, cioè la capacità di compiere atti giuridicamente rilevanti. Tale capacità si acquista di norma al compimento del diciottesimo anno di età, salvo casi particolari, in cui leggi spe- ciali non dispongano diversamente. Nel caso del rapporto di lavoro, per l'ap- punto, la legge dispone che anche i minori possano stipulare e dare esecuzione al relativo contratto, a condizione che abbiano adempiuto all'obbligo scolastico. A tal proposito, a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 296/2006 (leg-
ge finanziaria 2007), a decorrere dall'anno scolastico 2007/2008, l'obbligo sco- lastico è stato elevato a 10 anni di istruzione; pertanto, allo stato attuale, non possono essere ammessi al lavoro giovani di età inferiore ai 16 anni, salvo che non vengano assunti, laddove ciò è possibile, con contratto di apprendistato “qualificante” (vedi infra): in tal caso, l’età minima di ammissione al lavoro, come già previsto dall’art. 48, D.Lgs. n. 276/2003 e confermato dalla legge n. 183/2010, risulta essere di 15 anni, poiché tale forma contrattuale consente di adempiere all’obbligo scolastico anche attraverso l’esperienza lavorativa legata all’apprendistato e di portare a compimento quel progetto legislativo che do- vrebbe portare definitivamente a compimento la riforma dei cicli scolastici, con l’elevazione dell’obbligo di istruzione fino al 18° anno di età. Ove il prestatore non possieda i requisiti minimi anagrafici di ammissione al lavoro, deve consi- derarsi sprovvisto della capacità di assumere la qualità di lavoratore subordina- to (o autonomo) e quindi il contratto di lavoro eventualmente stipulato sarà vi- ziato da nullità assoluta, fatto salvo in ogni caso il diritto alla retribuzione per il lavoro già prestato, nonché il diritto alle prestazioni assicurative obbligatorie (art. 2126, comma 2, c.c.).
Il contratto individuale di lavoro - autonomo o subordinato che sia - presup-
pone gli stessi requisiti che la legge prevede per la generalità dei contratti. Per-
ché sia validamente costituito un rapporto di lavoro, sarà quindi necessario che emergano la volontà consensuale delle parti, la causa e l'oggetto, espressi in una determinata forma (art. 1325 c.c.). Come per la generalità dei contratti, per la piena validità è necessario che questi elementi siano presenti al momento della stipula, a pena di nullità. Qualora invece i requisiti vengano a mancare o risul- tino viziati durante l'esecuzione del contratto, il rapporto potrà cessare (ad esempio per impossibilità sopravvenuta), essere sospeso o trasformato in altro tipo di contratto.
Quanto alla volontà delle parti, questa deve emergere in maniera incontro- vertibile; il contratto sarà perfezionato nel momento in cui la proposta sarà ac- cettata e portata in qualunque modo a conoscenza del proponente.
È bene tenere presente che, nei rapporti di lavoro, non sempre il perfezio- narsi del contratto avviene con la firma in calce alla lettera-contratto, ma spesso avviene con la semplice esecuzione dello stesso ad opera delle parti.
L'oggetto della prestazione è costituito, nel rapporto di lavoro subordinato, dalle energie lavorative che il prestatore di lavoro pone a disposizione dell'im- prenditore e che trovano il loro corrispettivo nella retribuzione che quest'ultimo eroga. In tal senso, l'oggetto del rapporto di lavoro, inteso come messa a dispo- sizione delle energie lavorative per l'esecuzione della prestazione richiesta, coincide con il contenuto dell'obbligazione di lavoro. Nel rapporto di lavoro au- tonomo, come si è visto, l'oggetto del contratto consiste nel risultato utile dell'attività lavorativa che il prestatore si impegna a fornire. Come per gli altri contratti, l'oggetto del contratto di lavoro, a pena di nullità, deve essere possibi- le, lecito, determinato o determinabile (art. 1346 c.c.).
La possibilità della prestazione del lavoratore va intesa nel senso che questi non può essere impiegato per espletare attività lavorative impossibili o inese- guibili; se l'impossibilità e originaria il contratto è nullo; se è sopravvenuta, può essere causa di risoluzione del contratto (art. 1463 c.c.).
La prestazione lavorativa è illecita, e conseguentemente il contratto di lavoro è nullo, qualora essa sia contraria a norme imperative, all'ordine pubblico e al buon costume. Ad esempio, sono state dichiarate illecite (fermo restando sem- pre il pagamento delle retribuzioni e dei relativi contributi) prestazioni effettua- te in violazione delle norme che tutelano il diritto alla salute, o il lavoro dei fanciulli.
Nel rapporto di lavoro la determinatezza o la determinabilità dell'oggetto deve essere valutata non solo sulla base di quanto previsto dai soggetti che hanno concluso il contratto, ma anche sulla base della legge, dei contratti collettivi e
degli usi. Di conseguenza, l'oggetto del contratto deve ritenersi determinabile se, nei precedenti accordi, ovvero nella lettera d'assunzione, ad esempio, le parti si siano limitate ad indicare la qualifica del contratto collettivo che viene attri- buita al lavoratore, senza tuttavia specificare le mansioni cui concretamente questi verrà adibito. Inoltre, va tenuto presente che l'oggetto del rapporto di la- voro può risultare anche dal comportamento concretamente tenuto dalle parti, una volta che sia stata data esecuzione sulla base di un’intesa generica.
Anche la causa del contratto di lavoro, che consiste nello scambio tra presta- zione lavorativa e compenso, deve essere lecita, cioè conforme alla legge, all'ordine pubblico e al buon costume, a pena di invalidità dell'accordo. Ad esempio, la causa non è stata ritenuta lecita nell'ipotesi di rapporti costituiti ir- regolarmente o simulati solo per garantire una tutela previdenziale più incisiva al lavoratore.
Lo scambio tra lavoro e retribuzione fa rientrare il contratto di lavoro nella categoria dei contratti sinallagmatici, o a prestazioni corrispettive, in cui non necessariamente le parti rivolgono la loro attività ad uno scopo comune (a diffe- renza di quanto accade per i contratti associativi).
Quanto alla forma del contratto, che normalmente è "libera", ossia non sot- toposta a specifiche modalità, va detto subito che, nel rapporto di lavoro subor- dinato, alcune clausole - come l'apposizione del termine o il periodo di prova - necessitano di forma scritta a pena di nullità. Inoltre, all'atto dell'assunzione, devono essere fornite per iscritto al lavoratore determinate informazioni relative al rapporto di lavoro. Tale adempimento, di natura puramente amministrativa, malgrado non influisca in alcun modo sulla validità del contratto, costituisce una dichiarazione unilaterale del datore di lavoro valida a perfezionare il con- tratto, portando il lavoratore a conoscenza degli elementi principali che lo ca- ratterizzeranno.
In generale, dunque, il contratto di lavoro può essere instaurato anche solo a seguito di accordi verbali, oppure risultare da comportamenti concludenti, qua- li, ad esempio, l'inizio dell'attività lavorativa.
Collegati agli aspetti fin qui espressi sono poi i concetti di invalidità e ineffi- cacia del contratto, dove l'inefficacia sta ad indicare, genericamente, l'inidonei- tà del negozio giuridico a produrre i propri effetti, mentre l'invalidità si può dif- ferenziare in nullità o annullabilità del negozio giuridico. Costituiscono cause di nullità del contratto di lavoro, come pure degli altri negozi giuridici, la man- canza di uno dei requisiti costitutivi del contratto, l'illiceità della causa o del motivo comune a entrambe le parti, l'impossibilità, illiceità, indeterminatezza o
indeterminabilità dell'oggetto e la difformità del contratto da norme imperative o nei casi stabiliti dalla legge.
La nullità è insanabile e può essere fatta valere da chiunque vi abbia interes- se o anche rilevata d'ufficio dal Giudice, ma il contratto di lavoro nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso del quale contenga i requisiti di so- stanza e di forma, qualora possa ritenersi che datore e lavoratore lo avrebbero voluto anche conoscendone la nullità (c.d. principio di conversione dell'atto nul- lo).
Sono invece cause di annullabilità, l'incapacità a contrarre di una delle par- ti, l'incapacità di una delle parti di intendere e di volere al momento della stipu- lazione, il vizio del consenso e l'utilizzo di false dichiarazioni circa la capacità di agire al momento della conclusione del contratto.
A differenza della nullità, l'annullabilità deve essere fatta valere dalla parte che vi ha interesse e nel limite del termine prescrizionale. È bene comunque ri- badire che, al fine di tutelare il prestatore di lavoro, la disciplina civilistica della nullità e dell'annullabilità, nel rapporto di lavoro subisce alcuni adattamenti: in- fatti, l'art. 2116 c.c. stabilisce che la nullità o l'annullamento del contratto di la- voro non producono effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzio- ne, garantendo quindi la retribuzione e il trattamento normativo previsto (pre- stazione di fatto eseguita). Tale tutela non opera quando il contratto è nullo per illiceità della causa o dell'oggetto ma, in tal caso, il lavoratore potrà invocare l'esistenza di una obbligazione del datore di lavoro nei suoi confronti ai sensi dell'art. 2041 c.c. per ingiustificato arricchimento. Nel caso in cui l'illiceità della causa o dell'oggetto derivi da violazione di norme che tutelano il prestatore di lavoro, quest'ultimo avrà in ogni caso diritto alla retribuzione (art. 2116, com- ma 2).
Da ultimo, va ricordato che la disciplina dei vizi nella formazione del con-
senso trova forti limitazioni rispetto a quanto previsto dal codice civile: infatti l'autonomia negoziale delle parti è limitata dalla presenza di clausole inderoga- bili imposte dalla legge o dai contratti collettivi. È il caso della "simulazione" che si verifica quando le parti fingono l'esistenza di un contratto di lavoro su- bordinato mentre in realtà non hanno intenzione di costituire nessun rapporto lavorativo (simulazione assoluta): in tal caso, il contratto simulato non produce alcun effetto tra le parti, ai sensi dell'art. 1414, comma 1, c.c. Quando invece le parti fingono di dar vita ad un contratto diverso da quello realmente voluto (es. lavoro autonomo in luogo del lavoro subordinato), viene applicata la disciplina del contratto effettivamente svolto, in base a quanto disposto dall'art. 1414,
comma 2, c.c. La regola della prevalenza del contratto effettivo dissimulato tro- va una limitazione solo nel caso in cui sia stato eseguito con intento fraudolen- to: in tal caso, potrà subire la dichiarazione di nullità perché in frode alla legge (art. 1344 c.c.).
2.3. Il contratto di lavoro: condizione e termine
In linea generale, l'inizio del rapporto di lavoro può essere assoggettato a condizione, intendendosi con ciò un evento (sempreché lecito) al verificarsi del quale il rapporto, in un primo tempo "sospeso" possa aver luogo. Di norma, la condizione è certa nel suo verificarsi, ma incerta quanto al momento in cui av- verrà, lasciando indefinito il momento in cui si perfezionerà il contratto.
Nella pratica, la previsione della condizione può essere contenuta nella lette- ra di impegno all'assunzione, documento preparatorio al contratto definitivo, in cui sono espresse le condizioni che devono verificarsi per consentire la comple- ta definizione del contratto. Ad esempio, la condizione del perfezionarsi della cessazione di un precedente rapporto di lavoro può essere validamente inserita come condizione in una impegno ad una successiva assunzione.
Quanto al termine del contratto, la sua disciplina è stata modificata, rispetto alla previgente normativa costituita dalla legge n. 230/1962, dal D.Lgs. n. 368/2001, con il quale è stata maggiormente liberalizzata in attuazione della Direttiva comunitaria CE n. 70/99 la possibilità di istituire rapporti di lavoro che contengano già, al loro sorgere, la determinazione della loro durata e quin- di il termine finale. Allo scadere, il contratto si deve intendere quindi automati- camente estinto.
Con la nuova disciplina è stata rovesciata la precedente impostazione che prevedeva il divieto di ricorrere ai contratti a termine, ad eccezione dei casi tas- sativi espressamente previsti.
L’art. 1, comma 39, della legge n. 247/2007, ha comunque ripristinato la norma di principio originariamente dettata dalla legge n. 230/1962, secondo cui "il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato".
Senza voler anticipare il contenuto di successive parti del manuale, occorre dire in questa sede che per l'apposizione del termine è richiesta la forma scritta ad substantiam (art. 1, comma 2, D.Lgs. 368/2001), che deve risultare diretta- mente o indirettamente da atto formale nel quale siano esposte le ragioni che legittimano la stipulazione del contratto a tempo determinato. Qualora manchi la forma scritta, la clausola relativa al termine è nulla ed il contratto è conside-
rato a tempo indeterminato. Copia dell'atto scritto deve essere consegnata dal datore di lavoro al lavoratore entro 5 giorni lavorativi dall'inizio della presta- zione. Detto adempimento è estrinseco ai requisiti del contratto e pertanto non incide sulla sua validità. Secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, l'atto scritto deve essere contemporaneo o anteriore all'inizio del rapporto di lavoro; qualora manchi l'indicazione del termine, pertanto, il con- tratto si intenderà a tempo indeterminato dall'origine (per tutte, Cass. n. 2211/1998). Il datore di lavoro è esonerato dall'obbligo della forma scritta solo se la durata del rapporto di lavoro non sia superiore a 12 giorni (art. 1, comma 4, D.Lgs. n. 368/2001).
2.4. Il periodo di prova
Una volta scelto il candidato, il datore di lavoro ha a disposizione un certo periodo legale di tempo per valutare se tale scelta è stata azzeccata e se il candi- dato risponda effettivamente ai requisiti complessivamente richiesti. Durante tale periodo di tempo, entrambe le parti possono recedere dal contratto di lavo- ro senza avere l'obbligo di dare un preavviso e senza che questo produca alcuna conseguenza per inadempimento dell'obbligazione contrattuale o particolari in- dennità economiche.
Il periodo di prova, in linea generale, può essere stipulato anche con un la- voratore precedentemente già assunto presso la stessa azienda, è compatibile con il rapporto a termine, con i contratti a contenuto formativo come l'appren- distato o il contratto di inserimento, ed è previsto anche nel caso di un lavorato- re disabile assunto obbligatoriamente. Questo perché la prova non riguarda sol- tanto gli aspetti strettamente professionali del rapporto, ma anche una valuta- zione più complessiva del comportamento del lavoratore in azienda. Dal punto di vista del lavoratore, tale periodo deve servire a capire se il posto di lavoro oc- cupato corrisponda alle sue aspettative professionali, economiche, ma anche di relazione sociale o più squisitamente umane.
In base all'art. 2096 x.x., xxxxx 00, x'xxxxxxxxxx xxx xxxxxxxxxx xx xxxxxx per un periodo di prova deve, per essere opponibile alla controparte, risultare da at- to scritto. Tale atto, richiesto dalla legge ai fini della validità dello stesso (ad sub- stantiam), deve precedere o essere contestuale all'assunzione e deve indicare in maniera dettagliata (e non tramite un mero rinvio ad altra fonte contrattuale, a meno che in questa le mansioni non siano indicate con sufficiente precisione) le mansioni alle quali si riferisce la prova stessa. Infatti, nel caso di adibizione a
mansioni radicalmente diverse da quelle pattuite, l’eventuale recesso datoriale potrebbe risultare illegittimo; qualora invece le mansioni effettivamente espleta- te, pur essendo affini a quelle indicate nel patto, non coincidano perfettamente, la conseguenza potrebbe consistere nel diritto alla prosecuzione della prova; (Cass. n. 25301/2007).
La mancanza di forma scritta prima dell’esecuzione del contratto è insanabi- le e non ammette alcuna possibilità di sanatoria successiva, con la conseguenza che il patto di prova verbale, o stipulato per iscritto ma in momento successivo all’inizio dell’attività lavorativa, sarà affetto da nullità assoluta.
La durata massima del periodo di prova é stabilita di regola dai diversi con- tratti collettivi a seconda dei vari livelli di inquadramento e, quindi, delle varie mansioni. La durata, in genere, é stabilita in giorni di calendario o mesi lavora- tivi, e gli stessi contratti prevedono i casi e le modalità in cui tale periodo si so- spende al verificarsi di eventi (malattia, infortunio, gravidanza, xxxxx non pro- grammate, sospensione dell’attività con intervento della cassa integrazione guadagni, ecc. Si veda Cass., sez. lav., n. 4573/2012) non prevedibili al momen- to della stipula del patto stesso.
Generalmente, infatti, tali eventi sospendono il decorso della prova, che de- ve essere prorogata di un eguale periodo, da calcolarsi secondo il comune ca- lendario, salvo diversa espressa indicazione contrattuale e fatto salvo il limite massimo previsto dalla legge, a meno che, nonostante la malattia o l’infortunio, la prova abbia avuto regolarmente corso per un periodo di tempo tale da con- sentire comunque al datore di valutare la professionalità del prestatore (Cass. n. 21698/2006).
Coerentemente con tale assunto, si segnala che, laddove il lavoratore abbia già superato un precedente periodo di prova presso lo stesso datore di lavoro con esito positivo e nelle stesse mansioni, il nuovo patto di prova potrebbe esse- re nullo, e ciò anche se il lavoratore abbia già lavorato presso la stessa azienda con schemi contrattuali diversi dal lavoro subordinato (si veda Pret. Treviso, 17 novembre 2004, su un precedente lavoro interinale).
Normalmente non è ammessa la proroga del periodo di prova inizialmente pattuito; tuttavia, se esso è stato pattuito per un periodo inferiore rispetto a quello previsto dal contratto collettivo applicato, ne è legittimo il prolungamen- to qualora motivato dalla volontà di adeguarne la durata a quella stabilita dal contratto di riferimento (Cass. n. 5677/2013).
Il lavoratore in prova, che deve comunque essere assicurato sin dal primo giorno di servizio, ha diritto al normale trattamento economico e normativo
previsto per il prosieguo della prestazione, ivi compreso il diritto alle ferie, all'indennità di fine rapporto, alla maturazione dei ratei delle mensilità aggiun- tive. Compiuto il periodo di prova, l'assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell'anzianità del prestatore di lavoro (art. 2096, comma 4, c.c.).
Quanto alla possibilità di sciogliere il vincolo contrattuale durante la prova, il terzo comma dell'art. 2096 c.c. dà la possibilità ad entrambe le parti di recede- re dal contratto senza alcuna motivazione, cioè semplicemente per il mancato superamento della prova (in base all'apprezzamento discrezionale delle parti) e senza obbligo di preavviso o d'indennità sostitutiva. È però evidente che, se la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine.
Nonostante il principio della libertà del recesso, il lavoratore può impugnare il licenziamento, ma in tal caso spetta a lui provare che sussiste un motivo ille- cito o discriminatorio per il suo licenziamento o che non è stato messo in con- dizione, per un qualche motivo, di effettuare l'esperimento pattuito (come im- pone l'art. 2096 c.c., comma 2).
Soltanto per l'ipotesi di lavoratori disabili assunti obbligatoriamente ai sensi della legge n. 68/1999, la giurisprudenza richiede che il licenziamento effettua- to durante il periodo di prova sia motivato, così da poter verificare che il man- cato superamento della prova sia indipendente dallo stato di invalidità del lavo- ratore. Anche il licenziamento durante il periodo di prova, essendo un atto re- cettizio, esplica la sua validità nel momento in cui è conosciuto dal destinatario e per questo ne è consigliata la forma scritta (per quanto non indispensabile) ed il controllo della sua conoscenza da parte dell'altra parte.
In ogni caso, nel recedere dal rapporto in prova, il datore deve essere nelle condizioni di provare l’uso secondo buona fede del suo potere discrezionale, es- sendo certamente censurabile dal Giudice il recesso in periodo di prova da parte del datore qualora si dimostri che all’origine vi è un motivo illecito o la viola- zione di norme imperative, come nel caso in cui il recesso sia dettato da intenti di rappresaglia.
E’ opportuno comunque precisare che il cattivo esito della prova può essere determinato non soltanto da motivazioni strettamente afferenti all’esecuzione della prestazione, ma anche a valutazioni attinenti alla sfera comportamentale del lavoratore e alla sua capacità di relazionarsi in azienda.
2.5. L'oggetto dell'obbligazione di lavoro: mansioni, qualifica e categorie
Intimamente connesso all’istituto della prova è l’oggetto dell’obbligazione retributiva e, in particolare, ciò che riguarda le mansioni cui viene adibito il la- voratore e la qualifica assegnatagli.
Si è visto che la prestazione di lavoro - tanto dipendente, quanto autonomo - consiste nello svolgimento di una determinata attività (c.d. "obbligo di facere"). Nel lavoro autonomo, l'oggetto di tale attività si identifica con il risultato finale richiesto dal committente; nel lavoro subordinato, invece, l'oggetto della presta- zione consiste nella messa a disposizione delle energie psico-fisiche per lo svol- gimento di determinati compiti o mansioni, assegnati dal datore di lavoro o dai suoi preposti in base alle esigenze dell'impresa, alle capacità del lavoratore e agli accordi fra le parti. L'insieme delle mansioni assegnate identifica la posi- zione del lavoratore all'interno del contesto produttivo o sociale attraverso l'at- tribuzione di una qualifica. Con tale termine si suole indicare la figura profes- sionale che normalmente è incaricata di svolgere un certo tipo di mansioni: per fare un esempio, con la qualifica di "guardafili o giuntista", nel settore metal- meccanico, si suole indicare il lavoratore cui sono affidate le mansioni inerenti l'installazione di impianti attraverso opere di cablaggio e collegamento più o meno complesse.
In altre parole, come recentemente spiegato dalla giurisprudenza di Cassa- zione, il termine “qualifica” non ha portata astratta, ma assume un significato concreto, da interpretarsi come specificazione delle capacità tecnico professio- nali di cui è provvisto il lavoratore e che ne delineano la collocazione lavorativa all’interno dell’azienda (Cass., sentenza n. 15058 del 22 giugno 2010).
Dunque, in sostanza, mansioni e qualifica servono ad indicare il medesimo oggetto, e cioè la prestazione lavorativa dedotta in contratto, determinandone il valore qualitativo e diventando il parametro di riferimento per il corretto in- quadramento economico e normativo del lavoratore. Ogni organizzazione economica e sociale non può prescindere da una divisione del lavoro funzio- nalmente collegata al ciclo produttivo, con fasi e segmenti che presentano di- versi gradi di complessità, responsabilità e penosità. La qualifica attribuita al lavoratore (in base alle mansioni effettivamente svolte) all'interno di questa sca- la parametrale ne determina, di fatto, lo status, cioè il trattamento economico e normativo applicabile che, di norma, sarà tanto più gratificante quanto più ele- vato è il grado di professionalità connesso alla qualifica stessa.
Sul versante pratico, si rinviene spesso la distinzione fra lavoratori comuni, qualificati, specializzati e altamente specializzati e, a tal proposito, è opportuno un chiarimento terminologico: la distinzione fra lavoratori qualificati e non, non significa che questi ultimi siano privi della qualifica, bensì che le mansioni loro affidate non necessitano di particolari competenze tecnico-pratiche; tutta- via, anch'essi avranno una qualifica (assegnata al momento dell'assunzione e successivamente adeguata alle variazioni eventualmente intervenute) alla quale corrisponderà un adeguato trattamento.
Il concetto è espresso in maniera molto chiara non solo dall'art. 2103 c.c. (di cui si parlerà più diffusamente trattando il tema del mutamento di mansioni) ma anche dall'art. 96, commi 1 e 2, delle disposizioni di attuazione del codice civile, secondo cui «l'imprenditore deve far conoscere al prestatore di lavoro, al momen- to dell'assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in relazione alle man- sioni per cui è stato assunto. Le qualifiche dei prestatori di lavoro, nell'ambito di ciascuna delle categorie indicate nell'art. 2095 del codice civile, possono essere stabilite e raggruppa- te per gradi secondo la loro importanza nell'ordinamento dell'impresa. Il prestatore di la- voro assume il grado gerarchico corrispondente alla qualifica e alle mansioni».
Peraltro, va segnalato che gli attuali modelli di organizzazione del lavoro, nell'ottica della flessibilità, tendono spesso ad un allargamento delle mansioni, nel senso della polivalenza o promiscuità delle stesse. Così, si assiste di frequen- te alla stipula di accordi individuali privi di un preciso riferimento alle mansioni correlate alla qualifica assegnata, con la conseguenza che la puntuale identifi- cazione delle stesse (dunque della reale qualifica, dunque del trattamento eco- nomico e normativo), diventa spesso motivo di controversia.
Nella generalità dei casi, la determinazione dell'importanza di una particola- re qualifica all'interno dell'organizzazione aziendale è compito, più che della contrattazione individuale, di quella collettiva, che è chiamata ad operare, per ciascun settore merceologico, una classificazione tecnica delle qualifiche profes- sionali su una scala parametrale che le ponga in ordine di valore. Normalmen- te, ad ogni qualifica corrisponde un determinato livello retributivo ed un relati- vo trattamento normativo. Purtroppo, nella prassi delle relazioni sindacali, ac- cade spesso che la stessa qualifica venga elencata con riferimento a più livelli re- tributivi, a seconda del grado di autonomia e di responsabilità con cui le relative mansioni vengono espletate. Di frequente, il limite stesso di autonomia è indi- cato dalla contrattazione collettiva in maniera piuttosto sottile e, per un sogget- to esterno alla realtà produttiva, quasi impercettibile. Ancora più spesso accade che la qualifica attribuita al lavoratore non sia rinvenibile fra quelle tipizzate dal
contratto collettivo di riferimento: anche il contratto collettivo più puntuale e dettagliato, infatti, non è detto contempli tutte le possibili figure professionali di cui l'azienda si può avvalere. In tal caso, l'inquadramento andrà operato per analogia con la qualifica professionale di contenuto più affine.
Come è intuibile, tutte queste incertezze alimentano la conflittualità del la- voro, rendendo la questione del corretto inquadramento professionale del lavo- ratore particolarmente delicata.
Resta da aggiungere che la valutazione delle mansioni svolte va effettuata in senso oggettivo, avendo riguardo non alle capacità potenziali del lavoratore (la
c.d. qualifica "soggettiva", connessa alle precedenti esperienze professionali, ov- vero ai titoli di studio posseduti), ma ai compiti in concreto affidati allo stesso, con la conseguenza che, salvo diversa previsione della contrattazione collettiva, solo questi ultimi saranno giuridicamente rilevanti per il suo adeguato inqua- dramento professionale.
2.6. Lo ius variandi: limiti
2.6.1. Divieto di attribuzione a mansioni inferiori
Il datore di lavoro è libero di assumere i dipendenti che ritiene più adatti a soddisfare al meglio le sue esigenze produttive, ma, una volta stipulato il con- tratto di lavoro, non può variare liberamente le mansioni che ha loro attribuito.
Infatti, il suo ius variandi subisce pesanti limitazioni poste dalla legge a tutela del mantenimento della professionalità del lavoratore.
La materia è regolata dall'art. 2103 c.c., che stabilisce che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della re- tribuzione.
In pratica, la legge vieta il "demansionamento" del dipendente, che può ve- der crescere il proprio livello professionale nel corso del rapporto di lavoro o vederlo rimanere stazionario, ma non può essere unilateralmente adibito a mansioni corrispondenti ad un livello inferiore nella classificazione professiona- le prevista dai contratti collettivi di lavoro.
Una prima eccezione a questo principio generale è contenuta nella legge n. 223/1991, che disciplina procedure ed effetti dei processi di crisi aziendali, che possono scaturire in licenziamenti collettivi del personale, nelle imprese di una certa dimensione.
In tali casi, tramite peculiari procedure di consultazione e accordi in sede sindacale, è possibile verificare se il ricorso ai licenziamenti possa essere evita- to, almeno in parte, ricorrendo ad una diversa utilizzazione del personale nell'ambito dell'impresa.
In tal senso, può essere prevista una redistribuzione delle mansioni tra il per- sonale, sia mantenendo gli stessi livelli professionali, sia diminuendoli, in dero- ga al divieto di demansionamento.
In pratica, la legge riconosce priorità alla tutela del posto di lavoro rispetto a quella della professionalità del lavoratore, consentendo che, in gravi casi, l'ac- crescimento delle qualità professionali del dipendente passi in secondo piano.
Questo principio è stato esteso dalla giurisprudenza in maniera generalizzata a tutti i rapporti di lavoro che rischiano di estinguersi per difficoltà aziendali e possono essere "salvati" impiegando i lavoratori in mansioni di livello più bas- so, previo consenso del lavoratore stesso ovvero delle XX.XX. firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità locale interessata dalla crisi occupaziona- le.
Analoghe sentenze sono state pronunciate in favore del demansionamento
attuato per evitare la Cassa Integrazione Guadagni (si veda l’apposita sezione del Manuale), purché, anche in questo caso, il dipendente sia d'accordo con il provvedimento aziendale.
Un'altra eccezione al divieto generale è contenuta nella legge n. 68/1999 sul diritto al lavoro per i disabili, nella quale si prevede la conservazione del posto di lavoro per quei dipendenti che siano divenuti inabili durante il rapporto di lavoro a causa di infortunio sul lavoro o malattia professionale, nonché il loro impiego in mansioni equivalenti alle precedenti o, in mancanza, anche inferiori purché la retribuzione rimanga invariata.
Anche questo comprensibile principio di tutela dei lavoratori più sfortunati è stato esteso dalla giurisprudenza a tutti i lavoratori divenuti fisicamente inido- nei allo svolgimento di una mansione, i quali possono essere impiegati in azienda anche in mansioni dequalificanti al fine di evitare un licenziamento. Anche in questo caso è previsto l'accordo del dipendente.
Infine, in tema di ius variandi, si segnala che la legge sulla tutela della mater- nità (D.Lgs. n. 151/2001) prevede che le lavoratrici addette al trasporto e al sol- levamento di pesi, nonché a lavori pericolosi, faticosi ed insalubri siano obbliga- toriamente esonerate da tali prestazioni lavorative durante tutto il periodo della gravidanza e fino ai 7 mesi di età del bambino. Tali lavoratrici devono dunque essere adibite a mansioni diverse scelte dal datore di lavoro o dalla Direzione
Provinciale del Lavoro cui la donna si rivolge e che non comportino tali rischi. In tal caso, le nuove mansioni possono essere anche di livello inferiore a quelle abituali purché vengano mantenute la retribuzione e la qualifica originali. Si ri- corda che, qualora l'adibizione a mansioni diverse sia impossibile, la Direzione Provinciale del Lavoro competente può disporre l'interdizione al lavoro con il diritto al relativo trattamento assistenziale.
Al di fuori di queste eccezioni individuate dalla legge e di quelle ricostruite dalla giurisprudenza, l'attribuzione a mansioni inferiori è vietata e comporta il risarcimento del danno subito dal dipendente. Ad esempio, nei casi di svolgi- mento continuativo di mansioni inferiori, consistente riduzione dei compiti af- fidati, esautoramento dalle funzioni svolte, inattività lavorativa e, nel caso di demansionamento per motivi disciplinari, esistono tutti i presupposti per l'ac- certamento di una violazione del divieto. Peraltro, considerato che il pregiudi- zio attiene a un danno immateriale, in giudizio può assumere rilevanza anche la prova di tale danno per presunzioni, purché venga offerta una serie concate- nata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che possono descrivere puntualmente durata, gravità, conoscibilità all’interno e all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione e delle frustrazioni di aspettative di progressione professionale (così Cass. n. 5138/2011).
Sembra appena il caso di sottolineare che i limiti allo ius variandi, ex art.
2013 c.c., attengono all’ipotesi del cambio di qualifica o di mansioni in virtù di un atto unilaterale assunto dal datore di lavoro, e non riguardano l’ipotesi in cui sia la contrattazione collettiva a stabilire un diverso inquadramento. Infatti, come abbiamo visto, se spetta alla contrattazione collettiva dettare le regole del- la classificazione dei lavoratori, essa può modificare, anche in senso peggiorati- vo, gli inquadramenti contrattuali previgenti, con il solo limite della ragionevo- lezza ed esclusa la ripetizione di somme già corrisposte ed entrate nel patrimo- nio dei lavoratori (in tal senso, si veda Corte di appello di Torino, n. 327/2013).
2.6.2. Mansioni equivalenti
Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale intorno al concetto di equivalenza delle mansioni è sempre di notevole attualità, sia per la complessità e la delica- tezza dell’argomento, sia per i continui mutamenti delle concrete realtà azien- dali che comportano un diverso atteggiarsi dei contrapposti interessi.
A questo proposito, dottrina e giurisprudenza sono ormai concordi nell’affermare che l’indagine sull’equivalenza deve essere svolta non solo in ba- se ad un criterio formalistico come quello dell’inquadramento o del livello o di
categoria, ma anche con riferimento al contenuto, alla natura e al modo di svolgimento della prestazione. Va sottolineato che, negli anni novanta, parte della giurisprudenza, ponendosi in contrasto con la dottrina prevalente, aveva elaborato un concetto “statico” di professionalità, affermando che l’equivalenza è data laddove le nuove mansioni consentano la salvaguardia della specifica professionalità acquisita nello svolgimento di quelle pregresse, richiedendo a tal fine l’omogeneità tra le mansioni pregresse quelle successivamente assegnate, come se lo ius variandi fosse correttamente esercitato solo tra mansioni che ap- partengono alla stessa area professionale. Solo negli ultimi tempi la giurispru- denza si è evoluta su una concezione non più statica del concetto di equivalen- za, bensì “dinamica”, ritenendo legittima anche l’assegnazione a mansioni non del tutto identiche alle precedenti, ma comunque rientranti nella specifica com- petenza tecnico professionale del lavoratore e che non comportino un pregiudi- zio alla carriera.
Recentemente, la Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo il
quale ai fini della valutazione della sussistenza di un corretto esercizio dello ius variandi da parte del datore «il Giudice deve stabilire se le mansioni effettivamente svolte finiscano per impedire la piena utilizzazione e l’ulteriore arricchimento della profes- sionalità acquisita nella fase pregressa del rapporto, tenendo conto che non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale, in quanto tale fattispecie implica una sottrazione di mansioni tale da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del la- voratore, con una sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite e un conseguente impoverimento della sua professionalità”.
Pertanto, equivalenza non significa necessariamente identità di mansioni, potendosi chiedere al dipendente di utilizzare l’esperienza pregressa in funzioni diverse, purchè non si verifichi un sostanziale depauperamento del suo patri- monio professionale. Al contrario, si dovrà negare la legittimità dello sposta- mento del lavoratore a mansioni che richiedano un impegno di preparazione, o anche di riqualificazione, che ecceda il confine della normalità, tale da esporlo a difficoltà ed oneri troppo pesanti o, al limite, al pericolo di pregiudicare, per carenze di competenza e di esperienza professionali, l’incolumità sua e dei compagni di lavoro, nonché la sicurezza del patrimonio aziendale.
Si sottolinea, inoltre, che l’art. 2103 c.c. finisce per essere violato anche quando il dipendente, pur non essendo assegnato a mansioni inferiori, sia la- sciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, costi-
tuendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di xxxxxx- secazione della personalità del soggetto.
Sotto il profilo processuale, la Corte di Cassazione ha ribadito che qualora il dipendente ritenga di essere stato assegnato a mansioni non equivalenti, il Giu- dice di merito dovrà articolare la sua indagine in varie direzioni, verificando: l’eventuale violazione del livello retributivo raggiunto; le mansioni assegnate al lavoratore al momento dell’assunzione e quelle poi concretamente svolte; le nuove mansioni a lui affidate e la loro equivalenza con quelle precedentemente espletate, analizzate non solo in astratto rispetto all’inquadramento previsto dal Ccnl ma anche in concreto, in relazione alla competenza richiesta al lavoratore, al livello professionalità raggiunto e all’utilizzazione del patrimonio professio- nale acquisito.
Nel caso in cui venga accertata l’esistenza di un comportamento contrario all’art. 2103 c.c., il Giudice di merito, oltre a sanzionare l’inadempimento dell’obbligo contrattualmente assunto dal datore di lavoro con la condanna al risarcimento del danno, può emanare una pronuncia di condanna del datore stesso a rimuovere gli effetti che derivano dal provvedimento di assegnazione a mansioni inferiori o non equivalenti, affidando al lavoratore l’originario incari- co o un altro di natura equivalente. Il lavoratore ha inoltre la possibilità di chie- dere il risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione, o di cosiddetto “danno biologico”), ma in questo caso ne dovrà fornirne la prova, presupposto indispensabile per una sua valutazione equitativa.
2.6.3. Mansioni superiori
Lo stesso art. 2103 c.c. prevede che, nel caso di assegnazione a mansioni su- periori, il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e che l'assegnazione al livello superiore diventa definitiva, (se non ha avuto luogo per sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto) dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, comunque non superiore a tre mesi.
Pertanto, chi venga assegnato a svolgere mansioni di livello superiore a quel- le precedenti ha diritto da subito a percepire la retribuzione del nuovo livello, anche se la prestazione delle nuove mansioni è caratterizzata dalla temporanei- tà.
Al rientro nelle proprie mansioni viene a cessare l'obbligo di retribuzione superiore; se, tuttavia, l'assegnazione alle mansioni superiori avviene per un pe-
riodo più lungo di quello stabilito dalla contrattazione collettiva, tale mutamen- to diventa definitivo ed il lavoratore acquisisce irrevocabilmente il trattamento economico e normativo del nuovo livello. Il periodo di tempo oltre al quale l'as- segnazione diventa definitiva, comunque, non può essere superiore a 3 mesi.
Varie sentenze hanno stabilito che, nel caso di più assegnazioni a mansioni superiori per periodi inferiori a 3 mesi, scatta il diritto alla qualifica superiore se l'azienda ha artificiosamente tentato di eludere l'obbligo di legge, mentre è am- missibile tale comportamento se soddisfa una reale necessità organizzativa aziendale.
È comunque sottratto all'obbligo di superiore inquadramento il caso in cui l'assegnazione alle mansioni superiori avvenga per la sostituzione di un dipen- dente assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro.
In tale caso, indipendentemente dalla durata della sostituzione, il dipendente assegnato alle mansioni superiori ha diritto alla retribuzione più alta del nuovo livello, ma non alla definitività dell'attribuzione del nuovo inquadramento, do- vendo ritornare al precedente livello al rientro del lavoratore assente.
Sul punto, la giurisprudenza ha avuto modo di riconoscere la sussistenza di tale fattispecie, oltre che nei casi classici di malattia, maternità, infortunio, an- che in caso di lavoratori assenti perché:
- in ferie;
- inviati a seguire un corso di perfezionamento professionale;
- sospesi in C.I.G. (a prescindere dall'ulteriore problema della legittimità o no del provvedimento di sospensione).
Di contro, è stata negata la sussistenza della fattispecie di "lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto" in caso di:
- lavoratori in permesso retribuito;
- lavoratori presente in azienda, ma assegnati temporaneamente ad altre mansioni per motivi di salute.
Infine, sempre in tema di adibizione a mansioni superiori, si segnala che, se- condo la giurisprudenza prevalente, mentre l'assegnazione provvisoria può ge- neralmente essere disposta dall'imprenditore senza il consenso del dipendente interessato, per contro, l'assegnazione definitiva a mansioni superiori (c.d. pro- mozione unilaterale) può avvenire solo con il consenso dell'avente diritto.
Per concludere, lo ius variandi del datore di lavoro deve essere valutato in ba- se alla legittimità dell'ordine impartito; da tale valutazione dipenderà anche l’eventuale legittimità del rifiuto del dipendente di adeguarsi a tale ordine: se il mutamento di mansioni è illegittimo (perché le nuove mansioni non sono equi-
valenti o sono deteriori rispetto a quelle ricomprese nella qualifica contrattuale), il lavoratore potrà rifiutarsi di adempiere ai propri obblighi senza che tale rifiuto possa integrare una ipotesi di insubordinazione, purché sia disposto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto o altre equivalenti; se invece l'assegna- zione del lavoratore ad altre mansioni è legittima (in quanto, oltre a rispettare l'inquadramento contrattuale e il livello retributivo iniziale, consente lo svolgi- mento di mansioni equivalenti), il lavoratore non può rifiutarsi di adempiere la prestazione, in quanto tale comportamento concretizzerebbe una violazione degli obblighi contrattuali che potrebbe - nei casi più gravi - legittimare il licen- ziamento disciplinare, se non anche la richiesta di risarcimento del danno da parte dell'imprenditore.
2.7. Le categorie legali
Se la qualifica, individuata attraverso le mansioni in concreto espletate, co- stituisce la posizione giuridica fondamentale (dalla quale derivano diritti e do- veri) del lavoratore all'interno dell'impresa, le quattro categorie degli operai, impiegati, quadri e dirigenti, indicate dall'art. 2095 c.c., rappresentano la classi- ficazione storica operata dal Legislatore per valutare l'importanza e la qualità del lavoratore subordinato. Le quattro categorie legali e, soprattutto, quella de- gli operai e degli impiegati, raggruppano al loro interno una serie di qualifiche affini per contenuto professionale e conservano la loro ragion d'essere poiché la legge prevede ancora oggi notevoli differenze di trattamento fra di esse. In par- ticolare, la disciplina previdenziale e assistenziale contempla differenti regimi di contribuzione e diversità di trattamento in ordine alle prestazioni erogate a se- conda che si tratti di operai, impiegati o dirigenti. Perciò, anche se la classifica- zione operata dall'art. 2095 c.c., sul piano contrattuale, può dirsi per certi versi superata, sul piano previdenziale rimane invece importante stabilire se il lavora- tore sia da considerare un operaio o un impiegato.
Il R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825, aveva provveduto a definire l'impiega- to come colui che svolge "attività professionale con funzioni di collaborazione, tanto di concetto che di ordine, eccettuata pertanto ogni prestazione che sia semplicemente di manodopera". A tale definizione, si è sovrapposta quella con- tenuta nella disciplina codicistica del 1942 (art. 2094 e seg. c.c.), dalla cui lettu- ra ne è derivata la convinzione, efficace ma semplicistica, che gli operai fossero prevalentemente addetti ad attività manuali, mentre gli impiegati svolgessero mansioni di carattere più intellettuale. Tale convinzione può considerarsi tut-
tavia obsoleta, non fosse altro per il fatto che, nelle realtà produttive più recenti, non è infrequente imbattersi in impiegati che svolgono attività monotone e ripe- titive e, invece, in operai (qualificati o specializzati) ai quali è richiesto un inge- gno non indifferente.
Perciò la giurisprudenza, rivisitando la definizione fornita dal citato R.D.L.
n. 1825/1924, ha iniziato ad indicare, quale oggetto dell'attività impiegatizia, quello dell'organizzazione della produzione, piuttosto che quello della produ- zione in sé, riservato agli operai. In tal modo, ne esce rafforzato il concetto di collaborazione dell'impiegato con l'imprenditore, organizzatore per eccellenza.
La dottrina ha ulteriormente precisato il concetto, introducendo una sottile distinzione fra l'attività degli impiegati e quella degli operai, laddove i primi col- laborano "alla" impresa, mentre i secondi collaborano "nella" impresa: in so- stanza, mentre l'oggetto del lavoro dell'operaio sarebbe relativo alla vera e pro- pria produzione, quello dell'impiegato sarebbe maggiormente diretto all'orga- nizzazione della stessa. In realtà, però, anche questa definizione non appare del tutto convincente e, probabilmente, occorre adottare una soluzione intermedia, facendo riferimento al tipo di collaborazione prestata dal lavoratore: nel rapporto impiegatizio, essa assume i caratteri della collaborazione specifica al processo or- ganizzativo (tecnico o amministrativo) dell'impresa e di cooperazione in senso lato (sostitutiva o integrativa) all'attività dell'imprenditore; sono invece ineren- ti alle mansioni operaie le prestazioni che attengono al processo meramente ese- cutivo, anche se non privo talora di una certa discrezionalità e di apporto intellet- tuale. Ad ogni modo, il problema non va neppure sopravvalutato, in quanto, nel- la maggior parte dei contratti collettivi, la distinzione delle mansioni ascrivibili agli operai e agli impiegati è descritta in maniera sufficientemente chiara e, peral- tro, è lo stesso art. 2095 c.c. che rinvia all'autonomia collettiva il compito di de- terminare i requisiti di appartenenza alle diverse categorie.
Sotto il profilo storico, occorre evidenziare che la contrattazione collettiva, proprio nel tentativo di superare la distinzione fra le categorie professionali e smorzare i conflitti sociali, a partire dagli anni `80, ha iniziato ad adottare un nuovo sistema di classificazione professionale, fondato su una pluralità di livelli, comuni sia alla categoria degli impiegati che a quella degli operai, in cui tale personale è ordinato in una stessa scala di valori detta "inquadramento unico". Tale sistema introduce un rapporto di equivalenza economica e normativa fra impiegati e operai il cui grado di responsabilità e la cui complessità delle mansioni, pur nella loro diversità oggettiva, li rende meritevoli di trattamenti analoghi.
La categoria dei quadri (o intermedi), istituita con la legge 13 maggio 1985,
n. 190, è costituita dai "prestatori di lavoro subordinato che, pur non apparte- nendo alla categoria dei dirigenti, svolgono funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell'attuazione degli obiettivi dell'impresa" (art. 2). In sostanza si tratta di impiegati di livello apicale, che spesso fungono da anello di collegamento fra la dirigenza e le categorie esecuti- ve e che, pertanto, sono necessari nelle aziende di una certa dimensione. Il loro trattamento è molto simile a quello degli impiegati, pur godendo di retribuzioni più elevate e di indennità connesse alla funzione svolta.
Per quanto riguarda la figura del dirigente, per la peculiarità della figura professionale e del relativo trattamento, si rimanda all'apposito capitolo.
2.8. Poteri del datore di lavoro: direttivi, organizzativi, di controllo
2.8.1. Il potere direttivo
Si è visto che il connotato essenziale della fattispecie tipica di lavoro subor- dinato consiste nell’assoggettamento del lavoratore alla direttive impartite dal datore di lavoro e al connesso potere di controllo di quest’ultimo sulla confor- mità della prestazione a tali direttive.
Prima di affrontare nello specifico le regole che disciplinano il rapporto di lavoro e i diritti del lavoratore, è opportuno, però, capire come materialmente il datore di lavoro possa esercitare i suoi poteri rispetto al proprio dipendente e, soprattutto, quali siano i limiti posti dall’ordinamento a tale esercizio. Conte- stualmente, occorrerà valutare quali siano i doveri generali del lavoratore verso il proprio datore di lavoro che ne rendono meritevole di tutela la relativa posi- zione giuridica.
Il generale potere di organizzazione dell'attività dell'impresa, garantito dall'art. 41 della Costituzione, si esplica attraverso la possibilità, per il datore di lavoro, di impartire tutte le disposizioni necessarie a garantire l'esecuzione della prestazione e la disciplina del lavoro.
In questo senso, gli atti posti in essere dal datore possono essere esercitati di- rettamente, ovvero mediante propri collaboratori, gerarchicamente organizzati e comunque sempre facenti capo, in ultima istanza, all’imprenditore.
Per inquadrare l'argomento sotto l'aspetto normativo, è necessario accennare a quanto già dettato dalla Costituzione e dal Codice Civile, sottolineando come si tratti di una materia disciplinata da fonti che risultano essere ai vertici della
gerarchia, pur rimanendo la definizione di alcuni aspetti specifici demandata a disposizioni legislative successive e alla contrattazione collettiva.
Oltre al già citato articolo 41 della Costituzione, secondo cui la libertà di iniziativa economica privata trova gli unici limiti nella sua stessa utilità sociale e nella tutela della sicurezza, libertà e dignità umana, il Codice Civile precisa più nel dettaglio il concetto di gerarchia all'interno dell'impresa, laddove (art. 2086) viene precisato che l'imprenditore è il "capo" dell'impresa e che da lui "di- pendono gerarchicamente" i suoi collaboratori. Specularmente, si ricorda che l'ar- ticolo 2094 c.c. definisce appunto il prestatore di lavoro come colui che presta il proprio lavoro “alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore”.
Si tratta di concetti inequivocabili, dai quali discende e si evince l'essenza del potere direttivo riconosciuto all'imprenditore.
Anche l'art. 2104, comma 2, concorre a precisare i concetti, in quanto de- termina e delimita il contenuto del potere direttivo, stabilendo che il prestatore di lavoro subordinato deve osservare le disposizioni per l'esecuzione e la disci- plina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali dipende gerarchicamente. Infatti, specie nelle imprese di maggiori dimen- sioni, l'esercizio del potere in oggetto viene spesso attribuito in parte più o me- no ampia ad alcuni collaboratori dell'imprenditore, tra i quali, innanzitutto, i dirigenti.
Il potere direttivo è però consentito, e può essere legittimamente esercitato, solo se ed in quanto necessario allo svolgimento del rapporto di lavoro; pertan- to, il datore di lavoro può impartire direttive, ed il lavoratore è tenuto ad osser- varle, solo per quanto attinente alla realizzazione degli obblighi contrattuali.
Il potere direttivo, dunque, si configura come situazione soggettiva del dato- re di lavoro quale creditore della prestazione lavorativa e, per contro, come manifestazione di un'autorità di tipo gerarchico che compete all'imprenditore nella sua qualità di capo dell'impresa, in quanto pienamente responsabile di essa.
Il concetto di potere direttivo si può scindere nel potere di impartire ordini per l'esecuzione della prestazione di lavoro (c.d. potere di conformazione o di specificazione, direttivo in senso stretto), nel potere organizzativo, inteso come insieme di poteri volti a regolare l'attività aziendale e nel potere disciplinare, necessario ad assicurare la correttezza dei comportamenti nei luoghi di lavoro attraverso l’applicazione di particolari sanzioni.
Con il potere di conformazione, il datore di lavoro determina in concreto quale attività deve svolgere il lavoratore affinché la generica obbligazione di la- vorare dedotta in contratto in relazione alla qualifica ed alle mansioni assegnate
possa trovare utile e concreta esplicazione. Ovviamente, tale potere deve essere esercitato nel rispetto della disciplina legislativa e contrattuale, osservando le limitazioni da queste poste al datore di lavoro. Così, nell'esercizio di questo po- tere, l'imprenditore non potrà, ad esempio, diramare disposizioni che violino le norme relative all’igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro, che ledano la persona- lità del lavoratore o che comunque pongano in pregiudizio i diritti dei lavorato- ri e della collettività.
Il potere organizzativo, invece, si sostanzia nella facoltà di strutturare l’attività produttiva e, con essa, il lavoro dei propri dipendenti, nella maniera ri- tenuta più idonea a raggiungere il risultato desiderato o l’oggetto sociale, non- chè nel dettare disposizioni finalizzate a realizzare una corretta convivenza all'interno dell'impresa. Ad esempio, appartiene alla sfera organizzativa il pote- re di variare le mansioni dei lavoratori, di trasferirli o spostarli da un reparto all’altro, di regolarne i turni e l’orario di lavoro, ovvero le modalità di accesso e di uscita dal lavoro. E’ evidente che anche tale facoltà incontra dei limiti di va- ria natura, posti dall’Ordinamento a tutela del soggetto debole del rapporto: il lavoratore singolo ovvero associato ad una struttura sindacale.
2.8.2. Il potere di controllo
Il potere direttivo e quello organizzativo rimarrebbero tuttavia privi di forza qualora al datore di lavoro non fosse consentito di controllare l’applicazione delle proprie disposizioni e di sanzionare eventuali inadempienze da parte di coloro ai quali tali direttive sono rivolte.
Infatti, il potere direttivo, inteso come potere di pianificare la fase esecutiva del rapporto di lavoro, non è di per sé sufficiente ad assicurare la piena soddi- sfazione dell'interesse del datore di lavoro quale creditore della prestazione la- vorativa. E’ necessario, dunque, che il datore di lavoro possa effettivamente ve- rificare che le prestazioni dei lavoratori siano eseguite secondo le direttive im- partite, che le regolamentazioni aziendali siano rispettate e che la proprietà aziendale sia tutelata da azioni di diversa natura.
In generale, il potere disciplinare, come il potere direttivo, trova i suoi limiti nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza, nel divieto di discriminare i lavoratori, nell'obbligo di garantirne l'idonea sicurezza fisica predisponendo le idonee misure di prevenzione degli infortuni.
Tuttavia, per porre limiti più specifici e concreti ai poteri di controllo e per assicurare il rispetto della libertà, dignità e riservatezza del lavoratore, la legge 20 maggio 1970, n. 300, nota come “Statuto dei lavoratori”, ha posto al datore
di lavoro una serie di limiti e divieti, che possono essere così sintetizzati: vi è, innanzitutto, il divieto di utilizzo di sistemi o impianti audiovisivi, di localizza- zione e di altri apparecchi finalizzati alla vigilanza sull'attività lavorativa (art. 4, legge n. 300/1970). Sono da ricomprendere fra tali impianti anche le apparec- chiature di controllo richieste da esigenze organizzative o produttive, ovvero dalla sicurezza del lavoro. Il divieto è operante a meno che l'installazione di tali impianti sia richiesta da obiettive esigenze organizzative e produttive o di sicu- rezza del lavoro e che l'utilizzo di tali impianti sia stato oggetto di accordo tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali. In difetto di accordo, provvede la Direzione territoriale del lavoro su istanza del datore di lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l'uso di tali impianti. A fronte di numerose richieste di semplificazione delle procedure di autorizzazione all’uso di impianti audiovisi- vi nei luoghi di lavoro, la Direzione generale per l’attività ispettiva del Ministe- ro del lavoro è intervenuta con la Nota protocollo n. 37/0007162 del 16 aprile 2012. L’obiettivo ministeriale è stato quello di favorire l’installazione dei siste- mi di controllo a distanza in quegli esercizi commerciali con elevata incidenza di episodi criminosi (ricevitorie, tabaccherie, oreficerie, farmacie, edicole, di- stributori di carburante) dove peraltro non ci sono rappresentanze sindacali, in- dirizzando, allo stesso tempo, il personale ispettivo verso attività maggiormente finalizzate alla lotta al sommerso o alla verifica del controllo delle norme sulla sicurezza, piuttosto che al sopralluogo preventivo nei suddetti locali. In quest’ottica, il Ministero ha chiarito che le Direzioni territoriali del lavoro po- tranno rilasciare i provvedimenti di autorizzazione all’installazione di sistemi di videosorveglianza senza alcun accertamento tecnico preventivo.
Altro tipo di controllo (piuttosto in voga di recente) è quello attuato median-
te l’utilizzo di investigatori privati. Sul punto, si segnala che è ormai opinione diffusa nella giurisprudenza di legittimità che sia lecito servirsi di investigatori privati, anche infiltrati come clienti, per sorvegliare i propri dipendenti. Tale prassi non violerebbe i principi dello Statuto dei lavoratori, che vieta solo i con- trolli a distanza (Cass., sentenza n. 23303/2010). Tuttavia, secondo una recente pronuncia di legittimità (Cass., sez. lav., n. 1423/2012), il controllo occulto da parte di investigatori privati sarebbe legittimo solo se finalizzato all’accertamento di illeciti inerenti al patrimonio aziendale e non potrebbe ri- guardare, in nessun caso, né l’adempimento, né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore. Del resto, oggigiorno, la questione del controllo dei lavoratori non attiene solo alla sfera professionale degli stessi, ma coinvolge anche aspetti legati alla loro vita privata e, dunque, tutto ciò che è
attinente alla protezione della loro privacy, a norma del D.Lgs. n. 196/2003; trattandosi di materia in continua evoluzione, sia per motivi di carattere tecno- logico, che per la notevole diversificazione delle relazioni umane (si pensi, ad esempio, al fenomeno dei social network, o all’utilizzo ormai consueto della po- sta elettronica, delle chat e dei telefoni aziendali), ne deriva che il controllo del datore di lavoro sarà soggetto, di volta in volta, anche ai provvedimenti assunti in materia dal Garante per la privacy.
La legge, inoltre, stabilisce il divieto di utilizzare guardie giurate per control- lare l'attività lavorativa dei dipendenti (art. 2, legge n. 300/1970). Le guardie giurate possono essere utilizzate soltanto per la vigilanza e la tutela del patri- monio aziendale, e non possono avere accesso, durante l'orario di lavoro, ai lo- cali in cui questa è svolta se non occasionalmente e per specifiche e motivate esigenze attinenti le loro esclusive funzioni.
Sempre lo Statuto dei lavoratori prevede il divieto di effettuare perquisizioni a carico del lavoratore, ad eccezione dei casi indispensabili di tutela del patri- monio aziendale (art. 6, legge n. 300/1970). L'indispensabilità delle visite per- sonali di controllo deve essere valutata, secondo la giurisprudenza, in relazione alla specie ed al valore economico delle cose che si vogliono proteggere e valu- tando la possibilità di ricorrere a diversi mezzi di controllo legalmente e tecni- camente attuabili in via alternativa; devono inoltre essere operate salvaguar- dando la dignità e la riservatezza del lavoratore, eseguite all'uscita dei luoghi di lavoro ed effettuate con modalità concordate dal datore di lavoro con le rappre- sentanze sindacali aziendali. Inoltre, si segnala che, a parere del Ministero del Lavoro, per "visite personali di controllo" si devono intendere quelle aventi ad oggetto la persona del lavoratore e tutto quanto attiene agli effetti personali ed involucri che normalmente l'accompagnano. Non costituirebbero invece "visite personali", quelle aventi ad oggetto pacchi, scatole e ogni altro oggetto che - non essendo di pertinenza diretta del lavoratore - l'azienda potrebbe comunque sottoporre a controllo, imponendone il deposito, l'apertura ovvero impedendo- ne l'introduzione nei locali aziendali. Ne deriva che, in quest'ultimo caso, le vi- site di controllo possono essere effettuate anche in assenza delle condizioni sta- bilite dalla legge, ma solo nel rispetto dei generali obblighi di correttezza e buo- na fede. Sono parimenti vietati gli accertamenti sanitari effettuati direttamente o mediante medico di propria fiducia circa l'idoneità al lavoro dei propri dipen- denti o le condizioni di salute in caso di malattia o infortunio. Tali controlli possono essere effettuati solo utilizzando strutture sanitarie pubbliche. Al ri- guardo, la giurisprudenza ha affermato che i risultati degli accertamenti sanitari
non possono essere utilizzati se condotti esclusivamente nella fase acuta della malattia.
Va infine ricordato, a proposito dei divieti posti ai poteri del datore di lavo- ro, il divieto di effettuare accertamenti e controlli sulle opinioni e sulla vita pri- vata dei lavoratori. In questo senso, l'art. 21 della Costituzione riconosce il di- ritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e con ogni mezzo di diffusione; tale concetto è stato ripreso e ribadito dallo Statuto dei lavoratori che, da un lato, sancisce, all'art. 1, il diritto dei lavoratori di mani- festare liberamente il proprio pensiero nei luoghi in cui prestano la loro opera e, dall'altro, all'art. 8, vieta al datore di lavoro di svolgere indagini sulle opinioni politiche, religiose o sindacali dei lavoratori, anche a mezzo di terzi, ai fini dell'assunzione o nel corso del rapporto a meno che non si tratti di indagini ne- cessarie per valutare l'attitudine professionale del lavoratore. Sia ai fini dell'as- sunzione, che nel corso del rapporto, al datore di lavoro è quindi vietato com- piere indagini (direttamente o a mezzo di terzi) su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore.
2.9. Obblighi del lavoratore: obbedienza, diligenza, fedeltà e non concorrenza
Il sorgere del rapporto di lavoro comporta per il lavoratore, come abbiamo visto, l'obbligo di offrire la propria prestazione lavorativa in conformità alle mansioni assegnate, in base all'orario concordato e nel luogo stabilito. A questa obbligazione principale, si affiancano però altri aspetti che costituiscono obbli- ghi accessori, anch'essi disciplinati dall'articolo 2104 c.c. e identificabili negli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà.
Quanto al concetto di diligenza, è bene precisare che il lavoratore, nello svol- gimento della sua attività, deve adempiere la prestazione dovuta con la diligen- za richiesta dalla natura della prestazione stessa e dall'interesse dell'impresa.
A questo proposito, la giurisprudenza ha precisato (Cass. 22 maggio 2000,
n. 6664) che la diligenza consiste nell'esattezza e scrupolosità nello svolgere il proprio lavoro e dipende dalle mansioni assegnate: ad esempio, la diligenza ri- chiesta ad un impiegato d'ordine avrà connotati diversi da quella pretesa da un dirigente. Quindi, il grado di diligenza necessario non può essere individuato utilizzando il criterio astratto della diligenza dell'uomo medio (di cui all'art. 1176 c.c.), ma deve essere valutato in concreto, in relazione al livello di qualifi- ca professionale del dipendente, alla natura delle incombenze affidategli ed alle
particolari difficoltà che si presentino per il loro espletamento, considerando non solo l'esecuzione della prestazione principale, ma anche le mansioni acces- sorie che siano strumentali per il raggiungimento del risultato finale richiesto.
La diligenza deve però essere messa in relazione anche con le esigenze or- ganizzative dell'impresa, dovendosi considerare la prestazione come diligente- mente effettuata solo se la stessa può essere coordinata e integrata con il lavoro degli altri lavoratori. La valutazione della diligenza è rimessa al datore di lavo- ro e costituisce espressione del suo potere discrezionale, soprattutto per quanto concerne il concetto di interesse aziendale, con il limite posto però dai principi civilistici di buona fede e correttezza, che devono essere posti a base della valu- tazione della prestazione.
La violazione dell'obbligo di diligenza costituisce una forma di inadempi- mento all'obbligazione contrattuale e può essere fonte di responsabilità discipli- nare; in particolare, a seconda della gravità riscontrata nell'inadempimento, può avere come conseguenza l'irrogazione di sanzioni disciplinari e, nei casi più gravi, l'intimazione del licenziamento ovvero l'obbligo del lavoratore di risarcire il datore di lavoro a titolo di responsabilità contrattuale del danno eventualmen- te riconducibile alla sua negligente condotta.
L'onere di obbedienza è invece previsto dall'art. 2104, comma 2, c.c. e va inte- so come dovere di osservanza delle disposizioni impartite per l'esecuzione e la disciplina del lavoro dall'imprenditore o dai collaboratori gerarchicamente so- vraordinati al dipendente.
L'obbligo di obbedienza è quindi direttamente collegato al potere direttivo del datore e ne rappresenta l'aspetto visto dalla parte del lavoratore.
Anche la sua violazione può dar luogo all'irrogazione di sanzioni disciplina- ri, sempre che siano legittime le disposizioni impartite dal datore di lavoro. A questo proposito, il limite specifico all'obbligo consente di non dar corso a ordi- ni illegittimi ricevuti, così come (in base a principi giurisprudenziali) non è san- zionabile il rifiuto del lavoratore di eseguire l'ordine di svolgere in via ordinaria mansioni inferiori a quelle originariamente attribuitegli.
L'obbligo di fedeltà, previsto a carico del lavoratore dall'art. 2105 c.c., com- porta l'osservanza da parte del lavoratore del divieto di trattare affari per conto proprio o di terzi in contrasto o in concorrenza con l'imprenditore, come pure il divieto di divulgare notizie riguardanti l'organizzazione e i metodi di produzio- ne, oppure di farne uso in modo pregiudizievole: è quindi volto a tutelare l'inte- resse dell'imprenditore alla capacità di concorrenza dell'impresa e si caratterizza
per il suo contenuto negativo, nel senso che impone al lavoratore di xxxxxxxsi dal tenere determinati comportamenti.
La giurisprudenza ha inoltre ampliato il concetto, considerando la fedeltà come l'obbligo di tenere un comportamento leale per salvaguardare il datore di lavoro contro il possibile uso pregiudizievole delle notizie o informazioni di cui il lavoratore viene a conoscenza durante lo svolgimento della sua attività, con l'obbligo di rispettare tale obbligo anche al di fuori dell'orario e del luogo di la- voro. In generale quindi il lavoratore si deve astenere non solo da quei compor- tamenti espressamente vietati dall'art. 2105 c.c., ma anche da qualsiasi altra condotta che, per la natura e le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizza- zione dell'impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della stessa.
Anche la violazione dell'obbligo di fedeltà è fonte di responsabilità discipli- nare e come tale, quando determini un danno al datore di lavoro e quest'ultimo sia in grado di fornirne la prova, del relativo obbligo risarcitorio.
Strettamente connesso al dovere di fedeltà è l’obbligo di non concorrenza. L'articolo 2125 c.c. dispone infatti che il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, nel mede- simo settore produttivo o commerciale.
Il concetto di concorrenza assume un valore molto ampio, non avendo rilie- vo il fatto che l'attività concorrenziale non sia qualificabile come concorrenza sleale ai sensi dell'art. 2598 c.c.; quest'ultima norma, infatti, fa riferimento alla concorrenza tra imprenditori o comunque tra soggetti non legati da alcun rap- porto giuridico, mentre l'art. 2125 c.c. vieta invece al lavoratore qualsiasi attivi- tà concorrenziale, ancorché lecita, che generi una situazione di pericolo o un pregiudizio per l'impresa.
La concorrenza vietata dall'art. 2125 c.c. può essere svolta dal lavoratore personalmente, per interposta persona o ponendosi al servizio di terzi. In quest'ultima ipotesi, però, occorre che il contributo fornito dal lavoratore alla seconda impresa riesca ad incrementare il grado di intensità della concorrenza che questa svolge nei confronti dell'altra impresa dalla quale dipende il lavoratore.
2.10. Il patto di non concorrenza
L’obbligo di fedeltà e di non concorrenza persiste, ovviamente, fintanto che dura il rapporto di lavoro, non potendosi imputare alcunchè al dipendente il cui rapporto di lavoro sia cessato e che abbia deciso di intraprendere, ad esempio, un’attività in concorrenza con il precedente datore di lavoro, magari proprio utilizzando l’esperienza maturata nella sua azienda.
Per tale motivo, in alcuni casi può essere utile vincolare il dipendente all’obbligo di fedeltà anche allorchè il rapporto di lavoro sia cessato.
Quest'ultima facoltà, contemplata sempre dall'articolo 2125 c.c., si può eser- citare stipulando un patto di non concorrenza tra il datore di lavoro ed il lavorato- re.
All'atto dell'assunzione, o anche nel corso del rapporto, le parti hanno facol- tà di stipulare un atto attraverso il quale si conviene la limitazione dello svolgi- mento dell'attività del prestatore di lavoro nel settore in cui opera l'impresa suc- cessivamente alla cessazione del rapporto, per un periodo la cui durata non può essere superiore a 5 anni se si tratta di dirigenti ed a 3 anni negli altri casi.
La legge richiede a pena di nullità la forma scritta con riferimento al corri- spettivo, ai limiti di luogo, di tempo e all'oggetto (se non è indicata per iscritto la durata del patto o se è indicata una durata maggiore si applicano i limiti pre- visti dalla legge); il patto, infatti, deve risultare contenuto nel tempo, nell’oggetto e nel territorio di applicazione, in modo da consentire al prestatore di lavoro, dopo la cessazione del rapporto, un margine di attività non coperta dal vincolo che gli assicuri un guadagno idoneo ad appagare le esigenze proprie e quelle della sua famiglia. In quest’ottica, deve essere pattuito un corrispettivo a favore del lavoratore, il cui ammontare deve tenere conto di quanto risulti li- mitata la capacità di guadagno del lavoratore per effetto dei limiti previsti dal patto di non concorrenza alla sua futura attività lavorativa.
La violazione del patto di non concorrenza fa sorgere a carico del soggetto inadempiente l'obbligo del risarcimento del danno a titolo di inadempimento contrattuale.
2.11. Il potere disciplinare
2.11.1. Natura e finalità
Focalizzate le caratteristiche generali dei poteri datoriali, nonchè le modalità secondo cui la prestazione di lavoro subordinato andrebbe espletata, è evidente che, nel caso in cui le legittime direttive aziendali venissero disattese, ovvero
nel caso in cui il comportamento del lavoratore non risultasse conforme agli obblighi legalmente o contrattualmente previsti, il datore di lavoro può ricorrere all'applicazione di provvedimenti disciplinari, in virtù di un potere dai parame- tri e caratteri non sempre definiti, e che trova comunque giustificazione nella gerarchia insita in ogni organizzazione lavorativa.
Per completare dunque l’esame della fattispecie tipica del lavoro subordina- to, sembra opportuno affrontarne l’aspetto che, in definitiva, lo caratterizza ri- spetto alle altre tipologie di lavoro e che, in qualche modo, chiude il cerchio, es- sendo, da solo, in grado di dissipare ogni dubbio circa la natura del rapporto.
Abbiamo visto che la correlazione dei già esaminati artt. 2104, 2105 e 2106
c.c. definisce il contesto normativo del potere disciplinare: i tre articoli, stretta- mente collegati tra loro, contengono dapprima l'indicazione degli obblighi del lavoratore subordinato nell'esecuzione del contratto: diligenza, osservanza delle disposizioni impartite dall'imprenditore e dei suoi collaboratori gerarchici, di- sciplina del lavoro, fedeltà, divieto di concorrenza, riservatezza; quindi (art. 2106 c.c.) viene espressamente previsto che l'inosservanza degli obblighi sopra citati da parte dei lavoratori possa dar luogo all'applicazione di sanzioni disci- plinari graduate in base alla gravità dell'infrazione stessa.
Se con la legge n. 604/1966, in materia di licenziamenti individuali, si era già avuto un ulteriore intervento in materia di potere disciplinare, è solo nel 1970, con la citata legge n. 300 del 20 maggio, che il Legislatore affronta in modo più approfondito le tematiche legate al potere disciplinare del datore di lavoro, indicando per la prima volta in dettaglio (all'art. 7) ogni singola fase dell'iter disciplinare a cui si deve attenere l'imprenditore.
La norma, come tutto il complesso della legge n. 300/1970, ha rappresenta- to una radicale innovazione del sistema, tanto da richiedere anni affinché la sua applicazione pratica diventasse prassi consolidata, creando anche nei primi an- ni di attuazione orientamenti giurisprudenziali contrastanti sui vari elementi dell'art. 7 medesimo, e richiedendo in più occasioni l'intervento della Corte Co- stituzionale chiamata a fornire indicazioni chiare ed univoche.
Dopo il primo - comprensibile - periodo di assestamento, si può comunque affermare che i principi generali sono oggi sufficientemente assodati e certi.
Pur mancando quindi nelle fonti del diritto una specifica definizione del po- tere disciplinare, questo può essere inteso come il potere del datore di far assi- curare il rispetto dell'organizzazione gerarchica dell'impresa, riaffermando l'au- torità dello stesso di imporre "pene" private nei confronti del lavoratore quando
quest'ultimo ponga in essere comportamenti costituenti violazioni degli obbli- ghi legali o contrattuali.
2.11.2. Il codice disciplinare
L'esercizio del potere disciplinare è condizionato al rispetto di regole e pro- cedure particolarmente rigorose, la prima delle quali è quella della trasparenza e della correttezza. Infatti, secondo un principio generale di civiltà (nulla poena sine lege) mutuato dall'Ordinamento penale, non è giusto esercitare un'azione sanzionatoria nei confronti di un soggetto che non sia a conoscenza dei com- portamenti ritenuti scorretti all'interno di un contesto sociale, delle pene previ- ste a fronte di tali comportamenti e delle modalità per difendersi.
L'applicazione di tale fondamentale principio (e dei suoi corollari) è garanti- ta dall'art. 7 della legge 30 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori), che sta- bilisce, innanzitutto, che «le norme relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo ac- cessibile a tutti" (comma 1). Lo stesso comma precisa che tali norme "devono ap- plicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano».
Si tratta, per l'appunto, del c.d. "codice disciplinare", una sorta di regolamen- to interno che ogni azienda è chiamata necessariamente ad adottare per poter esercitare eventuali azioni disciplinari nei confronti dei propri dipendenti.
Naturalmente, il contenuto del codice disciplinare andrà adattato allo speci- fico contesto produttivo, poiché la rilevanza disciplinare di un determinato comportamento può essere diversa da azienda ad azienda o addirittura fra i re- parti di una stessa impresa: si pensi, ad esempio, all'importanza di presentarsi sul lavoro con un aspetto perfettamente curato e decoroso per un'azienda (o un suo reparto) i cui dipendenti lavorino a costante contatto col pubblico e, invece, alla relativa irrilevanza di tale fattore all'interno di una realtà produttiva che ri- manga comunque isolata dall'esterno. Perciò, il contenuto del codice, almeno per ciò che riguarda i comportamenti disciplinarmente rilevanti, dovrà essere accuratamente predisposto dall'azienda sulla base delle proprie esigenze, tenen- do presente che, per quanto riguarda la correlazione delle sanzioni, non ci si po- trà discostare dalle previsioni del contratto collettivo di riferimento, laddove applicato.
Non è tuttavia indispensabile che il codice contenga una precisa e sistemati-
ca previsione delle singole infrazioni (anche se ciò è preferibile), delle loro varie graduazioni e delle corrispondenti sanzioni, essendo sufficiente una proporzio-
nata correlazione tra le singole ipotesi di infrazione, sia pure di carattere sche- matico e non dettagliato, e le corrispondenti previsioni sanzionatorie; queste ul- time, infatti, possono essere suscettibili di attuazione discrezionale ed adatta- mento secondo le concrete ed effettive inadempienze del lavoratore, nel rispetto del principio per cui le sanzioni disciplinari devono avere un grado di specificità sufficiente ad escludere che la collocazione della condotta del lavoratore nella fattispecie disciplinare sia interamente devoluta ad una valutazione unilaterale ed arbitraria del datore di lavoro (Cass. n. 7370/1996).
In altre parole, poiché le sanzioni disciplinari rivestono una funzione di pre- sidio all'ordinata e funzionale attività aziendale, non è necessario che il codice disciplinare contenga una previsione rigorosa e formalistica delle inadempienze e delle correlate sanzioni, simile a quella dell'Ordinamento penale dello Stato, ma è invece sufficiente una forma di redazione che renda chiare le ipotesi di in- frazione, sia pure dandone una nozione schematica e non dettagliata nelle pos- sibili azioni del singolo, e che indichi le relative previsioni sanzionatorie in mo- do tale da sgombrare il campo da arbitrii da parte datoriale (Cass. n. 4247/1985). Le sanzioni normalmente previste sono, in ordine crescente di gravità:
- il rimprovero verbale;
- il rimprovero scritto o nota di demerito;
- la multa, per un importo che non può eccedere le 4 ore di retribuzione;
- la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per un massimo di dieci giorni;
- il licenziamento.
In merito al requisito di pubblicità del codice disciplinare, la giurisprudenza largamente prevalente ritiene (coerentemente al tenore letterale della disposi- zione sopra citata) che l'unica forma valida sia quella dell'affissione dello stesso in un luogo accessibile a tutti i lavoratori, e che tale modalità non possa essere sostituita con nessun'altra forma di pubblicità. Si ritiene inoltre che l'affissione debba essere continuativa e non occasionale o temporanea e che vada comun- que osservata anche laddove il codice disciplinare si limiti a riprodurre le relati- ve disposizioni del contratto collettivo applicato in azienda, non essendo suffi- ciente un mero rinvio allo stesso. Ugualmente, non è ritenuta conforme alla legge e, dunque, inefficace ai fini della correttezza dell'azione disciplinare, la consegna del codice disciplinare o del contratto applicato nelle mani del dipen- dente.
In linea generale, dunque, la mancata pubblicità attraverso affissione delle norme disciplinari aziendali comporta la preclusione dell'esercizio dell'azione sanzionatoria e determina la nullità insanabile della pena eventualmente com- minata.
Vi sono tuttavia delle situazioni nelle quali la giurisprudenza ritiene valida l'azione disciplinare anche nel caso in cui non sia stato rispettato l'obbligo di af- fissione del codice: si tratta dei casi più gravi (normalmente culminanti in un li- cenziamento), in cui i fatti addebitabili al lavoratore siano di per sé configurabi- li come illeciti penali dalla legislazione vigente, ovvero rappresentino evidenti violazioni dei doveri fondamentali del lavoratore stabiliti dalla legge. In tali ca- si, infatti, è ovvio che il lavoratore non potrà opporre la sua ignoranza del fatto che determinati comportamenti siano ritenuti mancanze e che, a fronte degli stessi, sia prevista una reazione del datore di lavoro: ad esempio, un lavoratore che si rendesse colpevole di molestie sessuali sul luogo di lavoro, ovvero svol- gesse attività in concorrenza con l'azienda, non potrà addurre a sua discolpa la non conoscenza (derivante dalla mancata affissione del codice disciplinare) che tali fatti sono considerati illeciti disciplinari.
2.11.3. La contestazione dell'infrazione
Il secondo comma dell'art. 7, legge n. 300/1970, preclude al datore di lavoro di "adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua dife- sa".
Innanzitutto, è da ritenersi che la contestazione dell'addebito possa essere legittimamente fatta anche dal superiore gerarchico del dipendente, anche se non munito di delega formale, e non necessariamente dal datore di lavoro. In- fatti, se in base all'art. 2104 c.c. i superiori gerarchici, conosciuti come tali, rap- presentano il datore di lavoro allorché impartiscono direttive, non si vede per quale ragione non possano rappresentarlo nel contestare al lavoratore un com- portamento difforme dagli ordini impartiti. Inoltre, con riferimento alle pro- blematiche relative alla materiale notifica della contestazione, oltre all’orientamento secondo cui essa può essere consegnata anche presso la sede aziendale, giova considerare che, secondo la giurisprudenza della Cassazione, nel caso in cui venga spedita, la lettera di contestazione disciplinare si presume conosciuta dal destinatario dalla data di rilascio dell’avviso di giacenza presso l’ufficio postale (Cass. n. 12099/2013).
In secondo luogo, è assolutamente necessario che la contestazione sia speci- fica, cioè che contenga i dati e gli aspetti essenziali del fatto ritenuto dall'azien- da disciplinarmente rilevante. Occorre dunque che il fatto venga collocato tem- poralmente con la maggior precisione possibile e che evidenzi la componente lesiva degli interessi aziendali, anche attraverso il riferimento a circostanze do- cumentalmente accertabili. Non è invece indispensabile citare, nella contesta- zione di infrazione, la clausola contrattuale che contempla il comportamento come scorretto o irregolare: oggetto della contestazione è il fatto nei suoi ele- menti materiali e non anche le specifiche norme violate; l'erronea indicazione di esse da parte del datore di lavoro non comporta né l'invalidità della contesta- zione, né una limitazione dell'indagine del Giudice all'accertamento se il fatto violi o meno le norme applicabili (Cass. n. 4175/1997).
Un altro principio estremamente importante (che è anche quello la cui man- cata osservanza diventa frequentemente causa di inefficacia dell'addebito) è quello dell'immediatezza della contestazione. In altre parole, non è possibile la- sciar passare troppo tempo fra la data di rilevazione dell'infrazione commessa e quello di contestazione della stessa, poiché tale inerzia, da una parte, può ledere irrimediabilmente il diritto di difesa del lavoratore e, dall'altra, porta a ritenere di scarsa rilevanza disciplinare un comportamento contro il quale l'azienda non abbia provveduto sollecitamente ad attivarsi.
Naturalmente, il rispetto di tale principio può risultare problematico in tutti quei casi in cui si verta in presenza di condotte occulte e reiterate, il cui accer- tamento implichi indagini minuziose e prolungate nel tempo. A tal proposito, occorre tuttavia considerare che l'immediatezza della contestazione dell'addebi- to ha carattere relativo, in quanto deve essere valutata tenuto conto anche della peculiarità della fattispecie e, in particolare, della possibilità del datore di lavoro di venire a conoscenza dell'illegittimità della condotta del lavoratore e di reagire alla condotta medesima (Cass. n. 6348/2000), nonché della complessità dell'a- zione di accertamento e dell'organizzazione aziendale (Cass. n. 6925/2000). Non è superfluo sottolineare, in questa sede, che il datore di lavoro può svolge- re indagini solo nelle maniere considerate valide dalla legge, non essendo co- munque possibile portare a supporto delle proprie argomentazioni prove o do- cumenti dei quali il datore di lavoro sia venuto a conoscenza in maniera illecita. Un ennesimo principio è quello dell'immutabilità della contestazione, in ba-
se al quale l'addebito mosso inizialmente non può essere modificato nel corso
del procedimento disciplinare, anche se il datore di lavoro può successivamente
chiarire e/o integrare la contestazione, sempre e comunque in maniera tale da consentire al lavoratore di difendersi dalla stessa.
La preventiva contestazione al lavoratore incolpato deve contenere, a pena di nullità del provvedimento disciplinare, anche il riferimento ad un'eventuale recidiva, o comunque ai precedenti disciplinari che la integrano, laddove essa rappresenti un elemento costitutivo, ovvero un'aggravante della mancanza ad- debitata (Cass. n. 18294/2002). Peraltro, il riferimento alla recidiva deve essere stato configurato, nella previsione contrattuale applicabile, come condizione necessaria e sufficiente della sanzione, idoneo di per sé a giustificare il provve- dimento disciplinare senza bisogno di ulteriori valutazioni del caso concreto. L’indicazione della recidiva non è invece fondamentale quando costituisca un mero criterio determinativo della sanzione disciplinare (Cass., sez. lav., n. 2433/2012).
Il terzo comma dell'art. 7 stabilisce che il lavoratore, qualora lo richieda espressamente, deve essere ascoltato a sua difesa e, in ciò, può farsi assistere da un rappresentante sindacale interno o esterno all'azienda cui abbia conferito espresso mandato: la mancata concessione di tale facoltà, integrando una po- tenziale lesione del diritto di difesa, comporta l'annullabilità della sanzione eventualmente comminata. Deve invece ritenersi esclusa la possibilità di farsi assistere, in questa fase, da parte di un legale o comunque di altro soggetto non di estrazione sindacale (Cass. n. 11430/2000).
Se i lavoratore chiede di essere ascoltato, l’audizione può avvenire anche in luogo diverso e distante da quello della prestazione lavorativa, nonché al di fuo- ri dell’orario contrattuale, se questo risulti razionale ed efficace per la stessa di- chiarazione di discolpa in quanto, ad esempio, l’audizione può avvenire senza intermediari, con maggiore tutela della privacy del lavoratore (Cass. 12979/2011).
Infine, atteso che la contestazione disciplinare ha natura di atto unilaterale recettizio, essa si considera conosciuta dal destinatario allorché perviene all'in- dirizzo di questi: pertanto, è indispensabile che la contestazione che può dar luogo a sanzioni più gravi del rimprovero verbale sia fatta per iscritto e con documento avente data certa di ricezione: raccomandata con ricevuta di ritorno o consegnata direttamente nelle mani del destinatario.
2.11.4. L'irrogazione della sanzione e il procedimento di impugnazione
L'assoluta necessità di conoscere il momento in cui il destinatario ha avuto notizia della contestazione disciplinare mossagli è dettata dalla disposizione se-
condo cui «in ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa» (art. 7, comma 5, legge n. 300/1970).
Si tratta sempre di un termine che, per quanto ridotto e perentorio, è posto a tutela del diritto di difesa del lavoratore e che, per la giurisprudenza prevalente, deve comunque trascorrere, prima di poter adottare l'eventuale sanzione, anche se il dipendente presenta le sue giustificazioni prima della scadenza. Questo perché, entro tale termine, il lavoratore potrebbe sempre integrare le proprie giustificazioni. Non mancano, tuttavia, recenti pronunce in senso contrario (anche di legittimità), che ritengono legittima la sanzione disciplinare adottata entro i cinque giorni, allorché il lavoratore abbia presentato le proprie giustifi- cazioni senza riservarsi di integrarle entro i termini previsti.
Al termine di cinque giorni viene applicata la regola generale secondo cui devono ricomprendersi nel numero di giorni assegnato dalla legge anche le giornate festive intermedie, nelle quali la decorrenza del termine suddetto non può considerarsi né sospesa né interrotta (Cass. n. 14680/2000).
Entro il termine indicato le controdeduzioni del lavoratore devono pervenire al datore di lavoro; conseguentemente, il termine non può ritenersi rispettato quando, pur avendo il lavoratore predisposto le proprie difese prima del suo de- corso, la ricezione dell'atto da parte del datore di lavoro avvenga in data succes- siva (Cass. n. 10106/1996).
Ad ogni modo, trascorso il termine, il datore di lavoro, valutate le eventuali giustificazioni addotte, l'entità dell'infrazione e le previsioni del codice discipli- nare, ha facoltà di irrogare la sanzione, tenendo sempre presente il principio di proporzionalità fra gravità del comportamento posto in essere e pena da com- minare. In tal senso, andranno valutate sia le circostanze oggettive che le mo- dalità soggettive della condotta tenuta dal lavoratore, non solo al momento dell'infrazione ma anche durante la fase disciplinare: occorrerà, ad esempio, in caso di episodi plurimi della stessa specie, valutare la gravità del comportamen- to nel suo complesso e non esaminare tali episodi singolarmente; così come ne- cessita di opportuna valutazione l'eventuale ammissione di responsabilità e/o il ravvedimento dell'incolpato, specialmente nei casi di minore gravità o in cui non sia ravvisabile la recidiva.
La legge si preoccupa, tuttavia, di porre dei limiti oggettivi anche alla tipo- logia di sanzioni da adottare: il comma 4 del citato art. 7, dispone infatti che,
«fermo restando quanto disposto dalla legge 15 luglio 1966, n. 604 (normativa sui licen- ziamenti individuali), non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportano
mutamenti definitivi del rapporto di lavoro; inoltre la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione di base e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di dieci giorni».
Rimandando all'apposito capitolo la trattazione del licenziamento discipli- nare (con tutte le problematiche che il primo inciso di tale norma ha sollevato in materia), basterà in questa sede sottolineare che la disposizione, nell'afferma- re la legittimità della sanzione espulsiva come pena estrema prevista dall'Ordi- namento, vieta tuttavia altri tipi di punizione che possano incidere in modo de- finitivo e permanente sul rapporto di lavoro: ad esempio, deve essere esclusa la possibilità di demansionare il lavoratore o, in generale, di peggiorarne le condi- zioni di lavoro; parimenti va esclusa la possibilità di trasferirlo definitivamente ad altra sede lavorativa, a meno che tale trasferimento non sia stato voluto dalle parti, compresa quella sindacale, nella loro autonomia contrattuale (Cass. n. 10252/1995): in altre parole, il trasferimento disciplinare - pur integrando una tipologia di sanzione di dubbia applicabilità - può trovare la sua legittimazione nella tutela degli interessi reciproci alla salvaguardia del posto di lavoro, da una parte, e della specifica professionalità dall'altra, tenendo presente che, per la giurisprudenza prevalente, il luogo non è elemento essenziale e immutabile del rapporto di lavoro e che, fra le ragioni di carattere organizzativo legittimanti un trasferimento ai sensi dell'art. 2103 c.c., potrebbe rientrarvi anche un eventuale fattore di "disordine organizzativo" causato dalla condotta più o meno reiterata e riprovevole del lavoratore (Cass. n. 11233/1990).
Ulteriore distinzione deve essere effettuata fra la sospensione disciplinare e
quella cautelare. Mentre la prima, contemplata dall’art. 7, comma 4, legge 300/1970 e da tutti i contratti collettivi come la sanzione disciplinare “conser- vativa” più grave, cui non può che seguire il licenziamento, se questa si rivela “inefficace”, la sospensione cautelare è invece una misura di carattere provviso- rio e strumentale all’accertamento dei fatti relativi alla violazione da parte del lavoratore degli obblighi inerenti al rapporto, che esaurisce i suoi effetti con l’adozione dei provvedimenti disciplinari definitivi. Pertanto, per disporre una sospensione cautelare, nelle more dell’indagine disciplinare e al fine evitare danni più gravi, qualora il comportamento del lavoratore sia stato comunque di una certa gravità, il datore di lavoro non è tenuto ad osservare la procedura ex art. 7, legge n. 300/1970; per contro, non essendo la sospensione cautelare un atto definitivo, ma piuttosto una misura precauzionale adottata in base a som- xxxxx (anche se evidenti) ragioni, il lavoratore conserverà comunque il diritto alla retribuzione per i giorni di sospensione, cosa che invece non avviene in ca-
so di sospensione disciplinare. Tuttavia, secondo un recente orientamento giuri- sprudenziale, qualora il provvedimento disciplinare si concluda con la sanzione più drastica – quella del licenziamento (si veda l’apposita sezione del Manuale)
– la precedente sospensione cautelare dal servizio, pur strutturalmente e fun- zionalmente autonoma rispetto al provvedimento di risoluzione del rapporto, si salda con il licenziamento, legittimando il recesso retroattivamente, con perdita ex tunc del diritto alle retribuzioni a far data dal provvedimento di sospensione (App. Milano, n. 1649/2013).
I limiti all'entità delle multe e della sospensione dal lavoro sono tassativi e, d'altra parte, la contrattazione collettiva spesso tende a contenere notevolmente la gravità di tali penali. Inoltre, la legge prevede un limite anche alla rilevanza della recidiva, stabilendo che «non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni di- sciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione» (art. 7, comma 8): a tal proposito, è bene precisare che il limite dei due anni si computa dal momento in cui la sanzione viene comminata (cioè formalmente comunicata al dipendente) e non da quando viene materialmente scontata dal lavoratore.
Il potere di controllo sul nesso di proporzionalità tra infrazione e sanzione è sempre rimesso al Giudice del merito, che, secondo la giurisprudenza prevalen- te, ha anche la facoltà di sostituire la pena comminata con altra di minore gravi- tà, quantomeno su istanza di parte.
Particolari procedure sono previste per l'impugnazione del provvedimento disciplinare dall'art. 7, commi 6 e seguenti, legge n. 300/1970. Infatti, avverso il provvedimento sanzionatorio, il lavoratore, ferma restando la facoltà di ricorre- re alla procedure conciliative eventualmente previste dai contratti collettivi, ov- vero di rivolgersi direttamente al Giudice, «può promuovere, nei venti giorni succes- sivi, anche per mezzo dell'associazione alla quale sia iscritto ovvero conferisca mandato, la costituzione, tramite la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio, di un collegio di conciliazione e arbitrato, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo o, in difetto di accordo, nominato dal di- rettore della Direzione provinciale del lavoro competente per territorio».
In tal caso, il datore di lavoro deve provvedere a nominare il proprio rappre- sentante in seno a tale collegio entro 10 giorni dall'invito rivoltogli dallo stesso, con la conseguenza che, in caso di mancata nomina, la sanzione non ha effetto. In alternativa, però, anche il datore di lavoro può rivolgersi direttamente all'Au- torità giudiziaria. In entrambi i casi di definizione del procedimento, ammini- strativo o giurisdizionale, la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pro- nuncia da parte dell'organo giudicante (collegio o tribunale).
quest'ultimo ponga in essere comportamenti costituenti violazioni degli obbli- ghi legali o contrattuali.
2.11.2. Il codice disciplinare
L'esercizio del potere disciplinare è condizionato al rispetto di regole e pro- cedure particolarmente rigorose, la prima delle quali è quella della trasparenza e della correttezza. Infatti, secondo un principio generale di civiltà (nulla poena sine lege) mutuato dall'Ordinamento penale, non è giusto esercitare un'azione sanzionatoria nei confronti di un soggetto che non sia a conoscenza dei com- portamenti ritenuti scorretti all'interno di un contesto sociale, delle pene previ- ste a fronte di tali comportamenti e delle modalità per difendersi.
L'applicazione di tale fondamentale principio (e dei suoi corollari) è garanti- ta dall'art. 7 della legge 30 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori), che sta- bilisce, innanzitutto, che «le norme relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo ac- cessibile a tutti" (comma 1). Lo stesso comma precisa che tali norme "devono ap- plicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano».
Si tratta, per l'appunto, del c.d. "codice disciplinare", una sorta di regolamen- to interno che ogni azienda è chiamata necessariamente ad adottare per poter esercitare eventuali azioni disciplinari nei confronti dei propri dipendenti.
Naturalmente, il contenuto del codice disciplinare andrà adattato allo speci- fico contesto produttivo, poiché la rilevanza disciplinare di un determinato comportamento può essere diversa da azienda ad azienda o addirittura fra i re- parti di una stessa impresa: si pensi, ad esempio, all'importanza di presentarsi sul lavoro con un aspetto perfettamente curato e decoroso per un'azienda (o un suo reparto) i cui dipendenti lavorino a costante contatto col pubblico e, invece, alla relativa irrilevanza di tale fattore all'interno di una realtà produttiva che ri- manga comunque isolata dall'esterno. Perciò, il contenuto del codice, almeno per ciò che riguarda i comportamenti disciplinarmente rilevanti, dovrà essere accuratamente predisposto dall'azienda sulla base delle proprie esigenze, tenen- do presente che, per quanto riguarda la correlazione delle sanzioni, non ci si po- trà discostare dalle previsioni del contratto collettivo di riferimento, laddove applicato.
Non è tuttavia indispensabile che il codice contenga una precisa e sistemati-
ca previsione delle singole infrazioni (anche se ciò è preferibile), delle loro varie graduazioni e delle corrispondenti sanzioni, essendo sufficiente una proporzio-
nata correlazione tra le singole ipotesi di infrazione, sia pure di carattere sche- matico e non dettagliato, e le corrispondenti previsioni sanzionatorie; queste ul- time, infatti, possono essere suscettibili di attuazione discrezionale ed adatta- mento secondo le concrete ed effettive inadempienze del lavoratore, nel rispetto del principio per cui le sanzioni disciplinari devono avere un grado di specificità sufficiente ad escludere che la collocazione della condotta del lavoratore nella fattispecie disciplinare sia interamente devoluta ad una valutazione unilaterale ed arbitraria del datore di lavoro (Cass. n. 7370/1996).
In altre parole, poiché le sanzioni disciplinari rivestono una funzione di pre- sidio all'ordinata e funzionale attività aziendale, non è necessario che il codice disciplinare contenga una previsione rigorosa e formalistica delle inadempienze e delle correlate sanzioni, simile a quella dell'Ordinamento penale dello Stato, ma è invece sufficiente una forma di redazione che renda chiare le ipotesi di in- frazione, sia pure dandone una nozione schematica e non dettagliata nelle pos- sibili azioni del singolo, e che indichi le relative previsioni sanzionatorie in mo- do tale da sgombrare il campo da arbitrii da parte datoriale (Cass. n. 4247/1985). Le sanzioni normalmente previste sono, in ordine crescente di gravità:
- il rimprovero verbale;
- il rimprovero scritto o nota di demerito;
- la multa, per un importo che non può eccedere le 4 ore di retribuzione;
- la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per un massimo di dieci giorni;
- il licenziamento.
In merito al requisito di pubblicità del codice disciplinare, la giurisprudenza largamente prevalente ritiene (coerentemente al tenore letterale della disposi- zione sopra citata) che l'unica forma valida sia quella dell'affissione dello stesso in un luogo accessibile a tutti i lavoratori, e che tale modalità non possa essere sostituita con nessun'altra forma di pubblicità. Si ritiene inoltre che l'affissione debba essere continuativa e non occasionale o temporanea e che vada comun- que osservata anche laddove il codice disciplinare si limiti a riprodurre le relati- ve disposizioni del contratto collettivo applicato in azienda, non essendo suffi- ciente un mero rinvio allo stesso. Ugualmente, non è ritenuta conforme alla legge e, dunque, inefficace ai fini della correttezza dell'azione disciplinare, la consegna del codice disciplinare o del contratto applicato nelle mani del dipen- dente.
In linea generale, dunque, la mancata pubblicità attraverso affissione delle norme disciplinari aziendali comporta la preclusione dell'esercizio dell'azione sanzionatoria e determina la nullità insanabile della pena eventualmente com- minata.
Vi sono tuttavia delle situazioni nelle quali la giurisprudenza ritiene valida l'azione disciplinare anche nel caso in cui non sia stato rispettato l'obbligo di af- fissione del codice: si tratta dei casi più gravi (normalmente culminanti in un li- cenziamento), in cui i fatti addebitabili al lavoratore siano di per sé configurabi- li come illeciti penali dalla legislazione vigente, ovvero rappresentino evidenti violazioni dei doveri fondamentali del lavoratore stabiliti dalla legge. In tali ca- si, infatti, è ovvio che il lavoratore non potrà opporre la sua ignoranza del fatto che determinati comportamenti siano ritenuti mancanze e che, a fronte degli stessi, sia prevista una reazione del datore di lavoro: ad esempio, un lavoratore che si rendesse colpevole di molestie sessuali sul luogo di lavoro, ovvero svol- gesse attività in concorrenza con l'azienda, non potrà addurre a sua discolpa la non conoscenza (derivante dalla mancata affissione del codice disciplinare) che tali fatti sono considerati illeciti disciplinari.
2.11.3. La contestazione dell'infrazione
Il secondo comma dell'art. 7, legge n. 300/1970, preclude al datore di lavoro di "adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua dife- sa".
Innanzitutto, è da ritenersi che la contestazione dell'addebito possa essere legittimamente fatta anche dal superiore gerarchico del dipendente, anche se non munito di delega formale, e non necessariamente dal datore di lavoro. In- fatti, se in base all'art. 2104 c.c. i superiori gerarchici, conosciuti come tali, rap- presentano il datore di lavoro allorché impartiscono direttive, non si vede per quale ragione non possano rappresentarlo nel contestare al lavoratore un com- portamento difforme dagli ordini impartiti. Inoltre, con riferimento alle pro- blematiche relative alla materiale notifica della contestazione, oltre all’orientamento secondo cui essa può essere consegnata anche presso la sede aziendale, giova considerare che, secondo la giurisprudenza della Cassazione, nel caso in cui venga spedita, la lettera di contestazione disciplinare si presume conosciuta dal destinatario dalla data di rilascio dell’avviso di giacenza presso l’ufficio postale (Cass. n. 12099/2013).
In secondo luogo, è assolutamente necessario che la contestazione sia speci- fica, cioè che contenga i dati e gli aspetti essenziali del fatto ritenuto dall'azien- da disciplinarmente rilevante. Occorre dunque che il fatto venga collocato tem- poralmente con la maggior precisione possibile e che evidenzi la componente lesiva degli interessi aziendali, anche attraverso il riferimento a circostanze do- cumentalmente accertabili. Non è invece indispensabile citare, nella contesta- zione di infrazione, la clausola contrattuale che contempla il comportamento come scorretto o irregolare: oggetto della contestazione è il fatto nei suoi ele- menti materiali e non anche le specifiche norme violate; l'erronea indicazione di esse da parte del datore di lavoro non comporta né l'invalidità della contesta- zione, né una limitazione dell'indagine del Giudice all'accertamento se il fatto violi o meno le norme applicabili (Cass. n. 4175/1997).
Un altro principio estremamente importante (che è anche quello la cui man- cata osservanza diventa frequentemente causa di inefficacia dell'addebito) è quello dell'immediatezza della contestazione. In altre parole, non è possibile la- sciar passare troppo tempo fra la data di rilevazione dell'infrazione commessa e quello di contestazione della stessa, poiché tale inerzia, da una parte, può ledere irrimediabilmente il diritto di difesa del lavoratore e, dall'altra, porta a ritenere di scarsa rilevanza disciplinare un comportamento contro il quale l'azienda non abbia provveduto sollecitamente ad attivarsi.
Naturalmente, il rispetto di tale principio può risultare problematico in tutti quei casi in cui si verta in presenza di condotte occulte e reiterate, il cui accer- tamento implichi indagini minuziose e prolungate nel tempo. A tal proposito, occorre tuttavia considerare che l'immediatezza della contestazione dell'addebi- to ha carattere relativo, in quanto deve essere valutata tenuto conto anche della peculiarità della fattispecie e, in particolare, della possibilità del datore di lavoro di venire a conoscenza dell'illegittimità della condotta del lavoratore e di reagire alla condotta medesima (Cass. n. 6348/2000), nonché della complessità dell'a- zione di accertamento e dell'organizzazione aziendale (Cass. n. 6925/2000). Non è superfluo sottolineare, in questa sede, che il datore di lavoro può svolge- re indagini solo nelle maniere considerate valide dalla legge, non essendo co- munque possibile portare a supporto delle proprie argomentazioni prove o do- cumenti dei quali il datore di lavoro sia venuto a conoscenza in maniera illecita. Un ennesimo principio è quello dell'immutabilità della contestazione, in ba-
se al quale l'addebito mosso inizialmente non può essere modificato nel corso
del procedimento disciplinare, anche se il datore di lavoro può successivamente
chiarire e/o integrare la contestazione, sempre e comunque in maniera tale da consentire al lavoratore di difendersi dalla stessa.
La preventiva contestazione al lavoratore incolpato deve contenere, a pena di nullità del provvedimento disciplinare, anche il riferimento ad un'eventuale recidiva, o comunque ai precedenti disciplinari che la integrano, laddove essa rappresenti un elemento costitutivo, ovvero un'aggravante della mancanza ad- debitata (Cass. n. 18294/2002). Peraltro, il riferimento alla recidiva deve essere stato configurato, nella previsione contrattuale applicabile, come condizione necessaria e sufficiente della sanzione, idoneo di per sé a giustificare il provve- dimento disciplinare senza bisogno di ulteriori valutazioni del caso concreto. L’indicazione della recidiva non è invece fondamentale quando costituisca un mero criterio determinativo della sanzione disciplinare (Cass., sez. lav., n. 2433/2012).
Il terzo comma dell'art. 7 stabilisce che il lavoratore, qualora lo richieda espressamente, deve essere ascoltato a sua difesa e, in ciò, può farsi assistere da un rappresentante sindacale interno o esterno all'azienda cui abbia conferito espresso mandato: la mancata concessione di tale facoltà, integrando una po- tenziale lesione del diritto di difesa, comporta l'annullabilità della sanzione eventualmente comminata. Deve invece ritenersi esclusa la possibilità di farsi assistere, in questa fase, da parte di un legale o comunque di altro soggetto non di estrazione sindacale (Cass. n. 11430/2000).
Se i lavoratore chiede di essere ascoltato, l’audizione può avvenire anche in luogo diverso e distante da quello della prestazione lavorativa, nonché al di fuo- ri dell’orario contrattuale, se questo risulti razionale ed efficace per la stessa di- chiarazione di discolpa in quanto, ad esempio, l’audizione può avvenire senza intermediari, con maggiore tutela della privacy del lavoratore (Cass. 12979/2011).
Infine, atteso che la contestazione disciplinare ha natura di atto unilaterale recettizio, essa si considera conosciuta dal destinatario allorché perviene all'in- dirizzo di questi: pertanto, è indispensabile che la contestazione che può dar luogo a sanzioni più gravi del rimprovero verbale sia fatta per iscritto e con documento avente data certa di ricezione: raccomandata con ricevuta di ritorno o consegnata direttamente nelle mani del destinatario.
2.11.4. L'irrogazione della sanzione e il procedimento di impugnazione
L'assoluta necessità di conoscere il momento in cui il destinatario ha avuto notizia della contestazione disciplinare mossagli è dettata dalla disposizione se-
condo cui «in ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa» (art. 7, comma 5, legge n. 300/1970).
Si tratta sempre di un termine che, per quanto ridotto e perentorio, è posto a tutela del diritto di difesa del lavoratore e che, per la giurisprudenza prevalente, deve comunque trascorrere, prima di poter adottare l'eventuale sanzione, anche se il dipendente presenta le sue giustificazioni prima della scadenza. Questo perché, entro tale termine, il lavoratore potrebbe sempre integrare le proprie giustificazioni. Non mancano, tuttavia, recenti pronunce in senso contrario (anche di legittimità), che ritengono legittima la sanzione disciplinare adottata entro i cinque giorni, allorché il lavoratore abbia presentato le proprie giustifi- cazioni senza riservarsi di integrarle entro i termini previsti.
Al termine di cinque giorni viene applicata la regola generale secondo cui devono ricomprendersi nel numero di giorni assegnato dalla legge anche le giornate festive intermedie, nelle quali la decorrenza del termine suddetto non può considerarsi né sospesa né interrotta (Cass. n. 14680/2000).
Entro il termine indicato le controdeduzioni del lavoratore devono pervenire al datore di lavoro; conseguentemente, il termine non può ritenersi rispettato quando, pur avendo il lavoratore predisposto le proprie difese prima del suo de- corso, la ricezione dell'atto da parte del datore di lavoro avvenga in data succes- siva (Cass. n. 10106/1996).
Ad ogni modo, trascorso il termine, il datore di lavoro, valutate le eventuali giustificazioni addotte, l'entità dell'infrazione e le previsioni del codice discipli- nare, ha facoltà di irrogare la sanzione, tenendo sempre presente il principio di proporzionalità fra gravità del comportamento posto in essere e pena da com- minare. In tal senso, andranno valutate sia le circostanze oggettive che le mo- dalità soggettive della condotta tenuta dal lavoratore, non solo al momento dell'infrazione ma anche durante la fase disciplinare: occorrerà, ad esempio, in caso di episodi plurimi della stessa specie, valutare la gravità del comportamen- to nel suo complesso e non esaminare tali episodi singolarmente; così come ne- cessita di opportuna valutazione l'eventuale ammissione di responsabilità e/o il ravvedimento dell'incolpato, specialmente nei casi di minore gravità o in cui non sia ravvisabile la recidiva.
La legge si preoccupa, tuttavia, di porre dei limiti oggettivi anche alla tipo- logia di sanzioni da adottare: il comma 4 del citato art. 7, dispone infatti che,
«fermo restando quanto disposto dalla legge 15 luglio 1966, n. 604 (normativa sui licen- ziamenti individuali), non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportano
mutamenti definitivi del rapporto di lavoro; inoltre la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione di base e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di dieci giorni».
Rimandando all'apposito capitolo la trattazione del licenziamento discipli- nare (con tutte le problematiche che il primo inciso di tale norma ha sollevato in materia), basterà in questa sede sottolineare che la disposizione, nell'afferma- re la legittimità della sanzione espulsiva come pena estrema prevista dall'Ordi- namento, vieta tuttavia altri tipi di punizione che possano incidere in modo de- finitivo e permanente sul rapporto di lavoro: ad esempio, deve essere esclusa la possibilità di demansionare il lavoratore o, in generale, di peggiorarne le condi- zioni di lavoro; parimenti va esclusa la possibilità di trasferirlo definitivamente ad altra sede lavorativa, a meno che tale trasferimento non sia stato voluto dalle parti, compresa quella sindacale, nella loro autonomia contrattuale (Cass. n. 10252/1995): in altre parole, il trasferimento disciplinare - pur integrando una tipologia di sanzione di dubbia applicabilità - può trovare la sua legittimazione nella tutela degli interessi reciproci alla salvaguardia del posto di lavoro, da una parte, e della specifica professionalità dall'altra, tenendo presente che, per la giurisprudenza prevalente, il luogo non è elemento essenziale e immutabile del rapporto di lavoro e che, fra le ragioni di carattere organizzativo legittimanti un trasferimento ai sensi dell'art. 2103 c.c., potrebbe rientrarvi anche un eventuale fattore di "disordine organizzativo" causato dalla condotta più o meno reiterata e riprovevole del lavoratore (Cass. n. 11233/1990).
Ulteriore distinzione deve essere effettuata fra la sospensione disciplinare e
quella cautelare. Mentre la prima, contemplata dall’art. 7, comma 4, legge 300/1970 e da tutti i contratti collettivi come la sanzione disciplinare “conser- vativa” più grave, cui non può che seguire il licenziamento, se questa si rivela “inefficace”, la sospensione cautelare è invece una misura di carattere provviso- rio e strumentale all’accertamento dei fatti relativi alla violazione da parte del lavoratore degli obblighi inerenti al rapporto, che esaurisce i suoi effetti con l’adozione dei provvedimenti disciplinari definitivi. Pertanto, per disporre una sospensione cautelare, nelle more dell’indagine disciplinare e al fine evitare danni più gravi, qualora il comportamento del lavoratore sia stato comunque di una certa gravità, il datore di lavoro non è tenuto ad osservare la procedura ex art. 7, legge n. 300/1970; per contro, non essendo la sospensione cautelare un atto definitivo, ma piuttosto una misura precauzionale adottata in base a som- xxxxx (anche se evidenti) ragioni, il lavoratore conserverà comunque il diritto alla retribuzione per i giorni di sospensione, cosa che invece non avviene in ca-
so di sospensione disciplinare. Tuttavia, secondo un recente orientamento giuri- sprudenziale, qualora il provvedimento disciplinare si concluda con la sanzione più drastica – quella del licenziamento (si veda l’apposita sezione del Manuale)
– la precedente sospensione cautelare dal servizio, pur strutturalmente e fun- zionalmente autonoma rispetto al provvedimento di risoluzione del rapporto, si salda con il licenziamento, legittimando il recesso retroattivamente, con perdita ex tunc del diritto alle retribuzioni a far data dal provvedimento di sospensione (App. Milano, n. 1649/2013).
I limiti all'entità delle multe e della sospensione dal lavoro sono tassativi e, d'altra parte, la contrattazione collettiva spesso tende a contenere notevolmente la gravità di tali penali. Inoltre, la legge prevede un limite anche alla rilevanza della recidiva, stabilendo che «non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni di- sciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione» (art. 7, comma 8): a tal proposito, è bene precisare che il limite dei due anni si computa dal momento in cui la sanzione viene comminata (cioè formalmente comunicata al dipendente) e non da quando viene materialmente scontata dal lavoratore.
Il potere di controllo sul nesso di proporzionalità tra infrazione e sanzione è sempre rimesso al Giudice del merito, che, secondo la giurisprudenza prevalen- te, ha anche la facoltà di sostituire la pena comminata con altra di minore gravi- tà, quantomeno su istanza di parte.
Particolari procedure sono previste per l'impugnazione del provvedimento disciplinare dall'art. 7, commi 6 e seguenti, legge n. 300/1970. Infatti, avverso il provvedimento sanzionatorio, il lavoratore, ferma restando la facoltà di ricorre- re alla procedure conciliative eventualmente previste dai contratti collettivi, ov- vero di rivolgersi direttamente al Giudice, «può promuovere, nei venti giorni succes- sivi, anche per mezzo dell'associazione alla quale sia iscritto ovvero conferisca mandato, la costituzione, tramite la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio, di un collegio di conciliazione e arbitrato, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo o, in difetto di accordo, nominato dal di- rettore della Direzione provinciale del lavoro competente per territorio».
In tal caso, il datore di lavoro deve provvedere a nominare il proprio rappre- sentante in seno a tale collegio entro 10 giorni dall'invito rivoltogli dallo stesso, con la conseguenza che, in caso di mancata nomina, la sanzione non ha effetto. In alternativa, però, anche il datore di lavoro può rivolgersi direttamente all'Au- torità giudiziaria. In entrambi i casi di definizione del procedimento, ammini- strativo o giurisdizionale, la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pro- nuncia da parte dell'organo giudicante (collegio o tribunale).