Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 12/01/2018) 10-05-2018, n. 11256 PROCEDIMENTO CIVILE
Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 12/01/2018) 10-05-2018, n. 11256 PROCEDIMENTO CIVILE
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Xxxx. XXXXXXXX Xxxxx Xxxxxxxxxx - Presidente - Xxxx. XXXXXX Xxxx - Consigliere -
Xxxx. XXXXXXXX Xxxxx - Consigliere - Xxxx. XXXXXXXX Xxxxxxxx - Consigliere - Xxxx. XXXXX Xxxxxxxxx - rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 11163-2016 proposto da:
C.C., già titolare della omonima ditta individuale, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL BANCO DI S. SPIRITO, 42, presso lo studio dell'avvocato XXXXXXXXX XXXXXXX, rappresentata e difesa dall'avvocato XXXX XXXXXX giusta procura speciale a margine del ricorso;
- ricorrente - contro
DERSUT CAFFE' SPA;
- intimata - Nonchè da:
DERSUT CAFFE' SPA, in persona del legale rappresentante Dr. C.D.S.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XXXXXXXX XXXXXXXXXXXX 5, presso lo studio dell'avvocato XXXXX XXXXX, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato XXXXX XXXX xxxxxx procura speciale in calce al controricorso e ricorso incidentale;
- ricorrente incidentale -
avverso la sentenza n. 2764/2015 della CORTE D'APPELLO di VENEZIA, depositata il 23/12/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/01/2018 dal Consigliere Xxxx. XXXXXXXXX XXXXX.
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 2400/13, il Tribunale di Treviso accolse la domanda proposta da C.C. nei confronti di Xxxxxx Xxxxx s.p.a. (di seguito, D., o D. Caffè), dichiarando la nullità del contratto di "affiliazione-collaborazione" avente ad oggetto l'affitto dell'azienda-bar "Bottega del Caffè D." xxxx in (XXXXXXX), di proprietà della convenuta, e ciò per l'indeterminatezza dell'oggetto di cui all'art. 1 del contratto, avuto riguardo al know-how che la società s'era impegnata a trasferire, a fronte del pagamento, da parte dell'affiliata, della somma di Euro 30.000,00 oltre IVA, quale corrispettivo per "diritto d'entrata ed apprendimento know-how". Il Tribunale condannò quindi la D. Caffè alla restituzione della somma di Euro 36.000,00 in favore della C., oltre interessi legali, rigettando la domanda riconvenzionale proposta dalla convenuta per pretesa violazione del patto di esclusiva.
Proposto il gravame da parte della D. Caffè, la Corte d'appello di Venezia lo accolse parzialmente con sentenza del 23.12.2015, riducendo il quantum condannatorio ad Euro 15.000,00 oltre accessori (IVA esclusa) e confermando nel resto la sentenza impugnata.
C.C. ricorre ora per cassazione, affidandosi a tre motivi. D. Xxxxx resiste con controricorso, proponendo anche ricorso incidentale, affidato a due motivi.
Motivi della decisione
RICORSO PRINCIPALE. 1.1 - Con il primo motivo, si deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la "violazione di legge (artt.
329 - 342 e 112 c.p.c.)". Osserva la ricorrente che il Tribunale di Treviso, accogliendo la domanda attrice, dichiarò la nullità della clausola
di cui all'art. 1 del contratto, concernente il know-how che la società s'era impegnata a trasferire alla C., per indeterminatezza dell'oggetto. Costituendosi in appello, essa ricorrente eccepì che, sul punto, la D. Xxxxx non aveva impugnato la sentenza, giacchè l'appello da essa proposto concerneva la pretesa violazione delle norme in tema di autonomia contrattuale e di interpretazione del contratto, la violazione delle norme processuali circa la determinatezza della domanda e l'onere probatorio, l'errata applicazione delle norme in tema di IVA, nonchè la statuizione sul rigetto della domanda riconvenzionale.
Rileva ora la C. che la Corte non ha ravvisato, erroneamente, che sul punto dell'invalidità della clausola s'era formato il giudicato, per intervenuta acquiescenza, sicchè altrettanto erroneamente essa aveva ridotto la somma da restituire, in violazione del principio tantum devolutum quantum appellatum, senza peraltro esaminare e decidere la relativa eccezione svolta da essa ricorrente.
1.2 - Con il secondo motivo, si deduce, ai sensi dell'art. 360 x.x.x., xxxxx 0, x. 0, xx "xxxxxxxxxx xx xxxxx (X. n. 129 del 2014, artt. 1 - 2 e 3; artt. 1346 e 1418 c.c.)". Osserva ancora la C. che la declaratoria di nullità della clausola venne adottata dal Tribunale sul rilievo che le parti avevano concluso un contratto di affitto di azienda, collegato ad un contratto di affiliazione commerciale. Risultavano pertanto applicabili, secondo il primo giudice, le norme dettate dalla L. n. 129 del 2004, e segnatamente quelle di cui all'art. 1, comma 3, lett. a) e art. 3, comma 4, lett. d), che prescrivono rispettivamente che "il know-how deve essere descritto in modo sufficientemente esauriente, tale da consentire di verificare se risponde ai requisiti di segretezza e sostanzialità" e che il contratto deve espressamente indicare "la specifica del know-how fornito dall'affiliante all'affiliato". La nullità del contratto è stata fatta quindi derivare proprio dalla mancanza di dette indicazioni e, quindi, dalla violazione di tali norme.
La Corte d'appello, al contrario, non ha tenuto conto di ciò, argomentando come se detta clausola fosse valida ed efficace, valutando cioè la questione sul diverso piano dell'adempimento/inadempimento da parte della D. Xxxxx, e ritenendo che "una certa qual parte" del patrimonio di conoscenze fosse stato effettivamente fornito da quest'ultima. Così facendo, essa ha errato - secondo la ricorrente - perchè avrebbe dovuto prima interrogarsi se detta clausola fosse valida o meno, solo nel primo caso potendo giungere allo scrutinio della questione dell'adempimento delle obbligazioni da parte della D.. Inoltre, la Corte ha comunque violato i dettami della L. n. 129 del 2004, perchè ha del tutto omesso di indicare e specificare in cosa consistesse il know- how trasferito dalla D. Caffè alla C., tenuto conto che esso deve
possedere i caratteri della "segretezza", "sostanzialità" ed "individuazione".
1.3 - Con il terzo motivo, si lamenta, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la "violazione di legge (art. 2033 c.c. e ss.)". Secondo la C., la decisione impugnata è altresì erronea per aver escluso la ripetibilità di quanto da essa ricorrente sborsato a titolo di IVA, mentre deve ritenersi che - a prescindere dalla quantificazione dell'obbligo restitutorio da parte della D. Caffè - non possa farsi riferimento a nessun ipotetico "recupero" dell'IVA da parte sua e che, quindi, la restituzione debba aver ad oggetto anche la stessa somma versata all'affiliante a titolo di imposta.
RICORSO INCIDENTALE. 1.4 - Con il primo motivo, D. Caffè deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la "violazione o falsa applicazione di norme di diritto con riferimento agli artt. 1362, 1366 e 1367 c.c. e alla L. n. 129 del 2004, artt. 1-3". Osserva la ricorrente incidentale come essa abbia sempre rilevato, sin dal primo grado, che il riferimento al know-how contenuto in contratto è da intendersi in senso atecnico, sicchè si palesa erronea la pretesa di sussumere la clausola in questione nell'alveo della L. n. 129 del 2004 e, quindi, di valutarla alla luce della definizione del know-how in essa contenuta, trattandosi di "qualcosa" di diverso.
La D. assume ora che la Corte avrebbe frainteso la portata del proprio appello sul punto, concernente non già la qualificazione dell'intero contratto - che secondo la stessa società deve oramai, con statuizione coperta dal giudicato, ascriversi al contratto di affitto di azienda "che si connotava altresì per una serie di previsioni riconducibili al diverso schema della affiliazione commerciale" (così il Tribunale) - bensì più specificamente alla effettiva configurabilità in termini di "know-how in senso tecnico" di ciò che le parti avevano indicato in contratto con l'espressione "diritto di ingresso e apprendimento know-how". Rileva la società che, anche a voler ritenere corretta la qualificazione del contratto in termini di franchising, in forza delle disposizioni della L. n. 129 del 2004 il trasferimento del know-how non costituisce una clausola indefettibile del tipo contrattuale in discorso, ma solo uno dei possibili contenuti che il negozio può conglobare, sicchè in ogni caso la Corte avrebbe dovuto pronunciarsi su "cosa" le parti avessero effettivamente pattuito al riguardo, al di là del nomen iuris da esse utilizzato.
Insomma, l'errore della Corte del merito, secondo la D., consiste nell'aver ritenuto che il know-how di cui alla clausola dedotta in contratto non potesse che integrare proprio "quel" know-how di cui alla L. n. 129 del 2004, mentre la Corte avrebbe in realtà dovuto interrogarsi se, alla luce della clausola pattuita, potesse davvero trattarsi di "quel" know- how. Osserva la D. che nella specie, assai più banalmente, si trattava
soltanto del necessario addestramento impartito dalla società alla C. perchè ella potesse gestire la Bottega in conformità alle altre Botteghe presenti sul territorio, non certo di know-how tecnicamente inteso, perchè, avuto riguardo alle caratteristiche di una ordinaria "Bottega del Caffè D.", esso 1) non è e non può essere segreto; 2) non è e non può essere sostanziale; 3) non può essere specificamente descritto/individuato.
1.5 - Con il secondo motivo, la D. lamenta, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la "violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento all'art. 163 c.p.c., comma 3, n. 4 e art. 164 c.p.c., comma 4". Il giudice d'appello avrebbe anche frainteso la portata del secondo motivo del gravame, avente ad oggetto l'indeterminatezza della domanda, laddove la C. aveva chiesto la restituzione dell'intera somma pagata sia riguardo al diritto di entrata, sia riguardo al know-how, argomentando però solo sulla pretesa nullità del contratto relativamente a quest'ultimo, senza che fosse specificata alcuna ragione per cui dovesse restituirsi anche quanto pagato per il fee d'ingresso. Con detto motivo, la D. aveva quindi censurato la prima decisione perchè aveva accolto la domanda attrice per l'intera somma pagata, argomentando dalla pretesa impossibilità di distinguere, nell'ambito della complessiva somma sborsata (Euro 30.000,00), tra quota per l'ingresso e quota per il know-how, anzichè, come avrebbe dovuto, rigettare integralmente la domanda per mancato assolvimento dell'onere della prova da parte della C..
Ha quindi errato la Corte del merito laddove non ha rilevato la nullità della domanda per difetto di causa petendi in relazione al diritto di entrata, di fatto accolta (seppur in misura ridotta) pur in assenza di qualsivoglia ragione posta a suo fondamento.
2.1 - Deve anzitutto affrontarsi il secondo motivo del ricorso incidentale, avente carattere pregiudiziale. Esso è inammissibile e comunque infondato.
Premesso, infatti, che la violazione denunciata attiene, più propriamente, ad un preteso vizio del procedimento (lamentandosi, nella sostanza, il fraintendimento da parte della Corte del relativo motivo d'appello, il cui contenuto sarebbe stato travisato), ed avrebbe dovuto essere proposta ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell'art. 112 c.p.c., essa è comunque palesemente insussistente circa i suoi presupposti (ossia, che la domanda della C. fosse affetta da parziale indeterminatezza riguardo alla causa petendi). Infatti, è noto che "Quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un'attività deviante rispetto ad un
modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, ed in particolare un vizio afferente alla nullità dell'atto introduttivo del giudizio per indeterminatezza dell'oggetto della domanda o delle ragioni poste a suo fondamento, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all'esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) - (così, Xxxx., Sez. Un., n. 8077/2012).
Ora, dall'esame del ricorso ex art. 447 bis c.p.c. proposto dalla C. (e prodotto in copia dalla ricorrente incidentale) emerge chiaramente che la questione della non debenza della somma di Euro 30.000,00 è stata proposta dalla predetta sia riguardo all'assenza del know-how, sia riguardo al fee d'ingresso, sul comune presupposto della inapplicabilità dei dettami della L. n. 129 del 2004 ad un contratto come quello in essere tra le parti, da qualificarsi come affitto di azienda (v., in particolare, pp. 4 e 5 dell'atto introduttivo).
Correttamente (seppur con motivazione troppo succinta), quindi, la Corte veneta ha disatteso il secondo motivo d'appello della D., rilevando che essa società - a fronte della pretesa nullità del ricorso per indeterminatezza della domanda - s'era comunque adeguatamente difesa nel merito, "con ciò dimostrando la piena comprensibilità del diritto fatto valere dalla C.". Ad integrazione della stringata motivazione adottata dalla Corte territoriale, può anche aggiungersi che - contrariamente a quanto sostenuto dalla D. Caffè - non è affatto vero che la C. non abbia mai dedotto alcunchè riguardo alla non debenza della somma pagata anche per il fee d'ingresso, risultando dall'esame del ricorso introduttivo, come s'è detto, l'esatto contrario. Alcuna nullità della domanda per mancanza della editio actionis, quindi, può riscontrarsi al riguardo, con la conseguenza che la decisione di rigetto del relativo motivo d'appello deve ritenersi corretta.
3.1 - Deve ora affrontarsi, nell'ordine logico, il primo motivo del ricorso principale. Esso è infondato.
Infatti, al contrario di quanto sostenuto dalla C., la D. Xxxxx non ha affatto prestato acquiescenza alla declaratoria di nullità della clausola di cui all'art. 1 del contratto adottata dal Tribunale, giacchè, con il primo motivo d'appello, la società ha più radicalmente contestato l'applicabilità della L. n. 129 del 2004, dalla cui definizione normativa del know-how il primo giudice aveva fatto discendere la detta nullità, come s'è detto (v.
par. 1.2); ciò perchè, secondo la stessa D., il contratto inter partes era da qualificarsi come affitto d'azienda e perchè, in ogni caso, il riferimento al know-how operato in contratto era da intendersi in senso atecnico. Ne deriva che, se detto motivo di gravame fosse stato accolto dalla Corte territoriale, la declaratoria di nullità della clausola sarebbe stata inevitabilmente travolta, per l'effetto espansivo di cui all'art. 336 c.p.c., comma 1, sicchè è di tutta evidenza che alcuna acquiescenza della D. possa configurarsi sul punto.
4.1 - Venendo al secondo motivo del ricorso principale e al primo dell'incidentale - da scrutinarsi congiuntamente perchè di contenuto specularmente opposto e, pertanto, intimamente collegati - essi sono entrambi in parte inammissibili e in parte infondati.
4.2 - Come risulta dagli atti, il giudice di primo grado ha accertato che le parti hanno concluso un contratto di affitto di ramo d'azienda (avente ad oggetto il Bar "Bottega del Caffè D." in Pordenone, di proprietà della stessa D.), con inserimento di ulteriori clausole tipiche di un contratto di affiliazione commerciale e prevedendo, in particolare, all'art. 1, il diritto della C. di usare i segni distintivi dell'azienda, di fruire del relativo know- how, dell'assistenza tecnica, dell'addestramento o aggiornamento degli addetti al punto vendita e delle promozioni pubblicitarie realizzate dall'affiliante. A fronte di ciò, "La parte affiliata, a sua volta, per diritto d'entrata ed apprendimento know-how dichiara di aver già versato prima d'ora alla società affiliante, a titolo di una tantum, l'importo di Euro 30.000,00 (trentamila/00) + I.V.A.".
La Corte lagunare, invece, ha riqualificato il contratto come franchising puro, implicitamente discostandosi dalla qualificazione data all'accordo dal primo giudice ed evidenziando soprattutto che quelle clausole di coordinamento della gestione della "Bottega" affittata alla C. rispetto alle omologhe "Botteghe" sparse sul territorio ne caratterizzavano il tipo come affiliazione, sicchè erano senz'altro applicabili le regole di cui alla L.
n. 129 del 2004. Al contempo, la Corte ha (anche qui) implicitamente escluso (sia pur mediante un non lineare ragionamento a contrario) che vi fosse nullità della clausola in questione, affermando che le parti avevano espressamente regolamentato il quid rappresentato dal patrimonio di conoscenze pratiche indispensabili per l'uso, la vendita, la gestione dei servizi contrattuali, ossia il know-how, tanto da prevederne la messa a disposizione, da parte della D. Caffè, dietro pagamento di un corrispettivo. Aggiungeva la Corte che era rimasto comunque provato che, almeno in parte, la D. aveva provveduto a tale trasmissione di conoscenze.
Nella sostanza, la Corte veneta - accogliendo parzialmente il gravame della società - ha disatteso la statuizione del primo giudice, ritenendo la
xxxxxxxx sul know-how valida e sufficientemente specifica, essendo anche rimasto provato che la D. aveva messo a disposizione personale che, periodicamente, indirizzava l'affiliata nell'organizzazione della caffetteria e nella gestione della stessa, garantendo l'uso dei segni distintivi e la fornitura della materia prima.
4.3.1 - Ciò posto, deve da un lato escludersi che la qualificazione del contratto in termini di franchising, come preteso dalla D. (che pure afferma di non aver interesse ad impugnare incidentalmente la decisione di secondo grado sul punto), fosse preclusa alla Corte d'appello per essere la relativa questione coperta dal giudicato: al contrario, la decisione di primo grado (che aveva qualificato l'accordo come contratto atipico, fondato principalmente sull'affitto di azienda, con previsione di alcune clausole proprie del contratto di affiliazione commerciale) era stata specificamente impugnata da essa società con l'appello, per sostenere la tipicità del contratto sub specie di affitto di azienda tout court, come risulta inequivocabilmente dal testo dell'impugnata sentenza. Da ciò deriva che la Corte territoriale, laddove ha affermato che il contratto tra le parti va qualificato come un tipico contratto di franchising, non è incorsa in alcuna ultrapetizione, giacchè la qualificazione del contratto era questione che, certamente, le era stata devoluta col gravame; ed è appena il caso di evidenziare che tale aspetto merita di essere puntualizzato, poichè la nuova qualificazione del contratto operata dal giudice d'appello - con statuizione non impugnata in questa sede e, quindi, definitiva - implica la piana applicabilità dei dettami della L. n. 129 del 2004 alla fattispecie, laddove invece la qualificazione operata dal primo giudice avrebbe comportato la necessità di far ricorso alla teoria dell'assorbimento (o della prevalenza), in conformità con l'insegnamento di Xxxx., Sez. Un., n. 11656/2008, onde verificare se la citata legge potesse applicarsi o meno al caso che occupa.
4.3.2 - Infondata risulta, poi, la tesi della C. circa la pretesa omissione in cui sarebbe incorsa la Corte lagunare riguardo all'accertamento della consistenza del know-how: infatti, il giudice d'appello ha individuato il contenuto del know-how trasferito dalla D. alla stessa C. nel "quid rappresentato dal patrimonio di conoscenze pratiche indispensabili all'affiliato per l'uso, la vendita, la gestione e l'organizzazione dei servizi contrattuali".
4.4 - Molto più complesso è il secondo gruppo di questioni poste dai motivi in esame: da un lato, la pretesa assoluta mancanza di determinazione del contenuto del know-how in contratto, che renderebbe nulla la relativa clausola; dall'altro, la natura di contenuto accessorio del know-how rispetto al contratto di franchising, che potrebbe quindi sussistere anche senza detto elemento.
Iniziando proprio da tale ultimo profilo, e ribadito che il negozio in questione - in forza del giudicato interno sul punto - è un contratto di affiliazione commerciale e che, quindi, è soggetto alla disciplina di cui alla L. n. 129 del 2004, occorre muovere dalla definizione normativa contenuta dall'art. 1, comma 3, lett. a) detta legge, secondo cui si intende "per know-how, un patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate derivanti da esperienze e da prove eseguite dall'affiliante, patrimonio che è segreto, sostanziale ed individuato".
Ciò posto, può in primo luogo senz'altro affermarsi che il requisito del know-how, ai fini della stipula del contratto di franchising, non costituisce elemento indefettibile del tipo, atteso che l'art. 1, comma 1, della citata legge espressamente stabilisce che "1. L'affiliazione commerciale (franchising) è il contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all'altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l'affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi". In forza del disposto normativo, quindi, il contratto di affiliazione commerciale non deve riguardare cumulativamente tutti gli aspetti regolati dalla norma, solo rilevando la concessione all'affiliato della disponibilità di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale - ossia, la sperimentata formula commerciale, che può concernere uno o più profili elencati dalla norma stessa - nell'ottica dell'inserimento dell'impresa dello stesso affiliato in una articolata rete territoriale riferibile all'affiliante e composta da una pluralità di altri affiliati, con lo scopo di commercializzare determinati beni o servizi. Sussistendo tale insieme, ben può quindi configurarsi un contratto di franchising privo della clausola concernente la trasmissione del know-how dal franchisor al franchisee.
La contraria tesi, sostenuta dalla dottrina maggioritaria, secondo cui invece il know-how è un elemento indefettibile del contratto di affiliazione commerciale, non tiene tuttavia conto del chiaro disposto del citato art. 1, comma 1, che tale indefettibilità non prevede; nè, tantomeno, essa può ricavarsi dalla stessa L. n. 129 del 2004, art. 3, comma 4, lett. d), a mente del quale il contratto deve espressamente indicare "la specifica del know-how fornito dall'affiliante all'affiliato": detta previsione normativa, infatti, non consente di far assurgere il requisito in discorso ad elemento essenziale del tipo, ma solo a disciplinare il contenuto della relativa clausola, se prevista in contratto. Del resto, la tesi in discorso - fondamentalmente basata su una ricognizione dell'id quod plerumque accidit, avuto riguardo al modo in cui
il franchising s'è affermato nella prassi commerciale (nel senso, cioè, che di norma il contratto in discorso prevede la trasmissione del know-how), nonchè sulla definizione contenuta nell'ormai abrogato Reg. CEE n. 4087/88 (che attribuiva invece al know-how vero e proprio carattere strutturale del negozio) - non considera adeguatamente lo sviluppo diacronico dell'istituto, specie a seguito della sua tipizzazione ad opera della ripetuta L. n. 129 del 2004, dalla cui definizione non può ovviamente prescindersi.
4.5.1 - Ciò posto sul piano generale, risulta poi evidente che nel momento in cui le parti, concludendo un contratto di franchising, fanno espresso riferimento ad istituti comunque caratteristici di tale tipo - quale il diritto d'entrata e il know-how, come nella specie - affermare (come fanno rispettivamente la C. e la D. Caffè) che la relativa clausola non sia specifica, o che in realtà esse avessero inteso qualcosa di diverso rispetto al nomen utilizzato, implica la necessità di confrontarsi con le norme in tema di interpretazione del contratto (la cui violazione è stata peraltro dedotta dalla sola ricorrente incidentale) e con i relativi limiti entro i quali ne è possibile la denuncia in sede di legittimità, noto essendo che "La parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell'interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., avendo invece l'onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l'interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, xxxxxx quest'ultima non deve essere l'unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l'altra" (Cass. n. 28319/2017); e ancora, dovendo ribadirsi che "In tema di ermeneutica contrattuale, l'accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo nell'ipotesi di violazione dei canoni legali d'interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss. Ne consegue che il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d'interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali" (ex multis, Cass. n. 27136/2017).
4.5.2 - Pertanto, a fronte di quanto accertato dalla Corte d'appello circa il contenuto del know-how come descritto in contratto (v. par. 4.3.2), non possono che derivare, anzitutto, l'inammissibilità di entrambi i motivi in esame, ed in ogni caso la loro infondatezza.
Essi sono infatti inammissibili perchè non censurano adeguatamente (v. giurisprudenza prima riportata) l'accertamento in fatto eseguito dalla Corte d'appello circa la comune volontà delle parti riguardo alla sussistenza, alla consistenza e alla specificità del know-how.
Inoltre, essi sono anche infondati: se il know-how, ai sensi della L. n. 129 del 2004, art. 1, comma 3, lett. a), deve avere le caratteristiche di segretezza, sostanzialità e individuabilità, non può certo sostenersi (come pretende la D.) che il "quid" che essa società s'era impegnata a trasferire alla C. non sia suscettibile di integrare know-how perchè non può essere a) nè segreto, b) xx xxxxxxxxxxx, x) xx individuato.
Infatti, si tratta di caratteristiche che ben possono configurarsi anche per il "patrimonio di conoscenze pratiche indispensabili all'affiliato" (così l'impugnata sentenza) per la gestione della "Bottega del Caffè D.", atteso che aa) la legge non prescrive, anzitutto, debba trattarsi di un patrimonio di conoscenze inaccessibile, in quanto esso deve solo essere "non generalmente noto nè facilmente accessibile", rilevando peraltro la concreta combinazione di tali conoscenze come sperimentate dal franchisor nella sua rete, a prescindere dalla loro analitica conoscibilità; analogamente, bb) esso deve ricomprendere le "conoscenze indispensabili all'affiliato per l'uso, per la vendita o la rivendita, la gestione o l'organizzazione dei beni o servizi contrattuali", nel senso da costituire un'utilità economica effettiva per l'affiliato, di cui egli si serva nell'esercizio della propria attività in quella specifica rete di franchising; infine, cc) esso deve essere individuato, cioè "descritto in modo sufficientemente esauriente, tale da consentire di verificare se risponde ai criteri di segretezza e di sostanzialità", requisito che, come ritenuto in dottrina, risponde ad un duplice interesse, sia del franchisor, che del franchisee: del primo, perchè egli può così vigilare sull'eventuale abuso che ne faccia l'affiliato, e di quest'ultimo, perchè gli consente di verificare se il know-how sia effettivamente dotato dei requisiti di segretezza e sostanzialità.
A tal ultimo proposito, ribadito che la Corte lagunare ha accertato l'esatto perimetro del know-how come emergente dal contratto (e, quindi, la sua specificità, così implicitamente ritenendo la validità della relativa clausola perchè non in contrasto con la citata previsione normativa), va anche evidenziato - e ciò vale a disattendere comunque la tesi della C. - che il requisito della specificità del know-how, tenuto conto della generale applicabilità dell'affiliazione commerciale ad ogni
settore dell'attività economica (art. 1, comma 2 L. cit.), non può che avere un contenuto necessariamente elastico, tale da attagliarsi alla (maggiore o minore) complessità strutturale della rete commerciale dell'affiliante e, quindi, all'attività imprenditoriale esercitata in concreto dall'affiliato e dedotta in contratto: quanto meno articolate esse si presentino (come nella specie, in cui l'affiliazione concerne la gestione di un semplice bar-caffetteria, con caratteristiche di riconoscibilità limitate ad uno specifico e ristretto ambito territoriale), tanto più "leggera" potrà essere la descrizione del know-how contenuta nel testo contrattuale, fermo restando che essa non può comunque svilirsi verso formule eccessivamente generiche e fumose, stante la previsione normativa di cui all'art. 1, comma 3, lett. a) L. cit.
5.1 - Infine, il terzo motivo del ricorso principale è inammissibile.
La ricorrente non ha infatti colto la ratio decidendi della sentenza impugnata: la Corte ha deciso, sul punto, che era stata raggiunta la prova che la C. aveva recuperato l'IVA versata, in ambito fiscale, sicchè la relativa somma pagata non poteva costituire oggetto di ripetizione, pena - nella sostanza - la locupletazione in danno della D. Caffè. La C., tuttavia, non ha censurato tale percorso argomentativo, solo ribadendo che si tratta di somme comunque sborsate e che quindi devono esserle restituite, censura che solo in parte assorbe la già descritta ratio decidendi, non colpendo la questione della illegittima locupletazione.
6.1 - In definitiva, sia il ricorso principale che quello incidentale sono rigettati. Dalla reciproca soccombenza, deriva l'integrale compensazione delle spese del giudizio di legittimità.
In relazione alla data di proposizione del ricorso per cassazione (successiva al 30 gennaio 2013), può darsi atto dell'applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo
introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).
P.Q.M.
rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale e compensa le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater
(nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto
per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 12 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2018