SEMINARIO DIDATTICO
SEMINARIO DIDATTICO
IL DIRITTO VIVENTE TRA LEGGE E GIURISPRUDENZA
I. OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
RIFLESSIONI IN MATERIA DI USURA
(Relatore: Xxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxxx)
Cass., 31 Gennaio 2017, n. 2484
La I Sezione della Corte di cassazione ha rimesso al Primo Presidente, per l’assegnazione alle Sezioni Unite, la questione riguardante la possibilità di predicare la nullità sopravvenuta, seppure con effetto ex nunc, dei contratti di mutuo a tasso fisso conclusi in epoca antecedente all’entrata in vigore della L. 7 marzo 1996, n. 108, allorché il tasso di interesse, pure non usurario al momento della stipula, risulti, in un qualsiasi momento dell’attuazione del rapporto, superiore alla soglia usura come determinata ai sensi del criterio di calcolo disciplinato dall’art. 2 della predetta legge.
Eurofinanziaria ha convenuto in giudizio Monte dei Paschi di Siena chiedendo la ripetizione degli importi pagati in violazione della L. n. 108 del 1996, in virtù di un contratto di mutuo fondiario stipulato il 17/1/1990 dell’importo di 14 miliardi di Lire con ammortamento in 10 anni e tasso d’interesse 7,75 semestrale, precisando che il Monte dei Paschi non aveva consentito la rinegoziazione del mutuo dopo l’entrata in vigore della normativa antiusura.
Il tribunale ha accolto la domanda di ripetizione dell’indebito all’esito dell’espletamento di consulenza tecnica d’ufficio, condannando il Monte Paschi di Siena al pagamento della somma di Euro 324.460 con interessi legali a far data dal giugno 1999. In particolare, il Tribunale ha escluso la natura di mutuo fondiario agevolato al contratto in questione ritenendo di conseguenza applicabile la normativa antiusura.
La Corte d’Appello su impugnazione della banca ha invece respinto la domanda proposta da Eurofinanziaria così argomentando:
il quadro probatorio induce univocamente ad affermare che il contratto posto in essere deve qualificarsi di mutuo fondiario agevolato regolato dal D.P.R. n. 7 del 1976.
Tale tipologia contrattuale è assoggettata a normativa speciale che prevale sul regime generale di cui all’art. 1815 c.c.. Ne consegue la legittimità dei tassi d’interesse applicati.
Le puntuali difese dell’appellante fondate sulla normativa dettata in materia di mutui fondiari (D.P.R. n. 7 del 1976, art. 14) sono rimaste prive di replica adeguata.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione Eurofinanziaria con cinque motivi. Ha resistito con controricorso il Monte Paschi di Siena. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Nel primo motivo viene dedotta sia sotto il profilo del vizio di violazione che ex art. 360 c.p.c.,
n. 5, ante vigente la erroneità della qualificazione del contratto di mutuo in oggetto come fondiario. La Corte ha adottato un criterio meramente nominalistico. Nella specie non è stato raccolto il credito con obbligazioni garantite (ovvero mediante le cartelle di mutuo fondiario). Nel secondo motivo viene dedotta sia sotto il profilo del vizio della violazione di legge che ex art. 360 c.p.c., n. 5, ante vigente l’erroneità della decisione della Corte d’Appello relativa all’inapplicabilità nella specie della normativa antiusura anche qualora il contratto fosse regolato dalla lex specialis.
Nel terzo motivo viene dedotto il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla qualificazione del mutuo come "agevolato" senza alcuna giustificazione e con palese illegittimità delle conseguenze (inapplicabilità l. n. 108 del 1996) scaturenti da tale qualificazione, meramente affermate. La censura viene formulata al medesimo fine anche ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4.
L’esame dei primi due motivi deve essere congiunto per ragioni di connessione logica. L’indagine da svolgere preliminarmente riguarda l’applicabilità della normativa antiusura al contratto dedotto in giudizio anche qualora fosse realmente qualificabile come mutuo fondiario, regolato ratione temporis dal D.P.R. 21 luglio 1976, n. 7.
Ritiene il Collegio che il regime derogatorio della disciplina legale imperativa relativa all’ambito di esplicazione dell’autonomia negoziale in ordine all’applicazione degli interessi passivi, moratori o compensativi, sia limitato alla non vigenza per contratti di mutuo fondiario del divieto di anatocismo. L’indice normativo dal quale si trae tale conclusione è dettato dall’art. 14, del D.P.R. sopra citato che così recita:
"Il pagamento delle rate di ammortamento dei prestiti non può essere ritardato da alcuna opposizione. Le somme dovute a tale titolo producono, di pieno diritto, interesse dal giorno della scadenza. La misura degli interessi di mora da corrispondersi dai mutuatari agli enti sulle somme dovute e non pagate, stabilita dal primo comma della L. 17 agosto 1974, n. 397, art. 2, può essere modificata con decreto del Ministro per il tesoro, sentito il Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio".
Tale deroga, peraltro non è più vigente così come evidenziato dalla pronuncia 22/5/2014 n. 11400 di questa Corte che si riproduce: "Con l’entrata in vigore del D.Lgs. 1 settembre 1993,
n. 385, (cosiddetto t.u.b.), secondo il quale qualsiasi ente bancario può esercitare operazioni di credito fondiario la cui provvista non è più fornita attraverso il sistema delle cartelle fondiarie, la struttura di tale forma di finanziamento ha perso quelle peculiarità nelle quali risiedevano le ragioni della sottrazione al divieto di anatocismo di cui all’art. 1283 c.c., rinvenibili nel carattere pubblicistico dell’attività svolta dai soggetti finanziatori (essenzialmente istituti di diritto
pubblico) e nella stretta connessione tra operazioni di impiego e operazioni di provvista, atteso che gli interessi corrisposti dai terzi mutuatari non costituivano il godimento di un capitale fornito dalla banca, ma il mezzo per consentire alla stessa di far fronte all’eguale importo di interessi passivi dovuto ai portatori delle cartelle fondiarie (i quali, acquistandole, andavano a costituire la provvista per l’erogazione dei mutui). Ne consegue che l’avvenuta trasformazione del credito fondiario in un contratto di finanziamento a medio e lungo termine garantito da ipoteca di primo grado su immobili, comporta l’applicazione delle limitazioni di cui al citato art. 1283 c.c., e che il mancato pagamento di una rata di mutuo non determina più l’obbligo (prima normativamente previsto) di corrispondere gli interessi di mora sull’intera rata, inclusa la parte rappresentata dagli interessi corrispettivi, dovendosi altresì escludere la vigenza di un uso normativo contrario". La applicazione ratione temporis del citato art. 4, non autorizza, tuttavia, a ritenere, in mancanza di qualsivoglia indicatore normativo proveniente dalla disciplina di settore e dal sistema legislativo di tutela penale e civile dall’usura, che, limitatamente ai contratti di mutuo fondiario, si possa eludere il divieto di applicazione di tassi usurari in ordine agli interessi corrispettivi dovuti in virtù dell’accensione di un mutuo. La natura del divieto, la sua inderogabilità assoluta, la sanzione penale che ne accompagna la violazione ex art. 644 c.p., così come novellato dalla L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 1, e la correlata sanzione civile della non debenza di alcun interesse in caso di superamento del tasso soglia ex art. 1815 c.c., comma 2, così come novellato dalla L. n. 108 del 1996, art. 4, inducono univocamente a ritenere che il sistema antiusura abbia un’ applicabilità generale (con riferimento alle tipologie contrattuali previste dalla L. n. 108 del 1996, art. 2) e non possa desumersene alcuna deroga in via interpretativa essendo necessaria un’espressa indicazione legislativa contraria.
- Stabilita l’applicabilità, in astratto ed in via generale, anche ai contratti di mutuo fondiario del sistema normativo antiusura contenuto nella citata L. n. 108 del 1996, occorre verificarne l’incidenza in concreto, ancorchè la questione non sia stata trattata dalla Corte d’Appello, dal momento che, ove se ne dovesse escludere l’applicabilità al contratto in oggetto, in quanto sorto anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 108 del 1996, si dovrebbe concludere il giudizio con una statuizione di rigetto con correzione della motivazione in diritto. Sull’efficacia della normativa antiusura sui contratti sorti anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 108 del 1996, ma che hanno avuto vigenza anche successivamente ad essa, è intervenuta la legge d’interpretazione d’autentica introdotta dal D.L. 29 settembre 2000, n. 394, art. 1, convertito nella L. 28 febbraio 2001, n. 24, stabilendo che "Ai fini dell’applicazione dell’art. 644 c.p., e dell’art. 1815 x.x., xxxxx 0, xx intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento". La norma è stata dichiarata costituzionalmente legittima dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 29 del 2002, nella quale si afferma "La norma denunciata trova giustificazione, sotto il profilo della ragionevolezza, nell’esistenza di tale obiettivo dubbio ermeneutico sul significato delle espressioni "si fa dare (...) interessi (...1 usurari" e "facendo dare (...) un compenso usurario" di cui all’art. 644 c.p., in rapporto al tenore dell’art. 1815 x.x., xxxxx 0, ("xx sono convenuti interessi usurari") ed agli effetti correlativi sul rapporto di mutuo. Il D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, nel precisare che le sanzioni penali e civili di cui all’artt. 644 c.p., e art. 1815 c.c., comma 2, trovano applicazione con riguardo alle sole ipotesi di pattuizioni originariamente usurarie, impone tra le tante astrattamente possibili un’interpretazione chiara e lineare delle
suddette norme codicistiche, come modificate dalla L. n. 108 del 1996, che non è soltanto pienamente compatibile con il tenore e la ratio della suddetta legge ma è altresì del tutto coerente con il generale principio di ragionevolezza. La fattispecie sottoposta vaglio della Corte Costituzionale è identica a quella sottoposta al presente giudizio.
- Deve, tuttavia, rilevarsi che anche dopo l’intervento legislativo d’interpretazione autentica e l’avallo della Corte Costituzionale gli orientamenti giurisprudenziali, ed in particolare quelli di questa Corte manifestano un netto contrasto.
- Una delle opzioni interpretative esclude che, all’esito dell’interpretazione autentica intervenuta D.L. n. 394 del 2000, ex art. 1, convertito nella L. n. 241 del 2001, il superamento del tasso soglia degli interessi corrispettivi originariamente convenuti in modo legittimo (senza oltrepassare il limite dell’usurarietà), in corso di esecuzione del rapporto possa determinarne ex artt. 1339 e 1418 c.c., la riconduzione entro il predetto tasso soglia stabilito dalla legge così come integrata dai D.M. periodicamente emanati al riguardo. Viene valorizzato, da quest’orientamento, il dato testuale del D.L. n. 394 del 2000, art. 1, ed in particolare la locuzione "indipendentemente dal loro pagamento". La legittimità iniziale del tasso convenzionalmente pattuito spiega la sua efficacia per tutta la durata del contratto nonostante l’eventuale sopravvenuta disposizione imperativa che per una frazione o per tutta la durata del contratto successiva al suo sorgere ne rilevi la natura usuraria a partire da quel momento in poi.
- Questo orientamento, formatosi su fattispecie consistenti in contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della L. n. 108 del 1996, ha trovato recente conferma nella sentenza 29/1/2016 n. 801 così massimata: "I criteri fissati dalla L. n. 108 del 1996, per la determinazione del carattere usurario degli interessi, non si applicano alle pattuizioni di questi ultimi anteriori all’entrata in vigore di quella legge, siano esse contenute in mutui a tasso fisso variabile, come emerge dalla norma di interpretazione autentica contenuta nel D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, (conv., con modif., dalla L. n. 24 del 2001), che non reca una tale distinzione. In precedenza il medesimo principio è contenuto nella sentenza 19/3/2007 n. 6514 (in motivazione) e 27/9/2013 n. 22204 in motivazione. Si ritiene di non citare le numerose sentenze massimate che affermano i medesimi principi ma riguardano rapporti del tutto esauriti e non ancora in corso al momento della vigenza della L. n. 108 del 1996 (a titolo esemplificativo si citano Cass. 25/3/2003 n. 4380; 19/3/2007 n. 6514 e 17/12/2009 n. 26499).
Parallelamente all’orientamento illustrato se ne sviluppato uno speculare di recente confermato dalla pronuncia 17/8/2016 n. 17150 così massimata: "Le norme che prevedono la nullità dei patti contrattuali che determinano la misura degli interessi in tassi così elevati da raggiungere la soglia dell’usura (introdotte con la L. n. 108 del 1996, art. 4), pur non essendo retroattive, comportano l’inefficacia ex nunc delle clausole dei contratti conclusi prima della loro entrata in vigore sulla base del semplice rilievo, operabile anche d’ufficio dal giudice, che il rapporto giuridico, a tale momento, non si era ancora esaurito". Questa pronuncia, unitamente a molte altre relative a fattispecie identiche non contiene nello sviluppo motivazionale, il riferimento espresso alla citata norma d’interpretazione autentica (D.L. n. 394 del 2002, art. 1) ed al successivo avallo della Corte Costituzionale (si richiamano al riguardo anche le sentenze 14/3/2013 n. 6550, n.602 del 2013; 17854 del 2007). Nella pronuncia 31/1/2006 n. 2140 si fa, invece, espresso riferimento, a differenza che nelle altre, all’intervenuta legge d’interpretazione autentica della L. n. 108 del 1996, artt. 1 e 4, e alla sentenza della Corte Costituzionale n. 29 del 2002. Ugualmente il richiamo si ritrova nella sentenza n. 11638 del 2016. - In conclusione,
evidenziato il radicale contrasto anche sincronico tra i due orientamenti, il Collegio ritiene di rimettere la causa al Primo presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite di questa Corte.
dispone la trasmissione del procedimento al Primo presidente per l’eventuale rimessione alle Sezioni Unite civili.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 8 novembre 2016. Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2017.
Xxxx., sez. un., 19 Ottobre 2017, n. 24675
Nei contratti di mutuo, allorché il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura, come determinata in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula, né la pretesa del mutuante, di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato, può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di detta soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto.
FATTO
1. La Eurofinanziaria s.p.a. convenne in giudizio la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. chiedendo dichiararsi nulla la previsione del tasso d’interesse del 7,75 % fisso semestrale, contenuta nel mutuo decennale di 14 miliardi di lire concluso con la convenuta il 19 gennaio 1990, perchè detto xxxxx era superiore al tasso soglia determinato secondo le previsioni dalla L. 7 marzo 1996, n. 108, in materia di usura, entrata in vigore nel corso del rapporto. Chiese, conseguentemente, la condanna della convenuta al rimborso degli interessi già riscossi, dovendo il mutuo considerarsi gratuito, o comunque al rimborso della parte di tali interessi eccedente il tasso legale o quello ritenuto giusto, nonchè al risarcimento dei danni, anche morali, conseguenti al reato di usura commesso dalla banca, rifiutatasi di rinegoziare il tasso a seguito dell’entrata in vigore della Legge n. 108, cit..
La convenuta resistette e il Tribunale di Milano accolse la domanda, condannando la banca al rimborso degli interessi riscossi per la parte eccedente il tasso soglia.
2. La sentenza di primo grado è stata integralmente riformata dalla Corte d’appello su impugnazione della banca soccombente.
Qualificato il rapporto come mutuo fondiario, la Corte ha ritenuto applicabile il D.P.R. 21 gennaio 1976, n. 7, sulla disciplina del credito fondiario; dal che deriva, a suo giudizio, la legittimità del contratto di mutuo, con la relativa determinazione del tasso d’interesse, e l’assorbimento di ogni altra questione.
3. La Eurofinanziaria ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi. La Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. si è difesa con controricorso.
Il ricorso è stato assegnato alle Sezioni Unite a seguito dell’ordinanza interlocutoria 31 gennaio 2017, n. 2484 della Prima Sezione, con cui, premessa l’applicabilità della legge n. 108 del 1996 anche ai mutui fondiari, è stato rilevato un contrasto di giurisprudenza, all’interno di quella Sezione, sulla questione - qui rilevante in conseguenza della premessa appena indicata dell’incidenza del sistema normativo antiusura, introdotto dalla richiamata legge, sui contratti stipulati anteriormente alla sua entrata in vigore, anche alla luce della norma di interpretazione autentica di cui al D.L. 29 dicembre 2000, n. 394, art. 1, comma 1, conv. dalla Legge 28
Le parti hanno anche presentato memorie.
DIRITTO
1. Con il primo motivo di ricorso, denunciando vizio di motivazione e violazione di norme di diritto, si contesta la qualificazione del mutuo oggetto di causa come fondiario sulla base del solo richiamo, nel contratto, del D.P.R. n. 7 del 1976, cit., a prescindere dall’accertamento dei necessari requisiti oggettivi.
2. Con il secondo motivo, denunciando violazione di norme di diritto e vizio di motivazione, si contesta che, comunque, la qualificazione del mutuo come fondiario comporti l’inapplicabilità delle disposizioni della L. n. 108 del 1996. In base a tali disposizioni si soggiunge - il tasso d’interesse che al momento della pattuizione non ecceda la soglia dell’usura determinata secondo il meccanismo previsto dalla medesima legge, ma che superi poi tale soglia nel corso del rapporto, è comunque illegittimo e comporta la nullità della relativa clausola contrattuale. Il che fa sorgere la necessità di individuare un tasso sostitutivo ai sensi degli artt. 1419 e 1339 c.c., non essendo invocabile la previsione di gratuità del mutuo di cui all’art. 1815, comma 2 - come modificato dalla stessa legge che è esclusa dall’interpretazione autentica di tale disposizione imposta dal D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, cit. Il tasso sostitutivo va individuato - si conclude - quantomeno in quello meno favorevole al mutuatario, ossia il tasso soglia, come ritenuto dal giudice di primo grado.
3. I due motivi, da esaminare congiuntamente data la loro connessione, non possono trovare accoglimento, anche se la motivazione della sentenza impugnata va corretta nei sensi che seguono (art. 384 c.p.c., u.c.).
3.1. E’ infatti privo di fondamento - come denunciato nella prima parte del secondo motivo di ricorso - l’assunto, da cui muove la Corte d’appello, che il carattere fondiario del mutuo dispensi dall’osservanza delle disposizioni della richiamata legge n. 108 sull’usura. Basterà osservare, in proposito, che nessuna disposizione o principio normativo (del resto non specificato nella sentenza impugnata) giustifica tale assunto e che non v’è, del resto, alcuna ragione per sottrarre l’importante settore del credito fondiario al divieto di usura e ai meccanismi approntati dalla legge per renderlo effettivo.
3.2. Conseguentemente il primo motivo di ricorso, attinente alla qualificazione del mutuo come fondiario, è assorbito.
3.3. Il fondamento, però, della prima parte del secondo motivo di ricorso non è sufficiente a far cadere la decisione impugnata, essendo infondata, invece, la seconda parte dello stesso motivo, avente ad oggetto la questione per la quale la Prima Sezione ha ritenuto necessario l’intervento di queste Sezioni Unite.
Essa riguarda l’applicabilità o meno delle norme della Legge n. 108 del 1996, ai contratti di mutuo stipulati prima dell’entrata in vigore di quest’ultima e consiste, più precisamente, nel chiarire quale sia la sorte della pattuizione di un tasso d’interesse che, a seguito dell’operatività del meccanismo previsto dalla stessa legge per la determinazione della soglia oltre la quale un tasso è da qualificare usurario, si riveli superiore a detta soglia.
Peraltro la questione della configurabilità di una "usura sopravvenuta" si pone non soltanto con riferimento ai contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996, come nel caso in esame, ma anche con riferimento a contratti successivi all’entrata in vigore della legge recanti tassi inferiori alla soglia dell’usura, superata poi nel corso del rapporto per effetto della caduta dei tassi medi di mercato, che sono alla base del meccanismo legale di determinazione dei tassi usurari: meccanismo basato, appunto, secondo la L. n. 108, art. 2, sulla rilevazione trimestrale dei tassi medi praticati per le varie categorie di operazioni creditizie, sui quali viene applicata una determinata maggiorazione. E si pone, in teoria, con riguardo sia ai tassi contrattuali fissi che a quelli variabili, anche se in pratica sono essenzialmente i primi a fornire la casistica sinora nota, dato che la variabilità consente normalmente di assorbire gli effetti del calo dei tassi medi di mercato. La questione sorse immediatamente all’indomani dell’entrata in vigore della L. n. 108. La giurisprudenza di legittimità iniziò ad orientarsi nel senso dell’applicabilità della legge ai rapporti pendenti alla data della sua entrata in vigore, con conseguenze sul tasso d’interesse contrattuale, sia pure riferite alla sola parte del rapporto successiva a tale data (cfr. Cass. Sez. 3^ 02/02/2000, n. 1126; Cass. Sez. 1^ 22/10/2000, n. 5286; Cass. Sez. 1^ 17/11/2000, n. 14899).
Ciò indusse il legislatore ad intervenire appunto con la già richiamata norma d’interpretazione autentica di cui al D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, che recita: "Ai fini dell’applicazione dell’art. 644 c.p., e dell’art. 1815 x.x., xxxxx 0, xx intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento". Si determinò, quindi, nella giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Corte (quasi tutta riferita a contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della L. n. 108 del 1996) il contrasto tra due orientamenti richiamato nell’ordinanza di rimessione.
Un primo orientamento (cfr. Cass. Sez. 3^ 26/06/2001, n. 8742; Cass. Sez. 1^ 24/09/2002, n. 13868; Cass. Sez. 3^ 13/12/2002, n. 17813; Cass. Sez. 3^ 25/03/2003, n. 4380; Cass. Sez. 3^
08/03/2005, n. 5004; Cass. Sez. 1^ 19/03/2007, n. 6514; Cass. Sez. 3^ 17/12/2009, n. 26499;
Cass. Sez. 1^ 27/09/2013, n. 22204; Cass. Sez. 1^ 19/01/2016, n. 801) dà alla questione della configurabilità dell’ usura sopravvenuta risposta negativa. Ciò in quanto la norma d’interpretazione autentica attribuisce rilevanza, ai fini della qualificazione del tasso convenzionale come usurario, al momento della pattuizione dello stesso e non al momento del pagamento degli interessi; cosicchè deve escludersi che il meccanismo dei tassi soglia previsto dalla legge n. 108 sia applicabile alle pattuizioni di interessi stipulate in data precedente la sua entrata in vigore, anche se riferite a rapporti ancora in corso a tale data (pacifico essendo, peraltro, nella giurisprudenza di legittimità, che la L. n. 108 del 1996, non può trovare applicazione quanto ai rapporti già esauritisi alla medesima data).
In altre decisioni, al contrario, è stata affermata l’incidenza della nuova legge sui contratti in corso alla data della sua entrata in vigore, omettendo tuttavia di prendere in considerazione la norma d’interpretazione autentica di cui al D.L. n. 394 del 2000, cit.:
- Cass. Sez. 3^ 13/06/2002, n. 8442; Cass. Sez. 3^ 05/08/2002, n. 11706 e Cass. Sez. 3^ 25/05/2004, n. 10032 si sono semplicemente richiamate alla giurisprudenza precedente al decreto legge;
- Cass. Sez. 1^ 25/02/2005, n. 4092; Cass. Sez. 1^ 25/02/2005, n. 4093; Cass. Sez. 3^ 14/03/2013, n. 6550; Cass. Sez. 3^ 31/01/2006, n. 2149 e Cass. Sez. 3^ 22/08/2007, n. 17854
hanno precisato (le prime tre in obiter dicta) che la clausola contrattuale recante un tasso che poi superi il tasso soglia non diviene, in conseguenza di tale superamento, nulla, bensì inefficace ex nunc, e tale inefficacia non può essere rilevata d’ufficio;
- Cass. Sez. 1^ 11/01/2013, n. 602 e n. 603 hanno affermato che nei casi di superamento della soglia del tasso usurario per effetto dell’entrata in vigore della L. n. 108, cit., opera la sostituzione automatica, ai sensi dell’art. 1319 x.x., x xxx. 0000 x.x., xxxxx 0, xxx xxxxx xxxxxx del tempo al tasso convenzionale;
- Cass. Sez. 1^ 17/08/2016, n. 17150 sostiene la rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia di cui sopra.
Invece Cass. Sez. 1^ 12/04/2017, n. 9405, nell’affermare l’applicabilità del tasso soglia in sostituzione del tasso contrattuale che sia divenuto superiore ad esso, fa espresso riferimento alla richiamata norma d’interpretazione autentica, escludendone però la rilevanza in quanto essa non eliminerebbe l’illiceità della pretesa di un tasso d’interesse ormai eccedente la soglia dell’usura, ma si limiterebbe ad escludere l’applicazione delle sanzioni penali e civili di cui all’art. 644 c.p., e art. 1815 x.x., xxxxx 0, xxxxx restando le altre sanzioni civili.
Quest’ultima tesi riprende in sostanza i contributi di una parte della dottrina, secondo la quale, mentre sarebbe sanzionata penalmente - nonchè, nel mutuo, con la gratuità - la pattuizione di interessi che superino la soglia di legge alla data della pattuizione stessa, viceversa la pretesa di pagamento di interessi a un tasso non usurario alla data della pattuizione, ma divenuto tale nel corso del rapporto, sarebbe illecita solo civilmente. Le conseguenze di tale illiceità sono diversamente declinate (nullità, inefficacia ex nunc) nelle varie versioni della tesi in esame, ma comprendono in ogni caso la sostituzione automatica, ai sensi dell’art. 1339 c.c., del tasso contrattuale o con il tasso soglia (secondo una versione), o con il tasso legale (secondo un’altra versione).
3.4. E’ avviso di queste Sezioni Unite che debba darsi continuità al primo dei due orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati, che nega la configurabilità dell’usura sopravvenuta, essendo il giudice vincolato all’interpretazione autentica dell’art. 644 c.p., e art. 1815 c.c., comma 2, come modificati dalla L. n. 108 del 1996, (rispettivamente all’art. 1 e all’art. 4), imposta dal D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, cit.; interpretazione della quale la Corte costituzionale ha escluso la sospetta illegittimità, per violazione degli artt. 3, 24, 47 e 77 Cost., con la sentenza 25/02/2002, n. 29, e della quale non può negarsi la rilevanza per la soluzione della questione in esame.
E’ priva di fondamento, infatti, la tesi della illiceità della pretesa del pagamento di interessi a un tasso che, pur non essendo superiore, alla data della pattuizione (con il contratto o con patti successivi), alla soglia dell’usura definita con il procedimento previsto dalla L. n. 108, superi tuttavia tale soglia al momento della maturazione o del pagamento degli interessi stessi.
3.4.1. La ragione della illiceità risiederebbe, come si è visto, nella violazione di un divieto imperativo di legge, il divieto dell’usura, e in particolare il divieto di pretendere un tasso d’interesse superiore alla soglia dell’usura come fissata in base alla legge.
Sennonchè il divieto dell’usura è contenuto nell’art. 644 c.p.; le (altre) disposizioni della L. n. 108, cit., non formulano tale divieto, ma si limitano a prevedere (per quanto qui rileva) un meccanismo di determinazione del tasso oltre il quale gli interessi sono considerati sempre usurari a mente, appunto, dell’art. 644 c.p., comma 3, novellato (che recita: "La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari"). La L. n. 108, art. 2, comma 4, cit. (che recita: "Il limite previsto dall’art. 644 c.p., comma 3, oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, è stabilito nel tasso...") definisce, sì, il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, ma si tratta appunto del limite previsto dall’art. 644 c.p., comma 3, essendo la norma penale l’unica che contiene il divieto di farsi dare o promettere interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità.
Una sanzione (che implica il divieto) dell’usura è contenuta, per l’esattezza, anche nell’art. 1815 c.c., comma 2, - pure oggetto dell’interpretazione autentica di cui si discute - il quale però presuppone una nozione di interessi usurari definita altrove, ossia, di nuovo, nella norma penale integrata dal meccanismo previsto dalla L. n. 108.
Sarebbe pertanto impossibile operare la qualificazione di un tasso come usurario senza fare applicazione dell’art. 644 c.p.; "ai fini dell’applicazione" del quale, però, non può farsi a meno perchè così impone la norma d’interpretazione autentica - di considerare il "momento in cui gli interessi sono convenuti, indipendentemente dal momento del loro pagamento".
Non ha perciò fondamento la tesi che cerca di limitare l’efficacia della norma di interpretazione autentica alla sola sanzione penale e alla sanzione civile della gratuità del mutuo, perchè in tanto è configurabile un illecito civile, in quanto sia configurabile la violazione dell’art. 644 c.p., come interpretato dal D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1. E non è fuori luogo rammentare che anche la giurisprudenza penale di questa Corte nega la configurabilità dell’usura sopravvenuta (cfr. Cass. Sez. 5^ pen. 16/01/2013, n. 8353).
Tale esegesi delle disposizioni della L. n. 108, non contrasta, inoltre, con la loro ratio.
Una parte della dottrina attribuisce alla L. n. 108, una ratio calmieratrice del mercato del credito, che imporrebbe il rispetto in ogni caso del tasso soglia al momento del pagamento degli interessi.
Va però osservato che la ratio delle nuove disposizioni sull’usura consiste invece nell’efficace contrasto di tale fenomeno, come si legge nella relazione illustrativa del disegno di legge e come ha affermato anche la Corte costituzionale nella sentenza sopra richiamata. Il meccanismo di definizione del tasso soglia è basato infatti - lo si è accennato più sopra - sulla rilevazione periodica dei tassi medi praticati dagli operatori, sicchè esso è configurato dalla legge come un effetto, non già una causa, dell’andamento del mercato.
Con tale ratio è senz’altro coerente una disciplina che dà rilievo essenziale al momento della pattuizione degli interessi, valorizzando in tal modo il profilo della volontà e dunque della responsabilità dell’agente.
Un ulteriore argomento utilizzato dei sostenitori della configurabilità dell’usura sopravvenuta e ripreso anche da Xxxx. Sez. 1^ 9405/2017, cit., è basato su un passaggio della motivazione della richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 29 del 2002, in cui i giudici, dopo avere escluso l’irragionevolezza dell’interpretazione autentica e la sua incompatibilità con il dato testuale, osservano: "Restano, invece, evidentemente estranei all’ambito di applicazione della norma impugnata gli ulteriori istituti e strumenti di tutela del mutuatario, secondo la generale disciplina codicistica dei rapporti contrattuali". Poichè, si è osservato, tale affermazione non è
un mero obiter dictum, bensì parte della ratio decidendi, essa è vincolante per l’interprete e impone di considerare illecita - ancorchè non penalmente, nè a pena della gratuità del contratto ai sensi dell’art. 1815 x.x., xxxxx 0, - xx xxxxxxx xxx xxxxxxxxx di interessi a un tasso convenzionale divenuto nel tempo superiore al tasso soglia.
Non conta qui approfondire se il passaggio in questione rientri o meno nella ratio della decisione dalla Corte costituzionale. Basterà osservare che esso contiene un’affermazione indubbiamente esatta, ma non contrastante con le conclusioni sopra raggiunte circa la validità ed efficacia della previsione contrattuale di un tasso d’interesse che finisca poi col superare il tasso soglia nel corso del rapporto. E’ evidente, infatti, che far salva la validità ed efficacia della clausola contrattuale non significa negare la praticabilità di altri strumenti di tutela del mutuatario previsti dalla legge, ove ne ricorrano gli specifici presupposti; significa soltanto negare che uno di tali strumenti sia costituito dalla invalidità o inefficacia della clausola in questione.
Deve perciò concludersi che è impossibile affermare, sulla base delle disposizioni della L. n. 108 del 1996, diverse dall’art. 644 c.p., e art. 1815 c.c., comma 2, come da essa novellati, che il superamento del tasso soglia dell’usura al tempo del pagamento, da parte del tasso convenzionale inferiore a tale soglia al momento della pattuizione, comporti la nullità o l’inefficacia della corrispondente clausola contrattuale o comunque l’illiceità della pretesa del pagamento del creditore.
3.4.2. L’illiceità della pretesa, tuttavia, è stata argomentata da una parte della dottrina anche su basi diverse, ossia valorizzando, piuttosto che il meccanismo della sostituzione automatica di clausole ai sensi dell’art. 1339 c.c., e art. 1419 x.x., xxxxx 0, xx xxxxxxxxx xx xxxxx xxxx oggettiva nell’esecuzione dei contratti, di cui all’art. 1375 c.c., per il quale sarebbe scorretto pretendere il pagamento di interessi a un tasso divenuto superiore alla soglia dell’usura come determinata al momento del pagamento stesso, perchè in quel momento quel tasso non potrebbe essere promesso dal debitore e il denaro frutterebbe al creditore molto di più di quanto frutti agli altri creditori in genere.
Xxxxxx non sia questa la tesi sostenuta dalla ricorrente, di essa occorre tuttavia darsi carico per completezza.
Neppure detta tesi persuade.
Viene a suo sostegno richiamata la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il principio di correttezza e buona fede in senso oggettivo impone un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost., per il quale ciascuna delle parti del rapporto è tenuta ad agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o da quanto stabilito da singole norme di legge (Xxxx. Sez. 3^ 30/07/2004, n. 14605; Cass. Sez. 1^ 06/08/2008, n. 21250; Cass. Sez. U. 25/11/2008, n. 28056; Cass. Sez. 1^ 22/01/2009, n. 1618; Cass. Sez. 3^ 10/11/2010, n. 22819).
Va però osservato che la buona fede è criterio di integrazione del contenuto contrattuale rilevante ai fini dell’"esecuzione del contratto" stesso (art. 1375 c.c.), vale a dire della realizzazione dei diritti da esso scaturenti. La violazione del canone di buona fede non è riscontrabile nell’esercizio in sè considerato dei diritti scaturenti dal contratto, bensì nelle particolari modalità di tale esercizio in concreto, che siano appunto scorrette in relazione alle circostanze del caso. In questo senso può allora affermarsi che, in presenza di particolari modalità o circostanze, anche la pretesa di interessi divenuti superiori al tasso soglia in epoca
successiva alla loro pattuizione potrebbe dirsi scorretta ai sensi dell’art. 1375 c.c.; ma va escluso che sia da qualificare scorretta la pretesa in sè di quegli interessi, corrispondente a un diritto validamente riconosciuto dal contratto.
3.4.3. Va pertanto enunciato il seguente principio di diritto:
"Allorchè il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura come determinata in base alle disposizioni della L. n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge, o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula; nè la pretesa del mutuante di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di tale soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto".
4. Con il terzo e il quarto motivo di ricorso viene censurata, rispettivamente sotto i profili del vizio di motivazione e della violazione di norme di diritto, la qualificazione data dalla Corte d’appello al mutuo per cui è causa come finanziamento agevolato.
4.1. I motivi sono inammissibili. Tale qualificazione, infatti, non è di per sè rilevante ai fini della decisione sul carattere usurario degli interessi, nè sono indicate nel ricorso le ragioni della sua eventuale rilevanza.
5. Il ricorso va in conclusione respinto.
Le oscillazioni giurisprudenziali registrate a proposito della principale questione oggetto del ricorso stesso giustificano la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.
La Corte rigetta il ricorso. Dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 18 luglio 2017. Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2017
NESSO CAUSALE E ONERE DELLA PROVA NELLA RESPONSABILITÀ SANITARIA
(Relatore: Xxxxx Xxxxxxxx)
Cass., 26 Luglio 2017, n. 18392
In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dalla vedova di un paziente deceduto, per arresto cardiaco, in seguito ad un intervento chirurgico di asportazione della prostata cui era seguita un’emorragia, sul rilievo che la mancata dimostrazione, da parte dell’attrice, della riconducibilità eziologica dell’arresto cardiaco all’intervento chirurgico e all’emorragia insorta, escludeva in radice la configurabilità di un onere probatorio in capo alla struttura).
FATTO
1. V.R., in proprio e nella qualità di procuratrice speciale di G.R., V.G. e V.N., convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Torino l’Azienda Sanitaria Locale (OMISSIS) e la Regione Piemonte chiedendo il risarcimento del danno per la morte del proprio congiunto V.D.. Espose in particolare parte attrice che il V., dopo avere subito in data (OMISSIS) senza adeguato consenso informato intervento chirurgico di asportazione della prostata e di una cisti all’epididimo destro, a causa di una lesione iatrogena intraoperatoria aveva subito una grave emorragia ed il giorno (OMISSIS) era deceduto per arresto cardiaco. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda.
2. Il Tribunale adito, dopo avere disposto CTU ed un supplemento di consulenza, con sentenza di data 8 marzo 2013 rigettò la domanda. Osservò il giudice di prime cure, premessa la natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria e del medico, che, dopo una prima conclusione di CTU secondo cui il decesso era stato causato da una trombo embolia polmonare, il collegio dei consulenti integrato con altro consulente aveva concluso nel senso che l’evento che aveva portato al decesso era stato acuto ed imprevedibile e che l’intervento chirurgico non poteva essere censurato sotto il profilo del nesso di causa con la morte, non essendovi indicazioni certe che l’esecuzione di un intervento di XXXX avrebbe evitato l’improvviso arresto cardiaco. Aggiunse che non potevano rimproverarsi i medici per non aver eseguito una rx ai polmoni e per non aver approfondito la condizione cardiovascolare, non risultando indicatori significativi di rischio di evoluzione del difetto di ritmo cardiaco, e che rispetto ad un evento imprevedibile non è possibile far discendere la responsabilità dei medici per il sol fatto che rimane oscura la ragione dell’arresto cardiaco. Concluse nel senso che "l’imprevedibilità dell’evento esclude altresì che vi possano essere motivi di censura in ordine alle modalità con
le quali è stato espresso il consenso informato, in quanto l’arresto cardiaco e la morte non rientravano nelle possibili complicanze di tale tipo di intervento che pertanto andasse illustrata".
3. Avverso detta sentenza propose appello V.R., in proprio e nella qualità. Si costituì la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello.
4. Con ordinanza ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., di data 27 maggio 2014 la Corte d’appello di Torino dichiarò inammissibile l’appello.
5. Ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale V.R., in proprio e nella qualità di procuratrice speciale di G.R., V.G. e V.N., sulla base di otto motivi. Resiste con controricorso l’Azienda Sanitaria Locale (OMISSIS). E’ stata depositata memoria di parte.
1. Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 111 Cost., artt. 112, 115 e 167 c.p.c., art. 2967 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la ricorrente che l’Azienda Sanitaria non aveva contestato la circostanza che l’arresto cardiaco era stato causato dalla emorragia prodotta dalla lesione iatrogena vascolare, essendosi limitata a dedurre che i sanitari avevano eseguito l’intervento nel rispetto della scienza medica, mentre la Regione Piemonte aveva solo contestato il difetto di legittimazione passiva, e che il Tribunale, pur avendo chiesto ai consulenti solo di accertare se l’emorragia potesse essere imputata ad errore medico, ma non se l’arresto cardiaco fosse imputabile ad altra causa, si era poi fatto trascinare nell’esame del profilo causale indagato dai consulenti nella prima consulenza eccedendo i limiti del loro mandato.
1.1. Il motivo è inammissibile. Con la censura si denuncia la violazione del c.d. principio di non contestazione. Quando il motivo di ricorso per cassazione si fondi sul rilievo che la controparte avrebbe tenuto condotte processuali di non contestazione, per consentire alla Corte di legittimità di prendere cognizione delle doglianze ad essa sottoposte, il ricorso, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, deve sia indicare la sede processuale di adduzione delle tesi ribadite o lamentate come disattese, sia contenere la trascrizione dei relativi passaggi argomentativi (Cass. 9 agosto 2016, n. 16655). La ricorrente quanto alla comparsa di risposta si è limitata ad indicarne genericamente il contenuto, senza procedere alla trascrizione dei relativi passaggi argomentativi, quanto alle memorie previste dall’art. 183 c.p.c., non ha fatto alcuna indicazione, salvo precisare che la linea difensiva era rimasta costante. In tal modo non risulta assolto l’onere di autosufficienza, circostanza che preclude anche l’accesso diretto agli atti, astrattamente consentito dalla tipologia di violazione denunciata. Sulla base delle scarne indicazioni contenute nel ricorso (del tutto assenti in relazione alle memorie ai sensi dell’art.
183) il Collegio non è messo in condizione di apprezzare la censura quale condizione propedeutica di accesso agli atti.
2. Con il secondo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 2236, 2697 e 2727 c.c., artt. 40 e 41 c.p., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la ricorrente che il Tribunale, in presenza di una incontestabile marcata emorragia addominale in sede di intervento, non poteva gravare il danneggiato delle incertezze probatorie in ordine al nesso causale e che la prova del nesso di causalità fra emorragia e decesso non richiedeva un’alta probabilità, ma poteva farsi dipendere anche solo dalla maggiore probabilità di incidenza causale o anche solo concausale del fattore antecedente, ancorchè non altamente probabile perchè assistito da una percentuale di probabilità inferiore al 51%.
2.1. Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile. Secondo la giurisprudenza di questa Corte ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto e dell’aggravamento della situazione patologica (o dell’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari, restando a carico dell’obbligato la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile (fra le tante Xxxx. 16 gennaio 2009, n. 975; 9 ottobre 2012, n. 17143; 20 ottobre 2015, n. 21177). Come affermato da Xxxx. 12 settembre 2013, n. 20904, "dal punto di vista del danneggiato la prova del nesso causale quale fatto costitutivo della domanda intesa a far valere la responsabilità per l’inadempimento del rapporto curativo si sostanzia nella dimostrazione che l’esecuzione del rapporto curativo, che si sarà articolata con comportamenti positivi ed eventualmente omissivi, si è inserita nella serie causale che ha condotto all’evento di preteso danno, che è rappresentato o dalla persistenza della patologia per cui si era richiesta la prestazione o dal suo aggravamento fino anche ad un esito finale come quello mortale o dall’insorgenza di una nuova patologia che non era quella con cui il rapporto era iniziato".
Grava quindi sul creditore l’onere di provare il nesso di causalità fra l’azione o l’omissione del sanitario ed il danno di cui domanda il risarcimento. Non solo il danno ma anche la sua eziologia è parte del fatto costitutivo che incombe all’attore di provare. Ed invero se si ascrive un danno ad una condotta non può non essere provata da colui che allega tale ascrizione la riconducibilità in via causale del danno a quella condotta. Se, al termine dell’istruttoria, resti incerti la reale causa del danno, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano quindi sull’attore.
2.1.1. Nella giurisprudenza di questa Corte si rinviene tuttavia anche l’enunciazione del principio di diritto secondo cui nel giudizio di risarcimento del danno conseguente ad attività medico chirurgica, l’attore danneggiato ha l’onere di provare l’esistenza del contratto e l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e di allegare l’inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, restando, invece, a carico del medico e/o della struttura sanitaria la dimostrazione che tale inadempimento non si sia verificato, ovvero che esso non sia stato causa del danno (Cass. 30 settembre 2014, n. 20547; 12 dicembre 2013, n. 27855; 21 luglio 2011, n. 15993 e già Cass. Sez. U. 11 gennaio 2008, n. 577).
Si tratta di contrasto apparente con il principio di diritto sopra richiamato in quanto la causa che viene qui in rilievo non è quella della fattispecie costitutiva della responsabilità risarcitoria dedotta dal danneggiato, ma quella della fattispecie estintiva dell’obbligazione opposta dal danneggiante. Il riferimento nella giurisprudenza in discorso all’insorgenza (o aggravamento) della patologia come non dipendente da fatto imputabile al sanitario, ma ascrivibile ad evento imprevedibile e non superabile con l’adeguata diligenza, e pertanto con onere probatorio a carico del danneggiante (Cass. 20 ottobre 2014, n. 22222), evidenzia come in questione sia la fattispecie di cui agli artt. 1218 e 1256 c.c.. Si deve a questo proposito distinguere fra la causalità relativa all’evento (causalità materiale) ed al consequenziale danno (causalità giuridica) e quella concernente la possibilità (rectius impossibilità) della prestazione.
2.1.2. La causalità relativa all’evento ed al danno consequenziale è comune ad ogni fattispecie di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, e caratterizza negli stessi termini, sia in
ambito contrattuale che extracontrattuale, gli oneri di allegazione e di prova del danneggiato. Il danno è elemento costitutivo della fattispecie dedotta in giudizio ed essendo l’eziologia immanente alla nozione di danno anche l’eziologia è parte del fatto costitutivo dedotto che l’attore deve provare. Su questo tronco comune intervengono le peculiarità delle due forme di responsabilità. La responsabilità contrattuale sorge dall’inadempimento di un obbligo, sicchè l’attore deve provare la fonte dell’obbligo. La responsabilità extracontrattuale richiede invece, stante la mancanza di un’obbligazione, un criterio di giustificazione, e tali sono il dolo e la colpa, che è pertanto onere dell’attore dimostrare.
In base al c.d. principio di semplificazione analitica della fattispecie le cause di estinzione dell’obbligazione sono tema di prova della parte debitrice, e fra queste l’impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore (art. 1256 c.c.), con effetto liberatorio sul piano del risarcimento del danno dovuto per l’inadempimento (art. 1218 c.c.). Il danneggiante deve dimostrare la causa imprevedibile ed inevitabile che ha reso impossibile la prestazione, cioè il caso fortuito (casus = non-culpa). La diligenza non attiene qui all’adempimento, ma alla conservazione della possibilità di adempiere, quale impiego delle cautele necessarie per evitare che la prestazione professionale divenga impossibile, e, riguardando non solo la perizia ma anche la comune diligenza, prescinde dalla diligenza professionale in quanto tale. La non imputabilità della causa di impossibilità della prestazione va quindi valutata alla stregua della diligenza ordinaria ai sensi dell’art. 1176 x.x., xxxxx 0, xxxxxx xx xxxxxxxxx professionale di cui al comma 2, quale misura del contenuto dell’obbligazione, rappresenta il parametro tecnico per valutare se c’è stato l’adempimento (diligenza determinativa del contenuto della prestazione).
C’è inadempimento se non è stata rispettata la diligenza di cui all’art. 1176, comma 2, c’è imputabilità della causa di impossibilità della prestazione se non è stata rispettata la diligenza di cui al comma 1. Nel primo caso la diligenza mira a procurare un risultato utile, nel secondo caso mira a prevenire il danno (la distinzione è tuttavia relativa perchè l’una può determinare il contenuto dell’altra). La diligenza conservativa della possibilità di adempiere si distingue anche dal neminem ledere. Nel caso di quest’ultimo la negligenza non è violazione di un dovere di comportamento nei confronti di un determinato soggetto ma criterio per attribuire la responsabilità se il danno si verifica, mentre la diligenza che specifica l’obbligazione implica un dovere di adozione di cautele, in termini anche di contegni positivi, per la conservazione della possibilità di adempiere, dovere che vige indipendentemente dalla verificazione del danno e che precede l’adempimento. Il debitore non deve dare causa, con un comportamento negligente, all’impossibilità della prestazione. Non si rimprovera qui al debitore il mancato rispetto della regola (preesistente) di esecuzione esperta della prestazione professionale quale obbligazione di comportamento, ma la scelta di agire in un modo piuttosto che in un altro che sarebbe stato efficace ai fini della prevenzione della causa che ha reso impossibile la prestazione. Tale causa resta non imputabile se non prevedibile ed evitabile. La colpa del debitore risiede non nell’inadempimento, che è fenomeno oggettivo di mancata attuazione di una regola di comportamento (ed in particolare della regola di esecuzione esperta della prestazione professionale), ma nel non aver impedito che una causa, prevedibile ed evitabile, rendesse impossibile la prestazione.
La causa di non imputabilità dell’impossibilità di adempiere è, come si è detto, in quanto ragione di esonero da responsabilità, tema di prova del debitore/danneggiante. Il debitore che
alleghi la fattispecie estintiva dell’obbligazione per impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile deve provare sul piano oggettivo il dato naturalistico della causa che ha reso impossibile la prestazione e sul piano soggettivo l’assenza di colpa quanto alla prevenzione della detta causa.
2.1.3. Emerge così un duplice ciclo causale, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle. Il primo, quello relativo all’evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante. Mentre il creditore deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto).
Conseguenzialmente la causa incognita resta a carico dell’attore relativamente all’evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla possibilità di adempiere. Se, al termine dell’istruttoria, resti incerti la causa del danno o dell’impossibilità di adempiere, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano rispettivamente sull’attore o sul convenuto. Il ciclo causale relativo alla possibilità di adempiere acquista rilievo solo ove risulti dimostrato il nesso causale fra evento dannoso e condotta del debitore. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge per la struttura sanitaria l’onere di provare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall’attore, è stato determinato da causa non imputabile. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che la patologia sia riconducibile, ad esempio, all’intervento chirurgico, la struttura sanitaria deve dimostrare che l’intervento ha determinato la patologia per una causa, imprevedibile ed inevitabile, la quale ha reso impossibile l’esecuzione esperta dell’intervento chirurgico medesimo.
Va in conclusione affermato che "ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, è onere del danneggiato provare il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre è onere della parte debitrice provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l’esatta esecuzione della prestazione; l’onere per la struttura sanitaria di provare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile sorge solo ove il danneggiato abbia provato il nesso di causalità fra la patologia e la condotta dei sanitari".
2.1.4. Il giudice di merito ha accertato che è rimasta "oscura la ragione dell’arresto cardiaco". Trattasi del ciclo causale relativo all’evento dannoso. Si sarebbe trattato del ciclo causale relativo alla possibilità di adempiere solo se si fosse dimostrato che l’arresto cardiaco era da ricondurre eziologicamente all’intervento chirurgico ed all’emorragia insorta. In una siffatta evenienza la struttura sanitaria avrebbe dovuto dimostrare che l’emorragia insorta con l’intervento, ed accertata quale causa del successivo arresto cardiaco, era stata determinata da una causa imprevedibile ed inevitabile. Avrebbe così acquistato rilievo il ciclo causale relativo all’impossibilità di adempiere. Affermando invece che è rimasta "oscura la ragione dell’arresto cardiaco", il giudice di merito ha escluso l’esistenza del nesso fra l’emorragia e l’arresto cardiaco, sicchè un problema di onere probatorio per la struttura sanitaria non è mai insorto.
Essendo rimasta ignota all’esito dell’istruttoria la causa dell’evento dannoso, coerentemente al principio di diritto sopra enunciato il giudice di merito ha rigettato la domanda.
2.2. Non coglie la ratio decidendi, ed è pertanto inammissibile, il secondo motivo nella parte in cui fa riferimento al criterio della probabilità quanto al nesso di causalità fra emorragia e decesso. E’ pur vero che la disomogenea morfologia e la disarmonica funzione del torto civile rispetto al reato impone, nell’analisi della causalità materiale, l’adozione del criterio della probabilità relativa (anche detto criterio del "più probabile che non"), che si delinea in una analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, nella loro irripetibile unicità, con la conseguenza che la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza potersi fare meccanico e semplicistico ricorso alla regola del "50% plus unum" (Cass. 21 luglio 2011, n. 15991). Sul punto però del nesso di causalità il giudice di merito, pur avendo richiamato in astratto il criterio della probabilità superiore al 50%, non ha poi adottato in sede di apprezzamento di merito il criterio della probabilità relativa perchè ha concluso recisamente, all’esito delle disposte CTU, nel senso del carattere ignoto della causa dell’arresto cardiaco.
3. Con il terzo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1218, 2697 e 2727 c.c., artt. 40 e 41 c.p., artt. 132 e 118 disp. att. c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Osserva la ricorrente che il Tribunale ha sottovalutato, con motivazione apparente, la rilevanza e la gravità dell’emorragia ai fini dell’accertamento del nesso di causalità e che l’assenza della verifica dei rilievi della difesa attorea e del consulente tecnico di parte sul punto si traduce in omesso esame di un fatto decisivo e controverso.
3.1. Il motivo è infondato. La denunciata sottovalutazione dell’emorragia attiene in sè ad un profilo di merito insindacabile nella presente sede. La circostanza è pertanto valutabile ai fini delle denunce di motivazione apparente e di vizio motivazionale, pure svolte. La prima, quella per motivazione apparente, non è fondata, potendosi cogliere dal tessuto della motivazione la ratio decidendi, sulla base degli argomenti adoperati per concludere nel senso del carattere ignoto della causa dell’arresto cardiaco. Quanto al vizio motivazionale, l’emorragia è circostanza che è entrata nel fuoco dell’esame del giudicante, sia mediante il richiamo alla prima consulenza, sia, richiamando il supplemento di consulenza, laddove si evidenzia la scarsa probabilità che l’ipovolemia emorragica abbia potuto causare l’ischemia cerebrale o possa causare aritmia su base ipossica (pag. 7 della sentenza). L’omesso esame è invero da riferire non ai rilievi della parte ma alla circostanza di fatto il cui esame sarebbe stato omesso per effetto della mancata confutazione dei detti rilievi, e dunque il dato dell’emorragia, dato come si è detto contemplato nell’iter motivazionale.
4. Con il quarto motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1218, 1176, 2236, 2697 e 2727 c.c., artt. 40 e 41 c.p., artt. 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1,
n. 3. Osserva la ricorrente che era onere della ASL dimostrare che la diversa tecnica operatoria della TURP avrebbe esposto il V. al medesimo rischio emorragico, trattandosi peraltro di intervento meno invasivo.
5. Con il quinto motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1218, 1176, 2236, 2697 e 2727 c.c., artt. 40 e 41 c.p., artt. 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1,
n. 3. Osserva la ricorrente che, accertata dal CTU la marcata perdita ematica, sarebbe stato
onere della struttura sanitaria provare che essa non era dovuta ad un errore di esecuzione dell’intervento in parola.
6. Con il sesto motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1218, 1176, 2236, 2697 e 2727 c.c., artt. 40 e 41 c.p., artt. 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1,
n. 3. Osserva la ricorrente che era onere della struttura sanitaria provare l’esecuzione di una corretta gestione del decorso post-operatorio e che il Tribunale non aveva svolto accertamenti al riguardo. Aggiunge che l’ipotetica non intellegibilità ex ante della emorragia era derivata da carenti accertamenti.
6.1. I motivi dal quarto al sesto sono inammissibili. Essi restano privi di decisività in quanto non in grado di intaccare la ratio decidendi rappresentata dall’essere rimasta ignota la causa del decesso.
7. Con il settimo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 2, 3, 13, 32 e 111 Cost., artt. 132 e 118 disp. att. c.p.c., artt. 1218 e 1223 x.x., xxx. 0 Xxxxxxxxxxx xx Xxxxxx e L. n. 833 del 1978, art. 33, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la ricorrente che l’intervento chirurgico non era stato preceduto da adeguato consenso informato del V., posto che tra i rischi di resezione prostatica rientrano le emorragie, alle quali può seguire il decesso del paziente.
7.1 D motivo è inammissibile. La censura muove dal presupposto di fatto che l’intervento chirurgico non sia stato preceduto da adeguato consenso informato. Trattasi di presupposto di fatto non accertato dal giudice di merito. In mancanza di una censura per vizio motivazionale sul punto lo scrutinio del motivo comporta un’indagine di merito preclusa nella presente sede di legittimità. Resta inoltre ferma la ratio decidendi rappresentata dall’essere rimasta ignota la causa del decesso.
8. Con l’ottavo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 51 e 63 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la ricorrente che il consulente nominato dott.
M. era medico convenzionato ASL, e dunque interessato ad evitare che non si prosciugasse il fondo regionale per la gestione del risarcimento dei danni, sicchè il mancato accoglimento dell’istanza di ricusazione ha determinato la nullità della consulenza tecnica.
9. Il motivo è infondato. La censura ha ad oggetto la nullità dell’atto processuale stante la ricusabilità del consulente. Il motivo è ammissibile per avere la parte proposto l’istanza di ricusazione (cfr. fra le tante Xxxx. 17 maggio 2013, n. 12115). E’ tuttavia infondato non essendo ascrivibile la qualità soggettiva evidenziata a nessuna delle ipotesi previste dall’art. 51 c.p.c..
10. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene rigettato, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui al X.X.X. 00 xxxxxx 0000,
x. 000, xxxxx xxxxxxxxxxx dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.200,00 per compensi, oltre alle spese
forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 5 luglio 2017. Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2017.
Cass., 14 Novembre 2017, n. 26824
Nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica compete all’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento, con onere il quale va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del "più probabile che non", la causa del danno, per cui se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (la corte ha confermato la sentenza che aveva respinto per mancanza di xxxxx la domanda risarcitoria proposta dai genitori perché il figlio minore, nato prematuro, era affetto da una retinopatia all’occhio destro, in astratto e in alternativa riconducibile a tre fattori, di cui solo il terzo imputabile a responsabilità dei medici o della struttura, mentre gli altri erano preesistenti alla nascita e risultavano, ciascuno, più probabilmente che non, essere la causa della patologia).
FATTO
B.E. e Xx.Xx., in proprio e quali genitori rappresentanti del figlio minore B.S. (divenuto maggiorenne e costituitosi in proprio nel corso del giudizio di merito), hanno agito in giudizio nei confronti della ASL (OMISSIS) di San Benedetto del Tronto per ottenere il risarcimento dei danni a loro dire subiti da quest’ultimo in conseguenza di trattamenti sanitari inadeguati cui sarebbe stato sottoposto in occasione della nascita, avvenuta con parto prematuro, presso l’Ospedale di(OMISSIS).
Nel corso del giudizio di primo grado sono state chiamate in causa la Regione Marche e la Gestione liquidatoria della USL n. (OMISSIS) di San Benedetto del Tronto. La Regione Marche ha a sua volta chiamato in causa le proprie compagnie di assicurazione (Assitalia S.p.A., Axa Assicurazioni S.p.A., Xxxxx Xxxxxxxxx S.p.A., Unipol S.p.A., Zurigo S.A.).
Il Tribunale di Ascoli Xxxxxx ha rigettato la domanda nei confronti della ASL (OMISSIS) di San Benedetto del Tronto e ha dichiarato inammissibili quelle proposte nei confronti della Regione Marche e della Gestione liquidatoria della USL n. (OMISSIS) di San Benedetto del Tronto, ritenendo quindi assorbite quella di manleva proposte dalla Regione nei confronti delle proprie compagnie di assicurazione.
La Corte di Appello di Ancona, in parziale accoglimento dell’appello proposto dagli attori, ha dichiarato valida la chiamata in causa della Regione Marche e della Gestione liquidatoria
della USL n. (OMISSIS) di San Benedetto del Tronto, e quindi ammissibili le domande proposte nei loro confronti, che però ha rigettato nel merito, confermando per il resto la decisione di primo grado.
Ricorrono B.E. e S., nonchè Xx.Xx., sulla base di sette motivi. Resiste con controricorso la Regione Marche.
Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli altri intimati. I ricorrenti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
DIRITTO
1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia "violazione o falsa applicazione della L.R. Marche 20 giugno 2003, n. 13, artt. 2, 9 e 28 e connessa violazione o falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3".
Il motivo è inammissibile per difetto di interesse.
Secondo quanto emerge dagli atti, con la sentenza di primo grado è stato dichiarato il difetto di legittimazione passiva della ASL (OMISSIS) di San Benedetto del Tronto, e la sentenza sul punto non è stata appellata.
La ASUR Marche (succeduta alla ASL (OMISSIS)) si è comunque costituita in appello, eccependo l’estinzione del giudizio, ma la sua eccezione è stata rigettata (e le spese di lite sono state compensate integralmente tra tutte le parti).
La stessa ASUR Marche non ha proposto ricorso per cassazione I ricorrenti precisano di avere eccepito il difetto di interesse a contraddire della ASUR, eccezione implicitamente rigettata, essendo stata esaminata l’eccezione di estinzione da questa proposta, e assumono che tale decisione sarebbe errata, ma non chiariscono quale utilità deriverebbe loro da una eventuale cassazione della stessa. In ogni caso, essi risultano integralmente vittoriosi nei confronti della ASUR Marche (anche quale successore della ASL (XXXXXXX)), e nel ricorso confermano di non averne chiesto la condanna, mentre l’unica questione proposta dall’ente, e cioè quella dell’estinzione del giudizio, è stata disattesa.
Di conseguenza va certamente escluso il loro interesse ad impugnare la decisione sul punto.
2. Con il quinto motivo si denunzia "violazione o falsa applicazione dell’art. 1218
x.x. x xxxx’xxx. 0000 x.x., xx xxxxxxxxx all’art. 360 c.p.c., n. 3".
Con il sesto motivo si denunzia "violazione o falsa applicazione dell’art. 111 Cost., comma 6 e dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3".
Con il settimo motivo si denunzia "omesso esame circa fatti decisivi in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5".
Il quinto, il sesto ed il settimo motivo riguardano la sussistenza del nesso di causa tra i trattamenti sanitari cui è stato sottoposto il piccolo B.S. nella struttura ospedaliera gestita dagli enti convenuti e i danni che si assumono da lui subiti. Si tratta di motivi connessi che possono essere esaminati congiuntamente in xxx xxxxxxxxxxx xx xxxxxx, xx xxxx xx xxxxxxx, tutti gli altri (attinenti alla prescrizione ed alla colpa, anche in relazione alla esatta qualificazione delle domande proposte) risulterebbero assorbiti.
Essi sono infondati.
La corte di appello, sulla base dei rilievi emergenti dalla consulenza tecnica di ufficio, ha incensurabilmente accertato in fatto che la patologia riscontrata sul neonato (retinopatia
oculare del prematuro all’occhio destro, con perdita totale della vista) era alternativamente riconducibile a tre diversi fattori, di cui solo il terzo imputabile a responsabilità dei medici o della struttura sanitaria (essendo gli altri fattori invece preesistenti alla nascita): a) una malformazione congenita della retina; b) un’infezione da citomegalovirus; c) una iperossia da eccessiva somministrazione di ossigeno.
Ha precisato che non era possibile affermare con certezza a quale di queste tre cause fosse imputabile la retinopatia, osservando però che la circostanza che essa fosse in stato già avanzato al momento della prima diagnosi, a tre mesi dal parto, faceva propendere per la sua esistenza sin dal momento della nascita, e la circostanza che essa fosse di carattere unilaterale faceva propendere per l’esclusione dell’iperossia, la quale avrebbe danneggiato più probabilmente entrambi gli occhi, al punto che la diagnosi all’epoca operata era stata di "fatto malformativo congenito della retina", e nella stessa consulenza tecnica si individuava come causa più probabile l’infezione da citomegalovirus.
In sostanza, all’esito della valutazione delle prove, la corte di appello non solo ha rilevato che non era stato dimostrato che il danno alla salute denunciato fosse causalmente riconducibile alla condotta dei medici e della struttura sanitaria che avevano in cura il neonato, ma era addirittura più probabile che la malformazione fosse congenita o comunque preesistente alla nascita. Ha fatto altresì presente che, in tale situazione, anche una eventuale diagnosi precoce non avrebbe consentito di curare o impedire l’aggravarsi della patologia, in quanto sarebbe stata possibile esclusivamente "la messa in atto presidi terapeutici di efficacia assai modesta". La decisione impugnata risulta del tutto conforme ai principi di diritto affermati da questa Corte in tema di accertamento e prova della condotta colposa e del nesso causale nelle obbligazioni risarcitorie, che possono essere sintetizzati come segue:
"sia nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, sia in quelli di risarcimento del danno da fatto illecito, la condotta colposa del responsabile ed il nesso di causa tra questa ed il danno costituiscono l’oggetto di due accertamenti concettualmente distinti; la sussistenza della prima non dimostra, di per sè, anche la sussistenza del secondo, e viceversa;
l’art. 1218 c.c., solleva il creditore della obbligazione che si afferma non adempiuta dall’onere di provare la colpa del debitore inadempiente, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore ed il danno di cui domanda il risarcimento;
nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere dell’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento; tale onere va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del "più probabile che non", la causa del danno; se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata" (in tal senso, di recente, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 18392 del 26/07/2017, Rv. 645164-01).
L’impugnata decisione si sottrae, dunque, alle censure mosse dai ricorrenti.
3. Con il secondo motivo si denunzia "violazione o falsa applicazione della L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 6. Violazione o falsa applicazione degli artt. 180 e 183 c.p.c.".
Con il terzo motivo si denunzia "violazione o falsa applicazione dell’art. 1218 c.c. e dell’art. 1228 c.c. e connessa violazione dell’art. 2946 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3".
Con il quarto motivo si denunzia "violazione o falsa applicazione dell’art. 1176 x.x., xxxxx 0 x xxxx’xxx. 0000 x.x., xx xxxxxxxxx all’art. 360 c.p.c., n. 3".
In considerazione dell’esito del quinto, sesto e settimo motivo di ricorso, restano assorbiti il secondo, il terzo ed il quarto, rispettivamente attinenti alla qualificazione della domanda proposta, alla prescrizione del relativo diritto, ed alla sussistenza dell’inadempimento dei sanitari.
Una volta ritenuto non sufficientemente dimostrato, da parte degli attori odierni ricorrenti, il nesso di causa tra i trattamenti sanitari e i danni lamentati, in base ai principi fin qui esposti risulta infatti del tutto ininfluente, ai fini della decisione, la qualificazione della domanda come azione di responsabilità contrattuale o extracontrattuale, così come le correlate questioni relative alla eventuale prescrizione dei diritti azionati, nonchè la stessa sussistenza o meno di una condotta colposa dei sanitari.
4. Il ricorso è rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità possono essere integralmente compensate tra tutte le parti, sussistendo motivi sufficienti a tal fine, in considerazione delle oggettive emerse incertezze in ordine ai fatti ed al recente consolidamento nella giurisprudenza di questa Corte dei principi in tema di accertamento e prova della condotta colposa e del nesso causale nelle obbligazioni risarcitorie.
Dal momento che il ricorso risulta notificato successivamente al termine previsto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 18, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, introdotto della citata L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
La Corte:
- rigetta il ricorso;
- dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 13 settembre 2017. Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2017.
Cass., 7 Dicembre 2017, n. 29315
Nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del "più probabile che non", causa del danno, sicché, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la
domanda deve essere rigettata.(Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la decisione impugnata che, tenendo conto delle risultanze della c.t.u. e degli esiti peritali del procedimento penale, aveva concluso nel senso della sussistenza di un’insuperabile incertezza sul nesso di causalità).
L.M., A., G. e X. xxxxxxx nei confronti di Z.L. e dei figli T.G., P. e A., tutti quali eredi di T.A., nonchè della Gestione Liquidatoria della USL TA/5 per ottenere il risarcimento dei danni conseguiti alla morte del padre L.R., che era avvenuta presso l’Ospedale SS. Annunziata di Taranto e che assumevano causata da condotta colposa del dott. T., aiuto presso il reparto di Anestesia e Rianimazione.
Si costituirono in giudizio sia gli eredi del T. che la Gestione Liquidatoria; quest’ultima chiamò in causa la UNIPOL per esserne manlevata.
A seguito della sottoposizione della Gestione a liquidazione coatta amministrativa, il giudizio venne interrotto e successivamente riassunto dagli attori nei confronti della Liquidazione Coatta della Gestione Liquidatoria, che si costituì in giudizio eccependo il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a conoscere del credito azionato dai L.
Pronunciando nei confronti degli eredi del T. e della Gestione Liquidatoria, il Tribunale di Taranto rigettò la domanda degli attori e dichiarò la cessazione della materia del contendere fra la Gestione Liquidatoria e la UNIPOL. La Corte di Appello ha rigettato il gravame dei L., con condanna degli stessi al pagamento delle spese di lite nei confronti degli eredi T. e della UGF Assicurazioni s.p.a. (già UNIPOL).
Hanno proposto ricorso per cassazione i L., affidandosi a sei motivi; ha resistito la Z., anche in veste di procuratrice dei figli. Hanno depositato memoria sia i L. che la Z.
1. Col primo motivo, i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 161 cod. proc. civ. "stante l’evidente error in procedendo di aver considerato parte la Gestione Liquidatoria ed aver omesso qualsiasi pronunzia riguardante la L.C.A., subentrata alla Gestione a seguito della riassunzione": i ricorrenti rilevano che la circostanza del subentro era stata del tutto ignorata dal Tribunale (che aveva pronunciato la decisione nei confronti della Gestione e non della L.C.A.) e assumono la nullità della sentenza impugnata per il fatto che anche la Corte aveva considerato ancora parte in causa la Gestione Liquidatoria anzichè la L.C.A..
1.1. Il motivo è inammissibile per difetto di adeguato inquadramento della questione, giacchè i ricorrenti non sottopongono adeguatamente a critica l’affermazione del giudice di prime cure (contenuta nella parte della sentenza dedicata allo "svolgimento del processo"), secondo cui "la liquidazione coatta amministrativa della Gestione Liquidatoria della USL TA/5 non aveva legittima giuridica esistenza, sicchè non poteva essere parte del giudizio" (e ciò - per quanto emerge dalla memoria depositata dalla Z. - a seguito della sentenza n. 25/2007 con cui la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della normativa regionale che presupponeva l’assoggettamento alla procedura di liquidazione coatta amministrativa delle gestioni liquidatorie delle USL); affermazione che è del tutto compatibile con l’emissione della pronuncia nei confronti della Gestione Liquidatoria e che - in difetto di argomentata
contestazione - non consente alcun rilievo officioso della nullità della sentenza impugnata per il fatto di non essere stata emessa nei confronti della L.C.A..
2. I motivi terzo, quarto e quinto censurano - sotto i profili della "violazione di legge per l’omesso esame di un fatto decisivo" e della violazione e falsa applicazione di legge "riferita all’art. 116 c.p.c." - l’affermazione circa il difetto di prova sul nesso di causa fra le condotte sanitarie e il decesso del L.; più precisamente, i ricorrenti assumono che la Corte aveva riconosciuto la "validità del principio che la prova liberatoria dell’inadempimento deve essere fornita dall’obbligato", ma aveva contraddittoriamente negato, nello specifico, la sussistenza del nesso di causalità; aggiungono che il giudice di appello non aveva tenuto conto dei risultati della c.t.u., che aveva accertato una responsabilità "diffusa" in capo ai sanitari e aveva ritenuto, "in via di presunzione", che l’inadeguata condotta dei sanitari avesse "concorso a determinare in maniera più o meno rilevante, ulteriori aggravamenti delle già precarie condizioni di salute del L., riducendo le sue già compromesse possibilità di sopravvivenza".
2.1. I motivi, che investono il tema del nesso di causa, sono infondati, in quanto compiono un’impropria commistione fra il profilo della condotta colposa e quello della sua efficienza causale e presuppongono un’erronea individuazione del riparto degli oneri probatori.
2.2. Va innanzitutto chiarito che nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, così come in quelli di risarcimento del danno da fatto illecito, la condotta colposa del responsabile e il nesso di causa tra questa e il danno costituiscono l’oggetto di due accertamenti concettualmente distinti, cosicchè la sussistenza della prima non comporta, di per sè, la dimostrazione del secondo e viceversa.
2.3. Quanto alla distribuzione degli oneri probatori, deve rilevarsi che la previsione dell’art. 1218 cod. civ. solleva il creditore dell’obbligazione che si afferma non adempiuta (o non esattamente adempiuta) dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento.
Al riguardo, deve infatti considerarsi che:
la previsione dell’art. 1218 cod. civ. trova giustificazione nella opportunità di far gravare sulla parte che si assume inadempiente o non esattamente adempiente l’onere di fornire la prova "positiva" dell’avvenuto adempimento o dell’esattezza dell’adempimento, sulla base del criterio della maggiore vicinanza della prova, secondo cui essa va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla (cfr. Cass., S.U. n. 13533/2001);
tale maggiore vicinanza del debitore non sussiste - evidentemente - in relazione al nesso causale fra la condotta dell’obbligato e il danno lamentato dal creditore, rispetto al quale non ha dunque ragion d’essere l’inversione dell’onere prevista dall’art. 1218 cod. civ. e non può che valere - quindi - il principio generale sancito dall’art. 2697 cod. civ., che onera l’attore (sia il danneggiato in sede extracontrattuale che il creditore in sede contrattuale) della prova degli elementi costitutivi della propria pretesa;
ciò vale, ovviamente, sia in riferimento al nesso causale materiale (attinente alla derivazione dell’evento lesivo dalla condotta illecita o inadempiente) che in relazione al nesso causale giuridico (ossia alla individuazione delle singole conseguenze pregiudizievoli dell’evento lesivo); trattandosi di elementi egualmente "distanti" da entrambe le parti (e anzi, quanto al secondo, maggiormente "vicini" al danneggiato), non v’è spazio per ipotizzare a carico dell’asserito danneggiante una "prova liberatoria" rispetto al nesso di causa (a differenza di
quanto accade - come detto - per la prova dell’avvenuto adempimento o della correttezza della condotta);
nè può valere, in senso contrario, il fatto che l’art. 1218 cod. civ. faccia riferimento alla causa, laddove richiede al debitore di provare "che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile": infatti, come condivisibilmente affermato, di recente, da questa Corte (Cass. n. 18392/2017), la causa in questione attiene alla "non imputabilità dell’impossibilità di adempiere", che si colloca nell’ambito delle cause estintive dell’obbligazione (costituenti "tema di prova della parte debitrice") e concerne un "ciclo causale" che è del tutto distinto da quello relativo all’evento dannoso conseguente all’adempimento mancato o inesatto;
da ciò discende che, nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere dell’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento (onere che va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del "più probabile che non", la causa del danno), con la conseguenza che, se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (cfr. Cass. n. 975/2009, Cass. n. 17143/2012, Cass. n. 4792/2013, Cass. n. 18392/2017);
a ben vedere, una siffatta conclusione non si pone in contrasto con quanto affermato da Xxxx.,
S.U. n. 577/2008, secondo cui "in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante"; tale principio venne infatti affermato a fronte di una situazione in cui l’inadempimento "qualificato" allegato dall’attore (ossia l’effettuazione di un’emotrasfusione) era tale da comportare - di per sè, ed in assenza di fattori alternativi "più probabili", nel caso singolo di specie - la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta (sì che la prova della prestazione sanitaria conteneva in sè quella del nesso causale), con la conseguenza che non poteva che spettare al convenuto l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione, secondo il criterio generale di cui all’art. 2697 x.x., xxxxx 0 (x xxx - xx badi - la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 cod. civ.).
2.4. Tanto premesso, deve ritenersi che il ricorso non colga nel segno, sia perchè, insistendo sulla responsabilità dei sanitari (per incompletezza e inadeguatezza dell’assistenza prestata), mostra di non tenere distinti - come necessario - il profilo della colpa da quello della causalità, sia perchè non tiene conto che la Corte, valorizzando alcuni passaggi della relazione di c.t.u. e attingendo - come ben poteva - agli esiti peritali emersi nel procedimento penale, è pervenuta alla conclusione dell’esistenza di una insuperabile "incertezza" sul nesso di causa, da cui ha correttamente fatto discendere il rigetto della domanda attorea.
3. Il secondo motivo (che censura la sentenza della Corte per avere affermato che il Tribunale aveva correttamente interpretato la domanda di risarcimento del danno morale come proposta iure successionis, ritenendo pertanto inammissibile, in quanto nuova, la richiesta di risarcimento iure proprio svolta soltanto in sede di precisazione delle conclusioni) resta
assorbito dal rigetto dei motivi attinenti al nesso di causa (che comporta l’esclusione della possibilità di riconoscere un qualsiasi risarcimento).
4. Il sesto motivo - che denuncia la violazione dell’art. 91 cod. proc. civ. e censura la sentenza per avere condannato gli appellanti al pagamento delle spese di lite, pur sussistendo ragioni che avrebbero potuto giustificare la compensazione - è inammissibile, in quanto non è censurabile in sede di legittimità il mancato esercizio del potere di compensare le spese (cfr. Cass., S.U. n. 14989/2005).
5. A fronte dell’esistenza di orientamenti non univoci sul tema del riparto degli oneri probatori in punto di nesso causale, sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese del presente giudizio, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, nel testo anteriore alle modifiche introdotte a partire dalla L. n. 263 del 2005 (applicabile ratione temporis, poichè la causa è stata avviata xxxx’anno 2001).
6. Trattandosi di ricorso proposto successivamente al 30.1.2013, sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese di lite.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 13 settembre 2017. Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2017.
I RIMEDI A FAVORE DEL COMMITTENTE IN CASO DI VIZI O DIFFORMITÀ DELL’OPERA APPALTATA
(Relatore: Xxxxxxx Xxxxxxxx)
Cass., 16 Ottobre 2017, n. 24305
Nel contratto di appalto il committente, che lamenti difformità o difetti dell’opera, può richiedere, a norma dell’art. 1668, comma 1, c.c., che le difformità o i difetti siano eliminati a spese dell’appaltare mediante condanna da eseguirsi nelle forme previste dall’art. 2931 c.c., oppure che il prezzo sia ridotto e, in aggiunta o in alternativa, che gli venga risarcito il danno derivante dalle difformità o dai vizi. La prima domanda, infatti, che postula la colpa dell’appaltatore, è utilizzabile per il ristoro del pregiudizio che non sia eliminabile mediante un nuovo intervento dell’appaltatore (come nel caso di danni a persone o a cose, o di spese di rifacimento che il committente abbia provveduto a fare eseguire direttamente); la seconda, che prescinde dalla colpa dell’appaltatore tenuto comunque alla garanzia, tende a conseguire un "minus" rispetto alla reintegrazione in forma specifica, della quale rappresenta il sostitutivo legale, mediante la prestazione della "eadem res debita", sicché deve ritenersi ricompresa, anche se non esplicitata, nella domanda di eliminazione delle difformità o dei vizi.
1. - Con atto di citazione notificato il 9 febbraio 2002 l’A.N.A.S. s.p.a. ha convenuto dinanzi al tribunale di Roma la Scardellato s.r.l. esponendo che alla stessa era stato richiesto un intervento di messa a punto in relazione a tre bombole antincendio in locali dell’attrice xxxx in (OMISSIS). La società attrice, dopo aver autorizzato il pagamento in data 15 settembre 2000 di Lire 14.361.600, aveva constatato durante un’operazione di controllo che le bombole non erano in grado di funzionare in quanto completamente scariche. Avendo dovuto richiedere - stanti i vani solleciti alla Scardellato s.r.l. - l’intervento di altra ditta per risolvere il problema, alla quale veniva corrisposto lo stesso importo pagato alla medesima Scardellato s.r.l., ha domandato che la convenuta venisse condannata al risarcimento del danno subito, quantificato in Euro 7.417,14, oltre interessi e rivalutazione.
2. - Sulla resistenza della Scardellato s.r.l., integrato l’atto di citazione a seguito di dichiarazione di sua nullità ex art. 164 cod. proc. civ., con sentenza n. 18563 depositata il 30 agosto 2005 il tribunale di Roma ha rigettato la domanda, condannando l’attrice al pagamento delle spese di lite. Ha ritenuto il tribunale che il contratto dovesse qualificarsi come appalto, essendo documentato che esso aveva avuto come oggetto la ricarica di bombole, la sostituzione di scheda di alimentazione dell’impianto antincendi e la revisione dell’impianto stesso, e che l’A.N.A.S. non avesse dimostrato di aver pagato un corrispettivo ad altra ditta intervenuta successivamente per eliminare gli inconvenienti riscontrati a seguito del lavoro svolto dalla convenuta.
3. - Avverso la detta decisione ha proposto appello l’A.N.A.S. s.p.a. a fronte della contestazione della fondatezza del gravame da parte della Scardellato s.r.l..
4. - La corte d’appello di Roma con sentenza del 28 febbraio 2013 ha accolto l’appello, condannando la Scardellato s.r.l. al pagamento in favore dell’A.N.A.S. s.p.a. della somma di Euro 7.417,14 oltre interessi. Nell’esaminare il gravame la corte ha considerato che:
- non fosse in discussione l’inadempimento di un contratto di appalto da parte della Scardellato
s.r.l. consistente nell’essere intervenuta su incarico dell’A.N.A.S. su tre bombole antincendio, rinvenute completamente scariche ed inidonee all’uso;
- la domanda fosse "volta ad ottenere il risarcimento del danno subito per essere stato corrisposto alla convenuta il corrispettivo pattuito nonostante l’inadempimento";
- l’attrice avesse dimostrato, mediante la produzione in giudizio di un provvedimento del 15 settembre 2000 emesso dal dirigente dell’A.N.A.S., di aver autorizzato il pagamento della somma di Lire 14.361.600 con bonifico bancario in favore della Scardellato s.r.l., la quale aveva emesso fattura in data 8.8.2000;
- l’attrice avesse pienamente assolto all’onere probatorio su di essa incombente, "avendo provato di aver corrisposto il corrispettivo pattuito nonostante l’inadempimento della controparte", ritenendo non "necessaria alcuna dimostrazione", a differenza di quanto reputato dal tribunale, "in ordine all’effettivo versamento di corrispettivo ad altra ditta" per l’eliminazione del vizio relativo al mancato riempimento delle bombole.
5. - Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la Scardellato s.r.l. sulla base di due motivi. L’A.N.A.S. s.p.a. ha resistito con controricorso.
DIRITTO
1. - Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e artt. 1218, 1668 e 2697 cod. civ. (con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1,
n. 3), per non aver la corte d’appello considerato che la controparte aveva inteso avvalersi della cd. garanzia per difetti dell’opera di cui all’art. 1668 c.c., senza mettere in discussione il contratto inter partes e preferendo instare unicamente per il risarcimento del danno, con la conseguenza che avrebbe dovuto provare l’entità del danno subìto, che aveva individuato in ciò che aveva esborsato per la ricarica delle bombole; per non aver altresì considerato che la prestazione da essa fornita non si era sostanziata solo nell’intervenire sulle bombole antincendio, ma anche nel riposizionarle e nel sostituire una scheda di alimentazione, con la conseguenza che, comunque, non si sarebbe potuto equiparare automaticamente il danno asseritamente subito dall’ANAS s.p.a. al valore della prestazione della società appaltatrice.
2. - Con il secondo motivo la ricorrente deduce la nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per essersi la corte d’appello pronunciata su una domanda di restituzione del corrispettivo incamerato, implicante la risoluzione del contratto mai sollecitata dall’A.N.A.S., che si era limitata ad invocare il risarcimento del danno sofferto in ragione del dedotto vizio delle bombole antincendio installate.
3. - I due motivi, articolati su violazioni di norme di diritto rispettivamente sostanziale e processuale, vanno esaminati congiuntamente stante la loro stretta connessione. Essi sono infondati, ad eccezione di un profilo relativo al primo motivo, per quanto di ragione fondato.
4. - In relazione alla proposizione di censura di difetto di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato, è dato anzitutto a questa corte di legittimità procedere all’interpretazione e qualificazione della domanda. Sul punto, va data continuità alla giurisprudenza di questa corte (v. ad es. sez. 1, n. 6526 del 2002, sez. 2, n. 15859 del 2002, sez. 1, n. 1079 del 2004, n. 21421 del 2014 oltre che sez. un. n. 8077 del 2012) secondo cui - se ordinariamente l’interpretazione della domanda è compito riservato in via esclusiva al giudice di merito e come tale resta
sottratta, se congruamente motivata, al sindacato di legittimità - ove da tale interpretazione la parte faccia discendere la violazione del principio di necessaria corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, denunziandosi quindi un errore in procedendo, la corte di cassazione è investita di un potere - dovere di sindacato pieno, con possibilità di provvedere direttamente all’esame e all’interpretazione degli atti processuali e, conseguentemente, delle istanze e delle deduzioni delle parti.
4.1. - Al riguardo, procedendo a tale esame, non può non considerarsi che, da un lato, all’udienza del 28.5.2002 il giudice istruttore del tribunale ha dichiarato la nullità dell’atto di citazione con cui la parte attrice non aveva proceduto a una completa editio actionis. Con l’atto. integrativo della citazione, dunque, la parte attrice deduceva la natura contrattuale della responsabilità, qualificando in via principale il contratto come appalto, e invocando la disciplina degli artt. 1655 ss. c.c. (in particolare art. 1667 c.c., riferito alla garanzia per le difformità e vizi dell’opera). In subordine, ove si fosse trattato di compravendita, ugualmente deduceva essere tenuta la fornitrice a garantire i difetti. Su tali basi, insisteva nella propria istanza.
4.2. - In ordine all’interpretazione e qualificazione della domanda, dunque, posta la condivisa riconduzione del contratto alla figura dell’appalto, non può anzitutto trascurarsi di considerare che con la propria sentenza la corte d’appello:
- ha valorizzato il riferimento nella citazione a una missiva con la quale, prima della causa, il difensore aveva richiesto all’appaltatrice "il risarcimento corrispondente a quanto pagato per i lavorii";
- ha ritenuto condivisibilmente che "come emerge dal complessivo tenore dell’atto di citazione in primo grado la domanda era volta ad ottenere il risarcimento del danno subito per essere stato corrisposto alla convenuta il corrispettivo subito nonostante l’inadempimento della stessa";
- ha dato atto della pacificità, data altresì la mancata impugnazione della sentenza di primo grado sul punto, dell’inadempimento, nonchè della prova anche documentale del pagamento alla Scarsellato s.r.l.;
- ha richiamato la deduzione difensiva dell’avvenuto rifacimento dell’opera mediante altra ditta, ritenendo non "necessaria alcuna dimostrazione... in ordine all’avvenuto versamento del corrispettivo", corrispettivo invece pacificamente pagato alla Scardellato s.r.l. come altresì provato da documentazione indicata in sentenza.
4.3. - In secondo luogo, ai fini della qualificazione, va tenuto conto che questa corte ha più volte (v. ad es. sez. 2, n. 2346 del 1995, n. 289 del 1999, n. 6181 del 2011) affermato che nel contratto di appalto il committente, che lamenti difformità o difetti dell’opera, può richiedere, a norma dell’art. 1668 c.c., comma 1, che le difformità o i difetti siano eliminati a spese dell’appaltatore mediante condanna da eseguirsi nelle forme previste dall’esecuzione forzata degli obblighi di fare (art. 2931 cod. civ.), oppure che il corrispettivo sia ridotto e, in aggiunta o in alternativa, che gli venga risarcito il danno derivante dalle difformità o dai vizi.
4.4. - La medesima giurisprudenza ha precisato che, da un lato, si pone la domanda risarcitoria, che partecipa della natura dell’azione di eliminazione dei vizi, proposta quando quest’ultima non sia utilizzabile, dall’altro quella diretta all’attribuzione del risarcimento per equivalente rispetto alla mancata eliminazione dei vizi che il committente possa proporre utilmente, ma resti senza esito (domanda risarcitoria, l’ultima, svolta spesso in subordine rispetto alla mancata esecuzione specifica della condanna all’eliminazione dei vizi): la prima - come esplicitato dalla norma - postula la colpa dell’appaltatore ed è utilizzabile per il ristoro del pregiudizio che non
sia eliminabile mediante un nuovo intervento dell’appaltatore stesso (come nel caso di danni a persone o a cose, o di spese di rifacimento che il committente abbia provveduto a fare eseguire direttamente); la seconda, che prescinde dalla colpa dell’appaltatore tenuto comunque alla garanzia ex art. 1667 cod. civ., tende a conseguire un minus rispetto alla reintegrazione in forma specifica che l’art. 1668 accorda in prima battuta, della quale rappresenta il sostitutivo legale, mediante la prestazione della eadem res debita (e all’uopo la giurisprudenza non ne impone nemmeno la esplicita formulazione, sicchè tale domanda risarcitoria deve ritenersi ricompresa, anche se non esplicitata, nella domanda di eliminazione delle difformità o dei vizi - cfr. ad es. le citt. sez. 2, n. 2346 del 1995, n. 289 del 1999, n. 6181 del 2011). Non può al riguardo non richiamarsi l’indirizzo giurisprudenziale che riporta all’azione di riduzione del corrispettivo (non già corrisposto) la domanda del committente che volesse riservare a sè o a propri incaricati l’eliminazione dei vizi, richiedendosi comunque, in tale visione, che la riduzione del corrispettivo e il risarcimento del danno ulteriore causato dall’opera non siano insieme di entità maggiore del corrispettivo pattuito, salvo il diritto alla eventuale rivalutazione monetaria (cfr. ad es. sez. 2, n. 1334 del 1996 che richiama sez. 2, n. 4839 del 1988 e altre). Ciò - prescindendo da ogni considerazione circa detto limite su cui non è necessario soffermarsi - evidenzia, per quanto qui rileva, lo stretto nesso - ai fini del ristabilimento dell’equilibrio economico del rapporto - tra pagamento del corrispettivo dell’appalto che ha condotto all’opera viziata e quantum risarcitorio, sia ai fini dell’individuazione dell’azione esperibile (a seconda se il corrispettivo sia stato o meno corrisposto) che della monetizzazione dei rispettivi crediti e debiti.
4.5. - Con riguardo a tale ultimo aspetto la giurisprudenza di legittimità non ha mancato di sottolineare anche da altro punto di vista l’interrelazione tra il pagamento del corrispettivo all’appaltatore la cui opera abbia evidenziato vizi e il risarcimento dei danni per l’eliminazione di essi: in particolare nel caso, più comune, in cui il committente abbia sospeso la prestazione di pagamento dopo aver denunciato i vizi, questa corte (v. sez. 2, n. 644 del 1999, n. 5496 del 2002, n. 6009 del 2012) ha sottolineato che qualora il committente, rilevata l’esistenza di vizi nell’opera non ne pretenda l’eliminazione diretta da parte dell’esecutore del lavoro, chiedendo, invece, il risarcimento del danno per l’inesatto adempimento, il credito dell’appaltatore per il corrispettivo permane invariato. Tanto conferma dunque la necessità per il giudice di valutare unitariamente i due valori; tema questo che si richiamerà in prosieguo.
4.6. - Sul tali premesse, può ritornarsi al caso di specie per concludere in ordine alla qualificazione della domanda. Ove si tenga conto anche della disfunzione processuale sanata ex art. 164 cod. proc. civ. con l’integrazione dell’atto di citazione, originariamente nullo proprio in quanto carente nella editio actionis, non pare dubbio - al di là di quanto solo implicitamente sul punto considerato nella sentenza impugnata, che non si diffonde sul tema pur contenendo conclusioni conformi al diritto - che, a fronte dei dati dianzi evidenziati (pagamento a favore della Scardellato s.r.l., incarico ad altra ditta specificamente indicata pur in assenza di prova del secondo pagamento a questa; indicazione sia in missiva che nella citazione della volontà di ottenere risarcimento commisurato al corrispettivo vanamente pagato alla controparte inadempiente), si versi di fronte a una domanda risarcitoria per il ristoro del pregiudizio non eliminabile mediante un nuovo intervento dell’appaltatore, che esplicitamente i precedenti giurisprudenziali richiamati, anche recenti, contemplano ove si tratti di rifacimento
che il committente abbia provveduto a fare eseguire direttamente (o, per la riduzione del prezzo, si riservi di far eseguire).
5. - Così qualificata la domanda da parte di questa corte nei limiti e (-) ai fini anzidetti, deve anzitutto - respingendosi quindi il secondo motivo - affermarsi, come nei casi consimili affrontati nei precedenti sopra richiamati, che l’accoglimento della domanda risarcitoria non contrasta con il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, la cui violazione è stata denunziata sotto il profilo della diversità della domanda accolta (che la parte ricorrente indica come di restituzione del corrispettivo, implicante cioè una risoluzione non domandata) rispetto a quella proposta (di risarcimento del danno). La domanda, infatti, è stata considerata e trattata come domanda risarcitoria (della tipologia anzidetta), senza in alcun modo porre in discussione il contratto comunque inadempiuto.
6. - La circostanza - di natura prettamente liquidatoria - per cui la corte di merito ha ritenuto di riportare l’entità del danno a quanto pagato all’appaltatore in luogo di quanto pagato all’incaricato del rifacimento ha formato, come ricordato, oggetto della denuncia di cui al primo motivo per violazione e falsa applicazione, in particolare, dell’art. 1668 cod. civ. (con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per avere la corte d’appello in tesi mal opinato:
- nell’equiparare automaticamente il danno subìto dall’ANAS s.p.a. al valore della prestazione della società appaltatrice, considerato che essa aveva eseguito anche altre frazioni di lavorazioni;
- nel non richiedere - posto che non era stato messo in discussione il contratto inter partes a seguito della mera proposizione dell’azione risarcitoria (contestazione questa - è a notarsi - invero contraddittoria rispetto a quella, di cui si è detto circa il secondo motivo, secondo cui invece sarebbe stata implicitamente operata una risoluzione)- la prova di un danno diverso da quello del pagamento a vuoto del corrispettivo dell’appalto.
6.1. - La censura va parzialmente disattesa quanto alla dedotta violazione dell’art. 1668 cod. civ.. Infatti, come accennato, l’A.N.A.S., avendo già versato il corrispettivo, ha richiesto (e ottenuto) il risarcimento ex art. 1668 cod. civ. quale ristoro del pregiudizio non eliminabile mediante un nuovo intervento dell’appaltatore stesso, versante in colpa presunta (e, come si è ricordato, tra le ipotesi tipiche della specie si annoverano le spese di rifacimento che il committente abbia provveduto a fare eseguire da terzi). Ne deriva la retta applicazione della "regula iuris" dell’art. 1668 cod. civ., come ricostruita dalla giurisprudenza richiamata, a fronte di una diversa - ma infondata - ricostruzione del dettato della norma, auspicata dalla ricorrente, secondo cui sarebbe necessaria - anche ai fini dell’an della responsabilità - la prova del pagamento del corrispettivo a terzi.
6.2. - Viceversa, la censura è fondata quanto alla violazione da parte della sentenza impugnata dell’art. 2697 cod. civ., ai fini della prova del quantum della responsabilità. Come si evince dalla sentenza impugnata (pp. 3 e 4), i giudici del merito ha affermato avere l’attrice "pienamente assolto all’onere probatorio sulla stessa incombente, avendo provato di aver corrisposto il prezzo pattuito nonostante l’inadempimento della controparte, senza che peraltro fosse necessaria alcuna dimostrazione... in ordine all’effettivo versamento del corrispettivo ad altra ditta per l’esecuzione dei lavori necessari per eliminare il vizio". Tale statuizione, invero, si pone contro il principio di cui all’art. 2697 cod. civ..
6.3. In casi della specie, infatti, se l’an della responsabilità sussiste in relazione a un corrispettivo pagato a vuoto a fronte di una prestazione non corrispondente, ai fini
dell’apprezzamento del quantum è pur sempre necessaria la prova di un pregiudizio. In tal senso, lungi dal sussistere l’automatismo ipotizzato dalla corte territoriale con la sentenza impugnata, compete al giudice del merito, come in ogni altra fattispecie di inadempimento contrattuale, tener conto di quanto erogato da una parte a favore della controparte, a fronte del risultato utile (anche se eventualmente non appieno rispondente) conseguito dalla prima, nonchè degli oneri anche solo prospettici per ricondurre l’opera alle previsioni di contratto o d’uso, nell’ottica della stretta interrelazione tra il corrispettivo (pagato o da pagarsi) dell’appalto, il valore conseguito con l’opera imperfetta e gli oneri sostenuti o a sostenersi per il rifacimento. E’ tuttavia - diversamente da quanto statuito con la sentenza impugnata - necessaria una prova, anche indiretta, di tali ultimi oneri, che potranno emergere, oltre che mediante la prova di un pagamento a terzi, anche mediante la prova dello stesso avvenuto rifacimento, ovvero della contrazione di obbligazioni a tal fine; non si potrà però, a differenza di quanto ritenuto dalla corte d’appello, desumere il sostenimento di tali oneri dalla stessa difettosità dell’opera. Può essere utile considerare - a conferma che la prova di un ulteriore pagamento sia un dato da acquisirsi solo eventualmente, essendo possibile sostituirla con altre, ad es. del rifacimento - che, in una corretta analisi economica dei rapporti giuridici, il danno da necessità di rifacimento a cura di terzi non sarebbe eliso ove la committente avesse acquisito quest’ultimo a titolo liberale o con costi solo indiretti (ad es. con utilizzo di proprie maestranze), salvo a non volersi ritenere - ma l’assurdo attesta l’implausibilità della tesi - che in questi casi il beneficiario finale dell’erogazione liberale o del lavoro delle maestranze del committente sia l’appaltatore originario inadempiente. Ancora, può essere utile il parallelismo probatorio con il caso della riduzione del prezzo: come in quest’ultimo caso chi si riservi di effettuare il rifacimento otterrà la riduzione senza dimostrare di aver pagato lo stesso (potendo anche decidere di ritenere l’opera imperfetta senza effettuare alcuna eliminazione dei vizi), così nell’ipotesi di risarcimento del danno per avvenuta inutile erogazione del corrispettivo all’appaltatore inadempiente a fronte del rifacimento mediante terzi la dimostrazione dell’avvenuto pagamento deve ritenersi elemento probatorio esterno rispetto al thema probandum, utile ma non indispensabile a fini liquidatori; pur tuttavia una prova di pregiudizio ai fini liquidatori, come detto, sarà necessaria. Infine, deve considerarsi che conferma di tale esteriorità al thema probandum si ha ove si consideri che, provato che abbia il committente il pagamento "ulteriore", quest’ultimo non si tradurrebbe automaticamente in danno, posto che il giudice non sarebbe esentato dall’anzidetta complessa operazione di comparazione di valori e utilità acquisite e perse dalle parti per effetto della rottura contrattuale, ben potendo ad es. il pagamento ulteriore essere relativo a lavorazioni eccessive o superflue, o a prezzi ingiustificatamente superiori rispetto a quelli di mercato.
6.4. - Essendosi la corte d’appello distanziata parzialmente dagli anzidetti principi, con la conseguenza che la sentenza va cassata, con rinvio al giudice del merito per nuovo esame, resta assorbito il sindacato che) nell’ambito del primo motivo, la parte ricorrente sollecita, come detto, in ordine alla circostanza per cui, nell’effettuare la valutazione di sua spettanza in ordine al quantum risarcitorio, la corte d’appello abbia ritenuto di parametrare il risarcimento all’intero importo erogato al primo appaltatore, in luogo che a una parte di esso.
7. - In definitiva, il ricorso va accolto per quanto di ragione in relazione al solo primo motivo, con cassazione in relazione al motivo accolto e rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Roma, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La corte accoglie per quanto di ragione il primo motivo, rigetta il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia ad altra sezione della corte d’appello di Roma anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma il 21 febbraio 2017. Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2017.
PROFILI DELLA RESPONSABILITÀ DELL’APPALTATORE EX ART. 1669 C.C.
(Relatore: Xxxxxxxx Xxxxxxxxx)
Xxxx., sez. un., 27 Xxxxx 2017, n. 7756
In tema di contratto d’appalto, l’art. 1669 c.c. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo.
FATTO
Gli odierni ricorrenti, partecipanti tutti al condominio di via (OMISSIS), convenivano in giudizio innanzi al locale Tribunale la società venditrice Fonte Sajano s.r.l. e la società P.F. e
C. s.n.c., che su incarico di quest’ultima aveva eseguito sull’edificio interventi di ristrutturazione edilizia. Domandavano la condanna delle società convenute, in solido tra loro, al risarcimento dei danni consistenti in un esteso quadro fessurativo esterno ed interno delle pareti del fabbricato ed altri gravi difetti di costruzione.
Nel resistere in giudizio entrambe le convenute chiamavano in causa la società che aveva eseguito gli intonaci, la Edilcentro s.r.l., per esserne tenute indenni.
Nella contumacia della società chiamata in causa, il Tribunale, ritenuta la ricorrenza di gravi difetti dell’opera, accoglieva la domanda e condannava le società convenute al pagamento della somma di Euro 71.503,50, a titolo di responsabilità per danni ex art. 1669 c.c..
Impugnata dalla P.F. e C. s.n.c., tale decisione era ribaltata dalla Corte d’appello di Ancona, che con sentenza pubblicata il 12.7.2012 rigettava la domanda. Richiamato il precedente di Cass. n. 24143/07, la Corte territoriale osservava che ai fini dell’applicazione dell’art. 1669 c.c., la costruzione di un edificio o di altra cosa immobile destinata a lunga durata costituisce presupposto e limite della responsabilità dell’appaltatore. E poichè nella specie erano stati eseguiti solo interventi di ristrutturazione edilizia (con cambiamento di destinazione d’uso da ufficio ad abitazione), comprendenti la realizzazione di nuovi balconi ai primi due piani, di una scala in cemento armato e di nuovi solai ai sottotetti, non si trattava della nuova costruzione di un’immobile, ma di una mera ristrutturazione. Di qui l’inapplicabilità della norma anzi detta. La cassazione di questa sentenza è chiesta dagli odierni ricorrenti sulla base di un solo motivo. Vi resiste con controricorso la P.F. & C. s.n.c..
La Fonte Sajano s.r.l. in liquidazione e la Edilcentro s.r.l. non hanno svolto attività difensiva. La terza sezione civile di questa Corte, ravvisando un contrasto di giurisprudenza sulla riconducibilità all’art. 1669 c.c., anche delle opere edilizie eseguite su di un fabbricato preesistente, ha rimesso la causa al primo Presidente, che l’ha assegnata a queste Sezioni unite. Entrambe le parti, ricorrente e controricorrente, hanno depositato memoria.
DIRITTO
1. - Con l’unico motivo di ricorso parte ricorrente deduce la "violazione e falsa applicazione dell’art. 1669 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5". Espone che la
sentenza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto che la ristrutturazione edilizia di un fabbricato non possa rientrare nella previsione dell’art. 1669 c.c.; lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di motivare sull’entità dei lavori di ristrutturazione del fabbricato, nonchè sulla consistenza e sulla rilevanza dei vizi accertati dal c.t.u.; deduce che) rispetto al caso esaminato da Cass. n. 24143/07, quello in oggetto concerne interventi edilizi di carattere straordinario riconducibili all’ipotesi di cui all’art. 1669 c.c.; e richiama, tra altre pronunce di questa Corte, Cass. n. 18046/12 per affermare che la ridetta norma è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle opere di ristrutturazione immobiliare e a quelle che siano comunque destinate ad avere lunga durata.
2. - Sotto quest’ultimo profilo, quello dell’ambito oggettivo coperto dall’art. 1669 c.c., l’ordinanza interlocutoria della terza sezione rileva un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte (precisamente all’interno della seconda sezione). E senza mostrare di voler prendere partito per l’una o l’altra tesi, quella che esclude o quella che afferma l’applicabilità dell’art. 1669 c.c., anche alle ristrutturazioni immobiliari, ritiene che emerga ad ogni modo un contrasto sui principi di diritto affermati, al di là delle possibili peculiarità "fattuali" delle singole situazioni esaminate.
2.1. - Sulla peculiare questione in oggetto anche la dottrina mostra di dividersi. Pacifica l’applicabilità dell’art. 1669 c.c., ai casi di ricostruzione o di costruzione di una nuova parte dell’immobile, come ad esempio la sopraelevazione, che è essa stessa una "nuova costruzione", prevale l’opinione dell’estensibilità della norma anche alle ipotesi di interventi di tipo manutentivo - modificativo che debbano avere una lunga durata nel tempo. Ciò sia nel caso in cui a seguito delle riparazioni o delle modifiche collassi l’intera e preesistente struttura immobiliare, indipendentemente dall’importanza in sè della parte riparata o modificata, sia ove la rovina o i gravi difetti riguardino direttamente quest’ultima. Ed escluse le riparazioni non di lunga durata, come quelle ordinarie, e quelle aventi ad oggetto parti strutturali anch’esse non destinate a conservarsi nel tempo, deve dunque ammettersi l’applicazione dell’art. 1669 c.c., nelle situazioni inverse. Si osserva da alcuni che, in definitiva, il problema è lo stesso che si presenta allorchè rovini o sia gravemente difettosa soltanto una porzione dell’originario edificio, visto che la stessa norma contempla anche l’ipotesi che l’immobile rovini "in parte". Non solo, ma si ipotizza che la soluzione inversa si presterebbe a dubbi di legittimità costituzionale, considerato che gli artt. 1667 e 1668 c.c., del pari riguardanti la responsabilità dell’appaltatore, si applicano ad opere consistenti in mere modificazioni o riparazioni, mentre l’art. 1669 c.c., restrittivamente inteso condurrebbe, irrazionalmente e in violazione dell’art. 3 Cost., ad applicare l’art. 1667 c.c., ancorchè l’opera consista, previa demolizione, in una ricostruzione totale o parziale, del tutto sovrapponibile ad una costruzione ex novo.
Minoritaria la tesi opposta, che rispetto alla disciplina degli artt. 1667 e 1668 c.c., ravvisa nell’art. 1669 c.c., una norma di carattere speciale. Si afferma che essa, insuscettibile di applicazione analogica, integri una garanzia vera e propria e una disposizione di favore per il committente, motivata dal fatto che nelle opere di lunga durata alcuni difetti possono presentarsi anche a distanza di molto tempo. L’art. 1669 c.c., riguarderebbe, per tale dottrina, le opere eseguite ex novo dalle fondamenta ovvero quelle dotate di propria autonomia in senso tecnico (come ad esempio una sopraelevazione).
3. - La giurisprudenza di questa Corte ha affrontato in maniera esplicita e diretta il tema di cui si discute solo in tre occasioni. O meglio in due, per le- - ragioni che seguono.
3.1. - La prima con sentenza n. 24143/07. Riferita ad un caso di opere d’impermeabilizzazione e pavimentazione del terrazzo condominiale d’un edificio preesistente, detta pronuncia ha osservato che l’art. 1669 c.c., delimita con una certa evidenza il suo ambito di applicazione alle opere aventi ad oggetto la costruzione di edifici o di altri beni immobili di lunga durata, ivi inclusa la sopraelevazione di un fabbricato preesistente, di cui ravvisa la natura di costruzione nuova ed autonoma. Non anche, però, le modificazioni o le riparazioni apportate ad un edificio o ad altre preesistenti cose immobili, da identificare a norma del’art. 812 c.c.. A tale conclusione è pervenuta attraverso l’interpretazione letterale della norma, laddove questa "raccorda il termine "opera" a quello di "edifici o di altre cose immobili, destinate per loro natura a lunga durata", per poi connettere e disciplinare le conseguenze dei vizi costruttivi della medesima opera, così significando che la costruzione di un edificio o di altra cosa immobile, destinata per sua natura a lunga durata, costituisce presupposto e limite di applicazione della responsabilità prevista in capo all’appaltatore". La conseguenza, conclude, è che ove non ricorra la costruzione d’un edificio o di altre cose immobili di lunga durata, ma un’opera di mera riparazione o modificazione su manufatti preesistenti, non è applicabile l’art. 1669 x.x., xx, xxxxxxxxxxxx xx xxxxxxxxxx, xx xxxxx xxxxx xxxxxxxx ex art. 1667 c.c.. Infine, detta sentenza ha escluso che questa Corte Suprema abbia mai affrontato ex professo la questione, se non nella vigenza del x.x. xxx 0000, xxxxx x’xxx. 0000 (xx tratta della sentenza n. 754 del 1934, la quale nell’escludere l’applicabilità della norma alla copertura con asfalto d’un lastrico solare, si limitò, in realtà, ad affermare unicamente che la norma "ha, come è comune insegnamento, carattere eccezionale, e non può perciò essere estesa fuori dei casi ivi preveduti della fabbricazione di un edificio o d’altra opera notabile": n.d.r.).
3.1.1. - In senso puramente adesivo è la n. 10658/15 (massimata in maniera del tutto conforme), avente ad oggetto lavori di consolidamento di una villetta preesistente che avevano provocato gravi fessurazioni su di un corpo di fabbrica aggiuntovi.
A ben vedere, tuttavia, la motivazione chiarisce che il giudice d’appello, ricondotta la fattispecie all’art. 1669 c.c., aveva escluso la responsabilità dell’appaltatore a tale titolo non essendovi prova che questi avesse indicato i lavori da eseguire, nè che fosse stato messo al corrente dei difetti strutturali che avevano determinato le lesioni riscontrate. Xxxxxx, in definitiva, la Corte territoriale aveva escluso sia il nesso eziologico tra le opere eseguite dall’appaltatore e i danni lamentati, sia una colpa di lui. Il consenso prestato a Cass. n. 24143/07 è frutto, dunque, di una considerazione svolta ad abundantiam rispetto alla ratio decidendi, basata su altro; il che rende dubbio che detto precedente possa effettivamente militare nell’ambito della tesi negativa.
3.2. - Di segno opposto la sentenza più recente, n. 22553/15, secondo cui risponde ai sensi dell’art. 1669 c.c., anche l’autore di opere realizzate su di un edificio preesistente, allorchè queste incidano sugli elementi essenziali dell’immobile o su elementi secondari rilevanti per la funzionalità globale. In quella fattispecie, le opere avevano riguardato lavori di straordinaria manutenzione presso uno stabile condominiale, consistiti nel rafforzamento dei solai e delle rampe delle scale (queste ultime ricostruite completamente).
Nel darsi carico dei due precedenti massimati di segno contrario all’avviso espresso, detta sentenza ravvisa una "diversa valutazione complessiva delle emergenze fattuali", più che un
"contrasto sincrono di giurisprudenza". Afferma, quindi, che la lettura della norma giustifica una diversa impostazione ermeneutica, "perchè non a caso il legislatore discrimina tra edificio o altra cosa immobile destinata a lunga durata, da un lato, e opera, dall’altro. L’opera cui allude la norma non si identifica necessariamente con l’edificio o con la cosa immobile destinata a lunga durata, ma ben può estendersi a qualsiasi intervento, modificativo o riparativo, eseguito successivamente all’originaria costruzione dell’edificio, con la conseguenza che anche il termine compimento, ai fini della delimitazione temporale decennale della responsabilità, ha ad oggetto non già l’edificio in sè considerato, bensì l’opera, eventualmente realizzata successivamente alla costruzione dell’edificio". Ha osservato, inoltre, che "l’etimologia del termine costruzione non necessariamente deve essere ricondotta alla realizzazione iniziale del fabbricato, ma ben può riferirsi alle opere successive realizzate sull’edificio pregresso, che abbiano i requisiti dell’intervento costruttivo". Pertanto, anche "gli autori di tali interventi di modificazione o riparazione possono rispondere ai sensi dell’art. 1669 c.c., allorchè le opere realizzate abbiano una incidenza sensibile sugli elementi essenziali delle strutture dell’edificio ovvero su elementi secondari od accessori, tali da compromettere la funzionalità globale dell’immobile stesso". Per contro, prosegue la sentenza, "nessun valore può essere attribuito con riguardo alla responsabilità di cui all’art. 1669 c.c., alle classificazioni urbanistiche predisposte dal legislatore al diverso fine del recupero di manufatti preesistenti: la differenza dei parametri di riferimento giustifica l’integrale responsabilità dell’appaltatore sia in presenta di interventi di manutenzione straordinaria sia in ipotesi di manutenzione ordinaria ai sensi della L. n. 457 del 1978, art. 31".
3.3. - Invece, Cass. n. 18046/12, richiamata tra altre nel motivo di ricorso, non pare prendere posizione nell’un senso piuttosto che nell’altro, sebbene in quel caso fosse sul tappeto, perchè dedotta dalla ricorrente venditrice - (ri)costruttrice, la differenza tra l’imperfetta realizzazione di immobili di nuova costruzione, rientrante nell’art. 1669 c.c., e i difetti di specifici lavori di ristrutturazione, che sosteneva non riconducibili alla norma. In detta sentenza, infatti, questa Corte ha ritenuto la censura non accoglibile in parte per difetto di autosufficienza, e in parte perchè la pronuncia impugnata faceva riferimento all’inadeguatezza sia dei lavori di completa ristrutturazione compiuti dai venditori a stregua della concessione, sia di quelli di rifinitura, mentre le censure della ricorrente attenevano alla configurabilità, affermata dalla Corte territoriale, della violazione dell’art. 1669 c.c., in relazione solo a tali ultimi lavori.
4. - Queste Sezioni unite aderiscono all’orientamento meno restrittivo, ritenendolo sostenibile sulla base di ragioni d’interpretazione storico-evolutiva, letterale e teleologica.
4.1. - In primo luogo vale premettere e chiarire che anche opere più limitate, aventi ad oggetto riparazioni straordinarie, ristrutturazioni, restauri o altri interventi di natura immobiliare, possono rovinare o presentare evidente pericolo di rovina del manufatto, tanto nella porzione riparata o modificata, quanto in quella diversa e preesistente che ne risulti altrimenti coinvolta per ragioni di statica. L’attenzione va, però, soffermata principalmente sull’ipotesi dei "gravi difetti", sia perchè confinaria rispetto al regime ordinario degli artt. 1667 e 1668 c.c., sia per il rilievo specifico che i "gravi difetti" assumono nel caso in oggetto, sia per le ragioni di carattere generale che emergeranno più chiaramente di seguito.
4.2. - Innumerevoli altre volte la giurisprudenza di questa Corte, pur non esaminando in maniera immediata e consapevole la questione in esame, si è occupata dell’art. 1669 c.c., presupponendone (per difetto di contrasto fra le parli o per altre ragioni) l’applicabilità anche
in riferimento ad opere limitate. Ed è pervenuta a soluzioni applicative di detta norma che appaiono poter prescindere dalla necessità logica di un’edificazione ab imo o di una costruzione ex novo.
Si è ritenuto, infatti, che sono gravi difetti dell’opera, rilevanti ai fini dell’art. 1669 c.c., anche quelli che riguardano elementi secondari ed accessori (come impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi ecc.) purché tali da compromettere la funzionalità globale dell’opera stessa e che, senza richiedere opere di manutenzione straordinaria, possono essere eliminati solo con interventi di manutenzione ordinaria ai sensi della L. n. 457 del 1978, art. 31, e cioè con "opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici" o con "opere necessarie per integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti" (sentenze nn. 1164/95 e 14449/99; in senso del tutto analogo e con riferimento a carenze costruttive anche di singole unità immobiliari, v. n. 8140/04, che ha ritenuto costituire grave difetto lo scollamento e la rottura, in misura percentuale notevole rispetto alla superficie rivestita, delle mattonelle del pavimento dei singoli appartamenti; da premesse conformi procedono le nn. 11740/03, 81/00, 456/99, 3301/96 e 1256/95; di un apprezzabile danno alla funzione economica o di una sensibile menomazione della normale possibilità di godimento dell’immobile, in relazione all’utilità cui l’opera è destinata, parlano le sentenze nn. 1393/98, 1154/02, 7992/97, 5103/95, 1081/95, 3644/89, 6619/88, 6229/83, 2523/81, 1178/80, 839/80, 1472/75 e 1394/69).
Esemplificando, sono stati inquadrati nell’ambito della norma in oggetto i gravi difetti riguardanti: la pavimentazione interna ed esterna di una rampa di scala e di un muro di recinzione (sentenza n. 2238/12); opere di pavimentazione e di impiantistica (n. 1608/00); infiltrazioni d’acqua, umidità nelle murature e in generale problemi rilevanti d’impermeabilizzazione (nn. 84/13, 21351/05, 117/00, 4692/99, 2260/98, 2775/97, 3301/96, 10218/94, 13112/92, 9081/92, 9082/91, 2431/86, 1427/84, 6741/83, 2858/83, 3971/81,
3482/81, 6298/80, 4356/80, 206/79, 2321/77, 1606/76 e 1622/72); un ascensore panoramico esterno ad un edificio (n. 20307/11); l’inefficienza di un impianto idrico (n. 3752/07); l’inadeguatezza recettiva d’una fossa biologica (n. 13106/95); l’impianto centralizzato di riscaldamento (nn. 5002/94, 7924/92, 5252/86 e 2763/84); il crollo o il disfacimento degli intonaci esterni dell’edificio (nn. 6585/86, 4369/82 e 3002/81, 1426/76); il collegamento diretto degli scarichi di acque bianche e dei pluviali discendenti con la condotta fognaria (n. 5147/87); infiltrazioni di acque luride (n. 2070/78).
Se ne ricava, inconfutabile nella sua oggettività, un dato di fatto.
Nell’economia del ragionamento giuridico sotteso ai casi sopra menzionati, che fa leva sulla compromissione del godimento dell’immobile secondo la sua propria destinazione, è del tutto indifferente che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova. La circostanza che le singole fattispecie siano derivate o non dall’edificazione primigenia di un fabbricato non muta i termini logico-giuridici dell’operazione ermeneutica compiuta in ormai quasi mezzo secolo di giurisprudenza, perchè non preordinata al (nè dipendente dal) rispetto dell’una o dell’altra opzione esegetica in esame. Spostando l’attenzione sulle componenti non strutturali del risultato costruttivo e sull’incidenza che queste possono avere sul complessivo godimento del bene, la giurisprudenza ha mostrato di porsi dall’angolo visuale degli elementi secondari ed accessori. Questo non implica di necessità propria che si tratti della prima realizzazione dell’immobile, essendo ben possibile che l’opus oggetto dell’appalto consista e si esaurisca in questi stessi e soli elementi. Ferma tale angolazione, a fortiori deve ritenersi che ove l’opera
appaltata consista in un intervento di più ampio respiro edilizio (come, appunto, una ristrutturazione), quantunque non in una nuova costruzione, l’art. 1669 c.c., sia ugualmente applicabile.
In conclusione, considerare anche gli elementi "secondari" ha significato distogliere il focus dal momento "fondativo" dell’opera per direzionarlo sui "gravi difetti" di essa; per desumere i quali è stato necessario indagare altro, vale a dire l’aspetto funzionale del prodotto conseguito.
5. - Come la previsione dei "gravi difetti" dell’opera sia il risultato d’un progressivo allontanamento del precetto dal suo nucleo originario, lo dimostra la storia della norma. Derivata dall’art. 1792 del codice napoleonico (il quale stabiliva che "Si l’edifice construit a prix fait, perit en tout ou en partie par le vice de la construction, meme par le vice du sol, les architecte et entrepreneur en sont roonsables pendant dix ans"), essa così recitava sotto l’art. 1639 c.c. del 1865: "Se nel corso di dieci anni dal giorno in cui fu compiuta la fabbricazione di un edificio o di altra opera notabile, l’uno o l’altra rovina in tutto o in parte, o presenta evidente pericolo di rovinare per difetto di costruzione o per vizio del suolo, l’architetto e l’imprenditore ne sono responsabili". Rispetto all’ascendente francese, la norma aveva, dunque, aggiunto un quid pluris (cioè le altre opere notabili e il pericolo di rovina). Ma - si noti - aveva mantenuto inalterato il soggetto della seconda proposizione subordinata ("...l’uno o l’altra..."), cioè l’edificio, cui appunto aveva aggiunto "altra opera notabile".
Un ulteriore e consapevole passo in avanti è stato operato dal codice civile del 1942, il quale prevede che quando si tratta di edifici o di altre cose immobili destinate per la loro natura a lunga durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purchè sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta.
Si legge nella relazione del Guardasigilli (par. 704): "Innovando poi al codice del 1865 si è creduto di non dover limitare la sfera di applicazione della norma in questione alle sole ipotesi di rovina di tutto o parte dell’opera o di evidente pericolo di rovina, ma si è estesa la garanzia anche alle ipotesi in cui l’opera presenti gravi difetti. Naturalmente questi difetti devono essere molto gravi, oltre che riconoscibili al momento del collaudo, e devono incidere sempre sulla sostanza e sulla stabilità della costruzione, anche se non minacciano immediatamente il crollo di tutta la costruzione o di una parte di essa o non importano evidente pericolo di rovina. Non vi è dubbio che la giurisprudenza farà un’applicazione cauta di questa estensione, in conseguenza del carattere eccezionale della responsabilità dell’appaltatore". (Il riferimento alla riconoscibilità dei gravi difetti al momento del collaudo è, ad evidenza, un fuor d’opera. Concessa per un decennio, la garanzia ex art. 1669 c.c. copre anche e soprattutto i gravi difetti che si manifestino soltanto in progresso di tempo).
Come si è visto, però, la postulata eccezionalità dell’art. 1669 c.c., non è valsa ad arginarne l’applicazione. Chiamata a dotare il sintagma "gravi difetti" di un orizzonte di senso, la giurisprudenza ha ovviamente seguito l’unica strada percorribile, quella di stemperare la vaghezza del concetto giuridico al calore dei fatti.
5.1. - Il mutamento di prospettiva nel codice del 1942 è evidente per due ragioni. La prima, d’ordine logico, è che la nozione di "gravi difetti" per la sua ampiezza è omogenea a qualunque opera, edilizia e non, per cui meglio si presta al riferimento, del pari generico, alle altre cose immobili. In secondo luogo, e l’argomento è di indole letterale, mentre nel testo del 1865 il
soggetto della seconda proposizione subordinata era l’edificio o altra opera notabile ("l’uno o l’altra"), nella frase che vi corrisponde nell’art. 1669 c.c., il soggetto diviene "l’opera", nozione che rimanda al risultato cui è tenuto l’appaltatore (art. 1655 c.c.). E dunque qualsiasi opera su di un immobile destinato a lunga durata, a prescindere dal fatto che, ove di natura edilizia, essa consista o non in una nuova fabbrica.
Ben si comprende, allora, che nell’ampliare il catalogo dei casi di danno rilevante ai sensi dell’art. 1669 c.c., l’aggiunta dei "gravi difetti" ha comportato per trascinamento l’estensione dell’area normativa della disposizione, includendovi qualsiasi opera immobiliare che (per traslato) sia di lunga durata e risulti viziata in grado severo per l’inadeguatezza del suolo o della costruzione. Ne è seguita, coerente nel suo impianto complessivo, l’interpretazione teleologica fornita dalla giurisprudenza, che è andata oltre l’originaria visione dell’art. 1669 c.c., come norma di protezione dell’incolumità pubblica, valorizzando la non meno avvertita esigenza che l’immobile possa essere goduto ed utilizzato in maniera conforme alla sua destinazione.
Completano e confermano la validità di tale esito ermeneutico, l’irrazionalità (non conforme ad un’interpretazione costituzionalmente orientata) di un trattamento diverso tra fabbricazione iniziale e ristrutturazione edilizia, questa non diversamente da quella potendo essere foriera dei medesimi gravi pregiudizi; e la pertinente osservazione (v. la richiamata sentenza n. 22553/15) per cui costruire, nel suo significato corrente (oltre che etimologico) implica non l’edificare per la prima volta e dalle fondamenta, ma l’assemblare tra loro parti convenientemente disposte (cum struere, cioè ammassare insieme).
6. - Così ricomposta (la storia e) l’esegesi della norma, il vincolo letterale su cui l’interpretazione restrittiva dell’art. 1669 c.c. pretende di fondarsi perde la propria base logico- giuridica. Infatti, riferire l’opera alla "costruzione" e questa a un nuovo fabbricato, inteso quale presupposto e limite della responsabilità aggravata dell’appaltatore (come ritiene Cass. n. 24143/07), non sembra possibile proprio dal punto di vista letterale.
Si noti che nel testo della norma il sostantivo "costruzione" rappresenta un nomen actionis, nel senso che sta per "attività costruttiva"; e non potrebbe essere altrimenti, visto che se esso valesse (come mostra d’intendere la sentenza appena citata) quale specificazione riduttiva del soggetto (l’opera) della (terza, nel testo vigente) proposizione subordinata, si avrebbe una duplicazione di concetti ad un tempo inutile e fuorviante. Inoltre, il supposto impiego sinonimico di "costruzione" quale nuovo edificio, porterebbe a intendere la norma come se affermasse che l’opera può rovinare per difetto suo proprio.
Lettura criptica, questa, che restituirebbe inalterato all’interprete il problema ermeneutico, dovendosi stabilire cosa sia il vizio proprio di un’opera; salvo convenire che esso è quello che deriva (da un vizio del suolo o) dal difetto di costruzione, così confermandosi che quest’ultimo sostantivo allude, appunto, all’attività dell’appaltatore.
Non senza aggiungere che supponendo la tesi qui non condivisa, a) sarebbe stato ben più logico un diverso incipit della norma (e cioè, "Quando si tratta (della costruzione) di edifici..."); e b) il termine "costruzione" risulterebbe irriferibile agli altri immobili di lunga durata, pure contemplati dall’art. 1669 c.c., per i quali, paradossalmente, questa sarebbe applicabile solo se rovina, evidente pericolo di rovina o gravi difetti dipendessero da vizio del suolo, cioè da una soltanto delle due cause ivi indicate (e, per soprammercato, proprio quella che naturaliter fa pensare alle opere murarie).
Ancora. Incentrando l’interpretazione dell’art. 1669 c.c., sul concetto di "costruzione" quale nuova edificazione, diverrebbe (se non automatico, almeno) spontaneo il rinvio al concetto normativo di costruzione così come elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di distanze. E, in effetti, Cass. n. 24143/07 sembra presupporlo lì dove afferma (cosa in sè condivisibile) che la norma in commento ricomprende la sopraelevazione, la quale è costruzione nuova ed autonoma rispetto all’edificio sopraelevato. Ma è una tematica del tutto estranea, quella dell’art. 873 c.c. e ss., il rimando alla quale sortirebbe effetti contraddittori e inaccettabili anche per la tesi seguita dal citato precedente, sol che si consideri che ai fini delle distanze è costruzione un balcone (v. sentenza n. 18282/16), ma non la ricostruzione fedele, integrale e senza variazioni plano-volumetriche di un edificio preesistente (v. ordinanza S.U. n. 21578/11 e sentenza n. 3391/09).
6.1. - Non meno controvertibile l’altro argomento - la specialità o l’eccezionalità della norma - utilizzato dall’interpretazione restrittiva dell’art. 1669 c.c., per escluderne l’applicazione analogica.
In disparte il fatto che (i) solo di specialità potrebbe trattarsi, nel senso che la responsabilità aggravata prevista da detta disposizione è speciale rispetto al regime ordinario del risarcimento del danno per colpa ai sensi dell’art. 1668 c.c., comma 1; che (ii) tale specialità si è già attenuata fortemente allorchè la giurisprudenza di questa Corte ha ammesso, oltre all’azione risarcitoria, quella di riduzione del prezzo, di condanna specifica all’eliminazione dei difetti dell’opera e di risoluzione, che costituiscono il contenuto della garanzia ordinaria cui è tenuto l’appaltatore (per l’affermativa, che sembra ormai consolidata, cfr. nn. 815/16, 8140/04, 8294/99, 10624/96, 1406/89 e 2763/84; contra, le più risalenti sentenze nn. 2954/83, 2561/80 e 1662/68); e che (iii) l’analogia serve a disciplinare ciò che non è positivizzato, non a riposizionare i termini di una regolamentazione data; tutto ciò a parte, quanto fin qui considerato dimostra come l’art. 1669 c.c., includa a pieno titolo gli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata, la cui potenziale incidenza tanto sulla rovina o sul pericolo di rovina quanto sul normale godimento del bene non opera in modo dissimile dalle ipotesi di edificazione ex novo. Pertanto, la pur indubbia specialità della protezione di lunga durata accordata al committente (protezione che resiste anche al collaudo: cfr. Cass. nn. 7914/14, 1290/00 e 4026/74), non interferisce con la questione in oggetto.
7. - Poco o punto rilevante, e dunque non decisiva ai fini in esame, la natura extracontrattuale della responsabilità ex art. 1669 c.c. - con carattere di specialità rispetto alla previsione generale dell’art. 2043 c.c. - costantemente affermata dalla giurisprudenza (tanto che Xxxx. nn. 4035/17 e 1674/12 hanno escluso che la relativa controversia possa rientrare nell’ambito della clausola che si limiti a compromettere in arbitri le liti nascenti da un contratto d’appalto). Tutt’altro che monolitica, invece, è al riguardo la dottrina.
Ammessa anche dalle sentenze nn. 24143/07 e 10658/15, che come detto escludono l’applicazione dell’art. 1669 c.c., alle ipotesi di riparazioni o modificazioni, la tesi della natura extracontrattuale di detta responsabilità; qualificata come ex lege (cfr. Cass. n. 261/70 e il brano della relazione al c.c. del 1942 riportato supra al paragrafo 5) e prevista per ragioni di ordine pubblico e di tutela dell’incolumità personale dei cittadini, quindi, inderogabile e irrinunciabile (x. Xxxx. n. 81/00), ha anch’essa origini remote, essendo stata altrettanto costantemente affermata dalla giurisprudenza sotto l’impero del c.c. del 1865 a partire dagli anni venti del XX secolo. Ciò allo scopo di riconoscere l’azione risarcitoria anche agli acquirenti del costruttore-
venditore, essendo invalsa già in allora, con lo sviluppo delle attività edilizie, l’unificazione delle due figure.
7.1. - Ai limitati fini che qui rilevano può solo osservarsi che, come sopra detto, la categoria dei gravi difetti tende a spostare il baricentro dell’art. 1669 c.c., dall’incolumità dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene, e dunque da un’ottica pubblicistica ed aquiliana ad una privatistica e contrattuale. Oltre a ciò, va considerata la maggior importanza che sul tema della tutela dei terzi ha assunto, invece, l’esperienza dell’appalto pubblico; l’espresso riconoscimento dell’azione anche agli aventi causa del committente (i quali possono agire anche contro il costruttore-venditore: fra le tante, x. Xxxx. nn. 467/14, 9370/13 e 2238/12 e 4622/02), il che ha privato del suo principale oggetto la teoria della responsabilità extracontrattuale ex art. 1669 c.c.; i più recenti approdi della dottrina sull’efficacia ultra partes del contratto; e - da ultima, ma non ultima - la possibilità che tale efficacia operi in favore dei terzi nei casi previsti dalla legge (art. 1372 cpv. c.c.). Tutto ciò rende ormai meno attuale il tema della natura extracontrattuale della responsabilità di cui all’art. 1669 c.c., che se non ha esaurito la propria funzione storica (per difetto di rilevanza non è questa la sede per appurarlo), di sicuro ha perso l’originaria centralità che aveva nell’interpretazione della norma.
8. - Per le considerazioni svolte l’unico motivo di ricorso deve ritenersi fondato. Consegue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Ancona, che nel decidere il merito si atterrà al seguente principio di diritto: "l’art. 1669 c.c., è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo".
9. - Al giudice di rinvio è rimessa, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 3, anche la statuizione sulle spese del presente giudizio di cassazione.
P. Q. M.
La Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Ancona, che provvederà anche sulle spese di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 10 gennaio 2017.
Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2017.
POSIZIONE SOSTANZIALE DEL BENEFICIARIO DEL TRUST E SUA LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE: IL BENEFICIARIO È LITISCONSORTE NECESSARIO?
(Relatore: Xxxxxxxxx Xxxxxxxx)
Cass., 3 Agosto 2017, n. 19376
La costituzione del fondo patrimoniale determina soltanto un vincolo di destinazione sui beni confluiti nel fondo, affinché, con i loro frutti, sia assicurato il soddisfacimento dei bisogni della famiglia, ma non incide sulla titolarità dei beni stessi, né implica l’insorgere di una posizione di diritto soggettivo in favore dei singoli componenti del nucleo familiare, neppure con riguardo ai vincoli di disponibilità. Ne consegue che deve escludersi che i figli minori del debitore siano litisconsorti necessari nel giudizio promosso dal creditore per sentire dichiarare l’inefficacia dell’atto con il quale il primo abbia costituito alcuni beni di sua proprietà in fondo patrimoniale.
FATTO
1. Con la sentenza impugnata, pubblicata il 16 gennaio 2015, la Corte d’appello di Bologna, ha rigettato l’appello proposto da C.R. ed F.A. nei confronti della Cassa di Risparmio di Forlì e della Romagna S.P.A. contro la sentenza del Tribunale di Forlì, con la quale era stata accolta la domanda avanzata dall’istituto di credito nei confronti dei coniugi C. - F. per la dichiarazione di inefficacia, ai sensi dell’art. 2901 c.c., del fondo patrimoniale costituito con atto a rogito notaio B. in data 3 aprile 2007, trascritto in data 27 aprile 2007, e del trust, avente ad oggetto gli stessi beni immobili del fondo patrimoniale, costituito in data 14 luglio 2008 con atto a rogito notaio R., trascritto in data 18 luglio 2008, con affidamento dei beni, in qualità di trustee, ad F.A..
Con la sentenza di primo grado era stata anche rigettata la domanda riconvenzionale dei convenuti di risarcimento danni, patrimoniali e non patrimoniali, nei confronti dell’istituto di credito attore.
1.1. La Corte d’appello ha rigettato il motivo col quale era dedotto il difetto di integrità del contraddittorio per la mancata chiamata in giudizio delle figlie dei coniugi X. - F.. Nel merito, ha ritenuto: la natura gratuita di entrambi gli atti oggetto di revocatoria; l’esistenza del credito in favore della banca nei confronti del C. già in epoca anteriore alla costituzione del fondo patrimoniale e del trust (quanto alle obbligazioni di garanzia assunte come fideiussore in favore della società Tecnocostruzioni srl, alla quale la banca aveva concesso delle aperture di credito); la consapevolezza da parte del debitore dell’esistenza del debito e del pregiudizio arrecato alle ragioni dell’istituto creditore. Inoltre, ha riscontrato l’insorgenza di un ulteriore credito della banca personalmente nei confronti del C. - relativo alla concessione di un mutuo per Euro 362.000,00 - dopo la costituzione del fondo patrimoniale, ed ha confermato la valutazione del Tribunale sul fatto che si trattasse di un’operazione dolosamente preordinata alla sottrazione dei beni alla garanzia dei creditori. Ha perciò concluso per il rigetto del gravame e la conferma della sentenza appellata, anche relativamente al rigetto della domanda riconvenzionale dei convenuti, poi appellanti, con condanna di questi al pagamento delle spese del grado.
2. Contro la sentenza, C.R. e F.A. propongono ricorso per cassazione con undici motivi.
La Cassa di Risparmio di Forlì e della Romagna S.P.A. si difende con controricorso.
DIRITTO
1. Col primo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 102 c.p.c., per la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti dei beneficiari del fondo patrimoniale e del trust. I ricorrenti insistono nell’evidenziare la differenza tra i due istituti, negata invece dal giudice d’appello anche ai fini dell’individuazione dei soggetti legittimati passivamente; ancora, sostengono che il fondo patrimoniale, nel caso di specie, sarebbe stato costituito per adempiere ad "un dovere morale del solvens" nei confronti delle figlie, all’epoca entrambe minorenni ed economicamente non autonome, sicché queste ultime avrebbero avuto titolo a contraddire in giudizio. Concludono che, essendo state violate le norme sul contraddittorio, l’intero giudizio sarebbe affetto da nullità.
1.1. Col secondo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 102 e 354 c.p.c., per ragioni analoghe a quelle già esposte col primo motivo, sostenendosi che la Corte d’appello sarebbe incorsa in error in procedendo per non avere rilevato il difetto del contraddittorio, con rinvio della causa al primo giudice. I ricorrenti prospettano questa eventualità come subordinata al mancato accoglimento del primo motivo, per il quale assumono che dovrebbe essere dichiarata la nullità dell’intero giudizio, senza alcuna restituzione nei gradi di merito.
2. I motivi non meritano di essere accolti.
Quanto alla legittimazione passiva nel giudizio per azione revocatoria dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale, l’orientamento di questa Corte è quello espresso dal precedente richiamato in sentenza, per il quale "La costituzione del fondo patrimoniale determina soltanto un vincolo di destinazione sui beni confluiti nel fondo, affinché, con i loro frutti, sia assicurato il soddisfacimento dei bisogni della famiglia, ma non incide sulla titolarità dei beni stessi, né implica l’insorgere di una posizione di diritto soggettivo in favore dei singoli componenti del nucleo familiare, neppure con riguardo ai vincoli di disponibilità. Ne consegue che deve escludersi che i figli minori del debitore siano litisconsorti necessari nel giudizio promosso dal creditore per sentire dichiarare l’inefficacia dell’atto con il quale il primo abbia costituito alcuni beni di sua proprietà in fondo patrimoniale" (Cass. n. 10641/14; ma cfr. nello stesso senso già Cass. n. 18065/04).
Non vi sono ragioni giuridiche per discostarsi da tale orientamento, né il caso di specie presenta peculiarità tali da rendere inapplicabile la regola che ne risulta.
2.1. Quanto al trust, occorre premettere che, di norma, esso presuppone un negozio istitutivo, di natura programmatica ed unilaterale, ed uno o più negozi dispositivi, di natura traslativa, in quanto destinati al trasferimento dei beni al trustee. Solo questi ultimi sono potenzialmente idonei a pregiudicare le ragioni dei creditori e quindi assoggettabili ad azione revocatoria.
I dati fattuali del caso di specie non sono compiutamente esposti in ricorso, poiché non sono riportati, nemmeno per sintesi, i contenuti essenziali né dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale nè dell’atto istitutivo del trust. Dall’illustrazione dei ricorrenti si evince che trustee venne nominata F.A. e beneficiarie le figlie della coppia e che vennero conferiti in trust gli stessi beni immobili già confluiti nel fondo patrimoniale, senza che sia specificato in ricorso nè risulti che abbia formato oggetto di dibattito nei gradi di merito - il regime proprietario che i beni avevano acquisito a seguito della costituzione del fondo patrimoniale e, quindi, chi
sia/siano disponente/i del trust (a prescindere dall’osservanza dell’art. 169 c.c.), nè quali siano le facoltà riservate a costui/costoro e quelle riconosciute ai beneficiari.
Ne consegue l’inammissibilità di entrambi i motivi in riferimento alle affermazioni del giudice di merito secondo cui il trustee "ha la disponibilità e la gestione dei beni stessi e nessun diritto concreto ed attuale viene conferito al soggetto beneficiario dell’atto, il quale non è legittimato a prendere parte al giudizio (...)" (pag. 5 della sentenza).
Sarebbe stato infatti onere dei ricorrenti dare conto di aver fatto presente al giudice di merito l’esistenza di diritti attuali in capo alle beneficiarie, tali da imporre la loro presenza nel giudizio, nonché evidenziare in ricorso la fonte e la natura di questi diritti.
Xxxxx è detto quanto al primo profilo, così determinandosi ulteriore ragione di inammissibilità dei motivi.
Quanto al secondo profilo, si sostiene, col primo motivo, che sarebbe "innegabile" che le beneficiarie, cioè le figlie della coppia, avessero "un interesse diretto ed immediato ad intervenire nella vertenza", in quanto aventi "un interesse immediato alla corretta amministrazione del patrimonio separato"; si citano poi delle clausole (art. 27 e art. 28, lett. B, nonché art. 13, lett. A e D), dell’atto, del quale tuttavia non è indicato nemmeno il luogo di reperimento nei fascicoli di parte (pagg. 31-32 del ricorso).
Anche a voler prescindere da tale ultima violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, le argomentazioni dei ricorrenti non meritano apprezzamento per le ragioni seguenti.
L’interesse alla corretta amministrazione del patrimonio separato non integra una posizione di diritto soggettivo attuale dei beneficiari.
Nemmeno peraltro questa si evince dalle clausole riportate in ricorso, in quanto attribuiscono ai beneficiari delle facoltà assoggettate a valutazioni discrezionali del trustee e, comunque, facoltà non connotate da realità, essendo previsti potenziali diritti di credito, riconoscibili a richiesta dei beneficiari. In particolare, il tenore di dette clausole non consente di qualificare i beneficiari come attuali beneficiari di reddito, con diritti quesiti (in quanto il riconoscimento è rimesso alla discrezionalità del trustee); nè come beneficiari finali, con diritto immediato a ricevere beni del trust (in quanto è prevista la soddisfazione alternativa in denaro).
In conclusione, è corretta la sentenza che ha escluso che i beneficiari del trust siano legittimati passivi dell’azione revocatoria avente ad oggetto i beni del trust, quando non sono titolari di diritti attuali su questi beni. Oltre al debitore, unico legittimato passivo è il trustee, in quanto "unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, non quale legale rappresentante, ma come colui che dispone del diritto" (così, di recente, Cass. n. 2043/17; ma cfr., nello stesso senso, Cass. n. 25478/15), nonché soggetto capace di agire ed essere citato in giudizio ai sensi dell’art. 11 della Convenzione adottata a L’Aja il 1 luglio 1985 ratificata con legge 16 ottobre 1989, n. 364.
I primi due motivi di ricorso vanno rigettati.
3. Col terzo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2901 e 170 c.c. "con riguardo al presupposto soggettivo (scientia damni e consilium fraudis) del debitore relativamente alla costituzione del fondo patrimoniale volto ad arrecare un significativo pregiudizio alle garanzie del creditore". I ricorrenti sostengono l’inesistenza in capo a C.R. del presupposto soggettivo, sia in riferimento alle aperture di credito in favore della Tecnocostruzioni srl sia in riferimento alla concessione del mutuo in suo favore.
3.1. Col quarto motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2901 e 170
c.c. "con riguardo al presupposto soggettivo (scientia damni e consilium fraudis) del debitore relativamente alla costituzione del trust volto ad arrecare un pregiudizio alle garanzie del creditore". I ricorrenti svolgono argomenti analoghi a quelli di cui al precedente motivo, quanto al presupposto soggettivo, ma con riferimento alla istituzione del trust.
3.2. Col quinto motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2901 c.c., relativamente al presupposto soggettivo in capo ai terzi, familiari beneficiari del fondo patrimoniale, sostenendosene, nel caso di specie, la natura di atto a titolo oneroso. Con la conseguenza, secondo i ricorrenti, che andrebbe verificata la sussistenza del presupposto soggettivo anche in capo alle figlie dei coniugi C. - F., invece non considerate dal giudice d’appello, nemmeno a questi fini. La sentenza sarebbe comunque errata per aver riscontrato esistente il presupposto soggettivo in capo alla F..
3.3. Col sesto motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2901 c.c., relativamente al presupposto soggettivo in capo ai terzi, trustee e beneficiari del trust. I ricorrenti svolgono argomenti analoghi a quelli di cui al motivo precedente, in riferimento all’atto di istituzione del trust, sostenendo anche per questo la natura di atto a titolo oneroso.
4. I motivi, da trattarsi congiuntamente, per ragioni di connessione, non meritano di essere accolti.
Essi sono infondati nella parte in cui assumono che fondo patrimoniale e trust sono stati costituiti con atti aventi natura onerosa.
4.1. Quanto al fondo patrimoniale, è sufficiente richiamare i numerosi precedenti di questa Corte che hanno affermato la natura gratuita dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale, non trovando, di regola, contropartita in un’attribuzione in favore dei disponenti, nè tale può essere considerata - contrariamente a quanto assumono i ricorrenti - la finalità di adempimento dei doveri verso la famiglia ed i figli ai sensi degli artt. 143 e 147 c.c., essendo lo strumento liberamente scelto dai disponenti (cfr. Cass. n. 6267/2005, n. 2327/06, n. 16760/10, n. 19029/13 ed altre non massimate).
5. Quanto al trust, va premesso che le finalità e l’assetto di interessi possono essere i più vari, sicchè, per qualificare l’atto istitutivo come gratuito oppure oneroso, occorre verificare il programma posto in concreto.
Nel caso di specie, il giudice di merito ha accertato che la finalità dell’istituzione del trust coincideva in parte con quella già realizzata con la costituzione del fondo patrimoniale ed era quella "di tenere i beni conferiti indenni dalle proprie vicende personali e di conseguenza rendere meno agevole la loro apprensione da parte dei creditori" (pag. 6 della sentenza).
L’accertamento non è significativamente censurato con le deduzioni dei ricorrenti, in quanto volte ad evidenziare come il trust fosse stato istituito per fare fronte alle esigenze di vita e di studio delle figlie (che, contrariamente a quanto affermato in sentenza, non erano affatto all’epoca maggiorenni e del tutto autonome). Da queste stesse deduzioni è dato evincere che si trattò di un trust familiare, privo di finalità solutorie o di altra natura corrispettiva, sicché valgono, quanto alla qualificazione dell’atto come gratuito, le considerazioni già svolte a proposito del fondo patrimoniale. L’istituzione del trust per esigenze familiari, anche qualora effettuata da entrambi i coniugi, non integra, di per sè, adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge, ma configura un atto a titolo gratuito, non trovando contropartita in un’attribuzione in favore dei disponenti.
Perciò è corretta la sentenza che ha qualificato come gratuiti entrambi gli atti oggetto di revocatoria.
6. Quanto ad ogni altra censura, i motivi sono inammissibili.
Sono irrilevanti, quindi carenti di interesse, le deduzioni, di cui ai motivi quinto e sesto poichè, trattandosi di atti a titolo gratuito, non rileva lo stato soggettivo dei soggetti diversi dal debitore, la cui verifica si impone, ai sensi dell’art. 2901 x.x., xxxxx 0, x. 0, xxxx qualora si tratti di atti a titolo oneroso.
6.1. Sono inammissibili le deduzioni di cui ai motivi terzo e quarto inerenti il presupposto soggettivo in capo al debitore perché, rispetto ai crediti nascenti dalla fideiussione prestata per le aperture di credito in favore della società, il giudice ha valutato gli elementi di fatto idonei a dimostrare la consapevolezza del C. di pregiudicare le ragioni dell’istituto di credito e, rispetto al credito nascente dal contratto di mutuo stipulato personalmente dal C., il giudice ha valutato gli elementi di fatto idonei a dimostrarne la dolosa preordinazione al fine di pregiudicare il soddisfacimento delle ragioni dei creditori (peraltro rilevante solo rispetto alla costituzione del fondo patrimoniale, essendo il trust successivo alla concessione del mutuo).
Per l’uno e per l’altro dei crediti in contestazione - dei quali il debitore ricorrente non censura, rispettivamente, la posteriorità e l’anteriorità rispetto agli atti pregiudizievoli - il giudice ha ritenuto la sussistenza del presupposto soggettivo avvalendosi della prova presuntiva.
Le critiche del debitore ricorrente mirano a sminuire la gravità e la precisione di alcuni degli elementi valutati dal giudice (essere socio di maggioranza della società; esserne il fideiussore delle aperture di credito; essere perciò a conoscenza della situazione patrimoniale di dissesto della società e del pregiudizio arrecato alle ragioni dei creditori) e ad attribuire efficacia probatoria a sè favorevole a degli altri elementi (non essere il legale rappresentante della società garantita; esserne garante in proprio, ad asserito riscontro dell’inconsapevolezza del dissesto) nella prospettiva del dolo del debitore, senza considerare che l’elemento soggettivo per l’atto successivo al sorgere del credito è dato dalla mera consapevolezza del pregiudizio arrecato alle ragioni dei creditori non essendo necessaria la dolosa preordinazione.
Parimenti inammissibili sono le critiche relative agli elementi valorizzati dal giudice per ritenere questa preordinazione in riferimento al contratto di mutuo (richiesta avanzata alla banca in epoca anteriore alla costituzione del fondo patrimoniale e formalizzazione del mutuo e di ulteriore fideiussione pochi giorni dopo - 11 maggio 2007 - la trascrizione del fondo patrimoniale -27 aprile 2007; tale "da far ritenere che la banca in quel breve lasso temporale non fosse a conoscenza e neppure in grado di verificare l’intervenuta trascrizione dell’atto", pag. 7 della sentenza), cui il debitore ricorrente contrappone fatti non decisivi (essere stato costituito il fondo con atto del 3 aprile 2007, e solo trascritto, per scelta del notaio, il successivo 27 aprile 2007) ovvero personali interpretazioni sul comportamento asseritamente anomalo della banca (che non avrebbe dovuto concedere il mutuo in mancanza di indici di solvibilità). In proposito, è sufficiente ribadire che allorquando la prova addotta sia costituita da presunzioni
- le quali anche da sole possono formare il convincimento del giudice del merito - rientra nei compiti di quest’ultimo il giudizio circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell’"id quod plerumque accidit", essendo il relativo apprezzamento sottratto al controllo in sede di legittimità se sorretto da motivazione immune dal vizi logici o giuridici e, in particolare, ispirato al principio secondo il quale i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza, richiesti dalla legge, devono essere
ricavati in relazione al complesso degli indizi, soggetti a una valutazione globale, e non con riferimento singolare a ciascuno di questi, pur senza omettere un apprezzamento così frazionato, al fine di vagliare preventivamente la rilevanza dei vari indizi e di individuare quelli ritenuti significativi e da ricomprendere nel suddetto contesto articolato e globale (Cass. n. 26022/11 e
n. 12002/17, tra le tante).
Essendo la decisione impugnata conforme a questi principi, sono inammissibili i motivi terzo e quarto che si risolvono nella pretesa di sindacato sull’apprezzamento dei fatti posti a fondamento della prova presuntiva.
6.2. Sono infine inammissibili le deduzioni svolte nei motivi fin qui esaminati relativamente all’ambito applicativo dell’art. 170 c.c.. La norma non trova applicazione nel presente giudizio, avente ad oggetto l’azione revocatoria della costituzione del fondo patrimoniale. Essa infatti presuppone l’efficacia della sua costituzione, con conseguente generale impignorabilità dei beni del fondo, salva l’eccezione appunto prevista dall’art. 170 c.c..
I motivi terzo, quarto, quinto e sesto vanno rigettati.
7. Col settimo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2901 c.c., "con riguardo al presupposto obiettivo della sussistenza di un diritto di credito del revocante verso
F.A. (...)", in quanto è accertato in sentenza che quest’ultima non era debitrice dell’istituto di credito attore in revocatoria e questo farebbe venire meno uno dei presupposti dell’azione.
7.1. Il motivo è inammissibile per irrilevanza della questione, atteso che la F. non è stata chiamata in giudizio in qualità di debitrice ma soltanto quale litisconsorte necessaria, in quanto coniuge costituente il fondo patrimoniale (cfr. Cass. n. 1242/12) e soggetto avente la qualifica di trustee (cfr. Cass. n. 2043/17 cit.).
Quanto all’assunto che non sarebbe mai stata chiamata in tale ultima qualità, cui si accenna nella parte finale del motivo, esso è inammissibile poiché pone una questione del tutto nuova, che non risulta aver formato oggetto del dibattito processuale (essendo stato questo, al contrario, connotato dal convincimento della rilevanza della qualifica di trustee rivestita dalla F.).
8. Con l’ottavo motivo si deduce violazione delle norme sull’onere probatorio in relazione ai presupposti soggettivi ed oggettivi dell’azione revocatoria.
I ricorrenti sostengono che l’istituto di credito non avrebbe fornito la prova di questi presupposti.
8.1. Il motivo è inammissibile per la parte in cui censura la valutazione dei fatti e delle prove da parte del giudice di merito.
E’ infondato per la parte in cui denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c., poichè la Corte ha fatto gravare sull’istituto di credito l’onere della prova della sussistenza presupposti soggettivi ed oggettivi nei confronti del debitore, non essendo necessario - come detto - alcun riscontro, nemmeno sotto il profilo soggettivo, della sussistenza di detti presupposti in capo alla F. od a soggetti terzi.
E’ infondato, altresì, nella parte in cui sembra sostenere la violazione dell’art. 2729 c.c. (norma non indicata in rubrica), poiché comunque gli elementi che il giudice ha posto a fondamento della prova presuntiva sono gravi, precisi e concordanti, e ben valutati, come detto trattando dei motivi terzo e quarto, quanto all’elemento soggettivo in capo al debitore.
Quanto al presupposto oggettivo dell’eventus damni, di cui anche si dice in questo ottavo motivo, è sufficiente richiamare le norme dell’art. 170 c.c. e degli artt. 2 e 11 della Convenzione dell’Aja 1 luglio 1985, ratificata con la L. 16 ottobre 1989, n. 364, per le quali i beni costituiti
in fondo patrimoniale o conferiti al trust sono impignorabili e sottratti alle ragioni dei creditori dei disponenti e del trustee. Non risulta, nè è dedotto in ricorso, che C.R. avesse altri beni immobili su cui l’istituto di credito si sarebbe potuto soddisfare.
L’ottavo motivo va rigettato.
9. Con il nono motivo si deduce omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, perchè la Corte d’appello non si sarebbe pronunciata sul motivo concernente l’abuso del diritto da parte dell’istituto di credito, con riferimento ai principi di correttezza e buona fede, relativi all’esecuzione del contratto.
9.1. Il motivo, anche a voler prescindere dai profili di inammissibilità conseguenti alla genericità ed alla violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, in punto di indicazione delle norme violate, è infondato quanto alla denuncia di omessa pronuncia.
La Corte d’appello ha pronunciato l’assorbimento di "tutte le altre domande ed eccezioni proposte dalle parti appellanti con riferimento all’azione risarcitoria proposta nei confronti della banca attesa la legittimità dell’azione proposta e del comportamento dalla stessa tenuto" (pag. 7 della sentenza). Siffatta statuizione esclude il vizio di omessa pronuncia, sia perchè si verte in un caso di assorbimento c.d. improprio (cfr., tra le altre, Cass. n. 7663/12), sia perchè l’inciso finale è idoneo a sorreggere la decisione di rigetto della domanda risarcitoria anche a prescindere dall’affermazione di assorbimento.
Il nono motivo va perciò rigettato.
10. Con il decimo motivo si deduce abuso del processo da parte dell’istituto di credito, ai sensi dell’art. 88 c.p.c..
Il motivo è inammissibile per genericità. Esso non censura le ragioni poste dal giudice di merito a fondamento del rigetto della domanda risarcitoria, di cui si è detto trattando del nono motivo. Piuttosto, pone direttamente a questa Corte la questione impropriamente qualificata come di abuso del processo, ma riferita a comportamenti extraprocessuali e processuali della controparte, sui quali non è esercitabile alcun sindacato diretto in sede di legittimità (anche quanto all’asserita violazione dell’art. 88 c.p.c., poichè evidentemente non riferita dai ricorrenti all’instaurando giudizio di cassazione).
11. Con l’undicesimo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione "delle norme di diritto relativamente al principio del contraddittorio ex artt. 100 e 101 c.p.c.", riproponendo, in termini assolutamente generici e svincolati dalla sentenza impugnata, questioni sostanzialmente analoghe a quelle ritenute infondate trattando dei primi due motivi di ricorso.
In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00, per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 15 giugno 2017. Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2017.
II. PERSONE E FAMIGLIA
I PATTI IN VISTA DEL DIVORZIO
(Relatore: Xxxxx Xxxxxxxx)
Cass., 30 Gennaio 2017, n. 2224
Gli accordi con i quali i coniugi fissano, in sede di separazione, il regime giuridico-patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio sono invalidi per illiceità della causa, perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale di cui all'art. 160 c.c. Ne consegue che di tali accordi non può tenersi conto non solo quando limitino o addirittura escludano il diritto del coniuge economicamente più debole al conseguimento di quanto necessario a soddisfare le esigenze della vita, ma anche quando soddisfino pienamente tali esigenze, in quanto una preventiva pattuizione potrebbe determinare il consenso alla dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio. (Nella specie, la S.C. ha escluso che la dazione di una somma di denaro alla moglie, pattuita in sede di separazione, possa assumere anche la valenza di anticipazione dell'assegno divorzile, così da condurre alla revoca della relativa previsione).
FATTO
1 - Con sentenza depositata in data 13 dicembre 2013 il Tribunale di Milano dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dai signori S.G. e V.P.E.E., ponendo a carico del primo un assegno divorzile di Euro 3.300,00, oltre al pagamento, nella misura del 75 per cento, del mutuo contratto per l’acquisto della casa coniugale di via Xxxxxxxxx; dichiarava altresì lo S. tenuto al mantenimento diretto del figlio X., nato il (OMISSIS) e a versare alla ex moglie, a titolo di contributo per il mantenimento del figlio C.M., un assegno di Euro 4.100 mensili, oltre al 50 per cento delle spese sanitarie, scolastiche, sportive e formative.
1.1. La corte di appello di Milano, con la sentenza indicata in epigrafe, ha revocato l’assegno disposto in favore della V. ed ha dato atto del conseguimento dell’autosufficienza sul piano economico del figlio X., che vive e lavora a in California; ha ridotto il contributo per il mantenimento di C.M. ad Euro 1.500,00 mensili.
1.2. Quanto all’assegno in favore della V., la Corte distrettuale ha preso le mosse dalla sentenza di separazione intervenuta fra le parti in data 18 aprile 2012, successivamente passata in giudicato, nella quale si dava atto del tenore di vita mantenuto in costanza di matrimonio, con conseguente rigetto delle istanze istruttorie avanzate dalla V. (la quale, in sede di gravame aveva chiesto l’elevazione dell’assegno ad Euro 7.000,00).
1.2.1. Richiamata la natura assistenziale dell’assegno di divorzio, nonché i principi affermati dalla Corte costituzionale nella decisione n. 11 del 2015, la corte di appello ha osservato che in considerazione dei criteri indicati dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, che fungono da elementi di moderazione dell’assegno spettante all’ex coniuge, tali aspetti, complessivamente considerati,
conducevano ad accogliere il gravame proposto in via incidentale dallo S. e, quindi a revocare l’assegno.
1.2.2. E stato in particolare osservato che, tenuto conto della durata del matrimonio, della capacità patrimoniale dei coniugi, nonché del contributo personale della V., alla stessa avrebbe dovuto attribuirsi un assegno pari ad Euro 2.000,00 mensili. Sennonché doveva rilevarsi che, come risultava dalla sentenza di separazione, lo S. aveva versato alla moglie nell’anno 2006 la somma di Euro 1.934.922, ragion per cui doveva ritenersi che in tal modo il predetto avesse inteso corrispondere alla stessa "quanto le sarebbe spettato per assegno di mantenimento ed assegno divorzile", dovendosi considerare che il predetto importo, per la sua rilevanza, assorbiva, per almeno vent’anni, persino la richiesta di un assegno divorzile pari ad Euro 7.000,00 mensili.
1.3. Quanto al figlio C.M., si è dato atto che lo stesso aveva abbandonato gli studi universitari e si era messo alla ricerca di un lavoro: a tale carenza di indipendenza sul piano economico doveva corrispondere un contributo pari ad Euro 1.500,00 mensili, determinato sulla base della retribuzione media di un laureato al primo impiego.
1.4. Per la cassazione di tale decisione la signora X. propone ricorso, affidato a sette motivi, cui lo S. resiste con controricorso, illustrato da memoria.
DIRITTO
2. Con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., per non aver la corte distrettuale, ritenendo erroneamente sussistente detto esame precluso dall’omessa impugnazione della sentenza relativa alla separazione personale dei coniugi, pronunciato in merito alla domanda di assegno divorzile.
3. Con il secondo mezzo si denuncia la violazione dell’art. 156 c.c., e della L. n. 865 del 1970, art. 5, per aver ritenuto provato l’atto di disposizione compiuto durante il matrimonio, e, comunque, per avergli attribuito la valenza di corresponsione "una tantum" non solo dell’assegno di separazione, ma anche di quello divorzile.
4. La terza censura ripropone il tema della ritenuta abnormità del valore attribuito alla suddetta dazione - il cui accertamento, in presenza delle contestazioni della signora X., non sarebbe state nemmeno effettuato - senza considerare che, al di là della diversità dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge separato rispetto a quello divorzile, la stessa sentenza di separazione passata in giudicato in data 30 agosto 2012 aveva posto a carico del sig. S., per il mantenimento della moglie, un assegno di 3.000,00 Euro, oltre al pagamento, nella misura del 75 per cento del mutuo relativo all’immobile di via (OMISSIS).
5. Con il quarto motivo si deduce la violazione dell’art. 345 c.p.c., per aver la Corte escluso la produzione di documenti risalenti all’anno 2010, non estendendosi il divieto alle prove costituende e non essendosi formulato alcun motivato giudizio circa la loro irrilevanza.
6. Il quinto mezzo attiene al vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, concernente la disponibilità in capo all’intimato di somme rilevanti su conti bancari all’estero.
7. Con la sesta censura si denuncia la violazione dell’art. 155 c.p.c., con particolare riferimento al criterio della proporzionalità, in relazione alla determinazione dell’assegno in favore del figlio X..
8. L’ultimo motivo riguarda la revoca dell’assegno già disposto in favore del figlio X., con statuizione in relazione alla quale si sarebbe formato il giudicato.
9. I primi tre motivi, per la loro intima correlazione, possono essere esaminati congiuntamente. Essi risultano fondati, in quanto le giustificazioni di natura giuridica poste alla base dell’esclusione dell’assegno in favore della ricorrente, interpolate da considerazioni di ordine fattuale non sussunte e non sussumibili in un valido quadro normativo di riferimento, si pongono in contrasto con i principi costantemente affermati da questa Corte in materia di assegno in favore del coniuge divorziato.
9.1. Ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, l’accertamento del diritto all’assegno divorzile deve essere effettuato verificando l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto, mentre la liquidazione in concreto dell’assegno, ove sia riconosciuto tale diritto per non essere il coniuge richiedente in grado di mantenere con i propri mezzi detto tenore di vita, va compiuta tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonché del reddito di entrambi, valutandosi tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 1, 15 maggio 2013, n. 11686; 12 luglio 2007, n. 15611).
Nell’ambito di questo duplice apprezzamento, occorre avere riguardo non soltanto ai redditi ed alle sostanze del richiedente, ma anche a quelli dell’obbligato, i quali assumono rilievo determinante sia ai fini dell’accertamento del livello economico-sociale del nucleo familiare, sia ai fini del necessario riscontro in ordine all’effettivo deterioramento della situazione economica del richiedente in conseguenza dello scioglimento del vincolo.
Per poter determinare lo standard di vita mantenuto dalla famiglia in costanza di matrimonio, occorre infatti conoscerne con ragionevole approssimazione le condizioni economiche, dipendenti dal complesso delle risorse reddituali e patrimoniali di cui ciascuno dei coniugi poteva disporre e di quelle da entrambi effettivamente destinate al soddisfacimento dei bisogni personali e familiari, mentre per poter valutare la misura in cui il venir meno dell’unità familiare ha inciso sulla posizione del richiedente è necessario porre a confronto le rispettive potenzialità economiche, intese non solo come disponibilità attuali di beni ed introiti, ma anche come attitudini a procurarsene in grado ulteriore (cfr. Cass., Sez. 1, 12 luglio 2007, n. 15610; 28
febbraio 2007, n. 4764).
9.2 - In tale contesto, in cui assume rilievo centrale la nozione di "adeguatezza" (sulla quale cfr. Cass., 4 ottobre 2010, n. 20582), la corte territoriale ha valorizzato, in maniera pressoché esclusiva, la circostanza relativa alla dazione della somma di Euro 1.934.922,00 nell’anno 2006, attribuendole la valenza di anticipazione non solo dell’assegno di separazione, ma addirittura di quello di divorzio.
Tale affermazione, oltre a rivelarsi del tutto arbitraria (la qualificazione scaturisce dalla constatazione di "assenza di spiegazioni alternative", avendo per altro la V. contestato la circostanza e lo stesso S. affermato che il versamento sarebbe avvenuto "a fronte dell’impegno di restituire al marito la (OMISSIS)"), contrasta con l’orientamento di questa Corte secondo cui gli accordi preventivi aventi ad oggetto l’assegno di divorzio sono affetti da nullità. E’ stato infatti affermato che "gli accordi con i quali i coniugi fissano, in sede di separazione, il regime giuridico - patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio sono invalidi per illiceità
della causa, perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale, espresso dall’art. 160 c.c.. Pertanto, di tali accordi non può tenersi conto non solo quando limitino o addirittura escludono il diritto del coniuge economicamente più debole al conseguimento di quanto è necessario per soddisfare le esigenze della vita, ma anche quando soddisfino pienamente dette esigenze, per il rilievo che una preventiva pattuizione - specie se allettante e condizionata alla non opposizione al divorzio potrebbe determinare il consenso alla dichiarazione degli effetti civili del matrimonio (Cass., 18 febbraio 2000, n. 1810). E’ stato altresì precisato che "gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, i reciproci rapporti economici in relazione al futuro ed eventuale divorzio con riferimento all’assegno divorzile sono nulli per illiceità della causa, avuto riguardo alla natura assistenziale di detto assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il diritto a richiederlo. Ne consegue che la disposizione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 8, nel testo di cui alla L. n. 74 del 1987 - a norma del quale, su accordo delle parti, la corresponsione dell’assegno divorzile può avvenire in un’unica soluzione, ove ritenuta equa dal tribunale, senza che si possa, in tal caso, proporre alcuna successiva domanda a contenuto economico -, non è applicabile al di fuori del giudizio di divorzio, e gli accordi di separazione, dovendo essere interpretati "secundum ius", non possono implicare rinuncia all’assegno di divorzio" (Cass., 10 marzo 2006, n. 5302; v. anche Cass., 9 ottobre 2003, n.
15064; Cass., 11 giugno 1981, n. 3777).
Non può omettersi di sottolineare come la pronuncia in esame abbia anche trascurato l’esigenza che l’accordo sulla corresponsione "una tantum", anche ove validamente conseguito (esulano dal presente esame le recenti aperture sugli accordi in vista del divorzio, anche in relazione alle nuove forme processuali, come quella c.d. "congiunta", attraverso le quali la relativa domanda può essere proposta), richiede pur sempre una verifica di natura giudiziale (Cass., 8 marzo 2012, n. 3635; Cass., 7 novembre 1995, n. 9416; Cass., 6 dicembre 1991, n. 13128).
9.3. Pertanto la suddetta attribuzione, ove ritenuta adeguatamente dimostrata, da un lato, dovrebbe costituire un indice delle elevate disponibilità e delle correlate condizioni di vita delle parti in costanza di matrimonio, dall’altro, ove si accerti che tale somma sia ancora rimasta nella disponibilità della ricorrente, potrebbe concorrere all’accertamento delle disponibilità patrimoniali della stessa, da valutarsi nel contesto delle altre consistenze e delle eventuali fonti reddituali (la circostanza che si tratti di casalinga priva di redditi da lavoro dipendente per aver rinunciato a laurearsi e per essersi principalmente dedita alla famiglia appare sostanzialmente negletta da parte della Corte di appello, che, per altro, sotto tale profilo sembra essersi limitata a una valutazione ex post, come se si trattasse di un’obbligazione di risultato: "non sembra che l’azione di coordinamento del personale domestico.. sia stata particolarmente efficiente, a giudicare dai risultati scolastici dei figli"), rapportate, come sopra evidenziato, alla complessiva capacità economica dell’onerato.
9.4. Mette conto di precisare, anche con riferimento agli aspetti di natura probatoria e alla denunzia della violazione dell’art. 2909 x.x., xxxxx xx xxxxxxx xxxxx xxxxx xxxxxxx, xxx xx xx xx xxxxx xxxxxxx valutazioni sulle sue conseguenze, la dazione in esame è stata desunta dalla decisione con la quale era stata pronunciata la separazione personale dei coniugi ai sensi dell’art. 116 c.p.c., in relazione al quale deve ritenersi operante il principio secondo cui le prove raccolte in altro giudizio fra le stesse o altre parti costituiscono fonti potenzialmente
esclusive del convincimento giudiziale (Cass., 14 maggio 2013, n. 11555; Cass., 6 febbraio
2009, n. 2904; Cass., 11 giugno 2007, n. 13619).
10. il quarto motivo è fondato. Deve in proposito richiamarsi la giurisprudenza di questa Corte secondo cui, nel giudizio di divorzio in appello - che si svolge secondo il rito camerale, l’acquisizione dei mezzi di prova, e segnatamente dei documenti, è ammissibile sino all’udienza di discussione in Camera di consiglio, sempre che sulla produzione si possa considerare instaurato un pieno e completo contraddittorio, che costituisce esigenza irrinunciabile anche nei procedimenti camerali (Cass., 8 giugno 2016, n. 11784; Cass., 20 marzo 2014, n. 6562; Cass., 13 aprile 2012, n. 5876; Cass. 27 maggio 2005, n. 11319). Il giudizio di irrilevanza, poi, risulta espresso in termini talmente assertivi ("non se ne vede la rilevanza") da non poter costituire una ragione autonoma della statuizione.
11. Fondata risulta anche la successiva censura. La corte distrettuale, focalizzando la propria attenzione esclusivamente sulla disponibilità patrimoniale che la V. avrebbe conseguito nell’anno 2006, ha completamente omesso di valutare le condizioni economiche dell’onerato (per altro rilevantissime, per come indicate nel ricorso: si tratterebbe di un importante imprenditore nel campo della produzione cinematografica, che nell’anno 2010 avrebbe conseguito un reddito di Euro 347.730,00) e quindi, senza per altro esprimere un giudizio sulla completezza delle risultanze già acquisite, non solo ha negletto le circostanze già documentate, ma ha immotivatamente disatteso le istanze di natura istruttoria inerenti alle cospicue disponibilità dello S., emergenti per altro nella citata sentenza di separazione, che la ricorrente, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, ha riportato in parte qua, e che, pur costituendo detta pronuncia il dato fondante della decisione impugnata, sotto tale profilo sembra sfuggita alla considerazione della corte di appello.
12. Fondato è anche il sesto motivo. La rideterminazione dell’assegno per il concorso del contributo per il mantenimento del figlio C.M. è stata effettuata, da un lato, dando atto che il predetto non ha acquisito l’indipendenza economica, dall’altro giudicando adeguata la somma di Euro 1.500,00 mensili, in quanto "corrispondente, e forse anche superiore, alla retribuzione di un laureato al primo impiego".
12.1. Va premesso che il rilievo del controricorrente fondato sul riferimento, nel ricorso, all’art. 155 c.c., comma 4, in quanto sostituito dal successivo art. 337 ter, non appare condivisibile, in quanto l’erronea indicazione della norma processuale violata nella rubrica del motivo non ne determina "ex se" l’inammissibilità, se la Corte possa agevolmente procedere alla corretta qualificazione giuridica del vizio denunciato sulla base delle argomentazioni giuridiche ed in fatto svolte dal ricorrente a fondamento della censura, in quanto la configurazione formale della rubrica del motivo non ha contenuto vincolante, ma è solo l’esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass., 3 agosto 2012, n. 14026; Cass., 29 agosto 2013, n. 19882).
12.2. Il riferimento al reddito medio di un giovane laureato comporta la totale disapplicazione del principio di proporzionalità e dei criteri normativi stabiliti per la determinazione dell’assegno, con particolare riferimento alle esigenze attuali del figlio, al tenore di vita dallo stesso xxxxxx in costanza di convivenza con i genitori, ai tempi di permanenza e alle risorse dei genitori stessi.
13. Sussiste, infine, il vizio di extra-petizione denunciato con l’ultimo motivo: a fronte della rinuncia della madre tendente al pagamento "indiretto" dell’assegno per il mantenimento del
figlio X., la revoca dell’assegno tout court, che il padre avrebbe dovuto versare direttamente allo stesso, non richiesta da alcuna delle parti, è priva di qualsiasi giustificazione.
14. L’impugnata decisione, pertanto, deve essere cassata, con rinvio alla Corte di appello di Milano che, in diversa composizione, applicherà i principi sopra richiamati, provvedendo altresì, al regolamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie per quanto di ragione il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati significativi.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 15 luglio 2016. Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2017.
TENORE DI VITA MATRIMONIALE E PRINCIPIO DI AUTORESPONSABILITÀ: INCONCILIABILITÀ O RESILIENZA?
(Relatori: Xxxxx Xxxxxxxx - Xxxxx Xxxxxx)
Cass., 10 maggio 2017, n. 11504
Il riconoscimento dell’assegno divorzile, nella fase del giudizio in punto an debeatur, prescinde dal parametro di riferimento al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; estinguendosi il rapporto matrimoniale per effetto della sentenza di status divorzile, sia sul piano personale, sia su quello economico-patrimoniale, una tale garanzia per il coniuge economicamente più debole collide radicalmente con la natura stessa dell’istituto e con i suoi effetti giuridici, incarnando una illegittima ultrattività del vincolo matrimoniale in mera prospettiva economico-patrimoniale; diversamente, l’assegno di divorzio che può essere riconosciuto all’ex coniuge, come persona singola e non già come ancora parte di un rapporto matrimoniale estinto, di natura eminentemente assistenziale, è informato soltanto al criterio dell’inadeguatezza dei mezzi ed alla coincidente condizione soggettiva dell’impossibilità a procurarseli per ragioni obiettive in rispetto del canone di autoresponsabilità dei singoli, da intendersi in mera prospettiva di indipendenza od autosufficienza economica a condurre una esistenza libera e dignitosa, secondo il canone di residuale solidarietà postconiugale esigibile in virtù della pregressa vita comune, a tenore degli artt. 2 e 23 Cost.; sia la prima fase di giudizio, in punto an debeatur, che la seconda in punto quantum, ispirato ugualmente al parametro dell’aiuto esigibile in prospettiva del raggiungimento dell’indipendenza od autosufficienza personale del già coniuge svantaggiato e tenuto conto degli altri criteri indicati nell’art. 5 legge sul divorzio (condizione e reddito dei coniugi, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla formazione del patrimonio comune, durata del matrimonio, ragioni della decisione), presuppone la puntuale e pertinente allegazione, nonché l’assolvimento del relativo onere probatorio di tutti tali elementi, ed in primo luogo di non possedere mezzi adeguati e di non essere in grado di procurarseli, da parte del coniuge che propone la domanda
FATTO
1. - Il Tribunale di Milano ha dichiarato lo scioglimento del matrimonio, contratto nel (OMISSIS), tra G.V. e L.L.C. ed ha respinto la domanda di assegno divorzile proposta da quest’ultima.
2. - Il gravame della L. è stato rigettato dalla Corte d’appello di Milano, con sentenza 27 marzo 2014.
2.1. - La Corte, avendo ritenuto che il luogo di residenza della L. (convenuta nel giudizio) fosse a (OMISSIS), ha rigettato l’eccezione di incompetenza territoriale del Tribunale di Milano, a favore del Tribunale di Roma, ove era la residenza o il domicilio del ricorrente G., da essa sollevata sul presupposto della propria residenza all’estero, a norma della L. 1 dicembre 1970,
n. 898, art. 4, comma 1; ha ritenuto poi non dovuto l’assegno divorzile in favore della L., non avendo questa dimostrato l’inadeguatezza dei propri redditi ai fini della conservazione del tenore di vita matrimoniale, stante l’incompletezza della documentazione reddituale da essa prodotta, in una situazione di fatto in cui l’altro coniuge aveva subito una contrazione reddituale successivamente allo scioglimento del matrimonio.
3. - Avverso questa sentenza la L. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi, cui si è opposto il G. con controricorso. Le parti hanno presentato memorie ex art. 378 cod. proc. civ.
DIRITTO
1. - Con il primo motivo la ricorrente ha denunciato la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 1, per avere la Corte d’appello affermato la competenza per territorio del Tribunale di Milano, essendo invece competente il Tribunale di Roma, ove era la residenza o il domicilio del ricorrente G., essendo la convenuta residente all’estero.
1.1. - Il motivo è infondato.
Premesso che, contrariamente a quanto sostenuto dal G., la questione della competenza è stata riproposta in appello e che su di essa, quindi, non si è formato il giudicato, la sentenza impugnata ha ragionevolmente valorizzato quanto dichiarato dalla L. (convenuta nel giudizio) nell’atto di appello, e in altri atti giudiziari, circa la sua residenza a (OMISSIS), che corrispondeva a quanto risultava dalle certificazioni anagrafiche, giudicando irrilevante la diversa indicazione, resa all’udienza presidenziale, di essere residente a (OMISSIS), luogo quest’ultimo rientrante pur sempre nella competenza del Tribunale di Milano; inoltre, ha adeguatamente argomentato in ordine a(la mancanza di prova della residenza all’estero della L., ritenendo inidonea a tal fine la mera disponibilità da parte della medesima di un’abitazione negli Stati Uniti.
La decisione impugnata è, pertanto, conforme al principio enunciato da questa Corte - che va ribadito -, secondo cui la domanda di scioglimento del matrimonio civile o di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario va proposta, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 1, (nel testo introdotto dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 2, comma 3-bis, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 14 maggio 2005, n. 80, art. 1, comma 1), quale risultante a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale (sentenza n. 169 del 2008), al tribunale del luogo di residenza o domicilio del coniuge convenuto, salva l’applicazione degli ulteriori criteri previsti in via subordinata dalla medesima norma (Cass. ord. n. 15186 del 2014).
2. - Con il secondo motivo la L. ha denunciato la violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per avere la Corte milanese negato il suo diritto all’assegno sulla base della circostanza che lo stesso G. non avesse mezzi adeguati per conservare l’alto tenore di vita matrimoniale, dando rilievo decisivo alla riduzione dei suoi redditi rispetto all’epoca della separazione, mentre avrebbe dovuto prima verificare la indisponibilità, da parte dell’ex coniuge richiedente, di mezzi adeguati a conservare il tenore di vita matrimoniale o la sua impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive.
Con il terzo motivo la L. ha denunciato vizio di motivazione, per avere omesso di considerare elementi probatori rilevanti al fine di dimostrare la sussistenza del diritto all’assegno.
Con il quarto motivo la ricorrente ha denunciato la violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., per avere i giudici di merito escluso il diritto all’assegno, disconoscendo la rilevanza della sperequazione tra le situazioni reddituali e patrimoniali degli ex coniugi e dando erroneamente rilievo agli accordi raggiunti in sede di separazione che, al contrario, indicavano la disparità economica tra le parti e la mancanza di autosufficienza economica della L..
2.1. - Tali motivi sono infondati.
Si rende, tuttavia, necessaria, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4, la correzione della motivazione in diritto della sentenza impugnata, il cui dispositivo - come si vedrà (cfr. infra, sub n. 2.6) - è conforme a diritto, in base alle considerazioni che seguono.
Una volta sciolto il matrimonio civile o cessati gli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio religioso - sulla base dell’accertamento giudiziale, passato in giudicato, che "la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l’esistenza di una delle cause previste dall’art. 3" (cfr. artt. 1 e 2, mai modificati, nonché la L.
n. 898 del 1970, art. 4, commi 12 e 16) -, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente sul piano sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi "persone singole", sia dei loro rapporti economico-patrimoniali (art. 191 c.c., comma 1) e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale (art. 143 x.x., xxxxx 0), xxxxx xxxxxxxxxx, xx xxxxxxxx xx xxxxx, l’esercizio della responsabilità genitoriale, con i relativi doveri e diritti, da parte di entrambi gli ex coniugi (cfr. art. 317 c.c., comma 2, e da artt. 337- bis a 337-octies c.c.).
Perfezionatasi tale fattispecie estintiva del rapporto matrimoniale, il diritto all’assegno di divorzio - previsto dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, nel testo sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 10 - è condizionato dal previo riconoscimento di esso in base all’accertamento giudiziale della mancanza di "mezzi adeguati" dell’ex coniuge richiedente l’assegno o, comunque, dell’impossibilità dello stesso "di procurarseli per ragioni oggettive".
La piana lettura di tale comma 6 dell’art. 5 - "Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive" - mostra con evidenza che la sua stessa "struttura" prefigura un giudizio nitidamente e rigorosamente distinto in due fasi, il cui oggetto è costituito, rispettivamente, dall’eventuale riconoscimento del diritto (fase dell’an debeatur) e - solo all’esito positivo di tale prima fase - dalla determinazione quantitativa dell’assegno (fase del quantum debeatur).
La complessiva ratio della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, (diritto condizionato all’assegno di divorzio e - riconosciuto tale diritto determinazione e prestazione dell’assegno) ha fondamento costituzionale nel dovere inderogabile di "solidarietà economica" (art. 2, in relazione all’art. 23, Cost.), il cui adempimento è richiesto ad entrambi gli ex coniugi, quali "persone singole", a tutela della "persona" economicamente più debole (cosiddetta "solidarietà post-coniugale"): sta precisamente in questo duplice fondamento costituzionale sia la qualificazione della natura dell’assegno di divorzio come esclusivamente "assistenziale" in favore dell’ex coniuge economicamente più debole (art. 2 Cost.) - natura che in questa sede va ribadita -, sia la giustificazione della doverosità della sua "prestazione" (art. 23 Cost.).
Sicché, se il diritto all’assegno di divorzio è riconosciuto alla "persona" dell’ex coniuge nella fase dell’an debeatur, l’assegno è "determinato" esclusivamente nella successiva fase del quantum debeatur, non già "in ragione" del rapporto matrimoniale ormai definitivamente
estinto, bensì "in considerazione" di esso nel corso di tale seconda fase (cfr. l’incipit del comma 6 dell’art. 5 cit.: "(....) il tribunale, tenuto conto (....)"), avendo lo stesso rapporto, ancorché estinto pure nella sua dimensione economico-patrimoniale, caratterizzato, anche sul piano giuridico, un periodo più o meno lungo della vita in comune ("la comunione spirituale e materiale") degli ex coniugi.
Deve, peraltro, sottolinearsi che il carattere condizionato del diritto all’assegno di divorzio - comportando ovviamente la sua negazione in presenza di "mezzi adeguati" dell’ex coniuge richiedente o delle effettive possibilità "di procurarseli", vale a dire della "indipendenza o autosufficienza economica" dello stesso - comporta altresì che, in carenza di ragioni di "solidarietà economica", l’eventuale riconoscimento del diritto si risolverebbe in una locupletazione illegittima, in quanto fondata esclusivamente sul fatto della "mera preesistenza" di un rapporto matrimoniale ormai estinto, ed inoltre di durata tendenzialmente sine die: il discrimine tra "solidarietà economica" ed illegittima locupletazione sta, perciò, proprio nel giudizio sull’esistenza, o no, delle condizioni del diritto all’assegno, nella fase dell’an debeatur. Tali precisazioni preliminari si rendono necessarie, perchè non di rado è dato rilevare nei provvedimenti giurisdizionali aventi ad oggetto l’assegno di divorzio una indebita commistione tra le due "fasi" del giudizio e tra i relativi accertamenti che, essendo invece pertinenti esclusivamente all’una o all’altra fase, debbono per ciò stesso essere effettuati secondo l’ordine progressivo normativamente stabilito.
2.2. - Tanto premesso, decisiva è, pertanto - ai fini del riconoscimento, o no, del diritto
all’assegno di divorzio all’ex coniuge richiedente -, l’interpretazione del sintagma normativo "mezzi adeguati" e della disposizione "impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive" nonchè, in particolare e soprattutto, l’individuazione dell’indispensabile "parametro di riferimento", al quale rapportare l’"adeguatezza-inadeguatezza" dei "mezzi" del richiedente l’assegno e, inoltre, la "possibilità-impossibilità" dello stesso di procurarseli.
Ribadito, in via generale - salve le successive precisazioni (v., infra, n. 2.4) -, che grava su quest’ultimo l’onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni cui è subordinato il riconoscimento del relativo diritto, è del tutto evidente che il concreto accertamento, nelle singole fattispecie, dell’adeguatezza-inadeguatezza" di "mezzi" e della "possibilità- impossibilità" di procurarseli può dar luogo a due ipotesi: 1) se l’ex coniuge richiedente l’assegno possiede "mezzi adeguati" o è effettivamente in grado di procurarseli, il diritto deve essergli negato tout court; 2) se, invece, lo stesso dimostra di non possedere "mezzi adeguati" e prova anche che "non può procurarseli per ragioni oggettive", il diritto deve essergli riconosciuto.
E’ noto che, sia prima sia dopo le fondamentali sentenze delle Sezioni Unite nn. 11490 e 11492 del 29 novembre 1990 (cfr. ex plurimis, rispettivamente, le sentenze nn. 3341 del 1978 e 4955 del 1989, e nn. 11686 del 2013 e 11870 del 2015), il parametro di riferimento - al quale rapportare l’"adeguatezza-inadeguatezza" dei "mezzi" del richiedente - è stato costantemente individuato da questa Corte nel "tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio" (così la sentenza delle S.U. n. 11490 del 1990, pag. 24).
Sull’attuale rilevanza del "tenore di vita matrimoniale", come parametro "condizionante" e decisivo nel giudizio sul riconoscimento del diritto all’assegno, non incide - come risulterà chiaramente alla luce delle successive osservazioni - la mera possibilità di operarne in concreto un bilanciamento con altri criteri, intesi come fattori di moderazione e diminuzione di una somma predeterminata in astratto sulla base di quel parametro.
A distanza di quasi ventisette anni, il Collegio ritiene tale orientamento, per le molteplici ragioni che seguono, non più attuale, e ciò lo esime dall’osservanza dell’art. 374 c.p.c., comma 3.
A) Il parametro del "tenore di vita" - se applicato anche nella fase dell’an debeatur - collide radicalmente con la natura stessa dell’istituto del divorzio e con i suoi effetti giuridici: infatti, come già osservato (supra, sub n. 2.1), con la sentenza di divorzio il rapporto matrimoniale si estingue sul piano non solo personale ma anche economico-patrimoniale - a differenza di quanto accade con la separazione personale, che lascia in vigore, seppure in forma attenuata, gli obblighi coniugali di cui all’art. 143 cod. civ. -, sicchè ogni riferimento a tale rapporto finisce illegittimamente con il ripristinarlo sia pure limitatamente alla dimensione economica del "tenore di vita matrimoniale" ivi condotto - in una indebita prospettiva, per così dire, di "ultrattività" del vincolo matrimoniale.
Sono oltremodo significativi al riguardo: 1) il brano della citata sentenza delle Sezioni Unite n. 11490 del 1990, secondo cui "(. ) è utile sottolineare che tutto il sistema della legge riformata
(....) privilegia le conseguenze di una perdurante (....) efficacia sul piano economico di un vincolo che sul piano personale è stato disciolto (....)" (pag. 38); 2) l’affermazione della "funzione di riequilibrio" delle condizioni economiche degli ex coniugi attribuita da tale sentenza all’assegno di divorzio: "(. ) poichè il giudizio sull’an del diritto all’assegno è basato
sulla determinazione di un quantum idoneo ad eliminare l’apprezzabile deterioramento delle condizioni economiche del coniuge che, in via di massima, devono essere ripristinate, in modo da ristabilire un certo equilibrio (. ), è necessaria una determinazione quantitativa (sempre in
xxx xx xxxxxxx) xxxxx xxxxx sufficienti a superare l’inadeguatezza dei mezzi dell’avente diritto, che costituiscono il limite o tetto massimo della misura dell’assegno" (pagg. 24-25: si noti l’evidente commistione tra gli oggetti delle due fasi del giudizio).
B) La scelta di detto parametro implica l’omessa considerazione che il diritto all’assegno di divorzio è eventualmente riconosciuto all’ex coniuge richiedente, nella fase dell’an debeatur, esclusivamente come "persona singola" e non già come (ancora) "parte" di un rapporto matrimoniale ormai estinto anche sul piano economico-patrimoniale, avendo il legislatore della riforma del 1987 informato la disciplina dell’assegno di divorzio, sia pure per implicito ma in modo inequivoco, al principio di "autoresponsabilità" economica degli ex coniugi dopo la pronuncia di divorzio.
C) La "necessaria considerazione", da parte del giudice del divorzio, del preesistente rapporto matrimoniale anche nella sua dimensione economico-patrimoniale ("(....) il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio (....)") è normativamente ed esplicitamente prevista soltanto per l’eventuale fase del giudizio avente ad oggetto la determinazione dell’assegno
(quantum debeatur), vale a dire - come già sottolineato - soltanto dopo l’esito positivo della fase precedente (an debeatur), conclusasi cioè con il riconoscimento del diritto all’assegno.
D) Il parametro del "tenore di vita" induce inevitabilmente ma inammissibilmente, come già rilevato (cfr., supra, sub n. 2.1), una indebita commistione tra le predette due "fasi" del giudizio e tra i relativi accertamenti.
E’ significativo, al riguardo, quanto affermato dalle Sezioni Unite, sempre nella sentenza n. 11490 del 1990: "(....) lo scopo di evitare rendite parassitarie ed ingiustificate proiezioni patrimoniali di un rapporto personale sciolto può essere raggiunto utilizzando in maniera prudente, in una visione ponderata e globale, tutti i criteri di quantificazione supra descritti, che sono idonei ad evitare siffatte rendite ingiustificate, nonchè a responsabilizzare il coniuge che pretende l’assegno, imponendogli di attivarsi per realizzare la propria personalità, nella nuova autonomia di vita, alla stregua di un criterio di dignità sociale (...)".
E) Le menzionate sentenze delle Sezioni Unite del 1990 si fecero carico della necessità di contemperamento dell’esigenza di superare la concezione patrimonialistica del matrimonio "inteso come "sistemazione definitiva", perchè il divorzio è stato assorbito dal costume sociale" (così la sentenza n. 11490 del 1990) con l’esigenza di non turbare un costume sociale ancora caratterizzato dalla "attuale esistenza di modelli di matrimonio più tradizionali, anche perchè sorti in epoca molto anteriore alla riforma", con ciò spiegando la preferenza accordata ad un indirizzo interpretativo che "meno traumaticamente rompe(sse) con la passata tradizione" (così ancora la sentenza n. 11490 del 1990). Questa esigenza, tuttavia, si è molto attenuata nel corso degli anni, essendo ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato del matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonchè come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile (matrimonio che - oggi - è possibile "sciogliere", previo accordo, con una semplice dichiarazione delle parti all’ufficiale dello stato civile, a norma del D.L. 12 settembre 2014, n. 132, art. 12, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 10 novembre 2014, n. 162, art. 1, comma 1).
Xx è coerente con questo approdo sociale e legislativo l’orientamento di questa Corte, secondo
cui la formazione di una famiglia di fatto da parte del coniuge beneficiario dell’assegno divorzile è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una eventuale cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale da parte dell’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo (cfr. le sentenze nn. 6855 del 2015 e 2466 del 2016). In proposito, un’interpretazione delle norme sull’assegno divorzile che producano l’effetto di procrastinare a tempo indeterminato il momento della recisione degli effetti economico- patrimoniali del vincolo coniugale, può tradursi in un ostacolo alla costituzione di una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare, in violazione di un diritto fondamentale dell’individuo (cfr. Cass. n. 6289/2014) che è ricompreso tra quelli riconosciuti dalla Cedu (art. 12) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 9). Si deve quindi ritenere che non sia configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale. L’interesse tutelato con l’attribuzione dell’assegno divorzile come detto - non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione - esclusivamente - assistenziale dell’assegno divorzile.
F) Al di là delle diverse opinioni che si possono avere sulla rilevanza ermeneutica dei lavori preparatori della L. n. 74 del 1987 (che inserì nell’art. 5 il fondamentale riferimento alla mancanza di "mezzi adeguati" e alla "impossibilità di procurarseli") in senso innovativo (come sosteneva una parte della dottrina che imputava alla giurisprudenza precedente di avere favorito una concezione patrimonialistica della condizione coniugale) o sostanzialmente conservativo del precedente assetto (si legga in tal senso il brano della sentenza delle Sezioni Unite n. 11490/1990 che considerava non giustificato "l’abbandono di quella parte dei criteri interpretativi adottati in passato per il giudizio sull’esistenza del diritto all’assegno"), non v’è dubbio che xxxxxx era la volontà del legislatore del 1987 di evitare che il giudizio sulla "adeguatezza dei mezzi" fosse riferito "alle condizioni del soggetto pagante" anzichè "alle necessità del soggetto creditore": ciò costituiva "un profilo sul quale, al di là di quelle che possono essere le convinzioni personali del relatore, qui irrilevanti, si è realizzata la convergenza della Commissione" (cfr. intervento del relatore, sen. X. Xxxxxx, in Assemblea del Senato, 17 febbraio 1987, 561a sed. pom., resoconto stenografico, pag. 23). Nel giudizio sull’an debeatur, infatti, non possono rientrare valutazioni di tipo comparativo tra le condizioni economiche degli ex coniugi, dovendosi avere riguardo esclusivamente alle condizioni del soggetto richiedente l’assegno successivamente al divorzio.
Le osservazioni critiche sinora esposte non sono scalfite: a) nè dalla sentenza della Corte
costituzionale n. 11 del 2015, che ha sostanzialmente recepito l’orientamento in questa sede non condiviso, senza peraltro prendere posizione sulla sostanza delle censure formulate dal giudice rimettente, riducendo quella sollevata ad una mera questione di "erronea interpretazione" della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, e omettendo di considerare che, in una precedente occasione, nell’escludere la completa equiparabilità del trattamento economico del coniuge divorziato a quello del coniuge separato, aveva affermato che "(....) basterebbe rilevare che per il divorziato l’assegno di mantenimento non è correlato al tenore di vita matrimoniale" (sentenza n. 472 del 1989, n. 3 del Considerato in diritto); b) e neppure dalle disposizioni di cui al comma 9 dello stesso art. 5 - secondo cui: "I coniugi devono presentare all’udienza di comparizione avanti al presidente del tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria" -, in quanto il parametro dell’"effettivo tenore di vita" è richiamato esclusivamente al fine dell’accertamento dell’effettiva consistenza reddituale e patrimoniale dei coniugi: infatti - se il primo periodo è dettato al solo fine di consentire al presidente del tribunale, nell’udienza di comparizione dei coniugi, di dare su base documentale "i provvedimenti temporanei e urgenti (anche d’ordine economico) che reputa opportuni nell’interesse dei coniugi e della prole" (art. 4, comma 8) -, il secondo periodo invece, che presuppone la "contestazione" dei documenti prodotti (concernenti i rispettivi redditi e patrimoni), nell’affidare al "tribunale" le relative "indagini", cioè l’accertamento di tali componenti economico-fiscali, richiama il parametro dell’"effettivo tenore di vita" al fine, non già del riconoscimento del diritto all’assegno di divorzio al "singolo" ex coniuge che lo fa valere ma, appunto, dell’accertamento circa l’attendibilità di detti documenti e dell’effettiva consistenza dei rispettivi redditi e patrimoni e, quindi, del "giudizio comparativo" da effettuare nella fase del quantum debeatur. E’ significativo, al riguardo, che il
riferimento agli elementi del "reddito" e del "patrimonio" degli ex coniugi è contenuto proprio nella prima parte del comma 6 dell’art. 5 relativa a tale fase del giudizio.
2.3. - Le precedenti osservazioni critiche verso il parametro del "tenore di vita" richiedono, pertanto, l’individuazione di un parametro diverso, che sia coerente con le premesse.
Il Collegio ritiene che un parametro di riferimento siffatto - cui rapportare il giudizio sull’"adeguatezza-inadeguatezza" dei "mezzi" dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio e sulla "possibilità-impossibilità "per ragioni oggettive"" dello stesso di procurarseli - vada individuato nel raggiungimento dell’"indipendenza economica" del richiedente: se è accertato che quest’ultimo è "economicamente indipendente" o è effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto il relativo diritto.
Tale parametro ha, innanzitutto, una espressa base normativa: infatti, esso è tratto dal vigente art. 337-septies, primo comma, cod. civ. - ma era già previsto dall’art. 155-quinquies, comma 1, inserito dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54, art. 1, comma 2, - il quale, recante "Disposizioni in favore dei figli maggiorenni", stabilisce, nel primo periodo: "Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico".
La legittimità del richiamo di questo parametro - e della sua applicazione alla fattispecie in esame - sta, innanzitutto, nell’analogia legis (art. 12, comma 2, primo periodo, delle disposizioni sulla legge in generale) tra tale disciplina e quella dell’assegno di divorzio, in assenza di uno specifico contenuto normativo della nozione di "adeguatezza dei mezzi", a norma della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, trattandosi in entrambi i casi, mutatis mutandis, di prestazioni economiche regolate nell’ambito del diritto di famiglia e dei relativi rapporti.
In secondo luogo, il parametro della "indipendenza economica" - se condiziona negativamente il diritto del figlio maggiorenne alla prestazione ("assegno periodico") dovuta dai genitori, nonostante le garanzie di uno status filiationis tendenzialmente stabile e permanente (art. 238 cod. civ.) e di una specifica previsione costituzionale (art. 30, comma 1) che riconosce anche allo stesso figlio maggiorenne il diritto al mantenimento, all’istruzione ed alla educazione -, a maggior ragione può essere richiamato ed applicato, quale condizione negativa del diritto all’assegno di divorzio, in una situazione giuridica che, invece, è connotata dalla perdita definitiva dello status di coniuge - quindi, dalla piena riacquisizione dello status individuale di "persona singola" - e dalla mancanza di una garanzia costituzionale specifica volta all’assistenza dell’ex coniuge come tale. Nè varrebbe obiettare che l’art. 337-ter x.x., xxxxx 0,
x. 0, (xxxxxxxxxxxxxx all’art. 155 x.x., xxxxx 0, x. 0, nel testo sostituito dalla citata L. n. 54 del 2006, art. 1, comma 1) fa riferimento al "tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori": tale parametro si riferisce esclusivamente al figlio minorenne e ai criteri per la determinazione ("quantificazione") del contributo di "mantenimento", inteso lato sensu, a garanzia della stabilità e della continuità dello status filiationis, indipendentemente dalle vicende matrimoniali dei genitori.
In terzo luogo, a ben vedere, anche la ratio dell’art. 337-septies c.c., comma 1, - come pure quella della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, alla luce di quanto già osservato (cfr., supra, sub n. 2.2) - è ispirata al principio dell’"autoresponsabilità economica". A tale riguardo, è estremamente significativo quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 18076 del 2014, che ha escluso l’esistenza di un obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non indipendenti
economicamente (nella specie, entrambi ultraquarantenni), ovvero di un diritto all’assegnazione della casa coniugale di proprietà del marito, sul mero presupposto dello stato di disoccupazione dei figli, pur nell’ambito di un contesto di crisi economica e sociale: "(. )
La situazione soggettiva fatta valere dal figlio che, rifiutando ingiustificatamente in età avanzata di acquisire l’autonomia economica tramite l’impegno lavorativo, chieda il prolungamento del diritto al mantenimento da parte dei genitori, non è tutelabile perchè contrastante con il principio di autoresponsabilità che è legato alla libertà delle scelte esistenziali della persona (. )".
Tale principio di "autoresponsabilità" vale certamente anche per l’istituto del divorzio, in quanto il divorzio segue normalmente la separazione personale ed è frutto di scelte definitive che ineriscono alla dimensione della libertà della persona ed implicano per ciò stesso l’accettazione da parte di ciascuno degli ex coniugi - irrilevante, sul piano giuridico, se consapevole o no - delle relative conseguenze anche economiche.
Questo principio, inoltre, appartiene al contesto giuridico Europeo, essendo presente da tempo in molte legislazioni dei Paesi dell’Unione, ove è declinato talora in termini rigorosi e radicali che prevedono, come regola generale, la piena autoresponsabilità economica degli ex coniugi, salve limitate - anche nel tempo - eccezioni di ausilio economico, in presenza di specifiche e dimostrate ragioni di solidarietà.
In questa prospettiva, il parametro della "indipendenza economica" è normativamente equivalente a quello di "autosufficienza economica", come è dimostrato - tenuto conto della derivazione di tale parametro dall’art. 337-septies x.x., xxxxx 0 - xxx xxxxxx X.X. x. 000 del 2014, art. 12, comma 2, laddove non consente la formalizzazione della separazione consensuale o del divorzio congiunto dinanzi all’ufficiale dello stato civile "in presenza (....) di figli maggiorenni (. ) economicamente non autosufficienti".
2.4. - E’ necessario soffermarsi sul parametro dell’"indipendenza economica", al quale rapportare l’"adeguatezza-inadeguatezza" dei "mezzi" dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio, nonchè la "possibilità-impossibilità "per ragioni oggettive"" dello stesso di procurarseli.
Va preliminarmente osservato al riguardo, in coerenza con le premesse e con la stessa nozione di "indipendenza" economica, che: a) il relativo accertamento nella fase dell’an debeatur attiene esclusivamente alla persona dell’ex coniuge richiedente l’assegno come singolo individuo, cioè senza alcun riferimento al preesistente rapporto matrimoniale; b) soltanto nella fase del quantum debeatur è legittimo procedere ad un "giudizio comparativo" tra le rispettive "posizioni" (lato sensu intese) personali ed economico-patrimoniali degli ex coniugi, secondo gli specifici criteri dettati dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per tale fase del giudizio. Ciò premesso, il Collegio ritiene che i principali "indici" - salvo ovviamente altri elementi, che potranno eventualmente rilevare nelle singole fattispecie - per accertare, nella fase di giudizio sull’an debeatur, la sussistenza, o no, dell’indipendenza economica" dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio - e, quindi, l’adeguatezza", o no, dei "mezzi", nonchè la possibilità, o no "per ragioni oggettive", dello stesso di procurarseli possono essere così individuati:
1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu "imposti" e del costo della vita nel luogo
di residenza ("dimora abituale": art. 43 c.c., comma 2) della persona che richiede l’assegno; 3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione.
Quanto al regime della prova della non "indipendenza economica" dell’ex coniuge che fa valere il diritto all’assegno di divorzio, non v’è dubbio che, secondo la stessa formulazione della disposizione in esame e secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione del relativo onere, allo stesso spetta allegare, dedurre e dimostrare di "non avere mezzi adeguati" e di "non poterseli procurare per ragioni oggettive". Tale onere probatorio ha ad oggetto i predetti indici principali, costitutivi del parametro dell’indipendenza economica", e presuppone tempestive, rituali e pertinenti allegazioni e deduzioni da parte del medesimo coniuge, restando fermo, ovviamente, il diritto all’eccezione e alla prova contraria dell’altro (cfr. L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 10).
In particolare, mentre il possesso di redditi e di cespiti patrimoniali formerà normalmente oggetto di prove documentali - salva comunque, in caso di contestazione, la facoltà del giudice di disporre al riguardo indagini officiose, con l’eventuale ausilio della polizia tributaria (L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9) -, soprattutto "le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale" formeranno oggetto di prova che può essere data con ogni mezzo idoneo, anche di natura presuntiva, fermo restando l’onere del richiedente l’assegno di allegare specificamente (e provare in caso di contestazione) le concrete iniziative assunte per il raggiungimento dell’indipendenza economica, secondo le proprie attitudini e le eventuali esperienze lavorative.
2.5. - Pertanto, devono essere enunciati i seguenti principi di diritto.
Il giudice del divorzio, richiesto dell’assegno di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 10, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi e dell’ordine progressivo tra le stesse stabilito da tale norma:
A) deve verificare, nella fase dell’an debeatur - informata al principio dell’"autoresponsabilità economica" di ciascuno degli ex coniugi quali "persone singole", ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o no, del diritto all’assegno di divorzio fatto valere dall’ex coniuge richiedente -, se la domanda di quest’ultimo soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di "mezzi adeguati" o, comunque, impossibilità "di procurarseli per ragioni oggettive"), con esclusivo riferimento all’"indipendenza o autosufficienza economica" dello stesso, desunta dai principali "indici" - salvo altri, rilevanti nelle singole fattispecie - del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu "imposti" e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione; ciò, sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte dal richiedente medesimo, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’altro ex coniuge;
B) deve "tener conto", nella fase del quantum debeatur - informata al principio della "solidarietà
economica" dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro in quanto "persona" economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), il cui oggetto è costituito
esclusivamente dalla determinazione dell’assegno, ed alla quale può accedersi soltanto all’esito positivo della prima fase, conclusasi con il riconoscimento del diritto -, di tutti gli elementi indicati dalla norma ("(....) condizioni dei coniugi, (....) ragioni della decisione, (. ) contributo
personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, (....) reddito di entrambi (. )"), e "valutare" "tutti i
2.6. - Venendo ai motivi del ricorso, da esaminare congiuntamente alla luce dei principi di diritto poc’anzi enunciati, essi sono infondati.
La sentenza impugnata, nell’escludere il diritto, invocato dalla L., all’attribuzione dell’assegno divorzile, non ha avuto riguardo, in concreto, al criterio della conservazione del tenore di vita matrimoniale, che pure ha genericamente richiamato ma sul quale non ha indagato.
In tal modo, la Corte di merito si è sostanzialmente discostata dall’orientamento giurisprudenziale in questa sede criticato, come rilevato dal P.G., e tuttavia è pervenuta a una conclusione conforme a diritto, avendo ritenuto - in definitiva - che l’attrice non avesse assolto l’onere di provare la sua non indipendenza economica, all’esito di un giudizio di fatto - ad essa riservato - adeguatamente argomentato, dal quale emerge che la L. è imprenditrice, ha un’elevata qualificazione culturale, possiede titoli di alta specializzazione e importanti esperienze professionali anche all’estero e che, in sede di separazione, i coniugi avevano pattuito che nessun assegno di mantenimento fosse dovuto dal G..
La motivazione in diritto della sentenza impugnata dev’essere quindi corretta (come si è detto sub n. 2.1), coerentemente con i principi sopra enunciati (sub n. 2.5, lett. A).
3. - In conclusione, il ricorso è rigettato.
Le spese del presente giudizio devono essere compensate, in considerazione del mutamento di giurisprudenza su questione dirimente per la decisione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio. Doppio contributo a carico della ricorrente, come per legge.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.
Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2017. Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2017.
BILANCIAMENTO TRA FAVOR VERITATIS E STABILITÀ E LEGAMI FAMILIARI NEL RICONOSCIMENTO TARDIVO: AUDIZIONE DEL FIGLIO INFRADODICENNE COME MEZZO DI VALUTAZIONE DEL CONCRETO INTERESSE DEL MINORE
(Relatore: Xxxx Xxxxxxxx)
Cass., 27 marzo 2017, n. 7762
Il riconoscimento del figlio minore infraquattordicenne nato fuori dal matrimonio, già riconosciuto da un genitore, costituisce un diritto soggettivo dell’altro, tutelato nell’art. 30 Cost., che può, tuttavia, essere sacrificato in presenza del rischio della compromissione dello sviluppo psicofisico del minore stesso. In questo quadro, il necessario bilanciamento tra l’esigenza di affermare la verità biologica con l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari, impone di accertare quale sia, in concreto, l’interesse del minore, valorizzando primariamente i risultati della sua audizione, una volta accertatane da parte del giudice la capacità di discernimento. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte d’appello, che aveva accolto la domanda avanzata dal genitore di riconoscimento della figlia infraquattordicenne, malgrado la contraria volontà di quest’ultima, manifestata all’esito della sua audizione).
FATTO
1. Con sentenza in data 18 maggio 2010 il Tribunale di Roma accoglieva la domanda proposta da W.M. nei confronti della sig.ra D.B.C.A., intesa ad ottenere l’autorizzazione, sostitutiva del consenso della convenuta, che lo aveva negato, al riconoscimento della figlia naturale della coppia, D.B.A., nata a (OMISSIS).
2. Accertata la paternità biologica dell’attore, veniva rilevato che il riconoscimento corrispondeva all’interesse della minore, non essendo al riguardo ostativi nè i precedenti contrasti fra i genitori, esclusa per altro la prova certa di un comportamento lesivo dell’attore nei confronti della madre della minore, nè il parere, risultante da una consulenza prodotta dalla convenuta, circa l’insussistenza di idonea capacità genitoriale in capo al W., formulato su base esclusivamente documentale.
3. La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 4607 del 2011, pronunciando sul gravame proposto dalla D.B., confermava la decisione di primo grado.
4. Con sentenza del 24 dicembre 2013, n. 28645, questa Corte cassava detta decisione, in relazione alla violazione del principio, disatteso dalla corte distrettuale, inerente alla necessità dell’ascolto della minore.
5. Svoltosi il giudizio di rinvio, nel quale si procedeva, previa nomina, da parte del Collegio, di un curatore speciale della minore, all’audizione della stessa, con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Roma, confermando la sentenza di primo grado, ha affermato che il riconoscimento da parte del W. corrispondeva all’interesse della minore, sia per i vantaggi normalmente connessi alla bigenitorialità, sia per l’arricchimento sotto il profilo affettivo derivante dal rapporto con il genitore, che nel frattempo aveva costituito un nucleo familiare, con due figli, in (XXXXXXX), sia per l’assenza di elementi ostativi, da identificarsi con il pericolo di un serio pregiudizio allo sviluppo psicofisico della minore. Sotto tale profilo è stato rilevato che l’accanimento con il quale il W. - la cui paternità risultava dalle prove genetiche svolte nel
primo grado del giudizio - aveva intrapreso varie azioni giudiziarie in relazione alla vicenda in esame, poteva interpretarsi come la manifestazione del desiderio di stabilire una relazione giuridica e affettiva con la figlia, laddove le risalenti condotte violente nei confronti della D.B. non erano significative di una personalità violenta e aggressiva. Nè poteva assumere rilievo la vicenda giudiziaria che aveva coinvolto il W. negli (OMISSIS) per ragioni di natura fiscale, laddove la situazione psicopatologica denunciata non aveva il requisito dell’attualità, essendo stata prodotta dalla madre una relazione non attendibile, in quanto l’esperto che l’aveva redatta non aveva mai esaminato il padre.
6. L’interesse della minore al riconoscimento non poteva essere escluso sulla base delle sue dichiarazioni, di segno contrario, rese in sede di audizione, da attribuirsi ad informazioni errate sulle condotte paterne ed al timore di turbare l’attuale situazione familiare.
E’ stata infine esclusa la necessità di una consulenza psicologica sulla personalità del W., in quanto una valutazione dell’effettiva capacità genitoriale dello stesso era riservata alla successiva applicazione del regime di affido e all’esercizio delle relative facoltà.
7. Per la cassazione di tale decisione la D.B. propone ricorso, affidato a sette motivi, illustrati da memoria, cui il W. resiste con controricorso.
DIRITTO
1. Con il primo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 80, 101 e 102 c.p.c., nonchè dell’art. 24 Cost., la ricorrente sostiene la nullità della nomina del curatore speciale, riservata alla competenza del presidente del tribunale, del minore da parte del collegio.
1.1. Con il secondo mezzo la violazione delle norme sopra indicate, per la medesima ragione, viene prospettata in relazione all’art. 360 c.p.c..
2. Le censure esposte, da esaminarsi congiuntamente, in quanto intimamente correlate, sono infondate.
2.1. Premesso invero, che nessun rilievo risulta avanzato in merito alla fase processuale in cui è stato rilevato il conflitto di interessi fra la madre e la minore, deve richiamarsi il principio, di recente affermato da questa Corte e condiviso dal Collegio (Cass., 13 aprile 2015, n. 7362), secondo cui allorquando l’esigenza della nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c. si manifesti nel corso del giudizio ed in relazione ad esso, la corrispondente istanza deve essere proposta al giudice (monocratico o collegiale nelle ipotesi di cui all’art. 50 bis c.p.c.) della causa pendente, a tanto non ostando la riconducibilità alla giurisdizione volontaria del provvedimento di cui all’art. 80 c.p.c..
3. Con il terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 250 c.c., comma 4, per non essere stata adeguatamente apprezzata la volontà contraria al riconoscimento espressa dalla minore in sede di audizione.
3.1. Con la quarta censura la violazione della norma sopra indicata viene prospettata in relazione all’affermazione della corte distrettuale concernente la sussistenza - in astratto di un interesse del minore al riconoscimento, anche in assenza del riscontro della sua effettiva sussistenza.
3.2. Il quinto mezzo attiene ancora alla violazione dell’art. 250 x.x., xxxxx 0, xxxxx il profilo della necessità della valutazione dell’interesse del minore al riconoscimento, anche in considerazione della personalità del richiedente.
3.3. Con il sesto motivo, denunciandosi violazione dell’art. 2697 c.c. e del principio di non contestazione, si afferma che erroneamente nella sentenza impugnata le circostanze dedotte dalla ricorrente circa le violenze e le lesioni subite ad opera del sig. W., il quale per tali fatti avrebbe anche subito un arresto, vengono considerate irrilevanti, in quanto non provate con certezza, ancorchè tali allegazioni non siano state ritualmente contestate.
4. I motivi sopra indicati, che possono esaminarsi congiuntamente, sono fondati nei termini che seguono.
5. La corte distrettuale, richiamando risalenti arresti di legittimità, ha affermato che, in assenza di motivi gravi e irreversibili, pregiudizievoli per lo sviluppo del minore, il mancato riscontro di un interesse del minore al riconoscimento non sarebbe ostativo all’accoglimento della relativa domanda avanzata dal genitore biologico.
In tale modo risulta violato in principio secondo cui, come affermato da questa Corte (in tal senso, già Xxxx., 25 maggio 1982, n. 3118) e dalla prevalente dottrina, il riconoscimento deve essere effettivamente rispondente all’interesse del figlio, dovendosi in ogni caso considerare superato l’orientamento, al quale la sentenza impugnata sembra aderire, secondo cui il secondo riconoscimento costituisce, in linea di principio, un vantaggio per la prole.
Come ribadito di recente in materia di filiazione, il quadro normativo attuale, come interpretato dalla giurisprudenza e dalla dottrina prevalenti, impone un bilanciamento fra l’esigenza di affermare la verità biologica, anche in considerazione delle "avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini" (così Corte cost. 12 gennaio 2012, n. 7) con l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari, nell’ambito di una sempre maggiore considerazione del diritto all’identità non necessariamente correlato alla verità biologica, ma ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno di una famiglia.
Tale bilanciamento, traguardato nell’ottica dell’interesse superiore del minore, non può costituire il risultato di una valutazione astratta: in proposito deve richiamarsi il costante orientamento di questa Corte in merito alla necessità di un accertamento in concreto dell’interesse del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all’esigenza di una sviluppo armonico dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale (Cass., 23 settembre 2015, n. 18817; Cass., 8 novembre 2013, n. 25213; Cass., 19 ottobre 2011, n. 21651; Cass., 27 giugno 2006, n. 14840;
Cass., 30 maggio 1997, n. 4834; Cass. 24 settembre 1996, n. 8413).
6. In tale quadro l’audizione del minore assume un particolare rilievo: già nella sentenza che disponeva il giudizio di rinvio questa Corte aveva posto in rilievo che nella previsione dell’art. 250 c.c., è considerata "la prima fonte del convincimento del giudice"; di conseguenza "deve essere disposta d’ufficio e la sua omissione determina un vizio del procedimento".
Veniva altresì rilevato che, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale, la necessità dell’audizione "costituisce il portato della priorità, nell’ambito della sempre più affermata esigenza dell’audizione del minore in tutti i provvedimenti che lo riguardano (art. 155-sexies c.c.), dell’interesse del figlio minore che non abbia compiuto i sedici anni (ora quattordici), nel procedimento previsto dall’art. 250 x.x., xxxxx 0, xx xxxxxxxxxxxxxx xxxxx xxxxxxxxx naturale, come complesso dei diritti che a lui derivano dal riconoscimento stesso, ed in particolare, del diritto all’identità personale nella sua precisa ed integrale dimensione psico-fisica (Cass., 5 giugno 2009, n. 12984)".
6.1. Mette conto di aggiungere che l’esigenza di attribuire rilievo, ai fini del convincimento, a quanto emerso in sede di audizione, deve essere maggiormente avvertita alla luce delle modifiche introdotte all’art. 250 c.c. con la L. 10 dicembre 2012, n. 219, ove si consideri che, ai sensi del novellato comma 2 detta norma, "il riconoscimento del figlio che ha compiuto i quattordici anni non produce effetto senza il suo assenso", il quale, a differenza del rifiuto del consenso da parte dell’altro genitore, non comporta alcuna successiva valutazione in sede giudiziale.
Ne consegue che una volta valutata positivamente la capacità di discernimento della figlia (nella specie la corte di appello ha affermato che "la minore è apparsa un’adolescente matura, consapevole della sua condizione, in grado di interagire adeguatamente con l’interlocutore e di rispondere in maniera ponderata alle domande), il risultato dell’audizione della figlia, che si è opposta decisamente al riconoscimento, avrebbe dovuto essere apprezzato nel contesto della valutazione, in concreto, del suo interesse a realizzarsi nel contesto delle relazioni affettive che consentano uno sviluppo armonico della sua identità sotto il profilo psichico, culturale e relazionale. La minimizzazione delle dichiarazioni della giovane, ancor più grave in presenza del giudizio di maturità pur espresso nella sentenza impugnata, finisce per rendere l’audizione un adempimento meramente formale, così frustrando le ragioni dell’ineludibile attività posta a garantire le esigenze poste in evidenza dalla Corte costituzionale nella nota decisione n. 83 del 2011, nonchè nella successiva ordinanza n. 301 dello stesso anno.
Giova ribadire (cfr. Cass., 7 ottobre 2014, n. 21101, in motivazione) che l’imprescindibilità dell’audizione, nei termini sopra delineati, non solo consente di realizzare la presenza nel giudizio dei figli, in quanto parti "sostanziali" del procedimento (Xxxx., 21 ottobre 2009, n. 22238), ma impone certamente che degli esiti di tale ascolto si tenga conto.
7. Il prioritario interesse del minore va in ogni caso contemperato con il diritto del genitore che trova tutela nell’art. 30 Cost. e che può essere sacrificato soltanto in presenza del rischio della compromissione dello sviluppo psicofisico del minore (Cass. 3 febbraio 2011, n. 2645; Cass., 3 gennaio 2008, n. 4; Cass., 11 gennaio 2006, n. 395): a tale valutazione globale, da effettuarsi, come già indicato, sulla base delle concrete emergenze di ogni singola vicenda processuale, non si sottrae il vaglio della personalità del richiedente (Cass., 16 novembre 2005, n. 23074), nella misura in cui rifluisce con l’esigenza di uno sviluppo equilibrato del figlio.
7.1. Sotto tale profilo deve esprimersi un giudizio di fondatezza anche in merito alle censure mosse, con il settimo motivo, alle perplessità manifestate nella sentenza impugnata in merito alla veridicità dei fatti dedotti dalla D.B. in merito alla condotta violenta e gravemente lesiva dell’attore, oggetto di specifiche deduzioni (opportunamente trascritte nel ricorso in ossequio al principio di autosufficienza) e non contestate se non nei termini generici che emergono anche dalle trascrizioni riportate nel controricorso. Vale bene ribadire, in proposito, che, ai sensi dell’art. 167 c.p.c., la parte è tenuta, anche anteriormente alla formale introduzione del principio di "non contestazione " a seguito della modifica dell’art. 115 c.p.c., a prendere posizione, in modo chiaro ed analitico, sui fatti posti dall’attore a fondamento della propria domanda, i quali
xxxxxxx ritenersi ammessi, senza necessità di prova, ove la parte abbia omesso di elevare alcuna contestazione chiara e specifica (Cass., 6 ottobre 2015, n. 19896).
8. L’ultimo motivo, attinente al regolamento delle spese processuali, rimane all’evidenza assorbito.
9. L’impugnata sentenza va quindi cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte d’appello di Roma, che, in diversa composizione, applicherà i principi sopra indicati. Il giudice del rinvio provvederà, altresì, a regolare le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati significativi.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione prima civile, il 30 settembre 2016.
Depositato in Cancelleria il 7 marzo 2017.
L’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO TRA SOLIDARIETÀ E LIBERTÀ
(Relatore: Xxxxx Xxxxxxx)
Cass., 27 settembre 2017, n. 22602
L’amministrazione di sostegno non può essere istituita nei confronti di chi, pienamente lucido, vi si opponga, sempre che il giudice accerti che i suoi interessi siano comunque tutelati, sia in via di fatto dai familiari che per il sistema di deleghe attivato autonomamente dall’interessato.
FATTO
1. Il Sig. Q.Q.E. ricorre per cassazione, nei confronti della Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Milano (e di quella presso il Tribunale di Busto Arsizio) nonchè nei confronti di B.M., amministratore di sostegno del primo, articolando quattordici motivi, avverso il decreto con cui la Corte di Appello di Milano ha confermato l’apertura dell’amministrazione di sostegno, disposta dal giudice tutelare del Tribunale di Busto Arsizio, a favore dell’odierno ricorrente, in accoglimento della richiesta del Sig. Q.A. (qualificatosi figlio dell’amministrato), al contempo dichiarando inammissibili tutte le altre domande proposte dai reclamanti.
2. La Corte distrettuale, infatti, con decreto n.760/2017, ha anzitutto affermato che, a norma dell’art. 417 c.c., il Sig. Q.A. era legittimato a richiedere l’amministrazione di sostegno del genitore in quanto figlio e, nel merito, pur in assenza di una CTU certificativa dell’incapacità del beneficiario, ha ritenuto sussistenti i presupposti per l’apertura della procedura di amministrazione di sostegno per il Sig. Q.Q.E., sulla base di quanto acquisito agli atti.
2.1. Oltre ad aver rilevato un aspro conflitto intra-familiare, giustificativo della scelta di individuare l’amministratore in una persona estranea all’ambito familiare, la Corte d’Appello, seppur riconoscendo una discrasia fra le eccessive limitazioni alla capacità giuridica del Q., stabilite nel provvedimento del giudice tutelare, di contro ad una sua ancora integra capacità d’intendere, ha ritenuto questa non censurabile in tale sede e ha qualificato l’amministrato come soggetto debole, estremamente esposto allo stress psicofisico e con una condizione fisica tale da imporre il suo accompagnamento quotidiano, per tutte le necessità della vita.
DIRITTO
1. Con il primo motivo di ricorso (violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione agli artt. 406, 417 e 2697 c.c.) il ricorrente censura la decisione impugnata con riferimento alla mancata prova in atti della legittimazione a promuovere la procedura da parte del figliastro Q.A..
2.Con il secondo motivo di ricorso (nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 112 c.p.c., e art. 111 Cost.) il ricorrente censura la decisione impugnata nella parte in cui il giudice a quo omette o solo apparentemente motiva la questione in ordine all’estromissione dal procedimento di Q.A..
2. Con il terzo motivo di ricorso (violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al combinato disposto degli artt. 406 e 417 x.x., x xxxx. 000 x 000 xxx c.p.c.) il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione delle disposizioni relative alla
partecipazione dei parenti del "beneficiario" al giudizio in quanto essi svolgerebbero una funzione solo consultiva che si esaurirebbe nella prima fase del procedimento.
3. Con il quarto motivo di ricorso (violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al combinato disposto degli artt. 406 e 417 x.x., x xxxx. 000 x 000 xxx c.p.c.) il ricorrente censura la decisione impugnata nella parte in cui, interpretando l’intervento dei parenti in senso ampio, non ravvisa nella partecipazione di Q.A. al procedimento di ads la violazione delle norme a tutela della privacy.
4. Con il quinto motivo di ricorso (violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione agli artt. 720 bis e 739 c.p.c.) il ricorrente censura la decisione impugnata nella parte in cui dichiara inammissibili le domande relative alla sostituzione dell’amministratore di sostegno e all’annullamento delle prescrizioni del decreto del giudice tutelare sulla base dell’impossibilità di impugnazione di tale provvedimenti di carattere gestorio.
5. Con il sesto motivo di ricorso (violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 404 c.p.c., ovvero falsa applicazione delle norme in materia di amministrazione di sostegno con riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., e art. 8 C.E.D.U.) il ricorrente censura la decisione impugnata laddove avrebbe legittimato l’apertura dell’amministrazione di sostegno nei confronti di un soggetto non solo capace di intendere, ma anche riluttante alla stessa. In tal modo la decisione sarebbe stata assunta in violazione dei principi di autodeterminazione e rispetto della vita privata e familiare.
6. Con il settimo motivo di ricorso (violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 404 c.p.c., ovvero falsa applicazione delle norme in materia di amministrazione di sostegno con riferimento all’interesse del beneficiario ovvero al "bene vita" minacciato dall’a.d.s.) il ricorrente censura la decisione impugnata laddove legittimando l’apertura dell’amministrazione di sostegno si sia pronunciata contro il best interest del beneficiario così violando uno dei principi guida del procedimento di amministrazione di sostegno.
7. Con l’ottavo motivo di ricorso (violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’artt. 404 c.p.c. ovvero falsa applicazione delle norme in materia di amministrazione di sostegno con riferimento al conflitto endo-familiare individuato quale requisito per l’adozione della misura) il ricorrente censura la decisione impugnata quante volte baserebbe la scelta dell’apertura della procedura di amministrazione di sostegno sulla sussistenza di un conflitto endo-familiare.
8. Con il nono motivo di ricorso (violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 404 c.p.c., ovvero falsa applicazione delle norme in materia di amministrazione di sostegno con riferimento all’inesistente presupposto dell’incapacità di provvedere ai propri interessi) il ricorrente censura la decisione impugnata laddove non abbia considerato la capacità del Sig. Q.Q.E. di badare ai propri interessi.
9. Con il decimo motivo di ricorso (violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., ovvero travisamento della prova in punto di fragilità psichica) il ricorrente censura la decisione impugnata nella parte in cui, pur riportando correttamente il contenuto di un documento, avrebbe ricavato un’informazione probatoria non esistente. Incorsa in tale errore, la Corte d’appello avrebbe così ritenuto sussistente un presupposto per l’apertura della procedura in realtà non sussistente.
10. Con l’undicesimo motivo di ricorso (violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti - carattere "approfondito" dell’esame psicologico e psichiatrico effettuato all’ospedale (OMISSIS) che certifica il pieno possesso delle facoltà psichiche) il ricorrente censura la decisione impugnata nella parte in cui la Corte d’appello, non solo avrebbe errato nel ricavare dalla documentazione la fragilità psichica del Sig. Q.Q.E., ma non avrebbe tenuto conto del certificato medico del (OMISSIS) dell’Ospedale (OMISSIS) attestante l’assenza di particolari alterazioni di natura psicopatologica tali da compromettere la capacità di giudizio.
11. Con il dodicesimo motivo di ricorso (nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360, comma 1, n.4 c.p.c. per violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia in ordine alla denunciata violazione dell’art. 404 c.c., con riferimento agli artt. 2,13 e 42 Cost., nonché all’art. 8 C.E.D.U.) il ricorrente censura il decreto impugnato laddove avrebbe completamente ignorato la censura avanzata in sede di reclamo in merito alla violazione dei diritti umani di Q.Q.E..
12. Con il tredicesimo motivo di ricorso (nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 112 c.p.c.) il ricorrente censura la decisione impugnata nella parte in cui il giudice a quo non si sarebbe pronunciato sulla violazione del diritto al contraddittorio e alla difesa personale nel procedimento.
13. Infine, con il quattordicesimo motivo di ricorso (violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione agli artt. 720 bis e 739 c.p.c., e art. 408 c.c.) il ricorrente censura la decisione impugnata nella parte in cui, disattendendo l’indicazione di
Q.Q.E. sul nominativo dell’amministrazione di sostegno, non avrebbe precisato quali gravi ragioni sostenessero la designazione di altra persona, per giunta estranea al nucleo familiare.
14. Il primo mezzo di cassazione (con il quale si lamenta la mancata prova, in atti, della legittimazione a promuovere la procedura di amministrazione di sostegno, da parte del "figliastro" dell’amministrato) è fondato.
14.1. Infatti, l’odierno ricorrente aveva (vanamente) rappresentato la carenza della legittimazione ("non è discendente": p. 2 della memoria di costituzione del 3 settembre 2015) e chiesto, nella fase di reclamo, alla Corte territoriale, di verificare quale titolo avesse il sedicente figlio per proporre la domanda di apertura della procedura.
14.2. Ad essa il giudice distrettuale non ha dato alcuna risposta, mentre egli era obbligato ad accertare la qualità (contestata) di figlio dell’amministrando, allo stesso modo di quanto accade per l’erede, ove ne sia contestata la qualità, siccome questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 12065 del 2014) ha affermato stabilendo il principio di diritto secondo cui "colui che, assumendo di essere erede di una delle parti originarie del giudizio, intervenga in un giudizio civile pendente tra altre persone, ovvero lo riassuma a seguito di interruzione, o proponga impugnazione, deve fornire la prova, ai sensi dell’art. 2697 c.c., oltre che del decesso della parte originaria, anche della sua qualità di erede di quest’ultima".
14.3. Del resto, il dettato codicistico (art. 406: Soggetti) stabilisce che "il ricorso per l’istituzione dell’amministrazione di sostegno può essere proposto dallo stesso soggetto beneficiario, anche se minore, interdetto o inabilitato, ovvero da uno dei soggetti indicati nell’art. 417" (ossia (art. 417 c.c.: Istanza d’interdizione o di inabilitazione), "l’interdizione o l’inabilitazione possono essere promosse dalle persone indicate negli artt. 414 e 415, dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il quarto grado, dagli affini entro il secondo grado, dal tutore o curatore ovvero dal pubblico ministero."), così ponendo un
numerus clausus di persone legittimate a promuovere il procedimento, nel cui novero rientrano i parenti ed affini, nei gradi indicati dalla disposizione.
14.4. In tale cerchio di soggetti, muniti del potere di promovimento della speciale procedura, rientrano sicuramente anche il figlio dell’amministrando e i parenti (di quest’ultimo) entro il quarto grado.
14.5. Ebbene, nella specie, la qualità di figlio da parte di Q.A. è stata contestata e sul punto è mancata la pronuncia del giudice del reclamo, sicché la decisione è manchevole e deve essere cassata in parte qua, con rinvio alla stessa Corte territoriale per il suo esame, alla luce del seguente principio di diritto che si enuncia ed al quale il giudice del rinvio deve attenersi:
in tema di amministrazione di sostegno colui che, assumendo, ai sensi dell’art. 406 c.c., di essere legittimato a proporre il ricorso per l’istituzione dell’amministrazione di sostegno di una persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trovi nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi -, in caso di specifica contestazione di detta legittimazione, deve fornire la prova, ai sensi dell’art. 2697 c.c., della sua qualità soggettiva ai sensi del combinato disposto dagli artt. 406 e 417 c.c..
15.Con l’accoglimento del primo motivo restano assorbite le doglianze (logicamente subordinate o conseguenti) poste con i mezzi secondo, terzo e quarto.
16. I restanti motivi, infatti, non risultano assorbiti come i tre anzidetti, in quanto, le questioni poste con essi, ove venisse respinta l’eccezione relativa alla legittimazione a promuovere il giudizio da parte di Q.A., nella fase di rinvio, si proporrebbero nuovamente ed esigerebbero di essere esaminate.
16.1. E’ quanto questa Corte ha già avuto modo di rilevare, enunciando il seguente principio di diritto, cui deve essere data continuità anche in questa sede:
del 2006; Sez. 3, Sentenza n. 5513 del 2008).
17. Ma tutti i restanti motivi (eccettuati i primi quattro), per l’intrinseca connessione dei profili di doglianza che li caratterizza e per comodità espositiva, possono essere trattati congiuntamente ed accolti nei sensi che si diranno.
17.1. Con essi, l’odierno ricorrente, lamenta che la decisione impugnata:
abbia dichiarato inammissibili le domande relative alla sostituzione dell’amministratore di sostegno e all’annullamento delle prescrizioni del decreto del giudice tutelare sulla base dell’impossibilità di impugnazione di tale provvedimenti di carattere gestorio;
abbia legittimato l’apertura dell’amministrazione di sostegno nei confronti di un soggetto non solo capace di intendere, ma anche riluttante alla stessa (violazione dei principi di autodeterminazione e rispetto della vita privata e familiare);
si sia pronunciata contro il best interest del beneficiario così violando uno dei principi guida del procedimento di amministrazione di sostegno;
abbia basato la scelta dell’apertura della procedura di amministrazione di sostegno sulla sussistenza di un conflitto endo-familiare;
non ha considerato la capacità dell’amministrato di badare ai propri interessi e abbia ritenuto sussistente un presupposto per l’apertura della procedura in realtà non sussistente;
abbia errato nel ricavare dalla documentazione la fragilità psichica dell’amministrato, senza tener conto del certificato medico del (OMISSIS) dell’Ospedale attestante l’assenza di particolari alterazioni di natura psicopatologica tali da compromettere la capacità di giudizio; abbia completamente ignorato la censura avanzata in sede di reclamo in merito alla violazione dei diritti umani del sottoposto alla procedura;
non si sia pronunciata sulla violazione del diritto al contraddittorio e alla difesa personale nel procedimento;
non abbia precisato quali gravi ragioni sostenessero la designazione di altra persona alla funzione di amministratore, per giunta estranea al nucleo familiare.
18. Va qui necessariamente svolta una breve premessa chiarificatrice.
18.1. La finalità cui tende l’amministrazione di sostegno è quella di proteggere le persone fragili, ovvero coloro che si trovano in difficoltà nel gestire le attività della vita quotidiana e i propri interessi, o che addirittura si trovano nell’impossibilità di farlo (art. 1, della Legge istitutiva, n. 6 del 2004: "(...) tutelare (...) le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana ".).
18.2. Tuttavia, nell’appena menzionato art. 1, si avvertono i destinatari delle prescrizioni normative che la tutela dell’amministrato deve avvenire: "con la minore limitazione possibile della capacità di agire (...)".
18.3. A tal riguardo si è giustamente parlato dell’esistenza di una precisa direttiva di "non mortificare" la persona, da realizzare evitando o riducendo, quanto più possibile, la limitazione della capacità di agire dell’interessato così da non intaccare la dignità personale del beneficiario (art. 2 Cost.), conservandogli il più possibile la capacità di agire.
18.4. Non a caso questa Corte (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 23707 del 2012) ha chiarito che "l’art. 408 c.c., il quale ammette la designazione preventiva dell’amministratore di sostegno da parte dello stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata, è espressione del principio di autodeterminazione della persona, in cui si realizza il valore fondamentale della dignità umana, ed attribuisce quindi rilievo al rapporto di fiducia interno fra il designante e la persona prescelta, che sarà chiamata ad esprimerne le intenzioni in modo vincolato".
18.5. Tralasciando il caso in cui l’interessato rifiuti il consenso o, addirittura, si opponga alla nomina dell’amministratore di sostegno, (proprio a causa della patologia psichica da cui egli è afflitto, ciò che lo rende inconsapevole del bisogno di essere aiutato e, per tale ragione, riluttante all’ingerenza di altri nella propria quotidianità), diversamente la volontà contraria all’attivazione della misura di sostegno, ove provenga da persona pienamente lucida (come si verifica allorquando la limitazione di autonomia si colleghi ad un impedimento soltanto di natura fisica) non può non essere tenuta in debita considerazione.
18.6. In tali casi, il difficile equilibrio che il giudice chiamato a risolvere il conflitto dovrà trovare, deve essere guidato dalla necessità di privilegiare il rispetto dell’autodeterminazione
dell’interessato, distinguendo il caso in cui la protezione sia già di fatto assicurata in via spontanea dai familiari o dal sistema di deleghe (in precedenza attivato autonomamente dal disabile stesso) da quello in cui la scelta della nomina dell’amministratore di sostegno s’imporrà perchè non vi siano supporti e la riluttanza della persona fragile si fondi su un senso di orgoglio ingiustificato, con il rischio di non dare una adeguata tutela ai suoi interessi.
19. Alla luce di tali premesse, si comprende che le doglianze esposte con i motivi dal quinto al quattordicesimo, risultino fondati in quanto il provvedimento di assoggettamento del ricorrente all’amministrazione di sostegno, contra voluntatem suam, non risulta pronunciato esaminando se il sistema delle deleghe attivate dall’amministrando assicuri al medesimo soggetto il perseguimento dei propri interessi, secondo i principi di autodeterminazione e di rispetto della dignità dell’interessato, atteso che la persona risulta, secondo la stessa decisione qui impugnata, pienamente lucida e capace di operare le scelte di vita (benché abbia difficoltà ad esprimerle vocalmente) nonché coniugato e, perciò, anche assistito nelle decisioni e nella vita quotidiana
- dal coniuge (per quanto inviso al promotore del procedimento di amministrazione). 19.1.Infatti, come si è detto:
in tema di amministrazione di sostegno, nel caso in cui l’interessato sia persona pienamente lucida che rifiuti il consenso o, addirittura, si opponga alla nomina dell’amministratore, e la sua protezione sia già di fatto assicurata in via spontanea dai familiari o dal sistema di deleghe (attivato autonomamente dall’interessato), il giudice non può imporre misure restrittive della sua libera determinazione, ove difetti il rischio una adeguata tutela dei suoi interessi, pena la violazione dei diritti fondamentali della persona, di quello di autodeterminazione, e la dignità personale dell’interessato.
19.2. La violazione anche di tale secondo principio di diritto (oltre a quello sopra enunciato al
p. 14.5.), che si riconnette ai plurimi profili di doglianza svolti nel ricorso per cassazione, i quali non devono tuttavia essere tutti analiticamente esaminati, essendo il principio enunciato dalla Corte il presupposto di molti di essi nonché la chiave risolutiva delle questioni, se del caso da risolvere sulla base di un "riesame" del materiale probatorio acquisito, comporta la cassazione del decreto impugnato e il rinvio della vertenza alla Corte d’appello di Milano perché, alla luce di esso (oltre che di quello enunciato al p. 14.5.), in diversa composizione, decida nuovamente il caso e regoli le spese di questa fase del giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo, assorbiti il secondo, terzo e quarto; accoglie altresì tutti gli altri restanti, per quanto di ragione, cassa il decreto impugnato e rinvia la causa, anche per le spese di questa fase del giudizio, alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 14 luglio 2017. Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2017.
III. RESPONSABILITÀ CIVILE
GLI OBBLIGHI DI INFORMAZIONE E LA RESPONSABILITÀ DEL NOTAIO
(Relatore: Xxxxxx Xxxxxx)
Cass. 18 maggio 2017, n. 00000
Xxxxx il dovere di informazione e consiglio, ed è tenuto al risarcimento dei conseguenti danni, il notaio che omette di avvertire le parti, determinate a inserire in un contratto preliminare di vendita immobiliare un termine finale di nove anni per la stipula del definitivo, che la relativa trascrizione potrà avere effetto per non più di tre anni.
FATTO
B.C. ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Torino il notaio D.L.N., per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni subiti in occasione della stipula di un contratto preliminare, da lui concluso per sè o per persona da nominare con i coniugi C.V. e Xx.Xx. e trascritto ai sensi dell’art. 2645 bis c.c., per violazione del "dovere di consiglio". In particolare, ha esposto di essersi rivolto al notaio nel luglio 2002, e di aver pattuito con i promittenti venditori che il rogito notarile per il contratto definitivo avrebbe dovuto eseguirsi entro il 30.6.2011, data in cui sarebbe scaduta l’ultima rata di mutuo che egli s’era accollato. Il notaio avrebbe consigliato di trascrivere il preliminare, rassicurandolo circa l’assenza di condizioni pregiudizievoli per la stabilità del futuro acquisto, nonostante il notevole lasso di tempo pattuito con i promittenti. Senonchè, nel 2006, rivoltosi il B. al notaio D.L. per la stipula del contratto definitivo, ci si accorgeva che nelle more, sull’immobile promesso in vendita, era stata iscritta ipoteca in favore di Uniriscossioni; ciò comportava l’impossibilità di procedere al rogito, e la perdita della caparra frattanto ottenuta dal B. da un terzo promissario acquirente, che l’avrebbe sostituito nel contratto definitivo con i coniugi C.. Secondo il B., il notaio avrebbe violato il "dovere di consiglio", non avendolo opportunamente avvertito che la trascrizione del preliminare avrebbe perduto efficacia qualora, entro tre anni, non fosse intervenuto il contratto definitivo.
Il Tribunale di Torino accolse la domanda con sentenza del 27.4.2010, condannando il notaio al risarcimento del danno patito dal B. in misura pari ad Euro 21.690,74 oltre accessori, e rigettò la domanda di garanzia proposta dal notaio D.L. nei confronti della terza chiamata Xxxxx’x of London per intervenuta prescrizione dei diritti dell’assicurato.
La Corte d’appello di Torino, con sentenza del 9.10.2013, accolse però l’appello proposto dal D.L., assolvendolo dalle domande avanzate dall’odierno ricorrente e condannando quest’ultimo alla restituzione di quanto nelle more ottenuto.
B.C. ricorre ora per cassazione, affidandosi a tre motivi. Gli intimati resistono con controricorso. Sia il ricorrente che il D.L. hanno depositato memoria.
DIRITTO
1.1 - Con il primo motivo, deducendo "Violazione/falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento all’art. 1218 c.c., sotto il profilo dell’individuazione della prestazione, dell’inadempimento e dell’onere della prova dell’esatto adempimento", il ricorrente rileva che la Corte d’appello ha ritenuto che non sussistesse uno specifico dovere del notaio di informarlo che la convenzione di un termine così lungo tra contratto preliminare e definitivo avrebbe vanificato la cautela di trascrivere il preliminare, stante l’efficacia triennale della trascrizione, ai sensi dell’art. 0000 xxx x.x.. Xx Xxxxx xxxxxxxxxx ha anche osservato che, d’altronde, erano state proprio le parti a pattuire un termine così lungo.
Secondo il ricorrente, al contrario, proprio la pattuizione di un tale termine avrebbe comportato il dovere del notaio di informare i clienti dei vantaggi e degli svantaggi della trascrizione del preliminare. Trattandosi di obbligazione ex contractu, secondo il ricorrente, il notaio non ha assolto il relativo onere probatorio, con violazione dell’art. 1218 c.c..
1.2 - Col secondo motivo, deducendo "Violazione/falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento all’art. 112 c.p.c.", si censura il passaggio della sentenza impugnata ove si afferma che il notaio non avrebbe comunque potuto garantire una efficacia della trascrizione maggiore del triennio. Sostiene il B. che ciò è palesemente infondato, dal momento che egli, ove correttamente informato, avrebbe potuto decidere se rinnovare la trascrizione, acquistare l’immobile per sè o farlo acquistare ad altri entro il termine triennale di efficacia della trascrizione. Inoltre, secondo il ricorrente, la Corte non avrebbe ben compreso l’oggetto della domanda (risarcimento danni per violazione del "dovere di consiglio"), confondendolo con una diversa questione, ossia quella della garanzia del risultato del preliminare (p. 12 sentenza). Vi sarebbe poi, secondo il ricorrente, anche extra-petizione, dal momento che la Corte ha dichiarato d’ufficio l’inammissibilità della prova testimoniale tendente a dimostrare che il notaio aveva assicurato le parti, che trascrivendo il preliminare, si sarebbe "coperto" l’intero periodo di interesse.
1.3 - Infine, col terzo motivo, deducendo "Violazione/falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento all’art. 1176 c.c.", si rileva che la Corte avrebbe omesso di valutare la diligenza qualificata richiesta al notaio, esaminata limitatamente agli effetti tipici dell’atto (vincolo derivante dal preliminare) e non, invece, avuto riguardo all’interesse complessivamente perseguito dalle parti, che il notaio avrebbe dovuto salvaguardare con "elevata professionalità". La Corte, secondo il ricorrente, avrebbe addossato alle parti ogni conseguenza della pattuizione del termine così lungo, senza minimamente valutare se il notaio fosse stato diligente nell’esecuzione della prestazione richiestagli. Diligenza, peraltro, non provata dal notaio, com’era suo onere.
2.1 - I motivi, da esaminarsi congiuntamente stante l’intima connessione, sono anzitutto ammissibili.
Non colgono infatti nel segno le eccezioni sollevate dai controricorrenti, perchè in primo luogo il B. ha chiaramente indicato le norme che si assumono violate e comunque esse sono pienamente evincibili dal contenuto delle censure (segnatamente, il riferimento alla diligenza professionale richiesta dall’art. 2236 c.c., sebbene non espressamente richiamato); in secondo luogo, dette censure sono del tutto specifiche, essendo ben chiaro quale ne sia il contenuto e quali specifici passaggi della motivazione del giudice d’appello ne siano oggetto; inoltre, esse
non si risolvono affatto in un riesame del merito, nè si ritiene che - in relazione al loro contenuto
- fosse necessario rispettare lo specifico disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), ben potendo prescindersi, nello scrutinio del ricorso in questione, dall’esame della documentazione cui il ricorrente fa riferimento e che è all’origine della controversia.
Nella sostanza, infatti, la tesi del B. - fondata sulla pacifica circostanza che tra lui e il notaio sia stato concluso un contratto di prestazione d’opera professionale - si snoda nei seguenti passaggi:
a) nell’ambito delle obbligazioni del notaio, figura anche il c.d. "dovere di consiglio"; b) in relazione alle specifiche condizioni pattuite tra le parti (ossia, il lungo ed obiettivamente anomalo termine intercorrente tra la stipula del preliminare e quella del definitivo, nonchè il timore che, stante quanto precede, terzi potessero utilmente aggredire il bene, nelle more della stipula), rientra in detto dovere anche quello di avvertire il promissario acquirente che la mera trascrizione del preliminare lo garantisce per il limitato periodo di un triennio, ai sensi dell’art. 2645 bis c.c., comma 3; c) il promissario acquirente B. ha dato prova del titolo e ha allegato l’inadempimento del notaio (ossia, il mancato avvertimento circa le possibili conseguenze pregiudizievoli dell’efficacia solo triennale della trascrizione); d) costituiva a tal punto preciso onere del notaio, nel solco dell’insegnamento di Xxxx., Sez. Un., n. 13533/2001, provare l’esatto adempimento, il che non era avvenuto.
Quindi, secondo l’impianto impugnatorio del B., la Corte d’appello è incorsa nelle plurime violazioni di legge denunciate, anzitutto nel non rilevare che il notaio non aveva dato la prova cui era tenuto, e comunque nel ritenere che (alla luce delle risultanze istruttorie - da cui risulta che il B. temeva che il promittente venditore fallisse, tanto che lo stesso notaio suggerì di trascrivere il preliminare onde evitare una possibile revocatoria fallimentare - v. interrogatorio formale del D.L., riportato a p. 18 del ricorso) non gravasse sul notaio stesso uno specifico obbligo di informazione, ut supra.
3.1 - Le doglianze sono anche fondate.
La Corte piemontese ha anzitutto ritenuto che l’attività del notaio D.L. sia stata improntata a diligenza rispetto alla situazione rappresentatagli, "garantendo con la trascrizione del preliminare la volontà delle parti di creare una barriera a eventuali rivendicazioni di terzi" (v. sentenza impugnata, p. 11); ha poi rilevato (p. 12) che la prestazione sia stata idonea al conseguimento dello scopo dell’atto perseguito dalle parti, tanto è vero che erano state esse stesse a pattuire un così lungo lasso temporale tra contratto preliminare e definitivo.
3.2 - Ora, con specifico riferimento ai doveri deontologici del notaio, questa Corte ha condivisibilmente affermato che il professionista non può limitarsi a procedere al mero accertamento della volontà delle parti e a sovrintendere alla compilazione dell’atto, occorrendo anche che egli si interessi "delle attività preparatorie e successive necessarie ad assicurare la serietà e la certezza degli effetti tipici dell’atto e del risultato pratico perseguito" (Cass., Sez. Un. n. 13617/2012). Sempre nel suddetto ambito, è stato anche affermato che il cd. "dovere di consiglio", imposto dall’art. 42, comma 1, lett. a), del codice di deontologia notarile "investe solo le conseguenze giuridiche della prestazione richiesta al professionista, e non pure le circostanze di fatto dell’affare concluso, tra le quali rientrano i rischi economici dello stesso, la cui valutazione è rimessa in via esclusiva al prudente apprezzamento delle parti" (Cass. n. 11665/2015). Ancora, ma sul piano generale, si è anche affermato che "Poichè il notaio non è un destinatario passivo delle dichiarazioni delle parti, contenuto essenziale della sua prestazione professionale è il c.d. dovere di consiglio, che peraltro ha ad oggetto questioni tecniche, cioè
problematiche, che una persona non dotata di competenza specifica non sarebbe in grado di percepire, collegate al possibile rischio, ad es., che una vendita immobiliare possa risultare inefficace a causa della condizione giuridica dell’immobile trasferito; tale contenuto non può essere peraltro dilatato fino al controllo di circostanze di fatto il cui accertamento rientra nella normale prudenza, come la solvibilità del compratore nella vendita con pagamento dilazionato del prezzo, o l’inesistenza di vizi della cosa. (...)" (Cass. n. 7707/2007).
In definitiva, ciò che emerge dagli insegnamenti sopra riportati è che il "dovere di consiglio" del notaio, nel rispetto del principio di autoresponsabilità delle parti del contratto, non si spinge, nè fino alla valutazione della convenienza economica dell’operazione, nè tantomeno fino alle valutazioni che rientrano nella normale prudenza esigibile da chiunque, ma trova il proprio ambito elettivo nelle questioni tecniche, ossia in quelle che sfuggono di norma alla cognizione e alla comprensibilità dell’uomo medio o comunque non dotato di specifiche conoscenze in ambito giuridico.
3.3 - Ritiene questa Corte che, nella specie, il giudice d’appello non si sia attenuto a tali condivisibili principi.
Anzitutto, è irrilevante che, nella specifica vicenda, il notaio D.L. sia andato assolto in sede disciplinare, dal momento che l’esito di tale procedimento non può configurare alcuna preclusione nel presente ambito processuale. Nel caso in esame, poi, non si tratta tanto di verificare se si siano prodotti gli effetti obbligatori del preliminare e gli effetti temporanei della sua trascrizione, come ha ritenuto la Corte d’appello: essa ha sul punto equivocato la domanda, incorrendo nella denunciata ultra-petizione, anche perchè non v’era affatto questione sulla circostanza che il notaio avesse garantito che, con la trascrizione, l’effetto protettivo si sarebbe protratto fino alla scadenza del termine pattuito. Si tratta invece di accertare se - in relazione alle circostanze concrete palesate al notaio dal B., ossia: 1) timore di fallimento del promittente;
2) lungo termine per la stipula del definitivo - possa dirsi diligente il comportamento del notaio che non avverta il promissario acquirente dei rischi dell’operazione; rischi che derivano da una specifica previsione normativa, concernente la soluzione proposta dallo stesso notaio per far fronte alle esigenze prospettate dal promissario (v. interrogatorio formale, ut supra). Trattandosi di questione che ha natura tecnica e che rientra, quindi, nelle specifiche competenze del professionista, la risposta al quesito che precede non può che essere negativa, perchè se il termine pattuito tra le parti per la stipula del contratto definitivo è pari a ben nove anni, e se lo stesso notaio, per cautelare il promissario, ha suggerito di trascrivere il preliminare - i cui effetti "protettivi" sono pari ex lege a tre anni - è evidente che il notaio, per adempiere al suo mandato professionale sulla base dei principi già sopra richiamati, non poteva limitarsi al suggerimento relativo alla trascrizione del preliminare, ma avrebbe dovuto chiarire alle parti gli ulteriori adempimenti al fine di garantire la sicurezza dell’operazione in relazione al lungo termine pattuito. E’ quindi del tutto errata l’osservazione della Corte piemontese sul fatto che furono proprio le parti a convenire un inusuale termine di nove anni: ciò non esonera affatto il notaio, perchè costituisce un elemento che caratterizza la convenzione sottoposta alla valutazione del professionista incaricato e che costituisce il presupposto dello specifico "dovere di consiglio", nei termini sopra riportati, pacificamente rimasto inadempiuto nel caso in esame.
Non è infine pertinente l’affermazione della Corte piemontese circa il fatto che il B. non ha mai allegato che, se fosse stato avvertito, avrebbe valutato diversamente i termini dell’operazione
che sarebbe andato a concludere: il punto non è questo. Non era il B., infatti, a dover dimostrare alcunchè, ma era il notaio a dover dimostrare il corretto adempimento professionale, sulla base di informazioni complete, pertinenti, puntuali e corrette.
4.1 - In definitiva, il ricorso deve essere accolto. La sentenza impugnata va quindi cassata in relazione, con rinvio alla Corte d’appello di Torino, in altra composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità, e si atterrà al seguente principio di diritto: "il notaio, incaricato della redazione ed autenticazione di un contratto preliminare per la compravendita di un immobile, non può limitarsi a procedere al mero accertamento della volontà delle parti e a sovrintendere alla compilazione dell’atto, occorrendo anche che egli si interessi delle attività preparatorie e successive necessarie ad assicurare la serietà e la certezza degli effetti tipici dell’atto e del risultato pratico perseguito ed esplicitato dalle parti stesse. (Nel caso di specie, in cui le parti avevano pattuito un termine particolarmente lungo tra la stipula del contratto preliminare e quella del contratto definitivo, la Corte ha ritenuto che rientra nel c.d. "dovere di consiglio", cui il notaio è tenuto in forza dell’art. 42, comma 1, lett. a), del codice di deontologia notarile, avvertire le parti che gli effetti della detta trascrizione cessano, in ogni caso, qualora, entro tre anni dalla trascrizione predetta, non sia eseguita la trascrizione del contratto definitivo o di altro atto che costituisca comunque esecuzione del contratto preliminare o della domanda giudiziale di cui all’art. 2652 c.c., comma 1, n. 2))".
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa in relazione e rinvia alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, che provvederà anche alle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Corte di Cassazione, il 10 febbraio 2017. Depositato in Cancelleria il 18 maggio 2017.
LA COMPENSATIO LUCRI CUM DAMNO NELL’ATTUALE SISTEMA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE
(Relatore: Xxxxxx Xxxxxxx)
Cass., 22 giugno 2017, n. 15534
Va rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale investitura delle Sezioni Unite, il seguente quesito: se nella liquidazione del danno debba tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito, ad esempio percependo emolumenti versatigli da assicuratori privati (come nella specie), da assicuratori sociali, ovvero anche da terzi, ma comunque in virtù di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante.
FATTO
1. - che la società Aerolinee Itavia S.p.A. (di seguito anche Xxxxxx) convenne in giudizio il Ministero della difesa, il Ministero dei trasporti e il Ministero dell’interno, per sentirli condannare al risarcimento dei danni patiti a seguito della sciagura area verificatisi nel cielo di (OMISSIS), in occasione della quale era andato distrutto il DC 9/10-I-TIGI di proprietà di essa attrice ed erano decedute 81 persone;
che si costituì successivamente la Aerolinee Itavia S.p.A. in amministrazione straordinaria, facendo proprie le domande avanzate dall’attrice;
che, nel contraddittorio con le Amministrazioni convenute, l’adito Tribunale di Roma, con sentenza del novembre 2003, - ritenuto che il DC 9 dell’Itavia fosse stato abbattuto da un missile e che le Amministrazioni convenute non avessero garantito la regolare circolazione del volo e la sua sicurezza - accolse la pretesa risarcitoria e condannò i Ministeri dell’interno, della difesa e dei trasporti, in solido tra loro, al pagamento della complessiva somma di Euro 108.071.773,64, oltre accessori, nonchè alle spese di lite;
2. - che l’impugnazione di tale decisione da parte delle Amministrazioni soccombenti venne accolta dalla Corte di appello di Roma con sentenza dell’aprile 2007, la quale, a sua volta, fu oggetto di ricorso per cassazione da parte della Aerolinee Itavia S.p.A., in amministrazione straordinaria, sulla base di nove motivi;
3. - che questa Corte, con la sentenza n. 10285 del 2009, dichiarò inammissibile il ricorso nei confronti del Ministero dell’interno (con compensazione delle spese tra le parti), ne accolse i primi sette motivi nei confronti dei Ministeri della difesa e dei trasporti, dichiarò inammissibili i restanti ed enunciò i principi di diritto ai quali il giudice di rinvio doveva attenersi (p.p. 4.3. e
5.4. della sentenza, rispettivamente concernenti: l’accertamento del nesso causale in base alla regola probatoria "del più probabile che non" e l’accertamento dell’imputazione colposa nell’illecito omissivo in base al giudizio "controfattuale", previa individuazione dell’obbligo specifico o generico di tenere al condotta omessa in capo al soggetto);
4. - che, a seguito di riassunzione da parte della Aerolinee Itavia S.p.A., in amministrazione straordinaria, la Corte di appello di Roma, nel contraddittorio con il Ministero dell’interno, il Ministero della difesa ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con sentenza resa pubblica il 27 settembre 2012, pronunciava in via definitiva sulla domanda proposta dall’attrice nei confronti del Ministero dell’interno, rigettandola con compensazione delle spese processuali
dei gradi di merito; pronunciava in via non definitiva sulla domanda proposta dalla stessa società in amministrazione straordinaria nei confronti degli altri due Ministeri convenuti, dei quali accertava la responsabilità nella verificazione del disastro occorso in data (OMISSIS) nel quale andò distrutto il DC9/10 di proprietà dell’Itavia, rimettendo la causa sul ruolo, con separata ordinanza, per la determinazione dell’ammontare del danno;
che, con sentenza definitiva resa pubblica il 4 ottobre 2013, la Corte di appello di Roma condannava il Ministero della difesa ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, in solido tra loro, al pagamento, in favore della Aerolinee Itavia S.p.A., in amministrazione straordinaria, della somma di Euro 265.154.431,44 (di cui Euro 27.492.278,56 a titolo di risarcimento del danno, Euro 105.185.457,77 per rivalutazione ed Euro 132.476.695,11 per interessi), oltre interessi legali dalla sentenza al saldo, oltre al pagamento dei 3/4 delle spese processuali di tutti i giudizi, con compensazione del restante 1/4;
che, con detta sentenza, la Corte territoriale negava, però, il diritto dell’Itavia a vedersi risarcito: sia il danno per la perdita dell’aeromobile, in quanto la società attrice aveva incassato un indennizzo assicurativo da parte dell’Assitalia ammontante a lire 3.800.000.000, mentre il valore del velivolo al momento del sinistro, come accertato dal c.t.u., era di lire 1.586.510.540; sia il danno conseguente alla revoca delle concessioni di volo;
5. - che per la cassazione delle sentenze, non definitiva e definitiva, della Corte di appello di Roma ricorrono il Ministero della difesa ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, affidando le sorti dell’impugnazione a quattro motivi, illustrati da memoria;
che resiste con controricorso la Aerolinee Itavia S.p.A., in amministrazione straordinaria, proponendo, altresì, ricorso incidentale sulla base di quattro motivi, illustrati da memoria;
6. - che la causa è pervenuta all’udienza del 5 dicembre 2016 in prossimità della quale la Aerolinee Itavia S.p.A., in amministrazione straordinaria, ha depositato ulteriore memoria - a seguito di rinvio, disposto con ordinanza interlocutoria n. 19555 del 2015, al fine di attendere l’esito del giudizio dinanzi alle Sezioni Unite civile sulla questione relativa alla portata del principio della cd. compensatio lucri cum damno nell’ambito delle conseguenze risarcitorie da fatto illecito.
DIRITTO
1. - che con il primo mezzo del ricorso incidentale dell’Itavia è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1905, 1916, 2041, 2042 e 2043 c.c., ivi argomentandosi diffusamente (come anche nelle successive memorie ex art. 378 c.p.c.) sull’errore in diritto che la Corte territoriale avrebbe commesso nell’escludere la risarcibilità del danno patito dalla stessa Itavia per la perdita dell’aeromobile a causa del sinistro del (OMISSIS), in quanto ritenuto non cumulabile con il superiore ammontare dell’indennizzo assicurativo corrisposto alla medesima società per lo stesso fatto.
1.1. - che il motivo pone a questa Corte la seguente questione di diritto, tradizionalmente indicata come "problema della compensatio lucri cum damno": se nella liquidazione del danno debba tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito, ad esempio percependo emolumenti versatigli da assicuratori privati (come nella specie), da assicuratori sociali, da enti di previdenza, ovvero anche da terzi, ma comunque in virtù di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante;
che di tale questione - nella sua complessiva portata - erano state investite le sezioni unite civili con ordinanza interlocutoria n. 4447 del 2015 (a seguito di cui il presente giudizio è stato rinviato a nuovo ruolo in attesa del relativo pronunciamento), le quali, con sentenza n. 13372 del 30 giugno 2016, non ne hanno esaminato il fondo, reputando che, nella causa ad Esse rimessa, la problematica "della compensatio lucri cum damno, pur di estremo interesse sul piano giuridico, si presenta(sse) in concreto quanto meno prematura" per ragioni intrinseche alla vicenda processuale ivi rilevante;
che, nella presente controversia, detta questione assume diretto e centrale rilievo per la decisione del primo motivo del ricorso incidentale, senza, peraltro, patire interferenze dalle doglianze mosse con i restanti motivi dello stesso ricorso incidentale, attenendo l’una quella veicolata dal secondo motivo - ad un profilo risarcitorio (danno per revoca delle concessioni di volo) del tutto distinto e autonomo, mentre le altre - quelle poste con il terzo e quarto motivo - riguardano le spese di giudizio;
2. - che la rilevanza del tema della c.d. "compensatio lucri cum damno", ai fini della decisione del primo motivo di ricorso incidentale, si mantiene tale anche a fronte delle censure avanzate con il primo motivo del ricorso principale proposto dal Ministero della difesa e dal Ministero delle infrastrutture, che vertono sull’an debeatur (mentre non hanno incidenza sul predetto profilo le ulteriori doglianze del medesimo ricorso - mosse con i motivi dal secondo al quarto -
, investendo tutte la statuizione inerente al risarcimento di danni distinti da quello per la perdita dell’aeromobile interessato direttamente dal sinistro), giacché il Collegio reputa di doverne disattendere le ragioni;
che, a tal fine, si osserva quanto segue:
a) - con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. e art. 40 cpv. c.p.: la Corte territoriale, nella sentenza non definitiva, avrebbe mancato di individuare la "specifica condotta omissiva imputata alle Amministrazioni ricorrenti", quale presupposto per l’applicabilità della responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c., non colmabile con il riferimento alla fonte giuridica da cui deriva l’obbligo di impedire l’evento (attività di controllo e di sorveglianza al fine di garantire la sicurezza dei voli e la difesa dello spazio aereo italiano), con ciò impendendo anche di operare, ai sensi dell’art. 40 c.p., il giudizio controfattuale ai fini della verificazione del nesso causale.
a.1) - il motivo si palesa inammissibile: con esso, infatti, è veicolata una censura che, nella sua astrattezza (non superabile tramite le deduzioni sviluppate con la memoria ex art. 378 c.p.c., quale atto che ha funzione solo illustrativa delle ragioni di doglianza e non già integrativa o emendativa delle carenze strutturali e/o di contenuto dei motivi di ricorso: tra le tante, Cass., 25 febbraio 2015, n. 3780), prescinde del tutto dalla ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale, invece, concretamente, rivela un percorso argomentativo in cui sono chiaramente individuati - al fine della affermazione della responsabilità per illecito omissivo in base alla verifica di controfattualità (in armonia con il vincolo del principio di diritto enunciato dalla sentenza rescindente, Cass., 5 maggio 2009, n. 10285) - sia l’obbligo giuridico imposto all’agente, sia la condotta, omessa, che lo stesso avrebbe dovuto porre, invece, in essere per impedire la verificazione dell’evento lesivo;
3. - che, pertanto, stante la rilevanza della questione posta dal primo motivo del ricorso incidentale, della relativa decisione il Collegio ritiene di dover investire nuovamente le Sezioni Unite di questa Corte;
che le ragioni della rimessione ai sensi dell’art. 374 c.p.c. sono le seguenti:
4. - Nella giurisprudenza di questa Corte il problema della compensatio lucri cum xxxxx ha trovato soluzioni contrastanti, sebbene debba registrarsi - almeno sino ad un certo momento l’emersione di contrasti occulti, in assenza di corredi argomentativi, a sostegno dell’uno o dell’altro orientamento, che si facciano carico di confutare le opposte ragioni.
Invero, tale questione suscita un estremo interesse anche nell’elaborazione dottrinale, nella significativa presenza di soluzioni diversamente calibrate, tanto nei presupposti teorici, quanto negli effetti pratici.
In questo contesto ritiene il Collegio che il tema in questione vada, dunque, rimeditato funditus, e che, a prescindere dalla ricerca spesso illusoria d’una soluzione dogmaticamente perfetta, ad esso sia data una sistemazione chiara, idonea ai sensi dell’art. 65 ord. giud. a prevenire le liti e a rendere prevedibili le decisioni giudiziarie.
Ed è, quindi, in tale più ampia prospettiva che si ritiene necessario attivare, per l’appunto, il meccanismo di cui all’art. 374 c.p.c., tenuto conto, altresì, che la problematica in questione investe anche materie diverse dalla responsabilità civile e dai relativi profili assicurativi, sulle quali insistono competenze tabellari di altre Sezioni civili.
5. - I problemi della compensatio lucri cum xxxxx nascono al momento stesso in cui si cerca di definirla.
In dottrina, infatti, si ravvisano ben tre orientamenti diversi: alcuni autori negano del tutto che nel nostro ordinamento esista un istituto giuridico definibile come "compensatio lucri cum damno"; altri ammettono che in determinati casi danno e lucro debbano compensarsi, ma negano che ciò avvenga in applicazione di una regola generale; altri ancora fanno della compensatio lucri cum damno una regola generale del diritto civile.
Chi aderisce al primo orientamento fa leva principalmente sulla mancanza di una regola ad hoc che definisca l’istituto e aggiunge un immancabile richiamo alla "iniquità" di un istituto che ha l’effetto di sollevare l’autore d’un fatto illecito dalle conseguenze del suo operato.
Chi aderisce al secondo orientamento condivide l’affermazione secondo cui non esiste nel nostro ordinamento alcuna norma generale che sancisca l’istituto della compensatio lucri cum damno, ma soggiunge che il problema delle individuazione delle conseguenze risarcibili d’un fatto dannoso è una questione di fatto, da risolversi caso per caso; e che nel singolo caso non può escludersi a priori che concause preesistenti o sopravvenute al fatto illecito consentano alla vittima di ottenere un vantaggio.
Chi aderisce al terzo orientamento, infine, sostiene che l’istituto della compensatio lucri cum damno - il quale ha radici storiche antiche e ramificatesi nel tempo sino ai giorni nostri (muovendo dalle fonti romane per transitare attraverso il diritto dei glossatori e la dogmatica pandettistica) - è implicitamente presupposto dall’art. 1223 c.c., là dove ammette il risarcimento dei soli danni che siano "conseguenza immediata" dell’illecito e che, inoltre, quel principio generale è desumibile da varie leggi speciali (tra queste, la L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1, comma 1-bis, o il D.P.R. 8 giugno 2011, n. 327, art. 33, comma 2).
Xxxxxxx, comunque, soggiungere che anche gli autori i quali ammettono l’esistenza dell’istituto della compensatio lucri cum damno, esprimono poi opinioni assai diverse quando si tratta di ravvisarne il fondamento e l’ambito di operatività.
Alcuni ammettono la compensatio solo per i danni patrimoniali, altri anche per i danni non patrimoniali.
Alcuni ammettono la compensatio solo se danno e lucro siano conseguenza diretta della lesione del diritto; altri si contentano che danno e lucro traggano origine dalla condotta illecita.
Alcuni esigono, per l’applicabilità della compensatio, che danno e lucro siano generati dall’azione del danneggiato, senza il concorso di altri; altri ammettono che la compensatio possa operare anche quando il lucro derivi dalla condotta di un terzo.
La maggior parte degli autori che ammettono la compensatio, infine, per l’operatività dell’istituto pretende che il fatto illecito sia stato causa, e non già mera occasione, tanto del danno, quanto del lucro: salvo poi tornare a dividersi allorché si tratta di stabilire quando un fatto illecito possa dirsi "causa", e quando "occasione", del lucro.
5.1. - I contrasti - come si accennava - non mancano nella stessa giurisprudenza di questa Corte. Essa ha sempre ritenuto esistente un istituto giuridico generale definibile "compensatio lucri cum damno". Tuttavia, quando si è trattato di stabilirne l’ambito applicativo, le soluzioni adottate si sono mostrate sensibilmente distanti tra loro.
5.1.1. - Secondo un primo orientamento, la compensatio lucri cum damno opera solo quando sia il danno che il lucro scaturiscano in via "immediata e diretta" dal fatto illecito.
In applicazione di questo principio è stata esclusa la compensatio in tutti i casi in cui la vittima di lesioni personali, oppure i congiunti di persona deceduta in conseguenza dell’illecito, avessero ottenuto il pagamento di speciali indennità previste dalla legge da parte di assicuratori sociali, enti di previdenza, pubbliche amministrazioni, come pure di indennizzi da parte di assicuratori privati contro gli infortuni. In questi casi - si disse - il diritto al risarcimento del danno trae origine dal fatto illecito, mentre il diritto all’indennità scaturisce dalla legge. Mancando la medesimezza della fonte, mancherebbe l’operatività della compensatio.
Si è esclusa, in particolare, la detraibilità:
(a) della pensione di reversibilità dal risarcimento del danno patrimoniale da morte dovuto alla vedova della vittima (Cass.: n. 20448 del 30 settembre 2014; n. 5504 del 10 marzo 2014; n. 3357 dell’11 febbraio 2009; n. 18490 del 25 agosto 2006; n. 12124 del 19 agosto 2003; n. 8828 del 31 maggio 2003; n. 2117 del 14 marzo 1996; n. 9528 del 22 dicembre 1987; n. 1928 del 10 ottobre 1970; n. 2491 del 17 ottobre 1966; n. 2530 del 7 ottobre 1964);
(b) degli indennizzi erogati dallo Stato al Comune di Castellavazzo, in conseguenza del disastro del Vajont, dal risarcimento del danno (patrimoniale e non) dovuto al medesimo Comune dal responsabile della sciagura (Cass., 15 aprile 1998, n. 3807);
(c) della indennità di accompagnamento (ex L. 11 febbraio 1980, n. 18) dal diritto al risarcimento del danno patrimoniale dovuto alla vittima di lesioni personali (Cass., 27 luglio 2001, n. 10291);
(d) della pensione di invalidità civile (L. 30 marzo 1971, n. 118, art. 2) dal risarcimento del danno patrimoniale da lesioni personali (Cass., 18 novembre 1997, n. 11440);
(e) dell’indennizzo pagato dall’assicuratore privato contro gli infortuni dal risarcimento del danno biologico dovuto alla vittima di lesioni personali (Cass., 15 aprile 1993, n. 4475).
Le decisioni che aderiscono a questo orientamento non sono motivate in altro modo che col richiamo - spesso tralatizio - al principio per cui la compensatio lucri cum damno non opera quando danno e lucro traggano origine da fonti diverse (in alcune decisioni peraltro si parla di "titoli" diversi).
5.1.2. - Un diverso orientamento, all’opposto, ammette con maggior larghezza l’operatività della compensatio lucri cum damno. Questo orientamento tuttavia perviene a tale risultato attraverso percorsi diversi.
5.1.2.1. - Talune decisioni ammettono l’istituto della compensatio ed ammettono, altresì, che essa operi solo quando danno e lucro scaturiscono in via immediata e diretta dal fatto illecito: tuttavia, elevando la causa del lucro dal rango di "occasione" a quello di "causa", giungono al risultato di detrarlo dal risarcimento.
In applicazione di questo principio si è escluso il cumulo tra risarcimento del danno alla persona patito dal militare di leva durante lo svolgimento del servizio in conseguenza d’un fatto colposo dell’amministrazione della difesa e la pensione c.d. "privilegiata tabellare" dovuta alla vittima ex D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 (Cass., 4 gennaio 2002, n. 64; Cass., 16 settembre 1995,
n. 9779).
5.1.2.2. - Altre decisioni pervengono al medesimo risultato, ma senza dichiarare apertamente di fare applicazione dell’istituto della compensatio. Si afferma, piuttosto, che se non si tenesse conto del lucro derivato dall’illecito, il danneggiato sarebbe pagato due volte sine causa; ed il danneggiante a risarcire due volte lo stesso danno. In applicazione di questi principi si è escluso:
(a) il cumulo tra risarcimento del danno patrimoniale da incapacità di lavoro e quanto percepito dalla vittima a titolo di pensione di invalidità (Cass., 13 maggio 2004, n. 9094;Cass., 12 luglio 2000, n. 9228);
(b) il cumulo tra il risarcimento del danno dovuto al lavoratore infortunato (od ai suoi congiunti) dal datore di lavoro responsabile dell’infortunio e la rendita attribuita alla vittima (od ai suoi congiunti) dall’INAIL (Cass.: n. 5964 del 16 novembre 1979; n. 3806 del 15 aprile 1998; n. 3503 del 24 maggio 1986);
(c) il cumulo tra il risarcimento del danno dovuto alla vittima di infezione da emotrasfusione e l’indennizzo erogatole ai sensi della legge 25 febbraio 1992, n. 210 (tra le altre,Cass., 20 gennaio 2014, n. 991; Cass., 14 marzo 2013, n. 6573).
5.1.3. - Mette conto tuttavia segnalare che, con riferimento alla specifica materia della cumulabilità tra l’indennizzo dovuto dall’assicuratore contro i danni, e il risarcimento dovuto all’assicurato dal responsabile del danno, la giurisprudenza di questa Corte ha mostrato meno oscillazioni rispetto alle altre ipotesi di compensatio lucri cum damno.
Tale cumulabilità, in particolare, è stata esclusa nelle seguenti ipotesi, in cui si è stabilito che:
(a) nel caso di danni alla persona derivati da sinistri stradali, l’assicuratore del responsabile non è tenuto a risarcire le spese mediche già indennizzate dall’assicuratore privato della vittima (Cass. 7-101997 n. 9742; Cass., 13-11-1987, n. 8353)
(b) in tema di assicurazione contro il furto, l’assicurato - anche in assenza di patti espressi - è tenuto a restituire l’indennizzo, se dopo il pagamento di esso recupera in tutto od in parte i beni sottrattigli (Cass. 6.8.1968 n. 2823);
5.2. - Il Collegio ritiene che i problemi interpretativi ed applicativi sin qui riassunti potrebbero rinvenire una soluzione in base ai seguenti principi:
(a) alla vittima d’un fatto illecito spetta il risarcimento del danno esistente nel suo patrimonio al momento della liquidazione;
(b) nella stima di questo danno occorre tenere conto dei vantaggi che, prima della liquidazione, siano pervenuti o certamente perverranno alla vittima, a condizione che il vantaggio possa dirsi causato del fatto illecito;
(c) per stabilire se il vantaggio sia stato causato dal fatto illecito deve applicarsi la stessa regola di causalità utilizzata per stabilire se il danno sia conseguenza dell’illecito.
Corollario di quanto precede è che non potrebbe dirsi esistente nel nostro ordinamento un istituto definibile "compensatio lucri cum damno".
La regola tralatiziamente definita con questa espressione altro non è che un modo diverso di definire il principio di integralità della riparazione o principio di indifferenza, in virtù del quale il risarcimento deve coprire l’intera perdita subita, ma non deve costituire un arricchimento per il danneggiato.
Tale principio è desumibile dall’art. 1223 c.c..
All’illustrazione dei princìpi appena esposti saranno dedicati i p.p. che seguono, nei quali si esporranno dapprima i vulnera dell’orientamento tradizionale (p. 5.5. e relativi sottoparagrafi) e, quindi, le ragioni che il Collegio riterrebbe rilevanti per la soluzione del problema qui in esame (p. 5.6. e ss.).
In tal senso il Collegio intende collaborare fattivamente al compito di nomofilachia riservato alle Sezioni Unite in funzione della rimessione ai sensi dell’art. 374 c.p.c., evidenziando quali siano le ragioni di criticità degli orientamenti in campo, senza però celare il proprio intendimento al riguardo, in buona parte sorretto da taluni recenti pronunciamenti di questa Terza Sezione civile (segnatamente: Xxxx., 11 giugno 2014, n. 13233 e Cass., 13 giugno 2014,
n. 13537).
5.3. L’orientamento che nega la compensatio lucri cum damno quando vantaggio e svantaggio non trovino ambedue causa immediata e diretta nell’illecito si fonda su quattro presupposti teorici non parrebbero condivisibili.
5.3.1. - Il primo vulnus dell’orientamento tradizionale è di tipo logico.
Esso, infatti, pretendendo la medesimezza del "titolo" per il danno e per il lucro, al fine dell’operare della compensatio, finisce per disapplicare di fatto l’istituto della compensatio, come attenta dottrina non ha mancato di segnalare. E’ infatti assai raro (se non impossibile) che un fatto illecito possa provocare da sè solo, e cioè senza il concorso di nessun altro fattore umano o giuridico, sia una perdita, sia un guadagno.
Come messo in evidenza dalla dottrina prevalente da oltre un secolo, la compensatio lucri cum damno di compensazione non ha che il nome. Essa non costituisce affatto una applicazione della regola di cui all’art. 1241 c.c., così come la "compensazione delle spese" di cui all’art. 92
c.p.c. non è una compensazione in senso tecnico, nè lo è la c.d. "compensazione delle colpe" di cui all’art. 1227, comma 1, c.c..
La c.d. compensatio lucri cum damno costituisce piuttosto una regola per l’accertamento dell’esistenza e dell’entità del danno risarcibile, ai sensi dell’art. 1223 c.c.
"Lucro" e "danno", pertanto, non vanno concepiti come un credito ed un debito autonomi per genesi e contenuto, rispetto ai quali si debba indagare soltanto se sussista la medesimezza della fonte. Del c.d. "lucro" derivante dal fatto illecito occorre invece stabilire unicamente se
costituisca o meno una conseguenza immediata e diretta del fatto illecito ai sensi dell’art. 1223 c.c..
5.3.2. - Il secondo vulnus dell’orientamento tradizionale è di tipo dogmatico.
L’affermazione secondo cui la regola della compensatio opera soltanto se "danno" e "lucro" scaturiscano in modo diretto ed immediato dal fatto illecito appare infatti frutto di un equivoco, a sua volta scaturente da un inconsapevole fraintendimento della dottrina tradizionale.
Questa già alla fine dell’Ottocento aveva individuato, tra i presupposti della compensatio lucri cum damno, la necessità che danno e lucro derivassero dalla stessa condotta del responsabile. Colui il quale con una condotta "A" dovesse causare un danno, e con una condotta "B" dovesse procurare un vantaggio al danneggiato, se richiesto del risarcimento non potrà invocare la compensatio, a meno che non ricorrano i presupposti dell’ingiustificato arricchimento (art. 2041 c.c.). Se, infatti, tali presupposti mancassero, non potrà giammai attribuirsi all’autore dell’illecito una posizione più favorevole rispetto a chi ha causato ad altri un vantaggio, non ripetibile ex art. 2041 c.c., senza avere commesso alcun fatto illecito.
La regola secondo cui la compensatio esige la medesimezza della condotta, col passare degli anni, venne applicata sempre più tralatiziamente: e poichè la condotta è uno degli elementi dell’illecito, intorno agli anni Cinquanta del XX sec. la giurisprudenza nell’applicare il principio in esame incorse in un’autentica metonimia, finendo con l’indicare la parte per il tutto: così l’originario requisito della "medesimezza della condotta", da secoli fondamento della compensatio lucri cum damno, si trasformò nella "medesimezza del fatto", e questa a sua volta nella "medesimezza della fonte" tanto del lucro quanto del danno.
Ma è ovvio che altro è affermare che danno e lucro, per essere compensati, devono scaturire da una unica condotta del danneggiante, ben altro è sostenere che debbano scaturire dalla stessa causa. Mentre infatti la prima concezione ammetteva il concorso di cause, la seconda lo esclude. La regola applicata dall’orientamento tradizionale, in definitiva, non è affatto fondata sulla "dottrina tradizionale", come si pretenderebbe, ma costituisce anzi una deviazione dai principi di quella.
5.3.3. - Il terzo vulnus dell’orientamento tradizionale è un corollario del secondo: negando infatti l’operare della compensatio se non quando lucro e danno abbia per causa unica ed immediata la condotta del danneggiante, non si ammette l’operatività dell’istituto quando la vittima in conseguenza del fatto illecito abbia ottenuto un vantaggio patrimoniale in conseguenza d’una norma di legge (ad esempio, nel caso di percezione di benefici da parte di enti previdenziali, assicuratori sociali, pubbliche amministrazioni) o d’un contratto (ad esempio, nel caso di percezione di indennizzi assicurativi).
In questi casi, si afferma, il fatto illecito costituirebbe una mera occasione del lucro, e non la causa di esso, con conseguente esclusione della compensatio.
Questa opinione (oltre che tralatiziamente erronea nei presupposti storici da cui è desunta) è, soprattutto, incoerente:
(a) con la nozione di "causalità" che si è venuta sviluppando nella giurisprudenza di questa Corte ormai da molti anni in qua;
(b) sia coi principi generali della responsabilità civile.
(a.1.) E’ incoerente con la moderna nozione di causalità giuridica, che ha assunto a proprio fondamento il concetto di "regolarità causale", il quale - abbandonando la sottile, ma difficile distinzione tra "causa" ed "occasione" - ricorre, per affermare l’esistenza d’un nesso di causalità
giuridica tra condotta e danno, al criterio della condicio sine qua non, in forza del quale una condotta è causa di un evento tutte le volte che, senza la prima, il secondo non si sarebbe verificato.
Questa Corte, infatti, ha ripetutamente affermato che ai sensi dell’art. 1223 c.c. "tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato debbono considerarsi sue cause, abbiano essi agito in via diretta e prossima o in via indiretta e remota" (così Cass., 13 settembre 2000, n. 12103; nello stesso senso, tra le altre, Cass., 17 settembre 2013, n. 21255; Cass., 22 ottobre 2003, n. 15789); e che - come in precedenza già evidenziato
- "il nesso di causalità va inteso in modo da ricomprendere nel risarcimento anche i danni indiretti e mediati che si presentino come effetto normale secondo il principio della c.d. regolarità causale, con la conseguenza che, ai fini del sorgere dell’obbligazione di risarcimento, il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo" (Cass., 21 dicembre 2001, n. 16163, che si aggiunge alle pronunce innanzi citate).
Non è, dunque, corretto interpretare l’art. 1223 c.c. in modo asimmetrico e ritenere che "il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato" quando si tratta di accertare il danno, ed esigere al contrario che lo sia, quando si tratta di accertare il vantaggio per avventura originato dal medesimo fatto illecito.
(b.1.) La tesi secondo cui l’illecito sarebbe mera "occasione" del lucro, quando questo è ottenuto dalla vittima in virtù della legge o del contratto, collide infine coi principi generali della responsabilità civile.
Non vi è dubbio che nel rapporto tra assistito o assicurato e il soggetto obbligato al pagamento del beneficio (poniamo, un ente previdenziale o una compagnia assicurativa) il diritto al beneficio scaturisce dalla legge o dal contratto e l’illecito è mera condicio iuris per l’erogazione di esso. E’ nell’ambito di questo rapporto, dunque, che il fatto illecito può dirsi mera occasione o condicio iuris dell’attribuzione patrimoniale.
Ben diversa è la prospettiva se ci si pone nell’ottica del rapporto di diritto civile che lega vittima e responsabile.
In questo diverso rapporto giuridico si tratta di stabilire non già se il beneficio dovuto per legge o per contratto spetti o meno, ma di quantificare con esattezza le conseguenze pregiudizievoli dell’illecito. E per quantificare tali conseguenze dal punto di vista economico non può spezzarsi la serie causale e ritenere che il danno derivi dall’illecito e l’incremento patrimoniale no: per la semplice ragione che, senza il primo, non vi sarebbe stato il secondo.
Dunque, l’affermazione secondo cui l’illecito non sarebbe "causa" in senso giuridico delle attribuzioni erogate alla vittima per legge o per contratto non tiene conto dell’intrecciarsi dei due ordini di rapporti: quello tra danneggiato e terzo sovventore e quello tra danneggiato e danneggiante. Che l’illecito non sia "causa" dell’attribuzione patrimoniale è affermazione che potrà ammettersi forse nell’ambito del primo di tali rapporti, ma non certo nell’ambito del secondo.
5.3.4. - Il quarto vulnus dell’orientamento tradizionale è anch’esso di tipo sistematico e riguarda l’ipotesi in cui il lucro derivato dal sinistro consiste nella percezione d’un beneficio previdenziale od assicurativo.
L’orientamento che nega la compensatio tra il danno ed i benefìci erogati alla vittima dall’ente previdenziale o dall’assicuratore (non rileva se privato o sociale), infatti, finisce per abrogare
in via di fatto l’azione di surrogazione spettante (ex artt. 1203 e 1916 c.c. o in base alle singole norme previste dalla legislazione speciale) a quest’ultimo.
E’ noto infatti che limite oggettivo della surrogazione è il danno effettivamente causato dal responsabile, il quale non può mai essere costretto, per effetto dell’azione di surrogazione, a pagare due volte il medesimo danno: una al danneggiato, l’altra al surrogante (principio pacifico e consolidato: tra le tante, Cass.: n. 4642 del 27 aprile 1995; n. 8597 del 7 agosto 1991; n. 380
del 15 febbraio 1971).
Pertanto, una volta che il responsabile del sinistro sia costretto a pagare l’intero risarcimento senza tener conto del beneficio previdenziale od assicurativo percepito dalla vittima per effetto dell’illecito, non potrebbe poi essere costretto dall’ente previdenziale od assicurativo a rifondergli le somme da questo pagate alla vittima.
Questo risultato però cozza contro evidenti ragioni di diritto e di giustizia.
Quanto alle prime, l’orientamento tradizionale priva l’assicuratore o l’ente previdenziale d’un diritto loro espressamente attribuito dalla legge (tra gli altri, art. 1916 c.c., applicabile anche alle assicurazioni sociali in virtù del rinvio di cui all’art. 1886 c.c.; D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 10 e 11, con riferimento all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro; L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 42, comma 1, con riferimento alle prestazioni di malattia erogate dall’INPS).
Quanto alle seconde, l’orientamento tradizionale - privando l’ente previdenziale o l’assicuratore dell’azione di surrogazione - addossa alla fiscalità generale, e quindi alla collettività, un onere il cui peso economico serve non a ristorare la vittima, ma ad arricchirla: così posponendo di fatto l’interesse generale a quello individuale.
5.3.4.1. - Giova in ogni caso evidenziare che l’istituto della surrogazione e la stima del danno da fatto illecito non sono legati da alcun nesso di implicazione bilaterale.
Se le conseguenze del fatto illecito sono state eliminate dall’intervento d’un assicuratore (privato o sociale che sia), ovvero da un qualsiasi ente pubblico o privato, il pagamento da tale soggetto compiuto, se ha avuto per effetto o per scopo quello di eliminare le conseguenze dannose, andrà sempre detratto dal credito risarcitorio, a nulla rilevando nè che l’ente pagatore non abbia diritto alla surrogazione, nè che, avendolo, vi abbia rinunciato.
La detrazione dell’aliunde perceptum è infatti necessaria per la corretta stima del danno, non per evitare al danneggiante un doppio pagamento.
5.4. - Detto delle ragioni per le quali non sarebbe condivisibile l’orientamento tradizionale che ammette la compensatio lucri cum damno nei ristretti limiti sopra censurati, occorre ora stabilire se ed a quali condizioni il vantaggio patrimoniale scaturito da un fatto illecito vada imputato nel risarcimento, con conseguente riduzione di quest’ultimo di un importo pari al vantaggio.
5.4.1. - Che nella stima del danno risarcibile debba tenersi conto dei vantaggi economici procurati alla vittima dall’illecito è principio che discende dal c.d. "principio di indifferenza" del risarcimento.
Il principio di indifferenza è la regola in virtù della quale il risarcimento del danno non può rendere la vittima dell’illecito nè più ricca, nè più povera, di quanto non fosse prima della commissione dell’illecito.
Esso si desume da un reticolo di norme diverse.
Innanzitutto dall’art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento deve includere solo la perdita subita ed il mancato guadagno.
In secondo luogo dagli artt. 1909 e 1910 c.c., i quali assoggettano l’assicurazione contro i danni al c.d. principio indennitario e, di conseguenza, escludono che la vittima d’un danno possa cumulare il risarcimento e l’indennizzo.
Il principio in esame è, altresì, confermato indirettamente dall’art. 1224 c.c., comma 1, ultima parte: tale norma, stabilendo che nelle obbligazioni pecuniarie sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali "anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno", rende palese che, là dove il legislatore ha inteso derogare al principio di indifferenza, ha sentito la necessità di farlo in modo espresso.
Il principio indennitario è altresì desumibile da varie norme codicistiche che lo richiamano implicitamente: si considerino al riguardo le fattispecie previste dall’art. 1149 c.c.(che prevede la compensazione tra il diritto del proprietario alla restituzione dei frutti e l’obbligo di rifondere al possessore le spese per produrli); art. 1479 c.c. (che nel caso di vendita di cosa altrui prevede la compensazione tra il minor valore della cosa e il rimborso del prezzo,); art. 1592
c.c. (compensazione del credito del locatore per i danni alla cosa con il valore dei miglioramenti).
Anche varie previsioni contenute in leggi speciali confermano l’esistenza del principio in esame: ad esempio (e si tratta di disposizioni già citate) la L. n. 20 del 1994, art. 1, comma 1- bis, (compensazione del danno causato dal pubblico impiegato con i vantaggi conseguiti dalla pubblica amministrazione), o il D.P.R. n. 327 del 2011, art. 33, comma 2, (il quale in tema di espropriazione per pubblica utilità prevede la compensabilità del credito per l’indennità espropriativa col vantaggio arrecato al fondo).
Da tali disposizioni - e da molte altre analoghe - si desume l’esistenza d’un principio generale, secondo cui vantaggi e svantaggi derivati da una medesima condotta possono compensarsi anche se alla produzione di essi hanno concorso, insieme alla condotta umana, altri atti o fatti, ovvero direttamente una previsione di legge.
Corollario di questo principio è che il risarcimento non può creare in favore del danneggiato una situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non fosse avvenuto, immettendo nel suo patrimonio un valore economico maggiore della differenza patrimoniale negativa indotta dall’illecito.
5.4.1.1. - A queste conclusioni si obiettò in passato (e la ricorrente incidentale fa propria tale obiezione) che ammettere la compensatio in limiti così ampi solleverebbe il responsabile del danno dalle conseguenze di questo.
A prescindere dal rilievo che nella maggior parte dei casi di compensatio l’offensore non si sottrae affatto alle conseguenze dell’illecito, ma semplicemente cambia creditore (pagherà infatti, invece che la vittima a titolo di risarcimento, il terzo solvens a titolo di surrogazione: tuttavia, ciò non è stato nel caso di specie, ma sul punto si ritornerà più avanti), l’obiezione, ancorandosi ad una rigida concezione sanzionatoria dell’illecito, è, comunque, distonica rispetto al nostro sistema della responsabilità civile che, in linea generale, non assegna funzioni punitive al risarcimento del danno e non vede nel responsabile un reo da sanzionare (nè di vera e propria sanzione potrebbe mai parlarsi, al cospetto degli innumerevoli casi di responsabilità presunta od oggettiva previsti dall’ordinamento).
Il nostro diritto della responsabilità civile è, nel suo assetto generale, mirato sul danno, non sull’offensore: sicché, nella liquidazione del risarcimento, all’entità di questo deve guardarsi e non alla punizione del secondo.
5.4.2. - Essendo il risarcimento del danno governato dal principio di indifferenza, nella stima di esso deve tenersi conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall’illecito: sia in bonam, che in malam partem.
Nello stabilire quali siano le conseguenze dell’illecito, non può che applicarsi il principio di equivalenza causale, di cui all’art. 41 cod. pen., a norma del quale "il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento".
Nota è l’evoluzione della giurisprudenza di questa corte in merito all’applicazione di tale norma in materia di responsabilità civile: il nesso di causa sussiste - si è ripetutamente stabilito - quando, senza l’illecito, il danno non si sarebbe mai verificato (teoria della "regolarità causale": tra le molte, in particolare, Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576).
Il risarcimento spettante alla vittima dell’illecito andrà dunque ridotto in tutti i casi in cui, senza l’illecito, la percezione del vantaggio patrimoniale sarebbe stata impossibile.
Tale condizione ricorre in tutti i casi in cui il vantaggio dovuto alla vittima è previsto da una norma di legge che fa dell’illecito, ovvero del danno che ne è derivato, uno dei presupposti di legge per l’erogazione del beneficio.
Tale requisito sussisterà dunque di norma:
(a) rispetto al credito risarcitorio per danno biologico, quando la vittima di lesioni personali abbia percepito dall’INAIL l’indennizzo del danno biologico ai sensi del D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13;
(b) rispetto al credito risarcitorio per danno patrimoniale da incapacità lavorativa, quando la vittima di lesioni personali, avendo patito postumi permanenti superiori al 16%, abbia percepito dall’INAIL una rendita maggiorata, e limitatamente a tale maggiorazione;
(e) rispetto al credito risarcitorio per danno patrimoniale da perdita delle elargizioni ricevute da un parente deceduto, quando il superstite abbia percepito dall’INAIL la rendita di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 124, art. 66, comma 1, n. 4, ovvero una pensione di reversibilità.
Ciò vale, ovviamente, anche nel caso di assicurazione contro i danni, dove il beneficio (indennizzo) ha natura contrattuale, essendo però la legge (artt. 1904 c.c. e ss.) a tipizzare il contratto in funzione del "danno sofferto dall’assicurato in conseguenza del sinistro" (principio indennitario), limite coessenziale alla funzione stessa del contratto assicurativo, e rimosso il quale quest’ultimo degenererebbe in una scommessa.
5.4.3. - Corollario di quanto esposto è il superamento della concezione della compensatio come una regola da applicare dopo avere liquidato il danno, allo scopo di "evitare l’arricchimento". In realtà quando i procede alla aestimatio dei danni civili non ci sono affatto due operazioni da compiere (prima si liquida e poi si "compensa"). L’operazione è una soltanto e consiste nel sottrarre dal patrimonio della vittima ante sinistro il patrimonio della vittima residuato al sinistro. E se in tale operazione ci si imbatte in un vantaggio che sia conseguenza dell’illecito
non si dirà che per quella parte si sta "compensando" danno e lucro, ma si dirà che l’illecito non ha provocato danno.
I principi appena esposti sono gli unici coerenti col quadro normativo sopra illustrato e non sarà superfluo ricordare che la regola secondo cui nella stima del danno deve tenersi conto dei vantaggi realizzati dalla vittima, che siano conseguenza dell’illecito, risulta:
(a) condivisa dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, la quale ha affermato che in un giudizio di responsabilità l’eccezione di compensatio "non si può, in via di principio, considerare infondata" (Corte giust. CE, 4 ottobre 1979, Deutsche Getreideverwertung, in cause riunite C-241/78 ed altre);
(b) recepita dai principi Europei di diritto della responsabilità (Principles of European Tort Law
- PETL, art. 10:103, secondo cui "when determining the amount of damages benefits, which the injured party gains through the damaging event, are to be taken into account unless this cannot be reconciled with the purpose of the benefit"), i quali ovviamente non hanno valore normativo, ma costituiscono pur sempre un utile criterio guida per l’interprete.
5.5. - A quanto precede va soggiunta una ultima notazione, di carattere processuale.
La circostanza che la vittima abbia realizzato un vantaggio in conseguenza del fatto illecito, e che questo vantaggio abbia diritto od escluso il danno, non costituisce oggetto di una eccezione in senso stretto: essa infatti attiene alla stima del danno, e gli elementi costitutivi del danno sono rilevabili d’ufficio dal giudice.
Ne consegue che essa non soggiace all’onere di tempestiva allegazione, nè di tempestiva deduzione, secondo quanto stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., sez. un., 7 maggio 2013, n. 10531).
Tuttavia resta onere di chi invoca la compensatio dimostrarne il fondamento, ed in caso di insufficienza di prova (sull’an del vantaggio ottenuto dalla vittima, od anche solo sul quantum di esso), le conseguenza di essa ricadranno sul convenuto, che resterà tenuto al risarcimento integrale (cfr. Cass., 24 settembre 2014, n. 20111 e Cass., 10 maggio 2016, n. 9434).
5.6. - Quanto, poi, ai profili più strettamente attinenti al problema del cumulo tra indennizzo dovuto in forza di un contratto di assicurazione contro i danni e risarcimento dovuto dal terzo responsabile dell’evento dannoso (che concerne più da vicino il caso in esame), alle già esposte considerazioni di carattere generale e di sistema occorre soggiungere - a fronte degli argomenti spesi dalla parte ricorrente incidentale - talune puntualizzazioni.
A tal riguardo, il Collegio ritiene di porre in rilievo gli argomenti espressi da Xxxx., 11 giugno 2014, n. 13233, che si pongono in linea con le coordinate sopra delineate e da esse sono, a loro volta, confortati.
5.6.1. - Un prima precisazione attiene al profilo del pagamento dei premi assicurativi.
Non sembrerebbe potersi affermare, anzitutto, che, avendo l’assicurato pagato i premi, egli avrebbe comunque diritto all’indennizzo in aggiunta al risarcimento, altrimenti il pagamento dei premi sarebbe sine causa.
Il pagamento del premio, infatti, non è mai sine causa, perchè al momento in cui viene effettuato sussiste l’obiettiva incertezza sul verificarsi del sinistro e sulla solvibilità del responsabile.
Invero, il pagamento del premio è in sinallagma col trasferimento del rischio e non con il pagamento dell’indennizzo, tanto è vero che se alla scadenza del contratto il rischio non si è verificato, il premio resta ugualmente dovuto.
Il rapporto sinallagmatico che si istituisce soltanto tra pagamento del premio e trasferimento del rischio esclude, altresì, che detto pagamento rappresenti una posta patrimoniale risarcibile, ai sensi dell’art. 1223 c.c., in conseguenza dell’evento dannoso che fa sorgere, al tempo stesso, il diritto all’indennizzo assicurativo ed al risarcimento del danno (non cumulabili tra loro).
Del resto, se fosse sufficiente pagare il premio per cumulare indennizzo e risarcimento, e quindi trasformare il sinistro in una occasione di lucro, allora si dovrebbe conseguentemente ammettere che il contratto concluso non è più un’assicurazione, ma una scommessa, nella quale puntando una certa somma (il premio) lo scommettitore può ottenere una remunerazione complessiva assai superiore al danno subito.
Un siffatto mutamento causale del contratto da assicurazione a scommessa troverebbe conferma, peraltro, anche nella circostanza per cui la possibilità di cumulare indennizzo e risarcimento darebbe luogo, in teoria, ad un interesse positivo dell’assicurato all’avverarsi del sinistro, venendo così meno sia il requisito strutturale-funzionale del rischio (che, ai sensi dell’art. 1895 c.c., deve configurarsi come la possibilità di avveramento di un evento futuro, incerto, xxxxxxx e non voluto), sia il fondamentale requisito d’un interesse dell’assicurato contrario all’avverarsi del sinistro, desumibile dall’art. 1904 c.c..
5.6.2. - Una seconda precisazione riguarda il profilo della surroga dell’assicuratore, nel caso in cui - come nella specie - quest’ultimo non abbia manifestato la volontà di avvalersene nei confronti del responsabile, ex art. 1916 c.c..
A tal fine, si deve ribadire che la surrogazione dell’assicuratore non interferisce in alcun modo con il problema dell’esistenza del danno e, quindi, col principio indennitario.
E’, infatti, indifferente la rinuncia o meno dell’assicuratore alla surroga, perchè non può essere risarcito il danno inesistente ab origine o non più esistente; e il danno indennizzato dall’assicuratore è un danno che ha cessato di esistere dal punto di vista giuridico, dal momento in cui la vittima ha percepito l’indennizzo e fino all’ammontare di quest’ultimo.
Del resto, la surrogazione ex art. 1916 c.c. costituisce, secondo la giurisprudenza unanime, una successione a titolo particolare dell’assicuratore nel diritto dell’assicurato e, quindi, perchè il diritto si trasferisca, è necessario che esso sia perso dall’assicurato ed acquistato dall’assicuratore.
Tuttavia, l’estinzione del diritto al risarcimento in capo all’assicurato avviene per effetto del solo pagamento e non per effetto della surrogazione, la quale, semmai, è un effetto dell’estinzione e non la causa di essa.
Pertanto, l’effetto estintivo, prodotto dal pagamento, è indifferente alle vicende del diritto di surrogazione da parte dell’assicuratore. Questi, rinunciando alla surrogazione sin dal momento della stipula del contatto, dispone di un proprio diritto (futuro) e non dell’altrui e tale atto di disposizione non muta l’effetto estintivo del pagamento.
In altri termini, la percezione dell’indennizzo, da parte del danneggiato, elide in misura corrispondente il suo credito risarcitorio nei confronti del danneggiante, che pertanto si estingue e non può essere più preteso, nè azionato.
Se così non fosse, il danneggiato avrebbe un interesse positivo al realizzarsi del sinistro, il che
- come detto - contrasta insanabilmente con il principio indennitario e con la "neutralità" dell’intervento dell’assicuratore rispetto alle condizioni patrimoniali dell’assicurato in epoca anteriore al sinistro.
Dunque, se l’assicuratore della vittima abbia rinunciato alla surrogazione, ovvero non abbia ancora manifestato l’intenzione di esercitarla al momento in cui il danneggiato pretende il risarcimento dal responsabile (pur avendo corrisposto l’indennizzo), è circostanza irrilevante ai fini del problema. Ed infatti, a prescindere dalla circostanza se la surrogazione dell’assicuratore operi ipso iure o per effetto di una apposita denuntiatio, è dirimente osservare che non sussiste alcun nesso di implicazione reciproca tra il diritto di surrogazione ed il divieto di cumulo tra indennizzo e risarcimento. Il primo, infatti, costituisce una modificazione soggettiva dell’obbligazione, finalizzata ad evitare il depauperamento dell’assicuratore, e che può mancare senza che il contratto di assicurazione perda la sua natura; l’altro è un principio che attiene al nucleo causale del contratto di assicurazione e la cui mancanza finisce inevitabilmente per trasformare quest’ultimo in un contratto diverso.
Del resto, le sezioni unite di questa Corte (sentenza n. 5119 del 10 aprile 2002) hanno escluso la possibilità per l’assicurato di cumulare più indennizzi che, complessivamente, eccedano l’ammontare del danno patito; sicchè, se non possono cumularsi più indennizzi, a maggior ragione non può ritenersi possibile cumulare indennizzi e risarcimento.
5.9. - In conclusione, si ripropone, ai fini della rimessione ex art. 374 c.p.c., il quesito iniziale: "se nella liquidazione del danno debba tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito, ad esempio percependo emolumenti versatigli da assicuratori privati (come nella specie), da assicuratori sociali, da enti di previdenza, ovvero anche da terzi, ma comunque in virtù di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante".
Quesito, dunque, che in sè pone anche l’interrogativo sul se la c.d. "compensatio lucri cum damno" (così icasticamente denominato il meccanismo liquidatorio anzidetto) possa operare come regola generale del diritto civile ovvero in relazione soltanto a determinate fattispecie.
P.Q.M.
Rimette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile della Corte suprema di Cassazione, in data 5 dicembre 2016 e, a seguito di riconvocazione, in data 6 giugno 2017. Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2017.
LA LESIONE DEL DIRITTO ALLA PROCREAZIONE COSCIENTE E RESPONSABILE
(Relatore: Xxxxxxxx Xxxxxx)
Cass., 11 aprile 2017, n. 9251
Posto che la mancanza della mano sinistra del nascituro non è una malformazione idonea a determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, necessario per fa luogo all’interruzione della gravidanza dopo i primi novanta giorni dal suo inizio, non può derivare alcun danno risarcibile dall’omessa diagnosi dell’anomalia fetale da parte dei medici, in occasione dell’ecografia morfologica effettuata dopo il suddetto termine.
FATTO
Con sentenza del 2/5/2011 la Corte d’Appello di Milano ha respinto il gravame interposto dai sigg. Z.L. e P.V. in relazione alla pronunzia Trib. Monza 15/10/2007, di rigetto della domanda dai medesimi proposta - in proprio e quali legali rappresentanti del figlio minore Xx. - nei confronti della sig. M.A. e della società Centro Politerapico s.r.l. di risarcimento dei danni lamentati in conseguenza della mancata rilevazione da parte della prima, in sede di ecografia morfologica eseguita presso quest’ultima il (OMISSIS) nel corso della 21^ settimana di gravidanza della Z., della malformazione del nascituro, venuto alla luce il (OMISSIS) "completamente privo della mano sinistra".
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito i sigg. Z. e P., in proprio e nella qualità, propongono ora ricorso per cassazione, affidato a 4 motivi, illustrati da memoria.
Resiste con controricorso la M., che ha presentato anche memoria. L’altra intimata non ha svolto attività difensiva.
DIRITTO
Con il 1^ motivo i ricorrenti denunziano "violazione e falsa applicazione" della L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b).
Si dolgono che, nel riprendere le "palesemente illogiche e contraddittorie" argomentazioni della CTU, la corte di merito abbia escluso la sussistenza nella specie di una situazione idonea a legittimare l’eventuale scelta di interruzione della gravidanza erroneamente ritenendo che il grave pericolo per la salute psichica della donna debba coincidere con il "rischio suicidario con un’approssimazione vicina al 100%", laddove il "grave pericolo per la vita della donna è il presupposto richiesto dalla L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. a, ed è anche il requisito previsto dal successivo art. 7, comma 3 qualora il feto abbia possibilità di vita autonoma; ma non è affatto condizione per l’applicabilità del’art. 6, lett. b)".
Con il 2 motivo denunziano "violazione e falsa applicazione" degli artt. 1218, 1223 e 1225 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si dolgono che la corte di merito abbia erroneamente basato la decisione sul "mancato soddisfacimento di un onere probatorio di certezza assoluta con approssimazione al 100%", laddove "il criterio della certezza degli effetti della condotta omessa è stato espressamente abbandonato in favore di quello della probabilità degli stessi e dell’idoneità della condotta a