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Obbligazioni pecuniarie, solidali e di garanzia.
Indice
1. LA NUOVA ESSENZA VALORISTICA DELLE OBBLIGAZIONI PECUNIARIE (SU ASSEGNO CIRCOLARE): Xxxx. Sez. Un. 18 dicembre 2007, n. 26617
2. ANCORA SULLA NATURA DELLE OBBLIGAZIONI PECUNIARIE E SL LUOGO DI ADEMPIMENTO. LA RISPOSTA DELLE SEZIONI UNITE. Cass. Sezioni Unite, sentenza del 13 settembre 2016, n. 17989
3. IL NUOVO REGIME PROBATORIO DI CUI ALL'ARTICOLO 1224, COMMA 2 C.C.
3.1 Cass. Sez. Un. 16 luglio 2008, n. 19499
3.2 Cass.24 gennaio 2014, n.1506
4. LE SEZIONI UNITE FANNO IL PUNTO SULL'ANATOCISMO: Xxxx. Sez. Un. 4 novembre 2004, n.21095
5. Art. 120 del Testo Unico bancario ( d.lgs. 1 settembre 21993, n. 285) modificato dal decreto- legge 14 febbraio 2016, n. 18, convertito con modificazioni dalla legge 8 aprile 2016, n. 49.
6. USURA, INTERESSI MORATORI E USURA SOPRAVVENUTA
6.1 Corte di cassazione III civ. 9397 del 10.05.2016
6.2 Tribunale Savona 10 marzo 2016
6.3 Tribunale di Benevento 30 dicembre 2015
6.4 Cass. 9 gennaio 2013, n. 350
6.5 Trib. Parma 25 luglio 2014
6.6 Trib. Napoli 15 aprile 2014
7. OBBLIGAZIONI SOLIDALI E CONDOMINIO
7.1 Cass. Sez. Un. 8 aprile 2008 n.9148
7.2 Cass. 29 gennaio 2015, n. 1674
8. LE SEZIONI UNITE SULLE OBBLIGAZIONI SOLIDALI IN TEMA DI ILLECITO AQUILANO: Xxxx. Sez. Un. 15 luglio 2009, n. 16503
9. TRANSAZIONE E OBBLIGAZIONI SOLIDALI: Xxxx. Sez. Un. 30 dicembre 2011, n. 30174
10. LE COORDINATE DEL CONTRATTO AUTONOMO DI GARANZIA: Xxxx. Sez. Un. 18 febbraio 2010, n. 3947
Selezione giurisprudenziale
1. LA NUOVA ESSENZA VALORISTICA DELLE OBBLIGAZIONI PECUNIARIE (SU ASSEGNO CIRCOLARE): Xxxx. Sez. Un. 18 dicembre 2007, n. 26617
Nelle obbligazioni pecuniarie, il cui importo sia inferiore a 12.500 euro o per le quali non sia imposta per legge una diversa modalità di pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta, in moneta avente corso legale nello Stato o mediante consegna di assegno circolare; nel primo caso il creditore non può rifiutare il pagamento, come, invece, può nel secondo solo per giustificato motivo da valutare secondo la regola della correttezza e della buona fede oggettiva; l'estinzione dell'obbligazione con l'effetto liberatorio del debitore si verifica nel primo caso con la consegna della moneta e nel secondo quando il creditore acquista concretamente la disponibilità giuridica della somma di denaro, ricadendo sul debitore il rischio dell'inconvertibilità dell'assegno.
2. Il motivo pone la questione se nelle obbligazioni pecuniarie abbia efficacia estintiva solo il pagamento in moneta contante, oppure anche mediante consegna di assegni circolari.
La questione si risolve in quella se il creditore possa rifiutare senza giustificato motivo il pagamento che il debitore intenda effettuare con assegni circolari e pretendere che avvenga con la corresponsione di denaro contante, pena l'inadempimento e gli effetti conseguenti di "mora debendi".
Il tema dell'indagine è quindi il carattere obbligatorio della modalità del pagamento con dazione di moneta avente corso legale e correlativamente la rifiutabilità di mezzi alternativi di pagamento.
(omissis)
3. Secondo l'orientamento largamente prevalente nella giurisprudenza di questa Corte l'invio di assegni circolari o bancari da parte del debitore obbligato al pagamento di somme di denaro si configura come "datio in solutum" o più precisamente come proposta di "datio pro solvendo", la cui efficacia liberatoria dipende dal preventivo assenso del creditore (che può manifestarsi anche con comportamento concludente) ovvero dalla sua accettazione che è ravvisabile quando trattenga e riscuota l'assegno; in tale ipotesi la prestazione diversa da quella dovuta è da ritenere accettata con riserva, quanto al definitivo effetto liberatorio, dell'esito della condizione "salvo buon fine" o "salvo incasso" inerente all'accettazione di un credito anche cartolare, in pagamento dell'importo dovuto in numerario.
3.1. L'orientamento risale alla sentenza 22.7.1973, n. 2200, ed è stato seguito dalle sentenze (omissis)
La sua più completa espressione è nella sentenza 10.6.2005, n. 12324, il cui "iter" argomentativo si articola nelle seguenti proposizioni.
Il dato letterale dell'art. 1277, comma 1, c.c. comporta che i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale; sebbene l'assegno sia bancario che circolare costituisca, a differenza della cambiale, mezzo di pagamento, la consegna o trasmissione di esso, salva diversa volontà delle parti, si intende fatta "pro solvendo" e non "pro soluto" con esclusione dell'immediato effetto estintivo del debito; l'invio di assegno circolare in luogo della somma di denaro configura violazione sia degli artt. 1277 e 1197 c.c. (rappresentando una "datio pro solvendo" in assenza di consenso del creditore) che dell'art. 1182 c.c. (secondo il quale l'obbligazione avente ad oggetto denaro deve essere adempiuta al domicilio del creditore) in quanto comporta la sostituzione del domicilio del creditore con la sede dell'istituto bancario presso cui è riscuotibile l'assegno; l'art. 1277 c.c. è norma derogabile che cessa di operare, rendendo inapplicabile il principio secondo cui il creditore di somme di denaro non è tenuto ad accettare in pagamento titoli di credito anche se assistiti da particolari garanzie di solvibilità dell'emittente come gli assegni circolari, quando esista una manifestazione di volontà espressa o presunta del creditore in tale senso; non si può ritenere che la consegna di assegni circolari, pur non equivalendo al pagamento
in contanti, estingue l'obbligazione quando il rifiuto del creditore appare contrario alle regole di correttezza che gli impongono di prestare la sua collaborazione ai sensi dell'art. 1175 c.c. in quanto la collaborazione è dovuta solo per ricevere l'oggetto della prestazione e non un oggetto diverso; i principi sopra esposti valgono se il debito pecuniario non supera l'importo di euro 12.500; se lo supera vige una particolare disciplina (d.l. 143/1991 convertito in L. 197/1991) che conserva, tuttavia, piena valenza all'art. 1227.
3.2. Il concetto fondamentale è che l'adempimento dell'obbligazione pecuniaria avviene attraverso il trasferimento della moneta contante attuato con la consegna materiale di pezzi monetari nelle mani del creditore.
L'obbligazione pecuniaria è assimilata al debito di dare una quantità di cose fungibili (i pezzi monetari).
(omissis)
4. Secondo altro orientamento assolutamente minoritario nella giurisprudenza di questa Corte la consegna di assegni circolari, pur non equivalendo a pagamento a mezzo somme di denaro, estingue l'obbligazione quando il rifiuto del creditore appare contrario alle regole di correttezza che gli impongono di prestare collaborazione all'adempimento dell'obbligazione a norma dell'art. 1175 c.c. (omissis)
L'orientamento è motivato considerando che gli assegni circolari in ragione delle modalità di emissione assicurano al legittimo portatore il conseguimento della somma di denaro indicata. Sebbene essi non siano denaro né possano svolgerne la funzione, la facilità della circolazione e la sicurezza della convertibilità in denaro possono rendere contrario a buona fede e quindi illegittimo il loro rifiuto da parte del creditore.
Pertanto, se il creditore non ha un apprezzabile interesse a ricevere il denaro contante né ha ragione di dubitare della regolarità ed autenticità degli assegni, la consegna di essi estingue l'obbligazione di pagamento sia pure con la clausola implicita del buon fine.
L'obiezione che il creditore deve recarsi presso la banca per riscuotere l'assegno, mentre di regola ha diritto di ricevere la prestazione al suo domicilio, è superata con il riferimento alla crescente considerazione sociale degli assegni circolari e con il fatto che normalmente il creditore ha un conto bancario sul quale deposita denaro e titoli.
4.1. La valutazione si sposta dal comportamento del debitore a quello del creditore ed ha come oggetto la verifica della legittimità del rifiuto del pagamento a mezzo assegno circolare alla luce del principio della correttezza e della buona fede oggettiva.
Il principio, desunto dall'art. 1175 (che impone l'obbligo di comportarsi secondo le regole della correttezza) e dall'art. 1375 c.c. (che stabilisce che il contratto deve essere eseguito secondo buona fede), costituisce il limite oltre il quale il rifiuto del creditore diventa illegittimo ed il pagamento con assegno circolare spiega efficacia solutoria salvo buon fine.
Con tale impostazione si introduce nel meccanismo estintivo dell'obbligazione pecuniaria il principio della correttezza e della buona fede nella prospettiva di adeguare il dato normativo alle esigenze della realtà concreta dove la circolazione del denaro a mezzo assegni circolari garantisce maggiore sicurezza e celerità, svincolandola da un aggancio a substrati fisici.
4.2. (omissis)
Condivide l'orientamento minoritario la sentenza 19.12.2006, n. 27158, secondo la quale, se è vero che la consegna di un assegno circolare al creditore non equivale alla consegna di denaro contante, è altrettanto vero che, costituendo l'assegno circolare un mezzo di pagamento e non sussistendo alcun pericolo di mancanza della provvista presso la banca obbligata al pagamento, la "datio" di tale assegno secondo gli usi negoziali, come è prassi per i pagamenti delle società di assicurazione o, comunque, come accettata dal creditore, è sicuramente idonea ad estinguere l'obbligazione senza che occorra un preventivo accordo delle parti in tale senso o il rilascio di una quietanza liberatoria.
5. Nella dottrina più recente prevale la tesi che la regola, secondo la quale il denaro contante è l'unico mezzo legale di pagamento delle obbligazioni pecuniarie, va "scardinata" e va riconosciuta efficacia solutoria a mezzi
alternativi di pagamento che eliminano il trasferimento materiale di moneta, come l'assegno circolare, dovendosi intendere per "somma di denaro" la funzione ideale del mezzo monetario.
(omissis)
L'idea di fondo è la smaterializzazione del denaro con trasformazione del diritto reale sui pezzi monetari in diritto di credito ad una determinata somma di denaro.
Nella prospettiva della smaterializzazione il principio nominalistico (in base al quale il debitore si libera dal proprio debito con una quantità di moneta corrispondente a quella "nominalmente" dovuta a prescindere dalle variazioni del suo potere di acquisto) riguarda la disciplina dei mezzi di pagamento e, cioè, la determinazione della quantità della somma da offrire in pagamento e non la qualità dei mezzi di pagamento.
La linea di tendenza è verso l'eliminazione degli spostamenti di moneta contante, oltre che per esigenze di semplificazione della tecnica dei pagamenti (evitando l'impiego di notevoli quantità di numerario), perché la custodia, la circolazione e lo scambio attraverso moneta contante sono valutati inefficienti ed insicuri specialmente per importi rilevanti.
L'adempimento dell'obbligazione pecuniaria è inteso non come atto materiale di consegna della moneta contante, bensì come prestazione diretta all'estinzione del debito, nella quale le parti debbono collaborare osservando un comportamento da valutare per il creditore secondo la regola della correttezza e per il debitore secondo la regola della diligenza.
Ove avvenga con mezzi diversi, l'adempimento si può considerare efficace e liberatorio solo quando realizza i medesimi effetti del pagamento per contanti e, cioè, quando pone il creditore nelle condizioni di disporre liberamente della somma di denaro, senza che rilevi se la disponibilità sia riconducibile ad un rapporto di credito verso una banca presso la quale la somma sia stata accreditata.
Si è osservato che nell'ordinamento manca una regola di parificazione della moneta avente corso legale a quella scritturale; tale regola si può, però, desumere da un'abbondante legislazione speciale che si inserisce nella generale tendenza alla decodificazione caratteristica dell'epoca attuale.
6.1. Nell'interpretazione della normativa codicistica sul sistema di pagamento dei debiti pecuniari non si può prescindere dai numerosi interventi legislativi infittitisi negli ultimi tempi che hanno introdotto sistemi alternativi, rendendoli frequentemente obbligatori.
In questo ambito assumono particolare rilievo il d.l. 3.5.1991, n. 143, convertito con modificazioni in L. 5.7.1991,
n. 197, che pone il divieto di effettuare pagamenti mediante trasferimento di denaro contante e titoli al portatore per somme superiori ad euro 12.500, ed il d. l. 4.7.2006, n. 223, convertito con modificazioni in L. 4.8.2006, n. 248, secondo cui i compensi in denaro per l'esercizio di arti e professioni sono riscossi esclusivamente mediante assegni non trasferibili o bonifici o altre modalità di pagamento bancario o postale nonché mediante sistemi di pagamento elettronici, salvo che per importi inferiori ad euro 100.
A seguito di questi interventi l'area di applicazione della normativa codicistica si è a tal punto ristretta che il sistema di pagamento da essa previsto è diventato addirittura marginale.
(omissis)
6.2. La disciplina del sistema codicistico di pagamento delle obbligazioni pecuniarie è contenuta negli artt. 1277, 1182, 1197 c.c.
6.3. Come già detto, l'interpretazione dell'art. 1277 privilegiata dalla prevalente giurisprudenza di questa Corte è che i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato ed il creditore può rifiutare qualsiasi altro mezzo di pagamento, compreso l'assegno circolare che pure è assistito da una particolare affidabilità e sicurezza in relazione alle modalità di emissione.
In dottrina si è osservato che l'art. 1277 non riguarda le modalità di pagamento, ma il sistema valutario nazionale e la necessità, quindi, che i mezzi monetari impiegati si riferiscano ad esso, evidenziando che secondo la concezione moderna il denaro è unità ideale di valore cui l'ordinamento attribuisce la funzione di unità di misura dei valori monetari o secondo una concezione più raffinata "ideal unit", astratta unità ideale monetaria creata dallo Stato.
6.4. Considerato che nell'ambiente socio-economico l'assegno circolare e quello bancario costituiscono mezzi normali di pagamento; che la circolazione del denaro tende a realizzarsi con strumenti sempre più
sofisticati affrancati dalla consegna materiale di numerario per ragioni di sicurezza e velocizzazione dei rapporti; che collateralmente alla disciplina codicistica è cresciuta una legislazione che ha introdotto sistemi alternativi di pagamento, rendendoli spesso obbligatori, si impone un'interpretazione evolutiva, costituzionalmente orientata, dell'art. 1277 che superi il dato letterale e, cogliendone l'autentico senso, lo adegui alla mutata realtà.
6.5. Si ritiene, pertanto, che l'espressione "moneta avente corso legale nello Stato al momento del pagamento" significa che i mezzi monetari impiegati si debbono riferire al sistema valutario nazionale, senza che se ne possa indurre alcuna definizione della fattispecie del pagamento solutorio.
Ed in altri termini la moneta avente corso legale non è l'oggetto del pagamento che è rappresentato dal valore monetario o quantità di denaro.
6.6. Con questa interpretazione dell'art. 1277 risultano ammissibili altri sistemi di pagamento, purché garantiscano al creditore il medesimo effetto del pagamento per contanti e, cioè, forniscano la disponibilità della somma di denaro dovuta.
Tale effetto sicuramente produce l'assegno circolare con il quale, stante la precostituzione della provvista, tramite l'intermediazione di una banca si realizza il trasferimento della somma di denaro con la messa a disposizione del creditore.
Il rischio di convertibilità e, cioè, l'eventualità che per qualsiasi ragione la banca non sia in grado di assicurare la conversione dell'assegno in moneta legale rimane a carico del debitore, il quale si libera solo con il buon fine dell'operazione.
6.7. Occorre precisare che lo schema della "datio pro solvendo" con l'applicazione della regola stabilita dall'art. 1197 c.c. rimane estraneo all'impiego del mezzo alternativo di adempimento in quanto la moneta avente corso legale non è l'oggetto del pagamento, costituito dal valore monetario o quantità di denaro, per cui tale mezzo non è niente altro che una diversa modalità di adempimento.
Diversamente opinando, si perverrebbe alla inaccettabile conclusione che sistemi diversi di pagamento, imposti per somme superiori a 12.500 euro, non siano ammessi per somme inferiori.
6.8. La raggiunta conclusione non trova ostacolo nell'art. 1182 c.c. sul luogo dell'adempimento.
Vale in proposito considerare che l'obbligazione pecuniaria non è assimilabile all'obbligazione di dare cose fungibili, sicché non risulta perfettamente adattabile lo schema di tale tipo di obbligazione, mentre assume rilevanza l'interesse del creditore alla giuridica disponibilità della somma invece che al possesso dei pezzi monetari.
In questa prospettiva il concetto di domicilio del creditore non coincide con il suo domicilio anagrafico soggettivamente riconducibile alla persona fisica, ma deve essere oggettivizzato e può individuarsi nella sede (filiale, agenzia o altro) della banca presso la quale il creditore ha un conto.
6.9. Mentre se il debitore paga in moneta avente corso legale il debito pecuniario di importo inferiore ad euro
12.500 o per il quale non sia imposta una diversa modalità di pagamento, il creditore non può rifiutare il pagamento e l'effetto liberatorio si verifica al momento della consegna della somma di denaro, se il debitore paga con assegno circolare o con altro sistema che assicuri ugualmente la disponibilità della somma dovuta, il creditore può rifiutare il pagamento solo per giustificato motivo che deve allegare ed all'occorrenza anche provare; in questo caso l'effetto liberatorio si verifica quando il creditore acquista la concreta disponibilità della somma.
La valutazione del comportamento del creditore va fatta in base alla regola della correttezza e della buona fede oggettiva.
7. Il contrasto va, pertanto, risolto nel senso che "nelle obbligazioni pecuniarie, il cui importo sia inferiore a
12.500 euro o per le quali non sia imposta per legge una diversa modalità di pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta, in moneta avente corso legale nello Stato o mediante consegna di assegno circolare; nel primo caso il creditore non può rifiutare il pagamento, come, invece, può nel secondo solo per giustificato motivo da valutare secondo la regola della correttezza e della buona fede oggettiva; l'estinzione dell'obbligazione con l'effetto liberatorio del debitore si verifica nel primo caso con la consegna della moneta e nel secondo quando il creditore acquista concretamente la disponibilità giuridica della somma di denaro, ricadendo sul debitore il rischio dell'inconvertibilità dell'assegno".
2. ANCORA SULLA NATURA DELLE OBBLIGAZIONI PECUNIARIE E SL LUOGO DI ADEMPIMENTO. LA RISPOSTA DELLE SEZIONI UNITE. Cass. Sezioni Unite, sentenza del 13 settembre 2016, n. 17989
Con ordinanza n. 23527 del 17 novembre del 2015, era stata rimessa alle Sezioni Unite la questione inerente l’individuazione del luogo di adempimento di un’obbligazione pecuniaria nel caso in cui il contratto fonte non predetermini l’importo del corrispettivo.
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n. 17989 del 2016, aderendo all’orientamento tradizionale ha affermato che le obbligazioni pecuniarie da adempiersi al domicilio del creditore, ai sensi dell’art. 1182, comma 3, c.c., sono esclusivamente quelle liquide delle quali, cioè, il titolo determini l’ammontare, oppure indichi i criteri per determinarlo senza lasciare alcun margine di scelta discrezionale, e i presupposti della liquidità sono accertati dal giudice, ai fini della competenza, allo stato degli atti, secondo quanto dispone l’art. 38 u.c. c.p.
(Omissis)
Secondo l'ordinanza di rimessione della Sesta Sezione, il contrasto di giurisprudenza da dirimere attiene al concetto di obbligazione pecuniaria rilevante ai sensi dell'art. 1182, terzo comma, c.c. e sussiste tra:
a) un primo orientamento (per il quale l'ordinanza menziona Cass. 22326/2007) secondo cui, ove la somma di danaro oggetto dell'obbligazione debba essere ancora determinata dalle parti o, in loro sostituzione, liquidata dal giudice mediante indagini ed operazioni diverse dal semplice calcolo aritmetico, trova applicazione il quarto comma dell'art. 1182, secondo cui l'obbligazione deve essere adempiuta al domicilio che il debitore ha al tempo della scadenza;
b) un secondo orientamento (al quale vengono ricondotte Cass. 7674/2005, 12455/2010, 10837/2011, richiamate nel ricorso per regolamento e nella requisitoria scritta del P.M.) secondo cui il forum destinatae solutionis previsto dal terzo comma dell'art. 1182 è applicabile in tutte le cause aventi ad oggetto una somma di denaro qualora l'attore abbia richiesto il pagamento di una somma determinata, non incidendo sulla individuazione della competenza territoriale la maggiore o minore complessità dell'indagine sull'ammontare effettivo del credito, che attiene esclusivamente alla successiva fase di merito.
L'ordinanza evidenzia che, secondo quest'ultimo orientamento, è irrilevante che la prestazione richiesta non sia convenzionalmente prestabilita, essendo sufficiente che l'attore abbia agito per il pagamento di una somma da lui puntualmente indicata. (omissis)
3. — Può osservarsi anzitutto che il contrasto non riguarda la necessità del requisito della liquidità affinché un'obbligazione pecuniaria debba essere adempiuta al domicilio del creditore (requisito in realtà non espressamente previsto dalla legge, tanto che in dottrina non è mancato chi ne ha ritenuto la natura puramente pretoria); riguarda piuttosto il modo di intendere tale requisito. In effetti nella giurisprudenza di legittimità non è stato mai messo in discussione che obbligazioni pecuniarie "portabili", ai sensi del terzo comma dell'art. 1182 c.c., sono soltanto quelle liquide, essendo assolutamente consolidato il principio che detta disposizione si riferisce alle sole obbligazioni pecuniarie derivanti da titolo convenzionale o giudiziale che ne abbia stabilito la misura, trovando altrimenti applicazione la regola di cui al quarto comma, per la quale la prestazione va eseguita al domicilio del debitore (i precedenti sono numerosissimi, ci si limita a segnalarne alcuni: Cass. 391/1966, 3422/1972, 2591/1997, 21000/2011), precisandosi che la liquidità sussiste anche nel caso in cui l'ammontare del credito può essere determinato con un semplice calcolo aritmetico e senza indagini od operazioni ulteriori (a Cass. 22326/2007, già richiamata nell'ordinanza di rimessione, si aggiungano, tra le altre, Cass. 3422/1971, 3538/1995, 3808/1999, 4511/2001, 10226/2001, 7021/2002, 9092/2004, 22306/2007) in base a quanto risulta dal titolo. Si è altresì precisato che sulla determinazione del forum destinatae solutionis a norma degli artt. 1182,
terzo comma, c.c. e 20, seconda parte, c.p.c. non può influire l'eccezione del convenuto che neghi l'esistenza dell'obbligazione, perché il principio stabilito dall'art. 10 c.p.c. per la determinazione della competenza per valore
— secondo il quale il collegamento tra il giudice e la controversia è determinato in base alla domanda — è una regola di portata generale e quindi applicabile anche ai criteri stabiliti per determinare la competenza territoriale per le cause relative a diritti di obbligazione, ai sensi dell'art. 20 c.p.c., sui quali perciò non influisce la fondatezza o meno della domanda (…).
(omissis). 4. — Ritengono queste Sezioni Unite che il contrasto così determinatosi rispetto all'orientamento, in precedenza costante, che richiedeva la effettiva liquidità dell'obbligazione, in base al titolo, ai fini della qualificazione dell'obbligazione stessa come portabile, per gli effetti di cui al combinato disposto degli artt. 1182, terzo comma, c.c. e 20 c.p.c., vada risolto confermando l'orientamento tradizionale.
4.1. — Tra le obbligazioni pecuniarie, invero, quelle illiquide hanno una particolarità: ai fini dell'adempimento del debitore è necessario un passaggio ulteriore, è necessario cioè un ulteriore titolo, convenzionale o giudiziale. Questa particolarità non è indifferente rispetto alla disciplina di tale categoria di obbligazioni. Si consideri che la nozione di obbligazione portabile, di cui all'art. 1182, terzo comma, c.c., rileva non soltanto ai fini dell'individuazione del forurn destinatae solutionis contemplato dall'art. 20, seconda parte, c.p.c., ma anche ai fini del prodursi della mora ex re ai sensi dell'art. 1219, secondo comma, n. 3, c.c., che esclude la necessità della costituzione in mora «quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore», come appunto stabilito per le obbligazioni pecuniarie dall'art. 1182, terzo comma, cit.
La Corte nega che la mora ex re si verifichi anche per le obbligazioni pecuniarie illiquide (Cass. 535/1999, 9092/2004). Se tra le obbligazioni pecuniarie "portabili" contemplate da tale disposizione rientrassero quelle illiquide, la mora — e con essa la responsabilità ai sensi dell'art. 1224 c.c. — scatterebbe automaticamente anche a carico del debitore la cui prestazione non sia in concreto possibile perché l'ammontare della sua prestazione è ancora incerto: il che sarebbe ingiustificato, nonché contrario al sistema, il quale esclude la responsabilità del debitore la cui prestazione sia impossibile per causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.). L'interpretazione restrittiva della nozione di obbligazione portabile è inoltre coerente anche con il favor debitoris che ispira la regola generale di cui al n. 4 dell'art. 1182, comma secondo, cit. che sono a fondamento dell'interpretazione restrittiva dell'art. 1182, terzo comma, c.c., richiedono evidentemente che la liquidità del credito sia ancorata a dati oggettivi, mentre sarebbero frustrate se essa si facesse coincidere con la pura e semplice precisazione, da parte dell'attore, della somma di denaro dedotta in giudizio, pur in mancanza di indicazioni nel titolo, come sostenuto da Xxxx. 7674/2005, cit., e dagli altri precedenti che vi si richiamano discostandosi dall'orientamento tradizionale. In tal modo, infatti, non il dato oggettivo della liquidità del credito radicherebbe la controversia presso il forum creditoris, bensì il mero arbitrio del creditore stesso, il quale scelga di indicare una determinata somma come oggetto della sua domanda giudiziale, con conseguente lesione anche del principio costituzionale del giudice naturale.
Va dunque ribadito che rientrano nella previsione di cui all'art. 1182, terzo comma, c.c. esclusivamente le obbligazioni pecuniarie liquide, il cui ammontare, cioè, sia determinato direttamente dal titolo ovvero possa essere determinato in base ad esso con un semplice calcolo aritmetico.
(omissis) 4.3. — Può in conclusione enunciarsi il seguente principio di diritto: «Le obbligazioni pecuniarie da adempiersi al domicilio del creditare, secondo il disposto dell'art. 1182, terzo comma, c.c., sono — agli effetti sia della mora ex re ai sensi dell'art. 1219, comma secondo, n. 3, c.c., sia della determinazione del forum destinatae solutionis ai sensi dell'art. 20, ultima parte, c.p.c. — esclusivamente quelle liquide, delle quali, cioè, il titolo determini l'ammontare, oppure indichi i criteri per determinarlo senza lasciare alcun margine di scelta discrezionale, e i presupposti della liquidità sono accertati dal giudice, ai fini della competenza, allo stato degli atti secondo quanto dispone l'art. 38, ultimo comma, c.p.c.».
(omissis)
3. IL NUOVO REGIME PROBATORIO DI CUI ALL'ARTICOLO 1224, COMMA 2 C.C.
3.1 Cass. Sez. Un. 16 luglio 2008, n. 19499
Nelle obbligazioni pecuniarie, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il maggior danno di cui all'art. 1224, comma 2, cod. civ. (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non convenzionali che siano comunque dovuti) è in via generale riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento - dovendo ritenersi superata l'esigenza di inquadrare a tale fine il creditore in una delle categorie a suo tempo individuate -, nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi del primo comma dell'art. 1284 cod. civ.;
è fatta salva la possibilità del debitore di provare che il creditore non ha subito un maggior danno o che lo ha subito in misura inferiore a quella differenza, in relazione al meno remunerativo uso che avrebbe fatto della somma dovuta se gli fosse stata tempestivamente versata;
il creditore che domandi a titolo di maggior danno una somma superiore a quella differenza è tenuto ad offrire la prova del danno effettivamente subito, quand'anche sia un imprenditore, mediante la produzione di idonea e completa documentazione, e ciò sia che faccia riferimento al tasso dell'interesse corrisposto per il ricorso al credito bancario sia che invochi come parametro l'utilità marginale netta dei propri investimenti;
in entrambi i casi la prova potrà dirsi raggiunta per l'imprenditore solo se, in relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, sia presumibile, nel primo caso, che il ricorso o il maggior ricorso al credito bancario abbia effettivamente costituito conseguenza dell'inadempimento, ovvero che l'adempimento tempestivo si sarebbe risolto nella totale o parziale estinzione del debito contratto verso le banche; e, nel secondo, che la somma sarebbe stata impiegata utilmente nell'impresa.
2. Conviene allora, in vista della soluzione del problema del quale queste sezioni unite sono investite, ripercorrere la storia dell'evoluzione della giurisprudenza in ordine alla prova del danno da svalutazione monetaria nelle obbligazioni pecuniarie.
Con la fondamentale sentenza n. 3776/79 (…) le sezioni unite predicarono la liberalizzazione più ampia possibile nel rispetto dei principi tradizionali un anno prima affermati da Xxxx., n. 4463/77; principi intanto disattesi da Xxxx., n. 5670/78, la quale aveva sostanzialmente ritenuto - secondo i commenti fortemente critici della dottrina prevalente - che, insorta la mora debendi, le obbligazioni di valuta dovessero essere trattate come quelle di valore, sicché la somma originariamente dovuta "andava necessariamente rivalutata alla stregua di indici pubblicizzati di sicura attendibilità".
Fu dunque ribadito che nei debiti originariamente pecuniari, per i quali vale il principio nominalistico, la svalutazione monetaria verificatasi durante la mora non giustifica alcun risarcimento automatico che possa essere attuato con la rivalutazione della somma dovuta. Ma si affermò anche che non ha bisogno di essere provato il fatto che il denaro è destinato ad essere impiegato nell'acquisto di beni o servizi o comunque in forme remunerative; che risponde infatti alla natura della moneta che essa è non solo la misura dei valori ma è strumento di scambio, dotata appunto di valore nella misura in cui viene adoperata a questo scopo; che il prudente apprezzamento del giudice in ordine alle presumibili modalità di impiego può essere formato eventualmente anche con valutazioni equitative, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ.; che, infine, l'orientamento tradizionale andava rimeditato anche "perché non dà adeguato rilievo a presunzioni di ordine oggettivo", che furono ricollegate all'appartenenza del creditore ad una delle categorie creditorie di cui appresso.
Le sezioni unite si pronunciarono nuovamente negli anni successivi con le sentenze nn. 2318/83, 2564/84 e 2368/86 (pres. Tamburrino, est. Xxxxxxxx), l'ultima delle quali dette spazio ai cosiddetti "criteri personalizzati di normalità", riaffermando che nelle obbligazioni pecuniarie il danno da svalutazione non si identifica col fenomeno inflattivo e che incombe pertanto al creditore dimostrare che il pagamento tempestivo lo avrebbe messo in condizione di evitare o limitare gli effetti economici depauperatori che l'inflazione produce per tutti i possessori di denaro; ma chiarendo anche che tanto il creditore può fare avvalendosi di presunzioni e dati
economici acquisiti dalla comune esperienza e riferiti a categorie economiche socialmente significative ("imprenditore", risparmiatore abituale", "creditore occasionale", "modesto consumatore" "o altre enucleabili in relazione a più particolari modalità di impiego del denaro").
Con specifico riguardo alla categoria del creditore esercente attività imprenditoriale si affermò che possono essere fatte valere presunzioni di due tipi: a) quelle connesse con il normale impiego del denaro nel ciclo produttivo, per cui l'esistenza e l'ammontare approssimativo del danno possono essere desunti dal risultato medio dell'attività in un certo periodo, come suggerito dalle sentenze del 1979; b) quelle connesse al costo del denaro, precisamente allo scarto fra interesse legale e tasso di mercato dell'interesse praticato dalle banche alla migliore clientela per il credito a breve termine (prime rate), con la precisazione che tale criterio ha carattere primario, perché attiene al danno emergente, è altresì ancorato ad un parametro certo di facile rilevazione e, soprattutto, è l'unico possibile per un'azienda che non produca utile, ma sia in pareggio o in perdita, non essendovi allora un guadagno cui commisurare la presumibile entità della somma mancata (così la motivazione, sub 9).
Conclusero le Sezioni unite che, pertanto, l'altro criterio risulta applicabile solo quando l'imprenditore espressamente deduca il mancato guadagno; ed affermarono "che l'onere probatorio, pur non potendosi attestare alla qualità professionale, si atteggia diversamente per ciascuno dei due criteri ritenuti più appropriati per questa figura: in relazione al criterio del maggior costo del denaro, il creditore deve dimostrare di trovarsi in condizioni atte a presumere, secondo la normale gestione dell'impresa, il ricorso al mercato del credito; in relazione al criterio del mancato guadagno, invece, è tenuto a fornire gli elementi necessari a stabilire la redditività del denaro investito nell'impresa, sicché la prova - basata in gran parte su vicende proprie della singola impresa - spesso presenta maggiore complessità" (sub. 13, lettera b, della motivazione). Non affermarono, dunque, che l'imprenditore era tenuto a provare di aver fatto ricorso al finanziamento delle banche durante la mora, ma si riferirono genericamente alla dimostrazione di "condizioni atte a presumere".
Criteri specifici furono fissati anche per il "risparmiatore abituale", per il "creditore occasionale" e per il "modesto consumatore":
- si disse che al primo faceva carico l'onere di allegare e dimostrare la qualità degli investimenti abitualmente effettuati, sicché la presunzione operava in riferimento all'uguale destinazione che egli avrebbe dato alla somma non pagata ed all'ammontare del relativo reddito (interessi di titoli di Stato, rendimento di azioni, etc.);
- si ritenne che, per il secondo, era consentito presumere l'impiego mediante deposito presso istituti di credito, con conseguente commisurazione del danno alla remunerazione media dei depositi nel periodo di mora;
- si affermò per il terzo che, essendo presumibile che egli avrebbe destinato la somma alla immediata soddisfazione dei propri bisogni familiari e personali, così realizzando la moneta al suo valore attuale e conseguentemente sottraendosi agli effetti depauperativi della svalutazione, era del tutto appropriato il riferimento agli indici Istat per la determinazione forfettaria del (maggior) danno.
Ancora al criterio personalizzato di normalità le sezioni unite si riferirono con sentenza n. 5299/89, con la quale fu ribadita la possibilità di una presunzione generalizzata di spesa immediata da parte del semplice consumatore e della determinabilità del danno da ritardato pagamento in riferimento agli indici Istat delle variazioni dei prezzi al consumo, "così semplificandosi al massimo l'assolvimento dell'onere della prova ... ed ancorando, al tempo stesso, la liquidazione del danno a parametri oggettivi e di agevole liquidazione".
Può dunque dirsi che, nella seconda metà degli anni ’80, il regime probatorio relativo al maggior danno da svalutazione monetaria per il ritardato pagamento dei debiti pecuniari (ex art. 1224, comma 2, cod. civ.) risultò governato dalle seguenti regole:
a) il creditore imprenditore era gravato da un particolare onere probatorio solo in caso di richiesta di un maggior danno corrispondente ai risultati utili della sua impresa (lucro cessante), mentre poteva avvalersi di una presunzione di tipo, quasi oggettivo, fondata su criteri personalizzati di normalità, in ordine al maggior danno ancorato allo scarto tra il tasso degli interessi legali ed il prime rate (danno emergente), essendo comunque tenuto a dimostrare di trovarsi in condizioni atte a presumere, secondo la normale gestione dell'impresa, il ricorso al mercato del credito;
b) il semplice consumatore poteva pretendere un maggior danno corrispondente alle differenze tra indici Istat e tasso legale di interesse, nel periodo della mora, indipendentemente da ogni specifica prova di impiego;
c) per il creditore occasionale si aveva senz'altro riguardo al tasso medio sui depositi bancari;
d) il risparmiatore abituale era invece tenuto a provare come normalmente investiva il denaro ed a quale xxxxx. Senonché - osservò criticamente la dottrina - soltanto l'imprenditore ed il consumatore (e quest'ultimo solo in ragione del censo o della modesta entità della somma dovutagli) erano, se pur non senza gravi difficoltà, astrattamente suscettibili di essere inseriti in una categoria determinata, mentre apparivano difficilmente etichettabili i creditori occasionali ed i risparmiatori abituali. Soprattutto perché il creditore sovente non è in grado egli stesso di stabilire, ex post, cosa avrebbe davvero fatto del denaro che gli era dovuto ma che non aveva tempestivamente avuto, in quanto il problema dell'impiego si sarebbe posto, in relazione alle contingenze ed alle propensioni del momento, solo se e quando lo avesse davvero ricevuto; sicché si dava in tal modo la stura ad una serie di complicazioni processuali destinate ad offrire risultati di scarsissima attendibilità, data l'ovvia propensione del creditore ad evitare un inquadramento sfavorevole o nel quale la prova si presentasse complessa e, per converso, quello del debitore a prospettare l'inserimento del creditore in una categoria nella quale il maggior danno fosse più difficile da provare o di entità meno gravosa per il convenuto.
Negli anni successivi la prevalente giurisprudenza si attestò comunque sulla posizione secondo la quale, in caso di ritardato pagamento di un debito pecuniario ad un imprenditore commerciale, ai fini del riconoscimento del maggior danno ragguagliato alla svalutazione monetaria non si rende necessario che egli fornisca la prova concreta di un danno causalmente ricollegabile all'indisponibilità dell'importo, ben potendosi dedurre in tale situazione, in base all'id quod plerumque accidit, che in caso di tempestivo adempimento la somma dovuta sarebbe stata reimpiegata in modo tale da essere sottratta agli effetti della svalutazione (cfr., ex plurimis, Cass., nn. 600/86, 742/86, 809/86, 6483/87, 4666/90, 1403/98 e 5732/99 della I sezione civile; nn. 35/85, 1492/87, 2161/87, 12343/97 e 4184/98 della II sezione, n. 6231/86 della III sezione, nn. 1244/88, 3014/89 e 12381/91 della Sezione lavoro).
Una giurisprudenza minoritaria ritenne, per contro, che il pur legittimo ricorso al notorio ed alle presunzioni da parte del giudice non può prescindere dall'assolvimento da parte del creditore, quantunque imprenditore commerciale, di un onere quantomeno di allegazione che consenta al giudice di merito di verificare se il particolare danno allegato (anche da svalutazione) possa essersi verosimilmente prodotto (così Cass., nn 1212/86, 2368/86, 2690/87, 4344/93, 5517/97, 5678/99).
Più numerose le sentenze che hanno affrontato il tema negli anni 2000, ancora una volta prevalentemente risolto nel senso che è sufficiente che non sia controversa la qualità di imprenditore del creditore perché possa essere riconosciuto il richiesto maggior danno da svalutazione monetaria (tra le altre, Cass., nn. 15059/00, 2816/06, 4885/06 e 19927/07 della I sezione; nn. 409/00, 1770/01, 13133/03 e 5860/06 della II sezione; nn. 317/02, 14909/02, 58/04, 20807/04, 13829/04, 5008/05 e 22986/05 della III sezione; nn. 14089/00, 6420/01, 10304/02 e 2113/03 della sezione lavoro; hanno per contro ritenuto che occorrano allegazioni specifiche, pur nell'ambito della categoria di appartenenza, tra le altre, Cass., sez. I, n. 4919/03; sez. II, n. 6327/00; nonché le sentenze della sezione lavoro nn. 14970/02, 9910/03, 12634/04, 2613/06, 6153/06; oltre a Xxxx. Sez. un., n. 16871/07, della quale si dirà specificamente più avanti).
Emblematiche dei due contrapposti indirizzi, per le argomentazioni addotte, sono le sentenze n. 14089/2000 da un lato, e 14970/02 e 12634/04 dall'altro, tutte della Sezione lavoro.
2.1. La prima, pronunciata in fattispecie pressoché identica a quella ora in scrutinio, s'è fatta puntuale carico dell'argomento secondo il quale il ricorso a categorie tipiche finirebbe anch'esso col determinare un automatismo di rivalutazione del credito contrario al principio nominalistico e farebbe venir meno la distinzione tra obbligazioni di valuta ed obbligazioni di valore.
Ha tuttavia rilevato che il rispetto del principio nominalistico non è affatto incompatibile con la rilevanza delle variazioni del potere di acquisto della moneta; che, infatti, mentre nei debiti di valore la considerazione di quella variazione è insita nel procedimento di determinazione quantitativa della prestazione, nei debiti di valuta essa può invece rilevare esclusivamente sub specie damni e pone problemi di esclusiva natura probatoria; che ritenere notoria l'entità del fenomeno inflattivo e probabilisticamente rilevante la destinazione del danaro allo scambio non significa affatto derogare al principio nominalistico, ma solo adottare un criterio di valutazione che tiene conto degli interessi delle parti ed è conforme alla comune esperienza ed al comune sentire.
Ha dunque ricordato che, in base a tali principi, alcune decisioni di questa Corte avevano conseguentemente affermato che il danno da inadempimento dell'obbligazione pecuniaria è per qualsiasi creditore, per la parte che non sia già coperta dagli interessi legali, non inferiore alla misura dell'inflazione della moneta, che ne costituisce l'elementare dato probatorio, salvo che esso assuma un diverso, maggiore valore per il singolo creditore in relazione al comprovato uso che della somma oggetto dell'obbligazione intendeva fare. Pertanto, salvo questa prova diversa, il danno da svalutazione può essere determinato sulla base degli indici ufficiali dell'inflazione in relazione al costo della vita (sono citate Xxxx. nn. 123/83, 651/84, 3356/85). Ed ha concluso che, in effetti, "non è dubbio che la mancata disponibilità del danaro da parte del creditore costituisce obiettivamente un danno e non ha bisogno di alcuna prova di carattere soggettivo, salva la possibilità da parte del debitore di provare il concorso del fatto colposo del creditore, ai sensi dell'art. 1227 del codice civile. Di conseguenza, il creditore che intenda ottenere la rivalutazione nella misura ufficiale deve solo allegare gli indici ufficiali dell'Istat. Il creditore, invece, che ritenga che la mancata disponibilità del danaro abbia inciso sul suo patrimonio in misura superiore agli interessi legali e alla svalutazione ufficiale, dovrà provare il maggiore danno: dovrà provare, ad esempio, di aver dovuto rinunciare a investimenti particolarmente vantaggiosi o di essere dovuto ricorrere a prestiti particolarmente onerosi".
2.2. Opposte le conclusioni di Cass. 14970/02, pronunciata anch'essa in fattispecie di domanda di restituzione di contributi indebitamente versati all'Inps. Con tale sentenza la stessa Sezione lavoro, dichiaratasi a sua volta pienamente consapevole dell'orientamento appena illustrato, ha tuttavia ritenuto (richiamando Xxxx., nn. 11870/92, 5517/97, 5678/99, 9965/01):
a) che collegare alla sola qualità di imprenditore la presunzione di un impiego antinflattivo del denaro e, dunque, di un maggior danno da svalutazione monetaria durante la mora, finirebbe per stravolgere il criterio fondamentale dell'onere della prova di cui all'art. 2697 cod. civ., risolvendosi in un'ingiustificata soluzione di favore per il creditore il quale, per beneficiare del risarcimento, dovrebbe solo provare di appartenere ad una determinata categoria economica;
b) che una tale conseguenza avrebbe ben poca giustificazione anche sotto il profilo sistematico, comportando l'introduzione di un meccanismo di automatica rivalutazione analogo a quello di cui all'art. 429 cod. proc. civ. senza alcun fondamento normativo e, anzi, nel contesto di un'opposta tendenza legislativa, in cui il divieto di cumulo rappresenta la regola ed in cui una sostanziale valorizzazione dei crediti pecuniari, anche contrattuali, in relazione a particolari caratteristiche del creditore, necessiterebbe ancor più di un'esplicita previsione normativa. Le conclusioni della citata sentenza 14970/02 sono state condivise dalla successiva 12634/04 che, ancora una volta relativa al danno da ritardo nella restituzione di somme indebitamente versate all'Inps, contrapponendosi a Cass. 14089/00, ha ribadito che il maggior danno da svalutazione nelle obbligazioni pecuniarie non può essere riconosciuto indipendentemente dall'osservanza di uno specifico onere di allegazione e prova da parte del creditore (quantunque imprenditore) per due sostanziali ordini di ragioni:
c) perché si deve escludere che la svalutazione costituisca danno di per sé, stante l'operatività del principio nominalistico (art. 1277 c.c.) derogato specificamente dal legislatore soltanto per particolari crediti pecuniari, come i crediti di lavoro, ai sensi dell'art. 429, comma terzo, c.p.c.;
d) perché osta alla identificazione del danno mora-torio nella diminuzione di valore della moneta il rilievo che "il denaro, per le illimitate possibilità di opzione tra i diversi impieghi, è metro di misura totalmente astratto; tale danno, quindi, può derivare esclusivamente dall'impiego che il creditore avrebbe fatto della somma se ne avesse conseguito la disponibilità tempestivamente (es. autofinanziamento e reimpiego nella produzione, acquisto di valori mobiliari, interessi bancari, ecc.), cosicché deve ritenersi indispensabile (non potendo il giudice determinare autonomamente il tipo di impiego) che siano forniti elementi che consentano al giudice di ritenere, anche in via presuntiva, alcune forme di impiego più verosimili di altre".
3. Allo stato, dunque, le principali tesi in materia sono tre:
1) quella secondo la quale nei debiti di valuta, quale che sia la categoria cui appartiene il creditore, il maggior danno da svalutazione monetaria rispetto a quello che non sia già assorbito dagli interessi legali moratori, va riconosciuto in via generalizzata e presunta, fermo l'onere del creditore che assuma di aver subito un danno ancora maggiore di provare che avrebbe fatto un uso del denaro tale da garantirgli un rendimento superiore al
tasso di inflazione (lucro cessante), ovvero che a causa dell'inadempimento ha dovuto procurarsi denaro a tassi più onerosi (danno emergente); e salva la facoltà del debitore di offrire comunque la prova contraria;
2) quella secondo la quale il maggior danno da svalutazione va correlato alla sola categoria creditoria cui il creditore appartiene in relazione alla più probabile forma di impiego del denaro;
3) quella secondo la quale l'appartenenza ad una categoria creditoria non è comunque sufficiente a giustificare il riconoscimento del maggior danno correlabile alle forme di impiego tipiche della categoria nella quale il creditore è iscrivibile (soprattutto se imprenditore), essendo egli comunque gravato da uno specifico onere quantomeno di allegazione in ordine al verosimile impiego che avrebbe fatto della somma dovutagli, che consenta al giudice di verificare se, tenuto conto di dette qualità personali e professionali, il danno denunziato possa essersi effettivamente prodotto (in difetto di quella allegazione, alcune sentenze affermano che non possono riconoscersi che gli interessi legali, come la citata n. 12634/04; altre, che tale tipo di conseguenza va tratto solo per il danno eccedente il tasso di svalutazione, come Cass., sez. lavoro, n. 6153/06).
Va osservato che nessuna delle tre è in tutto conforme ai principi enunciati da queste Sezioni unite nel 1986, il cui trasparente scopo fu quello di semplificare, mediante il ricorso a presunzioni di tipo generalizzato in relazione alla categoria di appartenenza del creditore, le modalità della prova del maggior danno da svalutazione. Si trattò di una soluzione intermedia tra quella che richiedeva la rigorosa e quasi sempre impossibile prova dell'avvenuta predisposizione di un impiego alternativo del denaro non tempestivamente pagato e quella di chi invece riteneva che, in caso di mora, il maggior danno da svalutazione è in via generale presunto in misura pari al tasso di inflazione in relazione alle caratteristiche proprie del denaro, destinato per sua natura ad essere speso o investito in impieghi tali da mettere chi lo possegga al riparo, quantomeno, dalla svalutazione.
La terza tesi, che formalmente ne segue gli enunciati letterali, finisce infatti col non assecondarne lo spirito, segnatamente nella sua più rigorosa versione; la seconda è a questo conforme, ma ne disattende le prescrizioni testuali in relazione al creditore imprenditore; la prima è quella che maggiormente se ne discosta, ma è anche quella che, a parere del collegio, tiene in maggior conto i non appaganti risultati applicativi della soluzione dell'inquadramento dei creditori in categorie, cui collegare in via presuntiva il tipo di impiego che del denaro avrebbero fatto se fosse stato loro tempestivamente dato e, dunque, l'entità del maggior danno durante la mora del debitore.
A parte, invero, la categoria dell'imprenditore (per la quale pure, come s'è rilevato, non vengono adottate soluzioni univoche), l'inquadramento del creditore in una qualsiasi delle altre, o in quelle ulteriori che le sezioni unite del 1986 pure prospettarono potessero essere in seguito configurate e che non sono state invece mai elaborate, si è rivelata di assai problematica praticabilità, non sussistendo parametri di riferimento sufficientemente univoci per definire i caratteri propri di ogni categoria.
E la stessa categoria degli imprenditori - per la quale, invece, i parametri per una qualificazione palesemente sussistono - non vale, a ben vedere, ad offrire criteri di maggiore attendibilità delle possibili inferenze induttive, posto che a quello che pretendesse come maggior danno la differenza tra il tasso legale d'interesse ed il prime rate (peraltro non più rilevato a partire dal 2004 e, secondo le sezioni unite del 1986, ottenibile quasi sulla base della sola appartenenza alla relativa categoria) poterebbe obiettarsi che già alla data di insorgenza della mora la redditività marginale media dei propri investimenti era inferiore al tasso praticato dalle banche alla migliore clientela nei prestiti a breve termine; ovvero, se superiore, che male il creditore aveva fatto a non ricorrere al credito bancario (con conseguente applicazione dell'art. 1227, comma 2, cod. civ.), ovvero che non era comunque prevedibile dal debitore che non lo facesse (con conseguente irrisarcibilità del danno differenziale ex art. 1225 cod. civ.).
I bisogni ed i desideri che il denaro vale a soddisfare sono d'altronde troppi e troppo intimamente connessi anche al modo d'essere di ognuno, nonché agli eventi di cui ciascuno è nella vita protagonista, spettatore o vittima, perché l'uno o l'altro creditore sia suscettibile di essere tout court qualificato -come consumatore, o risparmiatore, o creditore occasionale, essendo vero invece che ognuno è o può essere l'una o l'altra cosa, o l'altra ancora, o tutte insieme in relazione a ciascuna frazione dell'importo ed a seconda delle contingenze economiche generali e personali del momento, dell'entità del credito, dei propri progetti e così via.
Per altro verso, le prorompenti esigenze di semplificazione dell'istruzione probatoria impongono, a distanza di circa un quarto di secolo, soluzioni più snelle, anche alla luce dei dati costituiti dall'incessante aumento del contenzioso civile, dall'allungamento dei tempi medi di definizione del processo, dal nuovo principio della sua ragionevole durata, proclamato dall'art. 111, comma 2, Cost. (nel testo introdotto con legge costituzionale n. 2 del 1999). Si verte, del resto, in situazioni che recano in se stesse il germe dell'inevitabile approssimazione della statuizione giudiziale, come avvertivano le stesse Sezioni unite del 1986; nelle quali, dunque, l'equazione "categoria creditoria = presunta, oggettivamente personalizzata modalità di impiego del denaro" presenta incognite non inferiori, in prima battuta, a quelle proprie dell'equazione "creditore = maggior danno da svalutazione corrispondente all'incremento dei prezzi al consumo, ovvero alla redditività delle più comuni forme di impiego alternative alla spesa".
4. Non sussistono d'altro canto i paventati pericoli che i debiti di valuta ricevano in tal modo una disciplina identica a quella propria dei debiti di valore, con sostanziale pretermissione del principio nominalistico di cui all'art. 1277 cod. civ.; o che le conseguenze dell'inadempimento finiscano per divenire, per qualsiasi credito di denaro, identiche a quelle "speciali" che l'art. 429, comma 3, cod. proc. civ. contempla per i crediti di lavoro; ovvero che sia sostanzialmente disapplicato il principio dell'onere della prova di cui all'art. 2697 cod. civ..
4.1. Sul primo punto va infatti osservato che il rispetto del principio nominalistico non è affatto incompatibile con la rilevanza delle variazioni del potere d'acquisto della moneta. Solo che, mentre nei debiti di valore la considerazione di quella variazione è insita nel procedimento di determinazione quantitativa della prestazione in quanto il denaro vale solo a misurare e ad esprimere un valore necessariamente attuale, nei debiti di valuta essa può invece rilevare esclusivamente sub specie damni. La circostanza che una somma di denaro, come quantità di pezzi monetari dedotta in obbligazione, conservi integra la propria idoneità solutoria quale che sia l'alterazione nel tempo del suo valore in termini di potere d'acquisto (non altro è il 'significato e non altra la conseguenza del nominalismo monetario), non esclude che la diminuzione del suo valore durante il periodo di mora debendi si risolva in un danno tutte le volte che il creditore agli effetti della svalutazione si sarebbe sottratto, spendendo o investendo il denaro non tempestivamente versatogli in impieghi con remuneratività superiore al tasso di inflazione. Facendone, cioè, l'uso connaturale alla sua intima essenza, volta che se il denaro è l'unico bene intrinsecamente insuscettibile di offrire qualunque utilitas diretta è anche il solo che consente, mediante lo scambio, di procurare immediatamente quelle ricavabili da qualsiasi altro bene (è questa la giustificazione economica del rendimento del denaro dato a mutuo), sicché è del tutto contraria ai dati di comune esperienza l'ipotesi della mera conservazione improduttiva da parte del creditore di un bene ontologicamente destinato allo scambio o all'investimento. Se ne mostrò d'altronde consapevole lo stesso legislatore del 1942 all'atto della redazione del codice civile; al punto n. 592 (in fine) della relazione al re del ministro guardasigilli si legge infatti testualmente: "L'alterazione del valore della moneta dovuta può verificarsi durante la mora del debitore. Il caso non è previsto espressamente, perché esso si risolve in un danno, che è risarcibile secondo gli artt. 1218 e 1224, 2° comma".
Neppure è possibile che si creino confusioni di sorta sul piano processuale, posto che nei debiti di valore (tipica l'obbligazione di risarcimento del danno) la rivalutazione non va neppure domandata, essendo il giudice tenuto d'ufficio alla liquidazione in valori monetari attuali; mentre nei debiti di valuta vanno chiesti sia gli interessi moratori sia il maggior danno (anche da svalutazione, secondo l'impreciso ma corrente lessico giudiziario; e tuttavia, più esattamente, da intervenuta impossibilità, per fatto del debitore, che il creditore si sottraesse agli effetti della svalutazione) , risultando altrimenti inficiata da vizio di ultrapetizione la sentenza che riconoscesse gli uni o l'altro.
4.2. Quanto alla temuta possibilità che i crediti pecuniari ordinari e quelli di lavoro finiscano con l'essere trattati allo stesso modo, s'è già rilevato che per i crediti di cui all'art. 429, comma 3, cod. proc. civ. interessi e svalutazione si cumulano, mentre nei debiti di valuta il maggior danno (anche da svalutazione) è dovuto, ex art. 1224, comma 2, cod. civ., solo per la parte che non sia già coperta dagli interessi moratori.
4.3. Quanto alla pretesa disapplicazione dell'art. . 2697 cod. civ. che deriverebbe dal ritenere presunta (ma, rectius, normale), una modalità di impiego del denaro tale da consentire al creditore di sottrarsi agli effetti della svalutazione, è stato da tempo chiarito come, in definitiva, è nel rapporto tra normalità ed anormalità, tra regola
ed eccezione che si rinviene il criterio teorico e pratico della ripartizione dell'onere della prova, il quale non costituisce un istituto giuridico in sé concluso, ma un modo di osservare l'esperienza giuridica. E la giurisprudenza ha quindi fatto ricorso, tutte le volte che il modello legale prefissato non risultava appagante in relazione alle posizioni delle parti riguardo ai singoli temi probatori, allo schema della presunzione in modo talora così tipico e costante da creare, in definitiva, vere e proprie regole di giudizio. Col risultato non già di invertire l'onere della prova, ma di distribuirlo in senso conforme alla realtà dell'esperienza positiva.
Ebbene, è senz'altro conforme alla realtà dell'esperienza positiva che il denaro sia speso in relazione alla sua primaria destinazione allo scambio, ovvero impiegato in rassicuranti forme remunerative tali da garantire un rendimento superiore al tasso di inflazione, qual è quello dei titoli di stato, costantemente eccedente l'incremento dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati rilevati dall'Istat.
4.4. Quanto, infine, all'argomento- (addotto da Xxxx. Sez. lav. n. 12634/04) che "il denaro, per le illimitate possibilità di opzione tra i diversi impieghi, è metro di misura totalmente astratto", deve rilevarsi che l'osservazione si attaglia ai debiti di valore, nei quali il denaro viene appunto in considerazione come strumento di misura di un valore (mensura), ma non è conferente in ordine ai debiti di valuta, nei quali il denaro è dedotto in obbligazione come ammontare di pezzi monetari (mensuratum). Sicché, come la variazione del valore di una cosa si misura comparando fra loro le diverse quantità di moneta necessarie per scambiarla in tempi diversi con denaro, così la variazione del "valore" del denaro si misura comparando tra loro le diverse quantità di pezzi monetari necessari, in tempi diversi, per procurarsi la medesima cosa o le medesime cose. Cose e pezzi monetari dovuti e non dati, il cui valore sia mutato durante la mora, possono o meno aver prodotto un danno da diminuzione di valore a seconda dell'impiego che ne avrebbe fatto il creditore: "possono" (non "devono"), giacché se la loro destinazione era la mera conservazione, il danno da diminuzione di valore durante la mora sarà in ogni caso insussistente; ma se la destinazione era lo scambio o l'investimento, il danno andrà commisurato alla diminuzione di valore, o al costo affrontato dal creditore per procurarsi quel che gli era dovuto (cose o denaro), o ancora alle conseguenze economiche negative subite per non esserci riuscito.
5. Tanto precisato in linea di principio, va qui detto che le vicende che connotarono gli anni '70 e '80, durante i quali il tasso di svalutazione monetaria fu pressoché costantemente superiore a quello degli interessi legali, talora in misura assai rilevante, con una differenza che toccò i 16.1 punti percentuali nel 1980, indussero il legislatore a modificare l'art. 1284, comma 1, cod. civ., dapprima elevando il tasso degli interessi legali dal 5 al 10% in ragione di anno (art. 1, 1. 26.11.1990, n. 353), e poi riportandolo al 5% ma stabilendo che esso può essere annualmente modificato dal Ministro del tesoro "sulla base del rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e tenuto conto del tasso di inflazione registrato nell'anno" (art. 2, comma 185, 1. 23.12.1996, n. 662).
Da allora, fatta eccezione per una pressoché insignificante differenza nell'anno 2000 , il tasso di interesse è stato costantemente superiore al tasso ufficiale di aumento dei prezzi al consumo, sicché la svalutazione è risultata normalmente assorbita per intero dagli interessi legali, con conseguente perdita di rilevanza del problema relativo al risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria; (omissis).
L'effetto di disincentivazione dell'inadempimento (e, di riflesso, la positiva ricaduta sulla diminuzione del contenzioso civile e sulla semplificazione del processo) è appunto collegato ad una soluzione che renda il debitore consapevole del fatto che la promozione di una causa da parte del creditore insoddisfatto si risolverebbe, comunque, nel riconoscimento a suo favore di un maggior importo corrispondente quantomeno all'utile economico minimo che il debitore ha tratto o che avrebbe potuto trarre dalla conservazione, medio tempore, del denaro che doveva dare e che non ha dato. Ed è qui appena il caso di ricordare come, senza eccezione alcuna, tutte le istituzioni del Paese da tempo annoverino la inappagante funzionalità della giustizia civile (la quale dipende soprattutto dai lunghi tempi di definizione, a sua volta correlati alla variabile niente affatto indipendente del numero delle cause promosse) fra le ragioni di uno sviluppo economico inferiore a quello possibile, segnatamente sotto il profilo dell'abbassamento della propensione agli investimenti.
Tutto insomma concorre all'adozione di un'interpretazione che si risolva nel riconoscere al creditore di somme di denaro non corrisposte dal debitore in mora un maggior danno - ex art. 1224, comma 2, cod. civ. - corrispondente alla differenza tra il tasso di rendimento netto (dedotta l'imposta) dei titoli di Stato
di durata non superiore ai dodici mesi (o tra il tasso di inflazione se superiore) e quello degli interessi legali
(se inferiore).
E tanto del tutto in linea con la ratio legis del novellato art. 1284, comma 1, cod. civ., il quale prevede un meccanismo che sconta l'inevitabile riferibilità al futuro dell'eventuale intervento adeguatore del Ministro del tesoro ("con decreto da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica non oltre il 15 dicembre dell'anno precedente a quello cui il saggio si riferisce", ex art. 1284, comma 1, cod. civ.), le cui conseguenze vanno tuttavia, in linea di principio, sopportate non già dal creditore insoddisfatto, ma dal debitore che versi anche in quella situazione di qualificato ritardo nell'adempimento qual è la mora (ex art. 1219 cod. civ.): quanto si va osservando è infatti estraneo agli interessi corrispettivi di cui all'art. 1282 c.c. ed a quelli compensativi di cui all'art. 1499 c.c., per i quali non è configurabile un danno da ritardo fino alla data di insorgenza della mora debendi.
Tale conclusione risulta, poi, definitivamente corroborata dalla lettera dell'art. 1284, comma 1, cod. civ., nel testo novellato nel 1996, laddove espressamente vincola il Ministro del tesoro a determinare il saggio d'interesse "sulla base" del rendimento annuo lordo dei titoli di Stato non ultrannuali e "tenuto conto" del tasso d'inflazione registrato nell'anno: la differenza tra le due espressioni è invero significativa del primario rilievo che il legislatore ha conferito al parametro di riferimento costituito dal rendimento dei titoli di Stato ai fini dell'apprezzamento della normale redditività del denaro.
Le considerazioni fin qui svolte comportano il superamento della suddivisione dei creditori in categorie, a ciascuna delle quali si attagli la presunzione di una personalizzata modalità di impiego del denaro, restando invece l'ambito della possibile personalizzazione affidato, esso solo, alla prova. Sarà così consentito al debitore di provare - pur con le difficoltà connesse alla raffigurabilità di un ipotetico ed economicamente inefficiente comportamento altrui - che dal proprio ritardo nell'adempimento il creditore non ha subito un danno, o che lo ha subito in misura inferiore al saggio degli interessi legali, sicché nulla gli è dovuto, in aggiunta a quelli, per maggior danno (perché, ad esempio, dedito al deposito del denaro in conto corrente, la cui remuneratività è notoriamente assai bassa, ovvero perché i suoi investimenti nel periodo si sono risolti in una perdita, etc.); così come sarà consentito al creditore di provare che il danno da ritardo è stato invece maggiore del rendimento netto dei titoli di Stato (perché costretto a ricorrere al credito bancario, o per mancati investimenti remunerativi, o per altre particolari vicende). Ma ciò non in quanto il creditore appartenga ad una categoria; il che si risolverebbe tra l'altro - quantomeno in epoche connotate, come quella attuale, da un aumento dei prezzi al consumo normalmente inferiore al saggio degli interessi legali - nel paradossalmente deteriore trattamento dei meno abbienti, quale il modesto o mero o semplice consumatore. Non dunque per questo, ma perché il risarcimento va sempre tendenzialmente adeguato al danno effettivamente subito, nei limiti in cui tale risultato sia perseguibile; limiti di cui il legislatore s'è fatto del resto consapevole carico dettando la disposizione di cui all'art. 1226 cod. civ., ormai costantemente interpretata nel senso che alla valutazione equitativa nella liquidazione del danno è possibile ricorrere non solo quando il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare, ma anche quando quella prova si presenti, per l'una o per l'altra parte, particolarmente complessa o costosa, anche in riferimento al livello degli interessi dedotti in giudizio, oppure quando sia destinata ad offrire risultati di assai scarsa attendibilità.
Anche il creditore imprenditore, al pari di ogni altro creditore ed indipendentemente da qualsivoglia allegazione, avrà dunque titolo a pretendere il maggior danno nei limiti sopra indicati, salva la prova contraria, da offrirsi dal debitore, che esso è inferiore o inesistente. Xxx invece lamenti un danno superiore a quei livelli e ne domandi il risarcimento, dovrà offrirne la prova, come ogni altro creditore.
A tal fine sarà in linea di massima sufficiente la produzione di documentazione dalla quale si evinca che, durante la mora del debitore, egli aveva fatto ricorso al credito bancario (con saggio di interesse passivo oggi attestantesi, a quanto consta, sull'Euribor maggiorato tra circa 0,20 e 2,5 punti) o ad altre forme di approvvigionamento di liquidità, con la dimostrazione dei relativi costi; e sempre che, in relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, sia effettivamente presumibile che il ricorso al credito esterno sia stato conseguenza dell'inadempimento, ovvero che l'adempimento tempestivo avrebbe comportato la destinazione della somma alla parziale estinzione del debito assunto verso il finanziatore (si incoraggerebbe altrimenti il possibile ricorso
strumentale al credito bancario in funzione probatoria dell'entità del danno nel successivo giudizio di adempimento e risarcimento).
Se invece sia domandato un risarcimento del danno correlato all'utilità marginale netta dell'impresa durante la mora, perché il maggior danno possa essere rapportato ai mancati utili sarà necessario che il creditore imprenditore produca il bilancio contenente il conto economico (se tenuto a redigerlo) ovvero altre idonee scritture contabili; e sempre che, in relazione all'importo dovutogli e con riguardo al tipo ed al rilievo economico dell'attività stessa, sia effettivamente presumibile che la somma di cui era creditore sarebbe stata impiegata nell'impresa con il medesimo risultato utile.
(omissis)
7. Possono conclusivamente enunciarsi i seguenti principi di diritto:
(omissis)
3.2 Cass.24 gennaio 2014, n.1506
In tema di inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, nel caso in cui il creditore – del quale non sia controversa la qualità di imprenditore commerciale – deduca di aver subito dal ritardo del debitore nell’adempimento un pregiudizio conseguente al diminuito potere di acquisto della moneta, non è necessario, ai fini del riconoscimento del maggior danno ragguagliato alla svalutazione monetaria, che egli fornisca la prova di un danno concreto causalmente ricollegabile all’indisponibilità del credito per effetto dell’inadempimento, dovendosi presumere, in base all’id quod plerumque accidit, che, se vi fosse stato tempestivo adempimento, la somma dovuta sarebbe stata utilizzata in impieghi antinflattivi per il finanziamento dell’attività imprenditoriale e, quindi, sottratta agli effetti della svalutazione.
Nell'unico motivo di ricorso incidentale viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell'art 1224 e 2697 cod civ. nonché dell'art. 2729 cod. civ. per non aver riconosciuto il maggior danno nella misura della svalutazione monetaria o secondo i criteri presuntivi desumibile dalla sentenza delle S.U. n. 19499 del 2008, non essendo contestabile la qualità d'imprenditore commerciale dell'Elmi. Il motivo viene prospettato anche sotto il profilo del vizio di motivazione.
Il motivo è fondato.
La Corte d'Xxxxxxx, dopo aver esattamente qualificato il credito come di valuta, ha escluso il riconoscimento del maggior danno ex art. 1224 cod. civ. non ritenendo fornita la prova delle modalità d'investimento dell'importo. Peraltro gli incassi, per comune volontà delle parti, dovevano rimanere sui conti bancari e non essere finalizzati ad investimenti. Così decidendo la sentenza impugnata non ha fatto buon governo dei principi consolidati elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di riconoscimento del maggior danno ex art. 1224 cod. civ. nei debiti di valuta, ed in particolare sull'utilizzazione del regime probatorio delle presunzioni semplici. Pur negandone l'automatismo, la Corte di Cassazione ha riconosciuto la naturale fruttuosità del denaro affermando che "Nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all'art. 1224, secondo coma, cod. civ. può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, 11 saggio medio di rendimento netto del titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l'attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc.), fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà l'onere di provare l'esistenza e l'ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva; in particolare, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l'onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero - attraverso la produzione dei bilanci - quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà invece l'onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al
saggio legale.(S.U. 19499 del 2008). L'orientamento indicato, ampiamente e costantemente condiviso negli anni successivi (4402, 17813, 20753 del 2009; 12609 del 2010) è stato di recente ribadito proprio con riferimento all'imprenditore commerciale nella pronuncia n. 22096 del 2013 alla luce della quale "In tema di inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, nel caso in cui il creditore - del quale non sia controversa la qualità di imprenditore commerciale - deduca di aver subito dal ritardo del debitore nell'adempimento un pregiudizio conseguente al diminuito potere di acquisto della moneta, non è necessario, ai fini del riconoscimento del maggior danno ragguagliato alla svalutazione monetaria, che egli fornisca la prova di un danno concreto causalmente ricollegabile all'indisponibilità del credito per effetto dell'inadempimento, dovendosi presumere, in base all'"id quod plerumque accidit", che, se vi fosse stato tempestivo adempimento, la somma dovuta sarebbe stata utilizzata in impieghi antinflattivi per il finanziamento dell'attività imprenditoriale e, quindi, sottratta agli effetti della svalutazione. Nella specie, di conseguenza, non poteva essere radicalmente escluso il riconoscimento del maggior danno da ritardato adempimento di obbligazione pecuniaria ex art. 1224 cod. civ., senza aver verificato, preliminarmente ed in mancanza di allegazioni specifiche sul presumibile impiego del denaro, se il tasso legale degli interessi attivi, fosse inferiore al rendimento medio dei titoli di . stato, alla data del 7 maggio 1991, tenuto conto della incontestata qualità d'imprenditore commerciale dell'Elmi e della verosimile utilizzazione in senso antinflattivo del denaro della categoria di appartenenza del creditore. In conclusione deve essere respinto il ricorso principale ed accolto quello incidentale, con conseguente cassazione con rinvio della sentenza impugnata. Il giudice del rinvio dovrà attenersi al principio di diritto sopra indicato.
4. LE SEZIONI UNITE FANNO IL PUNTO SULL'ANATOCISMO: Xxxx. Sez. Un. 4 novembre 2004, n. 21095
La Suprema Corte, pronunciandosi a Sezioni Unite, ha stabilito che "le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi dovuti dal correntista devono considerarsi nulle anche se contratte prima dell'orientamento giurisprudenziale che nella primavera del 1999 ne ha negato la legittimità". In sostanza, la Suprema Corte ha attribuito valore retroativo all'inesistenza dell'uso normativo della capitalizzazione triestrale degli interessi. Fino al 1999, l'art. 1283 del codice civile, il quale prevede che "in mancanza di usi contrari, gli interessi passivi scaduti possono produrre interessi (anatocisti) solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi", era stato interpretato, da pronunzie giurisprudenziali filobancarie, nel senso di poter attribuire alla locuzione "salvo usi contrari" un valore quasi negoziale. Le Banche, pertanto, capitalizzavano trimestralmente gli interessi, sfruttando il bisogno dei correntisti di porre in essere una serie di operazioni bancarie, principalmente prestiti e scopertura di conto corrente. Con le sentenze n. 2374 e n. 3096 del 1999, il Supremo Xxxxxxx aveva già stabilito che "gli usi contrari, suscettibili di derogare al precetto di cui all'art. 1283 c.c., sono non i meri usi negoziali ex art. 1340 c.c. ma esclusivamente i veri e propri usi normativi, di cui agli articoli 1 e 8 disp. Prel. C.c., consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento (usus), accompaganato dalla convinzione che si tratta di comportamento (non dipendente da un mero arbitrio soggettivo) ma giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell'ordinamento giuridico".
Gli "usi" cui fa riferimento l'art. 1283 cod. civ. sono, dunque, esclusivamente, quelli normativi in senso tecnico.
1. La questione di massima, in ragione della cui particolare importanza gli atti della presente causa sono stati rimessi a queste Su, ai sensi dell’articolo 374, cpv, Cpc si risolve nello stabilire se - incontestata la non
attualità di un uso normativo di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del correntista bancario - sia o non esatto escludere anche che un siffatto uso preesistesse al nuovo orientamento giurisprudenziale (Cassazione 2374/99 e successive conformi) che lo ha negato, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con la precedente giurisprudenza.
(omissis)
4.1. Il parametro di riferimento è costituito dall’articolo 1283 del Cc (Anatocismo) e, in particolare, dall’inciso “salvo usi contrari” che, in apertura della norma, circoscrive la portata della regola, di seguito in essa enunciata, per cui «gli interessi scaduti possono produrre interessi [(a)] solo dalla domanda giudiziale o [(b)] per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre, che si tratti di interessi dovuti da almeno sei mesi».
4.2. Come è noto, in sede di esegesi della predetta norma, le richiamate sentenze (2374, 3096, 3845) della primavera del 1999, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con pronunzie del ventennio precedente (6631/81; 5409183; 4920/87; 3804/88; 2444/89; 7575/92; 9227/95; 3296/97; 12675/98), hanno enunciato il principio (omissis) per cui gli “usi contrari”, idonei ex articolo 1283 Cc a derogare il precetto ivi stabilito, sono solo gli usi “normativi” in senso tecnico; desumendone, per conseguenza, la nullità delle clausole bancarie anatocistiche, la cui stipulazione risponde ad un uso meramente negoziale ed incorre quindi nel divieto di cui al citato articolo 1283.
4.3. Al di là di varie ulteriori argomentazioni, di carattere storico e sistematico, rinvenibili nelle pronunzie del nuovo corso, destinate più che altro ad avvalorare il “revirement” giurisprudenziale, emerge dalla motivazione delle pronunce stesse come, nel suo nucleo logico-giuridico essenziale l’enunciazione del principio di nullità delle clausole bancarie anatocistiche si ponga come la conclusione obbligata di un ragionamento di tipo sillogistico. La cui premessa maggiore è espressa, appunto, dalla affermazione che gli “usi contrari”, suscettibili di derogare al precetto dell’articolo 1283 Cc, sono non i meri usi negoziali di cui all’articolo 1340 Cc ma esclusivamente i veri e propri “usi normativi”, di cui agli articoli 1 e 8 disp. prel. Cc, consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione che si tratta di comportamento (non dipendente da un mero arbitro soggettivo ma) giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell’ordinamento giuridico (opinio juris ac necessitatis).
E la cui premessa minore è rappresentata dalla constatazione che «dalla comune esperienza emerge che i clienti si sono nel tempo adeguati all’inserimento della clausola anatocistica non in quanto ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile fossero esistenti nell’ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell’associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituiva al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari.
Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico in cui, sostanzialmente, consiste l’opinio juris ac necessitatis, se non altro per l’evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente».
4.4. Ora di questo sillogismo, che costituisce la struttura portante del nuovo indirizzo, del quale si sollecita il riesame, neppure la banca ricorrente mette in discussione la premessa maggiore, mentre quanto alla sua premessa minore la contestazione che ad essa si muove, attiene, sul piano diacronico, al solo profilo della portata retroattiva che il nuovo indirizzo ha inteso attribuire alla rilevata inesistenza di un uso normativo in materia di capitalizzazione trimestrale degli interessi bancari. Si sostiene, infatti, in contrario che la giurisprudenza del ‘99 abbia correttamente accertato l’inesistenza attuale, ma erroneamente escluso l’esistenza pregressa della consuetudine in parola.
E si auspica per ciò, dunque, che essa vada superata nel senso di constatare che «la convinzione degli utenti del servizio bancario della normatività dell’uso di capitalizzazione trimestrale degli interessi, originariamente sussistente, è venuta meno dopo lungo tempo» [id est: la consuetudine si è estinta per desuetudine in relazione al venire meno della opinio iuris del comportamento sottostante] «proprio a seguito di
quello stesso processo di mutamento di prospettiva che ha indotto la Cassazione medesima a mutare il proprio precedente orientamento».
Ed a sostegno di tale assunto la difesa della ricorrente argomenta: a) che l’opinio iuris della prassi di capitalizzazione degli interessi dovuti dal cliente sarebbe stata esclusa dalla criticata giurisprudenza assumendo a parametro un quadro normativo, come evolutosi a partire dai primi anni ‘90, non certo retrodatabile all’epoca in cui, in un contesto radicalmente diverso, quella prassi si era instaurata, con adesione degli utenti dei servizi bancari, che ne avrebbero pienamente presupposto la normatività; b) che, comunque, la stessa precedente giurisprudenza che per un ventennio aveva reiteratamente ritenuto, ove pur erroneamente, l’esistenza di un uso normativo di capitalizzazione degli interessi bancari avrebbe, per ciò stesso, costituito “elemento di fondazione o consolidazione dell’uso stesso”. Nessuno dei riferiti, pur suggestivi, argomenti si lascia però condividere.
4.5. L’evoluzione del quadro normativo - impressa dalla giurisprudenza e dalla legislazione degli anni ‘90, in direzione della valorizzazione della buona fede come clausola di protezione del contraente più debole, della tutela specifica del consumatore, della garanzia della trasparenza bancaria, della disciplina dell’usura ha innegabilmente avuto il suo peso nel determinare la ribellione del cliente (che ha dato, a sua volta, occasione al revirement giurisprudenziale) relativamente a prassi negoziali, come quella di capitalizzzione trimestrale degli interessi dovuti alle banche, risolventesi in una non più tollerabile sperequazione di trattamento imposta dal contraente forte in danno della controparte più debole.
Ma ciò non vuole dire (e il dirlo sconterebbe un evidente salto logico) che, in precedenza, prassi siffatte fossero percepite come conformi a ius e che, sulla base di una tale convinzione (opinio iuris), venissero accettate dai clienti. Più semplicemente, di fatto, le pattuizioni anatocistiche, come clausole non negoziate e non negoziabili, perché già predisposte dagli istituti di credito, in conformità a direttive delle associazioni di categoria, venivano sottoscritte dalla parte che aveva necessità di usufruire del credito bancario e non aveva. quindi, altra alternativa per accedere ad un sistema connotato dalla regola del prendere o lasciare. Dal che la riconducibilità, ab initio, della prassi di inserimento, nei contratti bancari, delle clausole in questione, ad un uso negoziale e non già normativo (per tal profilo in contrasto dunque con il precetto dell’articolo 1283 Cc), come correttamente ritenuto dalle sentenze del 1999 e successive.
4.6. Né è in contrario sostenibile che la “fondazione” di un uso normativo, relativo alla capitalizzazione degli interessi dovuti alla banca, sia in qualche modo riconducibile alla stessa giurisprudenza del ventennio antecedente al revirement del 1999. Anche in materia di usi normativi, così come con riguardo a norme di condotta poste da fonti-atto di rango primario, la funzione assolta dalla giurisprudenza, nel contesto di sillogismi decisori, non può essere altra che quella ricognitiva, dell’esistenza e dell’effettiva portata, e non dunque anche una funzione creativa, della regola stessa.
Discende come logico ed obbligato corollario da questa incontestabile premessa che, in presenza di una ricognizione, pur reiterata nel tempo, che si dimostri poi però erronea nel presupporre l’esistenza di una regola in realtà insussistente, la ricognizione correttiva debba avere una portata naturaliter retroattiva, conseguendone altrimenti la consolidazione medio tempore di una regola che troverebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenza che, erroneamente presupponendola, l’avrebbero con ciò stesso creata.
Ciò vale evidentemente, nel caso di specie, anche con riguardo alla giurisprudenza (costituita, per altro, da solo dieci tralaticie pronunzie nell’arco di un ventennio) su cui fa leva l’istituto ricorrente. La quale - a prescindere dalla sua idoneità (tutta da dimostrare e in realtà indimostrata) ad ingenerare nei clienti una “opinio iuris” del meccanismo di capitalizzazione degli interessi, inserito come clausola insuscettibile di negoziazione nei controlli stipulati con la banca - non avrebbe potuto, comunque, conferire normatività ad una prassi negoziale (che si è dimostrato essere) contra legem.
4.7. Della insuperabile valenza retroattiva dell’accertamento di nullità delle clausole anatocistiche, contenuto nelle pronunzie del 1999, si è mostrato subito, del resto, ben consapevole anche il legislatore. Il quale - nell’intento di evitare un prevedibile diffuso contenzioso nei confronti degli istituti di credito - ha dettato, nel comma 3 dell’articolo 25 del già citato D.Lgs 342/99, una norma ad hoc, volta appunto ad assicurare validità ed efficacia alle clausole di capitalizzazione degli interessi inserite nei contratti bancari stipulati anteriormente alla
entrata in vigore della nuova disciplina, paritetica, della materia, di cui ai precedenti commi primo e secondo del medesimo articolo 25.
Quella norma di sanatoria è stata, però, come noto, dichiarata incostituzionale, per eccesso di delega e conseguente violazione dell’articolo 77 Costituzione, dal Giudice delle leggi, con sentenza n. 425 del 2000.
L’eliminazione ex tunc, per tal via, della eccezionale salvezza e conservazione degli effetti delle clausole già stipulate lascia queste ultime, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sotto il vigore delle norme anteriormente in vigore, alla stregua delle quali, per quanto si è detto, esse non possono che essere dichiarate nulle, perché stipulate in violazione dell’articolo 1283 Cc (cfr. Cassazione 4490/02).
(omissis)
5. Art. 120 del Testo Unico bancario ( d.lgs. 1 settembre 21993, n. 285) modificato dal decreto- legge 14 febbraio 2016, n. 18, convertito con modificazioni dalla legge 8 aprile 2016, n. 49.
Xxxxxxxxxx xxxxx xxxxxx x xxxxxxx xxxxx xxxxxxxxx0
00. Il titolare del conto corrente ha la disponibilità economica delle somme relative agli assegni circolari o bancari versati sul suo conto, rispettivamente emessi da o tratti su una banca insediata in Italia, entro i quattro giorni lavorativi successivi al versamento.
1. Gli interessi sul versamento di assegni presso una banca sono conteggiati fino al giorno del prelevamento e con le seguenti valute: a) dal giorno in cui è effettuato il versamento, per gli assegni circolari emessi dalla stessa banca e per gli assegni bancari tratti sulla stessa banca presso la quale è effettuato il versamento; b) per gli assegni diversi da quelli di cui alla lettera a), dal giorno lavorativo successivo al versamento, se si tratta di assegni circolari emessi da una banca insediata in Italia, e dal terzo giorno lavorativo successivo al versamento, se si tratta di assegni bancari tratti su una banca insediata in Italia. 1-bis. Il CICR può stabilire termini inferiori a quelli previsti nei commi 1 e 1-bis in relazione all’evoluzione delle procedure telematiche disponibili per la gestione del servizio di incasso degli assegni.
2. Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che: a) nei rapporti di conto corrente o di conto di pagamento sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori, comunque non inferiore ad un anno; gli interessi sono conteggiati il 31 dicembre di ciascun anno e, in ogni caso, al termine del rapporto per cui sono dovuti; b) gli interessi debitori maturati, ivi compresi quelli relativi a finanziamenti a valere su carte di credito, non possono produrre interessi ulteriori, salvo quelli di mora, e sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale; per le aperture di credito regolate in conto corrente e in conto di pagamento, per gli sconfinamenti anche in assenza di affidamento ovvero oltre il limite del fido: 1) gli interessi debitori sono conteggiati al 31 dicembre e divengono esigibili il 1° marzo dell’anno successivo a quello in cui sono maturati; nel caso di chiusura definitiva del rapporto, gli interessi sono immediatamente esigibili; 2) il cliente può autorizzare, anche preventivamente, l’addebito degli interessi sul conto al momento in cui questi divengono esigibili; in questo caso la somma addebitata è considerata sorte capitale; l’autorizzazione è revocabile in ogni momento, purché prima che l’addebito abbia avuto luogo (1). 2
3. Per gli strumenti di pagamento diversi dagli assegni circolari e bancari restano ferme le disposizioni sui tempi di esecuzione, data valuta e disponibilità di fondi previste dagli articoli da 19 a 23 del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11.
1 Articolo così sostituito dall’art. 4, comma 2, D.Lgs. 13 agosto 2010, n. 141, come modificato dall’art. 3 D.Lgs. 14
dicembre 2010, n. 218.
2 Comma sostituito prima dall’art. 1, comma 629, L. 27 dicembre 2013, n. 147 e, successivamente, così modificato
dall’art. 17-bis, comma 1, D.L. 14 febbraio 2016, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla L. 8 aprile 2016, n. 49
6. USURA, INTERESSI MORATORI E USURA SOPRAVVENUTA
6.1 Corte di cassazione III civ. 9397 del 10.05.2016
1. omissis 2. L'annullamento, sul punto, della sentenza impugnata assorbe sia le residue questioni poste dal ricorrente incidentale, sia quelle contenute nel ricorso principale, atteso che tutte dipendono dal previo accertamento di sussistenza del reato di usura. 3. Considerato che il secondo motivo del ricorso incidentale può assumere rilevanza nel giudizio di rinvio - atteso che, ove il giudice confermasse la sussistenza del reato, dovrebbe fare applicazione del principio di diritto, contestato dai ricorrenti incidentali, in relazione alla decorrenza ed alla spettanza degli interessi sulla somma capitale - si ricorda che per giurisprudenza costante la disciplina di cui alla legge 7 marzo 1996, n. 108 si applica ai contratti contenenti tassi usurari, anche se stipulati prima della sua entrata in vigore, solo ove i rapporti non siano ancora esauriti (Sez. 1, Sentenza
n. 602 del 11/01/2013, Rv. 626533). "Le norme che prevedono la nullità dei patti contrattuali che determinano degli interessi con rinvio agli usi, o che fissano la misura in tassi così elevati da raggiungere la soglia dell'usura (...) non sono retroattive, e pertanto, in relazione ai contratti conclusi prima della loro entrata in vigore, non influiscono sulla validità delle clausole dei contratti stessi, ma possono soltanto implicarne l'inefficacia "ex nunc", rilevabile solo su eccezione di parte, non operando, perciò, quando il rapporto giuridico si sia esaurito prima ancora dell'entrata in vigore di tali norme ed il credito della banca si sia anch'esso cristallizzato precedentemente" (Sez. 3, Sentenza n. 6550 del 14/03/2013, Xx. 000000; massime precedenti conformi: N. 2140 del 2006 Xx. 000000, X. 00000 xxx 0000 Xx. 598646). "La disciplina relativa ai tassi di interesse sui mutui introdotta dalla legge 7 marzo 1996, n. 108, recante disposizioni in materia di usura - e quindi anche quella dettata dall'art. 1 del d.l. 29 dicembre 2000, n. 394, convertito in legge 28 febbraio 2001, n. 24, di interpretazione autentica della precedente - non può essere applicata a rapporti completamente esauriti prima della sua entrata in vigore, senza che rilevi, in senso contrario, la pendenza di una controversia sulle obbligazioni derivanti dal contratto e rimaste inadempiute, le quali non implicano che il rapporto contrattuale sia ancora in atto, ma solo che la sua conclusione ha lasciato in capo alle parti, o ad una di esse, delle ragioni di credito" (Sez. 1, Sentenza n. 15497 del 22/07/2005, Rv. 583086). 4. Nella fattispecie oggetto di ricorso, è errata la mancata condanna per interessi successivi al 1996, dato che il rapporto, con la richiesta di restituzione della somma da parte del mutante, si era ormai concluso e pertanto non poteva applicarsi la sopravvenuta normativa.
6.2 Tribunale Savona 10 marzo 2016 : contratto di mutuo a tasso variabile, determinabilità ex art. 1284 c.c. del tasso di interesse e usura sopravvenuta.
Ai fini della determinabilità ex art. 1284 C.C. del tasso di interesse applicato ad un contratto di mutuo, è sufficiente che il tasso concretamente applicato sia determinato per relationem rinviando a criteri esterni al documento contrattuale, purché oggettivamente individuabili.
Al fine di verificare il superamento del tasso soglia gli interessi convenzionalmente pattuiti non vanno sommati a quelli moratori. Ed infatti, la verifica dell'eventuale superamento del tasso soglia deve essere autonomamente eseguita con riferimento a ciascuna delle due categorie sopra indicate.
Afferma il Tribunale che la tesi del cumulo fra interessi moratori e corrispettivi non può essere condivisa in ragione della diversità ontologica e funzionale delle due categorie di interessi, avendo il tasso di mora una autonoma funzione quale penalità per il fatto, imputabile al mutuatario e solo eventuale, del ritardato pagamento, con la conseguenza che la sua incidenza va rapportata al protrarsi ed alla gravità della inadempienza, del tutto diversa dalla funzione di remunerazione propria degli interessi corrispettivi.
Il Tribunale, infine, aderisce all’orientamento maggioritario che opta a favore della inconfigurabilità della
c.d. usura sopravenuta. Argomenta partendo dal dato normativo che stabilisce che, ai fini della configurabilità
dell’usura, il momento determinante è solo quello della pattuizione negoziale, senza che modifiche esterne sopravvenute possano incidere sulla situazione sebbene vadano ad incidere sul rapporto ancora in essere.
Nel caso di specie si evidenzia che qualora l’istituto bancario fosse tenuto a ridurre gli interessi in misura pari al tasso soglia, questo potrebbe anche risultare inferiore (nell’ipotesi di finanziamento a tasso fisso) a quello inizialmente concordato. Detta situazione comporterebbe una modifica genetica del rapporto contrattuale con trasformazione del tasso fisso in tasso variabile e pregiudizio dell’affidamento sulla stabilità delle condizioni negoziali lecitamente e regolarmente pattuite tra le parti; il che porrebbe in discussione anche la stabilità del sistema bancario posto che le banche non potrebbero più fare affidamento sull’entità degli oneri da corrispondere dal mutuatario, con inevitabile contrazione della possibilità per i risparmiatori di accesso al credito.
6.3 Tribunale di Benevento 30 dicembre 2015: accertamento dell’usura e clausole di salvaguardia
Anche il Tribunale di Benevento aderisce all’orientamento secondo cui l’accertamento dell’usurarietà del tasso di interesse attiene al momento genetico del contratto. Xxxxxx ritenersi usurari gli interessi che superino il limite previsto dalla legge al momento della loro pattuizione, a prescindere dal superamento del tasso soglia al momento della loro corresponsione. Nel caso di specie si affermava che l’introduzione di un meccanismo volto a limitare ex ante una determinazione degli interessi in contrasto con i limiti previsti dall’ordinamento non impedisce il verificarsi del fenomeno usurario.
6.4 Cass. 9 gennaio 2013, n. 350
Ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p., e dell'art. 1815 c.c., co. 2, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori. Infatti il riferimento, contenuto nel D.L. n. 394 del 2000, art. 1, co. 1, agli interessi a qualunque titolo convenuti rende plausibile - senza necessità di specifica motivazione - tale assunto.
3.2.- Quanto al profilo sub b) (usurarietà dei tassi) va rilevato che parte ricorrente deduce che l'interesse pattuito (inizialmente fisso e poi variabile) era del 10.5%, in contrasto con quanto è previsto dal D.M. 27 marzo 1998, che indica il tasso praticabile per il mutuo nella misura dell'8.29%.
Tale tasso dovrebbe ritenersi usurario a norma della L. n. 108 del 1996, art. 1, comma 4, tanto più ove si consideri che fu richiesto per l'acquisto di un bene primario quale la casa di abitazione e che dovrebbe tenersi conto della prevista maggiorazione di 3 punti in caso di mora.
La censura sub b), nella parte in cui ripete l'assunto - già correttamente disatteso dalla Corte di merito - secondo cui la natura usuraria discenderebbe dalla finalità del mutuo, contratto per l'acquisto della propria casa, è infondata in quanto, ai sensi del nuovo testo dell'art. 644 c.p., comma 3, sono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge ovvero "gli interessi, anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all'opera di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria".
E, a tale scopo, non è sufficiente dedurre che il mutuo è stato stipulato per l'acquisto di un'abitazione.
La stessa censura (sub b), invece, è fondata in relazione al tasso usurario perchè dalla trascrizione dell'atto di appello risulta che parte ricorrente aveva specificamente censurato il calcolo del tasso pattuito in raffronto con il tasso soglia senza tenere conto della maggiorazione di tre punti a titolo di mora, laddove, invece, ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p., e dell'art. 1815 x.x., xxxxx 0, xx intendono usurari gli interessi che superano il
limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori (Corte cost. 25 febbraio 2002 n. 29: "il riferimento, contenuto nel D.L.
n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, agli interessi a qualunque titolo convenuti rende plausibile - senza necessità di specifica motivazione - l'assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori"; Cass., n. 5324/2003).
(omissis)
4.- Quanto al secondo motivo, la censura è infondata, posto che, pur trattandosi di questione (di diritto) rilevabile d'ufficio (nullità della convenzione di interessi usurari), gli elementi in fatto sui quali la questione era fondata e, dunque, l'indicazione del tasso applicato contenuta (soltanto) nella comparsa conclusionale non poteva che essere ritenuta tardiva, tenuto conto della necessità che i motivi di appello, ex art. 342 c.p.c., siano specifici e che con la comparsa conclusionale non possono essere dedotte nuove circostanze di fatto che non siano state già dedotte con l'atto di appello.
6.5 Trib. Parma 25 luglio 2014
Se il contratto statuisce che la mora si aggiunge al tasso corrispettivo e si calcola sull'intera rata, è ammessa la sommatoria tra tassi corrispettivi e tassi moratori, ai fini del calcolo del TEG
Premesso che la L. 24/2001 stabilisce che "si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento".
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 350/2013 ha ribadito questo concetto, poggiando la propria interpretazione anche sulla sentenza della Corte Costituzionale 29/2002 e seguendo una precedente pronuncia dello stesso tenore (Cass. 5324/2003): tutte le voci contrattuali [escluse imposte e tasse] devono essere conteggiate nel calcolo del TEG (o ISC: indicatore sintetico di costo), compresi gli interessi di mora.
Da ultimo, tra le tante, è stato stabilito come "la giurisprudenza si era in gran parte orientata nel senso di ricomprendere nel calcolo del TEG qualsiasi onere effettivamente sopportato dal cliente quale costo economico dell'operazione, indipendentemente dalle istruzioni della Banca d'Italia.
"La portata normativa della Legge 2/09 ... si risolve in realtà in una mera conferma della "disciplina vigente" e cioè nel richiamo dell'art 644 c.p. e non delle circolari della Banca d'Italia, pacificamente prive di portata normativa" (C. d'A. Cagliari, 31/03/2014).
- Definita la norma di riferimento, in punto di diritto, occorre verificare il singolo contratto. Ossia verificare se il contratto preveda interessi di mora in caso di inadempimento e se gli stessi siano "sostitutivi" dell'interesse corrispettivo. Infatti:
- se la previsione contrattuale statuisce che la Banca debba applicare al cliente inadempiente solo e soltanto gli interessi di mora sul capitale, sostituendo questi agli interessi corrispettivi, non si farà la sommatoria tra tassi corrispettivi e tassi moratori ai fini del calcolo del TEG e si verificherà lo sforamento del tasso soglia solo con riferimento al tasso moratorio sommato a tutte le spese accessorie;
- se invece il contratto prevede che il tasso moratorio si applichi in aggiunta a quello corrispettivo, allora i due indici andranno valutati congiuntamente ed il risultato andrà confrontato con i limiti normativamente imposti (legge n. 108/96 e succ. modifiche).
Nella fattispecie in esame, l'art. 5 del contratto stabilisce che "l'importo complessivamente dovuto alla scadenza di ciascuna rata (..) e non pagato, produce interessi di mora (...) La parte finanziata approva specificatamente il diritto del Banco di imputare gli interessi di mora sull'intero importo delta rata scaduta e non pagata". Pertanto,
prevedendo il contratto che gli interessi moratori non si sostituiscano a quelli corrispettivi ma si sommino a questi (quindi su ogni rata già formata da quota capitale e quota interessi corrispettivi] si può concludere che, applicando la normativa al contratto de quo, anche gli interessi di mora siano da computarsi ai fini del TEGM e pertanto quest'ultimo sfora il tasso soglia (vigente alla data della stipula] ed il contratto di mutuo sia usurato ab origine, quindi trova applicazione la sanzione civilistica ex art. 1815 u.c. cc
6.6 Trib. Napoli 15 aprile 2014
Nella sentenza Xxxx. 350/2013 viene affermato niente altro se non che la disciplina relativa al tasso soglia, con le relative sanzioni, riguarda anche gli interessi moratori in sé considerati, con la conseguenza che anche rispetto ad essi deve verificarsi attentamente l'eventuale superamento del tasso soglia, e conseguentemente dichiararsi la nullità delle relative previsioni per il caso del suo superamento. Xxxxxxx, invece, nella indicata sentenza della Suprema Corte si fa riferimento alla "maggiorazione di tre punti a titolo di mora" non vuole intendersi l'affermazione di principio circa la necessità di effettuare una sommatoria tra i tassi corrispettivi e i tassi moratori in relazione al limite del tasso soglia, ma si ha semplicemente riguardo ad una modalità di pattuizione di quello specifico tasso di mora contrattuale, che così come contrattato, nella fattispecie esaminata dal Giudice di legittimità, risultava moratorio, in sé e per sé considerato, ed a prescindere da qualsivoglia sommatoria con il tasso relativo agli interessi corrispettivi.
la violazione denunciata da parte ricorrente troverebbe la propria ragion d'essere, nella prospettazione difensiva di parte ricorrente, nell'avvenuta pattuizione, in sede di contratto di mutuo, di due differenti tassi di interesse a titolo rispettivamente di corrispettivo del prestito, nella misura del 5,50%, (art. 1 del contratto di mutuo), e a titolo di interesse moratorio, nella misura del 6,795 % (art. 5 del contratto) per l'ipotesi di inadempimento.
Sostiene, infatti, il ricorrente che con la sommatoria dei detti interessi si perverrebbe ad un tasso del 12,295 % che sarebbe un tasso ben al di sopra del tasso soglia d'usura come rilevabile avuto riguardo al tempo della rilevazione della Banca di Italia, fissato all'epoca del contratto nella misura del 6,795 %, ovvero nella misura del tasso effettivo globale medio su base annua dell'epoca, aumentato della metà.
Ritiene questo Giudicante che una siffatta ricostruzione dei fatti sia il frutto di una fuorviante interpretazione della statuizione assunta dalla Corte di Cassazione con la nota pronuncia n. 350/2013 nella quale è stato testualmente sostenuto che "risulta che parte ricorrente aveva specificamente censurato il calcolo del tasso pattuito in raffronto con il tasso soglia senza tenere conto della maggiorazione di tre punti a titolo di mora, laddove, invece, ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p., e dell'art. 1815 x.x., xxxxx 0, xx intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori (Corte cost. 25 febbraio 2002 n. 29: "il riferimento, contenuto nel D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, agli interessi a qualunque titolo convenuti rende plausibile - senza necessità di specifica motivazione - l'assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori". Cass., n. 5324/2003).
Tale motivazione merita una interpretazione adeguata e coerente con il sistema, laddove, pure affermando e ribadendo la stessa un principio ormai riconosciuto e già sancito anche in un'altra importante sentenza della Corte Costituzionale, (25-2-2002 n. 29) non puo' ritenersi che in essa risulti affermato niente altro se non che la disciplina relativa al tasso soglia, con le relative sanzioni, riguarda anche gli interessi moratori in sé considerati, con la conseguenza che anche rispetto ad essi deve verificarsi attentamente l'eventuale superamento del tasso soglia, e conseguentemente dichiararsi la nullità delle relative previsioni per il caso del suo superamento.
Xxxxxxx, invece, nella indicata sentenza della Suprema Corte si fa riferimento alla "maggiorazione di tre punti a titolo di mora" non vuole intendersi l'affermazione di principio circa la necessità di effettuare una sommatoria tra i tassi corrispettivi e i tassi moratori in relazione al limite del tasso soglia, ma si ha semplicemente riguardo ad una modalità di pattuizione di quello specifico tasso di mora contrattuale, che così come contrattato, nella fattispecie esaminata dal Giudice di legittimità, risultava moratorio, in sé e per sé considerato, ed a prescindere da qualsivoglia sommatoria con il tasso relativo agli interessi corrispettivi.
Procedere, invece, addizionando il tasso moratorio al tasso corrispettivo, e sottoponendo al vaglio del superamento del tasso soglia il dato derivante dalla detta somma aritmetica significherebbe non cogliere la differente natura delle due previsioni pattizie, che restano autonome l'una dall'altra e solo occasionalmente interdipendenti, atteso che, come evidenziato in analoga fattispecie dal Collegio di Napoli dell'arbitro bancario finanziario, "in materia finanziaria l'interesse, nel momento stesso in cui si rende disponibile (ovvero alla scadenza di pagamento), diventa capitale".
Pertanto, fondamentale è la necessità di considerare, nella interpretazione del dato oggettivo del tasso soglia, e degli elementi che lo compongono, la esatta composizione dello stesso, nel quale non è data la possibilità di assimilazione, alle altre voci che compongono il TEG del finanziamento ovvero alle altre voci considerate dalle Circolari della Banca d'Italia, anche dell'interesse moratorio in quanto tale.
A cadere sotto la scure della sanzione della nullità, con conseguente obbligo di restituzione dell'indebito, e invece, anche nella ribadita interpretazione della Suprema Corte, solo la previsione di un tasso moratorio che, in sé considerato, e non in forma additiva rispetto al tasso corrispettivo ed alle altre voci considerate nel T.E.G., sia tale da oltrepassare il tasso soglia.
Non trascurabile è il dato essenziale, ai fini dell'indagine, che, proprio per la menzionata differente natura dell'interesse corrispettivo e di quello moratorio, al secondo vada attribuita natura sostitutiva e non additiva del tasso corrispettivo, venendo lo stesso in rilievo in via eventuale solo per l'ipotesi di inadempimento e su di una somma complessivamente considerata, ove la parte cui si è tenuti per la quota, originariamente prevista quale interesse si è ormai inglobata nel capitale perdendo la propria originaria vocazione e natura di interesse.
8. OBBLIGAZIONI SOLIDALI E CONDOMINIO
6.1 Cass. Sez. Un. 8 aprile 2008 n.9148
Ritenuto che la solidarietà passiva, in linea di principio, esige la sussistenza non soltanto della pluralità dei debitori e della identica causa dell'obbligazione, ma altresì della indivisibilità della prestazione comune; che in mancanza di quest'ultimo requisito e in difetto di una espressa disposizione di legge, la intrinseca parziarietà della obbligazione prevale; considerato che l'obbligazione ascritta a tutti i condomini, ancorché comune, è divisibile, trattandosi di somma di danaro; che la solidarietà nel condominio non è contemplata da nessuna disposizione di legge e che l'art. 1123 cit., interpretato secondo il significato letterale e secondo il sistema in cui si inserisce, non distingue il profilo esterno e quello interno; rilevato, infine, che - in conformità con il difetto di struttura unitaria del condominio, la cui organizzazione non incide sulla titolarità individuale dei diritti, delle obbligazioni e della relativa responsabilità - l'amministratore vincola i singoli nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote: tutto ciò premesso, le obbligazioni e la susseguente responsabilità dei condomini sono governate dal criterio dalla parziarietà. Ai singoli si imputano, in proporzione alle rispettive quote, le obbligazioni assunte nel cosiddetto "interesse del condominio", in
relazione alle spese per la conservazione e per il godimento delle cose comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Pertanto, le obbligazioni dei condomini sono regolate da criteri consimili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ., per le obbligazioni ereditarie, secondo cui i coeredi concorrono al pagamento dei debiti ereditali in proporzione alle loro quote e l'obbligazione in solido di uno dei condebitori tra gli eredi si ripartisce in proporzione alle quote ereditarie.
2.1 La questione di diritto, che la Suprema Corte deve risolvere per decidere la controversia, riguarda la natura delle obbligazioni dei condomini.
Secondo l'orientamento maggioritario della giurisprudenza, la responsabilità dei singoli partecipanti per le obbligazioni assunte dal "condominio" verso i terzi ha natura solidale, avuto riguardo al principio generale stabilito dall'art. 1294 cod. civ. per l'ipotesi in cui più soggetti siano obbligati per la medesima prestazione: principio non derogato dall'art. 1123 cod. civ., che si limita a ripartire gli oneri all'interno del condominio (Cass., Sez. II, 5 aprile 1982, n. 2085; Cass., Sez. II, 17 aprile 1993, n. 4558; Cass., Sez. II, 30 luglio 2004, n. 14593; Cass.,
Sez. II, 31 agosto 2005, n. 17563).
Per l'indirizzo decisamente minoritario, la responsabilità dei condomini è retta dal criterio dalla parziarietà: in proporzione alle rispettive quote, ai singoli partecipanti si imputano le obbligazioni assunte nell'interesse del "condominio", relativamente alle spese per la conservazione e per il godimento delle cose comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Pertanto, le obbligazioni dei condomini sono regolate da criteri consimili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ. per le obbligazioni ereditarie, secondo cui al pagamento dei debiti ereditali i coeredi concorrono in proporzione alle loro quote e l'obbligazione in solido di uno dei condebitori si ripartisce tra gli eredi in proporzione alle quote ereditarie (Cass., Sez. II, 27 settembre 1996, n. 8530).
2.2 Per determinare i principi di diritto, che regolano le obbligazioni (contrattuali) unitarie le quali vincolano la pluralità di soggetti passivi - i condomini - occorre muovere dal fondamento della solidarietà.
L'assunto è che la solidarietà passiva scaturisca dalla contestuale presenza di diversi requisiti, in difetto dei quali - e di una precisa disposizione di legge - il criterio non si applica, non essendo sufficiente la comunanza del debito tra la pluralità dei debitori e l'identica causa dell'obbligazione; che nessuna specifica disposizione contempli la solidarietà tra i condomini, cui osta la parziarietà intrinseca della prestazione; che la solidarietà non possa ricondursi alla asserita unitarietà del gruppo, in quanto il condominio non raffigura un "ente di gestione", ma una organizzazione pluralistica e l'amministratore rappresenta immediatamente i singoli partecipanti, nei limiti del mandato conferito secondo le quote di ciascuno.
La disposizione dell'art. 1292 cod. civ. - è noto - si limita a descrivere il fenomeno e le sue conseguenze. Invero, sotto la rubrica "nozione della solidarietà", definisce l'obbligazione in solido quella in cui "più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione" e aggiunge che ciascuno può essere costretto all'adempimento per la totalità (con liberazione degli altri). L'art. 1294 cod. civ. stabilisce che "i condebitori sono tenuti in solido, se dalla legge o dal titolo non risulta diversamente". Nessuna delle norme, tuttavia, precisa la ratio della solidarietà, ovverosia ne chiarisce il fondamento (che risulta necessario, quanto meno, per risolvere i casi dubbi).
Stando all'interpretazione più accreditata, le obbligazioni solidali, indivisibili e parziarie raffigurano le risposte dell'ordinamento ai problemi derivanti dalla presenza di più debitori (o creditori), dalla unicità della causa dell'obbligazione (eadem causa obbligandi) e dalla unicità della prestazione (eadem res debita).
Mentre dalla pluralità dei debitori e dalla unicità della causa dell'obbligazione scaturiscono questioni che, nella specie, non rilevano, la categoria dell'idem debitum propone problemi tecnici considerevoli: in particolare, la unicità della prestazione che, per natura, è suscettibile di divisione, e la individuazione del vincolo della solidarietà rispetto alla prestazione la quale, nel suo sostrato di fatto, è naturalisticamente parziaria.
Semplificando categorie complesse ed assai elaborate, l'indivisibilità consiste nel modo di essere della prestazione: nel suo elemento oggettivo, specie laddove la insussistenza naturalistica della indivisibilità non è accompagnata dall'obbligo specifico imposto per legge a ciascun debitore di adempiere per
l'intero. Quando la prestazione per natura non è indivisibile, la solidarietà dipende dalle norme e dai principi. La solidarietà raffigura un particolare atteggiamento nei rapporti esterni di una obbligazione intrinsecamente parziaria quando la legge privilegia la comunanza della prestazione. Altrimenti, la struttura parziaria dell'obbligazione ha il sopravvento e insorge una pluralità di obbligazioni tra loro connesse.
È pur vero che la solidarietà raffigura un principio riguardante i condebitori in genere. Ma il principio generale è valido laddove, in concreto, sussistono tutti i presupposti previsti dalla legge per la attuazione congiunta del condebito. Sicuramente, quando la prestazione comune a ciascuno dei debitori è, allo stesso tempo, indivisibile. Se invece l'obbligazione è divisibile, salvo che dalla legge (espressamente) sia considerata solidale, il principio della solidarietà (passiva) va contemperato con quello della divisibilità stabilito dall'art. 1314 cod. civ., secondo cui se più sono i debitori ed è la stessa la causa dell'obbligazione, ciascuno dei debitori non è tenuto a pagare il debito che per la sua parte.
Poiché la solidarietà, spesso, viene ad essere la configurazione ex lege, nei rapporti esterni, di una obbligazione intrinsecamente parziaria, in difetto di configurazione normativa dell'obbligazione come solidale e, contemporaneamente, in presenza di una obbligazione comune, ma naturalisticamente, divisibile viene meno uno dei requisiti della solidarietà e la struttura parziaria dell’obbligazione prevale.
Del resto, la solidarietà viene meno ogni qual volta la fonte dell'obbligazione comune è intimamente collegata con la titolarità delle res.
Le disposizioni di cui agli artt. 752, 754 e 1295 cod. civ. - che prevedono la parziarietà delle obbligazioni dei coeredi e la sostituzione, per effetto dell'apertura della successione, di una obbligazione nata unitaria con una pluralità di obbligazioni parziarie - esprimono il criterio di ordine generale del collegamento tra le obbligazioni e le res.
Per la verità, si tratta di obbligazioni immediatamente connesse con l'attribuzione ereditaria dei beni: di obbligazioni ricondotte alla titolarità dei beni ereditari in ragione dell'appartenenza della quota. Ciascun erede risponde soltanto della sua quota, in quanto è titolare di una quota di beni ereditari. Più in generale, laddove si riscontra lo stesso vincolo tra l'obbligazione e la quota e nella struttura dell'obbligazione, originata dalla medesima causa per una pluralità di obbligati, non sussiste il carattere della indivisibilità della prestazione, è ragionevole inferire che rispetto alla solidarietà non contemplata (espressamente) prevalga la struttura parziaria del vincolo.
2.3 Le direttive ermeneutiche esposte valgono per le obbligazioni facenti capo ai gruppi organizzati, ma non personificati.
Per ciò che concerne la struttura delle obbligazioni assunte nel cosiddetto interesse del "condominio" - in realtà, ascritte ai singoli condomini - si riscontrano certamente la pluralità dei debitori (i condomini) e la ‘eadem causa obbligandi’, la unicità della causa: il contratto da cui l'obbligazione ha origine. È discutibile, invece, la unicità della prestazione (idem debitum) che certamente è unica ed indivisibile per il creditore, il quale effettua una prestazione nell'interesse e in favore di tutti condomini (il rifacimento della facciata, l'impermeabilizzazione del tetto, la fornitura del carburante per il riscaldamento etc.). L'obbligazione dei condomini (condebitori), invece, consistendo in una somma di danaro, raffigura una prestazione comune, ma naturalisticamente divisibile.
Orbene, nessuna norma di legge espressamente dispone che il criterio della solidarietà si applichi alle obbligazioni dei condomini.
Non certo l'art. 1115 comma 1 cod. civ. Sotto la rubrica "obbligazioni solidali dei partecipanti", la norma stabilisce che ciascun partecipante può esigere che siano estinte le obbligazioni contratte in solido per la cosa comune e che la somma per estinguerle sia ricavata dal prezzo di vendita della stessa cosa. La disposizione, in quanto si riferisce alle obbligazioni contratte in solido dai comunisti per la cosa comune, ha valore meramente descrittivo, non prescrittivo: non stabilisce che le obbligazioni debbano essere contratte in solido, ma regola le obbligazioni che, concretamente, sono contratte in solido. A parte ciò, la disposizione non riguarda il condominio negli edifici e non si applica al condominio, in quanto regola l'ipotesi di vendita della cosa comune. La disposizione, infatti, contempla la cosa comune soggetta a divisione e non le cose, gli impianti ed i servizi
comuni del fabbricato, i quali sono contrassegnati dalla normale indivisibilità ai sensi dell'art. 1119 cod. civ. e, comunque, dalla assoluta inespropriabilità.
D'altra parte, nelle obbligazioni dei condomini la parziarietà si riconduce all'art. 1123 cod. civ., interpretato valorizzando la relazione tra la titolarità della obbligazione e la quella della cosa. Si tratta di obbligazioni propter rem, che nascono come conseguenza dell'appartenenza in comune, in ragione della quota, delle cose, degli impianti e dei servizi e, solo in ragione della quota, a norma dell'art. 1123 cit., i condomini sono tenuti a contribuire alle spese per le parti comuni. Per la verità, la mera valenza interna del criterio di ripartizione raffigura un espediente elegante, ma privo di riscontro nei dati formali.
Se l'argomento che la ripartizione delle spese regolata dall'art. 1123 comma 1 cod. civ. riguardi il mero profilo interno non persuade, non convince neppure l'asserto che il comma 2 dello stesso art. 1223 - concernente la ripartizione delle spese per l'uso delle parti comuni destinate a servire i condomini in misura diversa, in proporzione all'uso che ciascuno può fame - renda impossibile l'attuazione parziaria all'esterno: con la conseguenza che, quanto all'attuazione, tutte le spese disciplinate dall'art. 1223 cit. devono essere regolate allo stesso modo.
Entrambe le ipotesi hanno in comune il collegamento con la res. Il primo comma riguarda le spese per la conservazione delle cose comuni, rispetto alle quali l'inerenza ai beni è immediata; il secondo comma concerne le spese per l'uso, in cui sussiste comunque il collegamento con le cose: l'obbligazione, ancorché influenzata nel quantum dalla misura dell'uso diverso, non prescinde dalla contitolarità delle parti comuni, che ne costituisce il fondamento. In ultima analisi, configurandosi entrambe le obbligazioni come obligationes propter rem, in quanto connesse con la titolarità del diritto reale sulle parti comuni, ed essendo queste obbligazioni comuni naturalisticamente divisibili ex parte debitoris, il vincolo solidale risulta inapplicabile e prevale la struttura intrinsecamente parziaria delle obbligazioni. D'altra parte, per la loro ripartizione in pratica si può sempre fare riferimento alle diverse tabelle millesimali relative alla proprietà ed alla misura dell'uso.
2.5 Né la solidarietà può ricondursi alla asserita unitarietà del gruppo dei condomini.
Dalla giurisprudenza, il condominio si definisce come "ente di gestione", per dare conto del fatto che la legittimazione dell'amministratore non priva i singoli partecipanti della loro legittimazione ad agire in giudizio in difesa dei diritti relativi alle parti comuni; di avvalersi autonomamente dei mezzi di impugnazione; di intervenire nei giudizi intrapresi dall'amministratore, ecc..
Ma la figura dell'ente, ancorché di mera gestione, suppone che coloro i quali ne hanno la rappresentanza non vengano surrogati dai partecipanti. D'altra parte, gli enti di gestione in senso tecnico raffigurano una categoria definita ancorché non unitaria, ai quali dalle leggi sono assegnati compiti e responsabilità differenti e la disciplina eterogenea si adegua alle disparate finalità perseguite (art. 3 legge 22 dicembre 1956, n. 1589). Gli enti di gestione operano in concreto attraverso le società per azioni di diritto comune, delle quali detengono le partecipazioni azionarie e che organizzano nei modi più opportuni: in attuazione delle direttive governative, razionalizzano le attività controllate, coordinano i programmi e assicurano l'assistenza finanziaria mediante i fondi di dotazione. Per la struttura, gli enti di gestione si contrassegnano in ragione della soggettività (personalità giuridica pubblica) e dell'autonomia patrimoniale (la titolarità delle partecipazioni azionarie e del fondo di dotazione).
Xxxxxx, nonostante l'opinabile rassomiglianza della funzione - il fatto che l'amministratore e l'assemblea gestiscano le parti comuni per conto dei condomini, ai quali le parti comuni appartengono - le ragguardevoli diversità della struttura dimostrano la inconsistenza del ripetuto e acritico riferimento dell'ente di gestione al condominio negli edifici.
Il condominio, infatti, non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti e di obbligazioni: la titolarità dei diritti sulle cose, gli impianti e i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini; agli stessi condomini sono ascritte le obbligazioni per le cose, gli impianti ed i servizi comuni e la relativa responsabilità; le obbligazioni contratte nel cosiddetto interesse del condominio non si contraggono in favore di un ente, ma nell'interesse dei singoli partecipanti.
Secondo la giurisprudenza consolidata, poi, l'amministratore del condominio raffigura un ufficio di diritto privato assimilabile al mandato con rappresentanza: con la conseguente applicazione, nei rapporti tra l'amministratore e ciascuno dei condomini, delle disposizioni sul mandato.
Xxxxxx, la rappresentanza, non soltanto processuale, dell'amministratore del condominio è circoscritta alle attribuzioni - ai compiti ed ai poteri - stabilite dall'art. 1130 cod. civ..
In giudizio l'amministratore rappresenta i singoli condomini, i quali sono parti in causa nei limiti della loro quota (art. 1118 e 1123 cod. civ.). L'amministratore agisce in giudizio per la tutela dei diritti di ciascuno dei condomini, nei limiti della loro quota, e solo in questa misura ognuno dei condomini rappresentati deve rispondere delle conseguenze negative. Del resto, l'amministratore non ha certo il potere di impegnare i condomini al di là del diritto, che ciascuno di essi ha nella comunione, in virtù della legge, degli atti d'acquisto e delle convenzioni. In proporzione a tale diritto ogni partecipante concorre alla nomina dell'amministratore e in proporzione a tale diritto deve ritenersi che gli conferisca la rappresentanza in giudizio. Basti pensare che, nel caso in cui l'amministratore agisca o sia convenuto in giudizio per la tutela di un diritto, il quale fa capo solo a determinati condomini, soltanto i condomini interessati partecipano al giudizio ed essi soltanto rispondono delle conseguenze della lite.
Pertanto, l'amministratore - in quanto non può obbligare i singoli condomini se non nei limiti dei suoi poteri, che non contemplano la modifica dei criteri di imputazione e di ripartizione delle spese stabiliti dall'art. 1123 c.c. - non può obbligare i singoli condomini se non nei limiti della rispettiva quota.
2.5 Riepilogando, ritenuto che la solidarietà passiva, in linea di principio, esige la sussistenza non soltanto della pluralità dei debitori e della identica causa dell'obbligazione, ma altresì della indivisibilità della prestazione comune; che in mancanza di quest'ultimo requisito e in difetto di una espressa disposizione di legge, la intrinseca parziarietà della obbligazione prevale; considerato che l'obbligazione ascritta a tutti i condomini, ancorché comune, è divisibile, trattandosi di somma di danaro; che la solidarietà nel condominio non è contemplata da nessuna disposizione di legge e che l'art. 1123 cit., interpretato secondo il significato letterale e secondo il sistema in cui si inserisce, non distingue il profilo esterno e quello interno; rilevato, infine, che - in conformità con il difetto di struttura unitaria del condominio, la cui organizzazione non incide sulla titolarità individuale dei diritti, delle obbligazioni e della relativa responsabilità - l'amministratore vincola i singoli nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote: tutto ciò premesso, le obbligazioni e la susseguente responsabilità dei condomini sono governate dal criterio dalla parziarietà. Ai singoli si imputano, in proporzione alle rispettive quote, le obbligazioni assunte nel cosiddetto "interesse del condominio", in relazione alle spese per la conservazione e per il godimento delle cose comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Pertanto, le obbligazioni dei condomini sono regolate da criteri consimili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ., per le obbligazioni ereditarie, secondo cui i coeredi concorrono al pagamento dei debiti ereditali in proporzione alle loro quote e l'obbligazione in solido di uno dei condebitori tra gli eredi si ripartisce in proporzione alle quote ereditarie.
2.6 Il contratto, stipulato dall'amministratore rappresentante, in nome e nell'interesse dei condomini rappresentati e nei limiti delle facoltà conferitegli, produce direttamente effetti nei confronti dei rappresentati. Conseguita nel processo la condanna dell'amministratore, quale rappresentante dei condomini, il creditore può procedere all'esecuzione individualmente nei confronti dei singoli, secondo la quota di ciascuno.
Per concludere, la soluzione, prescelta secondo i rigorosi principi di diritto che regolano le obbligazioni contrattuali comuni con pluralità di soggetti passivi, appare adeguata alle esigenze di giustizia sostanziale emergenti dalla realtà economica e sociale del condominio negli edifici.
Per la verità, la solidarietà avvantaggerebbe il creditore il quale, contrattando con l'amministratore del condominio, conosce la situazione della parte debitrice e può cautelarsi in vari modi; ma appare preferibile il criterio della parziarietà, che non costringe i debitori ad anticipare somme a volte rilevantissime in seguito alla scelta (inattesa) operata unilateralmente dal creditore. Allo stesso tempo, non si riscontrano ragioni di opportunità per posticipare la ripartizione del debito tra i condomini al tempo della rivalsa, piuttosto che attuarla al momento dell'adempimento.
6.2 Cass. 29 gennaio 2015, n. 1674
La responsabilità dei condomini nel caso di obbligazioni pecuniarie è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 c.c.
3. - Il primo motivo del ricorso principale (che sebbene genericamente intitolato è chiaramente riferito, nello svolgimento e nel quesito di diritto, alla violazione dell'art. 1294 c.c.) è fondato nei termini che seguono.
3.1. - La natura delle obbligazioni dei singoli condomini verso i terzi è i stata oggetto, vigente la disciplina anteriore alla legge n. 220/12 (in vigore dal 18.6.2013), di un intervento delle S.U. di questa Corte, le quali con sentenza n. 9148/08 hanno affermato, in rapporto a obbligazioni assunte dall'amministratore in rappresentanza del condominio nei confronti di terzi, che in difetto di un'espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, la responsabilità dei condomini nel caso di obbligazioni pecuniarie è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 c.c..
Ciò in quanto, si legge in motivazione, la solidarietà configura, nei rapporti esterni tra creditore e debitori, il modo di essere di un'obbligazione intrinsecamente parziaria quando la legge privilegia la comunanza della prestazione. Diversamente, in assenza, cioè di un'espressa previsione normativa che stabilisca la solidarietà nel debito, la struttura parziaria dell'obbligazione ha il sopravvento e insorge una pluralità di obbligazioni tra loro connesse. Sebbene la solidarietà raffiguri un principio riguardante i condebitori in genere, tale principio generale è valido laddove, in concreto, sussistano tutti i presupposti previsti dalla legge per l'attuazione congiunta del condebito. E poiché la solidarietà, spesso, viene ad essere la configurazione ex lege, nei rapporti esterni, di un'obbligazione intrinsecamente parziaria, in difetto di configurazione normativa dell'obbligazione come solidale e, contemporaneamente, in presenza di un'obbligazione comune, ma naturalisticamente divisibile, viene meno uno dei requisiti della solidarietà, la quale, del resto, viene meno ogni qual volta la fonte dell'obbligazione comune è intimamente collegata con la titolarità delle res.
3.1.1. - Tale pronuncia delle S.U., emessa con riguardo ad un'obbligazione contrattuale che un condominio tramite il suo amministratore aveva assunto verso un terzo, ricollega dunque la solidarietà nelle obbligazioni divisibili ad una previsione legislativa che imponga l'esecuzione congiunta della prestazione.
In disparte il delicato problema dell'esportabilità del principio anzi detto oltre gli stretti limiti di corrispondenza alla fattispecie concreta posta all'esame delle S.U. (per un'argomentata negativa cfr. in motivazione Cass. n. 21907/11, che osserva come la decisione delle S.U. si basi essenzialmente su considerazioni ulteriori che eccedono il fondamento dell'art. 1294 c.c. e la sua applicabilità alla comunione), va osservato che in materia di responsabilità per fatto illecito l'espressa previsione della solidarietà passiva è contenuta nell'art. 2055, primo comma c.c., in base al quale se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno.
3.1.2. - L'applicabilità dell'art. 2055 c.c. (che opera un rafforzamento del credito evitando al creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori pro quota) ai danni da cosa condominiale in custodia trova una prima conferma, innanzi tutto, in alcuni precedenti di questa Corte, come Cass. n. 6665/09, che ha ritenuto il condomino danneggiato quale terzo rispetto allo stesso condominio cui è ascrivibile il danno stesso (con conseguente inapplicabilità dell'art. 1227, primo comma c.c.); Cass. n. 4797/01, per l'ipotesi di danni da omessa manutenzione del terrazzo di copertura cagionati al condomino proprietario dell'unità immobiliare sottostante; Cass. n. 6405/90, secondo cui i singoli proprietari delle varie unità immobiliari comprese in un edificio condominiale, sono a norma dell'art. 1117 c.c. (salvo che risulti diversamente dal titolo) comproprietari delle parti comuni, tra Le quali il lastrico solare, assumendone la custodia con il correlativo obbligo di manutenzione, con la conseguenza, nel caso di danni a terzi per difetto di manutenzione del detto lastrico, della responsabilità solidale di tutti i condomini, a norma degli artt. 2051 e 2055 c.c..
3.1.3. - Ciò premesso a giustificazione di una linea di tendenza che appare già presente, va osservato che premesse storiche, ragioni sistematiche e considerazioni particolari alla fattispecie della responsabilità per danni derivanti da cose in custodia, confortano la tesi dell'applicabilità dell'art. 2055, 1 comma c.c. anche in ambito condominiale.
Nel codice civile del 1865, che come tutti i codici liberali dell'800 richiedeva, essendo ispirato al favor debitoris, una specifica fonte convenzionale o legale della solidarietà (v. l'art. 1188 c.c. 1865), la previsione della solidarietà passiva nelle ipotesi di delitto o quasi-delitto (v. l'art. 1156 c.c. 1865) impediva che l'opposto principio della parziarietà dell'obbligazione, concepito come una sorta di beneficio, potesse operare anche a vantaggio di chi, essendo autore di un illecito aquiliano, non ne era ritenuto degno.
Invertita nel codice vigente la regola generale sulla solidarietà passiva, l'art. 2055 c.c. può ritenersi mera norma di rimando all'art. 1294 c.c. solo a patto di riespandere quella portata generale e autoreferenziale di quest'ultima disposizione, che il citato arresto delle S.U. ha inteso comprimere.
Diversamente, minore è la pervasività della regola generale nelle singole ipotesi di obbligazioni soggettivamente complesse nel lato passivo, maggiore, di riflesso, è l'autonoma incidenza fondativa delle norme che prevedono la solidarietà in ambiti particolari, tra cui appunto l'art. 2055, 1 comma c.c. per quanto concerne la responsabilità extracontrattuale. Non può ipotizzarsi, infatti, che il sistema ponga allo stesso modo, con disposizioni ugualmente generiche e necessitanti d'integrazione, tanto la regola generale quanto quella di settore.
A ciò va aggiunto che la stessa struttura della responsabilità per danni prevista dall'art. 2051 c.c. presuppone l'identificazione di uno o più soggetti cui sia imputabile la custodia. Il custode non può essere identificato né nel condominio, interfaccia idoneo a rendere il danneggiato terzo rispetto agli altri condomini, ma pur sempre ente di sola gestione di beni comuni, né nel suo amministratore, essendo questi un mandatario dei condomini. Solo questi ultimi, invece, possono considerarsi investiti del governo della cosa, in base ad una disponibilità di fatto e ad un potere di diritto che deriva loro dalla proprietà piena sui beni comuni ex art. 1117 c.c. (sui requisiti in generale della custodia ai fini dell'applicazione dell'art. 2051 c.c., cfr. Cass. S.U. n. 12019/91).
Se ne deve trarre, pertanto, che il risarcimento del danno da cosa in custodia di proprietà condominiale non si sottrae alla regola della responsabilità solidale ex art. 2055, 1 comma c.c., individuati nei singoli condomini i soggetti solidalmente responsabili.
7. LE SEZIONI UNITE SULLE OBBLIGAZIONI SOLIDALI IN TEMA DI ILLECITO AQUILANO: Xxxx. Sez. Un. 15 luglio 2009, n. 16503
In contrapposizione all'art. 2043 c.c., che fa sorgere l'obbligo del risarcimento dalla commissione di un «fatto» doloso o colposo, il successivo art. 2055 considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, il «fatto dannoso», sicché, mentre la prima norma si riferisce all'azione del soggetto che cagiona l'evento, la seconda riguarda la posizione di quello che subisce il danno, ed in cui favore è stabilita la solidarietà.
Deriva, da quanto precede, che l'unicità del fatto dannoso richiesta dal ricordato art. 2055 per la legittima predicabilità di una responsabilità solidale tra gli autori dell'illecito deve essere intesa in senso non assoluto, ma relativo al danneggiato, ricorrendo, pertanto, tale forma di responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni o omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, ed anche diversi, sempreché le singole azioni o omissioni abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno.
In altri termini, per il sorgere della responsabilità solidale dei danneggianti l'art. 2055, comma 1, c.c. richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano tra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone, anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale e extracontrattuale, atteso che l'unicità del fatto dannoso considerata dalla norma suddetta deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità delle norme giuridiche da essi violate.
10. Con il primo motivo il ricorrente S. R. censura la sentenza impugnata denunziando “violazione e falsa applicazione degli artt. 1306, 2° comma e 2909 c.c. e dell'art. 112 c.p.c.; omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 3, 4 e 5 c.p.c.)”.
Assume, in particolare, il ricorrente che la deroga al principio dei limiti soggettivi del giudicato, di cui all'art. 1306, comma 2, c.c. può operare solo con riferimento alle obbligazioni solidali nascenti da uno stesso titolo.
11. Nei limiti di cui appresso il motivo è fondato. Alla luce delle considerazioni che seguono.
11.1. In tema di obbligazioni solidali, giusta la puntuale previsione di cui all'art. 1306 c.c. “la sentenza pronunziata tra il creditore e uno dei debitori in solido, o tra il debitore e uno dei creditori in solido, non ha effetto contro gli altri debitori o contro gli altri creditori” (comma 1).
“Gli altri debitori - peraltro - possono opporla al creditore, salvo che sia fondata sopra ragioni personali al condebitore; gli altri creditori possono farla valere contro il debitore, salve le eccezioni personali che questi può opporre a ciascuno di essi” (comma 2).
11.2. In applicazione della disposizione da ultimo trascritta la sentenza ora oggetto di ricorso per cassazione, ha rigettato la domanda proposta da S. R. nei confronti del Ministero osservando:
- il giudizio (tra il danneggiato e il T. nonché la compagnia assicuratrice del veicolo dallo stesso condotto), conclusosi con sentenza passata in giudicato 8 luglio 1987 ha avuto a oggetto lo stesso fatto generatore del danno, ossia l'investimento di S. R. a opera dell'auto condotta dal T. e di sua proprietà, dedotto in questa sede al fine di estendere la responsabilità del Ministero quale soggetto autore di una condotta autonoma, antecedente che avrebbe concorso, mediante omissione di doverose cautele, a provocare il sinistro;
- da ciò discende che il Ministero, chiamato a rispondere quale condebitore solidale in relazione al medesimo fatto generatore del danno, ancorché con ruolo causale autonomo per condotta antecedente, e rimasto estraneo al giudizio, ha facoltà - ai sensi dell'art. 1306, comma 2 c.c. - di opporre allo S., quale creditore, la sentenza passata in giudicato, così giovandosi dell'accertamento, ormai irretrattabile, fatto nei rapporti con gli altri condebitori solidali, in forza del quale il danno, per metà, deve restare a carico della vittima, senza possibilità di rivalsa nei confronti degli altri condebitori.
11.3. L'interpretazione data, dalla sentenza gravata, al combinato disposto di cui agli artt. 1306, comma 2 e 2909
c.c. non merita - a parere di queste Sezioni Unite - conferma.
11.3.1. Come noto, in contrapposizione all'art. 2043 c.c., che fa sorgere l'obbligo del risarcimento dalla commissione di un «fatto» doloso o colposo, il successivo art. 2055 considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, il «fatto dannoso», sicché, mentre la prima norma si riferisce all'azione del soggetto che cagiona l'evento, la seconda riguarda la posizione di quello che subisce il danno, ed in cui favore è stabilita la solidarietà.
Deriva, da quanto precede, che l'unicità del fatto dannoso richiesta dal ricordato art. 2055 per la legittima predicabilità di una responsabilità solidale tra gli autori dell'illecito deve essere intesa in senso non assoluto, ma relativo al danneggiato, ricorrendo, pertanto, tale forma di responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni o omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, ed anche diversi, sempreché le singole azioni o omissioni abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno (Cass. 15 luglio 2005, n. 15030).
In altri termini, per il sorgere della responsabilità solidale dei danneggianti l'art. 2055, comma 1, c.c. richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano tra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone, anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale e extracontrattuale, atteso che l'unicità del fatto dannoso considerata dalla norma suddetta deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità delle norme giuridiche da essi violate (Cass. 16 dicembre 2005, n. 27713; Cass. 14 gennaio 1996, n. 418).
11.3.2. Certo quanto sopra, osserva la Corte che nella specie la sentenza del 1987, coperta da giudicato, ha ritenuto - in esito a un giudizio al quale non ha partecipato il Ministero odierno controricorrente - che il fatto dannoso denunziato (le lesioni riportate da S. R.) fosse ascrivibile alla concorrente responsabilità de il T., che ha
investito lo S. (per il 50 %) e dello stesso S. (per il restante 50%) che non ha prestato la dovuta attenzione nell'attraversare la carreggiata stradale percorsa dal T..
11.3.3. È evidente, pertanto, che il giudicato formatosi in quella sede [e opponibile al creditore da parte del Ministero, condebitore solidale] riguarda, oltre che la misura del danno conseguente all'evento (cfr. Cass. 11 giugno 2008, n. 15462) non - come implicitamente ritenuto dalla sentenza impugnata - tutte le autonome, e distinte, condotte poste in essere da tutti coloro che - almeno in tesi - possono ritenersi responsabili solidali dell'evento, ma unicamente il comportamento colposo di uno di questi, e, in particolare, del T..
Non essendo stato oggetto di indagine, in quel giudizio, la diversa, e autonoma, condotta del Ministero che ha omesso di vigilare sul comportamento dello S., all'epoca dei fatti minore, è evidente che nessun giudicato, si è formato - ex art. 2909 c.c. - su tale omessa (o insufficiente) vigilanza.
11.3.4. Certo quanto sopra, e certo che nella specie il danneggiato non ha ottenuto - in esito al precedente giudizio - l'integrale risarcimento del pregiudizio patito (e già accertato) è palese che non sussisteva alcuna preclusione, perché il danneggiato - dopo il passaggio in giudicato della sentenza nei confronti del T. - agisca, per ottenere il residuo risarcimento, nei confronti del Ministero per la verifica di tale diversa colpa in vigilando.
A fronte di tale domanda, correttamente - in applicazione dell'art. 1306, comma 2, c.c. - il Ministero (al fine di paralizzare almeno in parte, l'accoglimento della domanda avversaria) ha opposto che era oramai irretrattabile sia il quantum debeatur del fatto dannoso, sia che di questo il T. era responsabile al 50%.
È certo - infatti - che in questo secondo giudizio lo S. non può pretendere danni ulteriori né il pagamento, dal coobbligato solidale delle somme già riscosse in forza del precedente titolo dall'altro coobbligato (cfr. Cass. 2 luglio 2004, n. 12174).
11.3.5. Deve escludersi, peraltro, come anticipato, che sia precluso in questo nuovo giudizio il diverso accertamento - ora sollecitato dallo S. - quanto alla rilevanza della condotta negligente della scuola, e quindi del Ministero, per avere omesso i dovuti controlli prima di lasciare libero il minore.
Infatti, a prescindere dal rilevare che nessun accertamento, con forza di giudicato, è stato mai compiuto al riguardo, non può considerarsi favorevole al debitore solidale - per gli effetti di cui all'art. 1306, comma 2, c.c. - il capo della sentenza che abbia affermato la sussistenza del concorrente apporto causale dello stesso creditore al verificarsi dell'evento lesivo (a norma dell'art. 1227, comma 1, c.c.) qualora il creditore nel secondo giudizio intenda imputare al terzo, non convenuto nel precedente giudizio, la responsabilità proprio di quell'apporto causale che il primo giudice abbia ritenuto scriminante della responsabilità del primo convenuto.
8. TRANSAZIONE E OBBLIGAZIONI SOLIDALI: Xxxx. Sez. Un. 30 dicembre 2011, n. 30174
Il debitore che non sia stato parte della transazione stipulata dal creditore con altro condebitore in solido non può profittarne se, trattandosi di un'obbligazione divisibile ed essendo stata la solidarietà prevista nell'interesse del creditore, l'applicazione dei criteri legali d'interpretazione dei contratti porti alla conclusione che la transazione ha avuto ad oggetto non l'intero debito ma solo la quota di esso riferibile al debitore che ha transatto; in caso contrario, il condebitore ha diritto a profittare della transazione senza che eventuali clausole in essa inserite possano impedirlo.
Qualora risulti che la transazione ha avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che la ha stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido è destinato a ridursi in misura corrispondente all'ammontare di quanto pagato dal condebitore che ha transatto solo se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito; se invece il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al condebitore che ha raggiunto l'accordo transattivo, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura proporzionale alla quota di chi ha transatto.
4. Il quarto ed il quinto motivo del ricorso sono collegati e possono perciò essere esaminati congiuntamente.
Si tratta della già accennata questione se il creditore ed uno dei debitori in solido, nel transigere la lite tra loro insorta, possano impedire agli altri debitori in solido di profittare degli effetti della transazione, come previsto dall'art. 1304, primo comma, c.c. (omissis)
4.1. A tal riguardo è opportuno anzitutto rilevare come l'apparente contrasto riscontrabile nella lettura di alcune massime estratte da sentenze di questa corte (Cass. n. 5108 del 2011 e n. 4257 del 1991, da un lato, Cass. n. 1873 del 1997 e n. 24 del 1968, dall'altro) sembra in realtà agevolmente componibile in base alla diversa portata che, di volta in volta, può assumere la transazione intervenuta tra il creditore ed uno di più condebitori solidali. Decisiva in tal senso, come è stato sottolineato anche dalla dottrina maggioritaria, appare la circostanza che la transazione riguardi l'intero debito o che invece abbia ad oggetto unicamente la quota del debitore con cui è stipulata. Ipotesi, quest'ultima, certamente configurabile - sempre che, beninteso, l'obbligazione sia per sua natura scindibile e che non si tratti di solidarietà pattuita nell'interesse di uno dei condebitori - quando vi consenta il creditore nel cui interesse il vincolo della solidarietà passiva è concepito, senza che sia necessario postulare un preventivo scioglimento della solidarietà, che ben può invece realizzarsi nel contesto medesimo della transazione. Né occorre a tal fine postulare un'indispensabile diversità dei titoli da cui dipendono le diverse obbligazioni legate dal vincolo della solidarietà, volta che tale vincolo sia unicamente funzionale ad una migliore realizzazione del credito e nulla perciò valga ad ostacolare la libera esplicazione dell'autonomia negoziale delle parti che intendono escluderlo per una quota parte del credito stesso.
La transazione pro quota, in quanto tesa a determinare lo scioglimento della solidarietà passiva rispetto al debitore che vi aderisce, non può coinvolgere gli altri condebitori, i quali dunque nessun titolo avrebbero per profittarne, salvo ovviamente che per gli effetti derivanti dalla riduzione del loro debito in conseguenza di quanto pagato dal debitore transigente. La previsione dell'art. 1304, primo comma, c.c. non si riferisce a questa fattispecie (in tal senso si vedano anche Cass. n. 16050 del 2009, Cass. n. 14550 del 2009, Cass. n. 7485 del 2007, Cass. n. 9396 del 2006 e Cass. n. 8946 del 2006).
È la transazione riguardante l'intero debito quella cui, viceversa, detta norma si riferisce, perché è la comunanza dell'oggetto della transazione a far si che di questa possa avvalersi il condebitore in solido, pur non avendo partecipato alla sua stipulazione e quindi in deroga al principio secondo cui il contratto produce effetto solo tra le parti. La riduzione dell'ammontare del debito eventualmente pattuita in via transattiva con uno solo dei debitori opererà, in tal caso, anche per gli altri che dichiarino di volersene avvalere, non diversamente da quel che sarebbe accaduto se anch'essi avessero sottoscritto la medesima transazione. Né tale conseguenza potrebbe essere evitata introducendo nella transazione per l'intero debito una clausola di contrario tenore, per l'ovvia considerazione che una simile clausola sarebbe destinata ad incidere su un diritto potestativo che la legge attribuisce ad un soggetto terzo, rispetto ai contraenti, e del quale perciò questi ultimi non sarebbero legittimati a disporre.
Lo stabilire poi se, in concreto, la transazione tra il creditore ed uno dei debitori in solido ha avuto ad oggetto l'intero debito o solo la quota del debitore transigente comporta, evidentemente, un'indagine sul contenuto del contratto e sulla comune volontà che in esso i contraenti hanno inteso manifestare, da compiere ad opera del giudice di merito secondo le regole di ermeneutica fissate negli artt. 1362 e segg. c.c..
4.2. Xxxxx però ancora interrogarsi, ove l'indagine sopra menzionata conduca alla conclusione che le parti hanno inteso focalizzare la transazione unicamente su una determinata quota di debito, su quale sia il residuo credito azionabile nei confronti degli altri debitori rimasti estranei.
La risposta della giurisprudenza a questo interrogativo non sempre è stata chiara. In taluni casi si è affermato che il credito verso gli altri condebitori si riduce in proporzione alla quota transatta (cfr. Cass., n. 16050 del 2009, Cass. n. 7485 del 2007, Cass. n. 8946 del 2006, Cass. n. 7212 del 2002, Cass. n. 2931 del 1999 e Cass. 7413 del 1991); in altri casi si è detto che esso si riduce in misura pari all'ammontare di quanto il creditore ha già percepito a seguito della transazione (cfr. Cass. n. 5108 del 2011, Cass. n. 14550 del 2009 e Cass. n. 4820 del 1979).
Il risultato non è però necessariamente il medesimo. Qualora, infatti, la transazione porti all'uscita di scena di uno dei debitori solidali, ma al tempo stesso alla soddisfazione del credito in misura minore rispetto
alla quota ideale gravante su quel debitore (si faccia l'esempio di un credito verso tre condebitori solidali, d'importo pari a 90, e si ipotizzi che la transazione sulla quota di uno dei debitori abbia determinato il pagamento di 20), un conto è affermare che gli altri condebitori restano tenuti per l'ammontare non soddisfatto del credito (pari, nell'esempio fatto, a 70), altro dire che il loro debito si riduce in misura proporzionale alla quota ideale del condebitore venuto meno (ciò che, nel suddetto esempio, legittimerebbe il creditore a pretendere dai condebitori esclusi dalla transazione solo 60).
Considerato allora che la transazione parziaria non può né condurre ad un incasso superiore rispetto all'ammontare complessivo del credito originario, né determinare un aggravamento della posizione dei condebitori rimasti ad essa estranei, neppure in vista del successivo regresso nei rapporti interni, è giocoforza pervenire alla conclusione che il debito residuo dei debitori non transigenti è destinato a ridursi in misura corrispondente all'ammontare di quanto pagato dal condebitore che ha transatto solo se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito. In caso contrario, se cioè il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al transigente, il debito residuo che resta tuttora a carico solidale degli altri obbligati dovrà essere necessariamente ridotto (non già di un ammontare pari a quanto pagato, bensì) in misura proporzionale alla quota di chi ha transatto, giacché altrimenti la transazione provocherebbe un ingiustificato aggravamento per soggetti rimasti ad essa estranei.
(omissis)
5. L'impugnata sentenza deve perciò essere cassata, con rinvio alla Corte d'appello di Roma (in diversa composizione), che giudicherà attenendosi al seguente principio di diritto:
'Il debitore che non sia stato parte della transazione stipulata dal creditore con altro condebitore in solido non può profittarne se, trattandosi di un'obbligazione divisibile ed essendo stata la solidarietà prevista nell'interesse del creditore, l'applicazione dei criteri legali d'interpretazione dei contratti porti alla conclusione che la transazione ha avuto ad oggetto non l'intero debito ma solo la quota di esso riferibile al debitore che ha transatto; in caso contrario il condebitore ha diritto a profittare della transazione senza che eventuali clausole in essa inserite possano impedirlo.
Qualora risulti che la transazione ha avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che la ha stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido è destinato a ridursi in misura corrispondente all'ammontare di quanto pagato dal condebitore che ha transatto solo se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito; se invece il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al condebitore che ha raggiunto l'accordo transattivo, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura proporzionale alla quota di chi ha transatto'.
10. LE COORDINATE DEL CONTRATTO AUTONOMO DI GARANZIA: Xxxx. Sez. Un. 18 febbraio 2010, n. 3947
La polizza fideiussoria stipulata a garanzia delle obbligazioni assunte da un appaltatore assurge a garanzia atipica, a cagione dell'insostituibilità della obbligazione principale, onde il creditore può pretendere dal garante solo un risarcimento, prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto. Con la precisazione, peraltro, della invalidità della polizza stessa se intervenuta successivamente rispetto all'inadempimento delle obbligazioni garantite.
1. La giurisprudenza di questa corte ha seguito, nel tempo, itinerari interpretativi non sempre univoci sul tema dei rapporti tra fideiussione e cd. Garantievertrag, pur avendo di recente manifestato una sempre maggiore consonanza di pensiero nella strutturazione di una sempre più indispensabile actio finium regundorum tra le due fattispecie.
(omissis)
L'elemento caratterizzante della fattispecie in esame viene individuato nell'impegno del garante a pagare illico et immediate, senza alcuna facoltà di opporre al creditore/beneficiario le eccezioni relative ai rapporti di valuta e di provvista, in deroga agli artt. 1936, 1941 e 1945 x.x., xxxxxxxxxxxxxxx, xx xxxxxxxx, xx xxxxxxxx xxxxxxxxxxxx.
Elisione del vincolo di accessorietà e scissione della garanzia dal rapporto di valuta caratterizzano sul piano funzionale il Garantievertrag, la cui causa concreta viene correttamente individuata in quella di assicurare la libera circolazione dei capitali e il pronto soddisfacimento dell'interesse del beneficiario (ovvero ancora in quella di sottrarre il creditore al rischio dell'inadempimento, trasferito nei fatti su di un altro soggetto, "istituzionalmente" solvibile), il quale può così porre affidamento su di una rapida e sollecita escussione di una controparte affidabile, senza il rischio di vedersi opporre, in sede processuale, il regime tipico delle eccezioni fideiussorie.
E' in tali sensi che par lecito discorrere, a proposito del contratto atipico di garanzia, di una funzione di tipo "cauzionale" - mentre la sua più frequente utilizzazione rispetto al deposito di una vera e propria cauzione trae linfa proprio in ragione della sua minore onerosità e della possibilità di evitare una lunga e improduttiva immobilizzazione di capitali (conseguenza ineludibile del deposito cauzionale): è in conseguenza di tali aspetti funzionali che la garanzia muta "geneticamente" da vicenda lato sensu fideiussoria in fattispecie atipica che, ai sensi dell'art. 1322 c.c., comma 2, persegue un interesse certamente "meritevole di tutela", identificabile nell'esigenza condivisa di assicurare l'integrale soddisfacimento dell'interesse economico del beneficiario vulnerato dall'inadempimento del debitore originario e, di conseguenza, di conferire maggiore certezza allo scorrere dei rapporti economici (specie transnazionali).
2. Emerge così, in via definitiva, sotto il profilo causale, la disarmonia morfologica e funzionale con la fideiussione (volta a garantire l'adempimento di un debito altrui), sopravvivendo resti di omogeneità tra i due "tipi" negoziali soltanto nella misura in cui, attorno alle due le fattispecie, orbiti ancora il concetto di garanzia, pur nelle non riconciliabili differenze di gradazioni "che il rapporto con la garanzia stessa può assumere lungo lo spettro, unico, che conduce dalla accessorietà alla autonomia e che delinea il Garantievertrag entro ben determinati limiti di operatività: da un lato, un limite iniziale, costituito (soltanto) dalla illiceità della causa del rapporto di valuta, dall'altro, un limite funzionale, rappresentato dall'abuso del diritto da parte del beneficiario, la cd. exceptio doli generalis seu presentis, che si verifica qualora la richiesta appaia fraudolenta e con esclusione della buona fede del beneficiario", come, di recente, un'attenta dottrina non ha mancato di osservare, aggiungendo ancora come l'indagine sulla volontà dei contraenti andrebbe più propriamente condotta lungo il sentiero ermeneutico dell'accertamento della carenza dell'elemento dell'accessorietà, destinato ad emergere, in concreto, attraverso l'adozione di un complesso di regole interpretative, testuali ed extratestuali, ritenendosi, in particolare, che la clausola "a prima richiesta" o "a semplice richiesta" possa alternativamente rappresentare diversi "tipi" funzionali, a grado di intensità crescente: il primo, rigorosamente procedimentale, volto alla sola inversione dell'onere probatorio; il secondo, determinativo dell'effetto di solve et repete, per ciò solo del tutto inscritto (ancora) nell'orbita del negozio fideiussorio; il terzo, di sostanziale separazione del diritto all'adempimento della autonoma obbligazione di garanzia rispetto al contratto sottostante.
Largamente prevalente, in proposito, appare l'orientamento giurisprudenziale (avallato dalla dottrina maggioritaria), predicativo della decisiva rilevanza di clausole che sanciscano l'impossibilità, per il garante, di opporre al creditore le eccezioni relative al rapporto di base che spettano al debitore principale (…), mentre alcune pronunce di merito fondano la ricostruzione del Garantievertrag su altri elementi del tessuto negoziale, quali la previsione di un termine breve entro cui il garante è obbligato al pagamento, la decorrenza di tale termine dal ricevimento della richiesta del beneficiario, l'espressa esclusione del beneficio della preventiva escussione (ex aliis, Trib. Milano 22 ottobre 2001).
Criterio interpretativo utile ad orientare l'interprete verso l'autonomia della vicenda di garanzia divisata dalle parti riposa ancora sull'individuazione - nell'ambito di una lettura complessiva delle singole convenzioni negoziali - di una sua eventuale funzione "cauzionale": la peculiarità propria del Garantievertrag è difatti quella di consentire al creditore di escutere il garante con la stessa, tempestiva efficacia con cui egli
potrebbe far proprio un versamento cauzionale. La funzione cauzionale sarebbe soddisfatta, e l'autonomia della garanzia sarebbe conseguentemente rinvenuta, secondo alcune pronunce di questa corte, tutte le volte che la relativa convenzione attribuisca al creditore la facoltà di procedere ad immediata riscossione delle somme, a prescindere dal rapporto garantito, realizzando così una funzione del tutto simile a quella dell'incameramento di una somma di denaro a titolo di cauzione (Cass. 17 maggio 2001, n. 6757; Cass. 21 aprile 1999, n. 3964; Cass. 6 aprile 1998, predicative di un principio di diritto condiviso da autorevole dottrina).
Con particolare riguardo alle polizze fideiussorie (…), si è più volte sottolineato come esse concretino un rapporto di un soggetto (una compagnia di assicurazioni o un istituto bancario) che, dietro pagamento di un corrispettivo, si impegna a garantire in favore di altro soggetto l'adempimento di una determinata obbligazione assunta dal contraente della polizza, strumento contrattuale che, pur non essendo espressamente disciplinato dal codice del '42, è menzionato in molte leggi speciali che lo prevedono come forma di garanzia sostitutiva della cauzione reale, normalmente richiesta per chi stipula - come nel caso di specie - contratti con la P.A..
Disattesa pressochè unanimemente la ricostruzione volta a riconoscere natura essenzialmente assicurativa alla fattispecie (risulta essersi pronunciata in tal senso la sola, peraltro assai risalente, Cass. 9 luglio 1943), la giurisprudenza di questa corte, sia pure nell'ambito dell'orientamento (che appare ormai minoritario) applicativo delle norme di cui agli artt. 1936 e ss. c.c. ha in passato ritenuto che la polizza de qua costituisse un sottotipo innominato di fideiussione, giudicando decisivo a tal fine il permanere della funzione di garanzia dell'adempimento di una altrui obbligazione, pur in presenza di elementi caratteristici idonei a distinguerla all'interno della fattispecie tipica della fideiussione come disciplinata dal codice (l'assunzione, cioè, della garanzia secondo modalità tecnico-economiche dell'assicurazione: tra le meno recenti, Cass. 8 febbraio 1963, n. 221; 9 giugno 1975, n. 2297; 17 novembre 1982, n. 6155).
La maggior parte delle pronunzie, di converso (…) avrebbe viceversa posto l'accento sul carattere decisamente atipico della polizza, separando la questione della determinazione della disciplina applicabile al contratto da quella dell'individuazione del tipo nominato cui la polizza stessa appaia in sè riconducibile - ma circoscrivendo pur sempre il tema della atipicità alla alternativa tra causa assicurativa e causa fideiussoria (entrambe compenetrate in parte qua nel contratto); gli aspetti prevalenti, e tendenzialmente assorbenti resteranno, però, quelli tipici della fideiussione, con conseguente applicazione delle norme di cui agli artt. 1936 e ss. c.c..
La dottrina, dal suo canto, ha ritenuto di poter individuare tre tipi di polizze fideiussorie: quelle in cui l'obbligo del garante dipende dall'esistenza dell'obbligo del debitore principale; quelle in cui l'obbligo del garante è indipendente da quello del debitore principale; quelle, infine, in cui il beneficiario, per ottenere il pagamento della garanzia, deve provare, in genere mediante documenti indicati nella polizza stessa, alcuni fatti attinenti al rapporto principale (in tal guisa ritenendo applicabile la disciplina della fideiussione alle sole polizze del primo tipo, per effetto della permanenza del carattere accessorio dell'obbligo assunto dal garante, e iscrivendo le altre nell'orbita dei contratti autonomi di garanzia).
(omissis)
3. Passando, allora, alla analisi specifica dei più significativi, precedenti di legittimità in subiecta materia, deve essere considerato:
- Da un canto:
1) il dictum di cui a Xxxx. 2 aprile 2002, n. 4637 (Pres. Giustiniani, rel. Di Nanni), la quale, dopo la generale premessa secondo cui il contratto atipico di garanzia autonoma si differenzia dalla fideiussione per la mancanza dell'elemento dell'accessorietà, nel senso che il garante si impegna a pagare al beneficiario, senza opporre eccezioni fondate sulla validità o efficacia del rapporto di base, ha poi escluso, nella specie, che valessero a snaturare il contratto tipico di fideiussione ed a qualificarlo come garanzia autonoma le diverse previsioni contrattuali di un termine per il pagamento decorrente dalla richiesta, dell'esclusione del beneficio della preventiva escussione del debitore principale, della non necessità del consenso di quest'ultimo al pagamento da parte del garante, del divieto per il garantito a sollevare obiezioni sullo stesso pagamento (nella motivazione della sentenza, si legge ancora che in particolari rapporti, specie quelli di appalto, nella pratica da tempo è invalso l'uso che l'appaltatore, per evitare l'immobilizzazione di somme dovute a scopo cauzionale, presti al committente garanzie bancarie o assicurative di pagamento incondizionato ed irrevocabile di
quanto è da lui dovuto: ciò consente all'appaltatore di non versare la cauzione e garantisce l'appaltante che conseguirà le sonane a semplice richiesta, purchè siano rispettate le forme previste, specificandosi, subito dopo, che questo risultato, peraltro, può essere realizzato anche attraverso una fideiussione, quando il contratto è articolato in modo atipico, prevedendo, ad esempio, deroghe diverse rispetto alla disciplina della fideiussione, come quella dell'esclusione del beneficio della preventiva escussione, ex art. 1944 cod. civ., oppure quella dell'esclusione per il fideiussore di opporre al creditore principale le eccezioni appartenenti al debitore principale, ex art. 1945 c.c.);
2) Le affermazioni di cui a Xxxx. 6 aprile 1998, n. 3552 (Pres. Xxxxxxxx, rel. Preden), ove si legge che, al contratto cosiddetto di assicurazione fideiussoria (o cauzione fideiussoria o assicurazione cauzionale), caratterizzato dall'assunzione di un impegno, da parte di una banca o di una compagnia di assicurazioni, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo nel caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta da un terzo, sono applicabili le disposizione della fideiussione, salvo che sia stato diversamente disposto dalle parti. Riveste carattere derogatorio rispetto alla disciplina della fideiussione, la clausola con la quale venga espressamente prevista la possibilità, per il creditore garantito, di esigere dal garante il pagamento immediato del credito "a semplice richiesta" o "senza eccezioni". In tal caso, in deroga all'art. 1945, è preclusa al fideiussore l'opponibilità delle eccezioni che potrebbero essere sollevate dal debitore principale, restando in ogni caso consentito al garante di opporre al beneficiario "l'exceptio doli", nel caso in cui la richiesta di pagamento immediato risulti "prima facie" abusiva o fraudolenta.
3) I principi di cui a Xxxx. 18 maggio 2001 n. 6823 (Pres. Fiducia, rel. Xxxxx), secondo cui la cosiddetta assicurazione fideiussoria costituisce una figura contrattuale intermedia tra il versamento cauzionale e la fideiussione ed è contraddistinta dall'assunzione dell'impegno, da parte (di una banca o) di una compagnia di assicurazione, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo nel caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta dal contraente. E', poi, caratterizzata, dalla stessa funzione di garanzia del contratto di fideiussione, per cui è ad essa applicabile la disciplina legale tipica di questo contratto, ove non derogata dalle parti;
Dall'altro:
1) I principi di diritto affermati da Xxxx. 21 aprile 1999, n. 3964 (Pres. Xxxxxxxx, rel. Lupo) e 19 giugno 2001, n. 8324 (Pres. Xxxxx, rel. Xxxxxxx), a mente della quali, ai fini della configurabilità di un contratto autonomo di garanzia, oppure di un contratto di fideiussione, non è decisivo l'impiego o meno delle espressioni "a semplice richiesta" o a "prima richiesta del creditore", ma la relazione in cui le parti hanno inteso porre l'obbligazione principale e l'obbligazione di garanzia. Infatti la caratteristica fondamentale che distingue il contratto autonomo di garanzia dalla fideiussione è l'assenza dell'elemento dell'accessorietà della garanzia, insito nel fatto che viene esclusa la facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni che spettano al debitore principale, in deroga alla regola essenziale della fideiussione, posta dall'art. 1945 cod. civ. (in entrambi i casi la fattispecie, analoga a quella oggetto del presente ricorso, aveva a sua volta ad oggetto una polizza fideiussoria cauzionale: i giudici di merito, con consonanti decisioni, confermate in punto di diritto da questa corte, ritennero di dover qualificato in termini di autonomia la convenzione di garanzia stipulata, valorizzando la clausola secondo cui la società garante avrebbe dovuto pagare entro un breve termine dalla richiesta del creditore, dopo semplice avviso al debitore principale, di cui non era richiesto il consenso e che nulla avrebbe potuto eccepire in merito al pagamento, anche in sede di rivalsa del garante, e opinando, in particolare, che la stessa apposizione di un termine breve precludesse a priori qualsiasi possibilità, per il garante, di sollevare eccezioni in ordine al rapporto sottostante, non essendo immaginabile, in tempi estremamente ristretti, lo svolgimento delle necessarie indagini per l'accertamento in concreto dell'inadempimento dell'appaltatore e della legittimità della richiesta dell'amministrazione garantita).
2) Il recente dictum di cui a Xxxx. 2008, n. 2377, ove si legge che la polizza fideiussoria prestata a garanzia dell'obbligazione dell'appaltatore costituisce una garanzia atipica in quanto essa, non potendo garantire l'adempimento di detta obbligazione, perchè connotata dal carattere dell'insostituibilità, può semplicemente assicurare la soddisfazione dell'interesse economico del beneficiario compromesso dall'inadempimento, risultando, quindi, estranea all'ambito delle garanzie di tipo satisfattorio proprie delle prestazioni fungibili, caratterizzate dall'identità della prestazione, dal vincolo della solidarietà e dall'accessorietà, ed essendo, invece, riconducibile alla figura della garanzia di tipo indennitario -
cosiddetta "fideiussio indemnitatis" -, in forza della quale il garante è tenuto soltanto ad indennizzare, o a risarcire, il creditore insoddisfatto. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto che la polizza fideiussoria oggetto di controversia dovesse qualificarsi come garanzia atipica in quanto non finalizzata a garantire la restituzione di un credito erogato dalla Provincia autonoma di Bolzano a fondo perduto per un progetto di riconversione industriale finalizzato al raggiungimento dei livelli occupazionali ed economici preventivati, giacchè detta restituzione sarebbe stata richiesta dalla medesima Provincia unicamente nel caso in cui il mutuatario non fosse stato in grado di adempiere al promesso piano di riconversione industriale).
Un ulteriore passo avanti verso la automaticità dell'equazione Polizza fideiussoria dell'appaltatore = Garantievertrag sembrerebbe implicitamente potersi rinvenire nella sentenza (ritenuta, in dottrina, "una inspiegabile rottura, o quantomeno una forzatura, rispetto al precedente indirizzo giurisprudenziale") di cui a Cass. 27.5.2002, n. 7712 (Pres. Xxxxxxxx, est. Durante), a mente della quale, ove sia prestata a garanzia dell'obbligazione dell'appaltatore, la polizza fideiussoria non è configurabile come fideiussione, bensì come garanzia atipica, in quanto l'insostituibilità della prestazione fa venire meno la solidarietà dell'obbligazione del garante e comporta che il creditore possa pretendere da lui soltanto un indennizzo o un risarcimento, che è prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto (omissis In sede di commento alla pronuncia, non si è mancato di osservare come quest'ultima ancori la propria ratio decidendi al sillogismo per cui: 1) la polizza fideiussoria - a garanzia delle obbligazioni assunte da un appaltatore - assurge a garanzia atipica, a cagione dell'insostituibilità della obbligazione principale (premessa maggiore); 2) il creditore può pretendere dal garante solo un indennizzo o risarcimento, prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto (premessa minore); 3) la polizza fideiussoria è valida anche se intervenuta successivamente rispetto all'inadempimento delle obbligazioni garantite (conclusione), sillogismo del quale si dicono condivisibili le premesse (sia quella maggiore che quella minore), ma non la conclusione.
Va infine ricordato come, ancora più di recente, Cass. 21 febbraio 2008, n, 4446 (Pres. Velia, rel. Mensitieri), abbia avuto modo di operare una sorta di "sintesi" riepilogativa delle posizioni assunte da questa corte in tema di polizze fideiussorie, alla luce della quale: al contratto cosiddetto di assicurazione fideiussoria (o cauzione fideiussoria o assicurazione cauzionale), caratterizzato dall'assunzione di un impegno, da parte di una banca o di una compagnia di assicurazioni, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo nel caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta da un terzo, sono applicabili le disposizioni della fideiussione, salvo che sia stato diversamente disposto dalle parti. La clausola con la quale venga espressamente prevista la possibilità, per il creditore garantito, di esigere dal garante il pagamento immediato del credito "a semplice richiesta" o "senza eccezioni" riveste carattere derogatorio rispetto alla disciplina della fideiussione. Siffatta clausola, risultando incompatibile con detta disciplina, comporta l'inapplicabilità delle tipiche eccezioni fideiussorie, quali, ad esempio, quelle fondate sugli artt. 1956 e 1957 c.c., consentendo l'applicabilità delle sole eccezioni relative al rapporto garante/beneficiario (Cass. 1/6/2004 n. 10486); in tema di garanzia personale, la cosiddetta assicurazione fideiussoria o cauzione fideiussoria o assicurazione cauzionale, è una figura intermedia tra il versamento cauzionale e la fideiussione ed è caratterizzata dall'assunzione dell'impegno, da parte di una banca o di una compagnia di assicurazioni, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo in caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta dal terzo. Poichè infatti le norme contenenti la disciplina legale tipica della fideiussione sono applicabili se non sono espressamente derogate dalle parti, portata derogatoria deve riconoscersi alla clausola legittima in virtù del principio di autonomia negoziale - con cui le parti abbiano previsto la possibilità per il creditore garantito di esigere dal garante il pagamento immediato del credito "a semplice richiesta" o "senza eccezioni", in quanto preclude al garante l'opponibilità al beneficiario delle eccezioni altrimenti spettanti al debitore principale ai sensi dell'art. 1945 c.c.. Siffatta clausola, risultando incompatibile con la disciplina della fideiussione, comporta l'inapplicabilità delle tipiche eccezioni fideiussorie, quali, ad esempio, quelle fondate sugli artt. 1956 e 1957 c.c., consentendo l'applicabilità delle sole eccezioni relative al rapporto garante/beneficiario (Cass. 14/2/2007. n. 3257); nella ipotesi in cui la durata di una fideiussione sia correlata non alla scadenza della obbligazione principale
ma al suo integrale adempimento, l'azione del creditore nei confronti del fideiussore non è soggetta al termine di decadenza previsto dall'art. 1957 c.c., (Cass. 27/11/2002 n. 16758; 19/7/1996 n. 6520; 24/3/1994 n. 2827);
la clausola con la quale il fideiussore si impegni a soddisfare il creditore a semplice richiesta del medesimo configura una valida espressione di autonomia negoziale e da vita ad un contratto atipico di garanzia, che pur derogando al principio dell'accessorietà, non fa venir meno la connessione tra rapporto fideiussorio e quello principale (Cass. 12/1/2007 n. 412).
4. Sulla scorta di tali premesse, l'intervento delle sezioni unite deve, da un canto, definitivamente chiarire i tratti differenziali, sul piano morfologico, funzionale e interpretativo, tra le fattispecie della fideiussione e del contratto autonomo di garanzia; dall'altro, risolvere il contrasto circa la natura delle polizze assicurative cd. "fideiussorie", sia su di un piano generale, sia nella specifica dimensione, più propriamente oggetto di dubbi ermeneutici, delle convenzioni negoziali stipulate dall'appaltatore di opere pubbliche, con particolare riguardo, in quest'ultima ipotesi, e per quanto di interesse a fini interpretativi:
(omissis)
5. (omissis)
I motivi di ricorso appaiono meritevoli di accoglimento, per quanto di ragione.
E' opportuno premettere, ad avviso del collegio, alcune più generali premesse in ordine ai rapporti tra negozio tipico di fideiussione e negozio atipico di garanzia (cd. Garantievertrag) che consentano di pervenire a soddisfacente soluzione in diritto con riguardo alla vicenda processuale di cui queste sezioni unite risultano oggi investite.
6. E' prassi ormai sempre più frequente, nel sottosistema civilistico delle garanzie personali, che contratti di identico contenuto siano indicati con nomi diversi, come accade, in particolare, in tema di polizza fideiussoria, denominata, di volta in volta, "assicurazione cauzionale", "cauzione fideiussoria", "polizza cauzionale", "fideiussione assicurativa".
La polizza fideiussoria è, sotto il profilo genetico, un negozio stipulato dall'appaltatore su richiesta del committente e in suo favore, strutturalmente articolato secondo lo schema del contratto a favore di terzo, funzionalmente caratterizzato dall'assunzione dell'impegno, da parte di una banca o di una compagnia di assicurazione, di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo nel caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta dal contraente (così, ex aliis, Cass. n. 11261/2005); il terzo non è parte, nè in senso sostanziale nè in senso formale, del rapporto, e si limita a ricevere gli effetti di una convenzione già costituita ed operante, sicchè la sua adesione si configura quale mera condicio iuris sospensiva dell'acquisizione del diritto, rilevabile per facta concludentia, risultando la dichiarazione di volerne profittare necessaria soltanto per renderla irrevocabile ed immodificabile ex art. 1411 x.x., xxxxx 0 (Xxxx. n. 23708/2008 e n. 13661/1992); non rileva, difatti, che il contratto sia stato eventualmente stipulato anche con la partecipazione del creditore garantito, derivandone l'esclusivo effetto di obbligare direttamente la compagnia assicuratrice nei confronti del creditore stesso ed impedire che quest'ultimo, quale beneficiario della prestazione negoziata a suo favore dal debitore, possa dichiarare di non aderire alla stipulazione secondo la disciplina del contratto a favore del terzo (Cass. n. 7766/1990), anche se, alla forma giuridica bilaterale della stipulazione - in relazione alla quale il committente è terzo - corrisponde un'operazione economica sostanzialmente trilatera, in cui l'unica parte effettivamente interessata alla validità del contratto è il beneficiario della polizza, che ad essa condiziona l'erogazione delle sue prestazioni, potendo lo stipulante appaltatore anche non avere interesse all'effettiva validità ed efficacia dell'assicurazione (così, ancora, Cass. n. 23708/2008).
Deve, pertanto, convenirsi con la più attenta dottrina che ricostruisce la fattispecie riconoscendo al debitore principale la qualità di parte del contratto - per assumerne la veste di stipulante -, al garante la veste di promittente, al creditore principale quella di (terzo) beneficiario (con la precisazione che, nella normalità dei casi, il testo della garanzia viene in realtà imposto dal beneficiario, il quale non lascia al debitore ordinante margini di negoziazione in ordine alle condizioni contrattuali: nè è escluso che il garante, su incarico del cliente-debitore, stipuli il contratto direttamente con il creditore).
E' questa una prima, essenziale differenza morfologica rispetto allo schema tipico delle convenzioni fideiussorie, che, caratterizzate dalla funzione di garantire un'obbligazione altrui, intercorrono esclusivamente tra il fideiussore e il creditore (omissis).
Altra differenza funzionale rispetto alla fideiussione è costituita dall'essere la polizza o assicurazione fideiussoria "necessariamente onerosa" in quanto assunta dall'assicuratore in corrispettivo del pagamento di un premio (Cass. n. 221/1963), mentre la fideiussione può essere anche a titolo gratuito (nel qual caso il contratto, ponendo obbligazioni a carico di una sola parte, si perfeziona in forza del disposto dell'art. 1333 c.c.(Cass. n. 9468/1987).
7. Quanto alla natura giuridica delle polizze, la giurisprudenza di questa corte le ha diacronicamente considerate, sotto l'aspetto tipologico, di volta in volta come sottotipo innominato di fideiussione (Cass. n. 221/1963), come figura contrattuale intermedia fra il versamento cauzionale e la fideiussione, come contratto atipico, come contratto misto risultante dalla fusione di elementi propri di vari contratti (omissis).
In particolare, diversamente dalla cauzione, la prestazione viene assunta da un terzo (garante) e non dallo stesso debitore obbligato, mentre manca il versamento anticipato di una somma di denaro, così evitandosi l'effetto negativo di una lunga e improduttiva immobilizzazione di capitali; diversamente dalla fideiussione, l'impegno del garante è di estensione tale da consentire al creditore principale di soddisfarsi in via di autotutela, cioè di realizzare il suo credito sui beni oggetto della garanzia (seppur non tramite l'incameramento della cauzione ma) mediante un atto unilaterale costituito da una richiesta della somma assicurata (in caso di inserimento della clausola "a semplice" o "prima richiesta"), all'esito di un accertamento unilaterale ed insindacabile dello stesso creditore in ordine alla ricorrenza delle condizioni previste per l'escussione.
Va altresì sottolineato che, pur essendo prestata spesso da un'impresa di assicurazione, la funzione della polizza non consiste nel trasferimento o nella copertura di un rischio - che assume un rilievo assai marginale, essendo la prestazione del garante svincolata da un preciso ed obiettivo accertamento del suo presupposto (il quale è demandato allo stesso beneficiario) - ma in quella di garantire al beneficiario l'adempimento di obblighi assunti dallo stesso contraente, anche quando l'inadempimento sia dovuto a volontà dello stesso e questi sia solvibile.
8. Secondo un primo orientamento della giurisprudenza di questa corte, poichè la causa del negozio de quo consiste sostanzialmente nel garantire l'adempimento ("sostitutivo o di regresso": Cass. n. 1292/1978 cit.) della prestazione dovuta al creditore da un terzo, troverebbe applicazione la disciplina legale tipica della fideiussione, ove non espressamente derogata, potendo le parti, nella loro autonomia contrattuale, richiamare le norme sull'assicurazione per quanto riguarda i rapporti tra il debitore contraente e l'assicuratore (omissis).
8.1. - Di segno speculare, invece, l'orientamento secondo il quale (omissis), la polizza fideiussoria, se prestata a garanzia dell'obbligazione dell'appaltatore, non ripete i caratteri morfologici della fideiussione, ma si configura come garanzia atipica (cd. fideiussio indemnitatis), in quanto l'infungibilità della prestazione dell'appaltatore fa venir meno la solidarietà dell'obbligazione del garante e comporta che il creditore può pretendere da lui solo un indennizzo o un risarcimento, che è prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto (così, tra le altre, Cass. n. 7712/2002; Cass. n. 2377/2008).
Questo secondo orientamento trae linfa dalla considerazione per cui elemento "normale ed essenziale" del vincolo fideiussorio è pur sempre l'identità con l'obbligazione principale nella sua stessa quantità e nelle sue stesse condizioni. Dal suo canto, autorevole dottrina evidenzia che la polizza non mira a garantire l'adempimento dell'obbligazione del debitore principale (come accade nella fideiussione), ma ad assicurare al creditore la presenza di un soggetto solvibile in grado di tenerlo indenne dall'eventuale inadempimento del medesimo, ciò che dimostrerebbe il venir meno di uno degli elementi strutturali della fideiussione, vale a dire l'accessorietà dell'obbligazione del garante rispetto a quella del debitore principale, con conseguente slittamento verso il modello del contratto autonomo di garanzia e inadeguatezza del modello legale fideiussorio (erroneamente applicato secondo la teoria della prevalenza o dell'assorbimento, ove la disciplina normativa viene individuata attraverso l'incorporazione del contratto nel tipo prevalente o che più gli assomiglia). La medesima dottrina propone, così, l'applicazione del cd. metodo "tipologico", che consentirebbe di rintracciare, nella trama del contratto in questione, sotto- strutture negoziali differenti mediante un'opera di destrutturazione del
contratto che offra all'interprete l'opportunità di individuare diverse caratteristiche tipologiche che solo successivamente verranno utilizzate al fine di determinare (sempre senza valicare i limiti dell'incompatibilità) il mix disciplinare che meglio risponde all'esigenza di regolare il rapporto (mentre da altra parte si invita a considerare la naturale propensione delle polizze a modellarsi in funzione delle diverse esigenze di garanzia di volta in volta soddisfatte e a cogliere e valorizzare il quid proprium delle diverse configurazioni assunte nella prassi, rifuggendo da aprioristici tentativi di generalizzazione e di riduzione a un "tipo").
Sulla polizza fideiussoria si riverbera così l'eco del dibattito sul contratto autonomo di garanzia (Garantievertrag) e sulla sua causa.
8.2. Pur non essendo questa la sede per approfondire gli esiti di tale questione, pare sufficiente considerare che, secondo una diffusa opinione, la funzione del Garantievertrag è quella di tenere indenne il creditore dalle conseguenze del mancato adempimento della prestazione gravante sul debitore principale, che non sempre consiste in un dare ma può anche riguardare un fare infungibile, contrariamente a quanto accade per il fideiussore, il quale garantisce l'adempimento della medesima obbligazione principale altrui (attesa l'identità tra prestazione del debitore principale e prestazione dovuta dal garante). In altri termini, mentre con la fideiussione è tutelato l'interesse all'esatto adempimento dell'(unica) prestazione principale - per cui il fideiussore è un "vicario" del debitore -, l'obbligazione del garante autonomo è qualitativamente altra rispetto a quella dell'ordinante - sia perchè non necessariamente sovrapponibile ad essa, sia perchè non rivolta al pagamento del debito principale, bensì ad indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta prestazione del debitore.
Ne consegue che polizze fideiussorie e fideiussione, pur accomunate dal medesimo (generico) scopo di offrire al creditore-beneficiario la garanzia dell'esito positivo di una determinata operazione economica, si distinguono perchè le prime (se prestate a garanzia di obbligazioni infungibili) appartengono alla categoria delle cd. garanzie di tipo indennitario, potendo il creditore tutelarsi (rispetto all'inadempimento del debitore) soltanto tramite il risarcimento del danno, mentre la fideiussione appartiene alle cd. garanzie di tipo satisfattorio, caratterizzate dal rafforzamento del potere del creditore di conseguire il medesimo bene dovuto, cioè di realizzare specificamente il soddisfacimento del proprio diritto.
8.3 Ancora con specifico riguardo alle polizze fideiussorie, l'introduzione, nelle condizioni generali di contratto, di clausole di pagamento con diciture "a semplice" o "a prima richiesta (o domanda) ", "senza eccezioni" o analoghe ("incondizionatamente", "a insindacabile giudizio del beneficiario" e così via), se ne ha di fatto evidenziato l'impredicabilità di qualsivoglia natura assicurativa e l'indiscutibile avvicinamento al modello cauzionale, ne ha specularmente posto il problema della compatibilità con il modello tipico fideiussorio.
La previsione di siffatte clausole di pagamento manifesta, difatti, una rilevante deroga alla disciplina legale della fideiussione, che si sostanzia nell'attribuzione, al creditore-beneficiario, del potere di esigere dal garante il pagamento immediato, a prescindere da qualsiasi accertamento (e dalla prova da parte del creditore) in ordine all'effettiva sussistenza di un inadempimento del debitore principale (ciò vale, in particolare, per l'incameramento della cauzione da parte dell'ente appaltatore di opere pubbliche, il quale non è tenuto a dimostrare la sussistenza di un danno in concreto, proprio in ragione della determinazione forfettaria dello stesso che consegue alla previsione della cauzione: così Cass. n. 8295 del 1994, in motivazione). A tale riguardo, questa corte ha avuto modo di affermare che, se è consentito alle parti di concedere (o far concedere da un terzo) una somma di denaro al creditore a garanzia dell'adempimento della prestazione dovutagli, allo stesso modo deve poter rientrare nei poteri riconosciuti all'autonomia negoziale la sostituzione della somma di denaro con l'impegno di un terzo di provvedere a quella prestazione o a quel pagamento a semplice richiesta del creditore, dovendosi pertanto riconoscere in dette clausole una "una valida espressione di autonomia negoziale".
9. Di tali clausole, secondo un primo orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 6499/1990, n. 10486/2004, n. 4446/2008 in motivazione), si predica la incompatibilità con la disciplina della fideiussione, e la conseguente inapplicabilità delle tipiche eccezioni fideiussorie, quali quelle fondate sull'art. 1947 c.c. (compensazione opposta dal garante con un debito del creditore verso il debitore principale), art. 1956
(liberazione del fideiussore per obbligazione futura assunta dal creditore), art. 1957 (decadenza prevista per l'ipotesi che il creditore non coltivi dopo la scadenza dell'obbligazione la propria pretesa nei confronti del debitore principale).
9.1. Secondo un diverso orientamento, dette clausole sarebbero invece idonee a valere anche come osservanza dell'onere di cui all'art. 1957 prescindendo dalla proposizione dell'azione giudiziaria (Cass. n. 7345/1995, cit.), sicchè non si tratterebbe di un'esclusione ma di una deroga parziale della disciplina dettata dal citato art. 1957, ad esempio limitata alla previsione che una semplice richiesta scritta sia sufficiente ad escludere l'estinzione della garanzia, esonerando il creditore dall'onere di proporre azione giudiziaria (Cass. n. 10574/2003, n. 27333/2005,
n. 13078/2008, quest'ultima sulla limitata funzione, che può essere svolta da una clausola di pagamento a prima richiesta, di evitare al creditore la decadenza di cui all'art. 1957 non solo iniziando l'azione giudiziaria verso il debitore principale, ma anche soltanto rivolgendo al fideiussore la richiesta di adempimento).
9.2. E' dunque opportuno approfondire le ragioni che hanno indotto la giurisprudenza di questa corte a ravvisare nelle clausole di pagamento in oggetto una deroga (seppur variamente atteggiata) alla disciplina legale della fideiussione onde chiarire se di semplice deroga si tratti, ovvero di una così rilevante alterazione del "tipo" negoziale fideiussorio tale da provocarne un exodus che conduca all'approdo al modello del Garantievertrag così come comunemente praticato nel commercio internazionale e, di recente, anche nazionale (…).
Quelle ragioni risiedono nell'essere le suddette clausole volte a precludere al garante l'opponibilità al creditore garantito delle eccezioni spettanti al debitore principale (siano esse relative al rapporto di valuta tra quest'ultimo e il creditore o al rapporto di provvista tra il debitore principale e il garante), in deroga alla regola essenziale della fideiussione posta dagli artt. 1945 e 1941 c.c., con l'effetto di svincolare (in tutto o in parte) la garanzia dalle vicende del rapporto principale e di precludere la proponibilità delle eccezioni fideiussorie.
9.3. Sotto l'aspetto morfologico, il contratto autonomo di garanzia costituisce espressione di quella autonomia negoziale riconosciuta alle parti dall'art. 1322 c.c., comma 2, che si configura come un coacervo di rapporti nascenti da autonome pattuizioni fra il destinatario della prestazione (beneficiario della garanzia), il garante (di solito una banca straniera), l'eventuale controgarante (soggetto non necessario, che solitamente si identifica in una banca nazionale che copre la garanzia assunta da quella straniera) e il debitore della prestazione (l'ordinante). Caratteristica fondamentale di tale contratto, che vale a distinguerlo da quello di fideiussione di cui agli artt. 1936 e seguenti cod. civ., è la carenza dell'elemento dell'accessorietà: il garante s'impegna a pagare al beneficiario, senza opporre eccezioni in ordine alla validità e/o all'efficacia del rapporto di base, e identico impegno assume il controgarante nei confronti del garante (così Cass. n. 1420/1998; sulla controgaranzia autonoma, Cass. n. 12341/1992 specifica che l'obbligo di pagamento del garante secondo il meccanismo dell'adempimento "a prima richiesta", tanto della "garanzia" che della "controgaranzia", si attiva a seguito dell'inadempimento dell'obbligazione principale, restando irrilevante l'avvenuto adempimento del contratto collegato a catena).
La diversità di struttura e di effetti rispetto alla fideiussione si riflette sulla causa concreta (in argomento, funditus, Cass. 10490/06) del Garantievertrag, la quale risulta essere quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, sia essa dipesa da inadempimento colpevole oppure no: infatti, la prestazione dovuta dal garante è qualitativamente diversa da quella dovuta dal debitore principale, essendo (non quella di assicurare l'adempimento della prestazione dedotta in contratto ma) semplicemente quella di assicurare la soddisfazione dell'interesse economico del beneficiario compromesso dall'inadempimento (Cass. n. 2377/2008 cit., proprio con riguardo alle polizze fideiussorie); per la sua indipendenza dall'obbligazione principale, esso si distingue, pertanto, dalla fideiussione, giacchè mentre il fideiussore è debitore allo stesso modo del debitore principale e si obbliga direttamente ad adempiere, il garante si obbliga (non tanto a garantire l'adempimento, quanto piuttosto) a tenere indenne il beneficiario dal nocumento per la mancata prestazione del debitore, spesso con una prestazione solo equivalente e non necessariamente corrispondente a quella dovuta (Cass. n. 27333/2005; n. 4661/2007): ne consegue, in definitiva, la sua fuoriuscita dal modello fideiussorio, essendo il rapporto affidato per intero all'autonomia privata nei limiti fissati dall'art. 1322 c.c., comma 2 ed essendo la causa del contratto quella di coprire il rischio del beneficiario mediante il trasferimento dello stesso sul garante.
Il riferimento, come oggetto della garanzia de qua, al rischio contrattuale da preservare (ovvero all'interesse economico sotteso all'obbligazione principale) ha rappresentato una soluzione funzionale a superare l'apparente ossimoro celato nel sintagma "garanzia autonoma" (atteso che il concetto di garanzia presuppone ontologicamente una relazione di accessorietà con un quid che dev'essere garantito), con la conseguenza che la garanzia sarebbe autonoma rispetto all'obbligazione principale ma pur sempre accessoria rispetto all'interesse economico ad essa sottostante, così evitandosi la (preoccupante) conseguenza di individuare nel rapporto principale il termine della relatio e di assimilare in tal modo la garanzia autonoma a quella accessoria.
9.4. Sotto il profilo funzionale, il regime "autonomo" del Garantievertrag trova un limite quando:
le eccezioni attengano alla validità dello stesso contratto di garanzia (Cass. n. 3326/2002 cit.) ovvero al rapporto garante/beneficiario (Cass. n. 6728/2002, sul diritto del garante di opporre al beneficiario la compensazione legale per un credito vantato direttamente nei suoi confronti); il garante faccia valere l'inesistenza del rapporto garantito (Cass. n. 10652/2008, in motivazione, "trattandosi pur sempre di un contratto (di garanzia) la cui essenziale - quindi inderogabile - funzione è quella di garantire un determinato adempimento"); la nullità del contratto- base dipenda da contrarietà a norme imperative o illiceità della causa ed attraverso il contratto di garanzia si tenda ad assicurare il risultato che l'ordinamento vieta (Cass. n. 3326/2002; n. 26262/2007; n. 5044/2009); sia proponibile la cd. exceptio doli generalis seu presentis, perchè risulta evidente, certo ed incontestabile il venir meno del debito garantito per pregressa estinzione dell'obbligazione principale per adempimento o per altra causa (nel senso che il garante non è autorizzato ad effettuare pagamenti arbitrariamente intimatigli, a pena di perdita del regresso nei confronti del debitore principale: Cass. n. 10864/1999; n. 917/1999; n. 5997/2006; in generale, sull'obbligo del garante di opporre l'exceptio doli a protezione del garantito dai possibili abusi del beneficiario, Cass. n. 10864/1999; n. 5997/2006; n. 23786/2007;
n. 26262/2007; sull'obbligo del garante di fornire la prova certa ed incontestata dell'esatto adempimento del debitore ovvero della nullità del contratto garantito o illiceità della sua causa: Cass. n. 3964/1999; n. 10652/2008), mentre discussa è la conseguenza della impossibilità sopravvenuta della prestazione principale non imputabile al debitore (che, secondo una recente giurisprudenza di merito - App. Genova 25 luglio 2003 - sarebbe a sua volta causa di estinzione della garanzia).
La più rilevante differenza operativa tra la fideiussione e il contratto autonomo di garanzia non riguarda, peraltro, il momento del pagamento - cui (anche) il fideiussore "atipico" può essere tenuto immediatamente a semplice richiesta del creditore -, ma attiene soprattutto al regime delle azioni di rivalsa dopo l'avvenuto pagamento.
9.5. Se, difatti, il pagamento non risulti dovuto per motivi attinenti al rapporto di base, il garante (dopo aver pagato a prima/semplice richiesta) che agisce in ripetizione con l'actio indebiti ex art. 2033 c.c. nei confronti dell'accipiens, cioè del creditore beneficiario, facendo valere le eccezioni di cui dispone il debitore principale, risponde in realtà come un fideiussore, atteggiandosi la clausola di pagamento in questione come una ordinaria clausola solve et repete ex art. 1462 c.c.. Il garante "autonomo", invece, una volta che abbia pagato nelle mani del creditore beneficiario, non potrà agire in ripetizione nei confronti di quest'ultimo (salvo nel caso di escussione fraudolenta), rinunciando, per l'effetto, anche alla possibilità di chiedere la restituzione di quanto pagato all'accipiens nel caso di escussione illegittima della garanzia, ma potrà esperire l'azione di regresso ex art. 1950 c.c. unicamente nei confronti del debitore garantito (…).
(omissis)
10. Chiarite così le differenze operative tra fideiussione (eventualmente resa atipica dall'inserimento delle clausole in questione) e Garantievertrag, va affrontato e risolta la speculare questione dell'idoneità o sufficienza della clausola di pagamento a prima o semplice richiesta (o senza eccezioni) a trasformare un contratto di fideiussione (pur atipico) in un Garantievertrag. A tale riguardo, si segnalano due non omogenei orientamenti della giurisprudenza di questa Corte che (omissis) appare, sul punto, contrastante: - un primo indirizzo è nel senso che l'inserimento di clausole del genere valga di per sè a qualificare il negozio de quo come contratto autonomo di garanzia, essendo incompatibile con il principio di accessorietà che caratterizza la fideiussione (…); - un secondo filone interpretativo è invece nel senso che il contratto non assume i connotati del contratto autonomo di garanzia per il solo fatto di presentare un patto che obblighi il garante a pagare, sulla
richiesta del beneficiario, il quale gli dichiari essersi verificati i presupposti per l'esigibilità della garanzia, e senza poter opporre eccezioni attinenti al rapporto di base: la distinzione tra fideiussione e Garantievertrag andrebbe tratta, infatti, anche dalla considerazione dei profili funzionali della garanzia, e nel secondo caso la funzione sarebbe non già quella di garantire l'adempimento dell'obbligazione altrui o l'integrale soddisfacimento della pretesa risarcitoria traente origine dall'inadempimento del debitore, quanto quella, prossima a quella della cauzione, di assicurare al beneficiario la disponibilità almeno di una determinata somma di danaro, a bilanciamento di rischi tipici di determinati contratti. Un patto di rinunzia del fideiussore a far valere subito determinate eccezioni non altererebbe, peraltro, il tipo contrattuale, che resta caratterizzato, come la fideiussione, dal principio di accessorietà (artt. 1939 e 1945 cod. civ.): la clausola è dunque in sè valida, giacchè, pur con riguardo alla causa del contratto di fideiussione ed alla relativa disciplina, essa costituisce una manifestazione di autonomia contrattuale, che resta nei limiti imposti dalla legge (art. 1322 cod. civ.), dalla quale si trae, insieme, che clausole limitative della possibilità di proporre eccezioni sono in certa misura ed a determinate condizioni consentite dall'ordinamento (art. 1341 c.c., comma 2), e che una clausola del tipo di quella di cui si discute non è in contrasto con l'aspetto essenziale del contratto di fideiussione, aspetto rappresentato dall'accessorietà (così Cass. n. 2909/1996, in motivazione; nel senso che, ai fini della distinzione del contratto autonomo di garanzia dalla fideiussione, non è decisivo l'impiego o meno di espressioni quali "a prima richiesta" o "a semplice richiesta scritta", ma la relazione in cui le parti hanno inteso porre l'obbligazione principale e quella di garanzia, ancora di recente, Cass. n. 5044/2009 cit.).
Pur se non direttamente investite della questione, vertendo il contrasto di giurisprudenza oggi sotto posto all'esame del collegio sulla natura e sulla disciplina applicabile alle polizze fideiussorie, queste sezioni unite ritengono che debba essere data continuità al primo degli orientamenti citati, che ha l'ineliminabile pregio di consentire, ex ante, la necessaria prevedibilità della decisione giudiziaria in caso di controversia, restringendo le maglie di aleatori spazi ermeneutici sovente forieri di poco comprensibili disparità di decisioni a parità di situazioni esaminate, così che la clausola "a prima richiesta e senza eccezioni" dovrebbe di per sè orientare l'interprete verso l'approdo alla autonoma fattispecie del Garantievertrag, salva evidente, patente, irredimibile discrasia con l'intero contenuto "altro" della convenzione negoziale.
10.1. Così ricostruiti i caratteri strutturali ed effettuali del contratto autonomo di garanzia, pare innegabile che, in difetto di diversa previsione da parte dei contraenti, ad esso non possa applicarsi la norma dell'art. 1957 cod. civ. sull'onere del creditore garantito di far valere tempestivamente le sue ragioni nei confronti del debitore principale, poichè tale disposizione, collegata al carattere accessorio della obbligazione fideiussoria (così Cass. n. 3964/1999 cit., ancora in tema di polizza fideiussoria; Cass. n. 11368/2002, in motivazione) instaura un collegamento necessario e ineludibile tra la scadenza dell'obbligazione di garanzia e quella dell'obbligazione principale, e come tale rientra tra quelle su cui si fonda l'accessorietà del vincolo fideiussorio, per ciò solo inapplicabile ad un'obbligazione di garanzia autonoma.
10.2. Per ciò che più specificamente concerne l'oggetto della questione sottoposta al collegio, è opportuno ripercorrere, in sintesi, le divergenze manifestatesi nella giurisprudenza di questa corte sui profili di seguito indicati.
10.3. Quanto ai caratteri morfologici della polizza fideiussoria, prevalente appare l'orientamento predicativo della sua natura fideiussoria, con conseguente applicazione della disciplina legale tipica ex art. 1936 ss. c.c. ove non derogata dalle parti; un diverso, minoritario indirizzo, ne esclude, viceversa, la configurabilità in termini di fideiussione laddove essa sia prestata a garanzia dell'obbligazione dell'appaltatore: in tal caso, la convenzione integrerebbe gli estremi della garanzia atipica in quanto, non potendo surrogare l'adempimento "specifico" di detta obbligazione (connotata dal carattere dell'insostituibilità), ha la funzione di assicurare, sic et simpliciter, il soddisfacimento dell'interesse economico del beneficiario, compromesso dall'inadempimento. Essa risulta, pertanto, vicenda del tutto disomogenea rispetto al sistema delle garanzie di tipo satisfattorio proprie delle prestazioni fungibili caratterizzate dall'identità della prestazione e dal vincolo della solidarietà (sussidiarietà)/accessorietà -, riconducibile di converso alla figura della garanzia di tipo indennitario, in forza della
quale il garante è tenuto soltanto ad indennizzare, o a risarcire, il creditore insoddisfatto (Cass. n. 2377/2008 cit.; n. 7712/2002).
10.4. Queste sezioni unite intendono dare continuità al secondo degli orientamenti poc'anzi ricordati. (….)
Non si è mancato poi di sottolineare, per altro verso, che il concetto di fungibilità e infungibilità della prestazione appare qualificazione giuridica tra le più sfuggenti, cui, del resto, non sempre è riconosciuto un autonomo significato, trattandosi di un problema di interpretazione in senso lato, di talchè la fungibilità di un'obbligazione non dipenderebbe tanto dal tipo di prestazione o dalla natura del suo oggetto secondo criteri astratti, ma avrebbe da esser valutata in concreto, tenuto conto anche dell'interesse del creditore, ex art. 1173 c.c. (…). Si è infine rilevato che l'accessorietà dell'obbligazione fideiussoria non implicherebbe una assoluta ed univoca dipendenza del rapporto di garanzia dal rapporto garantito, in quanto la fideiussione, al pari di qualsiasi altro rapporto obbligatorio, vive e si mantiene in questa relazione funzionale con una individualità propria, e che il nostro ordinamento non conosce una nozione tecnica di accessorietà, ossia una disciplina unitaria del fenomeno, onde la "relativizzazione" del requisito in parola, intesa come conseguenza dell'acquisita autonomia causale della fideiussione, manifestandosi nell'ordinamento il riconoscimento di una certa indipendenza dell'obbligazione di garanzia rispetto a quella garantita, con un'implicita retrocessione del requisito dell'accessorietà a un livello non essenziale.
11. Le considerazioni che precedono non appaiono decisive al fine di predicare una non realistica consonanza tra polizza fideiussoria e convenzione di garanzia tipica ex art. 1936 c.c.. Al di là della osservazione (di per sè decisiva) secondo la quale esse non appaiono sufficienti a far superare il principio secondo cui rimangono fuori dalla possibilità di essere garantite per il tramite di una fideiussione le obbligazioni di fare infungibile, nelle quali c'è comunque un interesse del creditore alla personale esecuzione del debitore - non potendosi, in questo caso, realizzarsi in alcun modo la sostituzione del fideiussore al debitore principale, poichè il garante non deve (nè può) adempiere, in rapporto di solidarietà con il debitore principale, un debito identico a quello su di lui gravante - non sembra seriamente contestabile che si discorra di fideiussio indemnitatis con riferimento a fattispecie nella quale la funzione di garanzia viene piuttosto a porsi in via (succedanea e secondaria sì, ma) del tutto autonoma rispetto all'obbligo primario di prestazione, onde garantire il risarcimento del danno dovuto al creditore per l'inadempimento dell'obbligato principale e, quindi, per un'obbligazione non soltanto futura ed eventuale (ciò che non costituirebbe di per sè ostacolo alla configurabilità di una fideiussione, avendo l'attuale art. 1938 c.c. posto termine ad un dibattito dottrinale e giurisprudenziale formatosi nel vigore del precedente codice con l'ammettere esplicitamente la legittimità della fideiussione "anche per un'obbligazione condizionale o futura"), ma essenzialmente diversa rispetto a quella garantita, con l'ulteriore conseguenza che l'obbligazione del garante non diviene attuale prima dell'inadempimento della (diversa) obbligazione principale, verificatosi il quale sorge l'obbligo secondario del "risarcimento" del danno (rectius, dell'indennizzo conseguente all'inadempimento): viene irredimibilmente vulnerato, in tal guisa, proprio quel meccanismo della solidarietà che attribuisce al creditore la libera electio, cioè la possibilità di chiedere l'adempimento così al debitore come al fideiussore, a partire dal momento in cui il credito è esigibile.
Venendo così meno la funzione di garantire, in senso preventivo, l'adempimento, la cd. fideiussio indemnitatis pare definitivamente espunta dall'orbita della garanzia fideiussoria, per acquisire una funzione reintegratoria (non del tutto aliena da un modello assicurativo).
Nè decisiva appare, ancora, l'obiezione secondo la quale, nel nostro ordinamento, un'astrazione assoluta dell'elemento causale, in cui la sorte o i difetti dell'obbligazione sottostante non abbiano mai alcuna ripercussione sull'obbligazione astratta di garanzia, non pare a tutt'oggi legittimamente predicabile.
Va premesso, in proposito, che, tra astrazione assoluta e accessorietà (intesa nel senso tradizionale) si stagliano orizzonti che abbracciano diverse gradazioni di strutture negoziali che il legislatore di volta in volta legittima, secondo un giudizio di valore rispetto ai vari interessi coinvolti: l'accessorietà dell'obbligazione autonoma di garanzia rispetto al rapporto debitorio principale assume un carattere certamente più elastico, di semplice collegamento/coordinamento tra obbligazioni, ma non viene del tutto a mancare, come dimostrato, da un lato,
dalla rilevanza delle ipotesi in cui il garante è esonerato dal pagamento per ragioni che riguardano comunque il rapporto sottostante (supra, sub 6.2);
dall'altro, dal meccanismo di riequilibrio delle diverse posizioni contrattuali attraverso il sistema delle rivalse.
Va inoltre considerato che, come condivisibilmente affermato dalla terza sezione di questa corte con la sentenza 10490/06 (e poi ribadito, sia pur in obiter, da queste stesse sezioni unite con le 4 pronunce dell'11 novembre del 2008, rese in tema di danno non patrimoniale), appaia oggi predicabile una ermeneutica del concetto di causa che, sul presupposto della obsolescenza della matrice ideologica che la configurava come strumento di controllo della sua utilità sociale, affonda le proprie radici in una serrata critica della teoria della predeterminazione causale del negozio (che, a tacer d'altro, non spiega come un contratto tipico possa avere causa illecita), ricostruendo tale elemento in termini di sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato).
Sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale, si badi, e non anche della volontà delle parti. Causa, dunque, ancora oggettivamente iscritta nell'orbita della dimensione funzionale dell'atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, secondo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l'uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale. E' innegabile, pertanto, che di causa negotii sia lecito discorrere, in termini di sua concreta esistenza, anche con riferimento al contratto autonomo di garanzia e alla polizza fideiussoria, ad esso assimilabile quoad effecta. E' altresì innegabile, nel caso di specie, che la forma di garanzia prescelta dalle parti, in alternativa al deposito cauzionale in denaro o titoli, non sia stata quella della fideiussione, bensì quella della polizza fideiussoria, alternativa e, per l'effetto, sostituiva forma di prestazione della cauzione stessa, "consentita" (così, letteralmente, il testo negoziale rilevante in parte qua) dall'amministrazione appaltante senza essere accompagnata da alcuna dichiarazione abdicativa di tutti gli altri poteri e facoltà spettatile sulla base della normativa di settore vigente ratione temporis. La funzione individuale del singolo, specifico negozio (id est della polizza fideiussoria) è stata dunque quella di sostituire la traditio del denaro tipica della cauzione con l'obbligazione di corrispondere una somma di denaro, da parte del garante, a richiesta del creditore, senza alcuna possibilità, per il primo, di invocare il meccanismo, tipicamente fideiussorio, di cui all'art. 1957 c.c..
Va pertanto affermato il seguente principio di diritto: la polizza fideiussoria stipulata a garanzia delle obbligazioni assunte da un appaltatore assurge a garanzia atipica, a cagione dell'insostituibilità della obbligazione principale, onde il creditore può pretendere dal garante solo un risarcimento, prestazione diversa da quella alla quale aveva diritto. Con la precisazione, peraltro, della invalidità della polizza stessa se intervenuta successivamente rispetto all'inadempimento delle obbligazioni garantite.