UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO
Facoltà di Giurisprudenza
Corso di Dottorato in Diritto comparato, privato, processuale civile e dell’impresa
Curriculum di Diritto processuale civile XXXII Ciclo
IMPUGNATIVE CONTRATTUALI E LIMITI OGGETTIVI DEL GIUDICATO
Tutor
Xxxxx.xx Prof.ssa Xxxxx Xxxxxxx Xxxxx XXXXXXXXXXX
Coordinatrice del Corso di Dottorato Xxxxx.xx Prof.ssa Xxxxx Xxxxxx XXXXXXX
Tesi di dottorato di: Xxxxxxxxx XX XXXXXXX
Anno Accademico 2018/2019
A mia madre
INDICE
INTRODUZIONE 1
CAPITOLO PRIMO: AZIONI ED ECCEZIONI DI IMPUGNATIVA CONTRATTUALE 7
2. Segue. Le tecniche di produzione degli effetti giuridici sostanziali. La fattispecie 10
3. Segue. Il rapporto tra tecniche di produzione degli effetti giuridici sostanziali e processo. Diritti potestativi sostanziali e a necessario esercizio giudiziale. Sentenze dichiarative e sentenze costitutive 14
4. Considerazioni programmatiche 21
Sezione prima: Le azioni di impugnativa contrattuale 23
6. Segue. Le nullità di protezione 31
7. L’azione di annullamento 34
9.1. La risoluzione per inadempimento 55
9.1.1. La diffida ad adempiere 55
9.1.2. La clausola risolutiva espressa 60
9.1.3. Il termine essenziale 64
9.1.4. La risoluzione ex art. 1453 c.c. 67
9.1.5. Segue. L’azione ex art. 1453 c.c. 78
9.1.6. L’effetto di risoluzione per inadempimento 80
9.2. La risoluzione per impossibilità sopravvenuta 83
9.3. La risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta 88
9.4. Le ipotesi atipiche di risoluzione 93
Sezione seconda: Le eccezioni di impugnativa contrattuale 97
10. Le eccezioni di merito. Le eccezioni in senso lato e in senso stretto 97
11. L’eccezione di nullità 100
12. L’eccezione di annullabilità 104
13. L’eccezione di rescindibilità 107
14. L’eccezione di risolubilità e l’eccezione di risoluzione 109
14.1. Le ipotesi di risoluzione giudiziale. L’eccezione di risolubilità 109
14.2. Le ipotesi di risoluzione stragiudiziale. L’eccezione di risoluzione 114
15. Il modo di operare delle eccezioni di impugnativa. Le eccezioni-deduzioni e le eccezioni-
impugnazioni. La natura della sentenza che rigetta la domanda attorea in accoglimento dell’eccezione
di impugnativa 117
CAPITOLO SECONDO: I LIMITI OGGETTIVI DEL GIUDICATO NELLE
IMPUGNATIVE CONTRATTUALI 132
16. Premessa 133
Sezione prima: Azione di nullità, relativa eccezione e limiti oggettivi del giudicato 136
17. I rapporti tra oggetto del giudicato, oggetto del processo e oggetto della domanda 136
18. Ciò che in astratto può costituire l’oggetto della domanda (e, quindi, del processo e del giudicato) 141
19. Ciò che in concreto costituisce oggetto della domanda (e, quindi, del processo e del giudicato). Gli elementi di identificazione della domanda 146
19.1. Il petitum 147
19.2. La causa petendi 148
19.2.1. La definizione di causa petendi 148
19.2.2. La funzione individuatrice della causa petendi. I diritti autodeterminati e i diritti eterodeterminati 153
20. Gli elementi di identificazione della domanda di nullità 160
21. Il rilievo officioso di ulteriori cause di nullità e della diversa estensione oggettiva della medesima 164
22. Alcuni strumenti di lavoro per modellare l’estensione oggettiva del giudicato. La fattispecie. La
pregiudizialità. Il principio della ragione più liquida 168
23. L’estensione del giudicato in presenza di rapporti di pregiudizialità tecnica per dipendenza o per
incompatibilità 176
24. L’estensione del giudicato in presenza di rapporti di pregiudizialità logica 182
24.1. Le sentenze di accoglimento 182
24.2. Le sentenze di rigetto 189
25. Il giudicato su questioni 191
26. Il giudicato sulle eccezioni 193
27. Il giudicato su questioni di fatto o di diritto comuni a più cause 200
28. Il giudicato implicito 202
29. L’estensione del giudicato ai motivi della pronuncia 206
30. La preclusione del dedotto e del deducibile 212
31. Una valutazione d’insieme in merito alla conformazione oggettiva della res iudicata in relazione alle
azioni e alle eccezioni di nullità del contratto. L’approccio restrittivo quale soluzione preferibile 218
32. L’efficacia preclusiva del giudicato 232
33. L’efficacia conformativa del giudicato 239
Sezione seconda: azioni di annullamento, rescissione e risoluzione, relative eccezioni e limiti oggettivi del giudicato 244
34. Il piano d’indagine 244
35. Gli effetti delle sentenze costitutive 245
36. L’oggetto dell’accertamento nelle azioni di annullamento, rescissione e risoluzione giudiziale 249
36.1. Il diritto alla modificazione giuridica in senso sostanziale 249
36.2. Il diritto alla modificazione giuridica in senso processuale 256
36.3. La modificazione giuridica 261
36.4. Il rapporto contrattuale sul quale dovrebbe incidere la modificazione giuridica 263
36.5. Due ulteriori proposte ricostruttive 266
36.6. Il vaglio delle diverse opzioni nella prospettiva della tutela dei diritti di azione e di difesa delle
parti. L’individuazione dell’oggetto dell’accertamento nei diritti potestativi di annullamento, rescissione e risoluzione giudiziale quale soluzione preferibile 268
37. L’estensione del giudicato all’effetto costitutivo 277
38. L’oggetto dell’accertamento nelle azioni di risoluzione stragiudiziale 286
39. L’estensione del giudicato alle eccezioni di annullabilità, rescindibilità e risoluzione del contratto 294
40. La portata della preclusione del dedotto e del deducibile nel settore delle azioni di annullamento, rescissione, risoluzione e delle corrispondenti eccezioni 298
41. Considerazioni conclusive in merito all’oggetto del giudicato in relazione alle azioni di annullamento,
rescissione, risoluzione del contratto e alle corrispondenti eccezioni 304
42. L’efficacia preclusiva del giudicato 306
42.1. Le sentenze di accoglimento 306
42.2. Le sentenze di rigetto 311
43. L’efficacia conformativa del giudicato 317
43.1. L’efficacia conformativa delle sentenze che definiscono azioni di annullamento, rescissione e risoluzione del contratto rispetto a processi su situazioni giuridiche dipendenti 318
43.2. L’efficacia conformativa delle sentenze che definiscono azioni aventi ad oggetto diritti
contrattuali. I rapporti con successive azioni di impugnativa contrattuale 320
43.3. L’efficacia conformativa delle sentenze che definiscono azioni di accertamento negativo dei
singoli diritti potestativi di impugnativa o del singolo effetto di risoluzione stragiudiziale. I
rapporti con le corrispondenti azioni di impugnativa contrattuale 321
43.4. La reiterazione dei contratti annullati, rescissi o risolti 323
Sezione terza: I rapporti tra azioni di annullamento, rescissione, risoluzione e nullità
DEL CONTRATTO 329
44. Il “sistema” delle impugnative contrattuali 329
45. La rilevabilità officiosa della nullità del contratto nell’ambito delle azioni di annullamento, rescissione e
risoluzione 330
46. Il giudicato sulla nullità o sulla validità del contratto 339
CONCLUSIONI 355
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 359
INTRODUZIONE
Impugnative contrattuali e limiti oggettivi del giudicato.
Queste le poche parole che individuano uno dei temi più spinosi che il processual- civilista si sia trovato – e tuttora si trovi – ad affrontare. Questi i concetti “enigmatici” che delineano i contorni di un dibattito mai sopito (1). Queste le espressioni che racchiudono e portano con sé innumerevoli dubbi e molteplici letture.
L’oggetto del presente studio si colloca sul crinale che congiunge il diritto civile al diritto processuale civile e costituisce il punto d’incontro dei nuclei pulsanti dell’una e dell’altra materia. Da un lato, il contratto e le sue patologie: rievocando le parole di uno dei più autorevoli civilisti italiani, è ancora oggi più vero che mai che “il cuore del diritto civile è il contratto. E il cuore del contratto sono i rimedi contrattuali” (2). Dall’altro, la cosa giudicata, che da sempre rappresenta l’anima e l’orizzonte del diritto processuale civile.
Recentemente, la Corte di Cassazione è tornata a prendere posizione su tali questioni, adottando un’impostazione di ampio respiro, tesa ad abbracciare gran parte delle tematiche, vuoi sostanziali, vuoi processuali, che ancora attendevano risposte definitive (3).
Il fatto che le Sezioni Unite si siano trovate a discorrere, tra l’altro, di oggetto delle azioni di impugnativa contrattuale, di pregiudizialità logica e di giudicato implicito dimostra che la “malcelata” e pur “benefica inquietudine”, che da tempo immemore accompagna la tematica dell’estensione oggettiva della res iudicata, è ancora estremamente attuale e ancora pervade l’animo dell’interprete (4).
Tale onnipresente inquietudine trae origine dal silenzio che il legislatore mantiene circa il perimetro oggettivo entro cui deve essere contenuta l’incontrovertibilità di una sentenza.
Sul piano del diritto sostanziale, il codice civile non offre alcun genere di soccorso per chi si inoltri nell’arduo sentiero che porta all’individuazione dell’estensione oggettiva della regiudicata. Da un lato, l’art. 2908 c.c., dettato in materia di pronunce costitutive, si riduce a indicare che, “nei casi previsti dalla legge, l’autorità giudiziaria può costituire, modificare o
(1) In tal senso, si veda X. XXXXXX, La cosa giudicata: recenti sviluppi nel diritto francese, in Riv. dir. proc. 1982, p. 1, spec. 1, secondo cui la cosa giudicata “appartiene a quei concetti enigmatici il cui mistero si fa più spesso mentre lo si va ripetendo come un’evidenza”.
(2) X. XXXXX, La tutela del risparmiatore fra nullità, risoluzione e risarcimento (ovvero, l’ambaradan dei rimedi contrattuali, in Contr. impr. 2005, p. 896, spec. 898.
(3) Ci si riferisce a tre arresti delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, intercorsi tra il 2012 e il 2014: Cass., sez. un., 4 settembre 2012, n. 14828; Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242 e la “gemella” Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26243, destinate “molto probabilmente a fare storia nel ristretto (ma non tanto) settore dei rapporti fra diritto sostanziale (nella specie, azioni contrattuali) e processo” (A. PROTO PISANI, Rilevabilità d’ufficio della nullità contrattuale: una decisione storica delle sezioni unite, in Foro it. 2015, I, p. 944, spec. 944).
(4) Le espressioni utilizzate sono riprese da X. XXXXXXX, Teilklagen und Rechtskraft, in K. A. XXXXXXXXXX – X. XXXXXX (a cura di), Festschrift für Xxxxxxxx Xxxxxx zum siebzigsten Geburtstag, Tübingen, 1994, p. 431, spec. 431, che descrive le reazioni dottrinali alle teorie zeuneriane (cfr. infra, par. 29) in termini di “benefica inquietudine”;
X. XXXXXX, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984, p. 583, il quale crede che il giudicato sia, da sempre, un tema trattato “con una sorta di malcelato timore per la difficoltà e la complessità che lo riguardano”; S. DALLA BONTÀ, Una «benefica inquietudine». Note comparate in tema di oggetto del giudicato nella giurisprudenza alla luce delle tesi zeuneriane, in Giusto proc. civ. 2011, p. 891, spec. 892-893.
estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”; dall’altro, l’art. 2909 c.c., rubricato “Cosa giudicata” e relativo a ogni genere di provvedimento giurisdizionale (5), prevede solo che “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”.
Come si nota, “dall’art. 2908 cod. civ. nulla ricaviamo in ordine […] alla natura della situazione sostanziale oggetto del giudizio” e del conseguente giudicato (6). Né certamente l’art. 2909 c.c. “aiuta molto, riferendo il fenomeno positivo del far stato ad ogni effetto all’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato; ché il busillis è, appunto, stabilire che cosa sia stato accertato e accertato con idoneità al giudicato” (7).
Nemmeno volgendo l’attenzione al diritto processuale si riescono a trovare indicazioni
– univoche e specifiche – relative alla portata oggettiva della res iudicata. E ciò non perché il codice di procedura civile ignori completamente il tema (il che non è), ma perché non vi sono norme che abbiano il solo scopo di disciplinare la questione, nelle quali il legislatore abbia trasposto esplicitamente la sua volontà di dare determinati confini all’incontestabilità dei provvedimenti giurisdizionali.
Innanzitutto, si deve escludere che indizi relativi alla tematica oggetto del presente studio possano trarsi dall’art. 324 c.p.c. La disposizione, rubricata “Cosa giudicata formale”, non fa altro che individuare il momento in cui una sentenza si intende passata in giudicato: tratta, dunque, del “quando”, non del “cosa”. In secondo luogo, analoga estromissione può predicarsi per gli artt. 12 e 13 c.p.c., i quali pur vengono, da alcuni autori, richiamati come utili. Tali norme, invero, sono dettate con riferimento a problematiche completamente diverse, ossia con riferimento alla competenza e, precisamente, alla competenza per valore (8).
Infine, nemmeno l’art. 34 c.p.c. – che recita: “il giudice, se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest’ultimo…” – può essere definito come una norma che disciplini in modo specifico i limiti oggettivi del giudicato (9). Vi è un duplice dato letterale che spinge per tale conclusione. In primis, la disposizione è rubricata “Accertamenti incidentali”, anziché “Limiti oggettivi del giudicato” o simili, come ci si sarebbe potuti aspettare da un legislatore che avesse voluto prendere puntualmente posizione sulla tematica. In secundis, essa è
(5) Sia esso dichiarativo, costitutivo, o di condanna.
(6) X. XXXXX, Profili dell’accertamento costitutivo, Xxxxxx, 0000, pp. 8, 11.
(7) “Posto che ogni pronunzia di giudice giunge al dispositivo operando consapevolmente o attuando implicitamente una serie di scelte via via più vicine all’oggetto della controversia”: S. LA CHINA, La tutela giurisdizionale dei diritti, in AA.VV., Tutela dei diritti, tomo I, in Trattato di diritto privato, diretto da X. XXXXXXXX, Torino, 1997, p. 48. In senso analogo, si veda X. XXXXXXXX, voce Regiudicata civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. XVI, Torino, 1999, p. 404, spec. 428, secondo cui l’articolo in esame non chiarisce quale sia “l’oggetto dell’accertamento autoritativo”.
(8) L’esame degli articoli menzionati verrà approfondito infra, parr. 24.1 ss.
(9) Come rilevato anche da X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXXX, Diritto processuale civile, vol. I, Torino, 2016, p. 178,
“non esiste una norma […] specificamente dedicata a problemi di estensione oggettiva del giudicato” (corsivo mio).
contenuta nella sezione relativa alle “modificazioni della competenza per ragioni di connessione”: ancora una volta, nessuna menzione della cosa giudicata. Xxxxxx è che non si possa negare che l’articolo in parola abbia una qualche attinenza con la portata oggettiva dell’incontrovertibilità; tuttavia, non si può nemmeno affermare che il problema dei limiti oggettivi sia “risolto […] senza possibile ombra di dubbio, dall’art. 34 c.p.c.” (10). Basti pensare al fatto che la norma non specifica alcunché in relazione alla nozione di “questione pregiudiziale” (11). Pertanto, essa può senz’altro essere presa in considerazione da un punto di vista sistematico, ma non può essere considerata la norma con la quale il legislatore abbia dettato la disciplina codicistica dell’estensione oggettiva dell’irretrattabilità delle sentenze (12). Una volta constatato che il tema in discorso non trova risposte univoche nel diritto positivo, non resta che ammettere che le soluzioni prospettabili sono tutte, allo stesso modo, condizionate dalla necessità di scegliere tra valori contraddittori (13); “l’interprete, cioè, nell’affrontare le singole questioni, deve lasciarsi guidare, se vuole essere almeno coerente, da un unico criterio generale, da un comune motivo ispiratore, che viene così ad essere privilegiato rispetto ad altri pure prospettabili” (14). Così, da un lato, vi sono coloro che enfatizzano il ruolo del principio di economia dei giudizi e dell’esigenza di armonizzazione delle decisioni; dall’altro, coloro che pongono l’accento sui principi della domanda e del contraddittorio. I primi sono portati ad ampliare l’ambito oggettivo del giudicato, ritenendo che il processo civile, così lungo, costoso e faticoso, debba al suo termine almeno indicare alle parti – in modo definitivo – quali siano le condotte da tenere in futuro in ordine agli interessi sostanziali in gioco. I secondi sono, invece, xxxxxxx a lasciare alle parti il potere di scegliere, con piena libertà, la materia su cui vogliono che il provvedimento giurisdizionale
incida (15).
(10) A. PROTO PISANI, Appunti sul giudicato civile e i suoi limiti oggettivi, in Xxx. xxx. xxxx. 0000, x. 000, xxxx. 000.
(11) Come sottolineato da X. XXXXXXXX, voce Regiudicata civile cit., p. 437.
(12) Per un’analisi più dettagliata dell’art. 34 c.p.c. e del suo rapporto con i limiti oggettivi del giudicato, si veda
infra, parr. 23 ss.
(13) “Mai come in questo campo” – sottolinea G. VERDE, Diritto processuale civile, vol. II, Bologna, 2017, p. 289
– “le conclusioni sono pregiudicate dalle premesse e […] alla base delle premesse molto spesso vi sono scelte di valore o opzioni di carattere ideologico”. Cfr. anche G. VERDE, Considerazioni inattuali su giudicato e poteri del giudice, in Xxx. xxx. xxxx. 0000, x. 00, xxxx. 00. In senso analogo, X. XXXXXXXX, voce Regiudicata civile cit., p. 429, scrive: “certo è che le scelte di valore hanno pregiudicato e pregiudicano notevolmente le risposte che si sono date e che si danno ai problemi che la concreta esperienza ha posto e continua a porre alla giurisprudenza pratica e teorica”. Anche la Suprema Corte afferma che “le complesse e delicate problematiche che [l’individuazione dell’oggetto del giudicato] pone, ben lungi dal trovare risposte certe nel diritto positivo, risultano tutte e allo stesso modo condizionate dalla necessità di operare una scelta tra valori talora contrastanti”: Xxxx., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242, par. 4.1.
(14) X. XXXXXXXX, voce Regiudicata civile cit., pp. 428-429. Per rilievi analoghi, si vedano X. XXXXXXXX DE LA GRANGE, Risoluzione per inadempimento e potestà del giudice, in Riv. dir. civ. 1964, p. 28, spec. 41, per il quale “è saggia regola, quando si affronta un problema complesso, individuare alcuni punti fermi che possano servire da orientamento e da base di partenza”; X. XXXX, In tema di giudicato e accertamento dei fatti, in Riv. dir. proc. 1999, p. 581, spec. 583, che, rassegnato, confessa: “la conseguenza di questo stato di incertezza è che non sembra possibile, nell’analisi delle singole fattispecie, prospettare soluzioni «sicure», ma solo il più possibile coerenti rispetto alle direttrici sistematiche cui si ritiene di aderire”.
(15) Cfr., per la divisione prospettata, X. XXXXXXXX, voce Regiudicata civile cit., p. 429. Declinando la problematica
nel campo delle impugnative contrattuali, le Sezioni Unite hanno affermato che “la soluzione da offrire al tema
Le due opposte interpretazioni hanno pari dignità e pari fondamento: sono ispirate da visioni antitetiche, ma egualmente sostenibili (16). Xxxxxx, i quesiti che bisogna porsi, quando ci si accinge ad affrontare il tema dei limiti oggettivi della cosa giudicata nelle impugnative contrattuali, sono questi: quale funzione si vuole attribuire al giudicato? Si vuole che esso sia strumento di economia processuale o di garanzia di ciò che le parti scelgono di far valere in giudizio?
Per onestà intellettuale, è opportuno enunciare subito la scelta di valore alla quale si vuole
aderire e che condizionerà l’intera analisi compiuta nel presente studio.
Si è detto che la legislazione ordinaria non fornisce una specifica norma in tema di limiti oggettivi e che, per delinearli, è necessario ricorrere a una interpretazione sistematica. Ebbene, sembra corretto salire di rango e valutare se il legislatore costituzionale abbia fornito dei criteri che possano guidare nell’opera che qui si intraprende. Sono due le norme idonee a costituire una bussola per lo studioso. La prima è l’art. 24, c. 1 e 2, Cost., per cui “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”. La seconda è l’art. 111, c. 2, Cost., in forza del quale “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.
L’ideale sarebbe definire una conformazione oggettiva che consenta alla res iudicata di essere costituzionalmente orientata (17). Applicando i principi enunciati al tema di interesse, se ne trae che la soluzione ottimale è quella che permetta alle parti di esercitare i loro diritti di azione e difesa e di contraddire sulle proprie situazioni giuridiche sostanziali in una posizione di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale; il tutto cercando di evitare lungaggini processuali e ripetizioni di giudizi sulla stessa lite.
Ma la scelta appena compiuta è ancora troppo generica e va ulteriormente precisata. Come visto, l’esigenza di rispettare le domande delle parti e, dunque, i loro diritti di azione e difesa e la necessità di evitare diseconomie giudiziali portano a risultati diametralmente opposti: la prima conduce a una restrizione dell’ambito oggettivo dell’incontrovertibilità, che deve ricalcare ciò che le parti hanno chiesto, anche qualora le istanze riguardino un mero segmento di una più articolata vicenda sostanziale; la seconda, invece, spinge verso un ampliamento della res iudicata, di modo che, maggiore sia la portata di una pronuncia, minore sia la possibilità per le parti di instaurare giudizi lato sensu collaterali alla prima controversia.
delle impugnative negoziali non può prescindere dalla necessità di evitare una disarticolazione, tramite il processo, di una realtà sostanziale irrimediabilmente unitaria. È altrettanto certo che il principio della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato hanno a loro volta dignità di Generalklauseln nel processo civile”: Xxxx., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242, par. 5.9. In tal senso, cfr. anche X. XXXXXX – A. PROTO PISANI, Lineamenti di diritto processuale civile, Napoli, 2001, p. 83.
(16) Lo notano anche X. XXXXXXXX, voce Regiudicata civile cit., p. 437; X. XXXX, In tema di giudicato cit., p. 583, per cui “quasi per ogni questione in tema di limiti oggettivi del giudicato è prospettabile un ventaglio di soluzioni, tutte peraltro (all’interno del proprio sistema) logicamente plausibili”.
(17) Di questo parere è anche X. XXXXXXX, “Porte aperte” delle Sezioni Unite alla rilevabilità d’ufficio del giudice della nullità del contratto, in Corr. giur. 2015, p. 88, spec. 99, per il quale “è il diritto vivente che richiede, ai sensi dell’art. 117 comma 1 Cost. novellato nel 2001, un’interpretazione costituzionalmente orientata”.
Si tratta, dunque, di prendere una seconda decisione e di attribuire preminenza all’una o all’altra necessità.
A mio parere, l’elemento che fa pendere la bilancia verso l’una o verso l’altra è fornito dalla stessa Carta fondamentale: mentre il diritto di difesa viene espressamente definito come “inviolabile”, un epiteto di tal sorta non viene attribuito, per converso, all’altro (pur importante) diritto alla ragionevole durata del processo. Pertanto, si ritiene preferibile tenere come pietra angolare, nella costruzione dei limiti oggettivi della regiudicata, i diritti garantiti dall’art. 24 Cost. (18).
Ecco, dunque, effettuata la scelta, a supporto della quale possono essere riprese le incisive parole di un insigne processualista che la condivide: “siamo dell’idea […] che, almeno per quanto riguarda le situazioni giuridiche disponibili, il nostro processo sia retto dal principio della domanda e che le parti abbiano il potere di ritagliare con piena libertà la materia su cui vogliono che incida il provvedimento giurisdizionale. Siamo consapevoli che questa scelta comporta rischi di ingiustificate frammentazioni della materia controversa e di eventuali contraddizioni tra decisioni che sarebbe bene conservare omogenee; sappiamo che in questo modo si va contro le esigenze di economia processuale; ma sappiamo anche che questo è il solo modo per garantire alle parti che la decisione sia quella da loro chiesta e non quella che si potrebbe tirar fuori a loro insaputa in un momento successivo e sulla base di operazioni interpretative rispetto alle quali la discrezionalità dei magistrati sarebbe quasi totale […]. E sappiamo, infine, che soltanto in questo modo si dà piena e soddisfacente tutela al diritto di difesa, che è uno dei cardini del processo recepiti a livello costituzionale” (corsivo mio) (19).
Si è, così, individuato il valore che si intende rispettare e che rappresenterà la “stella polare” nel percorso che condurrà alla definizione dei limiti oggettivi del giudicato nel contesto delle impugnative dei contratti. Prima di addentrarci nel vivo del discorso, sembra appropriato indicare brevemente il piano dell’opera.
Il primo capitolo sarà dedicato all’analisi delle impugnative contrattuali e sarà suddiviso in due sezioni: nella prima ci si concentrerà sulle azioni di nullità, annullamento, rescissione e risoluzione, nella seconda sulle relative eccezioni, con il duplice obiettivo di (i) individuare la modalità con cui i corrispondenti effetti si producono sul piano sostanziale e conseguentemente (ii) determinare la natura – dichiarativa o costitutiva – delle sentenze che definiscono giudizi in cui tali effetti vengano in considerazione.
Si getteranno così le basi per affrontare il tema centrale del presente elaborato, ossia quello dei limiti oggettivi del giudicato che si forma a seguito della proposizione di domande
(18) Di analoghe vedute è X. XXXXXXX, Oggetto del giudicato e principio dispositivo. I. Dei limiti oggettivi e del giudicato costitutivo, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1991, p. 215, spec. 280, per cui il principio della domanda “non può cedere il passo ad esclusive esigenze processuali di economia dei giudizi”.
(19) G. VERDE, Diritto processuale cit., vol. II, pp. 289-290. Si esprime in termini equivalenti anche X. XXXXXXX,
«Collateral estoppel» e giudicato sulle questioni, in Riv. dir. proc. 1972, p. 272, spec. 273, chiaro nel dire che “l’esigenza fondamentale è quella di ricondurre la dottrina del giudicato al banco di prova del diritto di difesa. [L]a parte […] può essere vincolata soltanto nei limiti in cui, dal punto di vista […] oggettivo, abbia concretamente goduto di tale garanzia” (corsivo mio).
o di eccezioni di impugnativa contrattuale. Lo svolgimento di tale analisi occuperà l’intero
secondo capitolo, che avrà una struttura tripartita.
Nella prima sezione, si esamineranno i contorni che la res iudicata assume a fronte di azioni di nullità del contratto, oppure a fronte di azioni volte a far valere uno o più effetti derivanti da un contratto, ove la nullità sia eccepita dalla parte convenuta o rilevata d’ufficio dal giudice. Nella seconda, si volgerà l’attenzione al tema dell’oggetto del processo, prima, e del giudicato, poi, nell’ambito delle azioni di annullamento, rescissione e risoluzione del contratto, nonché nel contesto dei giudizi in cui si azionano uno o più effetti derivanti da un contratto, quando la controparte eccepisca l’annullabilità, la rescindibilità o la risoluzione dell’accordo negoziale. Infine, la terza e ultima sezione sarà deputata all’indagine sui rapporti tra le azioni di annullamento, rescissione, risoluzione e la nullità del contratto.
Scopo del presente studio è, anzitutto, quello di compiere un’opera di sistematizzazione delle poliedriche opinioni che si sono susseguite sulle problematiche delineate e, in secondo luogo, quello di proporre una ricostruzione dei limiti oggettivi del giudicato, nel settore delle impugnative contrattuali, che bilanci, nel miglior modo possibile, gli interessi in gioco. A questi fini, la scelta di sistema qui operata costituirà il punto di riferimento per non perdersi nella selva delle teorie che si incontrano e si scontrano sul terreno della res iudicata. E sarà anche un parametro per valutare se il Restatement operato dalla Cassazione negli anni 2012/2014 debba essere applaudito come punto d’arrivo di molti lustri di dibattito, dottrinale e giurisprudenziale, o se debba essere salutato come un piccolo, gradito, passo in avanti verso un traguardo ancora lontano.
CAPITOLO PRIMO
AZIONI ED ECCEZIONI DI IMPUGNATIVA CONTRATTUALE
SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Segue. Le tecniche di produzione degli effetti giuridici sostanziali. La fattispecie – 3. Segue. Il rapporto tra tecniche di produzione degli effetti giuridici sostanziali e processo. Diritti potestativi sostanziali e a necessario esercizio giudiziale. Sentenze dichiarative e sentenze costitutive – 4. Considerazioni programmatiche – SEZIONE PRIMA: LE AZIONI DI IMPUGNATIVA CONTRATTUALE – 5. L’azione di nullità – 6. Segue. Le nullità di protezione – 7. L’azione di annullamento – 8. L’azione di rescissione – 9. L’azione di risoluzione – 9.1. La risoluzione per inadempimento – 9.1.1. La diffida ad adempiere – 9.1.2. La clausola risolutiva espressa – 9.1.3. Il termine essenziale – 9.1.4. La risoluzione ex art. 1453 c.c. – 9.1.5. Segue. L’azione ex art. 1453 c.c.
– 9.1.6. L’effetto di risoluzione per inadempimento – 9.2. La risoluzione per impossibilità sopravvenuta – 9.3. La risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta – 9.4. Le ipotesi atipiche di risoluzione – SEZIONE SECONDA: LE ECCEZIONI DI IMPUGNATIVA CONTRATTUALE – 10. Le
eccezioni di merito. Le eccezioni in senso lato e in senso stretto – 11. L’eccezione di nullità – 12. L’eccezione di annullabilità – 13. L’eccezione di rescindibilità – 14. L’eccezione di risolubilità e l’eccezione di risoluzione – 14.1. Le ipotesi di risoluzione giudiziale. L’eccezione di risolubilità – 14.2. Le ipotesi di risoluzione stragiudiziale. L’eccezione di risoluzione – 15. Il modo di operare delle eccezioni di impugnativa. Le eccezioni-deduzioni e le eccezioni-impugnazioni. La natura della sentenza che rigetta la domanda attorea in accoglimento dell’eccezione di impugnativa
1. Premessa
Lo studio della conformazione oggettiva che la res iudicata assume nel peculiare settore delle impugnative contrattuali ha quale irrinunciabile fondamento l’esame di queste ultime dall’angolazione del diritto sostanziale.
Per azioni di impugnativa contrattuale si intendono quelle azioni che hanno per presupposto un contratto e che si fondano su un vizio genetico o funzionale del medesimo: si tratta delle azioni di nullità, annullamento, rescissione e risoluzione (per inadempimento, impossibilità sopravvenuta o eccessiva onerosità sopravvenuta) del contratto (20).
Si impongono subito due precisazioni terminologiche.
Innanzitutto, non manca in dottrina chi si riferisce alle azioni in discorso attribuendo al sostantivo “impugnativa” l’epiteto “negoziale” (21). Tale scelta lessicale è senz’altro corretta sotto il profilo dogmatico, ma non è, a mio avviso, la più puntuale.
Come noto, il negozio giuridico è un atto di volontà diretto a uno scopo rilevante per l’ordinamento giuridico, al quale l’ordinamento stesso ricollega effetti giuridici conformi al risultato voluto (sempre che la finalità dell’atto sia meritevole di tutela e che esso risponda
(20) Cfr. in tal senso X. XXXXXXX, La risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, Torino, 1952, p. 253, secondo cui le azioni indicate nel testo appartengono tutte “alla stessa famiglia”; X. XXXXXXXXX, Principii di diritto processuale civile: le azioni, il processo di cognizione, Napoli, 1965 (rist.), p. 193; X. XXXXXXXXXX, Situazioni potestative, tutela costitutiva, giudicato, Torino, 1999, pp. 42-43.
(21) Cfr., in via esemplificativa, X. XXXXXXXXXX, Situazioni potestative cit., pp. 42-43; X. XXXXXXXX, Il giudicato civile, Torino, 2002, p. 144.
ai requisiti fissati dalla legge per le singole figure negoziali) (22). Ora, se è vero che il contratto viene definito senza esitazioni come “la figura più importante di negozio giuridico” (23), è altrettanto vero che nella categoria sono ricompresi numerosi altri atti, i quali sono parimenti suscettibili di impugnazione: si pensi, per citare gli esempi più frequenti nella pratica, al testamento, alla deliberazione dell’assemblea di una società o di un condominio, al matrimonio, al riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio (24). Poiché il contratto si presenta come una delle tante species del genus negozio giuridico, appare più appropriato, per chi si prefigga un’analisi limitata alle impugnazioni dei soli contratti, quale quella oggetto della presente trattazione, utilizzare la più precisa locuzione “impugnative contrattuali”, anziché l’onnicomprensiva “impugnative negoziali”.
In secondo luogo, nel linguaggio corrente si è soliti disquisire di impugnazione “del contratto” e, con riferimento all’esito positivo di detta azione, di nullità, annullamento, rescissione o risoluzione “del contratto”. Tuttavia, occorre chiarire che si tratta di forme sintetiche che descrivono fenomeni in realtà più complessi.
L’atto contrattuale, in sé considerato, è un mero fatto e, in quanto tale, non può essere oggetto di autonomo processo (25), né può essere in alcun modo concretamente eliminato (26). E in effetti, a ben vedere, le azioni di impugnativa contrattuale non vengono esperite contro il negozio, bensì contro l’efficacia dello stesso, e quindi contro il rapporto
(22) È questa la definizione data dalla dottrina tradizionale: v. C. M. BIANCA, Diritto civile, III. Il contratto, Milano, 2000, pp. 7-8; X. XXXXX, L’autonomia privata, Milano, 1959, p. 27, per cui “il negozio giuridico è tipica espressione della volontà dei singoli diretta al perseguimento di fini o interessi tipicamente privati”; X. XXXXXX, Teoria del negozio giuridico, Padova, 1947, p. 1 ss., che definisce “il negozio giuridico come la manifestazione di volontà di una o più parti che mira a produrre un effetto giuridico, e cioè la nascita o la modificazione o l’accertamento oppure l’estinzione di un diritto subbiettivo”; i negozi giuridici “hanno in comune questo di essenziale, di essere voluti dall’interessato per conseguire un certo effetto il quale, se si verifica, è la conseguenza immediata della volontà”; A. TORRENTE – X. XXXXXXXXXXX, Manuale di diritto privato, Milano, 2017, p. 213; X. XXXXXXXXX, Istituzioni di diritto privato, Milano, 2018, p. 155. Una definizione molto simile è fornita da X. XXXXX, Teoria generale del negozio giuridico, Napoli, 2002 (rist.), p. 54 ss., al quale, però, preme delineare il ruolo della volontà in modo più preciso rispetto a quanto comunemente effettuato: secondo l’autorevole studioso, il negozio giuridico è “l’atto con cui il singolo regola da sé i propri interessi nei rapporti con altri […]: atto al quale il diritto ricollega gli effetti più conformi alla funzione economico-sociale che ne caratterizza il tipo”. L’Autore esplicita che non è sua intenzione mettere in dubbio che “la volontà costituisca un elemento normale del negozio giuridico”, bensì semplicemente evidenziare che la volontà “deve rendersi esteriormente riconoscibile nell’ambiente sociale, per poter […] ottenere la tutela dell’ordine giuridico”.
(23) Così X. XXXXXXXX – X. XXXXXXXXXXX, Manuale cit., p. 529.
(24) Per la riconduzione di tali atti nell’alveo della figura del negozio giuridico, cfr. X. XXXXXX, Teoria del negozio giuridico cit., pp. 10, 39-40, 45-46; A. TORRENTE – X. XXXXXXXXXXX, Manuale cit., pp. 214-215; X. XXXXXXXXX, Istituzioni cit., p. 160 ss.
(25) Sul punto, x. xxxxx, xxx. 00.
(26) Cfr. X. XXXXXXXX, Manuale di diritto civile italiano, Napoli, 1992 (rist.), p. 332, per cui “il negozio giuridico, […] considerato come fatto per sé stante e realmente compiuto[,] non può distruggersi”; X. XXXXXXXXXX, Situazioni potestative cit., p. 54: “l’atto in sé, quale fatto, non può essere realmente né annullato, né in qualsiasi altro modo eliminato”; X. XXXX, Risoluzione di contratto nullo?, in Foro pad. 1971, p. 741, spec. 744, secondo cui “il contratto, quando sia accaduto nel mondo storico e giuridico – come realtà conforme ad uno schema legislativo
– è quello che è e non può mai cessare di essere”; X. XXXXXXX, Dei contratti nella pratica commerciale, vol. I, Dei contratti in generale, Padova, 1931, pp. 12-13, per cui “quando si dice dunque che si scioglie o si risolve «il contratto» non si vuol dire che si risolve l’avvenimento accaduto, bensì la situazione giuridica o il rapporto giuridico che ne sia sorto. Così quando si dice che il contratto «cessa», che il contratto «si estingue» e così di seguito”.
contrattuale che dal medesimo scaturisce (27). A rigore, allora, sarebbe più corretto discorrere di impugnazioni “degli effetti prodotti dai contratti” e riferire la nullità, l’annullamento, la rescissione e la risoluzione a tali effetti. Ragioni di sintesi possono comunque giustificare l’impiego delle espressioni ricordate all’inizio del capoverso, purché si sia consapevoli che si tratta di formule “condensate”, in cui il richiamo agli effetti del contratto è stato eliso (28).
Le impugnative contrattuali possono comparire sulla scena processuale, oltre che nella forma di azioni, anche con la veste di eccezioni: in tali ipotesi, traendo spunto dal linguaggio codicistico, si suole parlare di eccezioni di nullità, annullabilità, rescindibilità e risolubilità (ancora una volta, a seconda dei casi, per inadempimento, impossibilità sopravvenuta o eccessiva onerosità sopravvenuta) del contratto (29). E ciò benché si osservi, sia in dottrina sia in giurisprudenza, una certa flessibilità in punto di nomenclatura giuridica e si trovino spesso utilizzati anche in questo campo i termini – caratteristici delle azioni – di annullamento, rescissione e risoluzione.
Anche per le eccezioni di impugnativa contrattuale valgono, mutatis mutandis, le considerazioni terminologiche svolte supra.
Come accennato in apertura, i problemi relativi alla delimitazione oggettiva del giudicato nel contesto delle impugnative contrattuali sono intimamente connessi con la ricostruzione sostanziale delle stesse, e anzi in parte traggono origine proprio da tale ricostruzione. Infatti, come si vedrà funditus nel corso del secondo capitolo, le questioni che devono essere risolte al fine di delineare l’oggetto della cosa giudicata dipendono non solo dall’oggetto del singolo giudizio, ma anche dagli effetti giuridici che la singola sentenza è idonea a produrre, i quali, a loro volta, dipendono dalle modalità con cui gli effetti giuridici si realizzano in forza del diritto sostanziale (30).
L’impostazione dell’indagine relativa allo spinoso tema del giudicato, tipico del diritto processuale, affonda dunque le proprie radici nel diritto sostanziale; ed è proprio da qui che occorre cominciare.
(27) In proposito, cfr. X. XXXXXX, La teoria delle vicende del rapporto giuridico, Torino, 1950, p. 271 (implicitamente);
I. XXXXX, Le azioni di impugnativa negoziale. Contributo allo studio della tutela costitutiva, Milano, 1998, pp. 202, 316, nt. 15: “A nostro parere, nessuna delle impugnative negoziali si può dire rivolta verso l’atto negoziale, perché in realtà non è mai l’atto che si elimina (per il principio del quod factum infectum fieri nequit), bensì l’efficacia dell’atto (id est, il rapporto contrattuale di cui l’atto è causa petendi)”. In termini analoghi, con specifico riferimento al rimedio della risoluzione, v. X. XXXXX, Teoria generale del negozio giuridico cit., p. 488, per cui la risoluzione “si appunta propriamente non contro il negozio, ma contro il rapporto giuridico cui esso ha dato vita”; X. XXXX, Risoluzione cit., p. 744, secondo cui “la risoluzione non è del contratto, ma del rapporto o della serie di rapporti derivanti dal contratto”.
(28) Così X. XXXXXXXXXX, Situazioni potestative cit., p. 54, secondo cui “tale modo di esprimersi può anche accettarsi, essendo idoneo a sintetizzare in modo efficace il senso dell’intervento del giudice. Esso non è però, a rigore, corretto e bisogna stare attenti a non lasciarsene fuorviare, nella analisi dei fenomeni”.
(29) Per le prime tre tipologie di eccezioni, cfr. gli artt. 1421, 1442, c. 4, e 1449, c. 2, c.c. Quanto all’ultima, la denominazione indicata non discende dal testo normativo: l’eccezione di risolubilità del contratto, infatti, non trova espressa disciplina nel codice civile quale autonoma eccezione a carattere generale (v. infra, par. 14). Sulla corretta denominazione di tale eccezione, si veda parimenti infra, par. 14.
(30) La portata di queste affermazioni assumerà contorni più definiti nel corso della trattazione.
2. Segue. Le tecniche di produzione degli effetti giuridici sostanziali. La fattispecie
Nell’ambito della teoria generale del diritto, sono stati enucleati quattro diversi schemi tramite i quali gli effetti giuridici sostanziali possono venire alla luce (31).
Innanzitutto, gli effetti sostanziali possono sorgere sulla base dello schema norma – potere – effetto. Ciò accade quando la norma di legge generale ed astratta si astiene dal dettare in via immediata la disciplina degli interessi in conflitto relativi ai beni giuridici e demanda la fissazione di tale disciplina al potere dei privati (all’autonomia privata) o della pubblica amministrazione (al potere amministrativo in senso proprio). In tali ipotesi, la legge non ricollega direttamente a determinati fatti l’insorgere di situazioni soggettive di pretesa, facoltà, obbligo o soggezione, ma stabilisce soltanto le modalità con cui il citato potere deve essere inderogabilmente esercitato; è poi l’atto di esercizio del potere a procurare la nascita di situazioni soggettive tra le parti. Viceversa – ed è questo il tratto caratteristico della tecnica in esame – prima che il potere sia esercitato non sussiste alcuna relazione tra chi lo esercita e chi ne subisce gli effetti, ovvero tra coloro che lo esercitano consensualmente. Quale esempio concreto di operatività del descritto schema può farsi il seguente: la stipulazione di un contratto di compravendita di un bene mobile comporta l’insorgere di un diritto alla consegna dello stesso in capo al compratore, ai sensi dell’art. 1476 c.c., e la consegna deve avvenire con le modalità concordate dalle parti.
Il secondo schema di produzione degli effetti sostanziali è composto dagli elementi norma – fatto – effetto. La norma (che può essere sia contenuta in una legge generale ed astratta sia enunciata da un atto negoziale o da un provvedimento amministrativo) detta in via immediata la disciplina degli interessi in conflitto in ordine ai beni giuridici e ricollega direttamente a determinati fatti l’insorgere di situazioni soggettive di pretesa, facoltà, obbligo o soggezione. In tali ipotesi, l’effetto giuridico è cagionato unicamente dal verificarsi del fatto previsto dalla norma, senza che sia necessaria l’intermediazione di alcun potere sostanziale. È il caso dell’acquisto del diritto di proprietà di una res nullius in forza della sua occupazione, ai sensi dell’art. 923 c.c.
La terza modalità con cui si realizzano gli effetti sostanziali segue lo schema norma – fatto – potere sull’an – effetto. Ancora una volta è la norma (generale ed astratta, contrattuale o amministrativa) a dettare la disciplina degli interessi in conflitto rispetto ai beni giuridici e a individuare le situazioni giuridiche soggettive di pretesa, facoltà, obbligo o soggezione che si ricollegano a determinati fatti. Tuttavia, in questo caso, la genesi di tali effetti è subordinata all’esercizio di un potere sostanziale unilaterale con cui una parte attribuisce rilevanza al fatto. Detto potere, a differenza di quello ricompreso nel primo schema di produzione degli effetti sostanziali supra esaminato: (i) è discrezionale solo quanto all’an, essendo invece il
(31) Un’analisi approfondita di tali schemi è condotta da A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva (e sulle tecniche di produzione degli effetti sostanziali), in Riv. dir. proc. 1991, p. 60, spec. 62 ss. Cfr. anche X. XXXXX, Xxxxxxx nell’adempimento e risoluzione del contratto, Milano, 2012, p. 21 ss.; X. XXXXXXXX, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, p. 151; X. XXXXXX, voce Eccezione, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. VII, Torino, 1991, p. 262, spec. 272; X. XXXXXX, Diritti potestativi, contestazione giudiziale e decadenza, Padova, 2003, p. 1 ss.
contenuto degli effetti integralmente fissato dalla norma; (ii) presuppone sempre la preesistenza di una relazione sostanziale tra chi lo esercita e il destinatario passivo dello stesso. Come si vede, a differenza della precedente ipotesi, in cui la valutazione sulla necessità dell’effetto è compiuta a priori dal legislatore, qui tale valutazione è rimessa, caso per caso, all’interesse della parte (32). Un tipico effetto che si genera secondo la tecnica in discorso è il ritrasferimento del diritto di proprietà al venditore in presenza del c.d. patto di riscatto (33).
Infine, l’ultimo schema dal quale si originano effetti giuridici sostanziali è costituito dalla sequenza norma – fatto – potere sull’an – accertamento giudiziale – effetto. Come nelle precedenti due ipotesi, è sempre la norma (generale ed astratta, contrattuale o amministrativa) a dettare la disciplina degli interessi in conflitto rispetto ai beni giuridici e a individuare le situazioni giuridiche soggettive di pretesa, facoltà, obbligo o soggezione che si ricollegano a determinati fatti. Tuttavia, il prodursi di tali effetti è subordinato non solo all’esercizio di un potere di parte che consenta di attribuire rilevanza al fatto, ma anche al previo accertamento giudiziale dell’effettiva esistenza dei presupposti richiesti dalla legge per la creazione di una nuova situazione giuridica. Anche in questa occasione: (i) poiché gli effetti sono predeterminati dalla norma, il potere si rivela discrezionale solo sull’an e non sul contenuto degli effetti medesimi; (ii) la sussistenza del potere presuppone una relazione tra il titolare e il destinatario passivo dello stesso. Si pensi, ad esempio, alla revocazione della donazione per sopravvenienza di figli ex art. 800 c.c., la cui fattispecie costitutiva è composta, oltre che dalla sopravvenienza di figli, anche dalla domanda giudiziale del soggetto interessato e dalla sentenza che la accoglie.
Utilizzando come punto di partenza le componenti dei quattro schemi appena elencati, pare qui opportuno effettuare una breve digressione sul concetto di fattispecie, che costituisce une delle colonne portanti attorno alle quali si svilupperà l’analisi che ci si propone di compiere (34).
(32) Lo rileva anche X. XXXXXX, voce Eccezione cit., p. 272: “l’ordinamento attribuisce al soggetto privato la facoltà di scelta se creare il nuovo rapporto, previsto a tutela del suo interesse dalla norma di modificazione, ovvero se conservare lo status esistente; la legge inserisce, all’interno della fattispecie produttiva del rapporto, un atto con il quale l’interessato deve manifestare l’iniziativa di avvalersi della tutela disposta a suo favore”. Nell’ipotesi in esame, allora, la situazione giuridica preesistente non subisce una modificazione direttamente a causa dell’accadere del fatto, ma in dipendenza di esso acquista una “suscettibilità alla modificazione” (la felice espressione è di X. XXXXX BONACCORSO, Diritti potestativi e sentenza costitutiva, in Giur. it. 1959, IV, p. 129, spec. 136): siffatta “suscettibilità” deriva appunto dalla circostanza che un soggetto acquista il potere di provocare la modificazione giuridica.
Le osservazioni appena effettuate valgono anche per il fatto e il potere sull’an che compongono il quarto schema di produzione degli effetti sostanziali, sul quale subito infra nel testo.
(33) Ai sensi dell’art. 1500 c.c., “il venditore può riservarsi il diritto di riavere la proprietà della cosa venduta mediante la restituzione del prezzo e i rimborsi stabiliti dalle disposizioni che seguono”: in forza del patto di riscatto, il venditore ha il potere di provocare unilateralmente il ritrasferimento del diritto alienato a proprio favore.
(34) Tale concetto costituisce un fondamentale strumento di lavoro nell’esame delle impugnative contrattuali, sia con riferimento ai profili sostanziali delle stesse sia con riferimento all’oggetto del giudicato che le riguarda. In questa sede, ci si limiterà a delineare gli aspetti utili per le finalità del presente capitolo. L’indagine sarà, poi,
Esistono due tipologie di fattispecie: la fattispecie astratta e la fattispecie concreta. Per fattispecie astratta, si intende il fatto o (più spesso) il complesso di fatti descritti ipoteticamente da una norma giuridica per indicare quanto deve accadere affinché si produca un determinato effetto giuridico. Per fattispecie concreta si intende (non più un modello configurato ipoteticamente, bensì) un fatto o un complesso di fatti realmente verificatisi, rispetto ai quali la norma definisce gli effetti giuridici che ne derivano (35).
A loro volta, i fatti che vanno a comporre le fattispecie (astratte o concrete che siano) vengono suddivisi in quattro categorie, che sono state enucleate muovendo dal disposto dell’art. 2697 c.c. Tale norma prevede che “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”. Si suole così distinguere tra fatti: (i) costitutivi, che generano un effetto giuridico;
(ii) impeditivi, che inibiscono l’insorgere di un effetto giuridico; (iii) modificativi, che mutano l’effetto giuridico originariamente prodotto; (iv) estintivi, che provocano la cessazione di un effetto giuridico già realizzato.
Tale suddivisione dei fatti giuridici ha condotto la dottrina a indagare e sviluppare ulteriormente la nozione di fattispecie. Secondo un’acuta ricostruzione, che mi sembra meritevole di adesione (se non altro perché semplifica grandemente l’opera di descrizione dei fenomeni), il concetto di fattispecie può assumere due diverse connotazioni: da un lato, si ha la fattispecie, potremmo dire, “costitutiva in senso stretto”, della quale fanno parte solo ed esclusivamente i fatti costitutivi di un effetto giuridico; dall’altro, si ha la fattispecie che si potrebbe definire “in senso ampio”, della quale fanno parte tanto i fatti costitutivi di un effetto giuridico, quanto i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi dello stesso. Alla realizzazione della prima, la legge ricollega l’effetto (ci si scusa per il gioco di parole) di generare un effetto; alla realizzazione della seconda, la legge ricollega l’effetto di escludere che la fattispecie “costitutiva in senso stretto” produca in tutto o in parte gli effetti suoi propri, oppure di modificare o estinguere quegli effetti (36).
integrata nel secondo capitolo con le considerazioni rilevanti per la delimitazione oggettiva del giudicato (v.,
infra, par. 22).
(35) Così X. XXXXXXXX – X. XXXXXXXXXXX, Manuale cit., p. 13.
(36) La tesi è di X. XXXXXX, La pronuncia d’ufficio, I. La pronuncia di merito, Milano, 1967, p. 251 ss.
Secondo la prospettiva più datata, cui l’Autore si oppone, mentre i fatti modificativi ed estintivi agiscono sull’efficacia di altri fatti ab externo, i fatti impeditivi, considerati con il “segno invertito”, fanno parte della fattispecie costitutiva dell’effetto. Al fine di distinguere i fatti costitutivi dai fatti impeditivi, racchiusi entrambi nell’area della fattispecie costitutiva, si propone una distinzione tra gli elementi costitutivi del fatto giuridico e gli elementi che lo integrano al fine di assicurarne la perfetta efficacia, di “confermarlo” (così X. XXXXX, Il possesso dei diritti, Roma, 1915, p. 347 ss). Sono numerosi gli studiosi che abbracciano questa ricostruzione: tra tanti, v. X. XXXXXX, Vicende del rapporto giuridico, fattispecie, fatti giuridici, Torino, 1999, p. 88, per il quale la fattispecie impeditiva è “quella che la norma considera incompatibile col verificarsi della vicenda del rapporto. Poiché il contrario della fattispecie impeditiva non è altro che un fatto giuridico ad efficacia positiva, si può ben dire che fattispecie impeditiva e fatto giuridico contrario a efficacia positiva sono due visuali di una stessa considerazione normativa”; V. ANDRIOLI, Appunti di diritto processuale civile, Napoli, 1964, p. 86, secondo cui il fatto può profilarsi come causa (ed è quindi costitutivo dell’effetto) o come occasione (e quindi la sua carenza è impeditiva dell’effetto); X. XXXXX, Diritto processuale civile italiano, Roma, 1936, p. 339, per cui normalmente ai fatti costitutivi si accompagnano circostanze concorrenti – “necessarie per l’efficacia specifica dei fatti
Applicando le esposte categorie alle modalità di produzione degli effetti sostanziali, si può affermare che: (i) il primo elemento delle tecniche elencate, la norma, individua la fattispecie astratta, o meglio le fattispecie astratte, descrivendo sia quella che si è definita “costituiva in senso stretto” sia quella che si è definita “in senso ampio”; (ii) tutti gli elementi della sequenza che si trovano tra la norma e l’effetto finale – fatti, poteri sull’an, provvedimenti giudiziali – compongono la fattispecie concreta costitutiva in senso stretto;
(iii) dagli schemi fuoriescono le fattispecie concrete in senso ampio (37), che possono incidere
ab externo sulla sussistenza dell’effetto giuridico.
Si può ora concludere il discorso relativo alle tecniche di produzione degli effetti sostanziali con un’ultima importante notazione. La scelta circa la modalità con cui un determinato effetto giuridico viene alla luce – in particolare per quanto riguarda la necessità che l’effetto si avveri per il tramite di una sentenza – è compiuta dal legislatore e si fonda su ragioni di opportunità (38).
costitutivi” medesimi – di cui i fatti impeditivi rappresentano il rovescio; E. T. XXXXXXX, Manuale di diritto processuale civile, vol. I, Milano, 2012, p. 156, per il quale “i fatti impeditivi sono l’aspetto e il lato negativo di quelle circostanze che normalmente accompagnano il fatto costitutivo e sono necessarie perché questo possa produrre la sua efficacia”.
Contrapponendosi agli studiosi appena citati, Xxxxxx fa notare che “quell’elemento, che la dottrina qualifica fatto impeditivo o modificativo od estintivo, isolato […] non è individuabile fra le rappresentazioni normative. Esso non è mai assunto da solo in uno schema legale, ma vi appare costantemente connesso con i fatti costitutivi della fattispecie inibita: solo che esso si presenta col suo segno naturale e non, come si afferma nella concezione criticata, col segno invertito. Si impone di conseguenza all’interprete una ricostruzione logico-sistematica nella quale gli elementi della fattispecie costitutiva, in concomitanza con un altro dato (il c.d. fatto impeditivo, modificativo od estintivo colto nel valore della formula legislativa), divengono i componenti di una nuova, più complessa fattispecie. La legge ricollega alla realizzazione di quest’ultima l’effetto di escludere che la fattispecie costitutiva produca in tutto o pro parte gli effetti suoi propri; oppure di modificare o di estinguere quegli effetti”.
Peraltro, l’idea di una duplicazione della fattispecie in una più semplice e in una più complessa aveva trovato spazio nel pensiero di qualche autore già prima de La pronuncia d’ufficio di Xxxxxx: V. DENTI, L’eccezione nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1961, p. 22, spec. 28-29, sembra scindere la “fattispecie primaria”, inclusiva di tutti gli elementi – positivi e negativi – necessari per la produzione dell’effetto giuridico, dalla “fattispecie semplificata”, un modello minore del quale fanno parte solo i fatti costitutivi; X. XXXXXX, Il soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, Milano, 1939, p. 6 ss., distingue tra una situazione di fatto stricto sensu e una situazione di fatto lato sensu. Quest’ultima si risolve in una fattispecie più ampia, comprendente sia gli elementi costitutivi della prima sia i c.d. presupposti di efficacia, che costituiscono “elementi periferici” della fattispecie, “e pertanto non sarebbe inesatto chiamarli circostanze: in quanto stanno intorno alla fattispecie, determinandone la sfera di efficacia”. I presupposti di efficacia “hanno rilevanza soprattutto negativa, perché la loro mancanza impedisce il subentrare della conseguenza giuridica: i presupposti di efficacia sono cause concorrenti perché le cause efficienti possano spiegare i loro effetti; ed in quanto tali, considerati nel loro aspetto negativo, vanno ricondotti sotto la nozione di fatto impeditivo”. Secondo l’Autore, dunque, il fatto impeditivo si identifica con l’inesistenza di un presupposto di efficacia: “esso, quindi, pur essendo un fatto giuridico autonomo, spiega la sua funzione inserendosi tra il primo momento del processo qualificativo (con cui si attribuisce alla situazione di fatto rilevanza giuridica) ed il secondo momento (con cui alla fattispecie già giuridicamente esistente vengono ricondotte dalla norma conseguenze giuridiche), in modo che la sua presenza paralizza, in tutto od in parte, la efficacia di una fattispecie”.
(37) E non può che essere così, se si considera che gli schemi descrivono il modo con cui gli effetti sostanziali si producono.
(38) Di tale avviso sono X. XXXXXXXXX, Principii cit., p. 181, secondo cui “quando basti la dichiarazione di volontà del titolare e quando si richieda una sentenza, è questione che la legge risolve (sebbene non sempre espressamente) giusta criterii d’opportunità”; X. XXXXX, Profili cit., pp. 17-18; X. XXXXX, Ritardo cit., p. 21 ss.; I. XXXXX, Le azioni cit., p. 174.
Più precisamente, secondo la tesi dominante, l’opzione di passare per un accertamento giurisdizionale è selezionata nelle ipotesi in cui vi siano forti esigenze di certezza del diritto: così, quando non si ritenga tollerabile uno stato di dubbio in ordine alla produzione di un effetto giuridico, si subordina detta produzione al processo e alla sentenza; al contrario, quando una qualche incertezza possa essere sopportata, si preferisce agganciare l’effetto a un mero fatto o alla manifestazione di volontà di un soggetto (39).
Un’altra e diversa teoria spiega, invece, l’adozione della quarta tecnica di produzione degli effetti sostanziali con la tendenza dell’ordinamento alla conservazione delle situazioni giuridiche (40).
3. Segue. Il rapporto tra tecniche di produzione degli effetti giuridici sostanziali e processo. Diritti potestativi sostanziali e a necessario esercizio giudiziale. Sentenze dichiarative e sentenze costitutive
L’esame delle modalità con cui emergono gli effetti giuridici sostanziali è stato sinora condotto senza qualificare i poteri che permettono di attribuire rilevanza giuridica ai fatti contemplati dalle norme e senza scandagliare l’eventuale ruolo dell’intervento giurisdizionale. Occorre ora occuparsi di tali due aspetti.
Cominciando dal primo, i poteri con cui le parti riescono a dare rilevanza giuridica a fatti manifestatisi nella realtà storica vengono in considerazione tanto nello schema norma – fatto
– potere sull’an – effetto quanto nello schema norma – fatto – potere sull’an – accertamento giudiziale – effetto. Ebbene, tali situazioni giuridiche soggettive, alle quali ci si è per il momento riferiti con il termine generico “poteri”, sono, per la precisione, diritti potestativi. Per diritto potestativo si intende il potere di produrre un effetto incidente sull’altrui sfera giuridica mediante un atto unilaterale, modificando o estinguendo situazioni giuridiche preesistenti, ovvero creandone di nuove. A tale potere corrisponde, dal lato passivo, una
(39) Cfr. X. XXXXXX, L’efficacia del giudicato civile nel tempo, Milano, 1991, p. 135; X. XXXXXXXXXX, Sistema di diritto processuale civile, vol. I, Padova, 1936, p. 145, che scrive: “le norme materiali determinano così la costituzione come la modificazione dei rapporti giuridici statuendone i presupposti; ora può darsi che, al fine di escludere ogni incertezza intorno alla modificazione, questa non sia consentita se l’applicazione della norma che la riguarda non sia fatta dal giudice e così questi non ne verifichi i presupposti”; X. XXXXXXXXX, Principii cit., pp. 181-182, per cui il legislatore si orienta verso l’una o l’altra alternativa a seconda che, “per la natura del rapporto da costituire o da estinguere, sia più o meno utile nell’interesse del commercio, dell’ordine pubblico, dei diritti dei terzi, la certezza e la pubblicità inerente alla sentenza”; X. XXXXXXX, Il concorso di azioni nella patologia della vendita. Diritto e processo, in Riv. dir. civ. 1989, I, p. 765, spec. 792, secondo il quale la scelta legislativa è “ispirata dal grado elevato di certezza richiesto”; X. XXXXXXX, Oggetto del giudicato cit., p. 248, per cui il provvedimento giurisdizionale viene richiesto per quei “rapporti percepiti più bisognosi di stabilità e certezza di assetto”; X. XXXXX, Ritardo cit., p. 22; X. XXXXXXXX, I limiti oggettivi cit., pp. 140-141; X. XXXXXX, Diritti potestativi cit., p. 40 ss.; I. XXXXX, Le azioni cit., p. 174.
(40) Cfr. X. XXXXX XXXXXXXXXX, Diritti potestativi cit., p. 137: “se ora ci si domanda perché mai l’ordinamento esiga in certi casi che l’effetto giuridico si avveri in seguito e per il tramite della sentenza che ne accerta il fatto causale, possiamo trovarne la spiegazione nella tendenza dell’ordinamento alla conservazione delle situazioni giuridiche. Riguardo a certi fatti ai quali l’ordinamento non attribuisce un rilievo tale da determinare senz’altro il mutamento della situazione giuridica, l’ordinamento subordina l’avverarsi dell’effetto all’accertamento giudiziale”.
situazione di soggezione: il soggetto passivo non deve – e non può – fare alcunché per impedire che la sua sfera giuridica sia colpita dall’atto di esercizio del diritto potestativo, sicché l’effetto si produce indipendentemente dalla sua volontà e senza che occorra alcuna sua prestazione (41). La peculiarità del diritto potestativo sta nel fatto che esso opera esclusivamente sul piano della realtà giuridica, che è una realtà ideale: ciò rivela perché il soggetto passivo non possa prevenire od ostacolare la produzione degli effetti perseguiti dal titolare del diritto potestativo (42).
Benché appartengano allo stesso genus, i diritti potestativi che figurano nel terzo e nel quarto schema di produzione degli effetti sostanziali non condividono la medesima natura. Nell’un caso, l’atto unilaterale di volontà della parte è idoneo a produrre l’effetto giuridico in via immediata: l’effetto si realizza sol che la parte attribuisca rilevanza ai fatti indicati dalla norma, senza che sia necessaria la presenza di ulteriori presupposti. I diritti potestativi che possiedono tale caratteristica sono detti diritti potestativi sostanziali, o a esercizio stragiudiziale (Gestaltungsrechte, ossia pretese formative). Nell’altro caso, l’unilaterale manifestazione di volontà non è sufficiente a far sorgere l’effetto giuridico; occorrono, invece, l’iniziativa giudiziale della parte e il conseguente provvedimento del giudice, cui soltanto si collega l’effetto giuridico. Si parla allora di diritti potestativi a necessario esercizio giudiziale (Gestaltungsklagerechte, ossia pretese di azione costitutiva) (43).
(41) Per tale definizione di diritto potestativo, cfr. X. XXXXXXX, voce Diritti potestativi, in Enc. giur. Treccani, vol. XI, Roma, 1989, p. 1, spec. 1; X. XXXXXX XXXXXX, La domanda giudiziale ed il suo contenuto, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da X. XXXXXXX, Libro II, tomo I, Torino, 1980, p. 146, secondo il quale i diritti potestativi “hanno per contenuto di costituire, modificare o estinguere un altro diritto”; X. XXXXXXX, Spiegazioni di diritto processuale civile, vol. I, Torino, 2017, p. 31, per cui i diritti potestativi sono quelli per i quali “una norma stabilisce la prevalenza dell’interesse di un soggetto sull’interesse di uno o più altri e ne assicura la soddisfazione consentendo l’esercizio, ad opera del primo, del potere di produrre un effetto incidente sulla sfera giuridica dei soggetti passivi, indipendentemente dalla loro volontà e senza che occorra alcuna loro prestazione”; X. XXXXXXXXXX, Situazioni potestative cit., p. 74, per cui le “situazioni potestative […] consistono nella possibilità di produrre unilateralmente un effetto che coinvolga (anche) la sfera giuridica altrui”; E. MERLIN, Elementi di diritto processuale civile. Parte generale, Pisa, 2017, p. 47; X. XXXXXXX, voce Diritti potestativi, in Noviss. Dig. it., vol. V, Torino, 1960, p. 737, spec. 737, che precisa che “di fronte ai diritti potestativi non si trova che la semplice soggezione di altre persone, un vincolo cui queste non possono sottrarsi”; X. XXXXXX, Diritti potestativi cit., p. 2, parla di una “situazione concreta e singolare di preminenza, consistente nel potere di incidere unilateralmente nella sfera giuridica altrui”.
(42) L’acuta osservazione è di X. XXXXXXX, voce Diritti potestativi cit., p. 1.
(43) Sulla distinzione tra diritti potestativi sostanziali e diritti potestativi a necessario esercizio giudiziale, v. X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento. Premesse generali, in X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXX, Il contratto in generale, xxxx XXXX**, La risoluzione, in Trattato di diritto privato, diretto da X. XXXXXXX, vol. XIII, Torino, 2011, p. 41, nt. 129; X. XXXXXXX, Spiegazioni cit., vol. I, p. 31 ss., per cui “al privato non è dato – quando il legislatore reputi di scegliere [il] secondo e più impegnativo (ma anche più garantista) modello – un potere autosufficiente ed unilaterale di incidere sulle relazioni giuridiche che lo coinvolgono, ma solo il potere di agire in giudizio”; X. XXXXXX, Diritti potestativi cit., p. 2 ss.; X. XXXXX PISANI, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva cit., pp. 76, 82.
Giova qui ribadire che tanto i diritti potestativi sostanziali quanto i diritti potestativi a necessario esercizio giudiziale presentano due tratti che li distinguono nettamente dai poteri (autonomia privata e poteri amministrativi in senso proprio) che compongono la sequenza del primo schema di produzione degli effetti giuridici sostanziali, norma – potere – effetto: da un lato, i titolari dei diritti potestativi hanno discrezionalità solo con riferimento all’an dell’esercizio di tali diritti, e non con riferimento al contenuto degli effetti giuridici dallo stesso scaturenti; dall’altro, i diritti potestativi presuppongono sempre una preesistente relazione tra le parti coinvolte (in proposito, v. anche supra nel testo, par. 2).
Possono essere qui riprese, e meglio precisate, le considerazioni svolte supra (44) sui motivi degli assetti legislativi in punto di conformazione degli effetti giuridici. Come correttamente osservato in dottrina, il legislatore sceglie la via dell’esercizio stragiudiziale del diritto potestativo quando privilegia l’esigenza di immediatezza rispetto all’esigenza di certezza; viceversa, sceglie la via dell’esercizio giudiziale del diritto quando considera le esigenze di certezza preminenti rispetto a quelle di immediatezza. Infatti, “se l’effetto è prodotto dal provvedimento giurisdizionale, è necessario più tempo perché esso si produca […], ma al tempo stesso l’atto che lo produce – il provvedimento giurisdizionale – è maggiormente percepibile (ha forma scritta, data certa, la sua provenienza è sicura etc.) dell’atto stragiudiziale di esercizio del diritto stesso” (45).
Delineate così le fattezze dei poteri sull’an che compongono le fattispecie costitutive degli effetti giuridici sostanziali, il ruolo che il processo ricopre, di volta in volta, nella produzione di tali effetti assume contorni chiarissimi.
Nell’ambito dei primi tre schemi analizzati (norma – potere – effetto; norma – fatto – effetto; norma – fatto – potere sull’an – effetto), il processo non svolge alcuna funzione costitutiva: gli effetti giuridici sostanziali sono determinati in via immediata, rispettivamente, dall’atto di esercizio del potere, dal verificarsi del fatto, dal verificarsi del fatto e dalla manifestazione unilaterale di volontà di attribuire rilevanza allo stesso; e ciò senza che sia necessaria alcuna intermediazione dell’autorità giurisdizionale.
Un utile contributo può essere, invece, fornito dal processo a valle della realizzazione degli effetti sostanziali. L’esigenza di adire l’autorità giudiziaria può, infatti, emergere ogniqualvolta sorgano contestazioni in merito ai presupposti costitutivi degli effetti (reale sussistenza di fatti, reale sussistenza e legittimo esercizio di poteri o diritti potestativi sostanziali) e occorra, dunque, eliminare uno stato di incertezza.
Diversa è la conclusione cui si giunge con riferimento al quarto schema di produzione degli effetti sostanziali (norma – fatto – potere sull’an – accertamento giudiziale – effetto). È evidente che, in questa ipotesi, il processo irrompe nella sequenza costitutiva dell’effetto sostanziale, di cui la sentenza diviene fonte diretta. Così, contrariamente a quanto accade nel settore dei diritti potestativi sostanziali, dove il controllo giurisdizionale è successivo, sui diritti potestativi che si esercitano mediante domanda giudiziale il controllo giurisdizionale avviene in una fase precedente alla produzione dell’effetto (46).
Dalle diverse tecniche di produzione degli effetti giuridici sostanziali discendono, dunque, diverse tipologie di azioni esperibili e diverse tipologie di sentenze che definiscono i giudizi.
(44) Cfr. par. 2.
(45) Così efficacemente F. P. LUISO, Diritto processuale civile, vol. I, Milano, 2017, p. 16. In senso analogo, v. anche
X. XXXXXXX, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989, p. 167, per cui con il Gestaltungsklagerecht si privilegia l’esigenza di certezza, che è efficacemente scolpita dalla formula “prima il processo, poi la modificazione” (Erst der Prozess, dann die Gestaltung); al contrario, laddove la gravità degli effetti costitutivi generati non è tale da richiedere un accertamento giudiziale preventivo e prevale l’esigenza di speditezza e flessibilità, è più usuale lo schema del diritto potestativo esercitabile stragiudizialmente.
(46) Cfr. X. XXXXXXX, voce Diritti potestativi cit., p. 10.
Nelle prime tre situazioni, nelle quali gli effetti sostanziali si sprigionano sul piano stragiudiziale, l’attività processuale mostra la propria utilità ex post, ove sia necessario dirimere eventuali controversie relative all’effettiva costituzione, modificazione, estinzione di situazioni giuridiche sostanziali. L’azione esperibile è, quindi, un’azione di mero accertamento, con la quale si accerta – e non si modifica – lo stato giuridico preesistente (47): si tratterà di accertamento positivo, se ad agire in giudizio sia la parte interessata ad ottenere la statuizione che gli effetti sostanziali si sono invero verificati; si tratterà di accertamento negativo, se ad agire sia la parte interessata ad ottenere la pronuncia opposta (48).
La sentenza che definisce il giudizio è sempre una sentenza dichiarativa, sia nelle ipotesi di accoglimento della domanda, sia nelle ipotesi di rigetto della stessa: la pronuncia contiene solo la constatazione dell’esistenza, inesistenza o modo di essere di un rapporto giuridico o di un fatto giuridicamente rilevante (49) e produce solo un effetto di accertamento (50), “consistente nel render certa l’esistenza (o l’inesistenza) [o il modo di essere, ndr.] di tale situazione, così come dichiarata dal giudice” (51).
(47) Così X. XXXXXXXXXX, Sistema cit., vol. I, p. 149; I. XXXXX, Le azioni cit., p. 2, la quale sottolinea che, con la proposizione di un’azione di mero accertamento, “non si produce alcuna modificazione dello stato di diritto esistente, ma si ha la constatazione di ciò che è già prima della pronuncia giudiziale”. V. anche X. XXXXXXX, In tema di limiti oggettivi della cosa giudicata, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1990, p. 475, spec. 478-479, per cui “un processo meramente dichiarativo […] è caratterizzato dal fatto che un soggetto instauri un giudizio per ottenere una decisione che, tutelandolo contro lo stato di incertezza relativa all’esistenza, o inesistenza, di un suo diritto, status o rapporto, si esaurisca nel mero accertamento, positivo o negativo, della situazione giuridica dedotta nel processo”; X. XXXXX, voce Costitutiva (azione), in Enc. giur. Treccani, vol. XI, Roma, 1989, p. 1, spec. 1; E. T. XXXXXXX, Manuale cit., vol. I, p. 170; A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela di mero accertamento, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1979, p. 620, spec. 621, per il quale, nelle ipotesi in esame, “l’attore si limita a domandare al giudice di dichiarare se un determinato diritto esiste o non esiste”.
(48) In tal senso, v. A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva cit., pp. 64, 68-69, 76-77. Con specifico riferimento ai diritti potestativi a esercizio stragiudiziale, cfr. X. XXXXXX, Diritti potestativi cit., pp. 42, 97-98, 102: “insorgendo incertezza in ordine alla produzione dell’effetto, potrà essere proposta azione di mero accertamento non solo dal titolare del diritto potestativo per far dichiarare il nuovo rapporto giuridico costituito dal suo esercizio, ma anche da parte del soggetto passivo in ordine alla inesistenza del nuovo rapporto e alla permanenza del vecchio rapporto”.
(49) Cfr. F. XXXXXX, L’azione del cittadino contro la pubblica amministrazione, Torino, 1905, p. 25, per cui “sono azioni dichiarative (o di accertamento) quelle che invocano dallo Stato una sentenza definitiva dichiarativa. È sentenza dichiarativa quella che contiene soltanto la constatazione dell’esistenza o della non esistenza di un rapporto giuridico o di fatti giuridicamente rilevanti”; X. XXXXX BONACCORSO, Diritti potestativi cit., pp. 136- 137, riferendosi ai “fatti giuridici che con il loro accadere costituiscono, modificano o estinguono il rapporto giuridico”, spiega che, “dato l’automatismo del mutamento giuridico che segue al loro verificarsi, la sentenza non può che limitarsi a prenderne atto”.
(50) Cfr. X. XXXXX, Tutela giurisdizionale in generale, in AA. VV., Tutela dei diritti, in X. XXXXXXXX – X. XXXXXX (a cura di), Commentario del codice civile, Bologna-Roma, 1953, p. 302: “nella sentenza di mero accertamento, l’atto del giudice consiste indubbiamente nella produzione dell’accertamento; in esso si esaurisce anzi l’attività del giudice, che con l’accertamento realizza totalmente la tutela giuridica richiesta”. Il pensiero dell’Autore viene ripreso e fatto proprio da X. XXXXXXX, Appunti sulla natura della cosa giudicata, Milano, 1958, p. 78, per il quale “nella sentenza meramente dichiarativa, l’atto del giudice consiste proprio e soltanto nella produzione dell’accertamento. In tale tipo di sentenza l’attività del giudice si esaurisce proprio nell’accertare quale sia la situazione giuridica esistente fra le parti in causa; con l’accertamento il giudice realizza totalmente la tutela giuridica del richiedente”. Per una critica di tale impostazione, cfr. X. XXXXXXXXX, Istituzioni di diritto processuale civile, Padova, 1996, p. 372.
(51) E. F. XXXXX, voce Accertamento giudiziale, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. I, Torino, 1987, p. 16, spec. 17.
Quando, invece, ricorre la quarta tecnica di produzione degli effetti sostanziali, il processo, o, meglio, la sentenza che ne incorpora l’esito favorevole, assume carattere costitutivo degli effetti: è la sentenza a rendere attuale l’effetto, a tradurlo dallo stato potenziale a realtà concreta (52). Ci troviamo, dunque, nel settore delle azioni e delle sentenze costitutive.
Nella prospettiva della teoria generale del diritto, un atto giuridico ha efficacia costitutiva ogniqualvolta la situazione giuridica dallo stesso fissata “diverge, in modo netto e giuridicamente apprezzabile, dalla situazione giuridica preesistente” (53). Proprio nella sentenza costitutiva siffatta efficacia si mostra in modo evidente: secondo la definizione comunemente accettata, infatti, la sentenza costitutiva è quella che costituisce, modifica o estingue rapporti giuridici sostanziali (54), che si pone quale “coefficiente innovatore” nelle situazioni giuridiche soggettive (55). Dal canto suo, l’azione costitutiva è così definita (non
(52) Si esprime in tal modo X. XXXXX XXXXXXXXXX, Diritti potestativi cit., p. 137. V. anche X. XXXXXXXXXX,
Situazioni potestative cit., p. 40, per cui la sentenza diviene “fatto costitutivo di un effetto”.
(53) Sono queste le parole di X. XXXXXX, voce Accertamento (teoria generale), in Enc. dir., vol. I, Milano, 1958, p. 205, spec. 209, poi riprese da F. D. XXXXXXXX, Della tutela giurisdizionale dei diritti, in X. XXXXXXXXX XXXX – F. D. BUSNELLI – X. XXXXXXXX, Della tutela dei diritti, in Commentario del codice civile, Libro VI, tomo IV, Torino, 1964, p. 196.
(54) Si vedano X. XXXXX, voce Costitutiva cit., p. 1; I. XXXXX, Le azioni cit., pp. 1-2. Cfr. anche X. XXXXXXX, La risoluzione cit., p. 253, per cui “il tratto caratteristico delle sentenze costitutive […] sta appunto in questo, che in esse è la sentenza e non la volontà del titolare del diritto che viene a costituire titolo o causa della modificazione”; X. XXXXXXXX, Il giudicato civile cit., pp. 133-134, per cui la sentenza costitutiva si pone “come titolo o causa immediata dei rapporti materiali”; X. XXXXXXXX, voce Regiudicata civile cit., p. 439.
(55) Cfr. X. XXXXXXX, Spiegazioni cit., vol. I, p. 30, per cui la sentenza costitutiva è “un fattore di produzione o modificazione o estinzione – un coefficiente innovatore – direttamente introducentesi nella dinamica dei rapporti giuridici”. In termini analoghi si esprimono X. XXXXXXXXX, Principii cit., pp. 186-187, per il quale “ciò che è essenziale” nella sentenza costitutiva “è la produzione di uno stato giuridico che prima della sentenza non era”; X. XXXXXXXXXX, Contributo allo studio della tutela costitutiva, in AA.VV., Xxxxxxx in onore di Xxxx Xxxxxxxxx, vol. II, Milano, 1993, p. 105, spec. 134, secondo cui, nella sentenza costitutiva, il “dictum giudiziale […] porta sempre e comunque un assetto nuovo”.
Secondo l’orientamento maggioritario, le sentenze costitutive producono i propri effetti solo dal momento in cui passano in giudicato: così Cass., sez. un., 23 novembre 2018, n. 30416; Cass., 19 aprile 2013, n. 9641; Cass., 24 febbraio 2010, n. 4485. In dottrina, cfr. X. XXXXXXXXX, Principii cit., pp. 185-186; X. XXXXXX, Elementi cit., p. 49.
Si è soliti distinguere tra sentenze costitutive necessarie e sentenze costitutive non necessarie. Le prime ricorrono in tutte le ipotesi in cui le parti non possono dare vita agli effetti sostanziali tramite la propria autonomia negoziale: si pensi, per esempio, alle sentenze di annullamento del matrimonio o di interdizione. Le seconde divengono in concreto indispensabili solo in seguito a una crisi di collaborazione fra le parti, l’una delle quali non adempie un suo obbligo di contribuire a generare – sull’ordinario piano privatistico dell’autonomia – l’effetto sostanziale: è il tipico caso della sentenza ex art. 2932 c.c. Ai fini della presente indagine, però, il distinguo non ha rilevanza: è indifferente che l’effetto giuridico possa prodursi soltanto mediante il suo accertamento processuale o anche in modo diverso; ciò che rileva è che, ogniqualvolta l’effetto sia prodotto per mezzo del processo, quest’ultimo entra nel novero dei presupposti materiali e concorre a cagionarlo (in tal senso, v. X. XXXXXXXXXX, Sistema cit., vol. I, p. 147).
Si noti che l’efficacia costitutiva stricto sensu delle sentenze in esame deve essere tenuta distinta dall’efficacia costituiva lato sensu del giudicato. Come rammentato da autorevole dottrina, “in senso lato, non vi è decisione che non sia costitutiva di un effetto nuovo: anche l’accertamento è un quid novi” (così E. F. XXXXX, voce Accertamento cit., p. 23; si vedano, inoltre, X. XXXXXXX, La cosa giudicata, in Jus 1961, p. 1, spec. 10, per cui “il comando del giudice, sia dichiarativo sia costitutivo, è pur sempre innovativo nel mondo giuridico”; F. D. BUSNELLI, Considerazioni sul significato e sulla natura della cosa giudicata, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1961, p. 1317, spec. 1326-1327, per il quale “ogni sentenza passata in giudicato […] ha sempre una forza innovativa e, perciò,
tanto perché possieda – di per sé – una vera e propria efficacia costitutiva, ma piuttosto) perché tende all’ottenimento di una sentenza costitutiva (56).
Benché fossero già riconosciute prima dell’avvento del codice civile del 1942 (57), le sentenze in discorso sono state disciplinate normativamente per la prima volta dall’art. 2908
c.c. (58), che recita: “Effetti costitutivi delle sentenze” – “Nei casi previsti dalla legge, l’autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa” (59).
Come chiaramente si evince dal testo della norma, le ipotesi in cui è necessario appellarsi al giudice al fine di provocare un determinato effetto giuridico sono tassative (60). La ragione
un’efficacia lato sensu costitutiva”; X. XXXXXXXXX, Istituzioni cit., p. 374; X. XXXXXXXXX, Lezioni di diritto processuale civile, vol. I, Padova, 1995, p. 138).
Nega la configurabilità delle sentenze in esame X. XXXXXXXX, Manuale cit., pp. 553-554.
(56) In tal senso v. X. XXXXX, voce Costitutiva cit., p. 1; I. XXXXX, Le azioni cit., pp. 1-2.
(57) Si veda, per esempio, F. XXXXXX, L’azione cit., p. 38, che si esprimeva già nel lontano 1905 nei seguenti termini: “Sono azioni costitutive quelle che invocano dallo Stato una sentenza costitutiva. È sentenza costitutiva quella che opera la costituzione di un rapporto giuridico nuovo oppure lo scioglimento o la modificazione di un rapporto giuridico pre[e]sistente”.
(58) Come ricordano F. D. XXXXXXXX, Della tutela giurisdizionale cit., p. 195, che sottolinea come l’art. 2908 c.c. non trovi precedenti nel codice del 1865; X. XXXXX XXXXXXXXXX, Diritti potestativi cit., p. 133; X. XXXXX, Profili cit., p. 3; X. XXXXX, voce Costitutiva cit., p. 1.
(59) Ci si è domandati per quale ragione, tra le diverse forme di tutela giurisdizionale, solo alla tutela costitutiva sia riservata un’esplicita previsione del codice civile. La risposta parrebbe da ricercare nella sensibilità che il legislatore mostra verso il raccordo tra tutela giurisdizionale e diritto sostanziale, particolarmente critico nel campo delle sentenze costitutive: invero, “il rapporto tra giudice e legge è, nella tutela costitutiva, più delicato […] che nelle altre [forme di tutela giurisdizionale]; la mediazione del giudice tra parte e legge più intensa, più […] predominante sulla volontà della parte, ché non si limita a rimuovere in pro d’essa l’incertezza, il contrasto, la resistenza da altri opposta al suo dispiegarsi, ma la provvede di quei desiderati effetti che essa non sempre potrebbe da sola produrre e che però sono gli unici a poterla, in date fattispecie, soddisfare”: S. LA CHINA, La tutela giurisdizionale cit., p. 33, richiamato da X. XXXXXXXXXX, Tutela giurisdizionale dei diritti, in X. XXXXXXX (a cura di), Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1999, pp. 29-30.
(60) Il che comporta, tra l’altro, che le disposizioni normative che prevedono sentenze costitutive non possono essere applicate né analogicamente né estensivamente. Sul punto v. X. XXXXXXX, Diritto processuale civile, vol. I, Padova, 1999, p. 110, secondo cui “il processo costitutivo opera in quelle ipotesi espressamente previste dalla legge”; F. D. XXXXXXXX, Della tutela giurisdizionale cit., p. 195, per il quale “la forma di tutela giurisdizionale che si attua attraverso le sentenze [costitutive] non è ammissibile là dove la legge nulla dispone espressamente in proposito”; X. XXXXX, voce Costitutiva cit., p. 1; S. LA CHINA, La tutela giurisdizionale cit., p. 35; X. XXXXXXXXX, La tutela giurisdizionale dei diritti, in Trattato di diritto civile italiano, fondato da X. XXXXXXXX, vol. XIV, tomo IV, Torino 1985, pp. 123-124; I. XXXXX, Le azioni cit., p. 4; A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva cit.,
p. 61, per cui la lettera dell’art. 2908 c.c. “vale ad imporre il marchio della tassatività alle ipotesi riconducibili nello schema dommatico della tutela costitutiva”; X. XXXXX, Tutela giurisdizionale cit., p. 318.
Non mancano, tuttavia, in dottrina, voci discordanti. Alcuni ritengono che le ipotesi di azioni e sentenze costitutive siano tipiche, ma non tassative: cfr. X. XXXXXXX, Spiegazioni cit., vol. I, pp. 30-31, secondo cui, con l’art. 2908 c.c., “il legislatore non ha voluto codificare probabilmente un vero e proprio principio di tassatività delle sentenze costitutive; ha invece voluto semplicemente dire che la sentenza costitutiva […] è un fenomeno tipico che contrasta con il (e deroga al) principio generale e fondamentale dell’autonomia privata. Ed invero la sentenza costitutiva ex art. 2908 può essere data solo là dove legislativamente prevista (principio della tipicità dell’azione costitutiva, che dovrebbe escludere l’analogia ma non la interpretazione estensiva […])”; X. XXXXXXXXXX, Situazioni potestative cit., p. 73; X. XXXXXX, Elementi cit., p. 49; E. F. XXXXX, voce Accertamento cit.,
p. 23. Altri si esprimono in termini di eccezionalità: G. VERDE, Considerazioni inattuali cit., p. 16. Altri ancora credono, se ben si comprende, che le singole fattispecie di sentenze costitutive normativamente individuate siano suscettibili di interpretazione estensiva: v. X. XXXXXXXXXX, Tutela giurisdizionale cit., p. 35 ss. Da ultimo, alcuni opinano addirittura che la regola di cui all’art. 2908 c.c. abbia “l’attributo della normalità”: così X. XXXXXXXXXX, Contributo cit., p. 142.
è ben spiegata da La China in un passo che merita di essere riportato (nelle parti essenziali): “L’ordinamento è innanzitutto il luogo della vita ed attività dei soggetti […] che si muovono sul piano sostanziale, piano primario; […] su questo sfondo, il giudice risulta essere non la vita immediata dell’ordinamento, ma la sua vita riflessa, l’intervento a posteriori su situazioni così avanzate e maturate da aver dato luogo a […] bisogno di protezione giuridica. In questa istituzionale posizione secondaria e derivata non può il giudice avere gli stessi spazi di libertà e di esperienza dei suoi giudicandi, non può in linea generale sostituirsi ad essi, non può vivere la loro vita, e svolgere la loro attività (anche perché non ha la loro responsabilità) […]. Ed è perciò, per la fondamentale anomalia di un giudice che crea – in positivo, in modifica, in negativo – rapporti tra altri e di altri, che la legge vuol tenere il fenomeno sotto controllo, vuol riservare a sé, alla propria previsione specifica, la possibilità di regolarne estensione e intensità; il che accade predisponendo, preadattando già sul piano sostanziale i rapporti a ricevere un siffatto integratore modo di intervento del giudice” (61).
Pare qui opportuno esplicitare due corollari che discendono dalla natura costitutiva delle sentenze in esame, intesa nell’accezione falzeana di artefice di situazioni giuridiche divergenti da quelle preesistenti. Si tratta di corollari banali, ma che si dimostreranno utili nel corso dell’indagine che ci si accinge a compiere.
In primo luogo, quando l’effetto prodotto dalla sentenza è un effetto demolitorio, deve esistere un effetto giuridico da rimuovere. Così, se un atto è efficace, gli effetti dallo stesso scaturenti possono essere rimossi tramite un provvedimento costitutivo; al contrario, se un atto è inefficace, l’unica tutela cui si può fare ricorso è la tutela dichiarativa, non essendoci che da prendere atto che nessun effetto si è mai prodotto (62).
In secondo luogo, se l’efficacia costitutiva può sussistere solo ove si crei una discrepanza rispetto allo status quo ante, è ovvio che le pronunce che, pur collocandosi astrattamente nell’alveo della quarta tecnica di produzione degli effetti sostanziali, rigettano la domanda attorea hanno carattere dichiarativo, non costitutivo. Infatti, se il giudice respinge la domanda con la quale si è fatto valere un diritto potestativo a necessario esercizio giudiziale, significa che ha constatato l’insussistenza dei presupposti che occorrono per operare il mutamento giuridico e che, conseguentemente, non ha prodotto un nuovo effetto per il tramite della sentenza. Ne segue che l’unico contenuto del provvedimento di rigetto è un contenuto di accertamento, e precisamente di accertamento negativo della situazione giuridica dedotta in giudizio dall’attore (63).
(61) S. LA CHINA, La tutela giurisdizionale cit., pp. 33-34.
(62) Questa la condivisibile osservazione di X. XXXXXXXXXX, Situazioni potestative cit., pp. 54, 61-62.
(63) In tal senso si esprimono F. XXXXXX, L’azione cit., p. 26, per cui “sono dichiarative per necessità […] le sentenze definitive che rigettano le domande attrici”; E. T. XXXXXXX, Manuale cit., vol. I, p. 171, il quale precisa che “sentenze di accertamento sono anche tutte le sentenze che rigettano la domanda, poiché accertano l’inesistenza del diritto o in genere del rapporto giuridico fatto valere dall’attore”; A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela di mero accertamento cit., p. 622, secondo cui è “indiscutibile che anche [le] sentenze [di rigetto di domande costitutive], come tutte le sentenze che rigettano nel merito la domanda dell’attore, siano da considerare sentenze di mero accertamento (nel senso che l’unico loro contenuto e l’unica loro efficacia pratica destinata a permanere nel tempo è l’accertamento con autorità di cosa giudicata dell’inesistenza del diritto
4. Considerazioni programmatiche
Giunti così al termine delle articolate, ma doverose, premesse generali, occorre ora applicare i modelli supra enucleati agli effetti che vengono in rilievo nel settore delle impugnative contrattuali, ossia gli effetti di nullità, annullamento, rescissione e risoluzione dei contratti.
Il presente capitolo avrà un duplice scopo:
b) alla luce dei risultati ottenuti nell’indagine sub a), determinare la natura – dichiarativa o costitutiva – delle sentenze che definiscono i processi nei quali tali effetti vengano in considerazione (64).
Come già evidenziato, la scelta di adottare l’una o l’altra tecnica di produzione degli effetti sostanziali è rimessa alla discrezionalità del legislatore, che la esercita sulla base di criteri di opportunità (65). Tale scelta non può essere disattesa dall’interprete, al quale è precluso travalicare il diritto positivo (66). Ciò comporta che, nell’opera di inquadramento dei singoli effetti sostanziali nell’ambito dei diversi schemi genetici degli stessi, l’interprete deve farsi guidare dalla lettera delle disposizioni normative, indice primario della volontà legislativa (67).
Il prosieguo del capitolo è diviso in due sezioni.
La prima è dedicata all’esame delle azioni di impugnativa contrattuale, nell’ordine in cui compaiono nel codice civile (così da seguire, anche nella struttura, i dettami del legislatore). Con riferimento a ciascuna, ci si occuperà sia della disciplina processuale dell’azione sia della fattispecie sostanziale dell’effetto cui essa tende, ovviamente nei limiti in cui tali indagini siano utili per risolvere le questioni individuate all’inizio del paragrafo (e, quindi, senza pretese di dettaglio e di completezza rispetto a profili di puro diritto civile che non abbiano ripercussioni sul tema di studio).
La seconda sezione ha, invece, ad oggetto le eccezioni di impugnativa contrattuale. Queste ultime saranno, innanzitutto, analizzate partitamente, con lo scopo di valutarne l’ammissibilità, la rilevabilità officiosa e la prescrittibilità. Successivamente, si cercherà di comprendere se la proposizione di un’eccezione di impugnativa sia una valida tecnica di produzione degli effetti di nullità, annullamento, rescissione e risoluzione di contratti e,
dedotto in giudizio dall’attore)”; E. F. XXXXX, voce Accertamento cit., p. 26: “sempre accertamento mero è l’accertamento negativo, quale è prodotto dal rigetto della domanda. In caso di rigetto della domanda, infatti, il risultato è sempre uno solo: l’accertamento che la situazione dedotta con la domanda non esiste”; X. XXXXXXX, Lineamenti del processo civile italiano. Tutela giurisdizionale, procedimenti di cognizione, cautele, Milano, 2017, p. 483.
(64) L’espressione utilizzata è volutamente generica e verrà meglio precisata nel prosieguo del paragrafo.
(66) Così X. XXXXX, Ritardo cit., p. 23, secondo cui “è il legislatore, dunque, ad effettuare la scelta dello schema: essa, è vero, può essere storicamente mutevole ma non può essere disattesa dall’interprete, nel senso che questo non può andare al di là dello ius positum”.
(67) Di tale avviso sono X. XXXXX, Ritardo cit., p. 21, per il quale “è la lettera della legge ad indicare quale delle […] tecniche venga in considerazione”; X. XXXXXX, Diritti potestativi cit., p. 6, secondo cui, “per comprendere quale sia la tecnica usata dalla legge, […] è normalmente decisiva la lettera della disposizione normativa”.
nell’ipotesi in cui lo fosse, in che modo ciò accada. Da ultimo, anche in base agli esiti raggiunti, si indagherà la natura del provvedimento che accolga o rigetti una domanda giudiziale, rispettivamente, rigettando o accogliendo un’eccezione di impugnativa contrattuale.
Si porranno così le basi per impostare correttamente l’analisi relativa ai limiti oggettivi del giudicato delle sentenze che pronunciano su domande o eccezioni di impugnativa contrattuale, i quali saranno oggetto di approfondimento nel secondo capitolo dell’elaborato.
SEZIONE PRIMA
Le azioni di impugnativa contrattuale
5. L’azione di nullità
L’azione di impugnativa contrattuale che per prima trova spazio nel codice civile è l’azione di nullità, disciplinata dagli artt. 1421 e 1422 c.c., nonché, per quanto attiene agli effetti della trascrizione della relativa domanda giudiziale, dagli artt. 2652, c. 1, n. 6, e 2690, c. 1, n. 3, c.c. (68).
Ai sensi dell’art. 1421 c.c., la nullità di un contratto può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse (69). Come da più parti osservato, l’interesse a impugnare il contratto di cui parla la norma non ha niente a che vedere con l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. (che, beninteso, deve sussistere anche nei giudizi di nullità contrattuale, quale autonoma condizione dell’azione) (70); esso costituisce, invece, un criterio di determinazione della legittimazione ad agire (71), come peraltro è possibile desumere dalla rubrica della disposizione. Deve trattarsi di un interesse concreto, attuale e meritevole di tutela a rimuovere un pregiudizio derivante dalla nullità del contratto (72). A patto che sussista siffatto interesse, ad incardinare il giudizio possono essere sia le parti contraenti (73) sia soggetti terzi
(68) Sulla qualificazione di tale azione come azione di impugnativa concordano X. XXXXXXX, La risoluzione cit.,
p. 253; X. XXXXXXXXX, Principii cit., p. 193; X. XXXXXXXXX – M. G. XXXXXX, Il negozio invalido ed il negozio compromesso, con riguardo alla inesistenza, alla nullità, all’annullabilità ed alla rescissione. Parte seconda, in Arch. civ. 1999,
p. 129, spec. 136; X. XXXXXXXXXXX, L’azione di nullità tra legittimazione ed interesse, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2011, p. 407, spec. 419, 434.
(69) Meritano di essere qui richiamate le parole di G. DOTTORE, Il senso della rilevabilità d’ufficio della nullità negoziale nel sistema civilistico e processuale: la Cassazione torna sull’art. 1421 cod. civ., in Nuova giur. civ. comm. 2006, I, p. 380, spec. 384, per cui l’art. 1421 c.c., “nella sostanza, opera quale anello di una catena (o, se si vuole, un Xxxxx bifronte) che unisce fatto giuridico sostanziale e sua rappresentazione nel rito”. Lo stesso attributo è poi ripreso da X. XXXXXXX, “Porte aperte” cit., p. 89.
(70) Cfr. X. XXXXXXXXXX, voce Legittimazione ad agire, in Enc. giur. Treccani, vol. XVIII, Roma, p. 1, spec. 9; A. PROTO PISANI, Dell’esercizio dell’azione, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da X. XXXXXXX, Libro I, tomo II, Torino, 1973, p. 1081.
(71) Così X. XXXXXXX, voce Legittimazione ad agire, in Noviss. Dig. it., vol. IX, Torino, 1968, p. 721, spec. 724; X. XXXXXXXXXXX, L’azione di nullità cit., p. 408; E. F. XXXXX, Sull’accertamento della nullità e della simulazione nei contratti come situazioni preliminari, in Riv. dir. proc. 1994, p. 652, spec. 661.
(72) Cfr., ex multis, X. XXXXXXXXX, Le nullità e il contratto nullo, in Trattato del contratto, diretto da X. XXXXX, xxx. XX, Xxxxxx, 0000, p. 79; X. XXXXXXXXXXX, L’azione di nullità cit., p. 409: “interesse, quindi, come espressione compendiosa che sunteggia la ben più estesa formula «relazione di utilità» tra la sentenza (di accertamento della nullità) e la situazione danneggiata o danneggiabile, se non vi fosse declaratoria, del legittimato”. In giurisprudenza, x. Xxxx., 00 aprile 2002, n. 5420.
Con particolare riguardo alla meritevolezza di tutela, cfr. X. XXXXXXX, Spunti per lo studio del divieto d’abuso delle situazioni soggettive patrimoniali, in X. XXXXXXXXXXX (a cura di), Temi e problemi della civilistica contemporanea. Venticinque anni della Rassegna di diritto civile, Napoli, 2005, p. 313, spec. 316, per cui occorre dimostrare che “l’azione, ove accolta, sarebbe idonea ad attuare un interesse meritevole di tutela e tale dovrebbe essere considerato soltanto lo specifico interesse che la previsione della patologia tende a realizzare”; X. XXXXXXXX, Discipline della nullità e interessi protetti, Napoli, 2001, p. 129, secondo il quale “l’esclusione della legittimazione per le parti discende dall’assenza, in capo ad esse, non di un ‘qualsiasi’ interesse […], ma di un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico”.
(73) Con il solo limite del rispetto del divieto di venire contra factum proprium. Si deve ritenere che ricorra un’ipotesi
di abuso del potere di azione in tutti i casi in cui ad agire in giudizio sia la parte che ha causato la nullità del
che siano titolari di un rapporto o di un diritto dipendente dal titolo che si asserisce nullo (74).
Secondo la lettera dell’art. 1422 c.c., l’azione di nullità è imprescrittibile (75). Tuttavia, la portata della disposizione è fortemente ridimensionata da quattro diversi fattori: in primis, quale regola di carattere generale, restano sempre salvi gli effetti (i) dell’usucapione e (ii) della prescrizione delle azioni di ripetizione (è il medesimo art. 1422 c.c. a prevederlo); inoltre, quale regola riferibile alle sole azioni di nullità di contratti soggetti a trascrizione ex art. 2643 c.c., (iii) se la domanda è trascritta dopo cinque anni dalla data di trascrizione del contratto impugnato, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi di buona fede, in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda medesima (cfr. art. 2652, c. 1, n. 6, c.c.); infine, quale regola riferibile alle sole azioni di nullità di contratti soggetti a trascrizione ex art. 2684 c.c., (iv) se la domanda è stata resa pubblica dopo tre anni dalla data di trascrizione del contratto impugnato, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda medesima (cfr. art. 2690, c. 1, n. 3, c.c.).
Volgendo ora l’attenzione al sostrato sostanziale dell’azione, si può anzitutto affermare che il contratto nullo non produce effetti giuridici in nessun tempo (dal che il noto brocardo quod nullum est, nullum producit effectum) (76).
contratto, in quanto l’azione intentata si mostra incoerente con la condotta da questa inizialmente tenuta: cfr.
X. XXXXXXXXXXX, L’azione di nullità cit., p. 414 ss.
(74) I quali, per potersi riconoscere legittimati, devono trarre un utile specifico dall’effetto riflesso della pronuncia di nullità. In proposito, v. X. XXXXXXXX – X. XXXXXXXXX, L’azione di nullità, in AA.VV., Effetti, invalidità e risoluzione del contratto, in I contratti in generale, diretto da X. XXXX – X. XXXXXXX, tomo I, Torino, 1991,
p. 467; X. XXXXXXXXXX, voce Legittimazione ad agire cit., p. 9; X. XXXXXXXXXXX, L’azione di nullità cit., p. 430 ss.;
A. PROTO PISANI, Dell’esercizio dell’azione cit., p. 1081.
(75) Il che è ragionevole, se si considera che la prescrizione presuppone sempre un diritto o un’azione che si doveva esercitare e che non è stato/a esercitato/a, mentre non vi sono diritti o azioni che devono essere necessariamente esercitati affinché il contratto nullo non produca effetti: cfr. X. XXXXXXXX, Manuale cit., p.
335. In termini analoghi si esprime anche X. XXXXXX, Teoria del negozio giuridico cit., p. 84.
(76) La massima trova ampio spazio negli scritti dottrinali. Tra i tanti, cfr. C. M. XXXXXX, Diritto civile, III cit., p. 612, per il quale “il contratto nullo è inefficace o senza effetto fin dall’origine”; X. XXXXXXXXXX, Il giudice e le nullità, in Giust. civ. 2015, p. 667, spec. 669, per cui è “propria del contratto nullo l’inidoneità originaria a produr[r]e” effetti giuridici; “il contratto nullo è, dall’inizio, inefficace”; X. XXXXXXXXX, Principii cit., pp. 193- 194, secondo il quale “negozii giuridici nulli […] diconsi quelli che sono nulli fin dall’origine in modo da non poter produrre effetti giuridici”; X. XXXXXXX, Rilevabilità di ufficio della nullità contrattuale, principio della domanda e poteri del giudice, in Riv. dir. civ. 2004, II, p. 667, spec. 682, netto nel sottolineare che “il contratto nullo è inefficace ab origine”; X. XXXXXXXX, Manuale cit., p. 332, che ricorda come il negozio nullo venga spesso paragonato al “nato-morto”; X. XXXXXXX-XXXXXXXXXX, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 2002 (rist.), p. 246, per il quale il negozio nullo è “improduttivo per sé di effetti”; X. XXXXXXXXX, Istituzioni cit., pp. 240-241, per cui il negozio nullo “è automaticamente privo di effetti”.
La circostanza che la dottrina civilistica ammetta la configurabilità di nullità sopravvenute non toglie valore alla definizione riportata nel testo. Infatti, nei casi in cui ricorre tale figura (si pensi, ad esempio, alla nullità della donazione fatta in riguardo di matrimonio, ai sensi dell’art. 785, c. 2, c.c., nell’ipotesi di successivo annullamento del matrimonio), il contratto produce inizialmente i propri effetti, i quali vengono poi meno per il sopraggiungere della nullità. Ebbene, tale meccanismo è del tutto coerente con l’insussistenza della nullità al momento della conclusione del contratto e non contrasta con il principio per cui quod nullum est, nullum producit effectum: invero, il contratto produce, all’inizio, i propri effetti appunto perché, all’inizio, è valido.
Seppur accettabile in via di prima approssimazione, l’enunciato merita comunque di essere ulteriormente precisato, nei termini che seguono: in nessun tempo il contratto nullo produce alcuno degli effetti giuridici corrispondenti al fine pratico voluto dalle parti, ossia alcuno degli effetti che la legge riconduce al tipo contrattuale astratto cui appartiene il singolo contratto concreto; niente osta, viceversa, a che il contratto nullo produca altri effetti di cui è capace come tale (così, ad esempio, un contratto di donazione nullo per carenza di forma solenne può nondimeno costituire prova di una dichiarazione confessoria in esso contenuta). La nullità deve, dunque, essere correttamente intesa come inettitudine alla produzione degli effetti tipici previsti dalla legge, e non come inettitudine alla produzione di effetti tout court (77).
La regola appena delineata subisce, peraltro, alcune deroghe in specifiche ipotesi predeterminate dalla legge, in cui ai negozi nulli viene attribuita una parziale efficacia. In materia contrattuale, si possono citare l’art. 2035 c.c., per cui “chi ha eseguito una prestazione per uno scopo che, anche da parte sua, costituisca offesa al buon costume non può ripetere quanto ha pagato”, e l’art. 2126 c.c., ai sensi del quale “1. La nullità […] del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa” (78).
Non interessa in questa sede dilungarsi sulle ragioni che hanno spinto il legislatore ad attribuire parziale efficacia a contratti nulli; è per il momento sufficiente dare conto della sussistenza di tali ipotesi, sulle quali si dovrà tornare nel prosieguo al fine di valutare se – in punto di tecniche di produzione degli effetti sostanziali e di natura della sentenza che sugli
(77) In termini simili si esprimono X. XXXXX, Teoria generale del negozio giuridico cit., p. 462, per il quale è nullo il negozio che “sia inidoneo a dar vita a quella nuova situazione giuridica che il diritto ricollega al rispettivo tipo legale”; C. M. XXXXXX, Diritto civile, III cit., p. 612; X. XXXXXXX FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 1948, p. 341, secondo il quale il contratto nullo “non produce gli effetti propri del gruppo cui appartiene”; X. XXXXXXXX, Manuale cit., p. 332; X. XXXXXX, Teoria del negozio giuridico cit., p. 84, per cui “l’atto nullo non produce nessuno degli effetti giuridici cui per l’indole sua avrebbe dato origine se fosse stato validamente compiuto”; X. XXXXXXXXX, voce Nullità (diritto privato), in Enc. dir., vol. XXVIII, Milano, 1978, p. 866, spec. 868, per cui il negozio nullo è “quel negozio […] che, per la mancanza o la grave anomalia di elementi (ritenuti) costitutivi, non produce gli effetti (tipici) perseguiti dalle parti”; A. TORRENTE – X. XXXXXXXXXXX, Manuale cit., p. 676. Peculiare è la tesi di X. XXXXXX, Azione di nullità (profili di teoria generale), in Riv. dir. civ. 2008, Suppl., p. 59, spec. 92-93: “L’atto nullo è un atto giuridicamente esistente, che è oggetto di valutazione di nullità in quanto difforme dal paradigma normativo in un suo aspetto fondamentale. Poiché l’atto nullo è giuridicamente esistente, esso è un fatto della realtà giuridica che può essere fonte di esercizio di poteri o di adempimento di doveri apparentemente scaturenti da esso. Si tratta di componenti di fatto di effetti giuridici
«apparenti» (cioè meri fatti), che possono tramutarsi in effetti giuridici reali in forza della operatività della conversione (art. 1424 c.c.) ovvero di meccanismi di esaurimento o di stabilizzazione dei rapporti sul piano sostanziale, ad esempio l’usucapione e la prescrizione delle azioni di ripetizione (art. 1422 c.c.), la tardività della trascrizione della domanda di nullità (art. 2652, n. 6 c.c.)”.
(78) Tra le ipotesi in cui il contratto nullo produce effetti occorre altresì inserire:
a) i casi eccezionali in cui la legge ne ammette la convalida (regola generale, come noto, è che il contratto nullo non è convalidabile: cfr. art. 1423 c.c.); si pensi alle conferme di cui agli artt. 590 e 799 c.c., oppure alle situazioni disciplinate dagli artt. 68, c. 2, e 2332, c. 5, c.c.;
b) i casi di conversione del contratto ex art. 1424 c.c., in cui il contratto nullo produce gli effetti di un diverso contratto, del quale contiene i requisiti di forma e di sostanza, quando risulta che le parti lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità dell’accordo concretamente stipulato.
stessi decide – presentino delle differenze rispetto agli ordinari casi in cui i contratti nulli sono totalmente privi di effetti.
Ora, chi intenda definire la sequenza che dà origine all’effetto di nullità non può che
prendere le mosse dalla disciplina delle cause di nullità del contratto.
Come noto, esse sono enumerate dall’art. 1418 c.c. e possono essere raggruppate in tre categorie, ciascuna descritta in uno dei tre commi in cui si sviluppa la disposizione. Seguendo, per chiarezza espositiva, l’ordine inverso rispetto a quello utilizzato dal legislatore, un contratto è nullo quando:
a) la comminatoria di nullità è espressamente contenuta in una norma di legge (art. 1418, c. 3, c.c.). Per evidenti ragioni, le nullità in esame vengono definite “testuali” e sono molto numerose, sia nel codice civile sia nelle leggi speciali (79);
b) manca o è viziato uno degli elementi essenziali del negozio (art. 1418, c. 2, c.c.), e precisamente (i) manca uno dei requisiti indicati dall’art. 1325 c.c. (l’accordo (80), la causa (81), l’oggetto o la forma prescritta a pena di nullità), (ii) la causa è illecita, (iii) le parti si sono determinate a concludere il contratto esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe, o (iv) l’oggetto difetta dei requisiti elencati all’art. 1346 c.c., ossia possibilità, liceità, determinatezza o determinabilità. Le nullità in discorso vengono dette “strutturali”, in quanto discendono da vizi relativi a elementi che compongono la struttura del contratto;
(79) Tra le nullità testuali codicistiche, si può richiamare l’art. 1895 c.c., per cui il contratto di assicurazione “è nullo se il rischio non è mai esistito o ha cessato di esistere prima della conclusione del contratto”. Quanto alle nullità testuali previste da leggi speciali, si possono ricordare l’art. 2, l. n. 287/1990 (nullità delle intese restrittive della concorrenza) e l’art. 3, l. n. 67/1987 (nullità degli atti dispositivi di testate giornalistiche quotidiane o di trasferimento di partecipazioni in case editrici, qualora non siano rispettati determinati parametri).
(80) Come nitidamente osservato da X. XXXXX, Xx xxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, pp. 697-698, “la nullità per mancanza di accordo occupa lo spazio idealmente compreso fra il territorio dell’annullabilità per incapacità di agire o vizio del consenso e quello dell’inesistenza per mancata conclusione del contratto. Essa non riguarda i casi in cui manca qualsiasi manifestazione di volontà, che appaia diretta a formare l’accordo contrattuale: questi sono casi d’inesistenza del contratto. Né riguarda i casi in cui una siffatta manifestazione di volontà esiste, è riferibile alla parte, ed è semplicemente viziata da un fattore soggettivo che tocca la parte stessa: questi sono casi di annullabilità. La mancanza di accordo riguarda casi in cui una manifestazione di volontà contrattuale appare esistere, ma, appunto, esiste solo in apparenza; oppure solo in apparenza è riferibile a chi ne appare l’autore”. Rientrano, dunque, nelle ipotesi di contratti nulli per mancanza di accordo quelli in cui (i) le dichiarazioni siano rese per costrizione fisica, a scopo didattico, per scherzo, (ii) le firme siano falsificate, (iii) le dichiarazioni siano apparentemente conformi, ma ciascuna delle parti intenda la propria in un senso diverso da quello inteso dall’altra, senza che sia possibile identificare un significato oggettivo del contratto (c.d. dissenso occulto).
(81) In giurisprudenza, si è escluso che l’originario squilibrio economico tra le prestazioni siano idoneo ad invalidare il contratto per assenza di causa. Esso può rilevare tanto ai fini della rescissione del contratto quanto ai fini dell’annullabilità dello stesso ex art. 428 c.c., ma non può determinare la nullità del contratto, ad eccezione dei casi in cui una delle prestazioni oggetto di scambio è giuridicamente impossibile: cfr. Trib. Avellino, 15 novembre 2016, n. 2489, in DeJure; Trib. Parma, 29 marzo 2016, n. 476, in DeJure; Trib. Forlì, 16 febbraio 2016,
n. 175, in DeJure; Trib. Padova, 8 gennaio 2016, n. 47, in DeJure; Cass., 4 novembre 2015, n. 22567, in Contratti
2016, p. 559, con nota adesiva di X. XXXX, Squilibrio iniziale tra le prestazioni e nullità del contratto, e in Giur. it. 2016,
p. 835, con nota di X. XXXXXXX, Ancora in tema di nullità ed equilibrio contrattuale.
c) è contrario a norme imperative (art. 1418, c. 1, c.c.), quand’anche la nullità non sia espressamente prevista da una specifica disposizione normativa. Ci si trova nel settore delle c.d. nullità “virtuali” (82).
Si sono così individuate le norme giuridiche che costituiscono il primo elemento dello schema di produzione dell’effetto sostanziale di nullità: non solo gli artt. 1418 e 1325 c.c., ma anche le innumerevoli norme imperative, di cui l’ordinamento è costellato, che sanciscono – espressamente o implicitamente – la nullità di determinati contratti o di porzioni degli stessi.
Il secondo addendo della formula è rappresentato dalla concreta realizzazione dei fatti descritti dalle norme: si pensi, per esempio, alla morte di una persona intervenuta prima della stipulazione di un contratto di rendita costituita sulla di lei vita (art. 1876 c.c.), o al furto dell’autovettura intercorso prima della conclusione di un contratto di assicurazione contro il furto della medesima (art. 1895 c.c.).
Per completare la sequenza che porta all’emersione della nullità, occorre capire se tale effetto sorga al verificarsi dei fatti contemplati dalle norme o se occorra altresì un atto di volontà (stragiudiziale o a necessario esercizio giudiziale) di un soggetto che attribuisca agli stessi rilevanza giuridica.
La soluzione del quesito è veicolata dal linguaggio legislativo, che conduce univocamente a scegliere la prima alternativa. Dire che il contratto “è nullo quando è contrario a norme imperative” (art. 1418, c. 1, c.c.) equivale a dire che è nullo “per il mero fatto” che contrasta con norme imperative, “sol che” tale contrasto sussista. Ancor più esplicito è il secondo comma dell’art. 1418 c.c., nel quale si legge che le mancanze e i vizi ivi elencati “producono la nullità del contratto”. La conclusione è, poi, saldamente sorretta dalla formulazione delle previsioni normative cui rinvia il terzo comma dell’art. 1418 c.c. (83).
(82) Si pensi alla nullità di un contratto per violazione di norma penale.
La tripartizione delle cause di nullità delineata dall’art. 1418 c.c. è stata oggetto di critiche da parte di alcuni autorevoli studiosi. Ad avviso di X. XXXXXXXXX, Dei contratti in generale, in Commentario del codice civile, Libro IV, tomo II, Torino, 1967, pp. 436-437, “le cause di nullità, enumerate dall’art. 1418, si riducono […] essenzialmente ad una, e cioè alla contrarietà a norme imperative, enunciata nel 1° comma e ripresa, superfluamente, nel terzo. Le cause di nullità specificate nel 2° comma si pongono sostanzialmente anch’esse come ipotesi di contrarietà alle norme positive, o come contrarietà a norme che richiedono nell’atto particolari requisiti”. In senso diametralmente opposto pare esprimersi X. XXXXX, Le invalidità, in X. XXXXX – X. XX XXXX (a cura di), Obbligazioni e contratti, tomo II, in Trattato di diritto privato, diretto da X. XXXXXXXX, Xxxxxx, 0000, p. 586, che definisce il primo comma “ridondante”.
(83) Ragioni di economia della trattazione ci consentono di citarne solo alcune: “La donazione fatta in riguardo di un determinato futuro matrimonio […] non produce effetto finché non segua il matrimonio. L’annullamento del matrimonio importa la nullità della donazione […]” (art. 785 c.c.); “Il motivo illecito rende nulla la donazione quando risulta dall’atto ed è il solo che ha determinato il donante alla liberalità” (art. 788 c.c.); “L’onere illecito o impossibile […] rende […] nulla la donazione se ne ha costituito il solo motivo determinante” (art. 794 c.c.); “In ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni” di cui all’art. 1341, c. 2, c.c. A tali ipotesi si aggiungono tutte quelle in cui la norma che commina la nullità assume la struttura “è xxxxx xx xxxxxxxxx xxx/xxx xxx/xx/xxxxxx…” (x. artt. 458, 778, 779, 1354, 1355, 1471, 1472, c. 2, 1876, 1895, 1904, 1963, 1972, 2115, c. 3, 2122, c. 4, 2265, 2744 c.c.; art. 2, l. n. 287/1990; art. 3, l. n. 67/1987).
Tali unidirezionali indicazioni consentono, dunque, di affermare che le cause di nullità del contratto operano ipso iure, senza bisogno di essere integrate da ulteriori elementi di fattispecie (84). Sicché è d’obbligo ritenere che l’effetto di nullità viene alla luce seguendo lo schema norma – fatto – effetto (85).
Occorre ora soffermarsi su questa prima conclusione e guardarla nella prospettiva
dell’estensione dell’effetto di nullità, per coglierne alcune interessanti sfaccettature.
Come ben si evince dagli artt. 1419 e 1420 x.x., xxxxxxxx xx xxxxxxxxx xx xxxxxxxxxxxxx xxx xxxxxxx xxxxxxxxx (86), la presenza di una causa di nullità non determina sempre la totale invalidità dell’accordo. Innanzitutto, la nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole comporta la nullità dell’intero contratto solo se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità (in ossequio al principio per cui utile per inutile non vitiatur). In secondo luogo, la nullità di singole clausole non cagiona la nullità dell’intero contratto quando le clausole nulle vengano sostituite di diritto da norme imperative. In terzo luogo, nei contratti conclusi tra più di due parti, nei quali le prestazioni di ognuna siano dirette al conseguimento di uno scopo comune, la nullità che colpisce il vincolo di una sola delle parti non si estende a tutto il contratto, a meno che la partecipazione di questa sia essenziale (87).
Alla luce delle disposizioni appena richiamate, è possibile precisare meglio la componente fattuale dello schema norma – fatto – effetto, nonché allargare l’analisi anche alla fattispecie c.d. in senso ampio (88).
Quando l’effetto di nullità è limitato ad una singola clausola contrattuale, la fattispecie costitutiva in senso stretto si compone della singola causa di nullità. D’altro canto, come visto, l’effetto di nullità non si produce se la clausola affetta dal vizio viene automaticamente sostituita da una norma di legge: circostanza che opera, dunque, quale fatto impeditivo dell’effetto di nullità. Si delinea, così, una fattispecie più complessa, che potremmo definire fattispecie c.d. in senso ampio di non-nullità, le cui componenti sono, da un lato, la fattispecie costitutiva in senso stretto della nullità e, dall’altro, la fattispecie impeditiva della sostituzione automatica di clausole nulle.
(84) La dottrina è sul punto unanime: cfr., ex plurimis, X. XXXXX DE MARINIS, Nullità relativa, protezione del cliente ed interessi meritevoli di tutela, in Banca borsa tit. cred. 2016, p. 283, spec. 294; C. M. XXXXXX, Diritto civile, III cit., p. 627; X. XXXXXX, Azione di nullità cit., p. 102; X. XXXXXXXXX, Il rilievo d’ufficio della nullità del contratto: problemi e prospettive, in X. XXXXXXXXX (a cura di), Studi in onore di Xxxxxxx Xxxxx, Torino, 2008, p. 133, spec. 140; X. XXXXXXXX, Manuale cit., p. 333; X. XXXXXXXX, I limiti oggettivi cit., p. 155; X. XXXXXX, Elementi cit., p. 50; X. XXXXXXXX, voce Annullabilità e annullamento, in Enc. dir., vol. II, Milano, 1958, p. 469, spec. 470, secondo cui la nullità “si radica nel negozio, indipendentemente dall’iniziativa dell’interessato”; I. XXXXX, Le azioni cit., p. 257;
X. XXXXX, Il contratto cit., p. 817.
(85) Cfr. A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva cit., p. 94, che espressamente scrive: “le cause di
nullità operano secondo lo schema norma – fatto – effetto”.
(86) Così X. XXXXXXXXX – M. G. XXXXXX, Il negozio invalido ed il negozio compromesso, con riguardo alla inesistenza, alla
nullità, all’annullabilità ed alla rescissione. Parte prima, in Arch. civ. 1999, p. 3, spec. 8.
(87) Come ben spiegato da X. XXXXX, Xx xxxxxxxxx xxx., x. 000, xx tratta di valutare se il venir meno della partecipazione colpita crei a carico delle altre parti uno sconvolgimento dell’economia complessiva del contratto, un dissesto del piano d’interessi sotteso all’originaria decisione di entrarvi, così gravi da rendere xxxxxxxx e irragionevole il permanere del vincolo contrattuale nei loro confronti.
Quando, invece, l’effetto di nullità si estende all’intero contratto, si possono configurare diverse situazioni. Innanzitutto, può accadere che la causa di nullità affligga necessariamente l’intero contratto: si pensi alle ipotesi di mancanza di accordo (art. 1418, c. 2, c.c.), di donazione conclusa in riguardo di un matrimonio successivamente annullato (art. 785 c.c.), di transazione relativa a un contratto illecito (art. 1972 c.c.). In tali ipotesi, la fattispecie costitutiva in senso stretto si compone soltanto della causa di nullità sussistente nel caso di specie. In secondo luogo, può accadere che la causa di nullità affligga una singola clausola o una singola porzione del contratto. In tali ipotesi, la fattispecie costitutiva in senso stretto è composta da un complesso di fatti: la singola causa di nullità sussistente nel caso di specie e l’essenzialità della parte del contratto affetta dal vizio. In terzo luogo, con riguardo ai contratti di cui all’art. 1420 c.c., può accadere che la causa di nullità affligga il vincolo di una sola delle parti. Anche in tali ipotesi, la fattispecie costitutiva in senso stretto della nullità è composta da un complesso di fatti: la singola causa di nullità sussistente nel caso di specie e l’essenzialità della partecipazione del soggetto il cui vincolo è affetto dal vizio.
Diversa questione su cui è opportuno svolgere qualche breve riflessione è se, nelle ipotesi sopra richiamate in cui il contratto nullo produce comunque qualche effetto (89), la nullità del contratto si origini in forza di una tecnica diversa da quella “ordinaria” (norma – fatto – effetto). Sembra che il problema vada risolto in senso negativo. Nei casi in esame, il legislatore valuta che sia più opportuno far salvi alcuni effetti prodotti dal contratto nullo, anziché estendere l’effetto di nullità alla totalità del rapporto giuridico che ha il proprio titolo nel contratto. Tuttavia, ciò non influisce in alcun modo sullo schema con cui l’effetto di nullità viene ad esistenza.
Si è così dimostrato che l’effetto di nullità si produce sempre secondo la sequenza norma
– fatto – effetto, e dunque sempre in via stragiudiziale. Il che significa che le parti che hanno concluso un contratto nullo possono comportarsi come se il negozio non fosse mai stato stipulato, senza necessità di ricorrere a un magistrato. Ciononostante, l’instaurazione di un giudizio, non necessaria ai fini della produzione dell’effetto di nullità, può rivelarsi necessaria ove su tale produzione sorga uno stato di incertezza. L’azione così iniziata non è diretta alla rimozione dell’efficacia del contratto, in quanto esso è nullo di per sé, prima e indipendentemente dalla sentenza che definisce il giudizio. Essa è piuttosto diretta a eliminare ogni dubbio sulla nullità del contratto, a rendere incontrovertibile che l’attività posta in essere è giuridicamente irrilevante come attività contrattuale.
(89) V. supra in questo stesso paragrafo.
L’azione di nullità è, allora, un’azione di mero accertamento (90), per la precisione di mero accertamento negativo (91), e la sentenza di accoglimento è una sentenza dichiarativa, meramente ricognitiva dell’inefficacia del contratto: “essa non fa se non constatare solennemente, senza aggiungervi nulla, una situazione oggettiva, già esistente, ma della quale, prima dell’accertamento, poteva dubitarsi, o che poteva essere contestata o respinta dalla controparte o dal terzo” (92).
Giova ricordare che quanto appena esposto è stato oggetto di critica da parte di una autorevole voce dottrinale (93), sulla base del seguente ragionamento. Come visto, in alcuni casi particolari il nostro ordinamento riconosce al contratto nullo l’idoneità a produrre una certa quantità di effetti (anche se si tratta di effetti minori rispetto a quelli del contratto valido). Perché il contratto nullo sia privato di questa – limitata, ma pur esistente – efficacia, “è necessario che intervenga una dichiarazione giudiziale di nullità”. Ne segue che l’azione di nullità, quale strumento indispensabile per privare il contratto nullo di quegli effetti che l’ordinamento gli attribuisce, non possa qualificarsi come azione di mero accertamento, ma debba essere più correttamente inquadrata tra le azioni costitutive (94).
Tale riflessione appare, però, viziata da un equivoco. Nelle ipotesi in cui la legge dispone che il contratto nullo produca determinati effetti, questi ultimi non possono in alcun modo
(90) Di tale avviso sono X. XXXXX XX XXXXXXX, Nullità relativa cit., p. 294; X. XXXXXXX FERRARA, Il negozio giuridico cit., pp. 337, 341; X. XXXXXXXXX, Principii cit., p. 194; X. XXXXXXX, Spiegazioni cit., vol. I, p. 25; X. XXXXXXX, Rilevabilità cit., p. 670, nt. 13; X. XXXXXXXX, Manuale cit., pp. 333-334; X. XXXXXXXXX, Dei contratti cit., p. 450; X. XXXXXXXXX, La tutela giurisdizionale cit., pp. 121-122; X. XXXXXXX-XXXXXXXXXX, Dottrine generali cit., p. 246; X. XXXXXXXX – X. XXXXXXXXXXX, Manuale cit., p. 681.
(91) Cfr. X. XXXXXX, Azione di nullità cit., p. 95; X. XXXXXX, La pronuncia d’ufficio cit., p. 334, secondo cui l’azione di nullità “è un raro caso di domanda proponibile per l’accertamento negativo della situazione giuridica di cui altri pretende di essere titolare”; X. XXXXXXXX, voce Annullabilità cit. p. 477.
(92) Le parole sono di X. XXXXXXXX, voce Annullabilità cit., p. 480, secondo cui la sentenza che accoglie la
domanda di nullità è “sentenza di accertamento negativo”.
Il carattere dichiarativo della sentenza è pacifico in dottrina (o quasi: v. subito infra nel testo). Riconoscono tale natura X. XXXXX DE MARINIS, Nullità relativa cit., p. 294; C. M. XXXXXX, Diritto civile, III cit., p. 627; F. CAMMEO, L’azione cit., pp. 26-27, nt. 4; X. XXXXXXX FERRARA, Il negozio giuridico cit., p. 341, che precisa: “poiché, attesa la nullità, il negozio non produce effetti, non resta che chiarire la realtà della situazione, rimasta immutata nonostante il negozio. Quindi, il giudice, mediante la sentenza, non deve che acclarare lo stato delle cose, non capovolgere ciò che è, non cancellare o distruggere effetti, che non si sono prodotti. Pertanto, la sentenza, al pari dell’azione, è dichiarativa, è di mero accertamento”; X. XXXXXXXXXX, Il giudice cit., p. 670, secondo cui la sentenza “che pronuncia la nullità è dichiarativa perché si limita a constatare una situazione in essere”; X. XXXXXXX, Rilevabilità cit., p. 682; X. XXXXXXXX, Manuale cit., p. 334, per cui la sentenza “non fa altro che constatare la nullità e dichiararla”; X. XXXXXXXXX – M. G. XXXXXX, Il negozio invalido cit., Parte seconda, p. 131;
E. T. XXXXXXX, Manuale cit., vol. I, p. 171; X. XXXXXXXXX, Dei contratti cit., p. 450, per cui “con la sentenza non viene modificata la situazione preesistente, ma semplicemente acclarato che nessuna modificazione vi è stata”;
I. XXXXX, Le azioni cit., p. 631; X. XXXXX, Il contratto cit., p. 817; X. XXXXXXXXX, voce Xxxxxxx xxx., x. 000, per il quale “la azione di nullità e la correlativa sentenza di accoglimento rendono certa e definitiva la inefficacia del negozio”.
Sulla dichiaratività della sentenza di rigetto della domanda di nullità si è già detto supra, par. 3.
(93) Si tratta di A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela di mero accertamento cit., pp. 665-666.
(94) Giunge alla medesima conclusione, ma senza spiegarne le ragioni, anche X. XXXXXXX, La risoluzione cit., p.
253. Inoltre, si possono avvicinare a tale posizione i civilisti che individuano il fine dell’azione di nullità nella rimozione di ogni rilevanza giuridica dell’atto nullo, pur senza prendere posizione sulla natura della relativa sentenza: v. X. XXXXXXX, Contratto di alienazione e titolo dell’acquisto, Milano, 1974, p. 65; X. XXXXXXXXX, voce Invalidità (diritto privato), in Enc. dir., vol. XXII, Milano, 1972, p. 575, spec. 582 ss.
essere rimossi, nemmeno tramite un’azione di nullità. In siffatte situazioni, una parte del rapporto giuridico continua ad essere efficace nonostante la nullità del titolo dal quale esso scaturisce. Pertanto, la sentenza che in queste occasioni accoglie la domanda di nullità si distingue dalle ipotesi ordinarie per il contenuto, non per la natura: il primo cambia, perché all’accertamento che il contratto è (questa volta parzialmente) inefficace si aggiunge l’accertamento che alcuni effetti si sono prodotti e restano salvi; viceversa, la seconda rimane dichiarativa (95).
Mi sembra, dunque, che la modalità con cui l’effetto di nullità si produce lasci davvero poco spazio per dubitare della natura di mero accertamento dell’azione di nullità e della natura dichiarativa della sentenza che la accoglie. In ogni caso, a chiudere qualunque discussione su tali qualificazioni è, ancora una volta, il linguaggio legislativo: l’art. 1422 c.c. dispone che “l’azione per far dichiarare la nullità non è soggetta a prescrizione”; l’art. 2332
c.c. prevede che “[…] 2. La dichiarazione di nullità non pregiudica l’efficacia degli atti compiuti in nome della società dopo l’iscrizione nel registro imprese. […] 4. La sentenza che dichiara la nullità nomina i liquidatori. 5. La nullità non può essere dichiarata quando […]. 6. Il dispositivo della sentenza che dichiara la nullità deve essere iscritto […] nel registro delle imprese”; gli artt. 2652, c. 1, n. 6, e 2690, c. 1, n. 3, c.c. parlano di “domande dirette a far dichiarare la nullità […] di atti soggetti a trascrizione”.
In conclusione, ricapitolando i risultati raggiunti nel presente paragrafo, può affermarsi che:
a) l’effetto di nullità si produce secondo lo schema norma – fatto – effetto;
b) l’azione di nullità è un’azione di mero accertamento negativo;
c) la sentenza che accoglie la domanda di nullità è una sentenza dichiarativa.
6. Segue. Le nullità di protezione
Meritano un’analisi autonoma le c.d. nullità di protezione, ossia quelle nullità che vengono poste dal legislatore a tutela di una delle parti del contratto, la quale si trova in posizione di debolezza rispetto all’altra. Mentre le nullità di diritto comune presidiano interessi generali dell’ordinamento giuridico (96), le nullità di protezione presidiano un
(95) Persino Proto Pisani, nel descrivere la sentenza dalla quale gli effetti dovrebbero essere rimossi, non riesce a non parlare di “dichiarazione giudiziale di nullità” (corsivo mio; cfr. A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela di mero accertamento cit., p. 666). Si segnala, comunque, che l’Autore sembra aver successivamente modificato la propria opinione: a distanza di dodici anni dalla pubblicazione degli Appunti sulla tutela di mero accertamento cit., l’Autore scrive, infatti, che “è pacifico che oggetto dell’azione di nullità sia l’accertamento negativo delle situazioni soggettive (che si pretendono) sorte dal contratto” (A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva cit., p. 94).
(96) Cfr. X. XXXXXXX, Nullità del contratto, suo rilievo totale o parziale e poteri del giudice, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2011, Numero speciale. La disponibilità della tutela giurisdizionale (cinquant’anni dopo), p. 7, spec. 10 ss.; X. XXXXXXX, Rilevabilità cit., p. 668 ss.; X. XXXXXXXXX, voce Nullità cit., p. 870, secondo cui la nullità è “uno strumento di controllo normativo, utilizzato […] per non ammettere alla tutela giuridica interessi in contrasto con i valori fondamentali del sistema”.
interesse “di serie o di massa”, del quale la parte tutelata è portatrice in forza di una propria condizione oggettiva (97).
Il carattere distintivo delle nullità di protezione è dato dalla loro deducibilità soltanto ad opera della parte protetta, e non dell’altro contraente: per tale ragione, le nullità di protezione vengono definite nullità relative, in contrapposizione alle nullità di diritto comune, che hanno invece carattere assoluto (98).
Proprio tale caratteristica porta l’interprete a domandarsi se anche le nullità di protezione operino di diritto, o se invece il contratto divenga inefficace solo dopo che la nullità sia stata fatta valere dalla parte debole, con tutto ciò che ne consegue in punto di natura dell’azione di nullità e della sentenza di accoglimento della domanda.
Cominciamo da quello che è sempre il primo elemento degli schemi di produzione degli effetti sostanziali: le norme. Le ipotesi di nullità di protezione contemplate dalla legislazione speciale sono parecchie e, in ogni caso, in costante aumento. In via esemplificativa, si possono richiamare: il combinato disposto degli artt. 117, c. 3, e 127, x. 0, x. xxx. x. 000/0000 (Xxxxx unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), per cui la nullità causata dalla mancanza di forma scritta dei contratti bancari può essere fatta valere solo dal cliente; gli artt. 23, c. 1-3, 24, 30, c. 7, 000-xxx, x. 0, x. xxx. x. 00/0000 (Xxxxx unico dell’intermediazione finanziaria), i quali sanciscono nullità che inficiano i contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento, denunciabili solo dall’investitore; l’art. 2, c. 1, d. lgs. n. 122/2005, che prevede una forma di nullità a tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti degli immobili da costruire, deducibile solo da questi ultimi (e non dal costruttore); art. 134 d. lgs.
n. 206/2005 (Codice del consumo), che disciplina le cause di nullità nell’ambito della vendita
dei beni di consumo, spendibili da parte dei soli consumatori (99).
(97) È questa la felice definizione di X. XXXXX, Il contratto cit., p. 790. Di analogo avviso sono C. M. XXXXXX, Diritto civile, III cit., p. 624, per cui le nullità in esame “sono intese pur sempre a colpire situazioni generalizzate di dannosità sociale che richiedono l’intervento della legge in attuazione del principio della parità reciproca. L’interesse direttamente tutelato è quindi un interesse generale pur se la nullità dei contratti o delle clausole è sancita a vantaggio dei singoli contraenti”; X. XXXXXXX, Rilevabilità cit., p. 672, secondo cui “senza dubbio la nullità relativa tutela in via immediata gli interessi di determinate categorie di contraenti. È tuttavia indiscutibile che essa miri anche alla protezione di un interesse generale, tipico della società di massa, la quale, per raggiungere un giusto punto di equilibrio, necessita di un equo contemperamento fra tutela del contraente debole e libertà imprenditoriale, tramite la previsione di regole di mercato”.
(98) La base di diritto positivo della relatività delle nullità di protezione è data dall’art. 1421 c.c., il quale, nel prevedere che la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, fa salve “diverse disposizioni di legge”. In merito alla relatività delle nullità di protezione, v. C. M. XXXXXX, Diritto civile, III cit., pp. 623-624; X. XXXXXXXXXX, Il giudice cit., p. 673; X. XXXXXXX, Rilevabilità cit., p. 672, il quale ritiene addirittura che nullità relativa e nullità di protezione siano categorie perfettamente sovrapponibili; X. XXXXXXXXXXX, L’azione di nullità cit., p. 426 ss.; X. XXXXX, Il contratto cit., p. 789; A. TORRENTE – X. XXXXXXXXXXX, Manuale cit., pp. 678-679.
(99) Si veda anche l’art. 167, c. 2, d. lgs. n. 209/2005 (Codice delle assicurazioni private), che sancisce la nullità del contratto di assicurazione stipulato con un’impresa non autorizzata o con un’impresa alla quale sia fatto divieto di assumere nuovi affari.
Qualche problema ermeneutico è destato dall’art. 36, c. 3, c. cons., per cui “La nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore”. Secondo la teoria maggioritaria, anche la costruzione lessicale utilizzata in questa sede mira a indicare una forma di legittimazione relativa: cfr. X. XXXXXXXXX, La rilevabilità d’ufficio della nullità di protezione, in Riv. dir. priv. 2004, p. 861, spec. 896 ss. (con riferimento al vecchio art. 1469-quinquies c.c.); X. XXXXXXXXX, Le nullità cit., p. 86; X. XXXXXXXXXXX, L’azione di nullità cit., p. 427 ss.; X. XXXXX, Il contratto cit., p. 863, per cui
Il secondo elemento della sequenza genetica della nullità di protezione è il concreto verificarsi del fatto – o del complesso di fatti – che, di volta in volta, è descritto in via ipotetica dalla norma: un esempio per tutti, l’intervenuta stipulazione orale di un contratto bancario.
Si tratta a questo punto di capire se ciò è sufficiente per l’insorgere dell’effetto di nullità di protezione, o se occorra altresì che la parte tutelata faccia valere tale nullità. Anche rispetto alle invalidità in esame si può cercare la risposta nelle parole del legislatore, che puntano nettamente nella prima direzione: “Nel caso di inosservanza della forma prescritta il contratto è nullo” (art. 117, c. 3, t.u.b.); “Le nullità previste dal presente titolo operano soltanto a vantaggio del cliente” (art. 127, c. 2, t.u.b.); “Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo” (art. 23, c. 1, t.u.f.); “L’omessa indicazione della facoltà di recesso nei moduli o formulari comporta la nullità dei relativi contratti” (art. 30, c. 7, t.u.f.); “Qualora non sia stato pubblicato un prospetto, l’acquirente […] può far valere la nullità del contratto”, la quale deve allora ritenersi già sorta prima dell’atto di manifestazione di volontà (art. 100-bis, c. 3, t.u.f.) (100).
Si deve, dunque, concludere che anche le nullità di protezione operano ipso iure, rendendo il contratto immediatamente inefficace, secondo il tipico schema norma – fatto – effetto (101).
D’altro canto, come correttamente osservato in dottrina, riconoscere provvisoria efficacia ai contratti affetti da nullità relativa potrebbe risultare in una minore protezione della parte tutelata: infatti, “l’iniziale efficacia del contratto finirebbe per imporre al contraente debole, che volesse svincolarsi dall’accordo ‘nullo’, l’onere di attivarsi per ottenerne la caducazione, arrivando così a frustrare, se non addirittura a vanificare del tutto, in alcuni casi, le intenzioni ‘protettive’ del legislatore” (102).
“la regola, anche se formulata in termini sostanziali, va letta come regola di legittimazione: solo la parte protetta può prendere l’iniziativa di far valere il rimedio, in base all’autonoma valutazione del proprio interesse”. In una diversa prospettiva si pone, invece, chi opina che la norma alluda, più che ad una legittimazione riservata, ad una nullità parziale unidirezionale: così X. XXXXXXX, L’inefficacia delle clausole abusive, in Riv. dir. civ. 1997, I, p. 403, spec. 432 (commentando il vecchio art. 1469-quinquies c.c.), per cui “la pronuncia di inefficacia estingue gli obblighi e oneri a carico del consumatore che generano in suo danno significativo squilibrio, ma non i diritti e facoltà che la stessa clausola, o un suo elemento, gli accordi”. Analoghe alternative interpretative potrebbero porsi anche rispetto alla nuova formulazione dell’art. 127, c. 2, t.u.b.
(100) La medesima interpretazione deve ricollegarsi alla formulazione dell’art. 167, c. 2, c. ass.
(101) Cfr. X. XXXXX DE MARINIS, Nullità relativa cit., p. 294; X. XXXXXXXXX, La rilevabilità d’ufficio cit., p. 895, secondo cui “la nullità relativa, proprio perché non smette di essere nullità, opera ipso iure”; X. X’XXXXX, Nullità virtuale – nullità di protezione (variazioni sulla nullità), in Contratti 2009, p. 732, spec. 740 ss., per il quale, “nella nullità di protezione, la presenza di un interesse generale tutelato dalla norma rende più coerente la configurazione di una inefficacia originaria del contratto o della clausola, anziché l’idea di una loro iniziale efficacia; la tesi dell’inefficacia originaria, inoltre, si accorda maggiormente con la rilevabilità d’ufficio della nullità (anche di protezione)” (sulla rilevabilità officiosa delle nullità di protezione, v. in dettaglio infra, par. 11); inoltre, “la imprescrittibilità dell’azione, che dovrebbe valere anche per la nullità di protezione, ha un significato completamente diverso rispetto ad una fattispecie inefficace ab origine piuttosto che rispetto ad una fattispecie che si assume essere efficace”; se il contratto fosse effettivamente efficace, “ci troveremmo di fronte ad una possibilità di scioglimento del rapporto tendenzialmente priva di limiti temporali”.
(102) X. XXXXXXXX, Le nullità di protezione nel sistema delle invalidità negoziali: per una teoria della moderna nullità relativa,
Padova, 2008, p. 438, la quale così prosegue: “inoltre, così ragionando, si finirebbe per avallare e legittimare la
Diviene allora evidente che, quando il legislatore attribuisce a una sola delle parti contraenti la legittimazione a far valere una determinata causa di nullità del contratto, in realtà non riconosce a tale parte la possibilità di provocare l’effetto di nullità, ma solo quella di avvalersi degli effetti che l’inefficacia del contratto ha già prodotto in ragione della sussistenza del vizio invalidante (103).
La logica conseguenza della genesi stragiudiziale delle nullità di protezione è che l’azione di nullità è, ancora una volta, un’azione di mero accertamento negativo, la quale viene giocoforza definita da una sentenza dichiarativa (104).
7. L’azione di annullamento
La seconda azione di impugnativa cui il codice civile dedica attenzione è l’azione di annullamento, regolata dagli artt. 1441-1442 c.c., nonché, quanto agli effetti della trascrizione della relativa domanda giudiziale, dagli artt. 2652, c. 1, n. 6, e 2690, c. 1, n. 3, c.c.
L’unico soggetto legittimato ad agire per l’annullamento di un contratto è la parte nel cui interesse esso è stabilito dalla legge (art. 1441, c. 1, c.c.). La sola deroga è rappresentata dall’annullamento per incapacità del condannato in stato di interdizione legale, che può essere invece domandato da chiunque vi abbia interesse (art. 1441, c. 2, c.c.). Al contrario di quel che accade rispetto all’azione di nullità, dunque, per l’annullamento la legittimazione ad agire è ordinariamente relativa ed eccezionalmente assoluta.
L’azione si prescrive in cinque anni (art. 1442, c. 1, c.c.). Il dies a quo del termine di prescrizione varia con il variare della causa di annullamento: se vizio del consenso o incapacità legale, il termine decorre dal giorno in cui la violenza, lo stato di interdizione o di inabilitazione sono cessati, il dolo o l’errore sono stati scoperti, il minore ha raggiunto la maggiore età; in tutti gli altri casi, il termine decorre dalla conclusione del contratto annullabile (art. 1442, c. 2-3, c.c.).
Spostandoci ora sul piano sostanziale, che costituisce la base su cui incide l’azione in esame, a differenza del contratto nullo, il contratto annullabile è provvisoriamente efficace: esso produce gli effetti propri di un contratto valido, i quali sono però suscettibili di essere successivamente e retroattivamente eliminati (105). L’effetto di annullamento è, per l’appunto, l’effetto che comporta la definitiva rimozione dell’efficacia precaria del contratto annullabile.
creazione di un affidamento su una situazione dotata di esistenza precaria e si complicherebbe non poco il
sistema delle restituzioni conseguenti alla dichiarazione di nullità”.
(103) Si esprime in questi termini X. XXXXX DE MARINIS, Nullità relativa cit., p. 294.
(104) Cfr. ancora X. XXXXX DE MARINIS, Nullità relativa cit., p. 294. In giurisprudenza, v. App. Bari, 10 gennaio 2018, n. 9, in DeJure; App. Torino, 13 novembre 2017, n. 2417, in DeJure; Cass., 27 aprile 2016, nn. 8395 e 8396; Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243.
(105) In tal senso v. X. XXXXXX, La teoria delle vicende del rapporto giuridico cit., p. 271; X. XXXXX, Teoria generale del negozio giuridico cit., p. 463, per cui si qualifica annullabile il negozio che, “pur dando vita precaria alla nuova situazione giuridica che il diritto ricollega al tipo legale, possa – dietro reazione della parte interessata – essere rimosso con forza retroattiva […] e considerato come non mai posto in essere”; X. XXXXXXX FERRARA, Il negozio giuridico cit., p. 352, per cui “la produzione di effetti è caduca od effimera”; X. XXXXXXXXXX, Il giudice cit., p. 669; X. XXXXXXXXX, Principii cit., p. 194, per cui i “negozi giuridici annullabili sono quelli che possono bensì produrre effetti giuridici, ma solo in quanto non siano impugnati”; X. XXXXXXX, Spiegazioni cit., vol. I, p. 154,
Si tratta di comprendere come tale effetto venga ad esistenza.
Il primo addendo dell’operazione è costituito dalle norme che prevedono le cause di annullamento dei contratti, che sono pacificamente considerate tipiche (106). Come
per il quale gli effetti del contratto annullabile sono “efficacemente sorti, pur se […] invalidabili”; X. XXXXXXXX, Manuale cit., p. 337, secondo cui “il negozio giuridico annullabile ha piena efficacia giuridica”; X. XXXXXXXXX, Mutamento della «causa petendi» rispetto alle azioni di annullamento, rescissione e nullità per simulazione, in Foro. it. 1951, I, p. 931, spec. 932; X. XXXXXXXX, voce Annullabilità cit. p. 470, il quale precisa che, sino a quando il contratto annullabile non è annullato, esso è efficace, “onde la parte è tenuta (o le parti sono tenute) a rispettarlo e, se del caso, ad eseguirlo”; X. XXXXXXXXX, sub art. 1441, in AA.VV., Della simulazione, della nullità del contratto, dell’annullabilità del contratto, in X. XXXXXXX (a cura di), Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1998, p. 503; X. XXXXX, Il contratto cit., p. 821; X. XXXXXXX-XXXXXXXXXX, Dottrine generali cit.,
p. 254; X. XXXXXX, Teoria del negozio giuridico cit., p. 84, per il quale l’atto annullabile “produce gli effetti di cui è capace, fino a che non sia annullato”; X. XXXXXXXXX, L’azione di annullamento ed i suoi presupposti, in X. XXXXXXXXX – X. XX XXXX, Dell’azione di annullamento, in Il codice civile. Commentario, fondato da X. XXXXXXXXXXX e continuato da F. D. XXXXXXXX, Milano, 2009, p. 39, per cui “l’efficacia dell’atto annullabile […] è caratterizzata dalla precarietà”; X. XXXXXXXXX, voce Annullabilità e annullamento. II) Diritto privato, in Enc. giur. Treccani, vol. I, Roma, 1988, p. 1, spec. 2, 7, secondo cui “il contratto annullabile è produttivo di effetti precari che i soggetti interessati possono paralizzare o eliminare, oppure rendere definitivi e stabili”; X. XXXXXXXXX, Istituzioni cit., pp. 237, 242.
Mentre sull’efficacia del contratto annullabile la dottrina si mostra unita, sussistono diverse linee di pensiero in merito alla validità dello stesso. Secondo una prima ricostruzione, il contratto annullabile è – seppur provvisoriamente – valido: cfr. X. XXXXXXX, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, vol. I, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale e altri studi, Milano, 1957, p. 3, spec. 100;
X. XXXXXXXXX – M. G. XXXXXX, Il negozio invalido cit., Parte seconda, p. 131, per cui “l’annullabilità è una situazione di validità sospesa”, “il negozio annullabile è un negozio valido”; X. XXXXXXXX, voce Annullabilità cit., pp. 470, 477: “il negozio annullabile è valido: tanto che se, in ipotesi, decorra inutilmente il termine per l’esercizio dell’azione di annullamento, il negozio resta definitivamente e automaticamente valido, senza che l’interessato abbia dovuto fare alcunché per renderlo tale. Soltanto che il negozio è provvisoriamente valido o, con altre parole, ha una validità pendente risolutivamente; ciò nel senso che, esercitata vittoriosamente l’azione di annullamento, il negozio diviene nullo”; in giurisprudenza, x. Xxxx., 00 febbraio 2010, n. 4485. Una diversa teoria, a mio avviso più attenta alla differenza che intercorre tra validità ed efficacia, propone di qualificare il contratto annullabile come contratto invalido. Come noto, mentre la validità attiene al piano genetico dell’atto, l’efficacia riguarda il rapporto che da quell’atto scaturisce. I requisiti di validità si differenziano dalle condizioni di efficacia, sicché non vi è alcuna correlazione obbligata tra validità/invalidità ed efficacia/inefficacia dell’atto (cfr. X. XXXXXXXXXX, Situazioni potestative cit., p. 61; X. XXXXXXXXX, L’azione di annullamento cit., pp. 38-39). Il contratto annullabile, sebbene efficace, rimane pur sempre sul piano genetico invalido: v. X. XXXXXXX FERRARA, Il negozio giuridico cit., p. 352; X. XXXXXXXXX, Principii cit., p. 194; X. XXXXXXXXX, L’azione di annullamento cit., p. 39; X. XXXXXXXXX, voce Annullabilità cit., p. 2. Un elemento a favore della seconda opinione si trae, peraltro, dalla norma sul dolo incidente (art. 1440 c.c.), che recita: “Se i raggiri non sono stati tali da determinare il consenso, il contratto è valido, benché senza di essi sarebbe stato concluso a condizioni diverse”. Leggendo la disposizione a contrario, si desume facilmente che, nei casi in cui i raggiri sono determinanti del consenso, il contratto è invalido.
Si presenta, invece, isolata l’opinione dottrinale per cui il contratto annullabile non è idoneo a produrre effetti giuridici. Si veda, in tal senso, X. XXXXX, voce Nullità e annullabilità, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. XII, Torino, 1995, p. 293, spec. 294, che osserva: “tra la conclusione del contratto annullabile e la pronuncia di annullamento si ha non tanto una efficacia provvisoria del negozio, quanto una incertezza obbiettiva sull’esito. Chi ha concluso un contratto annullabile non può essere costretto ad adempiere perché dispone di un’eccezione; come dire, allora, che il contratto è efficace (sia pure, provvisoriamente?)”. V. anche X. XXXXXXX, L’annullabilità del contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1969, p. 1436, passim, spec. 1446, il quale rileva che il contratto annullabile è sempre “privo di efficacia, anche quando sia stato interamente adempiuto”.
Per un’eccezione alla regola generale secondo cui il contratto annullabile produce effetti finché non venga
integralmente caducato, si veda infra, par. 15.
(106) Cfr., ex multis, X. XXXXXXXXX – M. G. XXXXXX, Il negozio invalido cit., Parte prima, p. 5, per cui “l’annullabilità opera solo nei casi espressamente preveduti dalla legge”; X. XXXXXXXXX, voce Annullabilità cit., p. 4, il quale sottolinea che “le cause di annullabilità sono tipicamente definite e testuali”.
autorevolmente osservato, la ragione sta nel fatto che tali disposizioni, “spars[e] un poco da per tutto nella legislazione civile” (107), sono il frutto di valutazioni attinenti alle peculiarità dei singoli casi di specie e non sono idonee a essere classificate, prima, e ricondotte a sistema, poi: il che rende il ricorso all’analogia impraticabile e l’affidarsi alle previsioni espresse l’unica via percorribile (108).
Da un lato, sussistono motivi di annullamento comuni a tutti i contratti, disciplinati agli artt. 1425-1440 c.c.: incapacità delle parti (legale o naturale) e vizi del consenso (errore, violenza, dolo) (109). Dall’altro, vi sono specifiche ragioni di annullamento che sono proprie di singoli tipi di contratti; circostanza che il legislatore evidenzia quando, nel terzo comma del citato art. 1422 c.c., allude agli “altri casi” di annullabilità: tra questi, x. x’xxx. 0000 x.x., xx xxxxxxx di assicurazione, o gli artt. 1971-1975 c.c., in materia di transazione.
Il secondo elemento del modello genetico dell’effetto di annullamento è il concreto verificarsi del complesso di fatti individuati astrattamente dalle norme: per esempio, l’effettiva sussistenza di una falsa rappresentazione circa l’oggetto del contratto, riconoscibile da parte dell’altro contraente.
Ciò non basta, tuttavia, perché sorga l’effetto di annullamento e il contratto cessi di essere efficace. Xxx potrebbe accadere, infatti, che l’atto annullabile, pur affetto da un vizio, risulti comunque conveniente per il soggetto che ne è autore. Così, se l’annullamento operasse in modo necessario e automatico (secondo lo schema norma – fatto – effetto), esso finirebbe assurdamente per danneggiare la parte nell’interesse della quale è previsto. È questa la ragione per cui il legislatore lascia alla parte tutelata la libertà di scegliere se attribuire rilevanza giuridica alle cause di annullamento, così provocando (si vedrà subito se in via immediata o in via mediata) la caducazione degli effetti contrattuali, o se rimanere inerte, così conservando il rapporto giuridico nato dal contratto (110).
L’essenza stessa del rimedio dell’annullamento esige, dunque, che nella sequenza che conduce alla produzione dell’effetto si inserisca anche il potere sull’an della parte nel cui interesse l’effetto è contemplato.
Le difficoltà cominciano quando ci si chiede se il menzionato potere sull’an sia un potere sostanziale o a necessario esercizio giudiziale.
(107) X. XXXXXXXX, voce Annullabilità cit. p. 471.
(108) Così X. XXXXXXXXX, Dei contratti cit., p. 458.
(109) Giova qui riprendere quanto si è notato supra, in nota 80, in merito all’ipotesi di nullità del contratto per mancanza di accordo, e aggiungere un elemento al fine di delineare meglio il confine tra nullità e annullabilità: l’unica violenza che cagiona l’annullabilità del contratto è la violenza morale; viceversa, la violenza fisica ridonda in un caso di nullità virtuale (cfr. X. XXXXXXXXX – M. G. XXXXXX, Il negozio invalido cit., Parte seconda, p. 132).
(110) Si tratta di una delle principali divergenze tra l’effetto di nullità e l’effetto di annullamento. Mentre la nullità è una sanzione posta a tutela di interessi generali dell’ordinamento (cfr. supra, par. 6), l’annullamento mira a tutelare interessi privati (cfr. X. XXXXXXXXX, L’azione di annullamento cit., p. 39): è, dunque, ragionevole che l’ordinamento rimetta alla parte tutelata il giudizio di convenienza sulla conservazione o sulla caducazione dell’assetto di interessi che si è creato attraverso la stipula del contratto annullabile (così X. XXXXXXXXX, L’azione di annullamento cit., p. 39; v. anche X. XXXXXXXX, voce Annullabilità cit. p. 475; X. XXXXXXXXX, Dei contratti cit., p. 507; X. XXXXXX, Teoria del negozio giuridico cit., p. 74; X. XXXXXXXXX, Istituzioni cit., p. 238).
La dottrina di gran lunga maggioritaria risponde nel secondo senso (111). Tuttavia, la presenza di voci discordanti impone di vagliare la tenuta della conclusione.
Innanzitutto, vi è chi reputa che la soluzione sia variabile (112). L’effetto di annullamento potrebbe essere conseguito in via di autonomia privata in tutti i casi in cui la controparte del titolare del diritto potestativo ponga in essere gli atti necessari a conformare la situazione di diritto al fatto cui la parte interessata vuole attribuire rilevanza: si avrebbe così un annullamento del contratto in via di mutuo dissenso. Viceversa, il diritto potestativo dovrebbe essere esercitato in via giudiziale in tutte le occasioni in cui manchi la cooperazione della controparte: “l’esercizio del potere sostanziale […] nella forma giudiziale […] non è altro che la modalità – legislativamente predeterminata – di esercizio del potere di determinare unilateralmente l’effetto impeditivo o estintivo” (113).
A tale teoria si può obiettare che l’effetto ottenuto dalle parti nella prima ipotesi non è un effetto di annullamento del contratto viziato; si tratta, piuttosto, della stipulazione di un nuovo e diverso contratto, col quale le parti novano il precedente, oppure dichiarano di considerarlo come mai intervenuto: le differenze rispetto all’annullamento disciplinato dagli artt. 1425 ss. c.c. sono evidenti (114). Rimane, allora, solo l’altra forma di annullamento prospettata nell’opinione in esame, ossia quella raggiungibile unicamente attraverso l’operare di un diritto potestativo a necessario esercizio giudiziale.
Vi è, poi, chi ritiene che il diritto potestativo all’annullamento sia sempre un diritto sostanziale, idoneo a cagionare l’effetto in via stragiudiziale. È questa la suggestiva tesi elaborata da Xxxxxx Xxxxx, in una articolata monografia sulle azioni di impugnativa negoziale (115).
Punto di partenza è l’affermazione per cui le cause di annullamento formano sia fatti costitutivi dell’effetto di annullamento sia fatti impeditivi dell’efficacia del contratto, che vengono normalmente fatti valere in via di eccezione. Quando viene stipulato un contratto annullabile, si crea una situazione di pendenza (molto simile a quella che si ha in presenza di una condizione), caratterizzata dalla sospensione degli effetti del fatto impeditivo dal
(111) Cfr. X. XXXXXXX FERRARA, Il negozio giuridico cit., p. 353, per cui “nel diritto nostro […] non può aversi annullamento su semplice dichiarazione di volontà della parte”; X. XXXXX BONACCORSO, Diritti potestativi cit., pp. 136-137, anche nt. 26; X. XXXXXXX, Oggetto del giudicato cit., p. 249, anche nt. 73; X. XXXXXX, La pronuncia d’xxxxxxx xxx., x. 000 xx., xxxxx xx. 00: “non può dimostrarsi […] che la parte possa unilateralmente determinare gli effetti costitutivi manifestando la volontà di annullare […] fuori del processo”; X. XXXXXXXX, voce Annullabilità cit. p. 475; X. XXXXX, Poteri sostanziali e tutela giurisdizionale, Torino, 2012, p. 261 ss.; X. XXXXXX, voce Eccezione cit., p. 271; E. F. XXXXX, voce Accertamento cit., p. 23; X. XXXXXXXXX, sub art. 1441, in X. XXXXXXXXX – X. XX XXXX, Dell’azione di annullamento, in Il codice civile. Commentario, fondato da X. XXXXXXXXXXX e continuato da F. D. BUSNELLI, Milano, 2009, p. 93. In giurisprudenza, cfr. Cass., 13 aprile 1959, n. 1086, in Giur. it. 1959, I, 1, p. 1192, con nota di X. XXXXX XXXXXXXXXX, L’eccezione nel sistema della difesa del convenuto.
(112) Di tale avviso è A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva cit., p. 90 ss. In senso simile si esprime anche X. XXXXXXXXX, La tutela giurisdizionale cit., p. 131.
(113) A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva cit., p. 90.
(114) Nello stesso senso si esprime X. XXXXXXX FERRARA, Il negozio giuridico cit., p. 353: “un negozio di accertamento o comunque un accordo tra le parti, diretto a considerare il negozio come non fatto possono produrre effetti praticamente corrispondenti a quelli dell’annullamento, ma annullamento vero e proprio non producono”.
(115) I. XXXXX, Le azioni cit., p. 197 ss.
momento in cui il vizio si verifica al momento in cui la parte manifesta la volontà di dare ad esso rilevanza giuridica; durante tale periodo, il contratto produce i propri effetti sotto condizione risolutiva. Se ciò corrisponde al vero, allora il mutamento della realtà sostanziale provocato dall’annullamento del contratto, ossia il passaggio da atto efficace ad atto improduttivo di effetti, discende dall’avverarsi della condizione sospensiva cui è sottoposto il vizio invalidante, i.e. dall’esercizio del diritto potestativo sostanziale, e non deve essere necessariamente ricondotto a una pronuncia giudiziale (116).
La natura sostanziale del diritto potestativo sarebbe, peraltro, confermata da un’altra circostanza. Ai sensi dell’art. 1444, c. 2, c.c., se il contraente cui spetta l’azione di annullamento dà volontariamente esecuzione al contratto, in un momento in cui ne conosce il motivo di annullabilità, il contratto stesso resta convalidato (117). Ebbene, se la parte ha la possibilità di scegliere, attraverso la convalida, se conservare o meno gli effetti del contratto viziato, allora può anche legittimamente rifiutarsi di eseguire la propria prestazione e di accettare l’adempimento della controprestazione, così mostrando di voler porre il contratto nel nulla. Ad avviso dell’Autrice, ciò significa che al potere di convalidare il contratto in via stragiudiziale si affianca anche il potere di annullarlo con le stesse modalità. Unico presupposto del legittimo esercizio del diritto potestativo sostanziale di annullamento è che la manifestazione di volontà presenti “carattere di serietà” (118).
La perplessità maggiore cui dà adito l’opinione appena delineata giace nel notevole grado di incertezza cui l’effettiva produzione dell’effetto di annullamento andrebbe incontro. Ci si troverebbe di fronte a un diritto potestativo stragiudiziale non disciplinato dal legislatore, le cui modalità di legittimo esercizio non sono cristallizzate in esplicite previsioni normative e la cui “serietà” sarebbe indubbiamente percepita in modo diverso da contraente a contraente (119).
In ogni caso, il definitivo parere sulla fondatezza delle teorie esposte può essere dato solo a valle della lettura delle norme che delineano la fattispecie astratta dell’effetto di annullamento, alla ricerca di indicazioni legislative in merito alla natura del diritto potestativo di parte.
Ancora una volta, il legislatore non si esime dal rendere manifesta la scelta compiuta: l’art. 1427 c.c. dispone che “Il contraente il cui consenso fu dato per errore, estorto con violenza o carpito con xxxx, può chiedere l’annullamento del contratto”; l’art. 1432 c.c. prevede che “La parte in errore non può domandare l’annullamento del contratto se, prima che ad essa possa derivarne pregiudizio, l’altra offre di eseguirlo in modo conforme al contenuto e alle modalità del contratto che quella intendeva concludere”; l’art. 1436, c. 2,
(116) Cfr. I. XXXXX, Le azioni cit., pp. 202-203, 250 ss., 268, per i passaggi ricostruttivi richiamati nel testo.
(117) Xxxxx convalida del contratto annullabile, v. infra, nel presente paragrafo.
(118) Cfr. I. XXXXX, Le azioni cit., p. 273 ss.
(119) Vero è che lo strumento del diritto potestativo sostanziale di annullamento viene, in alcuni ordinamenti, utilizzato (ciò accade, in via esemplificativa, in Germania). Tuttavia, proprio per le controindicazioni che esso genera in punto di (in)certezza del diritto, è necessario che sia la legge a prevederlo espressamente: infatti, solo il legislatore può scegliere di sacrificare la sicurezza dei traffici alla loro speditezza. E, come si vedrà subito infra nel testo, non è stato questo l’approccio selezionato dal nostro.
c.c. precisa che, “Se il male minacciato riguarda altre persone [diverse dal coniuge, dai discendenti e dagli ascendenti del contraente], l’annullamento del contratto è rimesso alla prudente valutazione delle circostanza da parte del giudice”; l’art. 1441 c.c. chiarisce che “L’annullamento del contratto può essere domandato solo dalla parte nel cui interesse è stabilito dalla legge” (120). La terminologia utilizzata nitidamente chiarisce che il diritto potestativo di cui si discute deve essere esercitato attraverso la proposizione di una domanda giudiziale (121).
E se l’effetto di annullamento non viene prodotto in via immediata attraverso l’esercizio del diritto potestativo, si deve allora concludere che esso consegue ad un ulteriore elemento di fattispecie, ossia alla sentenza che accoglie la domanda.
Si giunge così alla soluzione sia della questione relativa alla modalità di produzione dell’effetto di annullamento sia di quella inerente alla natura della sentenza che definisce positivamente il giudizio: l’annullamento viene alla luce secondo lo schema norma – fatto – potere sull’an – accertamento giudiziale – effetto; l’azione di annullamento è un’azione costitutiva (122); la sentenza di annullamento è una sentenza costitutiva, in quanto opera in via immediata il mutamento giuridico (123). Più precisamente, tale pronuncia costituisce l’effetto di annullamento ed estingue gli effetti prodotti dal contratto annullabile, a partire dal momento in cui quest’ultimo è stato concluso (ex tunc) (124); e ciò in quanto il fatto storico
(120) Anche le norme che disciplinano i motivi di annullamento propri dei contratti tipici offrono indicazioni conformi: v., per esempio, l’art. 1971 c.c., per il quale, “Se una delle parti era consapevole della temerarietà della sua pretesa, l’altra può chiedere l’annullamento della transazione”; l’art. 1972, c. 2, c.c., per cui “Negli altri casi in cui la transazione è stata fatta relativamente a un titolo nullo, l’annullamento di essa può chiedersi solo dalla parte che ignorava la causa di nullità del titolo”; l’art. 2098, c. 2, c.c., in forza del quale “La domanda di annullamento [del contratto di lavoro stipulato senza l’osservanza delle disposizioni concernenti la disciplina della domanda e dell’offerta di lavoro] è proposta dal pubblico ministero”.
(121) Sottolineano l’importanza del dato normativo anche X. XXXXXXX, In tema di limiti oggettivi cit., p. 536, per cui “è la lettera della legge, che, sempre […], prevede per l’interessato il potere di chiedere al giudice un (provvedimento che disponga un) mutamento giuridico, non di provocarlo con la sua dichiarazione di volontà” (nel citato contributo, l’Autore cambia opinione rispetto a quanto sostenuto nel suo precedente articolo ID., Conflitto di decisioni e sospensione necessaria del processo, in Giur. it. 1987, IV, p. 417, spec. 431-432); X. XXXXXX, Diritti potestativi cit., p. 23.
(122) Così espressamente F. XXXXXX, L’azione cit., p. 41; X. XXXXXXXXX, Mutamento cit., p. 932; X. XXXXXXXX, voce Annullabilità cit., pp. 475, 477; X. XXXXXXXXX, sub art. 1441 cit., p. 94; X. XXXXXXXX – X. XXXXXXXXXXX, Manuale cit., p. 686.
(123) Si è già detto, invece, della natura sempre dichiarativa dell’eventuale provvedimento di rigetto: cfr. supra, par. 3.
(124) La dottrina è in netta maggioranza orientata in tal senso: v. X. XXXXXXX, Diritto processuale cit., vol. I, p. 110; X. XXXXXXX, In tema di limiti oggettivi cit., p. 536, per cui è “la sentenza che accoglie la domanda proposta a dar vita al mutamento richiesto dall’attore”; X. XXXXX, Teoria generale del negozio giuridico cit., p. 463; C. M. XXXXXX, Diritto civile, III cit., p. 670; X. XXXX, Lineamenti di diritto processuale civile, Torino, 2016, p. 227 ss.; F. XXXXXX, L’azione cit., p. 42; X. XXXXXXX FERRARA, Il negozio giuridico cit., p. 353, per cui la pronuncia di annullamento può “farsi rientrare fra quelle costitutive, che si dicono risolutive, perché annienta il negozio e ne distrugge gli effetti”; X. XXXXXXXXXX, Il giudice cit., p. 670; X. XXXXXX XXXXXX, La domanda giudiziale cit., p. 40; X. XXXXXXXXX, Principii cit., p. 194; X. XXXXXXX, Spiegazioni cit., vol. I, p. 32; X. XXXXXXXX, Manuale cit., p. 337;
X. XXXXXXXXX, Mutamento cit., p. 932; X. XXXXXXXXX – M. G. XXXXXX, Il negozio invalido cit., Parte seconda, p. 131; X. XXXXXXXX, I limiti oggettivi cit., p. 145; X. XXXXXX, Elementi cit., p. 50; X. XXXXXXXX, voce Annullabilità cit., pp. 475, 480, per cui la sentenza “aggiunge, alla situazione, l’effetto di toglier di mezzo il negozio e quindi anche di privarlo dell’efficacia”; X. XXXXXXXXX, Dei contratti cit., p. 507; X. XXXXXXXXX, Limiti oggettivi di giudicati su negozi invalidi, in Xxx. xxx. xxxx. 0000, x. 00, xxxx. 00-00; A. MOTTO, Poteri cit., p. 260 ss.; X. XXXXXX, Diritti
costituente motivo di annullamento risale al tempo in cui si è perfezionata la fattispecie costitutiva del rapporto giuridico annullato (125). Ne segue che, se considerato in una prospettiva statica, dopo l’accoglimento della domanda di annullamento, il contratto annullato non differisce da un contratto nullo ab origine (126).
Chiaramente tali conclusioni non sono accettate da chi considera il diritto potestativo di annullamento un diritto potestativo sostanziale e, coerentemente con le premesse, qualifica la sentenza di annullamento come sentenza dichiarativa (127).
potestativi cit., pp. 13-14, il quale parla di una vera e propria “riserva di giurisdizione”; X. XXXXXXXXX, sub art. 1441 cit., p. 504; X. XXXXX, Il contratto cit., p. 819; X. XXXXX, voce Nullità cit., pp. 308-309, per cui la sentenza di annullamento opera “alterando il campo dei rapporti sostanziali, ossia [elimina] gli effetti del contratto”; X. XXXXXXX, Lineamenti cit., p. 482, nt. 5; X. XXXXXX, Teoria del negozio giuridico cit., p. 74; X. XXXXXXXXX, voce Annullabilità cit., p. 11; X. XXXXXXXXX, L’azione di annullamento cit., p. 45; X. XXXXXXXXX, sub art. 1441 cit., p.
105. Si sottolinea, peraltro, come, nell’ampio genus delle sentenze costitutive, quelle di annullamento appartengono alla species delle sentenze estintive di rapporti giuridici: v. F. D. XXXXXXXX, Della tutela giurisdizionale cit., p. 200; A. MOTTO, Poteri cit., p. 247, anche nt. 100; X. XXXXX, Tutela giurisdizionale cit., p. 317; X. XXXXXX, Considerazioni sul giudicato (Spunti da un libro di appunti e da altre pubblicazioni recenti), in Riv. trim. dir. proc. civ. 1962,
p. 1485, spec. 1575. Anche la giurisprudenza è graniticamente orientata a favore della natura costitutiva della sentenza di annullamento: v., ex multis, Cass., sez. un., 23 novembre 2018, n. 30416; Cass., 14 maggio 2018, n. 11589; Cass., 18 gennaio 2018, n. 1159; Trib. Milano, 31 maggio 2016, n. 6794, in DeJure; Trib. Caltanissetta, 29 febbraio 2016, in DeJure; trib. Perugia, 12 marzo 2015, n. 512; Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242, par. 4.2; Cass., 19 aprile 2013, n. 9641; Trib. Lamezia Terme, 9 agosto 2010, n. 855, in DeJure; Cass., 24 febbraio 2010, n. 4485, per cui “il potere di annullamento del contratto […] determina, nel caso di accoglimento della domanda, la pronuncia di una sentenza costitutiva, che annulla il contratto e ripristina tra le parti interessate la situazione preesistente”.
L’efficacia ex tunc non osta all’inquadramento delle pronunce di annullamento nella categoria delle pronunce costitutive. Infatti, benché l’efficacia ex nunc costituisca l’ipotesi ordinaria nel settore dei provvedimenti costitutivi, essa non appartiene alla loro essenza. Cfr., in tal senso, F. D. XXXXXXXX, Della tutela giurisdizionale cit., p. 199, il quale rileva che, “essendo l’efficacia ex nunc una caratteristica normale, ma non indispensabile, delle sentenze costitutive, nessuna ripercussione sulla sostanza di tali sentenze deriva dalla eccezionale previsione legislativa della retroattività degli effetti”; X. XXXXXXXXX, Principii cit., p. 185 ss.; X. XXXXXXXXXX, Situazioni potestative cit., pp. 71-72; X. XXXXX, Profili cit., pp. 191-192; A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela di mero accertamento cit., p. 669.
(125) Pare legittimo domandarsi come sia possibile conciliare l’esistenza di un motivo di annullamento che è coevo ai fatti costitutivi dell’efficacia del contratto, e che dunque ha tutta l’aria di essere un fatto impeditivo (tanto è vero che così viene qualificato in dottrina: v. I. XXXXX, Le azioni cit., p. 323), con la circostanza che il contratto annullabile produce effetti e che la sentenza di annullamento rappresenti un fatto estintivo degli stessi. Delle due l’una: o il rapporto giuridico non è mai sorto in quanto un fatto impeditivo lo ha inibito, e quindi non si può estinguere, oppure il rapporto è suscettibile di estinzione, proprio perché è venuto alla luce. Ebbene, a ben vedere, i motivi di annullamento e la sentenza di annullamento agiscono sul contratto su due piani diversi: i primi incidono sulla validità del contratto; la seconda sulla sua efficacia. Pertanto, fatto impeditivo e fatto estintivo possono convivere, purché correttamente intesi: le cause di annullamento costituiscono fatti impeditivi della validità del contratto (il quale però, come visto supra nel presente paragrafo, produce comunque effetti precari); la sentenza di annullamento costituisce fatto estintivo degli effetti dal contratto prodotti.
(126) L’osservazione si legge in X. XXXXXXX FERRARA, Il negozio giuridico cit., p. 353, secondo cui il negozio, da “annullabile, che era, viene ridotto nel nulla”; X. XXXXXXXX, Manuale cit., p. 337, per cui “pronunziato l’annullamento, il negozio si considera come se non avesse prodotto giammai effetti giuridici”; X. XXXXXXXX, voce Annullabilità cit., p. 480, per il quale “l’annullamento fa luogo a nullità del negozio”; X. XXXXXXXXX, voce Annullabilità cit., p. 11, X. XXXXXXXXX, L’azione di annullamento cit., p. 45; X. XXXXXXXXX, sub art. 1441 cit., p. 105; X. XXXXXXXXX, Istituzioni cit., p. 241.
(127) Cfr. I. XXXXX, Le azioni cit., pp. 297, 304, 676, secondo la quale, nella sentenza di annullamento, il giudice dovrebbe semplicemente (i) accertare che si è verificata la fattispecie impeditiva dell’efficacia negoziale e (ii) dichiarare che non si sono verificati gli effetti negoziali che il contratto valido avrebbe prodotto; A. PROTO
A costoro si aggiunge, poi, un’autorevole voce dottrinale, che, ponendo il diritto potestativo di annullamento, per così dire, a metà strada tra un diritto sostanziale e un diritto a necessario esercizio giudiziale, propone una ricostruzione del tutto peculiare (128). Secondo tale teoria, il diritto di annullamento configura un potere di eccezione sostanziale, con la quale si produce direttamente l’effetto di annullamento. Esso viene esercitato mediante un atto di parte nel processo, con efficacia al contempo sostanziale (annullamento del contratto) e processuale (costituzione del dovere del giudice di pronunciare sull’intervenuto annullamento). Ne segue che il giudice non annulla il contratto “in prima persona”, ma semplicemente constata che la parte ha provveduto ad annullarlo mediante l’esercizio di un potere a ciò diretto. Tale potere presenta, però, una peculiarità: l’effetto di annullamento si manifesta solo nel quadro del processo in cui viene esercitato il diritto potestativo, sicché, se il processo si estingue, l’effetto di annullamento viene meno e torna in vigore la preesistente situazione.
Siffatta interpretazione si espone, a mio avviso, ai seguenti rilievi critici. Innanzitutto, in tal modo si crea un tertium genus di diritti potestativi che non ha alcun addentellato nel diritto positivo: si tratterebbe di diritti a necessario esercizio giudiziale, che però producono direttamente effetti sul piano sostanziale. In secondo luogo, detti effetti sarebbero sempre precari, in quanto comunque dipendenti dall’esito del giudizio al cui principio si sono formati: da un lato, non si può non notare che, così opinando, non si riesce veramente a sganciare la produzione dell’effetto di annullamento dalla pronuncia che definisce il processo; dall’altro, si rischia di dar luogo a una serie di “rimpalli” tra uno stato di fatto in cui il contratto è efficace e uno stato di fatto in cui non è efficace, con adempimenti e rimessioni in pristino che si alternano, in un ondeggiare che solo la sentenza definitiva di annullamento può fermare.
In ogni caso, anche ove tali inconvenienti fossero superabili, rimane pur vero che:
a) se l’esercizio del diritto potestativo di annullamento non è sufficiente per produrre l’effetto di annullamento, allora la sentenza non può avere natura dichiarativa, in quanto non può dichiarare l’esistenza di un effetto che non si è ancora verificato (129);
b) la natura dichiarativa della pronuncia di annullamento si pone in contrasto con il diritto positivo. Gli artt. 2652, c. 1, n. 6, e 2690, x. 0, x. 0, x.x., xxxxxxx, xxxxxx una netta contrapposizione tra le domande dirette “a far dichiarare la nullità” e quelle dirette “a far pronunziare l’annullamento”; e la medesima distinzione si trova anche nell’art. 2655, c. 1, c.c., secondo cui “qualora un atto trascritto o iscritto sia dichiarato nullo o sia annullato […], la dichiarazione di nullità e […] l’annullamento […] devono annotarsi in margine alla trascrizione o all’iscrizione dell’atto”. Si evidenzia, così, la
PISANI, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva cit., p. 93. Di analogo avviso è anche F. S. XXXXXXX, Principii generali sulle leggi, Napoli-Roma-Milano, 1888, p. 539.
(128) Così X. XXXXXXX, L’ordinamento giuridico cit., pp. 110-111.
(129) In senso simile, cfr. X. XXXXX, Profili cit., pp. 64, 67.
differenza che intercorre tra le ipotesi in cui un effetto giuridico viene dichiarato dal giudice e le ipotesi in cui un effetto viene da lui prodotto (130).
A ciò si aggiunga che vi sono due ulteriori indici sistematici che fanno propendere per la natura costitutiva della sentenza di annullamento (131). Innanzitutto, la prescrittibilità dell’azione: mentre l’azione costitutiva presuppone l’esercizio di un potere sull’an certamente suscettibile di prescriversi, nel caso dell’azione dichiarativa si può immaginare la prescrizione del diritto da accertare, ma non quella dell’azione. In secondo luogo, la legittimazione ristretta: essa rappresenta un chiaro indice della natura costitutiva del giudizio.
È d’uopo a questo punto precisare che sussistono delle ipotesi in cui l’effetto di annullamento non può essere prodotto dalla sentenza in quanto, nel momento in cui il giudice si trova a decidere, il contratto impugnato non è più annullabile (pur essendolo stato in passato).
Ci si riferisce ai casi in cui il contratto è stato rettificato ai sensi dell’art. 1432 c.c. oppure convalidato ai sensi dell’art. 1444 c.c. La rettifica costituisce fatto estintivo del diritto potestativo di annullamento della controparte, ove tempestiva (132). La convalida, invece, viene operata in prima persona dalla parte legittimata all’azione di annullamento e rimuove la precarietà degli effetti del contratto annullabile, ponendosi quale negozio accessorio o di secondo grado (133). Entrambe costituiscono fatti impeditivi dell’effetto di annullamento, nell’ambito della fattispecie c.d. in senso ampio (134) che potremmo definire di non- annullamento.
Alla luce delle riflessioni svolte, si può dunque confermare la fondatezza delle tesi sostenute dalla dottrina nettamente maggioritaria e affermare che:
a) l’effetto di annullamento si produce secondo lo schema norma – fatto – potere sull’an
– accertamento giudiziale – effetto;
b) l’azione di annullamento è un’azione costitutiva;
c) la sentenza che accoglie la domanda di annullamento è una sentenza costitutiva.
Prima di concludere, è opportuno soffermare brevemente l’attenzione sull’estensione dell’effetto di annullamento, come disciplinato dagli artt. 1443, 1445, 1446, 2652, c. 1, n. 6, e 2690, c. 1, n. 3, c.c. Come meglio si vedrà nell’ambito del secondo capitolo (135), infatti, il
(130) La rilevanza del dato normativo è sottolineata da A. MOTTO, Poteri cit., p. 261, nt. 132. Persino I. XXXXX,
Le azioni cit., p. 190 ammette che il linguaggio del codice conforta la conclusione qui proposta.
(131) Cfr. X. XXXXXXXXXX, Situazioni potestative cit., p. 69 ss.
(132) “La parte in errore non può domandare l’annullamento del contratto se, prima che ad essa possa derivarne pregiudizio, l’altra offre di eseguirlo in modo conforme al contenuto e alle modalità del contratto che quella intendeva concludere” (art. 1432 c.c.). Cfr. in proposito C. M. XXXXXX, Diritto civile, III cit., p. 679.
(133) Così X. XXXXX, Teoria generale del negozio giuridico cit., p. 479; C. M. XXXXXX, Diritto civile, III cit., p. 676. V. anche X. XXXXXX, Teoria del negozio giuridico cit., p. 82, il quale sottolinea che la convalida non attribuisce, per il passato, effetti che il negozio non aveva, ma elimina la possibilità che tali effetti vengano disconosciuti o distrutti in seguito mediante il ricorso a un magistrato; X. XXXXXXXX – X. XXXXXXXXXXX, Manuale cit., p. 689, per cui “la convalida è un negozio con il quale la parte legittimata a proporre l’azione di annullamento si preclude la possibilità di far valere il vizio”.
(134) Nell’accezione che si è accolta supra, par. 2.
(135) V. infra, parr. 42 ss.
dato è rilevante per svolgere alcuni ragionamenti in punto di perimetro oggettivo del giudicato e di effetti preclusivi dallo stesso derivanti.
Tra le parti, l’annullamento ha sempre effetto retroattivo, salvo quanto previsto dall’art.
1443 c.c. (136), di cui si dirà a breve.
Quando l’annullamento si fonda su cause diverse dall’incapacità legale, esso non produce effetti sui diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede (“non pregiudica” tali diritti, nel linguaggio dell’art. 1445 c.c.) (137). La previsione è, però, mitigata dalla circostanza che restano salvi gli effetti della trascrizione della domanda di annullamento e va, dunque, integrata con il disposto degli artt. 2652, c. 1, n. 6, e 2690, c. 1, n. 3, c.c.
La prima norma dispone, quale regola generale, che, se la domanda di annullamento è trascritta prima che siano trascorsi cinque anni dalla data di trascrizione del contratto impugnato, l’effetto di annullamento colpisce sempre tutti i diritti acquistati da soggetti terzi, a qualunque titolo, anche in base ad atti trascritti o iscritti prima della trascrizione della domanda. Quale eccezione a detta regola, la norma prevede che, se l’annullamento è pronunciato per causa diversa dall’incapacità legale, restano salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede in base a un atto iscritto o trascritto prima della trascrizione della domanda giudiziale, purché a titolo oneroso; viceversa, i diritti acquistati a titolo gratuito vengono intaccati dall’effetto di annullamento. La medesima disciplina è delineata dall’art. 2690, c. 1,
n. 3, c.c. con riferimento ai contratti relativi a navi, aeromobili e autoveicoli, con l’unica differenza che il termine per la trascrizione della domanda giudiziale è ridotto da cinque a tre anni. In generale, poi, la trascrizione della domanda di annullamento rende la sentenza che la accoglie opponibile a tutti coloro che abbiano acquistato diritti in base ad atti trascritti successivamente.
Quando, invece, l’annullamento dipende da incapacità legale, esso investe sempre i diritti dei subacquirenti dell’altro contraente, indipendentemente dal titolo di acquisto e dallo stato di buona o mala fede in cui questi versino. La ragione sta nel fatto che l’incapacità legale è sempre accertabile da chiunque, perché risulta dallo stato civile (minore età) o da altre forme di pubblicità (interdizione, inabilitazione, amministrazione di sostegno), ed è quindi sempre conoscibile attraverso la consultazione di pubblici registri (138). Pertanto, il terzo acquirente non merita protezione.
Analoga ratio sorregge anche il disposto dell’art. 1443 c.c., per cui, quando il contratto
viene annullato per incapacità di uno dei contraenti, costui non è tenuto a restituire all’altro
(136) Cfr. X. XXXXX, Il contratto cit., p. 819.
(137) Dal testo dell’art. 1445 c.c. si ricava, a contrario, che l’annullamento per causa diversa dall’incapacità legale è sempre opponibile ai terzi subacquirenti a titolo gratuito, anche se di buona fede, e ai terzi subacquirenti a titolo oneroso, se in mala fede. Ciò in quanto: nel primo caso, i terzi non sono meritevoli di protezione perché certant de lucro captando; nel secondo, lo stato di conoscenza del motivo di annullamento non consente di proteggere il terzo. Per tali condivisibili osservazioni, v. X. XXXXXXXX, voce Annullabilità cit., p. 481.
Anche nelle ipotesi disciplinate dall’art. 1445 c.c., la buona fede si presume: cfr. X. XXXXXXXXX, sub art. 1445, in AA.VV., Della simulazione, della nullità del contratto, dell’annullabilità del contratto, in X. XXXXXXX (a cura di), Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1998, p. 535; X. XXXXX, Le invalidità cit., p. 609; X. XXXXX, voce Xxxxxxx xxx., x. 000.
(138) Cfr. X. XXXXXXXX, voce Annullabilità cit., p. 481; X. XXXXXXXXX, Istituzioni cit., p. 242.
la prestazione ricevuta, se non nella parte in cui è stata rivolta a suo vantaggio. Anche in questa ipotesi, l’ordinamento preferisce tutelare il soggetto (naturalmente o legalmente) incapace, piuttosto che la controparte che ben si sarebbe potuta avvedere di tale stato.
L’ultima norma che incide sull’estensione dell’effetto di annullamento è l’art. 1446 c.c., che traspone nel campo dell’annullamento quanto previsto dall’art. 1420 x.x. xx xxxxxxx xx xxxxxxx xxx xxxxxxxxx xxxxxxxxxxxxx: se l’annullabilità è limitata al vincolo di una sola parte, non può essere pronunciato l’annullamento dell’intero contratto, ad eccezione dei casi in cui la partecipazione di tale parte debba considerarsi essenziale.
8. L’azione di rescissione
Dopo aver delineato la regolamentazione dell’annullabilità del contratto, il codice civile passa a disciplinare l’azione di rescissione, agli artt. 1447-1450 c.c., ai quali si aggiungono gli artt. 2652, c. 1, n. 1, e 2690, c. 1, n. 1, c.c. in punto di effetti della trascrizione della domanda giudiziale.
Come noto, benché si sia soliti parlare di “azione” di rescissione, in realtà il legislatore individua due diverse azioni di tale tipo: quella esperibile avverso il contratto concluso in stato di pericolo, di cui all’art. 1447 c.c., e quella generale di rescissione per lesione, di cui al successivo art. 1448 c.c. Esse hanno una disciplina in parte comune (prescrizione dell’azione e trascrizione della domanda giudiziale) e in parte divergente (ambito di applicazione, presupposti e ammissibilità di una riconduzione del contratto ad equità). Dal canto suo, l’effetto di rescissione ha due diverse fattispecie costitutive in senso stretto, ma, una volta sorto, opera sul rapporto contrattuale sempre nello stesso modo.
Nel corso dell’esposizione si darà conto della riferibilità di ciò che si va dicendo a una sola delle azioni di rescissione ovvero a entrambe, a una sola delle fattispecie dell’effetto ovvero all’operatività generale di questo.
Sul piano sostanziale, anche il contratto rescindibile, come il contratto annullabile, è provvisoriamente efficace (139), finché non interviene l’effetto di rescissione (140).
Vediamo con quale tecnica, o con quali tecniche, quest’ultimo viene alla luce.
Nell’ipotesi prevista dall’art. 1447 c.c., “Contratto concluso in istato di pericolo”, tale norma costituisce il primo elemento dello schema di produzione dell’effetto sostanziale e ne delinea la fattispecie astratta. Occorre che: (i) sussista una situazione di pericolo, causata da
(139) Così X. XXXXXX, La teoria delle vicende del rapporto giuridico cit., p. 271; X. XXXXXXX FERRARA, Il negozio giuridico cit., p. 383, il quale sottolinea che nei negozi rescindibili “non manca, né è viziato un elemento costitutivo o requisito di validità, ma soltanto opera a loro danno una circostanza estrinseca cui il legislatore dà rilievo”; tali negozi, quindi, “producono normalmente i loro effetti finché non viene sperimentata vittoriosamente l’azione”; X. XXXXXXXXX, Mutamento cit., p. 932; I. XXXXX, Le azioni cit., pp. 424, 428, la quale parla di contratto “temporaneamente efficace”. Di diverso avviso sembra essere X. XXXXXXX, L’ordinamento giuridico cit., p. 110, il quale definisce il contratto rescindibile come “provvisoriamente valido”. Tuttavia, come giustamente fa notare X. XXXXXXXXX, voce Annullabilità cit., p. 3, “nel contratto rescindibile il ciclo di formazione dell’atto si è compiuto regolarmente ed il vizio […] attiene chiaramente alla fase di realizzazione degli effetti”.
(140) Per un’eccezione alla regola generale secondo cui il contratto rescindibile produce effetti finché non venga
integralmente caducato, si veda infra, par. 15.
eventi naturali o da fatti umani (141), dalla quale possano derivare danni gravi ad una persona (142); (ii) in un momento in cui tale pericolo è attuale (143), un soggetto stipuli un contratto con condizioni inique a suo svantaggio (144); (iii) il consenso di tale soggetto sia determinato dalla necessità di salvare sé o altri dal citato pericolo (145); (iv) la controparte sia a conoscenza sia dello stato di pericolo sia del xxxxx psicologico tra tale stato e la determinazione volitiva dell’altra parte (146).
(141) Persino da un fatto della vittima. Cfr. C. M. XXXXXX, Diritto civile, III cit., p. 685; X. XXXXXXXXX – M. G. XXXXXX, Il negozio invalido cit., Parte seconda, p. 136; X. XXXXXXXXX, La rescissione del contratto, in Rass. dir. civ. 1997,
p. 764, spec. 801; X. XXXXXXXXX, Dei contratti cit., p. 520, il quale precisa che non rileva l’imputabilità della causa del pericolo alla stessa vittima; X. XXXXXXXXX, voce Rescissione (diritto civile), in Noviss. Dig. it., vol. XV, Torino, 1968, p. 579, spec. 583; X. XXXXXX, sub art. 1447, in X. XXXXXXXX – X. XXXXXX, Della rescissione del contratto, in X. XXXXXXX (a cura di), Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2005, p. 72; X. XXXXX, Il contratto cit., p. 833; X. XXXXX, Il consenso, in X. XXXXX – X. XX XXXX (a cura di), Obbligazioni e contratti, tomo II, in Trattato di diritto privato, diretto da X. XXXXXXXX, Xxxxxx, 0000, p. 228; X. XXXXXXXX – X. XXXXXXXXXXX, Manuale cit., p. 692.
(142) Il danno deve riguardare i fondamentali diritti della persona: vita, integrità fisica, integrità morale, libertà, onore e altri diritti della personalità. Cfr. C. M. XXXXXX, Diritto civile, III cit., p. 684; X. XXXXXX, voce Rescissione (diritto vigente), in Enc. dir., vol. XXXIX, Milano, 1988, p. 966, spec. 973; X. XXXXXXXXX, Dei contratti cit., p. 520;
I. XXXXX, Le azioni cit., p. 424; X. XXXXXX, sub art. 1447 cit., p. 72; X. XXXXX, Il contratto cit., p. 833; X. XXXXX, Il consenso cit., p. 227. La gravità deve essere rapportata alla singola persona minacciata: v. C. M. BIANCA, Diritto civile, III cit., p. 684; X. XXXXXXXXX, Dei contratti cit., p. 520, per cui “la gravità del danno deve essere valutata caso per caso”; X. XXXXX, Il contratto cit., p. 833.
Una parte della dottrina tiene a precisare che nelle ipotesi di violenza morale si ricade nell’ambito dell’annullabilità del contratto, e non della rescindibilità dello stesso: C. M. XXXXXX, Diritto civile, III cit., p. 685;
X. XXXXXXXXX – M. G. XXXXXX, Il negozio invalido cit., Parte seconda, p. 136.
(143) L’attualità del pericolo deve intendersi nel senso che l’evento dal quale scaturisce tale pericolo sia già avvenuto, sicché, se il soggetto non provvede ad arrestarne le conseguenze, queste si verificheranno ineluttabilmente: v. X. XXXXXXXXX, Dei contratti cit., p. 520; I. XXXXX, Le azioni cit., p. 424. Il requisito dell’attualità non si riferisce, invece, al danno: v. E. XXXXXXXXX, La rescissione cit., p. 802; I. XXXXX, Le azioni cit., p. 424.
(144) X. XXXXXXXXX, Dei contratti cit., p. 521, e ID., voce Rescissione cit., p. 584, precisa che l’equità non va valutata in base a criteri tecnici ed economici di proporzionalità, bensì in base a un criterio etico-sociale di equità, avuto riguardo alla personalità del soggetto in pericolo. Ci si deve chiedere se sia equo ricevere quel che è stato stipulato in cambio della prestazione pattuita. Ad avviso di X. XXXXXX, sub art. 1447 cit., p. 76, occorre utilizzare entrambi i criteri, tenendo conto di ogni circostanza oggettiva (rischio, perizia, sforzo del soccorritore, risultato conseguito) e soggettiva (condizioni economiche delle parti).
(145) Deve sussistere un nesso di causalità psicologica tra lo stato di pericolo e la determinazione volitiva del soggetto: cfr. X. XXXXXXXXX, voce Rescissione cit., p. 584. In altri termini, il soggetto deve maturare la convinzione di essere di fronte ad un’alternativa tra subire il danno derivante dal pericolo o contrattare: così
X. XXXXXXXXX, Dei contratti cit., p. 521. V. anche X. XXXXX, Il contratto cit., p. 833, per il quale il contratto deve essere concluso “come strumento per neutralizzare il pericolo”. In proposito, giova precisare che non ha importanza che il pericolo sia reale ed effettivo; infatti, anche il pericolo putativo è idoneo a menomare la libertà di contrattazione del soggetto: v. C. M. XXXXXX, Diritto civile, III cit., p. 685; X. XXXXXXXXX – M. G. XXXXXX, Il negozio invalido cit., Parte seconda, p. 136; X. XXXXXXXXX, voce Rescissione cit., p. 584. Contra, v. X. XXXXXX, voce Rescissione cit., p. 974; X. XXXXXXXXX, La rescissione cit., p. 802; X. XXXXX, Il contratto cit., p. 833, secondo cui il requisito dell’attualità del pericolo esclude che lo stesso possa essere meramente putativo.
(146) Cfr. X. XXXXXXXXX, voce Rescissione cit., p. 584. Secondo alcuni, la conoscenza, consistente in un mero stato soggettivo di rappresentazione della realtà, è sufficiente per la produzione dell’effetto di rescissione: v. X. XXXXXXXXX – M. G. XXXXXX, Il negozio invalido cit., Parte seconda, p. 136; X. XXXXXXXXX, Dei contratti cit., p. 522;
X. XXXXXXXXX, voce Rescissione cit., p. 584; X. XXXXXXXXX, La rescissione cit., p. 802, il quale precisa che si richiede la “scienza concreta, e cioè mala fede in senso stretto, cui non può equipararsi la colpa grave nell’ignorare l’altrui stato di necessità”; in termini analoghi si esprimono X. XXXXXX, sub art. 1447 cit., p. 74; X. XXXXX, Il contratto cit., p. 834. Altri ritengono, invece, che occorra un approfittamento da parte del soccorritore: v. I. XXXXX, Le azioni cit., p. 424.
Nell’altra ipotesi, la norma che apre la sequenza generatrice dell’effetto di rescissione è l’art. 1448 c.c., rubricato “Azione generale di rescissione per lesione”, e la fattispecie astratta è così composta: (i) lo stato di bisogno in cui versi un soggetto (147); (ii) la stipulazione da parte di questo soggetto di un contratto non aleatorio in cui vi sia una sproporzione tra le proprie prestazioni e quelle della controparte (148); (iii) la dipendenza di siffatta stipulazione e di siffatta sproporzione dallo stato di bisogno del contraente (149); (iv) la lesione c.d. ultra dimidium (con il che s’intende che la prestazione promessa o eseguita dalla parte danneggiata vale, al tempo della conclusione del contratto, più del doppio rispetto alla controprestazione)
(147) Lo stato di bisogno consiste nella sussistenza di un interesse da soddisfare e nella deficienza dei mezzi atti a soddisfarlo, nonché nella prospettiva di conseguenze dannose, che possono riguardare sia la persona sia il patrimonio, nell’ipotesi in cui l’interesse non venga soddisfatto. Si presenta, dunque, anche in situazioni diverse dallo stato di indigenza o di deficienza di denaro (ad esempio, temporanea mancanza di liquidità, bisogno di un bene o servizio). Il bisogno può essere anche di un terzo, purché si traduca in un bisogno del contraente, il quale deve aver interesse a che il bisogno del terzo venga soddisfatto e deve subire un danno in prima persona se ciò non accade. In proposito, v. C. M. XXXXXX, Diritto civile, III cit., p. 687; X. XXXXXXX, La rescissione del contratto, in Il codice civile. Commentario, diretto da X. XXXXXXXXXXX, Milano, 2000, p. 34; X. XXXXXXXXXX, Il nesso causale tra stato di bisogno e sproporzione delle condizioni contrattuali nella rescissione per lesione, ovvero, approfittare è lecito, in Nuova giur. civ. comm. 1998, I, p. 335, spec. 340; X. XXXXXXX, voce Rescissione, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. XVI, Torino, 1997, p. 628, spec. 635-637; X. XXXXXXXXX, La rescissione cit., p. 768 ss.; X. XXXXXXXXX, Dei contratti cit., pp. 525-526; X. XXXXXXXXX, voce Rescissione cit., p. 581; X. XXXXX, Il contratto cit., pp. 835-836; X. XXXXX, Il consenso cit., pp. 228-229. Alcuni ritengono che lo stato di bisogno possa essere anche putativo (cfr. X. XXXXXXXXX, voce Rescissione cit., pp. 581-582); altri credono, invece, che possa essere solo effettivo (cfr. X. XXXXXXXXX, La rescissione cit., p. 771; I. XXXXX, Le azioni cit., p. 429, nt. 191).
(148) Cfr. art. 1448, c. 4, c.c. L’esclusione dei contratti aleatori (per loro natura o per volontà delle parti) si spiega in base al rilievo che, in questi, la sproporzione tra le prestazioni non ha significato di lesione, in quanto rientra nel rischio connesso al contratto stipulato. Analoga ratio sta alla base dell’esclusione della transazione dal terreno di operatività dell’azione generale di rescissione per lesione (art. 1970 c.c.): invero, l’eventuale sproporzione tra i vantaggi realizzati dalle parti rientra nel rischio normalmente connesso con la definizione transattiva di una controversia.
Ai sensi dell’art. 1448, c. 5, c.c., inoltre, sono salve le disposizioni relative alla rescissione della divisione,
disciplinata dagli artt. 763-767 c.c.
(149) Cfr. C. M. BIANCA, Diritto civile, III cit., p. 687; X. XXXXXXXXX, La rescissione nell’orizzonte della fonte e del rapporto giuridico, in Xxx. xxxx. xxx. xxxx. xxx. 0000, x. 00, xxxx. 00; X. XXXXXXXXX, La rescissione cit., p. 769, chiarissimo nell’evidenziare che “lo stato di bisogno deve essere in rapporto di causa ed effetto con la determinazione a contrarre, e costituire il motivo per cui è stata accettata la sproporzione tra le prestazioni”; X. XXXXXXXXX, voce Rescissione cit., p. 581; I. XXXXX, Le azioni cit., p. 428.
(150); (v) la permanenza della lesione fino al momento in cui è proposta la domanda (151); (vi)
l’approfittamento della controparte che mira a trarre vantaggio dall’operazione (152).
È pacifico l’insegnamento per cui, affinché sorga l’effetto di rescissione, occorre il concorso simultaneo di tutti i requisiti previsti dalle norme: pertanto, nell’uno e nell’altro caso, il secondo fattore della sequenza è il verificarsi, in concreto, di tutti i presupposti elencati, rispettivamente, dall’art. 1447 e dall’art. 1448 c.c. (153).
Ma quelli sin qui descritti non sono gli unici presupposti cui le disposizioni in esame fanno riferimento per costruire la fattispecie astratta dell’effetto di rescissione. Sia nella prima sia nella seconda ipotesi, il legislatore prevede che i fatti richiamati non abbiano rilevanza giuridica fino a che non intervenga un atto di parte che gliela attribuisca. Ancora una volta, il legislatore conferisce al contraente vittima di iniquità o di lesione la libertà di decidere se mantenere in vita il rapporto contrattuale, pur in astratto rescindibile, oppure se rimuoverne gli effetti: ciò si rivela grandemente opportuno, perché ben potrebbe accadere
(150) Per determinare la lesione, occorre paragonare il valore di mercato dell’una e dell’altra prestazione al momento della conclusione del contratto; ciò significa che la rescissione è un rimedio contro gli squilibri originari, non contro le successive oscillazioni del mercato: v. C. M. BIANCA, Diritto civile, III cit., p. 686; X. XXXXXXX, La rescissione cit., p. 42; X. XXXXXXXXX, La rescissione cit., p. 775; X. XXXXXXXXX, Dei contratti cit., pp. 528-529; X. XXXXXXXXX, voce Rescissione cit., p. 583; I. XXXXX, Le azioni cit., p. 430, nt. 191; X. XXXXX, Il contratto cit., pp. 837-838.
(151) Per verificarla, occorre sostanzialmente accertare se è aumentato il valore della prestazione che la parte lesa ha ricevuto o diminuito il valore della prestazione a suo carico. La ratio della norma è ben evidenziata da
X. XXXXX, Il consenso cit., p. 230: se al momento della domanda l’equivalenza delle prestazioni fosse ristabilita, il contraente bisognoso, che ottenesse la restitutio, verrebbe a disfare un contratto per concluderne uno identico; e la legge non protegge tale atteggiamento capriccioso. In alternativa, il contraente bisognoso verrebbe a disfare il contratto per concluderne uno completamente diverso, e ciò significherebbe che il suo pentimento è indirizzato verso l’acquisto, non verso la lesione; e la legge non tollera nemmeno questa situazione.
(152) Anche con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 1448 c.c., si assiste a un contrasto dottrinale tra chi ritiene che per la produzione dell’effetto di rescissione basti la mera conoscenza dell’altrui stato di bisogno e del rapporto di dipendenza tra quest’ultimo e la sproporzione delle prestazioni (v. B. CARPINO, La rescissione cit., p. 40; O. T. XXXXXXXXXX, Il problema dell’adeguatezza negli scambi e la rescissione del contratto per lesione, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1978, p. 309, spec. 349; X. XXXXXXXX – X. XXXXXXXXXXX, Manuale cit., p. 694; X. XXXXXXXXX, Istituzioni cit., p. 300) e chi crede che serva un quid pluris, e precisamente un comportamento sfruttatorio che si risolve nell’utilizzare a proprio vantaggio il bisogno altrui (v. C. M. XXXXXX, Diritto civile, III cit., p. 687; X. XXXXXXX, voce Rescissione cit., pp. 638-639; X. XXXXXX, voce Rescissione cit., p. 975; X. XXXXX, Il contratto cit., pp. 838-839; X. XXXXX, Il consenso cit., p. 230).
(153) Cfr. X. XXXXXXXXX, La rescissione cit., p. 20, per cui la mancanza anche di un solo elemento “è sufficiente ad escludere la rescindibilità del contratto”; X. XXXXXXX, La rescissione cit., pp. 42-43; X. XXXXXX, voce Rescissione cit., p. 973, secondo il quale il “concorso simultaneo” degli elementi previsti “si presenta come condizione necessaria per condurre alla inefficacia del regolamento contrattuale”; X. XXXXX, Il consenso cit., p. 227. In giurisprudenza, x. Xxxx., 00 giugno 2018, n. 15338, per cui l’azione di rescissione per lesione “richiede la simultanea ricorrenza d[e]i tre requisiti” descritti nel testo, tra i quali “non intercede alcun rapporto di subordinazione o alcun ordine di priorità o precedenza, per cui riscontrata la mancanza o l’omessa dimostrazione dell’esistenza di uno dei tre elementi, diviene superflua l’indagine circa la sussistenza degli altri due e l’azione di rescissione deve essere senz’altro respinta”; in termini analoghi, xx xxxxxxxx, x. xxxxx Xxxx., 0 settembre 2011, n. 18040; Cass., 13 febbraio 2009, n. 3646; Cass., 23 settembre 0000, x. 00000; App. Roma, 15 luglio 1997, in Nuova giur. civ. comm. 1998, I, p. 332, con nota di X. XXXXXXXXXX, Il nesso causale cit.; Cass., 1 marzo 1995, n. 2347. Peculiare è l’approccio di P. M. XXXXX, Xxxxx note in tema di prova dello stato di bisogno nella rescissione per lesione, in Foro pad. 1995, I, p. 134, spec. 134, il quale opina che “la necessità della contemporanea presenza degli elementi indicati nella norma […] non cancella l’esigenza di forzarne il dato testuale tutte le volte che la rigorosa applicazione dello stesso conduca ad esiti contrari alla stessa ratio dell’istituto”.
che il soggetto danneggiato trovi più conveniente ottenere la (pur limitata) controprestazione piuttosto che ripristinare lo stato di fatto anteriore alla conclusione del contratto (154). D’altro canto, anche l’effetto di rescissione, al pari dell’effetto di annullamento, è previsto a protezione di una delle parti del contratto (155): come tale, esso non opera in automatico, ma subordinatamente a una scelta di tale parte.
Che il diritto potestativo di rescissione debba necessariamente essere esercitato in via giudiziale appare, in tutta franchezza, difficilmente contestabile. Ai sensi dell’art. 1447 c.c., il contratto concluso in stato di pericolo “può essere rescisso sulla domanda della parte che si è obbligata” a condizioni inique. Se si verificano i presupposti fattuali di cui all’art. 1448 c.c., “la parte danneggiata può domandare la rescissione del contratto”, purché la lesione permanga fino al tempo in cui “la domanda è proposta”. In questa seconda ipotesi, “il contraente contro il quale è domandata la rescissione può evitarla” riconducendo il contratto a equità. Come si vede, il codice civile contempla una sola modalità con cui il diritto potestativo possa essere attuato: la proposizione di una domanda, e quindi l’instaurazione di un giudizio. Non è, dunque, un caso che la dottrina quasi unanime inquadri il diritto potestativo di rescissione tra i diritti potestativi a necessario esercizio giudiziale (156).
Si è detto quasi perché vi è, per vero, una (pur isolata) voce che ammette che il potere di rescissione possa essere esercitato in via stragiudiziale, attraverso un atto formale con cui il soggetto legittimato manifesti espressamente la propria intenzione di avvalersi del motivo di rescindibilità (157).
La conclusione sarebbe necessitata dal rispetto del principio di buona fede. Xxxxx che ha ricevuto la dichiarazione stragiudiziale di rescissione, e che si è, quindi, ritenuto libero dalle proprie obbligazioni contrattuali, non può poi essere costretto ad adempiervi perché la parte danneggiata ha deciso di cambiare idea. In tale prospettiva, ricondurre in ogni caso all’esito del processo l’inefficacia del contratto, anche qualora non vi sia contestazione sui presupposti del potere di rescissione, significherebbe “imprigionare la realtà sostanziale in una dimensione processuale necessitata, che in questo caso appare priva di qualsiasi reale giustificazione”. Si reputa, allora, più corretto consentire l’esercizio stragiudiziale del diritto potestativo di rescissione ed evitare il ricorso all’autorità giurisdizionale nelle occasioni in cui il destinatario passivo del diritto non contesti né l’esistenza dei fatti cui la dichiarazione di parte intende dare rilevanza né la legittimità dell’esercizio del diritto potestativo.
(154) La considerazione è analoga a quella già svolta in sede di analisi dell’effetto di annullamento, che ha
condotto il legislatore a non renderlo automatico, ma soggetto a un potere di parte sull’an: v. supra, par. 7.
(155) Nel caso dell’art. 1448 c.c., tale parte è il contraente economicamente più debole: cfr. O. T. XXXXXXXXXX,
Il problema dell’adeguatezza negli scambi cit., pp. 315, 316, 350.
(156) In tal senso, v. X. XXXXXXX, In tema di limiti oggettivi cit., p. 536, il quale, come ricordato supra (nota 121), cambia opinione rispetto a quanto sostenuto nel suo precedente articolo ID., Conflitto di decisioni cit.; X. XXXXX BONACCORSO, Diritti potestativi cit., pp. 136-137, anche nt. 26; M. COMPORTI, Fondamento e natura giuridica della rescissione del contratto per lesione, in Studi sen. 1956-1957, p. 1, spec. 40-41; X. XXXXXXX, Oggetto del giudicato cit., p. 249, anche nt. 73; X. XXXXXX, La pronuncia d’xxxxxxx xxx., x. 000 xx., xxxxx xx. 00; X. XXXXXX, voce Eccezione cit.,
p. 271; E. F. XXXXX, voce Accertamento cit., p. 23. Sono dello stesso avviso anche tutti gli autori che qualificano la sentenza di rescissione come sentenza costitutiva, citati infra in nota 160. In giurisprudenza, cfr. Cass., 13 aprile 1959, n. 1086, in Giur. it. 1959, I, 1, p. 1192, con nota di X. XXXXX XXXXXXXXXX, L’eccezione cit.
(157) Si tratta di I. XXXXX, Le azioni cit., p. 443 ss.
In tal modo, l’Autrice giunge ad attribuire al diritto potestativo di rescissione una diversa natura a seconda delle risposte che l’altra parte oppone, di volta in volta, all’atto di esercizio dello stesso.
Vi sono diversi aspetti della tesi in esame che destano perplessità. Quello più critico riguarda l’estrema incertezza che affliggerebbe il titolare del diritto potestativo. Definire se vi sia o non vi sia contestazione potrebbe risultare complesso nel singolo caso di specie; e, nel dubbio, per il contraente danneggiato sarebbe senz’altro più opportuno lasciare al giudice la valutazione sull’esistenza e sul corretto esercizio del diritto potestativo di rescissione: a fronte di una situazione in cui è difficile capire se la manifestazione stragiudiziale sia sufficiente per determinare la rescissione del contratto o se sia necessario che tale manifestazione assuma la forma di domanda giudiziale, per la parte lesa sarebbe sicuramente più sensato imboccare il sentiero meno rischioso e instaurare un processo. Inoltre, anche qualora le parti considerino di comune accordo il contratto rescisso, non è comunque scontato che concordino altresì sulle modalità con cui ripristinare lo status quo ante; le divergenze in proposito le spingerebbero ancora una volta ad adire l’autorità giurisdizionale. E ancora, ove anche il consenso si estendesse alle conseguenze della rescissione, comunque risulterebbe per le parti preferibile essere in possesso di un titolo esecutivo da poter sfruttare nell’ipotesi di inadempimento della controparte. Si pensi, infine, all’ipotesi in cui la contestazione del contraente in posizione di soggezione riguardi solo le modalità con cui il diritto potestativo è stato esercitato, e non la sussistenza dei fatti cui il soggetto leso intende dare rilevanza. Potenzialmente, il contraente danneggiato potrebbe avvalersi del diritto potestativo nuovamente in via stragiudiziale, modificando il proprio modus procedendi per tener conto delle reazioni della controparte; aumenterebbe così l’incertezza tanto sul concreto sorgere dell’effetto di rescissione quanto sul momento di tale insorgenza. È dunque assai probabile che, anche se si attribuisse al diritto potestativo di rescissione natura sostanziale, il ricorso al processo rimarrebbe nella maggior parte dei casi necessario.
Non vale, poi, a contrastare la natura giudiziale del diritto potestativo la tesi di chi reputa che questa si manifesti solo quando vi sia una crisi di cooperazione delle parti sul piano del diritto sostanziale (158). In tale prospettiva, l’effetto di rescissione ben può essere acquisito attraverso un accordo con la controparte e la domanda di rescissione dovrebbe essere proposta solo ove l’accordo non si raggiunga e occorra, dunque, ottenere il medesimo risultato in via unilaterale. Come si è già notato, però, l’effetto conseguibile attraverso la stipulazione di un contratto non è propriamente un effetto di rescissione, sicché l’unico modo con cui questo può prodursi rimane l’esercizio di un diritto potestativo a necessario esercizio giudiziale (159).
(158) Si tratta del pensiero di X. XXXXX PISANI, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva cit., p. 90 ss., già richiamato supra, par. 7. Come ricordato, in senso simile si esprime anche X. XXXXXXXXX, La tutela giurisdizionale cit., p. 131.
Non si può, invece, concordare con chi qualifica la sentenza di accoglimento della domanda di rescissione come sentenza dichiarativa, quale logica conseguenza della riconduzione del diritto di rescissione nell’alveo dei diritti potestativi sostanziali (161): caduta la premessa, cade anche la conclusione.
Né si può condividere la tesi di Xxxxxxx (162), già richiamata nel corso dell’analisi dell’effetto di annullamento (163), per cui il diritto potestativo di rescissione, pur dovendo essere esercitato mediante un atto del processo (la domanda), produce al contempo un effetto sostanziale (rescissione del contratto) e un effetto processuale (costituzione del dovere del giudice di pronunciare sull’intervenuta rescissione). Ciò comporta che il giudice non rescinde il contratto, ma si limita a constatare che il contraente leso vi ha già provveduto tramite la proposizione della domanda giudiziale. Il punto delicato di questa teorica, che ne rappresenta un coerente corollario, ma anche il maggiore limite, è il seguente. Se il diritto potestativo è a necessario esercizio giudiziale, allora l’effetto di rescissione può manifestarsi solo nel quadro del processo in cui tale diritto viene esercitato: se il giudizio si estingue, l’effetto di rescissione viene meno e il contratto rescisso torna in vigore.
(160) È questo l’indirizzo dottrinario maggioritario: v. X. XXXXXXX, In tema di limiti oggettivi cit., p. 536, per cui è “la sentenza che accoglie la domanda proposta a dar vita al mutamento richiesto dall’attore”; X. XXXXXXXXX, La rescissione cit., p. 30; C. M. BIANCA, Diritto civile, III cit., p. 690; X. XXXX, Lineamenti cit., p. 227 ss.; F. XXXXXX, L’azione cit., p. 42; X. XXXXXXX FERRARA, Il negozio giuridico cit., p. 383 ss.; X. XXXXXXXXXX, Preclusione dell’offerta di riduzione del contratto ad equità, in Riv. dir. proc. 1953, p. 108, spec. 108, per cui la rescissione è “una pronuncia del giudice, che toglie efficacia al contratto”; X. XXXXXX XXXXXX, La domanda giudiziale cit., p. 40;
X. XXXXXXXXX, Principii cit., p. 194; M. COMPORTI, Xxxxxxxxxx xxx., x. 00; X. XXXXXXX, Spiegazioni cit., vol. I,
p. 32; X. XXXXXXXXX, Risoluzione per inadempimento e ricorso al processo, in Xxx. xxx. xxx. 0000, X, x. 00, xxxx. 00; X. XX XXXX, La rescissione del contratto, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, Napoli, 2011, pp. 235-236, per cui “la sentenza (costitutiva) di accoglimento della domanda azionata in giudizio è l’unico strumento che permetta di ottenere la rescissione del contratto”; X. XXXXXXXXX, Mutamento cit., p. 932; X. XXXXXX, voce Rescissione cit., p. 977; X. XXXXXXXX, I limiti oggettivi cit., p. 145; X. XXXXXX, Elementi cit., p. 50; E. XXXXXXXXX, La rescissione cit., p. 791; X. XXXXXXXXX, Limiti oggettivi cit., pp. 39-40; X. XXXXX, Poteri cit., p. 260 ss.; X. XXXXXX, Diritti potestativi cit., pp. 13-14, il quale parla di una vera e propria “riserva di giurisdizione”;
X. XXXXX, Il contratto cit., p. 840; X. XXXXX, voce Nullità cit., pp. 308-309, per cui la sentenza di rescissione opera “alterando il campo dei rapporti sostanziali, ossia [elimina] gli effetti del contratto”; X. XXXXX, Tutela giurisdizionale cit., p. 316; X. XXXXXXXXX, Istituzioni cit., p. 300. Si sottolinea, peraltro, come, nell’ampio genus delle sentenze costitutive, quelle di rescissione appartengono alla species delle sentenze estintive di rapporti giuridici: v. F. D. XXXXXXXX, Della tutela giurisdizionale cit., p. 200; A. MOTTO, Poteri cit., p. 247, anche nt. 100. Anche la giurisprudenza è orientata nel senso della natura costitutiva della sentenza di rescissione: cfr. Xxxx., sez. un., 23 novembre 2018, n. 30416; Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242, par. 4.2; Cass., 9 gennaio 2007, n. 140.
(161) Così I. XXXXX, Le azioni cit., pp. 445, 676.
(162) Cfr. X. XXXXXXX, L’ordinamento giuridico cit., pp. 110-111.
Xx xx xx xxxxx xxxxxxxxxxxxx ai quali tale ricostruzione dà adito (164), la ragione dirimente per cui non è possibile attribuire al provvedimento giudiziale natura meramente dichiarativa è lo ius positum. Il legislatore indica chiaramente che l’effetto di rescissione è prodotto dalla sentenza; o meglio, che la fattispecie costitutiva dell’effetto di rescissione ricomprende anche la sentenza e che gli altri elementi della fattispecie non sono da soli in grado di generare l’effetto. Xxxxxx, xxxxxx non è pronunciata sentenza, il contratto rescindibile produce effetti; quando poi interviene il provvedimento giudiziale, il contratto diviene inefficace. Puntano in tale direzione: (i) l’art. 1447, c. 2, c.c., per cui “il giudice, nel pronunciare la rescissione”, può assegnare alla parte soccorritrice un equo compenso; (ii) il già citato art. 1450 c.c., per cui “il contraente contro il quale è domandata la rescissione può evitarla”; se l’effetto rescissorio sorgesse tramite la mera proposizione della domanda, non si comprende come la controparte potrebbe evitarlo; costei potrebbe al più estinguere l’effetto, ma non potrebbe di certo impedirne l’insorgere (165); (iii) l’art. 2655, c. 1, c.c., secondo cui, “qualora un atto trascritto o iscritto sia dichiarato nullo o sia […] rescisso […], la dichiarazione di nullità e […] la rescissione […] devono annotarsi in margine alla trascrizione o all’iscrizione dell’atto”; come si vede, la norma crea una netta distinzione tra le ipotesi in cui un effetto giuridico viene dichiarato dal giudice e le ipotesi in cui un effetto viene da lui prodotto (166).
Al dato letterale si sommano argomenti di natura sistematica che parimenti fanno propendere per la costitutività della pronuncia di rescissione (167). Innanzitutto, ai sensi dell’art. 1449, c. 1, c.c., l’azione di rescissione è soggetta a un termine di prescrizione di un anno, decorrente dalla conclusione del contratto (168); quando, invece, un’azione è dichiarativa, si può immaginare la prescrizione del diritto da accertare, ma non quella dell’azione. In secondo luogo, la legittimazione all’impugnativa in esame è ristretta, essendo la stessa proponibile solo da parte del contraente che si è obbligato a condizioni per lui xxxxxx, nel caso di cui all’art. 1447 c.c., o del contraente rimasto leso, nel caso di cui all’art. 1448 c.c.: anche la legittimazione ristretta rappresenta un chiaro indice della natura costitutiva del giudizio (169).
(164) Per i quali si rinvia a quanto esposto supra, par. 7.
(165) La medesima perplessità vale anche per l’art. 767 c.c., per cui “il coerede contro il quale è promossa l’azione di rescissione può troncarne il corso” dando agli altri coeredi un supplemento della porzione ereditaria.
(166) Evidenziano l’importanza del dato normativo anche X. XXXXXXX, In tema di limiti oggettivi cit., p. 536, per cui “è la lettera della legge, che, sempre […], prevede per l’interessato il potere di chiedere al giudice un (provvedimento che disponga un) mutamento giuridico, non di provocarlo con la sua dichiarazione di volontà”; X. XX XXXX, La rescissione del contratto, in Trattato cit., p. 236.
(167) Si tratta degli stessi argomenti sistematici cui si è già data enfasi analizzando l’effetto di annullamento (v.
supra, par. 7) e che sono frutto delle osservazioni di X. XXXXXXXXXX, Situazioni potestative cit., p. 69 ss.
(168) Il termine annuale non si applica, però, se il fatto costituisce reato; in questo caso, la prescrizione dell’azione resta disciplinata dall’art. 2947 c.c. Come acutamente osservato, il termine di prescrizione è così ristretto perché la tutela è condizionata al verificarsi di presupposti esterni al contratto (stato di pericolo e stato di bisogno) e a valutazioni di ordine quantitativo (le condizioni inique e la lesione ultra dimidium), la cui prova è talmente delicata ed evanescente da imporre il sollecito ricorso all’autorità giurisdizionale: cfr. X. XXXXXXXXX, Risoluzione per inadempimento cit., pp. 88-89.
(169) L’attribuzione alla sentenza di rescissione della natura costitutiva trova conferma anche nell’analisi storica dell’istituto. Esso trae origine da un rescritto, conosciuto come lex secunda, contenuto nella compilazione giustinianea. Nella parte che interessa, il rescritto prevedeva che si potesse porre nel nulla la compravendita di
Pertanto, alla luce dell’analisi svolta, si può schematicamente affermare, in adesione alle teorie dominanti, che:
a) l’effetto di rescissione si produce secondo lo schema norma – fatto – potere sull’an
– accertamento giudiziale – effetto;
b) l’azione di rescissione è un’azione costitutiva;
c) la sentenza che accoglie la domanda di rescissione è una sentenza costitutiva.
Quanto all’estensione dell’effetto in esame, essa è disciplinata dagli artt. 1452, 2652, c. 1, n. 1, e 2690, c. 1, n. 1, c.c.
Rispetto alle parti contraenti, la rescissione produce un duplice effetto: da un lato, un effetto liberatorio, nel senso che le prestazioni non ancora eseguite non sono più dovute da alcuna delle parti; dall’altro, un effetto restitutorio, nel senso che le parti hanno diritto di ripetere quanto prestato in forza del contratto ormai rescisso. Il primo effetto opera ex nunc, e quindi dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di rescissione (170). Il secondo opera ex tunc, dal momento in cui il contratto è stato stipulato; ciò in quanto il fatto storico che costituisce il motivo di rescissione risale al tempo in cui si è perfezionata la fattispecie costitutiva del rapporto giuridico. Si noti che, a differenza di quanto accade nel campo della risoluzione (171), la rescissione comporta effetti restitutori retroattivi anche con riguardo ai contratti ad esecuzione continuata o periodica (172).
Rispetto ai terzi, la regola generale è che i diritti da questi acquistati non sono mai pregiudicati dalla rescissione del contratto, sia che l’acquisto sia avvenuto a titolo gratuito sia che sia avvenuto a titolo oneroso, sia che il terzo fosse in buona fede sia che fosse in mala fede (art. 1452 c.c.). Vale, però, una disciplina diversa riguardo ai contratti soggetti a trascrizione (2652, c. 1, n. 1, e 2690, c. 1, n. 1, c.c.): in questi casi, i terzi si salvano solo se hanno trascritto o iscritto il proprio acquisto prima della trascrizione della domanda di rescissione (anche in questa situazione, restano indifferenti il titolo dell’acquisto e lo stato soggettivo del terzo); viceversa, ove i terzi abbiano trascritto o iscritto il proprio acquisto
un bene immobile, venduto ad un prezzo inferiore alla metà del suo valore, ma solo attraverso un’azione giudiziale: “Impp. Xxxxxxxxxxxx et Xxxxxxxxxxxxx A.A. Lupo: Rem maioris pretii si tu vel pater tuus minoris pretii distraxerit, humanum est ut vel, pretium te restituente emptorisbus, fundum venditum recipias, auctoritate iudicis intercedente, vel, si emptor elegerit, qoud deest iusto pretio recipies. Minor autem pretium esse videtur, si nec dimidia pars veri pretii soluta sit […]” (enfasi aggiunta). In proposito, cfr. X. XXXXXXXXX, La rescissione del contratto, Napoli, 1962, p. 5; I. XXXXX, Le azioni cit., p. 417 ss.; O. T. XXXXXXXXXX, Il problema dell’adeguatezza negli scambi cit., p. 317.
(171) Cfr. infra, parr. 9.1.6, 9.2 e 9.3.
(172) Sugli effetti della rescissione tra le parti, v. X. XX XXXX, La rescissione del contratto, in Trattato cit., pp. 254- 255; M. DE POLI, Rescissione del contratto, in Il codice civile. Commentario, fondato da X. XXXXXXXXXXX e continuato da F. D. XXXXXXXX, Milano, 2015, p. 266 ss.; X. XXXXXXXXX, La rescissione cit., p. 791; A. MOTTO, Poteri cit., p. 247, nt. 100; X. XXXXXX, sub art. 1452, in X. XXXXXXXX – X. XXXXXX, Della rescissione del contratto, in X. XXXXXXX (a cura di), Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2005, p. 261; X. XXXXX, Le invalidità cit., p. 609. In giurisprudenza, cfr. Cass., 20 marzo 2009, n. 6891, in Xxxxxxxxx 2009, p. 999, con nota di X. XXXXX, Impugnative negoziali, tutela restitutoria e indebito oggettivo.
dopo la trascrizione della domanda giudiziale, la sentenza di rescissione è a loro opponibile e i diritti da loro acquistati sono dalla stessa colpiti (173).
A chiusura dell’analisi della rescissione, occorre volgere lo sguardo a quella che si è definita fattispecie in senso ampio ed esaminare un’ipotesi in cui l’effetto di rescissione non può venire ad esistenza. Si tratta del caso disciplinato dall’art. 1450 c.c.: il contraente contro cui è proposta la domanda di rescissione può evitarla, modificando le condizioni contrattuali in modo tale da eliminare lo squilibrio che ne costituisce il fondamento. L’esercizio di tale potere di rettifica costituisce fatto estintivo del diritto potestativo di rescissione del contratto e va, dunque, a comporre la fattispecie in senso ampio di non-rescissione (174). Siffatto potere sussiste solo nell’ipotesi disciplinata dall’art. 1448 c.c.; viceversa, quando il contratto è stato stipulato a condizioni inique in stato di pericolo, il soccorritore non ha la possibilità di ravvedersi, ma solo quella di ottenere un equo compenso per l’opera comunque effettuata (art. 1447, c. 2, c.c.) (175).
(173) Sugli effetti della rescissione rispetto a soggetti diversi dai contraenti, v. X. XX XXXX, La rescissione del contratto, in Trattato cit., p. 257; M. DE POLI, Rescissione del contratto, in Il codice civile cit., pp. 271 ss., 330, il quale precisa che l’eventuale impossibilità di recuperare il bene dal terzo non preclude l’esperimento del rimedio rescissorio; in tale ipotesi, la parte lesa domanderà, oltre alla rescissione del contratto, la condanna alla restituzione del controvalore in denaro; X. XXXXXX, sub art. 1452 cit., p. 265.
(174) In proposito, v. X. XXXXXXXXX, La rescissione cit., p. 23, secondo il quale la riduzione ad equità “rende la situazione giuridica successiva al contratto non più lesiva ma equa, e quindi inattaccabile: proprio tale modificazione della situazione giuridica esclude la rescissione”; C. M. BIANCA, Diritto civile, III cit., p. 693, per cui l’offerta di riduzione ad equità estingue il diritto potestativo di rescissione; X. XXXXXXXXXXX, Sulla riduzione ad equità del contratto rescindibile, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1966, p. 1217, spec. 1239, per il quale la riduzione ad equità “determina una nuova situazione in conseguenza della quale la fattispecie modificata non è suscettibile di essere rescissa”.
Nel panorama dottrinale si assiste a una accesa lite circa la natura dell’offerta di riduzione ad equità di cui all’art. 1450 c.c. Secondo una prima corrente di pensiero, il potere di effettuare l’offerta è un diritto potestativo sostanziale e l’offerta ha carattere di negozio sostanziale, non processuale; essa è, per la precisione, un negozio unilaterale, che non necessita di accettazione; ne segue che la sentenza che pronuncia sull’offerta ha natura dichiarativa di un effetto che si è già prodotto sul piano sostanziale (di questo avviso sono C. M. BIANCA, Diritto civile, III cit., p. 695; X. XXXXXXXXXX, Preclusione dell’offerta cit., p. 109 ss.; E. XXXXXXXXX, La rescissione cit.,
p. 799; I. XXXXX, Le azioni cit., p. 430, nt. 192; X. XXXXX, Il contratto cit., pp. 842-843). Secondo una diversa corrente, il potere di offerta è un diritto potestativo a necessario esercizio giudiziale, attivabile solo dalla parte contro la quale è proposta la domanda di rescissione (così M. DE POLI, La rescissione del contratto, in Trattato cit.,
p. 268 ss.). A risultati simili giunge X. XXXXXXXXXXX, Xxxxx riduzione ad equità cit., pp. 1238-1239, secondo cui “l’offerta non può esplicare immediatamente il proprio effetto determinando la modificazione del rapporto tra le rispettive prestazioni perché questo effetto deve necessariamente essere successivo al positivo accertamento dell’equità del contenuto del contratto quale risulta dall’offerta modificativa”; la dichiarazione del giudice assume “valore costitutivo di una situazione il cui contenuto è determinato dall’autonomia privata”. Vi è, infine, una tesi intermedia per cui l’offerta di riduzione ad equità ha carattere negoziale ed è diretta alla controparte, ma al contempo è formalmente inserita in un atto processuale ed è destinata in egual modo anche al giudice. Se la controparte accetta l’offerta, ne nasce un accordo contrattuale perfetto e il giudice non fa che accertarne la conclusione; viceversa, se la controparte rifiuta l’offerta, l’offerente può ottenere dal giudice una sentenza che “produca gli effetti” del contratto non stipulato, al pari di quello che accade ai sensi dell’art. 2932 c.c. Mentre nel primo caso il provvedimento giudiziale è dichiarativo, nel secondo è costitutivo (v. X. XXXXXXX, L’offerta di riduzione ad equità, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1947, p. 576, spec. 577; in senso simile, se ben si comprende,
X. XXXXXX, voce Rescissione cit., pp. 972-973; X. XXXXXXXXX, voce Rescissione cit., p. 586).
(175) Cfr. X. XXXXXXX, voce Rescissione cit., p. 636, per cui la rescissione del contratto concluso in stato di pericolo “deve essere sempre pronunciata e non può essere evitata da un ravvedimento del profittatore”; X. XXXXXXXXX, voce Rescissione cit., p. 586, secondo il quale l’applicazione dell’art. 1450 c.c. nell’ipotesi di cui all’art. 1447 c.c. appare “del tutto ingiustificata, sia in quanto lo stesso risultato di adeguamento della
Non può mai, invece, costituire fatto impeditivo dell’effetto di rescissione la convalida del contratto: essa, al contrario di quanto accade per i negozi annullabili, non è ammessa per quelli rescindibili (art. 1451 c.c.).
9. L’azione di risoluzione
Siamo così giunti all’azione di impugnativa contrattuale che viene disciplinata per ultima dal nostro codice civile: l’azione di risoluzione. Last but not least, come direbbero gli anglofoni, perché l’effetto di risoluzione, anziché presentare un carattere unitario, si declina in tre diverse forme, corrispondenti a tre diverse cause: risoluzione per inadempimento, risoluzione per impossibilità sopravvenuta e risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.
Come intuibile, al moltiplicarsi delle species dell’effetto di risoluzione, si moltiplicano anche le criticità relative ai loro schemi genetici e alla natura dei processi che le riguardano. Il che suggerisce di compiere un’analisi distinta per ciascuna di esse.
Si è soliti distinguere tra forme di risoluzione giudiziale e forme di risoluzione “di diritto”: nelle prime, la sentenza costituisce elemento indefettibile della fattispecie risolutoria, che assume, quindi, lo schema norma – fatto – potere sull’an – accertamento giudiziale – effetto; al contrario, nelle seconde, la fattispecie risolutoria si perfeziona al di fuori del contesto processuale, con la tecnica norma – fatto – effetto oppure con la tecnica norma – fatto – potere sull’an – effetto (176). Si tratta, allora, di ricondurre le varie ipotesi di risoluzione nell’alveo dell’una o dell’altra categoria.
Il dato che tutte le accomuna, e che occorrerà tenere in considerazione nel corso dell’analisi, è il seguente. Inadempimento, impossibilità sopravvenuta ed eccessiva onerosità sopravvenuta non costituiscono vizi dell’atto, ma anomalie afferenti all’attuazione del programma negoziale, in quanto sopraggiungono al ciclo di formazione del negozio. Da ciò
controprestazione viene raggiunto appunto con l’attribuzione del compenso, sia in quanto, ammettendo che la rescissione del contratto necessitato non può trovare ostacoli neppure nell’offerta di modificazione della controparte, si rende possibile eliminare totalmente la prestazione iniqua assunta dal necessitato”; I. XXXXX, Le azioni cit., p. 425, nt. 188. Proprio dalla formulazione dell’art. 1447, c. 2, c.c., qualcuno inferisce che l’azione di rescissione ex art. 1447 c.c. sia applicabile ai soli contratti di prestazione d’opera: v. X. XXXXXXXXX, Dei contratti cit., p. 523.
(176) La dottrina non ha mancato di rilevare che le risoluzioni di diritto presentano notevoli vantaggi pratici. In primo luogo, il contratto si scioglie “economicamente” al di fuori delle aule giudiziarie, e non al termine di un lungo iter processuale. In secondo luogo, il rischio inerente all’iniziativa risolutoria è limitato e lo scioglimento del contratto più sicuro. In terzo luogo, questa forma di risoluzione assicura la celerità dei traffici. Nel caso della risoluzione per inadempimento, poi, l’agilità con cui il rimedio può essere azionato (i) ne potenzia l’efficacia deterrente e (ii) torna utile anche alla parte inadempiente, la quale acquista immediatamente la libertà di tornare sul mercato e concludere un contratto sostitutivo, ed è tenuta a risarcire un danno inferiore. In proposito, v. X. XXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, Padova, 2004, p. 248; X. XXXXXXXX, sub art. 1454, in X. XXXXXXXX – X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXXX, Della risoluzione per inadempimento, tomo I, 1, in X. XXXXXXX (a cura di), Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1990, p. 433; X. XXXXXXXXX, Risoluzione giudiziale e «di diritto»: orientamenti e problemi, in X. XXXXX (a cura di), Rimedi – 2, in Trattato del contratto, diretto da
X. XXXXX, xxx. X, Xxxxxx, 0000, p. 148; X. XXXXXXXXX, Risoluzione per inadempimento cit., pp. 48, 68-69, 85; X. XXXXXXXX, Importanza dell’inadempimento e autonomia negoziale nella risoluzione di diritto, in Studium iuris 2014, p. 831, spec. 838.
consegue che il contratto risolubile è un atto valido, al quale l’ordinamento consente di produrre effetti, seppure in via provvisoria (177). Ed è proprio l’efficacia del contratto, mai la sua validità, ad essere intaccata dall’effetto di risoluzione (178).
9.1. La risoluzione per inadempimento
La prima forma di risoluzione cui occorre dedicarsi è la risoluzione per inadempimento. In questa ipotesi, l’effetto di risoluzione non si presenta organico, ma si dirama in una pluralità di fattispecie costitutive eterogenee tra loro. Il fatto che tutte hanno in comune è l’inadempimento, che si ha in ogni situazione in cui, in violazione di un obbligo giuridico, il
xxxxxxxx non soddisfa l’interesse del creditore, nel tempo e nel modo dovuti.
I prossimi paragrafi saranno dedicati all’analisi di ciascuna delle citate fattispecie, con un ordine espositivo per la prima volta divergente da quello utilizzato dal legislatore: si comincerà con l’esame delle forme di risoluzione previste dagli artt. 1454, 1456 e 1457 c.c., per terminare con l’indagine relativa alla risoluzione ex art. 1453 c.c. La scelta di allontanarsi dalla sequenza codicistica è dettata da due ragioni: in primis, pare preferibile cominciare dalle ipotesi che, come subito si vedrà, suscitano minori dissensi interpretativi, per cominciare a individuare alcuni punti fermi; in secundis, le tre forme di risoluzione disciplinate dalle prime norme citate, e il loro modo di operare, giocano un ruolo nella scelta relativa alla natura della quarta forma di risoluzione e nelle argomentazioni che la sorreggono.
9.1.1. La diffida ad adempiere
Un contratto può anzitutto essere risolto per inadempimento ai sensi dell’art. 1454 c.c.,
mediante una diffida ad adempiere.
Come noto, la diffida ad adempiere è una dichiarazione con la quale il contraente fedele intima alla controparte di provvedere all’adempimento entro un congruo termine, con l’espresso avvertimento che, ove il termine fissato decorra senza che si faccia luogo all’adempimento, il contratto s’intenderà da quel momento risolto. Gli studiosi si mostrano unanimi nel ritenere che siffatta dichiarazione abbia carattere unilaterale recettizio (e quindi produca effetto dal momento in cui perviene al destinatario: artt. 1334 e 1335 c.c.) e debba rivestire forma scritta ad substantiam. Essa deve sempre indicare: (i) il termine concesso per l’adempimento in modo specifico, non essendo sufficiente la generica intimazione ad adempiere “entro un congruo termine” (179); (ii) la menzione dell’effetto risolutivo per il caso
(177) Cfr. X. XXXXXXX, L’ordinamento giuridico cit., p. 110; X. XXXXXXXXX, voce Annullabilità cit., p. 2.
(178) Cfr. X. XXXXXX, La teoria delle vicende del rapporto giuridico cit., p. 271 (implicitamente); I. XXXXX, Le azioni cit., p. 317, secondo cui “il contratto, in sé considerato, è e resta valido, mentre si scioglie il rapporto contrattuale venuto in essere tra le parti”; X. XXXXX, Il contratto cit., p. 875, per il quale “la risoluzione colpisce non il contratto, ma direttamente e solo i suoi effetti: rende il contratto inefficace, senza toccarne la validità”;
X. XXXXXXXXX, voce Annullabilità cit., p. 2, che precisa che la risoluzione ha “riflessi sulla efficacia” del
contratto.
(179) Sulla recettizietà della diffida, v. C. M. BIANCA, Diritto civile, X. Xx xxxxxxxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, p. 333; X. XXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento cit., p. 250; X. XXXXXXXXXXX, voce Risoluzione del contratto, in Noviss.
in cui il debitore non assolva ai propri obblighi entro il termine fissato, così da consentire di
accertare le intenzioni risolutive dell’intimante (180).
Vediamo qual è la modalità con cui l’effetto di risoluzione si produce nel caso in esame.
Il primo elemento dello schema è l’art. 1454 c.c., che individua le diverse componenti della fattispecie astratta dell’effetto risolutorio.
Innanzitutto, occorre che sussista l’inadempimento, le cui caratteristiche hanno costituito a lungo – e costituiscono ancora – terreno di scontro tra gli interpreti. Chi reputa che l’inadempimento debba essere sempre imputabile al contraente infedele fronteggia chi, all’opposto, opina che lo stesso possa anche non esserlo (181). Inoltre, sebbene vi sia
Dig. it., vol. XVI, Torino, 1969, p. 126, spec. 141; X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, in X. XXXXXXXXX – M. D’AURIA – F. GALBUSERA, Risoluzione dei contratti, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, Napoli, 2013, p. 71. Sulla forma scritta ad substantiam, v. C. M. XXXXXX, Diritto civile, V cit., p. 333;
X. XXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento cit., p. 269; X. XXXXXXXXXXX, voce Risoluzione cit., p. 142; C. DE MENECH, Diffida ad adempiere e risoluzione “di diritto” ex art. 1454 c.c., in Contratti 2013, p. 703, spec. 705; X. XXXXXX, voce Diffida ad adempiere, in Enc. dir., vol. XII, Milano, 1964, p. 509, spec. 510; X. XXXXX, Il contratto cit., p. 903; X. XXXXXXXXXXXX, Sulla disponibilità degli effetti della diffida ad adempiere da parte dell’intimante, in Giur. it. 1988, I, I, p. 447, spec. 454. Sulla necessità della determinazione del termine concesso al debitore, v. X. XXXXXXXX, sub art. 1454 cit., p. 441; X. XXXXXX, voce Diffida cit., p. 509; X. XXXXX, Il contratto cit., p. 903; X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit., p. 76. In giurisprudenza, x. Xxxx. Xxxxxxx, 0 aprile 2015, n. 1061, in DeJure.
(180) Sottolineano l’imprescindibilità di tale indicazione G. F. BASINI, L’importanza dell’inadempimento e la diffida ad adempiere, in Xxxxxxxxx 1995, p. 549, spec. 550-551; C. M. XXXXXX, Diritto civile, V cit., p. 334; X. XXXXXXXX, sub art. 1454 cit., p. 441; C. DE MENECH, Diffida ad adempiere cit., p. 706; X. XXXXXX, voce Diffida cit., p. 509;
X. XXXXX, Il contratto cit., p. 903; X. XXXXXXXXXXXX, Sulla disponibilità cit., p. 454, che dà rilievo all’“esigenza che sia accertata l’effettiva direzione dell’intento dell’intimante alla produzione dell’effetto risolutivo”; X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit., p. 77, il quale precisa che la diffida che non contiene tale avvertimento non è efficace “ad effetti risolutori”.
(181) Con il termine “imputabilità” si intende “la riferibilità di un fatto al comportamento del soggetto, l’ascrivibilità di una determinata conseguenza alla sfera di controllo del soggetto stesso”: la definizione è di X. XXXXXXX, Risoluzione del contratto e imputabilità dell’inadempimento, Napoli, 1988, p. 11.
Nel primo senso indicato nel testo, cfr. C. M. XXXXXX, Diritto civile, V cit., p. 336; X. XXXXX, La tempestiva costituzione in giudizio del convenuto quale condizione per far valere le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio. La diffida ad adempiere ed i suoi presupposti per la risoluzione del contratto, in Foro pad. 2009, I, p. 130, spec. 138; I. XXXXX, Le azioni cit., p. 326; X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit., p. 70, che ne individua la ragione nella circostanza che la diffida ad adempiere sia disciplinata nella stessa sezione dedicata alla risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c., in cui l’inadempimento è imputabile (in proposito, v. infra, par. 9.1.4). Nel secondo senso si esprimono X. XXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento cit., p. 263, sulla base del seguente ragionamento: “la diffida ad adempiere, infatti, si può fondatamente ritenere che possa assumere la valenza anche di una costituzione in mora del contraente inadempiente. Questi, allora, quale debitore costituito in mora, sarebbe tenuto a sopportare anche le conseguenze dovute a cause a lui non imputabili, ai sensi dell’art. 1221 c.c. Sarebbe, perciò, contrario ai principi limitare la risolubilità del contratto all’inadempimento imputabile (rectius colpevole)”; X. XXXXXXXX, sub art. 1454 cit., p. 437, per la quale lo scioglimento del contratto costituisce “solo un rimedio ai difetti del sinallagma” e “la rilevanza dell’imputabilità rimane circoscritta alle conseguenze risarcitorie”; X. XXXXXXXXX, Inadempimento e risoluzione del contratto: un punto di vista sulla giurisprudenza, in Danno e resp. 2008, p. 261, spec. 264, secondo cui “la rilevanza accordata all’imputabilità dell’inadempimento […] determina una situazione di asimmetria informativa tra le parti, rendendo l’iniziativa risolutoria estremamente rischiosa. Siccome l’imputabilità dell’inadempimento è un fattore interno alla sfera del debitore, il creditore desideroso di affrancarsi dal rapporto contrattuale non dispone di tutte le informazioni necessarie per valutare la fondatezza dell’istanza risolutoria. Il contraente che promuove la risoluzione e interrompe l’attuazione del rapporto contrattuale corre il rischio di incorrere in responsabilità, in quanto la sua iniziativa può risultare infondata in dipendenza di una circostanza che non ha avuto la possibilità di conoscere”;
X. XXXXXXX, Risoluzione cit., pp. 42-43.
consenso sulla necessità che l’inadempimento sia grave ai sensi dell’art. 1455 c.c. (182), chi ritiene che la gravità debba manifestarsi in concreto si scontra con chi crede che possa essere solo potenziale (183), e chi pensa che debba sussistere al momento della ricezione della diffida bisticcia con chi asserisce che debba trasparire al momento della scadenza del termine concesso al debitore (184).
(182) Salvi rarissimi casi: x. Xxxx. Xxxxx, 0 dicembre 2017, n. 2612, e Cass., 17 agosto 2011, n. 17337, per i quali, “tenendo conto della lettera della norma (di cui all’art 1454 c.c.) e considerato che la stessa non menziona in alcun modo l’importanza dell’inadempimento, neppure con un semplice rinvio formale alla previsione di cui all’art. 1455 c.c. se ne deve dedurre che il grave inadempimento non assurge ad elemento essenziale della risoluzione di diritto per diffida ad adempiere, al pari di quanto accade nelle altre due ipotesi di risoluzione per clausola espressa e per termine essenziale, essendo presupposto imprescindibile della sola risoluzione giudiziale”.
Secondo la tesi più equilibrata, l’importanza dell’inadempimento deve essere valutata sia sulla base di criteri soggettivi (quali l’interesse concreto e attuale del creditore, l’intenzione delle parti, l’atteggiamento incolpevole, la tempestiva riparazione, la protratta tolleranza del contraente fedele) sia sulla base di criteri oggettivi (l’economia del contratto, l’equilibrio tra le prestazioni, l’entità della violazione, sia in astratto, sia in concreto, in relazione al pregiudizio effettivamente causato all’altro contraente): v. X. XXXXXXXX, voce Risoluzione del contratto per inadempimento, in Enc. dir., vol. XL, Milano, 1989, p. 1307, spec. 1322 ss.; X. XXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento cit., p. 62; X. XXXXXXXX, Importanza dell’inadempimento cit., pp. 832-833; X. XXXXXXXX, L’atto unilaterale di risoluzione per inadempimento, Torino, 2013, pp. 78-79. In giurisprudenza, x. Xxxx., 0 xxxxxx 0000, x. 00000; Cass., 18 febbraio 2008, n. 3954; Cass., 7 febbraio 2001, n. 1773.
(183) La prima soluzione è quella nettamente maggioritaria: cfr. G. G. AULETTA, Risoluzione e rescissione dei contratti, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1948, p. 641, spec. 646-647, secondo cui l’art. 1455 c.c., “sia per la sua dizione generica che per la sua collocazione, va riferito così alla risoluzione giudiziale dell’art. 1453 come alla risoluzione per diffida dell’art. 1454 […], altrimenti, sarebbe facile eludere il divieto della non scarsa importanza, ricorrendo alla risoluzione per diffida invece che alla risoluzione per sentenza”; G. F. BASINI, L’importanza dell’inadempimento cit., passim; X. XXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento cit., p. 260; X. XXXXX, La tempestiva costituzione cit., p. 138; X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento cit., p. 42; R. E. CERCHIA, Quando il vincolo contrattuale si scioglie. Unicità e pluralità di temi e problemi nella prospettiva europea, Milano, 2012, p. 124; X. XXXXXXXX, sub art. 1454 cit., p. 434; I. XXXXX, Le azioni cit., p. 326; A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva cit., p. 74; X. XXXXX, L’imputabilità e l’importanza dell’inadempimento nella clausola risolutiva, Torino, 1997, p. 164, per cui la constatazione dell’effettiva gravità dell’inadempimento serve ad evitare che la risoluzione per diffida venga asservita al “possibile interesse del creditore a speculare sull’inadempimento, cioè a giuridicizzare una mera rimeditazione sulla convenienza dell’affare di già concluso”.
Nel secondo senso si esprime, invece, X. XXXXXXXXX, Offerta tardiva della prestazione e rifiuto del creditore: vantaggi e inconvenienti di una risoluzione «atipica», in Riv. dir. civ. 2007, p. 509, spec. 529-530, il quale precisa che la gravità si compone di due profili: la rilevanza della prestazione ineseguita nell’economia del contratto e l’entità della lesione arrecata al creditore. Certamente l’inadempimento deve riguardare una prestazione di importanza non secondaria nell’economia del contratto, ma può anche non avere ancora leso gravemente l’interesse che ha indotto il creditore a contrarre; in quest’ottica, la gravità dell’inadempimento non è attuale, ma solo potenziale. Cfr. anche X. XXXXXXX, Importanza dell’inadempimento e diffida ad adempiere, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1955, p. 655, spec. 656 ss., secondo cui la valutazione della gravità dell’inadempimento deve essere effettuata con diversi metri di giudizio, a seconda del grado di adempimento della prestazione del debitore.
Un’ultima notazione: quegli autori che individuano sia l’imputabilità sia la gravità quali caratteri necessari del fatto “inadempimento” concludono che, sotto tale profilo, la risoluzione ex art. 1454 c.c. condivida i medesimi presupposti della risoluzione ex art. 1453 c.c. (su cui v. infra, par. 9.1.4); così, per esempio, X. XXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento cit., p. 258; X. XXXXXXXX, sub art. 1454 cit., p. 434.
(184) Propendono per la prima soluzione X. XXXXXXXX, sub art. 1454 cit., p. 437, per la quale la diffida non può essere validamente esercitata “se non si è già avuto quell’inadempimento di non scarsa importanza che la legge pone come circostanza imprescindibile dello scioglimento del rapporto contrattuale”; M. G. CUBEDDU, L’importanza dell’inadempimento, Torino, 1995, p. 297 ss., anche nt. 67; X. XXXXX, L’imputabilità cit., p. 165. Nello stesso senso, in giurisprudenza, x. Xxxx., 00 novembre 2009, n. 25040; Cass., 13 marzo 2006, n. 5407. Prospettano, invece, la seconda ricostruzione C. M. XXXXXX, Diritto civile, V cit., p. 337; X. XXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento cit., pp. 261-262, il quale sottolinea come “il pieno compimento della fattispecie, di
In secondo luogo, occorre che intervenga una diffida ad adempiere, che possieda i connotati supra delineati e che provenga dalla parte che abbia adempiuto alle proprie obbligazioni. Ciò è necessario in quanto l’eventuale stato di inadempienza del diffidante consentirebbe alla controparte di sollevare l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. e impedire così la risoluzione del contratto (185). Il termine concesso con la diffida non può essere inferiore a quindici giorni, salvo che le parti si siano accordate diversamente o salvo che risulti congruo un termine inferiore, alla luce della natura del contratto o degli usi vigenti nel mercato in cui lo stesso si inscrive (art. 1454, c. 2, c.c.) (186).
In terzo luogo, occorre che l’inadempimento perduri fino alla scadenza del termine.
La componente fattuale dello schema di produzione dell’effetto di risoluzione è costituita dal concreto verificarsi del fatto “inadempimento”. Quando ciò accade, sorge in capo al contraente insoddisfatto un diritto potestativo, che rappresenta il terzo addendo della fattispecie costitutiva in senso stretto dell’effetto di risoluzione e che viene esercitato nelle forme della diffida ad adempiere (187). A quest’ultima si aggiunge, poi, un ulteriore elemento meramente fattuale, ossia la permanenza dell’inadempimento sino alla scadenza del congruo termine (188).
Si tratta ora di capire se, una volta verificatisi i fatti descritti dalla norma e una volta esercitato il diritto potestativo di risoluzione nelle forme legittime, l’effetto di risoluzione venga alla luce o se, a tale scopo, occorra anche una pronuncia giudiziale.
cui all’art. 1454 c.c., si ha soltanto allo spirare del termine intimato. È in questo momento che si verifica l’effetto risolutorio; e quindi in questo momento – non prima – devono concorrere tutti i requisiti necessari”; X. XXXXXXX, La diffida ad adempiere e la gravità dell’inadempimento, in AA. VV., Studi in onore di Xxxxxxx Xxxxxxxx, vol. II, Torino, 1960, p. 965, spec. 971; X. XXXXXXXX, L’atto unilaterale cit., p. 68. In giurisprudenza, x. Xxxx., 30 giugno 2013, n. 2217, per cui l’accertamento giudiziale della gravità dell’inadempimento deve essere effettuato “in relazione alla situazione verificatasi alla scadenza del termine”; Cass., 18 aprile 2007, n. 9314; Cass., 20 marzo 1991, n. 2979, secondo cui “la valutazione della gravità dell’inadempimento va operata con esclusivo riferimento al momento della scadenza del […] termine”.
(185) Cfr. X. XXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento cit., pp. 256, 264; X. XXXXXXXXX, Dei contratti cit., p. 555. In giurisprudenza, x. Xxxx., 4 maggio 1994, n. 4275.
(186) Chiaramente, il termine non congruo rende la diffida inefficace: v. X. XXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento cit., p. 275. Il giudizio di congruità non può avere ad oggetto esclusivamente la situazione del debitore, e quindi la concreta possibilità che riesca ad approntare tutti i mezzi necessari per l’esecuzione della prestazione (anche perché l’adempimento avrebbe dovuto essere preparato, almeno in parte, prima del ricevimento della diffida); esso deve altresì prendere in considerazione il sacrificio che il debitore sopporta a causa dell’attesa: cfr. X. XXXXXXXX, sub art. 1454 cit., p. 445. Da un punto di vista probatorio, sarà il diffidante a dover dimostrare la congruità di un termine infraquindicinale, e sarà invece il debitore a dover provare l’incongruità di quello pari o superiore: così X. XXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento cit., pp. 274-275. Contra, X. XXXXXXXXX, Offerta tardiva cit., p. 531, per cui l’onere della prova relativa alla congruità del termine grava sempre sul creditore.
(187) Cfr. I. XXXXX, Le azioni cit., p. 318, per la quale “il verificarsi del fatto «inadempimento» fa nascere un potere in capo alla parte”; X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit., p. 71, per cui “la diffida ad adempiere costituisce […] dichiarazione di volontà di esercizio di un diritto potestativo del contraente creditore”.
(188) Per mere ragioni di completezza, si ricorda che un risalente orientamento giurisprudenziale considerava necessaria, ai fini dell’insorgere dell’effetto risolutivo, anche un’ultima e definitiva scelta da parte del contraente innocente: x. Xxxx., 00 xxxxxx 0000, x. 0000, xx Xxxx. xx. 1988, I, 1, p. 448, con nota di X. XXXXXXXXXXXX, Sulla disponibilità cit.; Cass., 23 aprile 1977, n. 1530, in Giur. it. 1978, I, 1, p. 536.
Ancora una volta, è lo stesso legislatore a fornire risposta al quesito. L’art. 1454, c. 1, c.c. dispone che, “decorso inutilmente detto termine [ossia quello fissato nella diffida], il contratto s’intenderà senz’altro risolto”. L’art. 1454, c. 3, c.c. rafforza il concetto prevedendo che “decorso il termine senza che il contratto sia stato adempiuto, questo è risoluto di diritto”. Ne segue che il diritto potestativo di risoluzione attuabile tramite la diffida ad adempiere è un diritto potestativo sostanziale e che la sequenza che conduce all’insorgere dell’effetto di risoluzione è così composta: norma – fatto – potere sull’an – effetto (189). Le norme sono in questa occasione a tal punto perentorie e inequivocabili che nessuno, né in dottrina né in giurisprudenza, ha mai tentato di prospettare soluzioni alternative.
Ovviamente, sarebbe ingenuo pensare che, data la natura sostanziale del diritto potestativo, l’autorità giurisdizionale non compaia mai sulla scena. Come si è visto, non basta un inadempimento qualunque per poter attivare la diffida e le modalità con cui questa deve essere posta in essere sono rigorosamente disciplinate dalla legge. È ben possibile, allora, che il contraente asseritamente inadempiente instauri un giudizio, al fine di contestare la propria inadempienza e/o la legittimità dell’intimazione della controparte. Se ciò avvenisse, il giudizio sarebbe inevitabilmente un giudizio di mero accertamento e la sentenza pronunciata all’esito dello stesso avrebbe natura dichiarativa. Alle medesime conclusioni si perverrebbe altresì ove l’azione fosse instaurata dallo stesso contraente che ha fatto ricorso alla risoluzione di diritto, come passo prodromico rispetto a una domanda di condanna della controparte alla restituzione della prestazione già corrisposta o al risarcimento dei danni (190).
(189) Cfr. Relazione del Ministro Guardasigilli al Codice Civile del 1942, n. 661, ove si legge che “la persistente inadempienza del debitore provoca la risoluzione ipso iure”. In tali termini, v. G. F. BASINI, Risoluzione del contratto e sanzione dell’inadempiente, Milano, 2001, p. 126, secondo cui, nei casi in esame, “al creditore viene attribuito un potere ‘costitutivo’”; C. M. XXXXXX, Diritto civile, V cit., p. 338; X. XXXXX, La tempestiva costituzione cit., p. 134;
X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento cit., pp. 42-43, secondo il quale la diffida ad adempiere è una fattispecie di risoluzione riconducibile “a poteri giuridici di autotutela che l’ordinamento attribuisce ai privati e che rientrano […] nella categoria dei diritti potestativi sostanziali, secondo lo schema fatto/atto/effetto”; X. XXXXXXX, Spiegazioni cit., vol. I, p. 32; X. XXXXXXXXXXX, voce Risoluzione cit., pp. 141-142, per cui “la diffida produce, al momento della scadenza del termine in essa indicato, l’effetto finale e principale che le è proprio: vale a dire la risoluzione del contratto”; C. DE MENECH, Diffida ad adempiere cit., p. 709, chiarissima nel dire che l’effetto risolutorio “si realizza nel momento in cui (e sempre che) l’inadempienza persista ancora alla scadenza del termine fissato”; X. XXXXXXXXX, Il creditore può rinunciare alla risoluzione «di diritto»? Luci ed ombre di una regola giurisprudenziale, in Xxx. xxx. xxx. 0000, XX, x. 00, xxxx. 00; X. XXXXXX, Risoluzione per inadempimento, in Riv. dir. civ. 1983, II, p. 184, spec. 189; X. XXXXXXXXX, La tutela giurisdizionale cit., p. 132; X. XXXXXX, voce Diffida cit., p. 509; I. XXXXX, Le azioni cit., pp. 327, 394; A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva cit., p. 74, secondo il quale la dichiarazione di diffida è “atto di esercizio di un vero e proprio potere sostanziale”; X. XXXXX, Il contratto cit., p. 901 ss.; X. XXXXXXXXX, Istituzioni cit., p. 335.
(190) Dottrina e giurisprudenza sono in proposito unanimi. Quanto alla prima, v. X. XXXXXXX, Colpa dell’obbligato ed operatività della clausola risolutiva espressa, in Contratti 2003, p. 231, spec. 232; X. XXXXXXX, Diritto processuale cit., vol. I, p. 111; G. F. BASINI, L’importanza dell’inadempimento cit., p. 550; C. M. XXXXXX, Diritto civile, V cit., p. 338; X. XXXXX, La tempestiva costituzione cit., p. 134; X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento cit., p. 39; R. E. CERCHIA, Quando il vincolo contrattuale si scioglie cit., p. 131; X. XXXXXXXXXXX, voce Risoluzione cit., p. 142; X. XXXXXXXXX, Dei contratti cit., p. 555; X. XXXXXXXXXXXX, Sulla disponibilità cit., p. 452, nt. 17; X. XXXXXXXX – X. XXXXXXXXXXX, Manuale cit., p. 701; X. XXXXXXXXX, Istituzioni cit., p. 335; X. XXXXX, L’imputabilità cit., pp. 163-164. Quanto alla giurisprudenza, cfr. Trib. Torino, 6 novembre 2008, n. 7297, in Foro pad. 2009, I, p. 124, con nota di X. XXXXX, La tempestiva costituzione cit.; Cass., 13 marzo 2006, n. 5407; Cass., 2 dicembre 2005, n. 26232, in Corr. giur. 2006, p. 1097; Cass., 18 maggio 1987, n. 4535, in Giur. it. 1988, I, I, p. 448, con nota di X. XXXXXXXXXXXX, Sulla disponibilità cit.
L’azione di mero accertamento non è soggetta a prescrizione; il che significa che, una volta realizzatosi l’effetto di risoluzione sul piano stragiudiziale, si può procedere a renderlo incontrovertibile in ogni momento. Tuttavia, l’eventuale prescrizione delle azioni di ripetizione o di risarcimento dei danni potrebbe causare un difetto di interesse alla pronuncia nel caso concreto (191).
Alla luce della disamina effettuata, la diffida appare, dunque, una forma di risoluzione particolarmente equilibrata. Essa rappresenta uno strumento celere ed economico di autotutela, posto a favore del contraente deluso, al quale è lasciata la facoltà di avvalersene o meno. D’altro canto, essa risponde anche all’esigenza di tutelare il debitore, il quale viene avvertito dell’intenzione di controparte di sciogliersi dal vincolo contrattuale e posto nelle condizioni di mantenere in piedi un rapporto che può essergli utile (192).
9.1.2. La clausola risolutiva espressa
La seconda species di risoluzione per inadempimento che viene in rilievo è la risoluzione per clausola risolutiva espressa. Ai sensi dell’art. 1456 c.c., “1. I contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. 2. In questo caso, la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva”.
La previsione non lascia dubbi circa la tecnica con cui si produce l’effetto sostanziale di risoluzione, rispetto alla quale gli interpreti sono unanimi; viceversa, anche in questo caso diversi dissensi si registrano con riferimento al presupposto meramente fattuale dell’inadempimento. Ma procediamo con ordine.
Il primo fattore dell’operazione genetica dell’effetto risolutivo è il citato art. 1456 c.c., cui segue la concreta realizzazione di quanto compone la sua fattispecie astratta.
Tutto comincia con l’inserimento nel testo dell’accordo di una clausola risolutiva espressa (193), che deve necessariamente individuare obbligazioni specifiche ed esplicitare che l’inadempimento delle stesse comporta la risoluzione dell’intero rapporto contrattuale (194).
(191) La corretta osservazione è di G. SICCHIERO, La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit., pp. 51-52. V. anche X. XXXXXXXXX, Istituzioni cit., p. 335.
(192) Cfr. X. XXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento cit., p. 248; R. E. CERCHIA, Quando il vincolo contrattuale si scioglie cit., p. 131; X. XXXXXXXX, sub art. 1454 cit., p. 434.
(193) Non è prescritta una forma particolare per la validità della clausola, perciò si ritiene che la forma da adottare sia quella necessaria per la validità dell’intero contratto: cfr. X. XXXXXXXXXXX, voce Risoluzione cit., p. 142.
(194) Costituiscono, invece, mere clausole di stile, e sono considerate come non apposte, tutte quelle clausole che si riferiscano genericamente al mancato rispetto di un qualsiasi obbligo derivante dal contratto. Si ritiene, infatti, che in simili occasioni le parti abbiano semplicemente voluto ripetere quanto la legge già dispone con l’art. 1453 c.c. (su cui infra, par. 9.1.4). Il che non significa, si badi bene, che il rimedio di cui all’art. 1456 c.c. non possa assistere tutte le obbligazioni nascenti dal contratto, dovendo sempre limitarsi ad alcune di esse. Non importa che la clausola risolutiva espressa contempli una, qualcuna o tutte le obbligazioni contrattuali; ciò che rileva è che le stesse vengano indicate in forma specifica e non in forma generica. Sul contenuto della clausola risolutiva espressa, v. G. G. AULETTA, La risoluzione per inadempimento, Milano, 1942, p. 401; G. F.
Si deve, poi, verificare proprio quel particolare inadempimento contemplato dalla clausola (195). Secondo la tesi più accreditata, l’inadempimento deve essere imputabile al contraente infedele: ciò viene interpretato da alcuni nel senso che l’inadempimento deve essere colpevole, da altri nel senso che deve essere al debitore oggettivamente imputabile (196). Una corrente minoritaria ritiene, invece, che il problema debba più correttamente essere impostato come problema di ermeneutica contrattuale: se le parti che hanno redatto la clausola hanno inteso riferirsi all’inadempimento colposo, solo quest’ultimo potrà validamente costituire presupposto della risoluzione del contratto; se viceversa le parti hanno altresì attribuito rilevanza all’inadempimento oggettivamente imputabile, anche quest’ultimo renderà il contratto risolubile (197). Quanto, invece, al connotato della gravità, l’orientamento maggioritario vuole che la stessa sia in re ipsa: sono le parti che, nel momento in cui stipulano il contratto, effettuano una valutazione relativa a quali inadempienze sono a tal punto importanti da rendere l’accordo risolvibile e quali, viceversa, non lo sono; e siffatta originaria scelta non è più sindacabile da alcuno (198).
BASINI, Risoluzione del contratto cit., p. 244; C. M. XXXXXX, Diritto civile, V cit., p. 342; X. XXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento cit., p. 285 ss.; F. D. XXXXXXXX, voce Clausola risolutiva, in Enc. dir., vol. VII, Milano, 1960, p. 196, spec. 197-198; X. XXXXXXXXXXX, voce Risoluzione cit., pp. 142-143; I. L. XXXXXX, Clausola risolutiva espressa e condizione risolutiva tra autonomia contrattuale e automatismo della risoluzione, in Nuova giur. civ. comm. 2010, I, p. 242, spec. 243; X. XXXXX, Il contratto cit., p. 905; X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit., pp. 44-45; X. XXXXXXXXX, Istituzioni cit., p. 332. In giurisprudenza, cfr. Cass., 18 dicembre 2015, n. 25455; Cass., 27 gennaio 2009, n. 1950; Cass., 6 aprile 2001, n. 5147.
(195) Così G. F. BASINI, Risoluzione del contratto cit., p. 246; C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., p. 343, per il quale “ai fini della risoluzione occorre che sussista l’inadempimento previsto dalla clausola”; X. XXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, Milano, 2012, p. 387, perentorio nel precisare che l’inadempimento “deve avere ad oggetto esattamente la medesima obbligazione dedotta nella clausola risolutiva espressa”.
(196) Coloro che abbracciano la prima ricostruzione precisano che anche in questo settore opera la presunzione di colpa di cui all’art. 1218 c.c.: v. X. XXXXXXX, Colpa dell’obbligato cit., p. 234, la quale evidenzia che, se non si concedesse al debitore “la possibilità di dimostrare che l’inadempimento è dovuto a causa a lui non imputabile, ex art. 1218 Codice civile, si opererebbe una ingiustificata alterazione del sistema risolutorio ad esclusivo vantaggio del creditore”; F. D. XXXXXXXX, voce Clausola risolutiva cit., p. 198; I. L. XXXXXX, Clausola risolutiva cit., p. 245, per il quale la clausola risolutiva espressa non può “dar luogo ad una responsabilità senza colpa”;
X. XXXXXXXX, La risoluzione cit., pp. 387-388; G. SICCHIERO, La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit., p.
41. Sulla necessità che l’inadempimento sia imputabile e colpevole si sono attestati anche i giudici, sia di legittimità che di merito: cfr. Trib. Bari, 27 febbraio 2017, n. 1060; Trib. Bergamo, 7 luglio 2008, in Obblig. e contr. 2009, p. 708, con nota di I. M. XXXXXXXX, La clausola risolutiva espressa tra principio di buona fede e importanza dell’inadempimento; Cass., 6 febbraio 2007, n. 2553, in Contratti 2007, p. 965, con nota di X. XXXXXXXXXX, Imputabilità dell’inadempimento e clausola risolutiva espressa; Cass., 5 agosto 2002, n. 11717, in Contratti 2003, p. 228, con nota di X. XXXXXXX, Colpa dell’obbligato cit.
Di diverso avviso sono coloro che credono che l’inadempimento debba essere imputabile nel senso oggettivo, e quindi oggettivamente riferibile alla condotta del soggetto agente, senza che occorra anche la colpevolezza della stessa: così X. XXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento cit., p. 298; X. XXXXXXXXX, Per il superamento della colpa nell’ipotesi di clausola risolutiva espressa, in Riv. dir. civ. 1978, II, p. 252, spec. 265 ss.
Esclude, invece, che l’inadempimento debba essere imputabile al debitore X. XXXXXXXXX, Inadempimento cit., p. 264.
(197) Si fanno portatori di tale distinzione G. G. AULETTA, Risoluzione e rescissione cit., p. 643; C. M. BIANCA,
Diritto civile, V cit., p. 344; X. XXXXXXX, Risoluzione cit., p. 41 ss.
(198) In tal senso si esprimono C. M. XXXXXX, Diritto civile, V cit., p. 344; X. XXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento cit., pp. 287, 295, per cui la gravità della violazione contrattuale “viene valutata a priori dalle parti, le quali […] stabiliscono che quel determinato comportamento, contrario agli obblighi assunti, è dotato di carica lesiva sufficiente ad intaccare gravemente il sinallagma, sì da giustificare la risoluzione del contratto”; F.
Il legislatore ha preferito astenersi dal conferire all’inadempimento un automatico effetto risolutivo, al fine di evitare che la risoluzione si ponga in contrasto con gli interessi del contraente adempiente (199). Così, ha previsto che, una volta violati gli specifici obblighi contrattuali descritti dalla clausola, sorga in capo alla parte creditrice un diritto potestativo alla risoluzione del contratto, il quale viene esercitato attraverso una dichiarazione recettizia con cui il contraente fedele manifesta la propria volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa. Tale diritto è inconfutabilmente un diritto potestativo sostanziale e provoca la risoluzione del rapporto contrattuale sul piano stragiudiziale, senza il ministero dell’autorità
X. XXXXXXXX, voce Xxxxxxxx xxxxxxxxxx xxx., x. 000; X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento cit., p. 42; R. E. CERCHIA, Quando il vincolo contrattuale si scioglie cit., p. 125; X. XXXXXXXX, voce Clausola risolutiva espressa, in Enc. giur. Treccani, vol. VI, Roma, 1988, p. 1, spec. 1; X. XXXXXXXXXXX, voce Risoluzione cit., p. 143; X. XXXXX, Inadempimento reciproco e caparra confirmatoria nel prisma della giurisprudenza, in Giur. it. 2017, p. 316, spec. 319; X. XXXXXXXXX, Dei contratti cit., p. 558; X. XXXXX, Il contratto cit., p. 905; X. XXXXXXXX, La risoluzione cit., p. 388;
X. XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit., p. 38; A. TORRENTE – X. XXXXXXXXXXX, Manuale cit., p. 700; X. XXXXXXX, Clausola risolutiva espressa, in Quadrimestre 1989, p. 685, spec. 690; X. XXXXXXXXX, Istituzioni cit., p. 332. In giurisprudenza, cfr. Trib. Roma, 3 giugno 2019, n. 11621, in DeJure; App. Firenze, 13 gennaio 2017, n. 1714, in DeJure, per cui “il giudice, chiamato ad accertare l’avvenuta risoluzione del contratto per l’inadempimento convenzionalmente sanzionato, non è tenuto a effettuare alcuna indagine sulla gravità dell'inadempimento stesso, avendone le parti anticipatamente valutato l’importanza, e, quindi, eliminato la necessità di un’indagine ad hoc, avuto riguardo all’interesse dell'altra parte”; Cass., 20 dicembre 0000, x. 00000; Trib. Bergamo, 7 luglio 2008, in Obblig. e contr. 2009, p. 708, con nota di I. M. XXXXXXXX, La clausola risolutiva cit.; Cass., 19 novembre 2004, n. 21886, per la quale “in presenza della clausola risolutiva espressa è preclusa ogni indagine sulla gravità dell’inadempimento”.
Nonostante l’ampio consenso di cui gode la ricostruzione in esame, esso non è del tutto granitico. Propendono per la sindacabilità della gravità dell’inadempimento I. M. XXXXXXXX, La clausola risolutiva cit., p. 721; X. XXXXXXXX, La clausola risolutiva espressa, Milano, 1998, pp. 52-53, per cui il giudice eventualmente adito deve sempre valutare la gravità dell’inadempimento rispetto all’interesse negoziale e all’economia del contratto, attraverso un giudizio di buona fede, al fine di impedire che chi invoca la clausola risolutiva espressa ne approfitti indebitamente; X. XXXXXXXX, Importanza dell’inadempimento cit., p. 835 ss., secondo la quale “l’interesse alla esatta esecuzione della prestazione dovuta non coincide necessariamente con quello prospettato nella fase di creazione del vincolo” e, quindi, “l’indagine sull’importanza dell’inadempimento deve tener conto non solo della distribuzione dei rischi effettuata dai contraenti in sede di stipulazione, ma anche dello sviluppo successivo del rapporto sulla base di un giudizio di buona fede, alla luce delle circostanze sopravvenute”; X. XXXXX, L’imputabilità cit., p. 176 ss.
Sussiste, poi, una tesi intermedia, secondo cui la valutazione di gravità non è necessaria nelle ipotesi in cui i contraenti abbiano puntualmente definito le modalità con cui l’inadempimento deve aver luogo, mentre è imprescindibile nella situazione inversa: v. X. XXXXX, Clausola risolutiva espressa e gravità dell’inadempimento, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1964, p. 421, spec. 424-425, il quale, a conclusione di un articolato ragionamento, scrive che “escludere sempre, a priori, qualsiasi potere del giudice di valutare la gravità dell’inadempimento verificatosi equivale praticamente a dire che anche violazioni non espressamente previste dalle parti possono portare a quella risoluzione del contratto che, invece, il legislatore vuole ricollegata solamente ad una valutazione diretta dei contraenti circa l’importanza che un dato risultato o una data modalità assumono nell’economia contrattuale”; C. A. FUNAIOLI, Effetti della clausola risolutiva espressa, in Foro it. 1949, IV, p. 81, spec. 83.
(199) Cfr. Relazione del Ministro Guardasigilli al Codice Civile del 1942, n. 661: “a tutela del creditore si è evitato l’effetto automatico assoluto […] della clausola risolutiva espressa. Tale automatismo potrebbe non corrispondere più all’interesse del creditore nell’atto in cui l’inadempimento si verifica”. V. anche R. E. CERCHIA, Quando il vincolo contrattuale si scioglie cit., p. 132, che fa notare come il creditore ben potrebbe preferire agire per l’adempimento; X. XXXXXXXXXXX, voce Risoluzione cit., p. 143; X. XXXXXXXXX, Il creditore cit., p. 30, per cui, “siccome il creditore, che non è stato pregiudicato in modo irreversibile, può conservare interesse per la prestazione, la legge pone a suo carico l’onere di manifestare la volontà di risolvere il contratto”; C. A. XXXXXXXX, Effetti della clausola risolutiva cit., p. 87; X. XXXXXXXX, La clausola risolutiva cit., pp. 19-20; X. XXXXX, Ritardo cit., p. 285; X. XXXXX, Il contratto cit., p. 906; X. XXXXXXXXX, Istituzioni cit., p. 332.
giurisdizionale: “la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva” (art. 1456, c. 2, c.c.) (200).
L’effetto sostanziale di risoluzione ex art. 1456 c.c., dunque, viene alla luce seguendo lo schema norma – fatto – potere sull’an – effetto. Eventuali giudizi che dovessero essere successivamente instaurati al fine di rendere lo scioglimento dell’accordo incontrovertibile sarebbero sempre giudizi di mero accertamento, e sarebbero sempre definiti da pronunce dichiarative, con le quali il giudice accerterebbe se si siano verificati o meno i presupposti della risoluzione, ma non modificherebbe la situazione giuridica sostanziale (201). In tali
(200) In proposito, v. A. ATTARDI, Diritto processuale cit., vol. I, p. 111; G. F. BASINI, Risoluzione del contratto cit., pp. 129-130; C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., p. 346; M. BORRIONE, La risoluzione per inadempimento cit., p. 300, per cui l’inadempimento “determina di per sé – in maniera diretta e immediata – non lo scioglimento del rapporto contrattuale, bensì il sorgere, in capo alla parte non inadempiente, del diritto a produrre tale scioglimento”; F. D. BUSNELLI, voce Clausola risolutiva cit., p. 199, per cui la dichiarazione del contraente fedele ha “funzione costitutiva”; “essa appare come causa efficiente della risoluzione ipso iure el contratto (rectius: del rapporto consequenziale), dato che questa costituisce l’effetto immediato e diretto della dichiarazione stessa”;
U. CARNEVALI, La risoluzione per inadempimento cit., pp. 42-43, secondo il quale la clausola risolutiva espressa è una fattispecie di risoluzione riconducibile “a poteri giuridici di autotutela che l’ordinamento attribuisce ai privati e che rientrano […] nella categoria dei diritti potestativi sostanziali, secondo lo schema fatto/atto/effetto”; M. COSTANZA, sub art. 1456, in L. NANNI – M. COSTANZA – U. CARNEVALI, Della risoluzione per inadempimento, tomo I, 2, in F. GALGANO (a cura di), Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2007, p. 66; M. COSTANZA, voce Clausola risolutiva cit., p. 1; C. A. FUNAIOLI, Effetti della clausola risolutiva cit., pp. 86-87, per il quale il diritto potestativo è “diritto di risolvere, non di considerare già risolto il contratto. Sicché la risoluzione si opera solo colla dichiarazione”; M. GRONDONA, La clausola risolutiva cit., pp. 13, 16, 18; G. IORIO, Ritardo cit., pp. 285, 288, per cui al contraente deluso è attribuita “una facoltà potestativa sanzionatoria ad esercizio non giudiziale: qui, infatti, la potestatività non passa attraverso il necessario controllo del giudice”; L. MONTESANO, La tutela giurisdizionale cit., p. 132, per il quale “non v’è luogo ad attuazione giurisdizionale di diritti potestativi” ex art. 1456 c.c.; U. NATOLI, Termine essenziale, in Riv. dir. comm. 1947, I, p. 221, spec. 229; I. L. NOCERA, Clausola risolutiva cit., p. 243; I. PAGNI, Le azioni cit., pp. 232, 318; A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva cit., p. 74, per cui la risoluzione ex art. 1456 c.c. si verifica “solo a seguito dell’esercizio del potere sostanziale di attribuire rilevanza al fatto inadempimento dedotto nella clausola”; V. ROPPO, Il contratto cit., p. 906; C. SCOGNAMIGLIO, Termine essenziale e interesse del creditore, in Giur. it. 1986, I, I, p. 691, spec. 695; A. TORRENTE – P. SCHLESINGER, Manuale cit., pp. 699-700; S. TRIFIRÒ, Clausola risolutiva cit.,
p. 692; P. TRIMARCHI, Istituzioni cit., p. 335. In giurisprudenza, v. Trib. Bari, 27 febbraio 2017, n. 1060, in DeJure; Trib. Milano, 13 luglio 2016, n. 9118, in DeJure, cristallino nell’affermare che, “in definitiva, gli elementi della fattispecie risolutiva ex art. 1456 c.c. sono: la esplicita e specifica menzione delle obbligazioni, inerenti a un contratto a prestazioni corrispettive, al cui inadempimento si intende ricollegare l’effetto risolutivo ipso iure; il verificarsi di un inadempimento imputabile e colpevole; la dichiarazione della parte non inadempiente di volersi avvalere della clausola; la persistenza dell’inadempimento al momento in cui avviene tale dichiarazione”; Cass., 31 ottobre 2013, n. 24564; Cass., 31 agosto 2009, n. 18920, in Nuova giur. civ. comm. 2010, I, p. 239, con nota di I. L. NOCERA, Clausola risolutiva cit., chiara nell’affermare che l’art. 1456 c.c. “consente alle parti di prevedere che, in caso di inadempimento, la parte creditrice abbia il potere (diritto potestativo) di risolvere immediatamente – senza ricorrere al giudice – il contratto”; Cass., 5 gennaio 2005, n. 167; Cass., 16 maggio 2002, n. 7178; Cass., 18 giugno 1997, n. 5455.
Occorre, comunque, ricordare che, secondo una corrente dottrinale, non vi sono preclusioni a che le parti si accordino per escludere la necessità della dichiarazione ai fini risolutori; in tal caso, l’effetto di risoluzione sorgerebbe secondo lo schema norma – fatto – effetto: v. G. IORIO, Ritardo cit., pp. 284-285; G. SICCHIERO, La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit., p. 50.
(201) La natura dichiarativa del provvedimento giudiziale è pacifica: v. A. ADDANTE, Colpa dell’obbligato cit., p. 232; G. F. BASINI, L’importanza dell’inadempimento cit., p. 550, il quale precisa che “l’eventuale intervento del giudice non è diretto a risolvere il contratto, ma soltanto a dichiarare che esso si è, appunto, risolto di diritto”;
C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., p. 346; M. BORRIONE, La risoluzione per inadempimento cit., p. 303; F. D. BUSNELLI, voce Clausola risolutiva cit., p. 200; A. DALMARTELLO, voce Risoluzione cit., p. 143; I. M. GONNELLI, La clausola risolutiva cit., p. 720; G. IORIO, Ritardo cit., pp. 286-287; G. MIRABELLI, Dei contratti cit., p. 562; I. L.
ipotesi, il giudice dovrebbe verificare che: il contratto della cui risoluzione si discute contenga una clausola risolutiva espressa; gli obblighi in essa descritti siano determinati; l’inadempimento abbia ad oggetto proprio uno di tali obblighi e sia imputabile al debitore; la dichiarazione di volersi avvalere della clausola sia giunta a conoscenza del destinatario. Al contrario, nessuna verifica dovrebbe essere operata circa l’importanza dell’inadempienza: nella misura in cui sia contemplata dalla clausola, essa è grave. In proposito, in dottrina si è correttamente osservato che il vero vantaggio della risoluzione per clausola risolutiva espressa è quello per cui, una volta verificatosi l’inadempimento previsto dal contratto e resa la dichiarazione risolutoria, il dichiarante è sicuro della risoluzione e può disporre della prestazione a suo carico. Conferire all’autorità giudiziaria il potere di indagare sull’importanza dell’inadempimento significherebbe distruggere tale vantaggio (202).
Anche rispetto alla risoluzione per clausola risolutiva espressa si può ripetere quanto osservato in sede di esame della diffida ad adempiere: l’azione di mero accertamento non si prescrive; tuttavia, potrebbe sussistere un difetto di interesse alla sua instaurazione ove le azioni di ripetizione e di risarcimento dei danni fossero, invece, già prescritte (203).
9.1.3. Il termine essenziale
Subito dopo la disciplina della risoluzione per clausola risolutiva espressa si trova quella della risoluzione per decorso di un termine essenziale.
La norma che dà avvio alla sequenza generatrice dell’effetto di risoluzione è l’art. 1457 c.c., a mente del quale “1. Se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale nell’interesse dell’altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole esigerne l’esecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all’altra parte entro tre giorni. 2. In mancanza, il contratto s’intende risoluto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione”.
Passando dalla fattispecie astratta alla fattispecie concreta, il primo fattore che viene in rilievo è l’effettiva presenza, nel quadro del regolamento contrattuale, di un termine essenziale. In via di prima approssimazione, può dirsi che una scadenza merita tale epiteto quando risulta che, per la parte nel cui interesse essa è fissata, il contratto perde la propria utilità economica se la scadenza non viene rispettata. Secondo l’insegnamento tradizionale, un termine può godere dell’attributo dell’essenzialità: (i) in senso oggettivo, quando è la
NOCERA, Clausola risolutiva cit., pp. 243-244; A. TORRENTE – P. SCHLESINGER, Manuale cit., p. 700; S. TRIFIRÒ, Clausola risolutiva cit., p. 693; P. TRIMARCHI, Istituzioni cit., p. 335. Nello stesso senso, in giurisprudenza, v. Cass., 24 maggio 2016, n. 10691; Cass., 6 febbraio 2009, n. 3039; Cass., 5 gennaio 2005, n. 167; Cass., 18 giugno 1997,
n. 5455, per cui “il giudice – la cui pronuncia, diversamente dalla risoluzione per grave inadempimento prevista dalla regola generale di cui agli artt. 1453 e 1455 c.c., ha natura dichiarativa e non costitutiva – deve accertare soltanto se la pattuizione configuri effettivamente una clausola risolutiva espressa e, in caso positivo, se si sia verificato l’inadempimento previsto nella stessa nonché se il creditore abbia esercitato (mediante la dichiarazione di volersi avvalere della clausola) il diritto di provocare la risoluzione del rapporto”.
(202) Così G. G. AULETTA, Risoluzione e rescissione cit., pp. 648-649. In termini analoghi, G. SICCHIERO, La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit., p. 38; P. TRIMARCHI, Istituzioni cit., p. 335. Contra, v. supra, nota 198.
(203) Cfr. G. SICCHIERO, La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit., pp. 51-52.
stessa natura della prestazione a esigere che essa sia eseguita tempestivamente (si pensi alla prestazione canora del tenore al concerto di Capodanno, o all’obbligazione della sarta che deve confezionare un abito da sposa); (ii) in senso soggettivo specifico, quando le parti qualificano espressamente una determinata prestazione come improrogabile; (iii) in senso soggettivo generale, quando è sistematicamente interesse delle parti, in determinate categorie di negozi, che alcune obbligazioni vengano adempiute entro una certa scadenza, anche se ciò non trova esplicita previsione nel testo del contratto (si pensi ai contratti di borsa). Ne segue che i criteri cui ci si deve appellare per vagliare l’essenzialità di un termine sono molteplici: tra questi, un ruolo preminente è da attribuire al dato letterale del negozio (204), alla natura della prestazione cui il termine accede, nonché alla tipologia di operazione che le parti vogliono concludere (205).
Il secondo elemento che compone la fattispecie dell’effetto di risoluzione è l’inadempimento, che, nell’ipotesi in esame, è sempre rappresentato dal mancato rispetto della scadenza. Anche riguardo a questa species di risoluzione per inadempimento, lo scontro relativo ai connotati che la violazione degli obblighi contrattuali deve presentare è acceso, anche se lievemente meno tumultuoso. Quanto all’imputabilità, si registrano tre diverse vedute: alcuni ritengono sufficiente la pura e semplice inadempienza oggettiva; altri credono che essa debba essere almeno imputabile al debitore, sebbene non necessariamente colposa; altri ancora opinano che l’inadempimento possa entrare a far parte della fattispecie costitutiva dell’effetto risolutivo solo se colpevole (206). Quanto all’importanza, invece, gli interpreti si attestano su posizioni omogenee e osservano che la gravità del mancato rispetto
(204) In proposito, la giurisprudenza è ferma nel ritenere che l’utilizzo dell’espressione “entro e non oltre” non sia in alcun modo sufficiente per desumere l’essenzialità di un termine, e che alla stessa debbano invece accompagnarsi altri dati (l’oggetto del negozio, ulteriori indicazioni dei paciscenti), dai quali sia possibile inferire che le parti considerano perduta l’utilità di un adempimento perfezionatosi oltre una certa data: cfr., ex multis, Cass., 16 marzo 2018, n. 6547; Cass., 15 luglio 2106, n. 14426; Cass., 25 ottobre 2010, n. 21838; Cass., 6 dicembre 2007, n. 25549.
(205) Cfr. A. ADDANTE, Colpa dell’obbligato cit., p. 233; M. BORRIONE, La risoluzione per inadempimento cit., p. 320 ss.; M. CUCCOVILLO, Essenzialità del termine e risoluzione del contratto per inadempimento, in Contratti 2011, p. 892, spec. 893 ss.; A. DALMARTELLO, voce Risoluzione cit., p. 143, il quale, con riguardo al termine essenziale soggettivo generale, precisa che con esso “la legge non fa altro che apprezzare, in via generale, l’interesse delle parti nell’ambito di un dato tipo di negozio, per dare un significato al loro silenzio”; G. SICCHIERO, La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit., p. 54.
(206) Nel primo senso, v. M. DELLACASA, Inadempimento cit., p. 264, secondo cui “la rilevanza accordata all’imputabilità dell’inadempimento […] determina una situazione di asimmetria informativa tra le parti, rendendo l’iniziativa risolutoria estremamente rischiosa. Siccome l’imputabilità dell’inadempimento è un fattore interno alla sfera del debitore, il creditore desideroso di affrancarsi dal rapporto contrattuale non dispone di tutte le informazioni necessarie per valutare la fondatezza dell’istanza risolutoria. Il contraente che promuove la risoluzione e interrompe l’attuazione del rapporto contrattuale corre il rischio di incorrere in responsabilità, in quanto la sua iniziativa può risultare infondata in dipendenza di una circostanza che non ha avuto la possibilità di conoscere”; F. MACIOCE, Risoluzione cit., pp. 36, 42-43. Nel secondo senso, v. M. BORRIONE, La risoluzione per inadempimento cit., pp. 328-329; G. SICCHIERO, La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit., p. 57, secondo cui “l’inosservanza non imputabile del termine essenziale non risolve il contratto ai sensi della disposizione in esame, ovvero per inadempimento del contraente fedele, superfluo essendo invece il requisito della colpa”. In giurisprudenza, v. Cass., 18 febbraio 2011, n. 3993, in Contratti 2011, p. 889, con nota di M. CUCCOVILLO, Essenzialità del termine cit. Nel terzo e ultimo senso, v. U. NATOLI, Termine essenziale cit., pp. 233-234.
della scadenza è insita nell’essenzialità del termine, sicché non vi è alcuno spazio per una violazione del termine che non sia grave (207).
Sui successivi passaggi della sequenza produttiva dell’effetto di risoluzione la dottrina è divisa. Secondo un primo orientamento, non vi è alcun ulteriore elemento di fattispecie: l’inutile decorso del termine essenziale provoca automaticamente l’effetto risolutivo. Se poi il contraente insoddisfatto richiede l’adempimento (nel termine perentorio di tre giorni), la sua dichiarazione estingue l’effetto già verificatosi (208). Secondo altra e diversa corrente di pensiero, l’unico ulteriore fatto che deve aver luogo affinché si perfezioni la fattispecie risolutiva è il decorso di tre giorni dalla scadenza del termine essenziale; l’ordinamento assume che il trascorrere del tempo comporti il venir meno dell’interesse creditorio e vi ricollega in via immediata la risoluzione del contratto (209).
Entrambe le teorie richiamate affidano l’insorgere dell’effetto di risoluzione alla tecnica norma – fatto – effetto. Tuttavia, mi sembra che alle stesse possano essere mosse due fondamentali critiche. In primis, siffatto automatismo sarebbe in contrasto con l’ordinaria elettività della risoluzione, che concorre con il diritto all’adempimento del contratto e che potrebbe non rappresentare la strada preferibile per il contraente fedele. In secundis, le teoriche descritte appaiono poco aderenti al dato normativo. E infatti, l’art. 1457 c.c. dispone che il contratto s’intende risolto di diritto “in mancanza” della dichiarazione con cui il contraente insoddisfatto manifesta la volontà di ottenere l’adempimento.
Sembra, allora, più corretto ritenere che il silenzio del creditore abbia natura costitutiva dell’effetto risolutivo. Dall’inadempimento scaturisce, in capo al creditore, un diritto potestativo di provocare la risoluzione del rapporto contrattuale, il quale viene esercitato in una forma del tutto peculiare: mantenendo il silenzio per i tre giorni successivi alla scadenza del termine essenziale (o del diverso termine concordato dai paciscenti). Se entro la fine di tale spatium deliberandi la richiesta di adempimento non perviene al contraente ritardatario, il contratto si risolve di diritto. Ci troviamo ancora una volta di fronte a un diritto potestativo
(207) Sul punto, cfr. G. F. BASINI, Risoluzione del contratto cit., pp. 249-250, per cui “è l’essenzialità stessa del termine che rende grave il suo mancato rispetto”; M. BORRIONE, La risoluzione per inadempimento cit., p. 325 ss.;
U. CARNEVALI, La risoluzione per inadempimento cit., p. 42, per il quale, nel termine essenziale, “l’importanza dell’inadempimento è connaturata alla natura stessa del termine e discende automaticamente dalla sua inutile scadenza”; riprende la precisazione R. E. CERCHIA, Quando il vincolo contrattuale si scioglie cit., p. 125. In giurisprudenza, si esprime in termini analoghi Cass., 18 febbraio 2011, n. 3993, in Contratti 2011, p. 889, con nota di M. CUCCOVILLO, Essenzialità del termine cit. Si discosta dalla granitica opinione indicata nel testo C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., p. 351, per il quale è ben possibile che circostanze sopravvenute rendano l’interesse creditorio suscettibile di essere soddisfatto anche mediante una prestazione ritardata; “sulla base di una valutazione concreta può allora escludersi che il ritardo sia tale da giustificare l’immediata risoluzione del contratto”.
(208) Di tale avviso sono G. MIRABELLI, Dei contratti cit., p. 562 ss., secondo cui l’effetto risolutorio “si attua indipendentemente dalla volontà del creditore”; G. SICCHIERO, La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit.,
p. 55, il quale coerentemente reputa che il contraente protetto non debba avvisare il ritardatario della propria volontà di sciogliere il contratto.
(209) È questa la teoria di C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., pp. 353-354; U. CARNEVALI, La risoluzione per inadempimento cit., p. 43, anche nt. 135; P. TRIMARCHI, Istituzioni cit., p. 335.
sostanziale, che determina l’effetto di risoluzione senza bisogno dell’intervento del giudice,
secondo lo schema norma – fatto – potere sull’an – effetto (210).
Poiché, dunque, la risoluzione si verifica sul piano stragiudiziale, un eventuale processo che avesse ad oggetto lo scioglimento del contratto avrebbe natura di mero accertamento e la sentenza, non potendo fare altro che constatare il perfezionamento o meno della fattispecie risolutiva, sarebbe meramente dichiarativa (211). Anche in questa ipotesi, l’azione non sarebbe soggetta ad alcun termine prescrizionale e l’unico limite alla sua proposizione (rectius, al suo accoglimento) potrebbe derivare da un difetto di interesse ad agire, laddove la prescrizione avesse già colpito le conseguenti azioni di ripetizione e di risarcimento dei danni (212).
9.1.4. La risoluzione ex art. 1453 c.c.
Resta da analizzare l’ultima ipotesi di risoluzione per inadempimento prevista dal legislatore (anzi, la prima, se si segue l’ordine codicistico), ossia quella disciplinata dall’art. 1453 c.c., che si trova al centro di un pluriennale e fervente dibattito.
La norma menzionata rappresenta il primo tratto dell’itinerario che conduce alla produzione dell’effetto risolutivo.
Sul piano della fattispecie concreta, l’unico elemento meramente fattuale cui viene attribuita rilevanza è l’inadempimento. E si ripropongono anche in questo ambito le
(210) Abbracciano la ricostruzione qui proposta M. BORRIONE, La risoluzione per inadempimento cit., p. 336; F. D. BUSNELLI, voce Clausola risolutiva cit., p. 200: “anche nel caso del termine essenziale, la risoluzione non deriva immediatamente dall’inadempimento di una parte, ma da questo più il successivo comportamento della controparte. E anche se si tratta di un comportamento puramente passivo, non per questo esso ha un significato diverso. La rilevanza giuridica del silenzio, quale fatto costitutivo della risoluzione […] è, in realtà, chiaramente sancita dall’art. 1457 c.c.”; A. DALMARTELLO, voce Risoluzione cit., p. 144, secondo cui la risoluzione ex art. 1457 c.c. è “ancora sempre potestativa. Di particolare non vi è che questo: che per optare per la risoluzione basta, in questo caso, una astensione (nei tre giorni successivi alla scadenza del termine). Ritengo, perciò, esatta la tesi che considera evento risolutivo non la mera scadenza del termine, ma tale scadenza congiunta o combinata con la omissione della richiesta di adempimento nei tre giorni successivi”; M. DELLACASA, Il creditore cit., p. 30, secondo cui la legge consente al creditore che conservi un interesse per la prestazione di “esigerne l’esecuzione – ed evitare, così, la risoluzione del contratto” (enfasi aggiunta); M. GRONDONA, La clausola risolutiva cit., p. 100 ss., il quale concorda con la natura costitutiva del silenzio; G. IORIO, Ritardo cit., p. 252; U. NATOLI, Termine essenziale cit., p. 229, il quale sottolinea che l’ipotesi prevista dall’art. 1457 c.c. disciplina “uno di quei casi in cui il silenzio ha un significato non equivoco, manifesta cioè la volontà precisa di un certo effetto, cioè della risoluzione”; I. PAGNI, Le azioni cit., pp. 318-319, anche nt. 19;
C. SCOGNAMIGLIO, Termine essenziale cit., p. 695; C. TURCO, L’imputabilità cit., pp. 166, 174. In giurisprudenza,
v. Cass., 3 luglio 2000, n. 8881. Precisa che la dichiarazione di voler conseguire l’adempimento ha natura
recettizia G. SICCHIERO, La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit., p. 67.
(211) In tal senso, v. A. ADDANTE, Colpa dell’obbligato cit., p. 232; G. F. BASINI, L’importanza dell’inadempimento cit., p. 550; M. ROSSETTI, La risoluzione cit., p. 427; G. SICCHIERO, La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit., p. 54; P. TRIMARCHI, Istituzioni cit., p. 335; C. TURCO, L’imputabilità cit., p. 167. In giurisprudenza, v., ex multis, Trib. Milano, 21 giugno 2017, n. 7028 (in obiter), in DeJure; Trib. Pesaro, 20 febbraio 2017, n. 61, in DeJure; Trib. Taranto, 13 maggio 2016, in DeJure; Cass., 11 novembre 2011, n. 23687; Cass., 18 febbraio 2011,
n. 3993, in Contratti 2011, p. 889, con nota di M. CUCCOVILLO, Essenzialità del termine cit.
(212) In tal senso, v. G. SICCHIERO, La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit., pp. 51-52. Cfr. anche P. TRIMARCHI, Istituzioni cit., p. 335.
medesime discussioni che hanno coinvolto la dottrina e la giurisprudenza nella ricostruzione delle risoluzioni di diritto di cui agli artt. 1454, 1456 e 1457 c.c.
Alcuni reputano indispensabile che l’inadempienza sia imputabile al debitore. Infatti, si dice, è proprio l’imputabilità che consente di distinguere la risoluzione per inadempimento dalla risoluzione per impossibilità sopravvenuta ex artt. 1463 ss. c.c. (213); se si eliminasse tale presupposto, l’una species di risoluzione sarebbe un inutile duplicato dell’altra. All’interno, però, di questa corrente di pensiero si fronteggiano due fazioni: da un lato, vi sono coloro che interpretano il requisito dell’imputabilità come sinonimo di colpevolezza, per cui l’inadempimento deve essere causato da un comportamento quantomeno colposo (214); dall’altro, si pongono coloro che scindono l’imputabilità, quale indice di oggettiva riferibilità di un fatto alla sfera di controllo di un soggetto, dalla colpevolezza, quale elemento psicologico dell’agire del singolo, e che ritengono solo la prima connotato imprescindibile dell’inadempimento (215).
Su un versante completamente diverso si attestano, invece, coloro che escludono che l’imputabilità dell’inadempimento incida sul regime della risoluzione e che limitano la rilevanza del requisito al risarcimento del danno. L’argomentazione che sorregge la conclusione è la seguente. La risoluzione è un rimedio sinallagmatico, che opera in presenza di una grave alterazione del rapporto contrattuale; la perdita di interesse nell’attuazione dello scambio da parte del creditore è l’unico dato che rileva ai fini dello scioglimento del contratto, senza che esso possa essere precluso da un fattore interno alla sfera del debitore, quale l’imputabilità della violazione. Non si può, allora, estendere un requisito tipico della responsabilità contrattuale alla risoluzione per inadempimento, in quanto i due rimedi rispondono a logiche diverse (216).
(213) Sulla quale v. infra, par. 9.2.
(214) La ragione dell’impiego fungibile degli aggettivi “imputabile” e “colposo” è ben spiegata da F. MACIOCE, Risoluzione cit., p. 12 ss. La nozione di colpa viene assunta a criterio individuatore della responsabilità dall’art. 1176 c.c. e l’area della responsabilità del debitore di cui all’art. 1218 c.c. non ne è estranea; sicché “l’inadempimento viene a qualificarsi incolpevole se l’impossibilità si è verificata nonostante l’impiego della diligenza dovuta da parte del debitore; così come non si ha inadempimento colpevole quando, pur essendo la prestazione possibile, la massima diligenza impiegata dal debitore non è sufficiente per soddisfare l’interesse del creditore”. Se si estende, allora, la rilevanza della colpa anche nel campo della responsabilità del debitore, pare evidente che l’inadempimento imputabile viene a collimare con l’inadempimento colpevole.
Si schierano a favore della necessaria colpevolezza dell’inadempimento G. G. AULETTA, La risoluzione per inadempimento cit., pp. 12, 16; A. BELFIORE, voce Risoluzione cit., pp. 1316-1317; C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., p. 303 ss.; A. DALMARTELLO, voce Risoluzione cit., p. 128, il quale rileva che “deve trattarsi di inadempimento imputabile, perché l’inadempimento non imputabile – equivalente alla fortuita impossibilità della prestazione – è causa estintiva dell’obbligazione e come tale non può se non impropriamente qualificarsi
«inadempimento», non essendo concepibile l’inadempimento di un’obbligazione estinta (talché la locuzione
«inadempimento incolpevole» contiene, a rigore, una contraddizione in terminis)”; P. GALLO, Inadempimento reciproco cit., p. 318; I. PAGNI, Le azioni cit., p. 326.
(215) Cfr. M. BORRIONE, La risoluzione per inadempimento cit., pp. 75, 78. Sulla distinzione tra imputabilità e colpevolezza, v. anche V. ROPPO, Il contratto cit., p. 898.
(216) Seguono questo approccio F. CRISTIANO, Mutuo dissenso e domande reciproche di risoluzione per inadempimento, in Contratti 2010, p. 787, spec. 789 (se ben si comprende); M. DELLACASA, Inadempimento cit., p. 263; M. GIORGIANNI, voce Inadempimento (diritto privato), in Enc. dir., vol. XX, Milano, 1970, p. 860, spec. 886; F. MACIOCE, Risoluzione cit., p. 31; L. MOSCO, La risoluzione del contratto per inadempimento, Napoli, 1950, p. 20 ss.
Il legislatore non ha, invece, lasciato spazio a dubbi circa l’imprescindibilità di un ulteriore carattere dell’inadempimento: la gravità. Infatti, l’art. 1455 c.c. prevede espressamente che “il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra” (217). Fa comunque discutere il momento in cui detta gravità debba essere valutata: se nel momento in cui doveva essere effettuato l’adempimento, oppure quando viene proposta la domanda giudiziale, o ancora quando il giudice si pronuncia sulla stessa (218).
Ora, a fronte di un’inadempienza che presenti le caratteristiche finora descritte, non è assolutamente scontato che la parte innocente intenda liberarsi dal vincolo contrattuale. Al contrario, per questa potrebbe rivelarsi di gran lunga preferibile mantenere in piedi il negozio e richiedere che esso venga adempiuto. Si possono immaginare le più svariate motivazioni: il contraente inadempiente è il migliore nel suo settore; cercare di ottenere la prestazione da soggetti terzi comporterebbe un ritardo non sopportabile; sono già stati corrisposti diversi acconti sul prezzo; la controparte è l’unica ad avere ottenuto le autorizzazioni amministrative necessarie per adempiere alla propria obbligazione; la controparte opera in un paese straniero nel quale il contraente fedele non ha ulteriori contatti fidati, e così via.
Ecco perché l’effetto di risoluzione non discende in via diretta e automatica dal fatto “inadempimento”, ma occorre che la parte insoddisfatta dia allo stesso giuridica rilevanza, attraverso l’esercizio di un diritto potestativo. Tale ricostruzione, che è senza dubbio la più opportuna, è quella prescelta dal nostro legislatore, il quale ha disposto che, “nei contratti a prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie alle sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto” (art. 1453, c. 1, c.c.).
Sul piano dogmatico, il diritto potestativo in discorso si inquadra nella categoria dei diritti potestativi a necessario esercizio giudiziale. In aggiunta alla norma menzionata, la quale prevede che il creditore possa “chiedere la risoluzione del contratto” e non “risolvere il
Con riferimento all’obiezione per cui l’imputabilità dell’inadempimento sarebbe l’unico elemento in grado di
dare alla risoluzione per inadempimento autonomia rispetto alla risoluzione per impossibilità sopravvenuta,
M. DELLACASA, Inadempimento cit., p. 263, risponde che la risoluzione di cui agli artt. 1463 ss. c.c. ha come
presupposto non tanto la non imputabilità dell’inadempimento, quanto piuttosto la sua definitività.
(217) Si badi bene, l’insussistenza di tale connotato nega rilevanza all’inadempimento ai soli fini risolutori; non gliela sottrae, invece, con riguardo a un’eventuale azione di adempimento e al risarcimento dei danni: cfr. A. DALMARTELLO, voce Risoluzione cit., p. 133. Con particolare riferimento all’ipotesi di ritardo nell’adempimento, al fine di escludere che la risoluzione possa scaturire da ritardi marginali, cfr. M. BORRIONE, La risoluzione per inadempimento cit., p. 89; M. ROSSI, Il “semplice” ritardo e la risoluzione per inadempimento, in Obbl. e contr. 2007, p. 327, spec. 333. Sui criteri per valutare la gravità della violazione degli obblighi contrattuali, v. supra, nota 182.
(218) La prima interpretazione è rinvenibile in una datata sentenza della Corte di Cassazione (Cass., 15 giugno 1989, n. 2879). La seconda è l’opzione prediletta da C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., p. 299 e, in giurisprudenza, da Cass., 24 aprile 2013, n. 10054, in Contratti 2014, p. 164, con nota adesiva di M. CUCCOVILLO, Risoluzione del contratto per inadempimento, apparenza del difetto e comportamento processuale del convenuto contrario a buona fede; Cass., 24 luglio 2012, n. 12895. L’ultima soluzione è abbracciata da Trib. Teramo, 21 maggio 2014, n. 728, in DeJure; Cass., 14 novembre 2006, n. 24207; Cass., 29 agosto 1990, n. 8955. In dottrina, nello stesso senso, cfr. V. ROPPO, Il contratto cit., p. 894; A. VENTURELLI, Costituzione in mora e azione giudiziale di risoluzione del contratto per inadempimento, in Obbl. e contr. 2012, p. 749, spec. 757, con particolare riferimento all’ipotesi di ritardo nell’inadempimento.
contratto”, utili indicazioni in tal senso si traggono dagli ulteriori due commi dell’art. 1453 c.c.: il secondo dispone che “la risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento; ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione”; il terzo precisa che “dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione”. Ora, anche a voler concedere che il primo comma dell’art. 1453 c.c. non sia dirimente nella determinazione della natura del diritto potestativo dallo stesso previsto, analoga considerazione non può di certo applicarsi agli ultimi due commi, i quali fugano ogni dubbio circa la necessità che il diritto potestativo sia attuato a mezzo di una domanda giudiziale (219).
Dunque, a differenza di quanto accade nelle ipotesi di cui agli artt. 1454, 1456 e 1457 c.c., questa volta il contraente deluso non può produrre l’effetto di risoluzione in prima persona; occorre, invece, che l’esercizio del suo potere sia integrato da un ulteriore elemento di fattispecie, a cui solo lo scioglimento del contratto può essere ricollegato. Tale elemento, come ormai facilmente intuibile, è la pronuncia giudiziale che accoglie la domanda di risoluzione, la quale si pone come causa efficiente dell’effetto risolutivo e dell’estinzione dell’efficacia del contratto. Ne segue che l’azione di risoluzione di cui all’art. 1453 c.c. è un’azione costitutiva e che la sentenza che la conclude positivamente è un provvedimento costitutivo-estintivo, che modifica la realtà preesistente eliminando il rapporto contrattuale impugnato (220).
(219) Così A. ATTARDI, In tema di limiti oggettivi cit., p. 536, il quale, come ricordato supra (nota 121), cambia opinione rispetto a quanto sostenuto nel suo precedente articolo ID., Conflitto di decisioni cit.; C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., p. 292; E. GRASSO, La pronuncia d’ufficio cit., p. 303 ss., anche nt. 62; G. IORIO, Ritardo cit., pp. 24-25; R. ORIANI, voce Eccezione cit., p. 271; E. F. RICCI, voce Accertamento cit., p. 23. In giurisprudenza, cfr. Cass., 13 aprile 1959, n. 1086, in Giur. it. 1959, I, 1, p. 1192, con nota di L. CIFFO BONACCORSO, L’eccezione cit.
(220) In tal senso si esprimono A. ATTARDI, Diritto processuale cit., vol. I, p. 110; G. G. AULETTA, La risoluzione per inadempimento cit., p. 415; G. F. BASINI, L’importanza dell’inadempimento cit., p. 550; G. F. BASINI, Risoluzione del contratto cit., p. 126; A. BELFIORE, voce Risoluzione cit., p. 1335, per cui “la sentenza di risoluzione va, quindi, considerata come un elemento essenziale (un coelemento di efficacia) della fattispecie risolutiva disciplinata dall’art. 1453 e va correlativamente annoverata tra le sentenze costitutive”; C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., pp. 291-292, 309; M. BORRIONE, La risoluzione per inadempimento cit., p. 194; M. BOVE, Lineamenti cit., p. 227 ss.;
F. D. BUSNELLI, Della tutela giurisdizionale cit., p. 200, che parla espressamente di sentenza estintiva di un rapporto giuridico; F. CAMMEO, L’azione cit., p. 42; L. CARIOTA FERRARA, Il negozio giuridico cit., p. 383 ss.; U. CARNEVALI, La risoluzione per inadempimento cit., p. 38 ss.; A. CERINO CANOVA, La domanda giudiziale cit., p. 40;
G. CHIOVENDA, Principii cit., pp. 193-194; C. CONSOLO, Il concorso di azioni cit., p. 790 ss., per cui l’estinzione del rapporto avviene “solo ope iudicis”; C. CONSOLO, Il processo nella risoluzione del contratto per inadempimento, in Riv. dir. civ. 1995, I, p. 299, spec. 301-302, 320, per cui l’effetto di risoluzione “rimane frutto […] della sentenza che abbia davvero e in concreto ad accogliere quella domanda dell’attore”; C. CONSOLO, Spiegazioni cit., vol. I,
p. 32; F. CRISTIANO, Mutuo dissenso cit., p. 790; A. DALMARTELLO, voce Risoluzione cit., p. 140; G. IORIO, Ritardo cit., p. 23, il quale sottolinea che “il profilo letterale della fattispecie […] non sembra dare adito a dubbi circa il carattere costitutivo della sentenza”; S. MENCHINI, I limiti oggettivi cit., p. 145; E. MERLIN, Elementi cit., p. 50;
L. MONTESANO, Limiti oggettivi cit., pp. 39-40; A. MOTTO, Domanda di risoluzione per inadempimento e recesso dell’attore dal contratto nel corso del processo, in Riv. arb. 2014, p. 616, spec. 618; A. MOTTO, Poteri cit., p. 247, anche nt. 99 e 100, 260 ss.; R. ORIANI, Diritti potestativi cit., pp. 13-14, il quale parla di una vera e propria “riserva di giurisdizione”; A. PALMA, La inammissibilità dell’esercizio del recesso e del diritto di ritenere la caparra, a seguito dell’avvenuta risoluzione di diritto del contratto, in Corr. giur. 2006, p. 1099, spec. 1101; E. F. RICCI, voce Accertamento cit., p. 23; V. ROPPO, Il contratto cit., pp. 878, 910; C. SCOGNAMIGLIO, Sulla disponibilità cit., p. 452, nt. 17; A. SEGNI, Tutela giurisdizionale cit., p. 317; P. TRIMARCHI, Istituzioni cit., p. 334. In giurisprudenza, v., ex plurimis,
Benché la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie siano stabilmente orientate a favore della natura giudiziale del diritto potestativo ex art. 1453 c.c. e della natura costitutiva della sentenza di risoluzione, le conclusioni qui proposte sono state oggetto di numerosi attacchi, concentrati su due fronti. Qualcuno ha criticato, in prima battura, la riconduzione del diritto potestativo di risoluzione ex art. 1453 c.c. nell’alveo dei diritti potestativi a necessario esercizio giudiziale, e ha cercato di dimostrarne la più corretta sussunzione nella categoria dei poteri sostanziali; dalla confutazione del carattere giudiziale del diritto potestativo è, poi, giocoforza derivata la contestazione della costitutività del provvedimento che definisce positivamente l’azione. Qualcun altro, invece, pur riconoscendo che il diritto potestativo di risoluzione deve essere necessariamente esercitato nell’ambito del processo, ha censurato (solo) l’idoneità della sentenza a provocare lo scioglimento del contratto.
Analizziamo le citate obiezioni partitamente.
La prima teorica che merita attenzione è il frutto dell’interessante e innovativa elaborazione di Ilaria Pagni. La proposta ricostruttiva dell’Autrice prende le mosse dalla preliminare constatazione che l’inadempimento può assumere una duplice valenza: di fatto impeditivo dell’efficacia del rapporto contrattuale, nell’ipotesi prevista dall’art. 1460 c.c., in cui l’eccezione di inadempimento comporta la paralisi del rapporto (221); di fatto estintivo nelle ipotesi previste dagli artt. 1453 ss. c.c., in cui determina (insieme ad altri fattori) lo scioglimento del rapporto. Si può, allora, ipotizzare che colui che viene convenuto in adempimento, oltre a rifiutare di assolvere ai propri obblighi ex art. 1460 c.c., si avvalga dell’altrui inadempimento anche nella sua qualità di fatto estintivo. Si configura così l’eccezione di risoluzione, ossia il diritto potestativo sostanziale che consente alla parte di produrre lo scioglimento del contratto nell’ambito del processo (222).
Da qui a riconoscere che tale eccezione possa essere esercitata anche in via stragiudiziale, e che quindi l’effetto di risoluzione si possa produrre anche al di fuori delle aule giudiziarie, il passo è breve. Ciò è confermato da due circostanze: da un lato, dopo aver manifestato la propria volontà risolutoria tramite una dichiarazione stragiudiziale, il creditore non può più cambiare idea e non può più domandare l’esecuzione del contratto, in applicazione del principio dell’affidamento (223); dall’altro, sulla base dell’orientamento giurisprudenziale
Cass., sez. un., 23 novembre 2018, n. 30416; Cass., 16 novembre 2018, n. 29654; Cass., 25 settembre 2018, n.
22781; Trib. Brindisi, 13 settembre 2018, n. 1335, in DeJure; Cass., 15 marzo 2018, n. 6386; Trib. Bari, 27
febbraio 2017, n. 1060, in DeJure; Trib. Pesaro, 20 febbraio 2017, n. 61, in DeJure; Trib. Milano, 13 luglio 2016,
n. 9118, in DeJure; Cass., 24 maggio 2016, n. 10691; Trib. Taranto, 13 maggio 2016, in DeJure; Cass., 12 ottobre 2015, n. 20408; Cass., 23 maggio 2014, n. 11511; Trib. Nola, 11 gennaio 2011, in DeJure; Cass., 6 febbraio 2009, n. 3039.
Della natura dichiarativa della sentenza che rigetti la domanda di risoluzione ex art. 1453 c.c. si è detto supra, par. 3.
(221) Sull’eccezione di inadempimento, v. infra, par. 14.
(222) Cfr. I. PAGNI, Le azioni cit., p. 332 ss.
(223) La norma da cui si discende tale principio è il già citato art. 1453, c. 2, c.c., che secondo l’Autrice è applicabile per analogia anche nelle ipotesi in cui il contraente fedele eserciti il proprio diritto potestativo di risoluzione con una dichiarazione stragiudiziale: cfr. I. PAGNI, Le azioni cit., p. 365. Viceversa, il debitore potrà ancora offrirsi di adempiere, contando sul fatto che la successiva verifica giudiziale accerti che la fattispecie risolutiva non si è mai completata: v. I. PAGNI, Le azioni cit., p. 369.
maggioritario (224), il creditore ha sempre diritto di rifiutare l’adempimento tardivo anche se non ha ancora proposto la domanda di risoluzione. Come si nota, dunque, il contraente fedele può considerarsi sciolto dalle proprie obbligazioni fin dal momento in cui manifesta la volontà di risolvere il rapporto, senza dover attendere l’intervento giudiziale (225).
Nel pensiero dell’Autrice, quindi, il diritto potestativo ex art. 1453 c.c. è un diritto sostanziale e la risoluzione del contratto deriva direttamente dalla sua attuazione. L’unico requisito che deve sussistere affinché lo stesso sia validamente esercitato a scopi risolutori è che la volontà di liberarsi dal vincolo contrattuale sia “manifesta” (226). Peraltro, Pagni sottolinea come tale conclusione sia perfettamente compatibile con la rubrica dell’art. 1453 c.c., la quale non parla affatto di risoluzione “giudiziale”, ma soltanto di “risolubilità per inadempimento” (227).
La delineata teorica si chiude coerentemente con l’attribuzione all’eventuale giudizio, instaurato dall’una o dall’altra parte, della qualifica di processo di mero accertamento e con l’attribuzione alla sentenza che lo definisce della qualifica di sentenza dichiarativa: “dopo la manifestazione di volontà del contraente insoddisfatto, sia essa comunicata alla parte in via stragiudiziale, o sottesa all’eccezione di risoluzione, oppure contenuta nell’atto di citazione in giudizio […], la sentenza sopravverrà quando il contratto è ormai stato privato della propria efficacia e il giudice non dovrà fare altro che dichiarare quali sono i diritti e gli obblighi delle parti, senza dover modificare od estinguere alcunché” (228).
In anni più recenti, ai medesimi risultati giunge Mauro Paladini, il quale riprende alcuni argomenti spesi da Ilaria Pagni e ne utilizza di nuovi.
Anche ad avviso di Paladini (229), la circostanza che la manifestazione della volontà risolutoria preclude qualsivoglia successiva possibilità di domandare l’adempimento conferma la natura sostanziale del diritto di risoluzione: non ha, infatti, alcun senso
(224) Così Cass., 14 maggio 2018, n. 11653; App. Milano, 22 gennaio 2010, n. 153, in DeJure; Cass., 5 settembre 2006, n. 19074; Cass., sez. un., 9 luglio 1997, n. 6224, in Giust. civ. 1998, I, p. 825; Cass., sez. un., 6 giugno 1997,
n. 5086, in Contratti 1997, p. 450, con nota critica di L. BARBIERA, Tardivo adempimento del debitore, rifiuto del creditore e risoluzione del contratto; in Corr. giur. 1997, p. 768, con nota di V. CARBONE, Il creditore può rifiutare il tardivo adempimento?; e in Giust. civ. 1997, I, p. 2765, con nota di M. COSTANZA, Rifiuto legittimo della prestazione da parte del creditore e gravità dell’inadempimento. Si noti che sussistono comunque pareri contrastanti, che ammettono la legittimità del rifiuto dell’adempimento solo dopo la proposizione della domanda giudiziale: v. L. BARBIERA, Tardivo adempimento cit., passim; C. DE MENECH, La preclusione dell’adempimento tardivo ex art. 1453, ultimo comma,
c.c. nella giurisprudenza, in Contratti 2014, p. 573, spec. 581, secondo cui la ricostruzione della giurisprudenza maggioritaria va a svantaggio delle parti contraenti; infatti, il contraente fedele rischia che la sua valutazione in ordine alla gravità dell’inadempimento non coincida con la successiva valutazione del giudice e si trovi, quindi, costretto a risarcire il danno provocato dal suo rifiuto; d’altro canto, l’inadempiente resta in uno stato di soggezione temporalmente indefinito; “se sceglie di completare l’allestimento della prestazione, […] corre il rischio di vedersi rifiutare l’offerta tardiva ed accorgersi di avere inutilmente sprecato ingenti risorse; ove decida invece di rimanere inerte e non adempiere, egli si espone al pericolo di subire prima o poi l’iniziativa giudiziale dell’altra parte e di dover risarcire i danni medio tempore subiti dal creditore”.
(225) Cfr. I. PAGNI, Le azioni cit., p. 349 ss. Concorda con tale affermazione anche M. DELLACASA, Risoluzione giudiziale cit., pp. 170-171.
(226) Cfr. I. PAGNI, Le azioni cit., p. 365.
(227) Cfr. I. PAGNI, Le azioni cit., pp. 389-390.
(228) Cfr. I. PAGNI, Le azioni cit., pp. 377-378, 393, 676.
(229) Cfr. M. PALADINI, L’atto unilaterale cit., pp. 101 ss., 105 ss.
mantenere in vita un vincolo contrattuale se non si può chiedere l’adempimento delle prestazioni che in esso trovano titolo. D’altro canto, se fin dal momento in cui l’inadempimento ha assunto importanza il contraente deluso può rifiutare la prestazione della controparte, a prescindere dalla domanda giudiziale, allora la manifestazione di volontà del primo ha immediati effetti estintivi del rapporto contrattuale.
L’efficacia sostanziale della dichiarazione di risoluzione trova, poi, conferma in ulteriori dati sistematici, i quali mostrano “la volontà del legislatore di orientare l’intero sistema della risoluzione per inadempimento verso la sua ordinaria natura sostanziale e automatica” (230). In primo luogo, l’art. 1385 c.c. stabilisce che, se al momento della stipulazione del contratto è stata consegnata una caparra confirmatoria, eventuali inadempienze attribuiscono alla parte fedele la possibilità di recedere dall’accordo, trattenendo la caparra o esigendo il doppio della caparra dalla stessa versata; la norma disciplina un’ipotesi di vera e propria risoluzione stragiudiziale, che ha i medesimi presupposti della risoluzione ex art. 1453 c.c. (imputabilità e non scarsa importanza dell’inadempimento) (231). In secondo luogo, le modalità con cui viene risolto un contratto per l’operare di una clausola risolutiva espressa sono in tutto simili a quelle della dichiarazione unilaterale di risoluzione: come visto (232), a seguito dell’inadempimento, occorre che la parte dichiari di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa, esercitando un recesso impugnatorio coincidente con quello previsto dall’art. 1385
c.c. (233). In terzo luogo, la disciplina del termine essenziale denota l’ampio riconoscimento che il legislatore ha assegnato all’autonomia privata nel contesto della risoluzione del contratto (234). In quarto luogo, sussistono forti affinità tra il recesso per impossibilità sopravvenuta parziale, di cui all’art. 1464 c.c. (235), e la risoluzione automatica per inadempimento: invero, la valutazione della mancanza di interesse per l’adempimento parziale deve essere svolta alla luce dei medesimi criteri che consentono di asseverare l’importanza dell’inadempimento di cui all’art. 1455 c.c. (236).
Alla luce dei ragionamenti esposti, Paladini conclude che l’atto di risoluzione per
inadempimento è un atto unilaterale con automatici effetti sostanziali.
(230) Cfr. M. PALADINI, L’atto unilaterale cit., p. 54.
(231) Cfr. M. PALADINI, L’atto unilaterale cit., p. 48 ss. L’identità tra il recesso ex art. 1385 c.c. e la risoluzione ex art. 1453 c.c. è, peraltro, supportata da quell’orientamento giurisprudenziale per cui, ove una parte agisca in giudizio per ottenere l’esecuzione di un contratto, questa possa sempre esercitare il recesso ai sensi dell’art. 1385 c.c. in corso di causa, rinunciando alle precedenti pretese. Le sentenze in discorso, infatti, considerano l’art. 1453, c. 2, c.c. applicabile anche al passaggio tra domanda di adempimento e domanda di accertamento dell’estinzione del rapporto contrattuale per intervenuto recesso, e rendono così fungibili il recesso ex art. 1385
c.c. e la risoluzione ex art. 1453 c.c.: v., ex multis, Trib. Savona, 13 agosto 2018, in DeJure; Cass., 16 gennaio 2018, n. 882; Cass., 3 febbraio 2015, n. 1901; Cass., 24 novembre 2011, n. 24841.
(233) Cfr. M. PALADINI, L’atto unilaterale cit., p. 72.
(234) Cfr. M. PALADINI, L’atto unilaterale cit., p. 73 ss. Quanto alla risoluzione per decorso di un termine essenziale, v. supra, par. 9.1.3.
(235) Sul quale funditus infra, par. 9.2.
(236) Cfr. M. PALADINI, L’atto unilaterale cit., p. 92 ss.
Prima di passare al secondo fronte di “attacco” alla natura costitutiva della pronuncia di risoluzione, sembra opportuno soffermarsi sulle teorie appena sintetizzate per svolgere alcune considerazioni critiche.
Innanzitutto, non corrisponde al vero che il persistere dell’efficacia del contratto non ha utilità, visto che, una volta manifestato l’intento risolutorio, il contraente insoddisfatto non può più chiedere l’adempimento. Al contrario, è generalmente riconosciuto che, ove la domanda di risoluzione ex art. 1453 c.c. sia rigettata (in rito o nel merito) ovvero il giudizio di risoluzione si estingua, il creditore ben può instaurare un’azione per ottenere l’esecuzione delle prestazioni gravanti sulla controparte (237).
In secondo luogo, le modalità con cui il diritto potestativo sostanziale di risoluzione può essere esercitato in forma stragiudiziale rimangono piuttosto fumose. Si richiede che la volontà di sciogliersi dal vincolo contrattuale sia “manifesta”, ma poi è ben difficile tradurre tale affermazione in concreto. Si immagini, per esempio, che il creditore invii una raccomandata alla controparte menzionando la risoluzione con mere intenzioni minatorie e al solo fine di sollecitare l’adempimento. Ben potrebbe accadere che tale intento sia evidente nella prospettiva del mittente, ma resti celato per il destinatario. Ebbene, quale punto di vista occorre adottare per valutare il carattere “manifesto” della dichiarazione risolutoria? Se ci si pone nei panni del destinatario, si potrebbe arrivare al paradosso di un effetto che, per la teoria generale del diritto, dovrebbe prodursi per il tramite dell’esercizio di un diritto potestativo, e che, invece, sorge a prescindere da tale esercizio (visto che il dichiarante non ha mai inteso risolvere il contratto). Laddove, invece, ci si ponesse nei panni del mittente in ipotesi in cui quest’ultimo abbia effettive (ma oscure) velleità risolutorie, potrebbe capitare che il debitore si prepari comunque per adempiere e, anzi, esegua la propria prestazione in forza di un contratto ormai sciolto, con evidenti complicazioni derivanti dalle successive doverose restituzioni incrociate.
Un simile problema non si pone, chiaramente, se si costruisce il diritto potestativo come potere di natura giudiziale: invero, poiché deve essere esercitato nella forma vincolata della domanda giudiziale, non pare possano sorgere dubbi circa l’effettivo esercizio dello stesso. D’altro canto, non mi sembra che tale stato di incertezza possa sorgere nelle ipotesi di cui agli artt. 1454, 1456 e 1457 c.c. Infatti, nei primi due casi, la manifestazione di volontà con cui la parte fedele dichiara la propria intenzione di risolvere il rapporto ha sempre un contenuto inequivocabile: per un verso, la diffida ad adempiere deve comprendere
(237) In tal senso si esprime Cass., 27 dicembre 2010, n. 26152, che precisa “il divieto, posto dall’art. 1453 cod. civ., di chiedere l’adempimento una volta domandata la risoluzione del contratto, viene meno e non ha più ragion d’essere quando la domanda di risoluzione venga rigettata, rimanendo in vita in tal caso il vincolo contrattuale, e risorgendo l’interesse alla esecuzione della prestazione con inizio del nuovo termine prescrizionale del diritto di chiedere l’adempimento”. Negli stessi termini, v. anche Cass., 19 gennaio 2005, n. 1077; Cass., 29 novembre 2001, n. 15171; Cass., 20 novembre 2001, n. 14558; Cass., 11 maggio 1996, n. 4444. In dottrina, v. C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., p. 330, per cui “il rigetto della domanda di risoluzione lascia fermi il vincolo contrattuale e gli obblighi di adempimento dell’una e dell’altra parte. La parte che ha agito in risoluzione può pertanto esigere la prestazione e proporre l’azione di adempimento”; R. SCOGNAMIGLIO, Contratti in generale, in Trattato di diritto civile, diretto da G. GROSSO – F. SANTORO-PASSARELLI, Milano, 1966, p. 269.
l’assegnazione di un congruo termine per l’adempimento e l’espressa dichiarazione che, al persistere dell’inadempimento oltre la scadenza del detto termine, il contratto s’intenderà risolto; per un altro, quando i contraenti inseriscono nello schema dell’accordo una clausola risolutiva espressa, la parte insoddisfatta deve dichiarare che si vuole “avvalere” di quella clausola. Ciò comporta che la volontà di risolvere il contratto è facilmente riconoscibile. Altrettanto accade se uno dei termini indicati nel contratto deve essere considerato essenziale. In questa ipotesi, è lo stesso codice civile ad attribuire un significato unidirezionale al comportamento della parte creditrice, che non può, quindi, essere frainteso. In terzo luogo, il tentativo di giustificare la natura sostanziale del diritto potestativo alla luce della rubrica dell’art. 1453 c.c. non appare persuasivo. Se è vero che la rubrica recita “Risolubilità del contratto per inadempimento”, è altrettanto vero che, come già notato, il testo della norma offre nitide – e plurime – indicazioni a favore del carattere giudiziale del potere. Si fatica a comprendere come si possa attribuire un qualsivoglia peso alla terminologia inserita nella rubrica di una previsione normativa, per poi ignorare gli indici di
segno opposto contenuti nel (a mio avviso, più importante) testo della disposizione.
A ciò si aggiunga che la teoria qui criticata porta la risoluzione ex art. 1453 c.c. a sovrapporsi alla risoluzione ex art. 1454 c.c. In sostanza, se anche il diritto potestativo di risoluzione di cui all’art. 1453 c.c. avesse natura sostanziale, la parte adempiente si troverebbe di fronte alla seguente alternativa: inviare una diffida ad adempiere e aspettare il decorso del congruo termine assegnato affinché il contratto possa dirsi risolto; oppure dichiarare che intende risolvere il contratto con effetto immediato. Il meccanismo risolutorio di cui all’art. 1454 c.c. diverrebbe inutile e destinato alla più ostica disapplicazione.
Sia Pagni sia Paladini tentano di rispondere a questa obiezione operando un distinguo. Se la gravità dell’inadempimento è dubbia, o comunque residua in capo al contraente deluso un interesse alla prestazione della controparte, la modalità legislativamente predeterminata di esercizio del potere di risoluzione è quella dell’art. 1454 c.c.; il termine concesso per l’adempimento ha, quindi, la funzione di render certa l’importanza dell’inadempimento e di ridurre il rischio di successive contestazioni da parte del debitore. Viceversa, se l’inadempimento è compiuto e irreversibile, la parte adempiente può esprimere la propria volontà di – e così ottenere la – risoluzione immediata (238). Eppure, una distinzione di tal sorta non trova alcun addentellato nella lettera della legge, la quale richiede la non scarsa importanza dell’inadempimento per entrambe le forme di risoluzione (art. 1455 c.c.).
Ad ogni modo, a me sembra che, a fronte di un diritto potestativo sostanziale a portata generale, anche gli istituti della clausola risolutiva espressa e del termine essenziale sarebbero destinati all’oblio. Se ciascun contraente avesse l’opportunità di causare in prima persona la risoluzione del contratto attraverso una mera manifestazione di volontà, non si vede per quale ragione le parti dovrebbero perdere tempo per negoziare delle clausole risolutive espresse e per scegliere accuratamente a quali obbligazioni contrattuali dare maggior peso rispetto alle altre. Parimenti, non si vede per quale motivo, ove scada un termine senza che
(238) In tal senso, v. I. PAGNI, Le azioni cit., p. 384 ss.
la prestazione cui esso accede sia stata eseguita, il creditore dovrebbe aspettare tre giorni affinché l’effetto risolutorio si produca, anziché risolvere il contratto con effetto immediato; tanto più se si tratta di un termine essenziale!
Nell’ottica di Paladini, la presenza di ipotesi tipiche di risoluzione per inadempimento di diritto fa propendere per la ricostruzione dell’intero istituto in chiave di risoluzione automatica. A mio avviso, invece, la conclusione che si deve trarre è esattamente opposta. A meno di voler supportare una interpretatio abrogans di tre norme del codice civile, pare più corretto, e quantomeno più opportuno, ritenere che la risoluzione di cui all’art. 1453 c.c. non possa essere conseguita in via stragiudiziale (239).
Ciò precisato, si può ora volgere l’attenzione alla seconda tranche di censure cui la natura costitutiva della sentenza di risoluzione è sottoposta.
Una parte della dottrina concorda con la ricostruzione per cui il diritto potestativo ex art. 1453 c.c. deve necessariamente essere esercitato in sede giudiziale, ma ricollega l’effetto risolutorio direttamente alla domanda, anziché alla pronuncia del giudice (240). Ancora una volta, l’affermazione è sorretta dal fatto che, dopo la proposizione della domanda, l’attore non può più chiedere l’adempimento e il convenuto non può più adempiere (art. 1453, c. 2 e 3, c.c.): “stato di cose, questo, che fa pensare piuttosto ad una risoluzione ormai avvenuta, oggetto di una pronuncia di accertamento, che ad una eventuale risoluzione, da disporsi con pronuncia costitutiva” (241).
In proposito, nella Relazione del Ministro Guardasigilli al testo del Codice Civile (n. 661), si legge che “scegliendo la risoluzione, il contraente implicitamente dichiara di non aver più alcun interesse al contratto, e il debitore non deve ulteriormente tenersi pronto per la esecuzione della prestazione”: pare, dunque, che nelle intenzioni del legislatore la domanda di risoluzione sia idonea a liberare il debitore; ma allora non è pensabile che rimanga vincolata proprio la parte “in regola”. Un altro dato da cui, poi, si trae la preferenza per la natura dichiarativa della pronuncia di risoluzione è la dizione dell’art. 1455 c.c., il quale dispone che “il contratto non si può risolvere”: la forma riflessiva utilizzata lascia supporre che la risoluzione avvenga de iure, non ope iudicis.
(239) È, infatti, principio consolidato che “ogni parola di una legge va interpretata nel senso in cui può avere un qualche effetto, anziché in quello secondo cui non avrebbe alcun effetto”: così, tra i tanti, A. KLITSCHE DE LA GRANGE, Risoluzione per inadempimento cit., p. 31.
(240) Cfr. A. KLITSCHE DE LA GRANGE, Risoluzione per inadempimento cit., passim. V. altresì M. DELLACASA, Risoluzione giudiziale cit., pp. 151-152. Precursore dei tempi si mostra, ancora una volta, Allorio, il quale propone anche per la risoluzione la stessa teoria che abbiamo già esposto analizzando il diritto potestativo di annullamento e il diritto potestativo di rescissione. Anche il diritto di risoluzione configura un potere di eccezione sostanziale, con il quale si produce immediatamente l’effetto risolutorio. Il potere viene esercitato mediante un atto di parte nel processo, con efficacia al contempo sostanziale (risoluzione del contratto) e processuale (costituzione del dovere del giudice di pronunciare sull’intervenuta risoluzione). Il giudice non risolve il contratto “in prima persona”, ma semplicemente constata che la parte vi ha già provveduto. Tuttavia, nel pensiero di Allorio, l’effetto di risoluzione si manifesta solo nel quadro del processo in cui viene esercitato il diritto potestativo, sicché, se il processo si estingue, l’effetto di risoluzione viene meno e torna in vigore la preesistente situazione: cfr. E. ALLORIO, L’ordinamento giuridico cit., pp. 110-111. Per una critica di tale impostazione, v. supra, parr. 7 e 8.
(241) A. KLITSCHE DE LA GRANGE, Risoluzione per inadempimento cit., p. 30.
Quindi, se lo scioglimento del contratto è un effetto sostanziale della domanda, il giudice non può far altro che accertare che l’inadempimento si sia effettivamente verificato e che il rapporto negoziale si sia effettivamente risolto.
La tesi appena esposta non va esente da critiche.
Il primo difetto si può ravvisare nella circostanza che non riesce concretamente a separare l’effetto sostanziale di risoluzione dalla pronuncia giudiziale. Infatti, come correttamente osservato, “ammettere l’immediata efficacia risolutoria negoziale della domanda giudiziale – e così la natura solo accertativa del giudizio conseguente (ancorché necessario) – si potrebbe solo a patto di riconoscere macchinosamente che quell’effetto si esplichi solo in presenza di una domanda fondata, anzi per tale ritenuta dalla successiva sentenza” (242). Un secondo problema, strettamente connesso, risiede nel fatto che un eventuale provvedimento di rigetto della domanda dovrebbe estinguere retroattivamente l’effetto di risoluzione già esplicatosi e “resuscitare” il contratto: soluzione alquanto artificiosa sul piano dogmatico e foriera di inconvenienti sul piano pratico (243).
Sembra, allora, preferibile concludere che la domanda produca effetti preclusivi (sì sostanziali, ma) provvisori, il cui consolidamento o la cui definitiva caducazione sono rimessi alla pronuncia che definisce la lite (244).
Per concludere, si può osservare che le ipotesi ricostruttive sinora prospettate si pongono contro corrente e risultano senz’altro interessanti. Tuttavia, non riescono a persuadere fino in fondo. La risoluzione per inadempimento è stata oggetto di puntuale attenzione da parte del legislatore, che ha individuato diversi itinerari per conseguirla e ne ha definito i dettagli. Quando il legislatore ha voluto che l’effetto di risoluzione si producesse in assenza dell’intervento del giudice, non ha avuto remore a impiegare una terminologia assolutamente inequivoca (l’accordo “è risoluto di diritto”, “la risoluzione si verifica di diritto”, “il contratto s’intende risoluto di diritto”). Se avesse voluto che l’effetto risolutorio si producesse per mezzo del medesimo meccanismo anche nell’ipotesi di cui all’art. 1453 c.c., lo avrebbe senz’altro indicato espressamente, o quantomeno avrebbe utilizzato una terminologia ambigua, che consentisse entrambe le interpretazioni. Di certo non avrebbe inserito locuzioni quali “chiedere”, “domandare” e “domanda di risoluzione”, che di spazio per la fantasia ne lasciano ben poco. Sembra, dunque, preferibile affermare che, con l’art. 1453 c.c., il legislatore abbia inteso lasciare alle parti una quarta via, giudiziale questa volta, per ottenere l’effetto risolutorio anche in assenza di una diffida, di una clausola risolutiva espressa o di un termine essenziale.
(242) La condivisibile notazione è di C. CONSOLO, Il concorso di azioni cit., p. 791.
(243) In tal senso, v. U. CARNEVALI, La risoluzione per inadempimento cit., p. 40.
(244) Cfr. ancora U. CARNEVALI, La risoluzione per inadempimento cit., p. 40; v. anche C. CONSOLO, Il processo cit.,
p. 320, per cui la domanda “produce bensì intensi effetti prodromici alla eventuale risoluzione, ma non già l’effetto di risoluzione”.
9.1.5. Segue. L’azione ex art. 1453 c.c.
Visto che l’instaurazione di un’azione giudiziale è l’unica strada che le parti possono percorrere se intendono produrre l’effetto di risoluzione ex art. 1453 c.c., è opportuno accennare alle peculiarità che tale giudizio presenta.
Legittimato attivo è solo il contraente che non sia inadempiente (245).
Come già più volte menzionato (246), quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento della controparte, può poi essere proposta la domanda di risoluzione in corso di causa (247); viceversa, se è stata domandata la risoluzione dell’accordo, l’attore non può più chiederne l’adempimento (art. 1453, c. 2, c.c.). Per l’unidirezionalità della mutatio sono state ipotizzate dalla dottrina diverse rationes: secondo alcuni, la ratio deve rinvenirsi nella natura sinallagmatica del rimedio risolutorio, per cui, finché sussiste una lesione del rapporto di sinallagmaticità tra le prestazioni, deve sussistere anche il diritto potestativo di risoluzione in capo al contraente deluso (248); secondo altri, lo ius variandi serve a tutelare la perdita di interesse del creditore all’adempimento (249); altri ancora sottolineano che, a fronte della
(245) Non occorre, invece, che costui abbia già adempiuto, ben potendo la sua obbligazione scadere dopo quella della controparte: A. DALMARTELLO, voce Risoluzione cit., p. 137.
In proposito, occorre effettuare una precisazione con riferimento alle ipotesi di inadempienze reciproche. Gli interpreti sostengono che, in tali occasioni, il giudice debba formulare un giudizio di comparazione in merito all’atteggiamento complessivo delle parti, così da individuare quella che si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti, che abbiano alterato il sinallagma contrattuale e causato l’inadempimento della controparte. Nell’operare tale valutazione, il magistrato deve farsi guidare da diversi criteri: la successione cronologica degli inadempimenti, gli apporti di causalità e proporzionalità tra le prestazioni inadempiute, l’incidenza di queste ultime sulla funzione economico-sociale del contratto. La giurisprudenza è, sul punto, granitica: cfr., ex multis, Trib. Milano, 18 marzo 2019, n. 2574, in DeJure; Trib. Roma, 29 novembre 2018, n. 23073, in DeJure; Cass., 30 maggio 2017, n. 13627; Cass., 3 luglio 2013, n. 16637, in Contratti 2014, p. 363, con nota di M. DELLA CHIESA, Inadempimento reciproco e risoluzione del contratto; Cass., 11 giugno 2013, n. 14648; Trib. Piacenza, 9 marzo 2010, n. 153 (in obiter), in Contratti 2010, p. 785, con nota di F. CRISTIANO, Mutuo dissenso cit. In dottrina, di analogo avviso sono M. BORRIONE, La risoluzione per inadempimento cit., p. 83 ss.; M. DELLACASA, Risoluzione per inadempimento cit., p. 59; P. GALLO, Inadempimento reciproco cit., p. 317; M. PALADINI, L’atto unilaterale cit., p. 79.
(247) Più precisamente, nelle ordinarie fasi di merito. La limitazione è dovuta alla necessità di rispettare il principio del contraddittorio. Perché esso sia effettivo, e quindi comprenda la deduzione di nuove circostanze e l’offerta delle relative prove, il diritto di proporre la domanda di risoluzione potrà essere esercitato in ogni grado del giudizio di merito, ma non oltre la precisazione delle conclusioni (non, quindi, nelle comparse conclusionali e nelle memorie di replica). Per converso, non potrà essere esercitato nel giudizio di cassazione, che non consente lo svolgimento di attività istruttoria. Controversa è, infine, l’ammissibilità della conversione in sede di rinvio. In tal senso, v. G. GABRIELLI, Proponibilità delle domande risarcitoria e restitutoria in corso di giudizio purché congiuntamente con quella di risoluzione del contratto inadempiuto, in Riv. dir. civ. 2012, p. 597, spec. 606-607. In giurisprudenza, cfr. Cass., 6 aprile 2009, n. 8234; Cass., 26 aprile 1999, n. 4164; Cass., 27 novembre 1996, n. 10506.
(248) In tal senso, v. M. BORRIONE, La risoluzione per inadempimento cit., p. 238.
(249) Così G. MIRABELLI, Dei contratti cit., p. 548, per cui “l’esercizio della azione di adempimento non preclude l’azione di risoluzione, in quanto l’interesse del creditore alla prestazione, tuttora esistente al momento della domanda, può venire a mancare per cause o ragioni sopravvenute”. In proposito, è stato altresì sottolineato che il secondo comma dell’art. 1453 c.c. “è in perfetta linea con la logica del sistema. Infatti, la domanda di adempimento, se anche valesse rinuncia agli effetti risolventi dell’inadempimento precorso, non potrebbe valere rinuncia agli effetti risolventi dell’inadempimento futuro. Il diritto alla risoluzione, fondato su una fattispecie destinata ad aggravarsi di giorno in giorno, sopravvive – o meglio rinasce – dopo ogni domanda di adempimento, e dopo ogni sentenza di condanna all’adempimento, se questa non è stata eseguita”: v. R.
domanda di risoluzione, il contraente inadempiente ha fondato motivo di ritenere che la controparte non abbia più interesse all’esecuzione, sicché non si tiene più pronto per adempiere e non sarebbe equo obbligarlo a restare in attesa dell’altrui decisione per un tempo indefinito (250); da ultimo, si evidenzia che, ove il contraente deluso potesse mutare la domanda di risoluzione in domanda di adempimento, potrebbe speculare sulle fluttuazioni di mercato successive alla litispendenza; e certamente questo non è un interesse meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico (251).
Una voce dottrinale propone di mitigare la portata del secondo comma dell’art. 1453 c.c. nei termini seguenti. In tutte le ipotesi in cui il convenuto riveli di non confidare nella risoluzione del contratto (ad esempio, perché solleva un’eccezione di inadempimento o propone una domanda riconvenzionale di risoluzione per inadempimento della controparte), all’attore dovrebbe essere concesso di mutare la domanda di risoluzione in domanda di adempimento. Infatti, se si seguisse in modo rigoroso la dizione della norma, la tutela dell’attore sarebbe inutilmente ingessata, senza che ciò sia necessitato dalla tutela dell’affidamento del convenuto debitore. Sicché, nelle occasioni in esame, la regola dell’art. 1453, c. 2, c.c. dovrebbe cedere il passo alle ordinarie norme processuali relative ai tempi e ai modi di modificazione della domanda. Viceversa, ove il convenuto non mostri alcun affidamento nello scioglimento del contratto (ad esempio, perché eccepisce che il termine per l’adempimento non è ancora scaduto), la regola di irreversibilità della domanda risolutoria deve, invece, operare (252).
A tale proposta ermeneutica è stato condivisibilmente obiettato che non si può chiedere al debitore di non contestare la risoluzione affinché possa operare la regola dell’affidamento. Infatti, ben potrebbe accadere che il convenuto, benché acquiescente alla volontà di non rispettare ulteriormente il vincolo contrattuale, sia comunque convinto che non sussistano i presupposti per la risoluzione e sia intenzionato a dare battaglia almeno sul risarcimento dei danni (253).
Ai sensi dell’art. 1453, c. 3, c.c., “dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente
non può più adempiere la propria obbligazione”. La norma non intende impedire
SACCO, I rimedi sinallagmatici, in R. SACCO – G. DE NOVA (a cura di), Obbligazioni e contratti, tomo II, in Trattato di diritto privato, diretto da P. RESCIGNO, Torino, 2018, p. 638.
(250) Di tale avviso sono A. BELFIORE, voce Risoluzione cit., pp. 1335-1336; A. DALMARTELLO, voce Risoluzione cit., p. 140; I. PAGNI, Le azioni cit., p. 331; M. PALADINI, L’atto unilaterale cit., pp. 101-102, per cui si vuole evitare che il debitore prepari, da un lato, la restituzione della prestazione ricevuta nella prospettiva della imminente risoluzione, e dall’altro debba predisporre anche la prestazione corrispettiva, per l’ipotesi in cui ne fosse successivamente chiesto l’adempimento; V. ROPPO, Il contratto cit., pp. 894-895.
(251) La notazione è di A. BELFIORE, voce Risoluzione cit., pp. 1335-1336; A. KLITSCHE DE LA GRANGE,
Risoluzione per inadempimento cit., p. 36.
(252) L’idea è ben espressa da C. CONSOLO, Il processo cit., pp. 320-321, 330 ss. Nello stesso senso, v. anche A. BELFIORE, voce Risoluzione cit., p. 1336.
(253) Così I. PAGNI, Le azioni cit., p. 368, nt. 102.
Merita di essere rapidamente menzionato il fatto che alcuni studiosi contestano l’opportunità della previsione dell’art. 1453, c. 2, c.c. e opinano che sarebbe stato più corretto garantire l’ammissibilità di un mutamento bilaterale: cfr. G. G. AULETTA, La risoluzione per inadempimento cit., p. 459 ss.; G. MIRABELLI, Dei contratti cit., p. 549 ss.
all’inadempiente di formulare un’offerta di adempimento in corso di causa, ma solo chiarire che il contraente deluso non ha alcun obbligo di accettare l’adempimento tardivo e che le ragioni di un suo eventuale rifiuto non sono sindacabili dal giudice (254).
L’azione di risoluzione ex art. 1453 c.c. si prescrive nel termine ordinario di dieci anni, decorrenti dal momento in cui l’inadempimento è divenuto grave (255).
9.1.6. L’effetto di risoluzione per inadempimento
Come si è visto, l’effetto di risoluzione per inadempimento viene alla luce seguendo due diversi itinerari: secondo lo schema norma – fatto – potere sull’an – effetto, nelle ipotesi di cui agli artt. 1454, 1456 e 1457 c.c.; secondo lo schema norma – fatto – potere sull’an – accertamento giudiziale – effetto, nell’ipotesi di cui all’art. 1453 c.c. L’elemento comune è la costante presenza di un diritto potestativo di risoluzione, il quale viene attribuito alla parte che subisce l’inadempimento per consentirle di scegliere se mantenere in vita il contratto o se sciogliere il vincolo. Tuttavia, nelle prime tre ipotesi l’esercizio del potere è idoneo a provocare direttamente l’effetto sostanziale; nell’ultima, è necessario che l’esercizio del potere sia integrato da una sentenza che costituisce l’effetto in via immediata.
Ora, nonostante i diversi sentieri percorribili, la meta che si raggiunge è sempre la medesima: l’effetto sostanziale di risoluzione per inadempimento presenta sempre le stesse caratteristiche, delineate agli artt. 1458, 2652, c. 1, n. 1, e 2690, c. 1, n. 1, c.c. (256).
Rispetto ai contraenti, secondo l’insegnamento tradizionale, l’effetto assume due declinazioni (257). Da un lato, si ha un effetto liberatorio, che consiste nella eliminazione del
(254) Così C. DE MENECH, La preclusione dell’adempimento tardivo cit., p. 573, spec. 576; G. SICCHIERO, La risoluzione per inadempimento, in Il codice civile. Commentario, fondato da P. SCHLESINGER e continuato da F. D. BUSNELLI, Milano, 2007, p. 235. In giurisprudenza, v. Cass., 24 luglio 2012, n. 12895; Cass., 11 ottobre 2002,
n. 14527, per cui “l’art. 1453, comma 3, c.c., non introduce per il convenuto un divieto assoluto di adempimento dopo la proposizione della domanda di risoluzione, ma si limita a sancire l’inefficacia di un adempimento tardivo a sanare o a diminuire le conseguenze del pregresso inadempimento posto a base della domanda”; Cass., 31 luglio 1987, n. 6643.
(255) Benché il codice civile non disciplini espressamente la prescrizione dell’azione, il dato è quasi pacifico in dottrina e in giurisprudenza: in tal senso, v. M. DELLACASA, L’azione di risoluzione: legittimazione, onere della prova, prescrizione, in V. ROPPO (a cura di), Rimedi – 2, in Trattato del contratto, diretto da V. ROPPO, vol. V, Milano, 2006, pp. 206, 208; A. NATUCCI, Risoluzione per inadempimento e prescrizione, in Riv. dir. civ. 1996, II, p. 605, spec. 620, 622. In giurisprudenza, v. Trib. Busto Arsizio, 15 marzo 2013, in DeJure; Cass., 29 novembre 2005, n. 26042; Cass., 14 aprile 2004, n. 7066; Cass., 29 luglio 2003, n. 11640. Contra, R. SACCO, I rimedi sinallagmatici cit., p. 637, secondo il quale “il diritto di agire è imprescrittibile perché è un rimedio, e come tutti i rimedii è esperibile finché è in atto la situazione illecita cui deve rimediare”.
(256) Per l’applicabilità di tale disciplina anche alle ipotesi di risoluzione di diritto, v. M. COSTANZA, sub art. 1456 cit., p. 73; M. COSTANZA, sub art. 1457, in L. NANNI – M. COSTANZA – U. CARNEVALI, Della risoluzione per inadempimento, tomo I, 2, in F. GALGANO (a cura di), Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna- Roma, 2007, p. 100, per cui l’art. 1458 c.c. “ha una portata generale comprovata non solo dalla sua collocazione in una sede che sta a significare la sua riferibilità a tutte le forme di risoluzione, ma soprattutto perché manca ogni indice normativo dal quale si possa dedurre un limite alla sua operatività”; M. PALADINI, L’atto unilaterale cit., p. 73. In giurisprudenza, v. Trib. Firenze, 23 agosto 2016, n. 2865, in DeJure; Cass., 16 gennaio 2013, n. 997; Cass., 8 novembre 1985, n. 5461.
(257) Sul punto, v. M. BORRIONE, La risoluzione per inadempimento cit., p. 188 ss.; A. BOSELLI, La risoluzione cit.,
p. 278; A. DALMARTELLO, voce Risoluzione cit., p. 144 ss.; G. GABRIELLI, Recesso e risoluzione per inadempimento,
vincolo rispetto alle obbligazioni non ancora adempiute e che opera ex nunc, ossia dal momento in cui si produce la risoluzione. In secondo luogo, si ha un effetto restitutorio, in forza del quale ciascuno dei contraenti ha l’obbligo di restituire le prestazioni ricevute (anche quello deluso, in quanto nessuno può arricchirsi sine titulo di una prestazione altrui) (258). Come regola generale, esso opera ex tunc, ossia dal momento in cui il contratto è stato concluso. Tuttavia, nell’ipotesi di contratti ad esecuzione continuata o periodica, l’effetto non si estende alle prestazioni già eseguite.
La ratio di tale eccezione è rinvenibile nell’opportunità di conservare le prestazioni corrispettive che abbiano già pienamente realizzato l’interesse dei contraenti, ridurre i costi e i tempi di durata della controversia, nonché alleggerire la posizione del contraente inadempiente (259). Secondo la tesi più accreditata, l’irretroattività dell’effetto si estende solo alle “coppie di prestazioni” già eseguite (260). Viceversa, quando solo il contraente fedele abbia adempiuto alla propria obbligazione periodica, senza ricevere il corrispettivo, sarà il medesimo contraente a individuare la modalità più conveniente per ripristinare il sinallagma: potrà scegliere se chiedere la risoluzione dal momento della domanda o dal momento dell’inadempimento, e, quindi, se domandare l’adempimento della controprestazione oppure la restituzione della propria (261).
Quanto ai soggetti estranei al contratto, l’art. 1458, c. 2, c.c. dispone che la risoluzione non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, nemmeno se è stata espressamente pattuita. Non viene operata alcuna distinzione tra terzi di buona o di mala fede, e tra subacquirenti a titolo
in Riv. trim. dir. proc. civ. 1974, p. 725, spec. 734 ss.; G. SICCHIERO, La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit.,
p. 126 ss.
(258) Per attuare le restituzioni, si applicano le norme sulla ripetizione d’indebito e sull’arricchimento senza
causa: v. R. SACCO, I rimedi sinallagmatici cit., p. 631.
(259) In tal senso, cfr. A. BELFIORE, voce Risoluzione cit., pp. 1329-1330; G. CASELLA, La risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, Torino, 2001, p. 210, il quale sottolinea che “l’eccezione al principio di retroattività si applica esclusivamente a quei contratti in cui la continuazione o la periodicità non solo esiste per entrambe le parti, ma si realizza in modo che sia costantemente attuato l’equilibrio sinallagmatico tra prestazione e controprestazione”; A. MOTTO, Poteri cit., pp. 247-248, nt. 100; G. OPPO, I contratti di durata, in Riv. dir. comm. 1943, I, p. 227, spec. 244-245, il quale fa notare che “al decorso del tempo corrisponde […] economicamente la soddisfazione continuativa degli interessi contrattuali, giuridicamente l’adempimento continuativo dell’obbligazione duratura: la risoluzione o lo scioglimento trova l’interesse contrattuale già soddisfatto e l’obbligazione già adempiuta per il tempo trascorso e non può che rispettare gli effetti economici e giuridici già prodotti dal contratto […]. Nessuna delle parti può d’altro canto lamentare il mantenimento di tali effetti, giacché lo svolgimento del rapporto di durata è utile ad entrambe”.
(260) Cfr. A. BELFIORE, voce Risoluzione cit., p. 1329; M. BORRIONE, La risoluzione per inadempimento cit., p. 206;
G. CASELLA, La risoluzione cit., p. 310. Pare, invece, muoversi in direzione opposta la Corte di Cassazione quando esclude dall’efficacia retroattiva della risoluzione anche le prestazioni che sono state eseguite da uno solo dei contraenti, con la conseguenza che colui che ha adempiuto può solo domandare l’adempimento della controprestazione, e non la restituzione di quanto prestato: v. Cass., 6 dicembre 2011, n. 26199, in Contratti 2012, p. 121, con nota di F. S. PATTI, Autonomia privata ed effetti della risoluzione del contratto ad esecuzione continuata o periodica.
(261) Così F. S. PATTI, Autonomia privata cit., p. 126 ss.; R. SACCO, I rimedi sinallagmatici cit., p. 632; G. SICCHIERO,
La risoluzione per inadempimento, in Trattato cit., pp. 128-129.
oneroso o a titolo gratuito (262). Tuttavia, anche nell’impugnativa in discorso, tale regola viene temperata dalla disciplina degli effetti della trascrizione della domanda giudiziale. In particolare, la risoluzione è opponibile a tutti coloro che abbiano trascritto o iscritto i titoli d’acquisto dei propri diritti dopo la trascrizione della domanda di risoluzione (cfr. artt. 2652,
c. 1, n. 1, e 2690, c. 1, n. 1, c.c.). Inoltre, secondo un’interpretazione estensiva suggerita in dottrina, anche ove la domanda giudiziale non sia stata trascritta, la risoluzione è altresì opponibile a tutti coloro che abbiano trascritto i propri titoli d’acquisto successivamente alla trascrizione della sentenza che definisce positivamente il giudizio (263).
Occorre, poi, effettuare una precisazione con riguardo ai rapporti tra gli effetti della trascrizione e la risoluzione di diritto. Ovviamente, ove il contraente fedele instauri un’azione di mero accertamento per sentir dichiarare l’intervenuto scioglimento del contratto, si applicherà la disciplina appena ricordata. Tuttavia, la parte che subisce l’inadempimento ha anche la possibilità di trascrivere gli atti con i quali esercita il proprio diritto potestativo di risoluzione (chiaramente, quanto subito si dirà non è applicabile alla risoluzione per decorso di termine essenziale, in quanto, come si è visto, il potere risolutorio viene attuato mantenendo il silenzio). In questo caso, la norma cui si deve far riferimento è l’art. 2655, c. 1, c.c., in forza del quale, quando un atto trascritto o iscritto sia risolto, la risoluzione deve essere annotata a margine della trascrizione o dell’iscrizione dell’atto. Il contraente insoddisfatto dovrà aver cura di rendere le dichiarazioni di cui agli artt. 1454 e 1456 c.c. in forme tali che possano essere utilizzate a scopo di trascrizione/annotazione, ossia mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata (cfr. art. 2657 c.c.); in alternativa, potrà proporre e trascrivere una domanda di accertamento della sottoscrizione apposta alla scrittura privata contenente la diffida o la dichiarazione di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa. In tali occasioni, saranno pregiudicati tutti i diritti dei terzi i cui titoli d’acquisto siano stati trascritti o iscritti dopo la trascrizione degli atti di esercizio dei diritti potestativi stragiudiziali di risoluzione, o dopo la trascrizione della domanda di accertamento giudiziale delle scritture private in cui sono contenuti (264).
Infine, il legislatore rende applicabile anche alla risoluzione la disciplina relativa ai contratti di cui all’art. 1420 c.c.: negli accordi che coinvolgono più di due parti, nei quali le prestazioni di ciascuna sono dirette al conseguimento di uno scopo comune, l’inadempimento di una sola delle parti non importa lo scioglimento del contratto rispetto alle altre, a meno che la prestazione inadempiuta debba considerarsi essenziale (art. 1459 c.c.).
(262) Cfr. M. BORRIONE, La risoluzione per inadempimento cit., p. 207; R. E. CERCHIA, Quando il vincolo contrattuale si scioglie cit., p. 135. L’irrilevanza dello stato soggettivo del terzo discende dalla circostanza che l’inadempimento del dante causa non costituisce un vizio del titolo di acquisto del terzo.
(263) Cfr. A. DALMARTELLO, voce Risoluzione cit., p. 147, per cui gli artt. 2652, c. 1, n. 1, e 2690, c. 1, n. 1, c.c. costituiscono dei casi in cui la legge minus dixit quam voluit.
(264) In proposito, cfr. M. COSTANZA, sub art. 1456 cit., pp. 73-74; A. DALMARTELLO, voce Risoluzione cit., p. 148.
9.2. La risoluzione per impossibilità sopravvenuta
La seconda species di effetto risolutivo che viene in rilievo è quella causata dalla sopravvenuta impossibilità di una delle prestazioni contrattuali. La modalità con cui si produce l’effetto di risoluzione segue due diversi schemi, a seconda che l’impossibilità sia totale o parziale.
Cominciando dalla prima ipotesi, la norma che dà inizio alla sequenza genetica della risoluzione è l’art. 1463 c.c., che recita: “nei contratti a prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione d’indebito”.
L’elemento puramente fattuale che costituisce il secondo addendo dell’operazione è il concreto verificarsi dell’impossibilità della prestazione gravante su uno dei contraenti. È pacifico che l’impossibilità idonea a risolvere il contratto mutui i propri connotati dall’impossibilità di cui all’art. 1256 c.c., che estingue l’obbligazione e libera il debitore. Essa deve essere (265):
a) sopravvenuta, perché se fosse anteriore o coeva alla stipulazione del contratto ne
comporterebbe la nullità per impossibilità dell’oggetto (artt. 1418 e 1346 c.c.);
b) totale, nel senso che deve riguardare una delle prestazioni contrattuali nella sua interezza;
d) non imputabile, e quindi dipendente da caso fortuito, forza maggiore o fatto del terzo.
Proprio quest’ultimo connotato è quello più enfatizzato in dottrina, in quanto, secondo la tesi maggioritaria, consente di distinguere la risoluzione in esame dalla risoluzione per
(265) Cfr. A. DALMARTELLO, voce Risoluzione cit., p. 129; G. MIRABELLI, Dei contratti cit., p. 577; S. PAGLIANTINI, Prevedibilità del fatto impeditivo, equilibrio subiettivo delle impugnazioni e recesso del contraente deluso: note e spunti in tema di risoluzione per impossibilità sopravvenuta, in Riv. dir. priv. 2007, p. 503, spec. 506; V. ROPPO, Il contratto cit., p. 936 ss.; R. SACCO, I rimedi sinallagmatici cit., p. 651; R. SCOGNAMIGLIO, Contratti in generale cit., p. 278. Quanto alla precisazione che l’impossibilità originaria del contratto ne comporta la nullità, v. O. CAGNASSO, voce Impossibilità sopravvenuta della prestazione. I) Diritto civile, in Enc. giur. Treccani, vol. XVI, Roma, 1989, p. 1, spec. 3.
inadempimento, sia sul piano dogmatico sia sul piano funzionale (266). Così, mentre nella risoluzione per inadempimento l’obbligazione del contraente fedele si estingue come mezzo di soddisfazione per equivalente della prestazione rimasta inadempiuta (unitamente al risarcimento dei danni), nella risoluzione per impossibilità sopravvenuta la prestazione ancora possibile si estingue per impedire l’arricchimento sine titulo della controparte impossibilitata (267).
Come le previsioni normative citate lasciano chiaramente intendere, una volta verificatasi una impossibilità della specie descritta, l’effetto di risoluzione si produce in automatico. E infatti, l’art. 1256 c.c. dispone che “l’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile” e che parimenti “si estingue se l’impossibilità [temporanea] perdura” fino al momento di cui alla precedente lett. c). La disciplina è, poi, completata dall’art. 1463 c.c., a mente del quale “la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione e deve restituire quella che abbia già ricevuta”.
Ebbene, a differenza di quanto accade per la risoluzione per inadempimento, il legislatore non subordina l’estinzione dell’efficacia del contratto all’esercizio di un potere di parte e considera sufficiente il verificarsi di una determinata situazione fattuale. Né avrebbe potuto fare diversamente, a ben vedere: quando l’adempimento è possibile, alla parte che subisce l’inadempienza può essere lasciata la scelta tra il mantenimento e la rimozione del rapporto, perché l’interesse ad ottenere la prestazione gravante sulla controparte potrebbe superare l’interesse a liberarsi dal vincolo contrattuale; invece, quando l’obbligazione che grava sulla controparte non può in alcun modo essere adempiuta, l’interesse ad ottenerla non può oggettivamente essere soddisfatto e, quindi, non ha senso che l’ordinamento lo tuteli. Pertanto, nell’ipotesi di cui all’art. 1463 c.c., l’effetto di risoluzione si forma secondo lo schema norma – fatto – effetto (268).
(266) Così C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., pp. 304, 400, per cui “l’imputabilità segna la distinzione tra le due cause di risoluzione”; A. LOMBARDI, La risoluzione per impossibilità sopravvenuta, Milano, 2007, p. 184, per cui “gli istituti della risoluzione per inadempimento e per impossibilità sopravvenuta sono contraddistinti da un rapporto di incompatibilità logico giuridica e di reciproca escludibilità”; F. MACIOCE, Risoluzione cit., p. 27, il quale espressamente scrive che “l’ipotesi della impossibilità della prestazione per causa imputabile al debitore […] rientra nella disciplina dell’art. 1453 c.c.”; L. MOSCO, voce Impossibilità sopravvenuta della prestazione, in Enc. dir., vol. XX, Milano, 1970, p. 405, spec. 439; S. PAGLIANTINI, Prevedibilità del fatto impeditivo cit., p. 506, per cui l’impossibilità deve essere non imputabile al debitore, “altrimenti ad operare è l’art. 1453”; V. ROPPO, Il contratto cit., pp. 937-938.
(267) L’attenta distinzione si deve a G. G. AULETTA, La risoluzione per inadempimento cit., p. 416.
(268) Rispetto a tale conclusione l’unanimità degli studiosi non è mai stata scalfita: v. G. G. AULETTA, La risoluzione per inadempimento cit., p. 415, per cui “l’obbligazione del creditore insoddisfatto, nell’ipotesi del fortuito, si estingue ipso jure”; G. BIANCHI, Rescissione e risoluzione dei contratti. Con riferimenti al diritto civile del XXI secolo, Padova, 2003, p. 544; O. CAGNASSO, voce Impossibilità sopravvenuta cit., p. 4; A. DALMARTELLO, voce Risoluzione cit., p. 128, anche nt. 3; M. DELLACASA, Risoluzione per inadempimento cit., p. 77; N. DI PRISCO, I modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, in Trattato di diritto privato, diretto da P. RESCIGNO, vol. IX, Torino, 1999, p. 450, secondo cui i contratti a prestazioni corrispettive, “nei casi di impossibilità totale della prestazione di una delle parti si considerano sciolti di diritto”; F. GALBUSERA, La risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, in G. SICCHIERO – M. D’AURIA – F. GALBUSERA, Risoluzione dei contratti, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, Napoli, 2013, p. 442; A. LOMBARDI, La risoluzione cit., p. 188; G. MIRABELLI,
Volgendo ora l’attenzione alla seconda evenienza menzionata in apertura, ossia quella di impossibilità solo parziale della prestazione, la norma che delinea la fattispecie astratta è l’art. 1464 c.c.
Quanto alla fattispecie concreta, il primo elemento che viene in rilievo è l’impossibilità parziale della prestazione che fa capo a una delle parti. Lo stato di impedimento presenta le medesime caratteristiche dell’impossibilità disciplinata nell’articolo precedente, ad eccezione dell’estensione oggettiva: anche in questo caso, l’impossibilità deve essere sopravvenuta, definitiva (in forma originaria o in forma di perdurante impossibilità temporanea), e non imputabile; tuttavia, anziché colpire una determinata obbligazione nella sua integrità, la investe solo in parte.
Ciò comporta che, quantomeno rispetto a una porzione della prestazione, per il contraente deluso rimane quell’alternativa tra ottenere l’adempimento – necessariamente parziale – e liberarsi dal vincolo contrattuale. Coerentemente, il legislatore ha ritenuto opportuno evitare l’automatismo della risoluzione e lasciare alla parte insoddisfatta la scelta (269). Il che si è tradotto nella seguente formulazione dell’art. 1464 c.c.: “quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l’altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione dovuta, e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale”. Mentre il contraente su cui grava l’obbligazione parzialmente inattuabile si trova in uno stato di soggezione, non potendo prendere iniziativa di sorta, all’altro contraente è attribuito un diritto potestativo di recedere dal contratto (270).
La peculiarità di tale diritto potestativo risiede nel fatto che il suo esercizio non è lasciato alla pura discrezionalità del titolare: costui può avvalersi della facoltà di recesso solo se non ha un “interesse apprezzabile all’adempimento parziale”. Secondo l’interpretazione della migliore dottrina, l’indagine circa l’apprezzabilità dell’interesse deve muovere da una
Dei contratti cit., p. 576, il quale sottolinea che, “poiché […] si ha mancata attuazione della funzione del contratto, per la quale le prestazioni erano in relazione diretta tra loro, dall’estinzione di una non può che derivare lo scioglimento del vincolo; scioglimento che, se si tratta di estinzione totale, non può che essere del tutto indipendente da ogni iniziativa di parte, ed operare di diritto”; L. MOSCO, voce Impossibilità cit., p. 439; S. PAGLIANTINI, Prevedibilità del fatto impeditivo cit., p. 504, secondo cui lo scioglimento di diritto del contratto è dovuto al fatto che esso “non può più essere, mancando ormai il sinallagma funzionale, titolo idoneo a svolgere la programmata funzione di scambio”; I. PAGNI, Le azioni cit., p. 317, anche nt. 18; M. PALADINI, L’atto unilaterale cit., p. 93; V. ROPPO, Il contratto cit., p. 936; R. SCOGNAMIGLIO, Contratti in generale cit., pp. 277-278, per cui, nel caso in esame, la risoluzione “si verifica in via immediata e automatica; e dunque senza che sia necessario, per far cadere gli effetti del contratto, agire in giudizio o fare qualche intimazione. La soluzione normativa agevolmente si giustifica, considerando che […] l’impossibilità […] colpisce in modo completo e definitivo una delle prestazioni; cosicché nessun dubbio può sussistere sulla interruzione del sinallagma”; M. TAMPONI, La risoluzione per impossibilità sopravvenuta, in E. GABRIELLI (a cura di), I contratti in generale, in Trattato dei contratti, diretto da P. RESCIGNO – E. GABRIELLI, Torino, 2006, p. 1799; A. TORRENTE – P. SCHLESINGER, Manuale cit., p. 704.
(269) Cfr. N. DI PRISCO, I modi di estinzione delle obbligazioni cit., p. 451, per cui “l’art. 1464 fa dipendere dalla volontà del creditore lo scioglimento del rapporto”.
(270) Il che, peraltro, è perfettamente in linea con quanto previsto dall’art. 1258 c.c., secondo cui, “se la prestazione è divenuta impossibile solo in parte, il debitore si libera dall’obbligazione eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta possibile”.
comparazione tra l’utilità e il costo della prestazione parziale, ossia dal confronto tra la prestazione residua e la controprestazione ridotta, e dall’utilità che uno scambio così ridimensionato procura al creditore. Il meccanismo è nitidamente spiegato dalle parole di Sgroi, che meritano di essere riportate per esteso: “Il presupposto di fatto perché possa qui invocarsi il potere di impugnazione del negozio è costituito dalla riduzione, avvenuta ope legis, di una delle due prestazioni, sulla quale si innesta un apprezzamento del suo creditore che valuta se la ridotta funzionalità del contratto è idonea a ripagare il costo di una controprestazione. Da questo giudizio comparativo tra il mutamento sopravvenuto dell’economia del contratto e il suo rendimento commisurato al costo che ne deriva, scaturiscono gli elementi che motivano il recesso del creditore. Il quale, pur non perdendo il suo carattere potestativo, trova dei limiti naturali, che ne consentono il successivo controllo alla luce di criteri che, attraverso il rifacimento del processo psicologico dal quale è nata la decisione del creditore, tendono a misurare la ragionevolezza del suo giudizio alla stregua della correttezza, lealtà e buona fede contrattuale” (271).
La figura del recesso prevista dall’art. 1464 c.c. rientra nella più ampia categoria del recesso per giusta causa, rappresentata nella specie dall’assenza di un apprezzabile interesse all’adempimento parziale. E come ogni recesso per giusta causa, esso opera sul piano stragiudiziale e produce direttamente l’effetto che la legge gli ricollega (272). Pertanto, l’esercizio del recesso si pone come causa efficiente immediata dell’effetto risolutivo e ne ultima la sequenza genetica (norma – fatto – potere sull’an – effetto).
(271) Cfr. R. SGROI, L’impossibilità parziale della prestazione nei contratti sinallagmatici, in Giust. civ. 1953, p. 717, spec. 731-732. In termini analoghi si esprimono L. CABELLA PISU, Dell’impossibilità sopravvenuta, in F. GALGANO, Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2002, p. 159; U. CARNEVALI, L’impossibilità sopravvenuta, in U. CARNEVALI – E. GABRIELLI – M. TAMPONI, Il contratto in generale, tomo VIII**, La risoluzione, in Trattato di diritto privato, diretto da M. BESSONE, vol. XIII, Torino, 2011, pp. 284-285; S. PAGLIANTINI, Prevedibilità del fatto impeditivo cit., p. 531, per cui l’interesse del creditore non è apprezzabile ogniqualvolta “il sinallagma che residua si mostra idoneo a produrre un tipo di utilità subiettiva che è diversa e difforme da quella costituente la ragione iniziale della (perfezionata) operazione economica”; l’interesse apprezzabile va sempre inteso “in termini di utilità della prestazione, dovendo il creditore ricevere ciò che si era negoziato per come lo si era pattuito”; M. PALADINI, L’atto unilaterale cit., pp. 95-96, per cui la decisione di recedere non deve essere arbitraria e l’apprezzabilità dell’interesse deve essere valutata con gli stessi criteri che consentono di stabilire l’importanza dell’inadempimento ai sensi dell’art. 1455 c.c.; V. ROPPO, Il contratto cit., p. 941.
(272) La natura sostanziale del diritto potestativo di cui all’art. 1464 c.c. è affermata dalla dottrina spiccatamente
maggioritaria: cfr. C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., p. 404; L. CABELLA PISU, Dell’impossibilità sopravvenuta cit.,
p. 162; U. CARNEVALI, L’impossibilità sopravvenuta cit., p. 282, anche nt. 32; F. CARRESI, Il contratto, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. CICU – F. MESSINEO, vol. XXI, tomo II, Milano, 1987, p. 853, nt. 368; S. PAGLIANTINI, Prevedibilità del fatto impeditivo cit., p. 531; M. PALADINI, L’atto unilaterale cit., p. 94 ss.; V. ROPPO, Il contratto cit., p. 941; R. SCOGNAMIGLIO, Contratti in generale cit., p. 279; M. TAMPONI, La risoluzione cit., pp. 1798-1799. Isolata è, invece, l’opinione di G. MIRABELLI, Dei contratti cit., p. 579, per cui “la valutazione della mancanza di interesse va compiuta […] obiettivamente, e condiziona la sussistenza stessa della facoltà di scioglimento, sì che mezzo necessario diventa la proposizione di una domanda giudiziale perché, con il riconoscimento della sussistenza dei presupposti del recesso, venga pronunciato lo scioglimento”.
Per completezza, si segnala che si discute della natura giudiziale o sostanziale dell’alternativo rimedio della riduzione della controprestazione. Nel primo senso, v. M. PALADINI, L’atto unilaterale cit., pp. 94, 96. Nel secondo, v. A. LUMINOSO, sub art. 1453, in A. LUMINOSO – U. CARNEVALI – M. COSTANZA, Della risoluzione per inadempimento, tomo I, 1, in F. GALGANO (a cura di), Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna- Roma, 1990, p. 19.
Come si vede, sia nell’ipotesi di impossibilità totale sia in quella di impossibilità parziale lo scioglimento del contratto si perfeziona in via stragiudiziale: nell’un caso, per il mero corso degli eventi; nell’altro, per scelta di parte. Sicché, ove insorgesse una controversia tra i contraenti e si arrivasse a discutere dell’effetto risolutivo in sede giurisdizionale, il giudice non potrebbe rimuovere in prima persona gli effetti prodotti dal contratto risolubile, ma dovrebbe semplicemente accertare se ciò si sia verificato o meno sul piano sostanziale. Il giudizio instaurato non potrebbe che essere un giudizio di mero accertamento (positivo o negativo, a seconda di quale sia l’obiettivo della parte attrice), come tale non soggetto ad alcun termine di prescrizione (273), e la sentenza pronunciata dal giudice non potrebbe che avere natura dichiarativa (274).
L’effetto di risoluzione che ha quale presupposto fattuale l’impossibilità (totale o parziale) di una delle prestazioni contrattuali ha le medesime caratteristiche dell’effetto di risoluzione che ha quale presupposto fattuale l’inadempimento di uno dei contraenti (275). Si rinvia, dunque, a quanto esposto nel precedente paragrafo 9.1.6.
(273) In tal senso, A. NATUCCI, Risoluzione cit., p. 605. Contra, L. MOSCO, voce Impossibilità cit., p. 440, per il
quale l’azione di risoluzione per impossibilità sopravvenuta è soggetta al termine ordinario di prescrizione.
(274) È questa la ricostruzione pressoché pacifica: v. G. BIANCHI, Rescissione e risoluzione dei contratti cit., p. 545;
A. BOSELLI, La risoluzione cit., p. 254; F. GALBUSERA, La risoluzione cit., p. 442; A. LOMBARDI, La risoluzione cit.,
p. 188; G. MIRABELLI, Dei contratti cit., p. 577 (come subito si vedrà meglio, solo con riferimento all’ipotesi contemplata dall’art. 1463 c.c.); L. MOSCO, voce Impossibilità cit., p. 440; V. ROPPO, Il contratto cit., p. 936; R. SCOGNAMIGLIO, Contratti in generale cit., pp. 278-279; M. TAMPONI, La risoluzione cit., p. 1799; P. TRIMARCHI, Istituzioni cit., p. 339. Quanto al caso dell’impossibilità sopravvenuta totale, ove la parte abbia già adempiuto alla propria obbligazione prima che quella di controparte sia divenuta impossibile, la stessa potrebbe dover agire in giudizio al fine di ottenere la restituzione di quanto prestato. In tal caso, l’azione assumerebbe la natura di azione di condanna alla restituzione, con cognizione incidenter tantum o accertamento sull’intervenuta risoluzione (la distinzione dipende da una serie di fattori che verranno esaminati in dettaglio nel secondo capitolo della presente trattazione). Quanto al caso dell’impossibilità sopravvenuta parziale, G. MIRABELLI, Dei contratti cit., p. 579, si pone in contrasto con la tesi maggioritaria e asserisce che, poiché lo scioglimento del contratto viene pronunciato dalla sentenza (cfr. supra, nota 272), quest’ultima ha natura costitutiva.
(275) In tal senso, v. M. BORRIONE, La risoluzione per inadempimento cit., p. 188; U. CARNEVALI, L’impossibilità sopravvenuta cit., pp. 285-286 (con riguardo ai contratti ad esecuzione continuata o periodica); A. LOMBARDI, La risoluzione cit., p. 194 (solo con riferimento agli effetti tra le parti); G. OPPO, I contratti di durata cit., p. 244 (rispetto ai contratti ad esecuzione continuata o periodica); V. ROPPO, Il contratto cit., p. 884; R. SACCO, I rimedi sinallagmatici cit., p. 651 (implicitamente).
L’identità degli effetti si manifesta anche rispetto ai contratti plurilaterali, i quali si sciolgono integralmente solo se viene a mancare una prestazione che deve considerarsi essenziale (v. art. 1466 c.c.).
Una corrente dottrinale minoritaria ritiene, invece, che l’effetto risolutorio ex artt. 1453 ss. c.c. e l’effetto risolutorio ex artt. 1463 ss. c.c. non siano assimilabili con riferimento alle conseguenze rispetto ai terzi; la seconda species di effetto risolutorio dovrebbe essere regolata dall’art. 2038 c.c., in forza del rinvio che l’art. 1463 c.c. effettua a favore della disciplina della ripetizione d’indebito, ai sensi del quale: “1. Chi, avendo ricevuto la cosa in buona fede, l’ha alienata prima di conoscere l’obbligo di restituirla è tenuto a restituire il corrispettivo conseguito. Se questo è ancora dovuto, colui che ha pagato l’indebito subentra nel diritto dell’alienante. Nel caso di alienazione a titolo gratuito, il terzo acquirente è obbligato, nei limiti del suo arricchimento, verso colui che ha pagato l’indebito. 2. Chi ha alienato la cosa ricevuta in mala fede, o dopo aver conosciuto l’obbligo di restituirla, è obbligato a restituirla in natura o a corrisponderne il valore. Colui che ha pagato l’indebito può però esigere il corrispettivo dell’alienazione e può anche agire direttamente per conseguirlo. Se l’alienazione è stata fatta a titolo gratuito, l’acquirente, qualora l’alienante sia stato inutilmente escusso, è obbligato, nei limiti dell’arricchimento, verso colui che ha pagato l’indebito”. Sono di tale opinione C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., pp. 409-410; G. BIANCHI, Rescissione e risoluzione dei contratti cit., pp. 545-546; A. LOMBARDI, La risoluzione cit., p. 196 ss.
9.3. La risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta
L’ultima forma di risoluzione di cui si occupa il codice civile è la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. Essa mira a risolvere un problema che può porsi in tutte le ipotesi in cui intercorra un certo lasso di tempo tra il momento in cui un contratto viene stipulato e il momento in cui viene integralmente eseguito (tipicamente, ciò accade nei contratti di durata, siano essi ad esecuzione continuata o periodica, ovvero ad esecuzione istantanea ma differita). Durante tale intervallo, lo scenario in cui si colloca il rapporto negoziale può subire dei mutamenti che rendono l’adempimento delle prestazioni contrattuali maggiormente oneroso (276). Si verifica così un’alterazione della causa del contratto, che attiene al profilo funzionale di questa: per dirla con Boselli, in ragione del sopravvenuto squilibrio di valori, il rapporto contrattuale “tradisce la causa”, nel senso che “viene a comportarsi, per effetto di influenze ed accidentalità esterne al contratto, come se avesse o dovesse attuare una causa diversa” (277). Quando ciò accade, scatta la disciplina della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, che mira a evitare danni per il contraente onerato (278).
L’incipit della sequenza che origina l’effetto di risoluzione è rappresentato dall’art. 1467
c.c.
I presupposti fattuali che sono descritti in astratto dalla norma e che devono
concretamente verificarsi affinché l’effetto risolutivo venga alla luce sono i seguenti:
a) l’esecuzione di almeno una delle prestazioni contrattuali deve essere differita rispetto alla stipulazione del contratto (279);
b) l’onerosità della prestazione deve aumentare rispetto al tempo in cui il contratto è stato concluso e ciò deve accadere in un momento in cui l’esecuzione della prestazione non è ancora esaurita (280);
(276) In tal senso, v. F. GALBUSERA, La risoluzione cit., p. 433; P. GALLO, voce Eccessiva onerosità sopravvenuta, in
Dig. disc. priv., sez. civ., vol. VII, Torino, 1991, p. 234, spec. 235; P. TRIMARCHI, Istituzioni cit., p. 340.
(277) A. BOSELLI, La risoluzione cit., p. 248. A tale ricostruzione si oppone C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., p. 420, per il quale il fondamento della disciplina dell’eccessiva onerosità sopravvenuta è “l’esigenza di contenere entro limiti di normalità l’alea dell’aggravio economico della prestazione, e precisamente l’esigenza di salvaguardare la parte contro il rischio di un eccezionale aggravamento economico della prestazione derivante da gravi cause di turbamento dei rapporti socio-economici”.
(278) Cfr. A. BOSELLI, La risoluzione cit., p. 245.
(279) Così C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., p. 422; V. ROPPO, Il contratto cit., p. 946.
(280) La dottrina, fedele alla lettera della norma, esclude l’operatività dell’art. 1467 c.c. nelle ipotesi in cui la prestazione di cui si deduce la sopravvenuta eccessiva onerosità sia già stata integralmente adempiuta (“se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può…”). L’orientamento sembrerebbe motivato dalla convinzione che lo scopo della disposizione sia quello di consentire al debitore, in deroga al principio generale espresso dall’art. 1372 c.c., di liberarsi dall’obbligo di eseguire la prestazione divenuta eccessivamente gravosa, senza per ciò solo incorrere in inadempimento. Una volta eseguita la prestazione, invece, il debitore non si trova più nella situazione di dover scegliere tra adempimento eccessivamente oneroso e responsabilità per inadempimento; viene, dunque, meno la ratio di tutela che giustifica la deroga al principio di vincolatività dei rapporti giuridici. Viceversa, quando la prestazione divenuta gravosa è stata solo parzialmente eseguita, il debitore si trova ancora di fronte all’alternativa di cui sopra, e continua, quindi, a meritare tutela. In proposito, v. C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., p. 422; A. BOSELLI, La risoluzione cit., p. 278; G. CASELLA, La risoluzione cit., pp. 145-146; F. GALBUSERA, La risoluzione cit., p. 435; P. TRIMARCHI, Istituzioni cit., p. 342. Cfr. anche V. ROPPO, Il contratto cit., pp. 947-948, per il quale, “se la prestazione è esaurita – cioè completamente uscita dalla sfera di chi la
c) l’onerosità deve essere “eccessiva”, nel senso che deve creare uno squilibrio economico macroscopico tra prestazione e controprestazione. Ciò può essere la conseguenza sia dell’accresciuta onerosità dell’una sia dello svilimento del valore dell’altra. In ogni caso, essa deve essere legata alla prestazione nella sua oggettività, e non alle condizioni soggettive del debitore (281). Il legislatore ha comunque prestabilito che l’onerosità non può mai essere considerata eccessiva se rientra nell’“alea normale del contratto” (art. 1467, c. 2, c.c.), cioè se si pone al di sotto della soglia di rischio che le parti hanno assunto (282);
d) l’onerosità deve essere causata da avvenimenti che siano, al contempo, straordinari e imprevedibili. La prima caratteristica sussiste quando l’evento, statisticamente, non si ripete con frequenza e regolarità. La seconda caratteristica ricorre, invece, quando l’uomo medio, ossia l’uomo di normale diligenza che eserciti la medesima attività dei contraenti, non è in alcun modo in grado di rappresentarsi la probabile sopravvenienza dell’evento, e nemmeno l’entità, la portata degli effetti e l’incidenza
doveva, e completamente entrata nella sfera di chi l’attendeva – gli eventi che la riguardano toccano qualcosa che in realtà non è più «prestazione», ma è oramai elemento interno al patrimonio della parte accipiens”. Contra,
M. AMBROSOLI, Le sopravvenienze, in A. GAMBARO – U. MORELLO (a cura di), Lezioni di diritto civile, Milano, 2012, p. 347, secondo il quale l’istituto “manifesta la preoccupazione per la tutela dell’equilibrio convenzionale tra le prestazioni e per gli spostamenti patrimoniali privi di adeguata giustificazione”; preoccupazione, questa, che si mostra rilevante anche se la parte pregiudicata ha già eseguito compiutamente la prestazione a suo carico. La teoria abbracciata dalla dottrina può comunque rivelarsi troppo severa nelle situazioni in cui il debitore, pur consapevole dell’eccessiva onerosità della prestazione dovuta, sia costretto ad adempiere (si immagini che la gravosità della prestazione si manifesti solo quando scade il termine per eseguirla). Una voce dottrinale suggerisce di temperare la regola sopra esposta, riconoscendo l’esperibilità del rimedio risolutorio anche al debitore che, prima di eseguire la prestazione, abbia comunicato alla controparte la propria volontà di far valere l’eccessiva onerosità sopravvenuta (c.d. adempimento con riserva): così G. CASELLA, La risoluzione cit., p. 149.
(281) Per vagliarne la sussistenza, occorre raffrontare i valori assunti dalle prestazioni corrispettive al momento della stipulazione del contratto e i valori delle stesse rapportati al tempo fissato per l’adempimento: v. G. CASELLA, La risoluzione cit., p. 140. Di avviso parzialmente diverso è, invece, P. GALLO, voce Eccessiva onerosità cit., p. 240, il quale concorda con il fatto che l’eccessiva gravosità debba essere valutata “al tempo dell’adempimento”, ma opina che essa debba essere valutata in modo “oggettivo”, tenendo conto solo dei maggiori oneri che comporterebbe l’esecuzione dell’accordo così come è stato concluso, ed evitando qualsivoglia comparazione tra i valori delle prestazioni corrispettive. Per converso, ad avviso di V. ROPPO, Il contratto cit., p. 953, il tempo di riferimento per misurare il sopravvenuto squilibrio dei valori delle prestazioni è quello del giudizio.
(282) In dottrina, si è precisato che tale soglia è determinata in parte dal tipo contrattuale in cui un determinato contratto si inscrive, giacché ogni tipologia incorpora un diverso piano di ripartizione dei rischi tra i contraenti, e in parte dal piano di ripartizione dei rischi che le parti abbiano adottato nel singolo caso di specie: cfr. F. GALBUSERA, La risoluzione cit., pp. 437-438; V. ROPPO, Il contratto cit., p. 953.
Si noti che il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta non è concesso rispetto ai contratti i quali, per loro natura o per volontà delle parti, sono aleatori (art. 1469 c.c.). In queste ipotesi, la parte sa che la prestazione è a rischio, in quanto il rischio stesso appartiene alla causa del contratto. La ratio dell’esclusione ne rappresenta al contempo il limite: i contratti aleatori sfuggono ai rimedi contro la gravosità sopravvenuta solo in quanto la sopravvenienza realizzi esattamente il rischio che costituisce l’alea di quel determinato contratto; se realizza un rischio maggiore o diverso, i rimedi tornano a operare: cfr. V. ROPPO, Il contratto cit., p. 961.
sull’equilibrio contrattuale dello stesso (si suol dire che la previsione deve essere in concreto e specifica) (283).
Anche una volta realizzatesi cumulativamente tutte le circostanze appena elencate, la parte debitrice potrebbe comunque avere interesse a mantenere in vita il contratto, sebbene esso si sia tramutato in un accordo più dispendioso del previsto; e ciò potrebbe avvenire per le ragioni più svariate. Se si volesse tentare un’esemplificazione, si potrebbe immaginare che la parte debitrice abbia già svolto un numero considerevole di dispendiose attività preparatorie, i cui prodotti non possono essere riutilizzati per adempiere ad altri e diversi contratti.
Questa è la ragione per cui, similmente a quanto accade nell’ipotesi di risoluzione per inadempimento, la legge non ricollega l’effetto ablativo al mero verificarsi dei fatti sopra menzionati, ma affida l’opzione dello scioglimento del negozio alla volontà della parte colpita dai maggiori oneri. A quest’ultima viene attribuito un diritto potestativo di impugnazione del contratto, che, in forza del chiaro dettato normativo, può essere esercitato solo in forma di domanda giudiziale: ai sensi dell’art. 1467 c.c., infatti, “se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto” (primo comma); “La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del contratto” (secondo comma); “La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla…” (terzo comma) (284).
(283) Cfr. C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., p. 426; G. CASELLA, La risoluzione cit., p. 150 ss., il quale sottolinea come l’assenza anche di uno solo dei due connotati dell’avvenimento che determina l’eccessiva gravosità impedisca l’insorgere dell’effetto risolutivo; P. GALLO, voce Eccessiva onerosità cit., p. 238.
(284) Sulla natura giudiziale del diritto potestativo di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, v. M. AMBROSOLI, Le sopravvenienze cit., p. 363; A. ATTARDI, In tema di limiti oggettivi cit., p. 536, per cui “è la lettera della legge, che, sempre […], prevede per l’interessato il potere di chiedere al giudice un (provvedimento che disponga un) mutamento giuridico, non di provocarlo con la sua dichiarazione di volontà” (nel citato contributo, l’Autore cambia opinione rispetto a quanto sostenuto nel suo precedente articolo ID., Conflitto di decisioni cit., pp. 431-432); C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., p. 427; A. BOSELLI, La risoluzione cit., pp. 252-253, che nitidamente scrive: “il diritto alla risoluzione del contratto per eccessiva onerosità si pone accanto al diritto allo annullamento, a quello di rescissione ed a quello di risoluzione per inadempimento, nella più ampia categoria dei cosiddetti «diritti di impugnazione», la cui caratteristica consiste appunto nel provocare, come obbietto immediato della loro efficacia, l’estinzione dell’intero rapporto giuridico posto in essere dalle parti. […] Questo potere non si attua però immediatamente, per via della unilaterale manifestazione della volontà del suo soggetto, ma rientra fra quelli che richiedono a tal fine la instaurazione e l’esito favorevole di un apposito giudizio”; E. GABRIELLI, sub art. 1467, in E. NAVARRETTA – A. ORESTANO (a cura di), Dei contratti in generale, in Commentario del codice civile, diretto da E. GABRIELLI, Torino, 2011, pp. 650-651, per cui “ogni doglianza del debitore sopraffatto dalla sopravvenienza deve trovare espressione nel giudizio e accoglimento nella sentenza”; F. GALBUSERA, La risoluzione cit., pp. 441-442, secondo la quale “il meccanismo proprio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta non opera di diritto, bensì giudizialmente”; P. GALLO, voce Eccessiva onerosità cit., p. 241, per cui “la risoluzione del contratto non ha però luogo automaticamente, ma implica una scelta del contraente la cui prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa di porre fine al contratto”; V. ROPPO, Il contratto cit., p. 956; P. TARTAGLIA, voce Onerosità eccessiva, in Enc. dir., vol. XXX, Milano, 1980, p. 155, spec. 170, per il quale “è da escludersi la rilevanza giuridica di una dichiarazione stragiudiziale tendente ad ottenere la risoluzione […]. Unico modo per l’esercizio del diritto è il ricorso all’autorità giudiziaria”.
Una voce dottrinale sottolinea, peraltro, che, se è vero che il potere di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta è dato ai contraenti direttamente dalla legge, comunque si deve ritenere che le parti
Ne segue che l’effetto di risoluzione si produce secondo la modalità norma – fatto – potere sull’an – accertamento giudiziale – effetto. È la sentenza che definisce positivamente il giudizio a provocare l’effetto in via immediata e a porsi come causa efficiente dello scioglimento del contratto. Sicché anche la sentenza di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta si colloca nella categoria delle sentenze costitutive, che modificano la realtà sostanziale estinguendo gli effetti del contratto (285).
Sull’azione che conduce all’emanazione della sentenza risolutiva, la quale ha (ormai è chiaro) natura costitutiva, occorre svolgere due brevi precisazioni.
Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che la stessa non possa essere introdotta dal contraente in mora, sulla base della seguente ragione. Ai sensi dell’art. 1221 c.c., “il debitore che è in mora non è liberato per la sopravvenuta impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, se non prova che l’oggetto della prestazione sarebbe ugualmente perito presso il creditore”. Ciò significa che il rischio dell’impossibilità della prestazione sopravvenuta in pendenza della mora grava sul debitore moroso; e allora, a fortiori, deve gravare su di lui il rischio che la prestazione diventi eccessivamente onerosa (ipotesi che, rispetto a quella di impossibilità della prestazione, rappresenta un caso meno grave) (286).
L’azione è soggetta al termine di prescrizione ordinario di dieci anni, decorrenti dal momento in cui l’onerosità è divenuta eccessiva, superando l’alea normale del contratto (287). Quanto ai connotati dell’effetto sostanziale di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, è lo stesso art. 1467 c.c. a indicare espressamente che si tratta degli stessi che possiede l’effetto sostanziale di risoluzione per inadempimento (la parte sulla quale grava la
possano “pattuire forme più ridotte o più ampie di revisione che verrebbero, a seconda della loro natura, a
coordinarsi o a sovrapporsi alla revisione accordata dalla legge”: A. BOSELLI, La risoluzione cit., p. 252.
(285) La dottrina ne è fermamente convinta e non si registrano voci contrarie. Sul punto, v. C. M. BIANCA, Diritto civile, V cit., p. 427; G. CASELLA, La risoluzione cit., pp. 164, 209, il quale sottolinea che, “mancando per l’eccessiva onerosità norme […] che sanciscano l’estinzione de iure della obbligazione, la risoluzione ex art. 1467
c.c. non si verifica in via automatica, ma necessita, per produrre i suoi effetti (costitutivi), di una pronuncia
giudiziale che accerti la sussistenza dei presupposti della sopravvenienza”; C. CONSOLO, Spiegazioni cit., vol. I,
p. 32, per cui “l’intervento del giudice e della sentenza è richiesto […] nella risoluzione per onerosità sopravvenuta dei contratti”; E. GABRIELLI, sub art. 1467 cit., p. 649 ss.; F. GALBUSERA, La risoluzione cit., p. 446; E. MERLIN, Elementi cit., p. 50; I. PAGNI, Le azioni cit., p. 318, nt. 18; V. ROPPO, Il contratto cit., pp. 878, 957; A. SEGNI, Tutela giurisdizionale cit., p. 317. In giurisprudenza, v. Cass., sez. un., 23 novembre 2018, n. 30416; Trib. Napoli, 3 aprile 2018, n. 2413, in DeJure; Trib. Napoli, 9 febbraio 2016, n. 1193, in DeJure; Trib. Napoli, 8 febbraio 2016, n. 1143, in DeJure.
L’eventuale pronuncia di rigetto della domanda ex art. 1467 c.c. ha, invece, carattere dichiarativo (v. supra, par. 3).
(286) Cfr. F. GALBUSERA, La risoluzione cit., p. 431, nt. 1497; P. TRIMARCHI, Istituzioni cit., p. 340. In giurisprudenza, v. Trib. Firenze, 11 dicembre 2018, n. 3412, in DeJure; Cass., 27 settembre 1991, n. 10139; Cass., 31 ottobre 1989, n. 4554, per le quali “la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta ai sensi dell’art. 1467 c.c. non può essere fatta valere dalla parte che, con il suo inadempimento, abbia ritardato l’esecuzione del contratto, rendendo necessario il ricorso della parte adempiente alla tutela giudiziaria. Essendo posto a carico della parte inadempiente il rischio della sopravvenuta impossibilità della prestazione (art. 1221 c.c.), deve ‘a fortiori’ ritenersi che sia a carico della stessa parte la sopravvenienza dell’eccessiva onerosità, la quale, rispetto all’ipotesi dell'impossibilità della prestazione, costituisce una situazione meno grave”.
(287) Lo precisa M. DELLACASA, L’azione di risoluzione cit., p. 205. In giurisprudenza, cfr. Trib. Nola, 17 febbraio 2012, in DeJure; Cass., 29 maggio 1998, n. 5302.