DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
Cattedra di Diritto Sindacale Comparato
CONTRATTAZIONE COLLETTIVA E TUTELA DELLA CONCORRENZA, LA LIBERA PRESTAZIONE DI SERVIZI E LA LIBERTÀ DI STABILIMENTO:
IL CASO RYANAIR
RELATORE CORRELATORE
Xxxxx.xx Professor Xxxxx.xx Professor
Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx
CANDIDATO
Xxxxxxxx Xxxx
Matricola 128653
ANNO ACCADEMICO 2021/2022
INDICE TESI
INTRODUZIONE
CAPITOLO 1
LA LIBERTA’ DI STABILIMENTO, PROFILI GIUSLAVORISTICI E GIURISPRUDENZA.
1.1 La libera circolazione e la libertà di stabilimento.
1.2 Le fonti normative sulla libera circolazione e la libertà di stabilimento.
1.3 L’evoluzione del concetto di libertà di stabilimento.
1.4 Libera circolazione come presupposto per il diritto di libertà di stabilimento.
1.5 La libertà di stabilimento in uno Stato membro nel termine dei tre mesi o oltre il termine dei tre mesi.
1.6 Libertà di stabilimento e requisiti necessari, l’importanza di un impiego.
1.7 Il significato del termine “lavoratore” per il legislatore europeo e negli orientamenti della Corte di Giustizia.
1.8 L’interpretazione estensiva del concetto di libera circolazione.
1.9 La cittadinanza europea e l’evoluzione storica per l’acquisizione dello status di cittadino.
1.10 La cittadinanza europea come status complementare.
1.11 La sentenza della Corte di Giustizia 20 febbraio 1975 n°21, il caso Airola.
1.12 La sovranità dello Stato membro nella determinazione dei modi di assegnazione o perdita della cittadinanza.
1.13 Interpretazione univoca del concetto di cittadinanza, orientamenti della Corte di Giustizia ed esercizio della funzione nomofilattica, evoluzione normativa.
1.14 La direttiva CE 38/2004
1.15 Evoluzione nell’interpretazione dell’Art. 7, paragrafo 3, lettera b) della direttiva CE 38/2004 dopo la sentenza della CGUE Xxxxxx Xxxx.
CAPITOLO 2
LA LIBERA PRESTAZIONE DI SERVIZI, PROFILI GIUSLAVORISTICI E GIURISPRUDENZA.
2.1 Introduzione.
2.2 La libertà di circolazione come presupposto necessario della libera prestazione di servizi.
2.3 Definizione giuridica di “libera prestazione di servizi”.
2.4 Il carattere transfrontaliero della libera prestazione di servizi.
2.5 Il carattere temporaneo della libera prestazione di servizi.
2.6 I destinatari della disciplina sulla prestazione di servizi.
2.7 La teoria degli ostacoli e quella del mutuo riconoscimento.
2.8 I sistemi di “home state control” ed i sistemi di “host state control”.
2.9 I limiti esterni alla prestazione di servizi.
2.10 La tutela interna del mercato del lavoro.
2.11 I limiti alle tutele imposte dagli Stati membri.
2.12 Il tentativo di armonizzazione del legislatore: la Direttiva CE 96/71.
2.13 La Direttiva 2006/123 “Bolkstein”.
2.14 La Direttiva 64/2014 “Enforcement”.
2.15 La Direttiva 957/2018.
2.16 La sentenza 18 dicembre 2007: “Laval”.
2.17 La sentenza “Xxxxxx” (procedimento C-415/93)
2.18 La genesi degli accordi commerciali in merito agli scambi tra Regno Unito e Unione Europea dopo la Brexit.
2.19 Accordi commerciali tra Regno Unito ed Unione Europea post Brexit.
CAPITOLO 3
IL CIELO UNICO EUROPEO, LA LIBERA PRESTAZIONE DI SERVIZI NELL’AVIAZIONE CIVILE ED IL CASO RYANAIR.
3.1 Introduzione.
3.2 Regole di mercato.
3.3 Sicurezza dell’aviazione civile.
3.4 Il cielo unico europeo.
3.5 Sicurezza aerea.
3.6 Le libertà fondamentali dell’UE e l’aviazione civile.
3.7 Il caso Ryanair.
3.8 Le cause C-168/16 e C-169/16 presso la CGUE.
3.9 I contratti di lavoro irlandesi e la contrattazione collettiva europea.
3.10 Sviluppi recenti.
CONCLUSIONI
INTRODUZIONE
Nel trattare i temi oggetto di questo elaborato è indubbiamente necessario, al fine di renderlo agevolmente comprensibile, definire il termine “concertazione” e farlo appare congruo partendo dalla treccani che la definisce perfettamente rispetto al significato che assumerà, o, per meglio dire, darò al termine nel corso dei capitoli che seguiranno:
“Il complesso delle iniziative che antepongono all’approvazione politica di misure, spec. di natura economica, il dialogo tra il governo e le parti sociali (attraverso una serie di trattative e di incontri) ai fini del raggiungimento di un accordo: politica della concertazione”.
La concertazione, dunque, appare come un elemento di spicco dal momento che a partire dal primo capitolo della tesi tenderò a concentrarmi sulla libertà di stabilimento, che il TFUE garantisce attribuendole addirittura funzione di prim’ordine tra le libertà fondamentali tutelate dallo stesso Trattato, per proseguire, nel secondo capitolo della tesi, con una trattazione approfondita della libera prestazione di servizi, disciplinata anche in questo caso dal TFUE, ed alla stregua delle altre libertà fondamentali che il Trattato concretamente istituisce seppur concede a questa un valore meramente residuale poiché, appunto, almeno secondo il legislatore europeo, diretta conseguenza delle altre, che, per chiarezza, sono la libertà di stabilimento, la libera circolazione delle merci, la libera circolazione dei capitali e, come detto poco sopra, la libera prestazione di servizi.
Infine, per tornare alla centralità della concertazione e, forse più in generale dei contratti di lavoro subordinato, il terzo capitolo è dedicato alla causa che ha visto protagonista la compagnia area Ryanair Ltd. ed alcuni suoi dipendenti, per la precisione personale della compagni che abitualmente ha svolto la sua professione in Belgio e nello specifico presso l’aeroporto di Charleroi, contrattualizzati secondo le norme di diritto del lavoro vigenti in Irlanda e compressivi dei diritti che invece sarebbero spettati loro se, come poi confermato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, fossero stati contrattualizzati secondo la normativa vigente nel luogo dove hanno abitualmente svolto la loro attività ossia, come detto, in Belgio.
Dunque la concertazione, l’efficacia dei contratti collettivi e, più in generale della contrattazione in materia di Diritto del Lavoro assumono un valore di primo piano all’interno dell’elaborato dal momento che l’intrecciarsi della disciplina di diritto del lavoro e le libertà fondamentali istituite dalle norme in vigore hanno spinto negli anni, ed attraverso numerose modifiche apportate tramite direttive e regolamenti, tra i quali cito ora, per rilevanza e perché spesso si incontreranno nel coso della trattazione, il Regolamento CE 38/2004 e la Direttiva CE 71/1996, hanno spinto il legislatore europeo a trovare soluzioni che potessero integrare e rendere il più omogenei possibili, non i mercati del lavoro dei singoli Stati membri e la disciplina che il legislatore nazionale, al quale viene quindi limitata la sovranità, detta al fine di disciplinarli, ma i singoli individui, garantendo loro uniformità di trattamento non in quanto lavoratori subordinati ed ai quali
viene regolato il rapporto in essere in base ad un contratto e ad una disciplina che il legislatore ha pensato e regolato, ma per il semplice fatto di essere cittadini di uno degli Stati membri.
Il legislatore, prima comunitario ed ora dell’Unione, ha dunque ragionato ad una serie di norme, come poco sopra accennato, idonee a rendere ogni cittadino di ogni Paese membro dell’Unione Europea cittadino dell’Unione.
Gli sforzi che sono stati fatti in merito sono risultati evidenti e la disciplina attualmente in vigore ne è la testimonianza, sebbene tutto ciò appaia evidente, un vero e proprio tentativo di instituire una cittadinanza europea è stato fatto, senza che tuttavia giungesse, il progetto, a termine ed i successivi tentativi di disciplina abbiano, in ultimo, condotto ad una disciplina unanime e condivisa, tanto da far ritenere un passaggio successivo, o almeno un progetto momentaneamente accantonato, quello di instituire una vera e propria cittadinanza europea.
Nonostante gli intoppi susseguitisi nel corso del tempo e che hanno reso impraticabile la soluzione sopra e che ho ritenuto opportuno analizzare con più attenzione nel primo capitolo, ha dapprima, lo stesso legislatore europeo, fornito, tramite appunto la stesura di Regolamenti e Direttive, una serie di strumenti volti alla garanzia di alcuni diritti che, come anticipato e come più approfonditamente si vedrà nei capitoli successivi, semplificano ai cittadini degli Stati Membri la possibilità di stabilirsi acquisendo, al raggiungimento di determinati requisiti, la cittadinanza degli Stati Membri nei quali si svolge la propria attività lavorativa purché, chiaramente vengano rispettati i requisiti o i presupposti che pocanzi ho citato e che sono riferiti per la maggior parte al periodo di permanenza e di carattere economico, e, più precisamente un’indipendenza di carattere economico e previdenziale per se e la propria famiglia, nella misura in cui, ovviamente, dovesse seguire il prestatore di lavoro nello svolgimento della sua professione in uno Stato membro e terzo rispetto a quello di origine al fine talvolta di acquisirne persino la cittadinanza.
Nel secondo capitolo della tesi il tema centrale e sul quale concentro la mia attenzione riguarda invece la libera prestazione di servizi, la quale, come accennato nelle righe precedenti, risulta avere un’importanza di assoluto valore, ma viene regolata da una normativa che viene considerata residuale, poiché, come accennato anche nel caso di specie, la disciplina in questione non è da considerarsi autonoma ed indipendente in quanto frutto delle norme che il legislatore europeo ha posto in essere in relazione alle altre libertà fondamentali, può, quindi, la disciplina in questione essere considerata solo residuale.
Nonostante, almeno a livello formale, la libera prestazione dei servizi è disciplinata solo sommariamente, il legislatore della Comunità prima, e dell’Unione poi hanno dedicato a questo principio una copiosa normativa, regolata peraltro da Regolamenti e Direttive e quindi da fonti primarie e dotate di considerevole valore, volte per lo più ad equilibrare e, soprattutto equiparare, la figura del lavoratore subordinato cittadino dello Stato presso il quale abitualmente svolge la propria professione a quella del cittadino di uno Stato membro dell’Unione ma terzo rispetto a quello, appunto, nel quale abitualmente svolge la propria professione, tale tentativo ha avuto nel corso del tempo lo scopo, senza dubbio, di porre i lavoratori dei Paesi
membri ma terzi ad avere gli stessi diritti e doveri dei cittadini dello stato in cui effettivamente svolgono abitualmente la loro professione.
La libera prestazione di servizi tra i Paesi Membri dell’Unione Europea ha, peraltro, subito delle modifiche, seppur lievi, tra gli stessi Paesi degli Stati Membri ed il Regno Unito a seguito del referendum sulla “Brexit” ed il successivo trattato negoziato tra le parti al fine di regolare i rapporti commerciali e di scambio, tema, questo, che verrà più approfonditamente analizzato nel corso del secondo capitolo.
Per finire, il terzo capitolo del presente elaborato, si concentra per lo più sulla contrattazione e sulla concreta applicazione che le direttive e i regolamenti e le direttive dell’Unione sono preposte a rappresentare in applicazione di quelli che sono i principi, come il caso della libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi, e si occupa di relazionare, in modo particolare il caso dei dipendenti di Ryanair e come nei loro confronti la Corte Di Giustizia dell’Unione Europea si sia pronunciata favorevolmente rispetto la loro richiesta di ottenere maggiori diritti, tutele e garanzie.
Lo scopo dell’elaborato è quindi, prevalentemente, quello di fornire un quadro generale rispetto i principi forniti innanzitutto dal TFUE ed in secondo luogo di analizzare criticamente come il legislatore europeo abbia posto in essere le basi, per poi svilupparle, al fine, appunto, di applicare i principi dei trattati ed in ultimo, ma non in ordine di importanza analizzare all’interno dello stesso elaborato dei casi concreti idonei a chiarire e spiegare le scelte del legislatore stesso.
Capitolo I
LA LIBERTÀ DI STABILIMENTO, PROFILI GIUSLABURISTICI E GIURISPRUDENZA
1. La libera circolazione e la libertà di stabilimento.
“Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno stato membro nel territorio di un altro stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all’apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro.
La libertà di stabilimento importa l’accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell’articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali.”
È indispensabile, nella trattazione della libertà di stabilimento individuare la norma che racchiude, almeno concettualmente, l’idea in merito del legislatore europeo.
Prima ancora di considerare quelle che sono le norme del trattato di natura squisitamente giuslaburistica, è di fondamentale importanza, soprattutto avendo posto ad incipit il testo dell’Art. 49 TFUE, fornire alcune nozioni generali sulla libertà di stabilimento e sull’evoluzione normativa che ha portato all’attuale dettato del trattato.
La libertà di stabilimento viene inquadrata da un consistente corpus normativo, costituito in via principale da trattati e regolamenti emanati, chiaramente, dal legislatore Europeo.
1.2. Le fonti normative sulla libera circolazione e libertà di stabilimento.
Volendo, in forma breve e schematica, fornirne un quadro generale di questo insieme di precetti, occorre, una volta inquadrata la libertà di stabilimento, innanzitutto chiarire come i trattati dell’Unione la disciplinino relazionandola alla funzione per la quale effettivamente viene fatta valere; si possono dunque citare partendo da quelle che tra le fonti del diritto europeo possono definirsi, o meglio, vengono definite primarie: cominciando dal Trattato istitutivo dell’Unione Europea (TUE) è fuori discussione dover citare l’articolo 3 che contiene precetti di carattere programmatico in tema di piena occupazione dei lavoratori, volendo invece soffermarsi sul Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) gli articoli che incontrovertibilmente costituiscono fondamento normativo relativamente alla disciplina da me analizzata all’interno del presente elaborato sono: l’articolo 26 che istituisce il mercato unico tanto delle merci quanto
dei servizi e delle prestazioni di lavoro, gli articoli dal 45 al 48 che contengono, invece, precetti relativi alla libera circolazione dei lavoratori dipendenti all’interno del territorio dell’Unione Europea, gli articoli dal 49 al 55 TFUE che contengono anche in questo caso prescrizioni relative alla libera circolazione dei lavoratori, ma questa volta ci si riferisce ai lavoratori autonomi ed alla libera circolazione delle imprese sul territorio di tutta l’Unione Europea, vi sono poi gli articoli dal 56 al 62 del TFUE che si occupano di disciplinare la libera prestazione dei servizi all’interno dei confini dell’Unione Europea.
1.3. L’evoluzione del concetto di libertà di stabilimento.
Certamente, quando si parla della libertà di stabilimento nei termini sopra indicati, si presuppone che una tale consapevolezza riguardo la materia in questione sia pervenuta al legislatore europeo solo al termine di un processo evolutivo in materia di libertà fondamentali che ha una natura quasi esclusivamente politica e che trae spunto, volendo trattare la questione alla larga, da un famoso discorso del 1941 pronunciato dall’allora Presidente degli Stati Uniti F.D. Xxxxxxxx che riconosceva appunto “La libertà di parola, di culto, dal bisogno e dalla paura”; certamente, a tal proposito, ogni riferimento può risultare vago e, probabilmente, forzato, ma, analizzando in modo elastico la situazione normativa dell’Unione Europea, specie dopo l’emanazione del Trattato di Lisbona, allo stesso modo può essere rintracciato un numero cospicuo di libertà “empiriche” a favore dei cittadini dell’Unione Europea che, anche solo lontanamente ricorda quelle sopra citate, e rivolte alla creazione di un mercato sovranazionale, per l’appunto, il MERCATO UNICO.
Volendo posizionare, in termini senza dubbio approssimativi, su una linea temporale le tappe che hanno condotto il legislatore a disciplinare la libertà di stabilimento e volendo tralasciare dichiarazioni e tentativi d’integrazione falliti e risalenti al primo dopoguerra o anche al periodo della seconda guerra mondiale, abbiamo il dovere di partire dalla costituzione, nel 1951 con il Trattato di Parigi, della Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio (CECA), che fu il primo accordo di natura sovrannazionale tra stati dell’allora Continente Europa a garantire, per motivi di natura economica legati alla necessità di mano d’opera, la libera circolazione dei cittadini di Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo; ciò pare chiaro all’articolo 69 dell’accordo in questione il quale assicura:
“La rimozione di ogni restrizione fondata sulla nazionalità all’impiego di lavoratori che siano cittadini degli Stati membri e che abbiano qualifiche riconosciute nelle professioni minerarie e della lavorazione dell’acciaio.”
Ancora, oltre il Trattato di Parigi, istitutivo della CECA, un punto di svolta significativo nel processo normativo che ha condotto alla normativa attuale riguardante la libera circolazione degli individui comunitari tra gli Stati membri dell’UE è, senza alcun dubbio, il Trattato di Roma, stipulato nel 1957, che è l’accordo istitutivo della Comunità Economica Europea (CEE); modificato più volte, quest’ultimo ha
ottenuto piena conformità rispetto allo scopo per il quale era stato stipulato con l’ultima delle modifiche apportategli, e, per la precisone, quella determinata dalla Direttiva 68/360 con la quale si sono garantite la libertà di circolazione e di stabilimento a tutti i cittadini dei Paesi aderenti all’accordo in questione per motivi legati allo svolgimento di una QUALUNUQUE professione, ad eccezione di quelle esercitate alle dipendenze di una pubblica amministrazione, in un Paese differente da quello di origine o di abituale residenza grazie ad un regime burocratico snello e semplificato; ed ultimo, ma non in ordine importanza, la Direttiva in questione mirava a garantire pari tutele anche ai familiari dei “migranti interni” e si riservava di impedire il loro spostamento solo nel caso in cui fosse stato turbativo dell’ordine sociale.
Menzione necessaria nell’excursus storico relativo alle norme che hanno condotto il legislatore Europeo all’attuale concetto di libertà di circolazione è fuori dubbio da dedicare al ruolo svolto, in particolar modo a cavallo tra gli anni settanta ed ottanta del novecento, dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha spostato, tramite una serie di sentenze, l’ambito di applicazione della libertà di circolazione, non solo cittadini impegnati in attività lavorative di qualsivoglia genere, ma più in generale alle PERSONE.
Questa mutazione applicativa del concetto di libertà di stabilimento ha favorito l’insorgere, almeno in capo ad alcuni esponenti della politica Europea dell’epoca, di un forte sentimento europeista che ha portato, a partire dagli anni settanta, ad un serie di proposte volte ad istituire la cittadinanza europea, inutile dire che questi numerosi tentativi siano naufragati, almeno fino al 1992, anno in cui, i capi di governo dei Paesi della Comunità, decisero di sdoganare a tutti gli effetti il concetto di libertà di circolazione avvicinandosi il più possibile rendendolo quasi effettivo, dopo molti tentativi vani, grazie alla stipula del trattato di Maastricht, al concetto di cittadinanza Europea.
Proprio riguardo il trattato istitutivo dell’Unione Europea, appena sopra citato1, è possibile riferirsi più specificamente citando, riguardo la libera circolazione all’interno dei Paesi dell’Unione Europea, in capo chiaramente ai cittadini comunitari, l’articolo 3 comma II il quale prescrive:
“L’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima.”
In ultimo, ancora in tema di libera circolazione dei Cittadini di stati membri all’interno dei Paesi dell’Unione Europea, è doveroso citare il Trattato di Lisbona, più comunemente chiamato TFUE, il quale fornisce una definizione, tutt’ora accettata, della libera circolazione.
L’articolo all’interno del quale questa è definita è il 21 comma I il quale prescrive:
1 Trattato di Maastricht del 7 febbraio 2007.
“Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi.”
1.4. Libera circolazione come presupposto per il diritto di libertà di stabilimento.
Come emerge, almeno al culmine di una breve analisi storica sull’evoluzione sociale e normativa che ha portato alla nascita vera e propria dell’Unione Europea, sono legate da un filo diretto la libertà di stabilimento e la libertà di circolazione, è il caso di specificare, quindi, che senza la seconda delle due libertà, seppur banale affermarlo, non si avrebbe nemmeno la prima.
Tra le fonti comunitarie che hanno più approfonditamente disciplinato la libera circolazione dei cittadini dei Paesi dell’Unione e chiaramente la libertà di stabilimento nei Paesi in questione vi è, senza dubbio alcuno, la Direttiva CE 38/2004 del Parlamento e del Consiglio, che specificamente si occupa del diritto dei cittadini, in primo luogo, di circolare e di soggiornare liberamente sul territorio degli Stati membri, estendendo, inoltre, tali diritti ai familiari e riformulando, complessivamente, l’intera disciplina tenendo anche conto degli orientamenti che nel corso degli anni sono stati forniti dalla Corte di Giustizia.
Riguardo la libera circolazione dei cittadini comunitari è l’articolo 5 della Direttiva in questione a fornire i precetti normativi in vigore tra i paesi dell’Unione Europea, ed appunto stabilisce che:
“1. Senza pregiudizio delle disposizioni applicabili ai controlli dei documenti di viaggio alle frontiere nazionali, gli Stati membri ammettono che nel loro territorio il cittadino dell’Unione munito di una carta d’identità o di un passaporto in corso di validità, nonché i suoi familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro, muniti di valido passaporto.
Nessun visto d’ingresso né alcuna formalità equivalente possono essere prescritti al cittadino dell’Unione.
2. I familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro sono soltanto assoggettati all’obbligo del visto d’ingresso, conformemente al regolamento (CE) n°539/2001 o, se del caso, alla legislazione Nazionale. Ai fini della presente direttiva il possesso della carta di soggiorno di cui all’articolo 10, in corso di validità, esonera detti familiari dal requisito di ottenere tale visto.
Gli Stati membri concedono a dette persone ogni agevolazione affinché ottengano i visti necessari. Tali visti sono rilasciati il più presto possibile in base a una procedura accelerata e sono gratuiti.
3. Lo Stato membro ospitante non appone timbri di ingresso o di uscita nel passaporto del familiare non avente la cittadinanza di uno Stato membro, qualora questi esibisca la carta di soggiorno di cui all’articolo 10.
4. Qualora il cittadino dell’Unione o il suo familiare non avente la cittadinanza di uno Stato membro sia sprovvisto dei documenti di viaggio o, eventualmente, dei visti necessari, lo Stato membro interessato concede, prima di procedere al respingimento, ogni possibile agevolazione affinché possa ottenere o far
pervenire entro un periodo di tempo ragionevole i documenti necessari, oppure possa dimostrare o attestare con altri mezzi la qualifica di titolare del diritto di libera circolazione.
5. Lo Stato membro può prescrivere all’interessato di dichiarare la propria presenza nel territorio nazionale entro un termine ragionevole e non discriminatorio. L’inosservanza di tale obbligo può comportare sanzioni proporzionate e non discriminatorie.”
A proposito della direttiva in questione, ed in relazione a quanto prescritto dall’articolo 5 che precedentemente ho riportato citandolo, è possibile stabilire come questo abbia funzione di preambolo o, in base alle prescrizioni in esso contenute, introduttiva, di quella libertà di stabilimento la quale costituisce argomento principe del capitolo in questione e che sarebbe indubbiamente complicata da introdurre, senza prima relazionarla, all’interno della stessa norma, a quella che è la libera circolazione dei cittadini di paesi dell’Unione.
1.5. La libertà di stabilimento in uno Stato membro nel termine dei tre mesi o oltre il termine dei tre mesi.
Avendo ora a disposizione uno schema più completo e, con l’augurio di aver fornito, seppur in breve, una soddisfacente introduzione rispetto all’argomento, ritengo di poter indirizzare l’elaborato verso un’analisi della libertà di stabilimento da un punto di vista prevalentemente ma non esclusivamente giuslavorista, perciò mi servirò in incipit, ed ancora una volta, della Direttiva CE 38/2004 a cominciare dalla distinzione, che questa si preoccupa di portare all’attenzione, tra cittadini di Stati membri dell’Unione Europea che si stabiliscono in un paese diverso della stessa Unione Europea per un termine inferiore o superiore a quello di tre mesi.
Questa distinzione la si riscontra, conformemente all’intento del legislatore, leggendo gli articoli 6 e 7 della Direttiva stessa nei quali, appunto, si preoccupa, il legislatore stesso, di razionalizzare all’interno degli schemi di una norma i requisiti che consentono o meno la permanenza per un periodo inferiore o pari ai tre mesi oppure eccedente tale termine.
Nell’articolo 6 della Direttiva in questione il legislatore europeo ha voluto garantire, come in realtà già precedentemente illustrato, il diritto di libera circolazione e di stabilimento a tutti i cittadini di Stati membri dell’unione, cosa che non rappresenta, a dire il vero, alcuna significativa novità rispetto alla normativa già esistente, la vera e propria novità rispetto alla libera circolazione e libertà di stabilimento è introdotta dal legislatore in favore dei familiari dei cittadini di Stati membri e, più precisamente ancora, con riferimento alla nozione di familiare che il legislatore ha, in questo caso, inteso riferire: al coniuge, a chi registra un unione equiparata al matrimonio con un cittadino di un Paese membro dell’Unione Europea nel paese di cui
quest’ultimo è cittadino, al discendete diretto di età inferiore agli anni ventuno o quelli a carico del coniuge o del partner ed ancora gli ascendenti a carico del coniuge e del partner; ancora L’unione Europea si impegna, stando a quanto prescrive l’articolo in analisi, ad agevolare l’ingresso del coniuge o partner di un cittadino di uno Stato membro che nel paese di origine di quest’ultimo sia interamente a carico suo, e si impegna in ultimo, sempre l’Unione Europea, a garantire un accesso agevole al partner con cui il cittadino abbia una relazione stabile e debitamente accertata.
L’articolo 7 della norma in questione è quello che finalmente istituisce un legame vero e proprio tra la libertà di stabilimento ed il diritto del lavoro dell’Unione Europea, prescrive infatti che il soggiorno di un cittadino di uno Stato membro dell’Unione Europea in uno differente dell’Unione stessa sia consentito per un termine superiore ai tre mesi purché vengano rispettati determinati requisiti, tra i quali, il primo citato dallo stesso articolo della Direttiva, appunto:
“Di essere lavoratore dipendente o autonomo nello stato membro ospitante.”
1.6. Libertà di stabilimento e requisiti necessari, l’importanza di un impiego.
Questo “link” tra il diritto dell’Unione Europea ed il diritto del lavoro che funge da incipit per il DIRITTO DEL LAVRO DELL’UNIONE EUROPEA, è poi affiancato e supportato da una serie di altri requisiti che consentono ai cittadini di Paesi dell’Unione Europea di stabilirsi a lungo termine in un paese differente della stessa Unione, tra questi i più importanti sono certamente: la capacità di disporre, per il soggetto in questione ed i suoi familiari, di risorse economiche necessarie al sostentamento, e di essere dotati di un’assicurazione sanitaria che non obblighi, almeno in caso di necessità, il Paese ospitante a sostenere delle spese sanitarie per suo conto o per conto dei suoi familiari.
La Direttiva in questione prevede, inoltre, che, se il soggiorno del cittadino di uno Stato membro dell’Unione Europea si dovesse protrarre per un periodo di 5 anni, il paese nel quale il cittadino si stabilisce fornisca lui un permesso di soggiorno permanente.
Nei casi in cui, appunto, il cittadino soddisfi i requisiti previsti dalla norma in questione per stabilirsi liberamente in uno Stato membro, leggendo nella sua interezza la Direttiva emerge che, solo in pochi casi eccezionali, il cittadino in questione può essere allontanato dal paese ospitante e questi sono esplicati nel sedicesimo punto delle considerazioni preliminari della Direttiva 38/2004 che afferma:
“I beneficiari del diritto di soggiorno non dovrebbero essere allontanati finché non diventino un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante. Per tanto una misura di allontanamento non dovrebbe essere la conseguenza automatica del ricorso al sistema di assistenza sociale. Lo Stato membro ospitante dovrebbe esaminare se si tratta di difficoltà temporanee e tener conto della durata del soggiorno, della situazione personale e dell’ammontare dell’aiuto concesso prima di considerare
il beneficiario un onere eccessivo per il proprio sistema di assistenza sociale e procedere all’allontanamento. In nessun caso una misura di allontanamento dovrebbe essere presa nei confronti di lavoratori subordinati, lavoratori autonomi o richiedenti lavoro, quali definiti dalla Corte di Giustizia, eccetto che per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza.”
1.7. Il significato del termine “lavoratore” per il legislatore europeo e negli orientamenti della Corte di Giustizia
Essendo giunto a ritenere il diritto alla libertà di stabilimento all’interno di Paesi membri dell’Unione Europea in capo a cittadini di altri Stati membri in relazione alla Direttiva CE 38/2004 ed in particolare la possibilità di soggiornare nello Stato ospitante per un periodo superiore ai tre mesi legato ad alcuni requisiti dalla Direttiva in questione indicati, ed essendomi soffermato sul primo in questione, ossia quello relativo alla necessità di essere un lavoratore subordinato o autonomo e quindi di possedere risorse sufficienti al proprio sostentamento, rilevo ora la necessità di soffermarmi sugli aspetti squisitamente giuslavoristi, o, per meglio dire, sull’incidenza che, l’essere un lavoratore, autonomo o dipendente, determina rispetto la libertà di stabilirsi in un Paese membro dell’Unione da un altro Paese membro.
Proprio a riguardo è importante precisare, innanzitutto, il significato che il legislatore Europeo intende dare al termine “lavoratore”, cominciando con lo specificare che l’interpretazione del termine stesso è del tutto autonoma rispetto a come viene definita nei singoli ordinamenti nazionali ed è ricavata da una serie di orientamenti che nel tempo ha fornito la Corte di Giustizia.
La nozione di lavoratore che garantisce, quindi, al cittadino di uno Stato membro dell’Unione Europea di stabilirsi in un Paese ospitante, chiaramente anche in questo caso dell’Unione Europea, è una nozione unitaria ed indipendente che include peraltro nella categoria tutti coloro i quali, non solo sono lavoratori dipendenti o autonomi e quindi in grado di sostentarsi autonomamente, ma anche coloro i quali sono in cerca di un impiego.
In secondo luogo, requisito necessario all’esercizio del diritto alla libertà circolazione e alla libertà di stabilimento in capo ad un lavoratore cittadino di uno Stato membro dell’Unione Europea è senza dubbio, appunto, il possesso della cittadinanza di uno Stato membro la quale, tuttavia, non dipende da leggi sovrannazionali la cui fonte è comunitaria, bensì da fonti nazionali che ne regolano la concessione.
Merita un chiarimento ,comunque, la questione legata ai cittadini i quali sono in possesso della doppia cittadinanza, ossia quella di uno Stato membro e quella di un Paese che non fa parte dell’Unione Europea, e questo ci viene fornito, soprattutto riguardo la cittadinanza da considerare qualora debbano essere applicati i diritti fondamentali concessi ai cittadini di Stati membri dalla, dall’esito del ricorso proposto in via incidentale dal Giudice Ordinario spagnolo sul caso del Sig. Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, è in questo caso che
la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha fornito un importante orientamento, ritenuto meritevole di particolare considerazione, con la Sentenza del 7 luglio 1992 che merita d’essere, almeno in breve, illustrata. Il Sig. Xxxxxxxxxx, il quale era in possesso della doppia cittadinanza argentina ed italiana, conferita, quest’ultima, in base all’Art. 1 della legge n°555 del 13 giugno del 1912 così come modificata dall’Art. 5 della legge n°123 del 21 aprile del 1983, ai sensi della quale è cittadino italiano il figlio di padre o madre cittadini italiani, chiesto ed ottenuto, al Ministero spagnolo dell’Educazione e della Scienza, il riconoscimento del proprio titolo di studio universitario in odontoiatria conseguito in Argentina e reso equipollente grazie anche ad un accordo di cooperazione culturale ispano-argentina, richiesto ed ottenuto un visto provvisorio, della durata di sei mesi, per l’esercizio della propria professione, alla successiva richiesta di un documento permanente che ne dichiarasse la cittadinanza, in quanto cittadino di uno Stato membro poiché titolare di passaporto italiano regolarmente rilasciato dal consolato italiano presso la città di Rosario, si è visto rigettare la richiesta, effettuata non solo nel proprio interesse ma anche in quello dei familiari.
Il Sig. Xxxxxxxxxx, ricorso al giudice amministrativo, a causa del rigetto della sua richiesta di ottenimento della tessera definitiva di cittadino comunitario, vistosi rigettare il ricorso presentato, presentava ricorso al giudice di rinvio per ottenere l’annullamento del provvedimento amministrativo di diniego, in modo da poter godere dello status di cittadino comunitario. Il giudice di rinvio, ritenendo che la risoluzione della questione necessitasse di un’interpretazione del diritto comunitario, ha ritenuto opportuno adire alla Corte di Giustizia la quale, affermando l’erronea applicazione del TUE ed in modo particolare dell’Art.522, riteneva, pronunciandosi per la prima volta in tal senso, valida ed idonea la richiesta del Sig. Xxxxxxxxxx relativa all’ottenimento del documento permanente di cittadinanza.
In terzo luogo, tornando a volerci dedicare ai requisiti che rendono i cittadini degli Stati membri idonei all’esercizio delle libertà fondamentali in oggetto, la libera circolazione e, nel caso del rapporto di lavoro, la libertà di stabilimento dei lavoratori dipendenti ed autonomi passa, senza dubbio alcuno, dal riconoscimento delle qualifiche professionali da parte degli Stati membri che ospitano cittadini di altri Stati membri.
Con il dettato dell’articolo 45 TFUE si garantisce il diritto di rispondere, a tutti i cittadini di Stati membri, ad offerte di lavoro effettive. Il percorso che ha condotto a tale prescrizione normativa non è stato certamente breve, infatti, ad esempio, garantendo ai cittadini degli Stati membri la possibilità di rispondere ad offerte di lavoro effettive si crea, in incipit, un problema di natura linguistica e, a tal proposito, successivamente ad una pronuncia della Corte di Giustizia, la quale è stata interpellata a seguito della mancata assunzione di una docente in Irlanda, avvenuta poiché la richiedente si trovava, sì, in possesso dei necessari requisiti linguistici
2 “I trattati si applicano al Regno del Belgio, alla Repubblica di Bulgaria, alla Repubblica ceca, al Regno di Danimarca, alla Repubblica federale di Germania, alla Repubblica di Estonia, all'Irlanda, alla Repubblica ellenica, al Regno di Spagna, alla Repubblica francese, alla Repubblica italiana, alla Repubblica di Cipro, alla Repubblica di Lettonia, alla Repubblica di Lituania, al Granducato del Lussemburgo, alla Repubblica di Ungheria, alla Repubblica di Malta, al Regno dei Paesi Bassi, alla Repubblica d'Austria, alla Repubblica di Polonia, alla Repubblica portoghese, alla Romania, alla Repubblica di Slovenia, alla Repubblica slovacca, alla Repubblica di Finlandia, al Regno di Svezia e al Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord.
Il campo di applicazione territoriale dei trattati è precisato all'articolo 355 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea”.
in materia di lingua inglese, ma non di quelli relativi alla conoscenza della lingua irlandese, che il governo locale mira a promuovere e preservare, e si è principalmente pronunciata affermando come, non potendo effettivamente avere influenza diretta su determinati requisiti la norma dell’unione, debbano comunque essere agevolati i cittadini di paesi di Stati membri tramite delle procedure di selezione improntate su determinati requisiti il raggiungimento dei quali non sia eccessivamente complicato per il richiedente impiego.
Altro problema, come già accennato nelle righe precedenti, legato all’occupazione come requisito minimo necessario per potersi liberamente stabilire in uno Stato membro dell’Unione Europea, è sicuramente quello della qualifica posseduta dal cittadino ed ottenuta nel suo paese di origine. Già con il regolamento 1612 del 1968 in ambito CEE il legislatore dell’epoca dava importanza all’equiparazione dei titoli e delle competenze e ciò avveniva tramite il riconoscimento di diplomi, certificati e altri titoli professionali; sono state anche emanate delle direttive settoriali rivolte a sole alcune categorie di lavoratori, subordinati ed autonomi, la specializzazione dei quali veniva quindi equiparata ad ogni equivalente di cittadini dell’Unione, le professioni equiparate in questione sono: infermieri, odontoiatri, veterinari, ostetriche, architetti e medici. L’organizzazione della materia è poi divenuta definitiva quando, nel 2005, il legislatore europeo, con la Direttiva CE 36/2005, ha riconosciuto le qualifiche professionali comprese nelle direttive settoriali di cui prima. La Direttiva in questione si applica a tutti i cittadini degli Stati membri che vogliano svolgere, sia in forma di lavoro subordinato che in forma di lavoro autonomo, quindi esercitandolo anche sotto forma di libera professione, un mestiere regolamentato da uno Stato membro diverso da quello in cui il cittadino ha ottenuto la propria qualifica professionale.
La definizione di professione regolamentata è fornita dal paragrafo A del comma I dell’articolo 3 della Direttiva in questione, il quale afferma:
“<professione regolamentata>: attività, o insieme di attività professionali, l’accesso alle quali e il cui esercizio, o una delle cui modalità di esercizio, sono subordinati direttamente o indirettamente, in forza di norme legislative, regolamentari o amministrative, al possesso di determinate qualifiche professionali; in particolare costituisce una modalità di esercizio l’impiego di un titolo professionale riservato da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative a chi possiede una specifica qualifica professionale. Quando si applica la prima frase, è assimilata ad una professione regolamentata una professione di cui al paragrafo 2.”
È possibile che la professione regolamentata in uno Stato membro ospitante non sia altrettanto regolamentata nello Stato membro di provenienza, è comunque l’articolo 13 della Direttiva CE 36/2005 a prevedere la possibilità, in capo ai cittadini che abbiano svolto per un periodo di tempo non inferiore a due anni negli Stati in cui la professione è regolata, di svolgere come se fossero in possesso di una qualifica professionale equiparata, la professione in questione.
Merita precisare, inoltre, che lo Stato membro ospitante può chiedere al cittadino proveniente da un altro Stato membro che, seppur dotato di una qualifica professionale, debba integrare quest’ultima poiché non equiparata nello Stato ospitante a quella ottenuta nello Stato d’origine del cittadino. Ogni richiesta d’accesso ad una qualsivoglia attività professionale regolamentata, subordinata od autonoma che sia, deve essere valutata dallo Stato entro e non oltre il termine perentorio di tre mesi da quando questa è stata effettivamente presentata.
Ancora riferendoci all’articolo 45 TFUE, ed approfondendo l’analisi di quest’ultimo, appare necessario soffermarsi, oltre che sul lavoro dipendente o autonomo, anche sul lavoro presso le pubbliche amministrazioni, e risulterebbe difficile farlo se non partendo dalla prescrizione stessa contenuta nel dettato dello stesso articolo, il quale recita al comma IV:
“Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione.”
A fornire un’interpretazione, che di certo risulta essere restrittiva, del comma citato è, come di consueto, la Corte di Giustizia che stabilisce in una serie di sentenze, tra le quali la più importante risulta senza dubbio essere quella che vedeva contrapposte la Commissione c. il Belgio, di poter essere riservate ai cittadini di uno Stato membro solo quelle mansioni o quei poteri che si svolgono a tutela dell’interesse generale dello Stato o di particolare utilità pubblica, come appare essere l’impiego di un cittadino al servizio della Pubblica Amministrazione. È stata di fondamentale importanza la ricezione di tali orientamenti poiché ha permesso di dare un’interpretazione univoca ed unitaria del concetto di lavoro nella pubblica amministrazione, che, evidentemente, non poteva essere lasciato all’interpretazione dei singoli Stati. In quest’ottica si può far menzione di come l’Italia, con un decreto del Presidente della Repubblica del 7 febbraio del 1994, avesse deciso di riservare ai cittadini italiani i più alti incarichi dirigenziali all’interno delle pubbliche amministrazioni così come ai soli cittadini italiani ha deciso di lasciare libero accesso alla carriera nelle forze armate e quella di magistrato, avvocato dello stato e diplomatica.
1.8 L’interpretazione estensiva del concetto di libera circolazione.
Volendo approfondire ancora il disposto dell’articolo 45 TFUE non si può prescindere da un’analisi, seppur breve, del comma II il quale afferma, riferendosi alla libera circolazione dei lavoratori, che:
“Essa implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.”
Alla norma appena citata è stata data applicazione con il Regolamento 1612/1968 il quale, appunto, all’articolo 7 comma I prescrive che:
“Il lavoratore cittadino di uno Stato membro non può ricevere sul territorio degli altri stati, a motivo della propria cittadinanza, un trattamento diverso da quello dei lavoratori nazionali per quanto concerne le condizioni di impiego e di lavoro, in particolare in materia di retribuzione, licenziamento, reintegrazione professionale o ricollocamento se disoccupato.”
La parità di trattamento di cui fa menzione l’articolo precedentemente citato ha in primo luogo natura normativa, ma, senza ombra di dubbio, anche natura contrattuale, infatti sono nulle le clausole dei contratti collettivi che limitano in capo ai lavoratori, cittadini di Stati membri dell’Unione Europea diversi da quelli in cui esercitano l’attività lavorativa, le libertà concesse ai lavoratori cittadini dello Stato stesso per motivi legati alla cittadinanza. Il principio di parità, del quale è alla base il dispositivo in questione, si estende non solo alle clausole contrattuali disciplinanti il mero rapporto di lavoro, bensì è riferito ad una serie di altre tutele spettanti ai lavoratori quali quelle riguardanti la retribuzione e le tutele che i lavoratori ricevono in ambito di licenziamento ed ancora è importante sottolineare come, ai sensi dell’articolo 7 del regolamento prima citato, si estendano pari vantaggi di natura sociale e fiscale anche di cui godono i lavoratori nazionali anche il capo a quelli di altri Stati membri dell’Unione Europea, è la Corte di Giustizia, nella pronuncia del 14 marzo 1996 relativa al caso Xxxxx Xx Xxx, a definire il concetto di vantaggi sociali con le seguenti parole:
“Per vantaggi sociali vanno intesi tutti i vantaggi che, connessi o no ad un contratto di lavoro, sono generalmente attribuiti ai lavoratori nazionali, in ragione del loro status obiettivo di lavoratori o del semplice fatto della loro residenza nel territorio nazionale, e la cui estensione ai lavoratori cittadini di altri Stati membri risulta quindi atta a facilitare la loro mobilità nell’ambito della comunità.”
Tra i vantaggi derivanti dall’uguaglianza di trattamento, a fronte anche delle pronunce della Corte di Giustizia, è giusto citare, infine, anche le indennità di disoccupazione ed il diritto alla formazione professionale, non dimenticandosi che, anche in questo caso la Corte di Giustizia tramite un serie di pronunce, ha considerato vantaggi assimilabili ai primi, non solo quelle prestazioni rivolte esclusivamente ai lavoratori, ma anche una serie di prestazioni accessorie tra cui, ad esempio, il reimpiego e la reintegrazione professionale.
Facendo riferimento a quanto in precedenza affermato riguardo la Direttiva CE 38/2004, già in precedenza menzionata, e volendo fornire un’analisi quanto più eterogenea e completa possibile dell’articolo 45 TFUE, appare funzionale citare la lettera d) del comma III il quale afferma che i lavoratori hanno:
“diritto di rimanere, a condizione che costituiranno l’oggetto di regolamenti stabiliti dalla Commissione, sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego.”
Il dettato in questione, come appare evidente ad una prima lettura, intende garantire, ad ogni cittadino originario di uno Stato membro differente da quello in cui questo svolge la sua attività lavorativa, il diritto di rimanere nello Stato ospitante ed ancora, per riprendere la Direttiva sopra citata, di ottenere, qualora la permanenza sia pari o superiore ai cinque anni, la cittadinanza dello Stato membro ospitante, termine che ancora si riduce per i lavoratori che hanno raggiunto l’età pensionabile o siano permanentemente divenuti disabili a lavoro ed abbiano risieduto per almeno due anni prima di tale inabilità nel territorio dello Stato ospitante.
1.9 La cittadinanza europea e l’evoluzione storica per l’acquisizione dello status di cittadino.
Sembra doveroso, facendo un passo indietro, approfondire, essendo tema ricorrente e, soprattutto, di assoluta rilevanza nella trattazione della libertà di stabilimento, soffermarsi sul concetto di CITTADINANZA EUROPEA. Tale status è ormai ritenuto sussistente e viene riconosciuto pacificamente ai cittadini degli Stati membri a seguito di una consistente dottrina e soprattutto di numerose pronunce da parte della Corte di Giustizia dell’Unione.
Volendo percorrere l’iter che il legislatore Europeo ha seguito per giungere al pieno riconoscimento dell’esistenza di una cittadinanza europea è d’obbligo partire dal 1974 e precisamente dalla conferenza di Parigi, anno in cui è stato richiesta per la prima volta l’istituzione del passaporto unico. Assume, invece, funzione di formale momento istitutivo del concetto di cittadinanza europea il trattato di Maastricht, istitutivo dell’Unione Europea, il quale afferma che i cittadini degli stati membri delle Comunità Europee sono cittadini di un’Unione fondata dalle stesse comunità che si impegnano a politiche ed a forme di cooperazione così come stabilito dalle norme del Trattato UE. Ultimo passo per la costituzione effettiva di una vera e propria cittadinanza europea è senza dubbio il Trattato di Lisbona, ratificato nel 2007 ed entrato il vigore il 1 dicembre del 2009, che rappresenta il culmine di un lungo ed elaborato progetto di riforma delle istituzioni e dei trattati istitutivi dell’Unione Europea iniziato nel 2001 in occasione del Consiglio Europeo di Laeken, e che ha senza dubbio eliminato i tre pilastri di competenze nei quali era divisa la stessa Unione Europea assicurando la scomparsa del concetto di Comunità Europea ed eliminando, ad una più squisita analisi tecnica, tutti i riferimenti al concetto stesso di comunità, parlando solo ed esclusivamente di Unione Europea ed anche cambiando nome al trattato che quindi veniva nominato Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).
1.10. La cittadinanza europea come status complementare.
A seguito delle modifiche appena citate, le norme che regolano la cittadinanza restano sostanzialmente invariate, ma vengono senza dubbio espansi in capo ai cittadini degli Stati membri i diritti di partecipazione alla vita democratica della stessa Unione Europea.
Come precisato dal precetto normativo dell’Art. 20 TFUE la cittadinanza dell’Unione Europea si aggiunge alla cittadinanza di uno degli Stati membri che risulta essere sussidiaria nella misura in cui la prima è senza ombra di dubbio dipendente dalla seconda che ne determina inesorabilmente intanto l’acquisizione così come la perdita. Da ciò discende, o per meglio dire, è possibile dedurre che non si è giunti ancora ad una compiuta ed autonoma nozione di Cittadinanza Europea.
La cittadinanza europea può quindi essere ritenuta uno status da attribuire alle sole persone fisiche e non alle persone giuridiche, le quali possono liberamente godere di una serie di vantaggi riservatigli, insieme dei diritti, quello in esame, che non garantisce, in ogni caso, la libertà di stabilimento per le società in uno Stato membro diverso da quello di costituzione determinandone talvolta la considerata inesistenza, ciò poiché, la funzione attribuita dal legislatore dell’Unione Europea, oltre che quella di concedere delle posizione soggettive ai soggetti beneficiari che corrispondono all’acquisizione i una serie di diritti, è anche una funzione politica, ossia idonea a coinvolgere in modo sempre crescente i cittadini dell’Unione nell’attività amministrativa e politica della stessa Unione Europea, coinvolgimento che, per la natura stessa del soggetto persona giuridica, risulta impossibile se non da potersi esercitare da una persona fisica.
È pacifico ed evidente che l’Unione Europea non abbia i caratteri fondamentali di una comunità politica vera e propria o di una entità statale, ciò premesso si può affermare come non esista una vera e propria cittadinanza europea sostitutiva di quella nazionale, il legislatore tramite il Trattato di Lisbona ha infatti ritenuto opportuno riprendere il concetto di cittadinanza come considerato già dai tempi della Comunità Europea, definendo questa come complementare rispetto alla cittadinanza di un singolo Stato membro dell’Unione e soprattutto stabilendo come criterio sufficiente e necessario per la concessione della cittadinanza dell’Unione Europea l’essere, appunto, in possesso della cittadinanza di uno Stato membro.
Secondo numerosi orientamenti della Corte di Giustizia è inoltre riconosciuto il diritto in capo agli Stati membri di determinare i modi di acquisto e perdita della cittadinanza, tanto da determinare l’acquisto o la perdita, contestualmente, di quella dell’Unione, ed addirittura di stabilire, specificandolo, a quali cittadini siano rivolti i diritti riconosciuti ai possidenti della cittadinanza stessa.
0.00.Xx sentenza della Corte di Giustizia 20 Febbraio 1975 n°21, il caso Airola.
Tale impostazione ha generato una corposa giurisprudenza da parte della Corte di Giustizia chiaramente articolata in una pluralità di sentenze, tra le quali può essere citata in primo luogo quella relativa al caso
Airola che, riassunta in breve, ha portato la Corte di Giustizia ad annullare un provvedimento di xxxxxxx emesso dalla Commissione nei confronti della Sig.ra Airola, la quale, ancora studentessa, si vedeva assegnato uno stage presso il CCR d’Ispra a partire dal 1 gennaio 1964. Nell’aprile del 1965 Xxxxxx Xxxxxx si maritava con un italiano acquistando automaticamente, per effetto della legge vigente in Italia sull’acquisizione della cittadinanza, la cittadinanza del coniuge, appunto. La Sig.ra Airola chiedeva, in virtù dell’Art.22 della legge belga coordinata sull’acquisto, la perdita, il riacquisto della cittadinanza, di mantenere in ogni caso la cittadinanza del Paese di origine che nel caso di specie è quella belga. In virtù del periodo trascorso come stagista in Italia, ed avendo mantenuto la cittadinanza belga, la ricorrente chiedeva l’indennità di dislocazione che, provvisoriamente erogata, veniva sospesa nei confronti della ricorrente in virtù dell’acquisto della cittadinanza Italiana successivamente al matrimonio, come precedentemente tale acquisizione è stata automatica. La ricorrente, rivoltasi in più occasioni all’ufficio competente presso la Commissione e non avendo ricevuto risposta, ed avendo interpretato il silenzio della Commissione come un silenzio dissenso, decideva di ricorrere alla Corte di Giustizia che, valutati i presupposti necessari alla concessione di un’indennità di dislocamento, ha ritenuto, considerato anche il principio discriminatorio, legato a ragioni di sesso, per il quale a seguito anche al matrimonio ad un uomo verrebbe comunque riconosciuta un’indennità di dislocazione, diversamente che ad una donna, la quale acquisisce automaticamente la cittadinanza dello sposo secondo la legge italiana, di accordare alla Sig.ra Airola l’erogazione dell’indennità di dislocazione. Perciò la Corte di giustizia, onde evitare un comportamento discriminatorio della commissione, sussistendo in capo alla ricorrente i requisiti necessari alla concessione dell’indennità di dislocazione, ha accolto la domanda della ricorrente ordinandone l’erogazione.
Ancora sulla cittadinanza la Corte di Giustizia si è espressa attraverso la sentenza “Auer” riguardo la rilevanza del momento e modo d’acquisto della stessa in relazione all’applicazione del diritto Comunitario per effetto del possesso della cittadinanza se, nel momento in cui si concretizza l’applicazione del diritto in questione, il soggetto sia già in possesso della cittadinanza di uno Stato membro.
È inoltre rilevante affermare che l’esercizio dei Diritti garantiti ai cittadini di uno Stato membro e derivanti dalla libertà di circolazione non può essere in alcun modo limitato dallo Stato di origine qualora, il soggetto che, in virtù della libertà di stabilimento, secondo le norme del diritto di un paese differente di quello di origine ma comunque Stato membro dell’Unione Europea, ne acquisisca la cittadinanza per godere dei diritti nella sua disponibilità.
Quanto poco sopra riportato viene affermato dalla Corte di Giustizia nella sentenza “Gullung”, la quale stabilisce che le norme sulla libertà di stabilimento legata alla cittadinanza sarebbero violate, o per meglio dire, solo parzialmente applicate nel caso in cui un individuo cittadino di due differenti Stati membri decida di stabilirsi in uno dei due per godere di agevolazioni e diritti dei quali potrebbe godere essendone cittadino e vedersi negata la libertà di stabilimento, che sarebbe idonea a garantire il diritto in questo caso al libero esercizio di una prestazione professionale e quindi di un servizio, nel secondo Stato, del quale l’individuo è
comunque cittadino. Ne consegue che, i titolari della doppia cittadinanza di Stati membri, possono godere delle disposizioni di entrambi a seconda di quanto siano per loro favorevoli.
0.00.Xx sovranità dello Stato membro nella determinazione dei modi di assegnazione o perdita della cittadinanza.
Nell’applicazione, dunque, delle norme sulla cittadinanza gli Stati membri che decidono di porre in posizione preminentemente la norma interna e quindi la propria sovranità, negano, o forse più precisamente comprimono, lo status di diritto derivante dall’essere cittadino di uno Stato membro e quindi, contestualmente, dell’Unione Europea. Dunque, stando a quanto emerso nel corso della trattazione riguardo gli orientamenti che della Corte di Giustizia, non è in discussione che la sovranità di ogni Stato membro nel determinare i modi di acquisto e perdita della cittadinanza sia quasi totale, ma non devono questi scostarsi con le norme che disciplinano la materia delle prescrizioni contenute nei Trattati e nel Diritto dell’Unione.
Nel novero dei poteri dei singoli Stati membri, in relazione alla sovranità da questi esercitata, vi è, senza dubbio, il potere di revoca della cittadinanza.
La Corte di Giustizia, al pari delle altre questioni relative al tema, si è pronunciata quando gli è stata sottoposta la questione da un cittadino Austriaco3 che ha chiesto ed ottenuto, in modo fraudolento, la cittadinanza Tedesca, poi revocata a seguito dell’accertamento delle autorità competenti del comportamento fraudolento praticato dal soggetto richiedente. In questo caso la Corte di Giustizia è stata legittimata ad intervenire poiché la perdita della cittadinanza, oltre a determinare lo status di apolide, comprende l’implicazione, ed applicazione, di una serie di trattati internazionali ed anche specificamente europei sulla cittadinanza. Premesso, dunque, che la Corte non ha posto alcun veto nei confronti della sovranità degli Stati membri rispetto l’assegnazione o revoca della cittadinanza, compreso il caso in questione, questa invita gli Stati membri a porre in essere una valutazione condita da una rilevate dose di cautela qualora questi dovessero optare per la revoca della cittadinanza, in quanto tale revoca determinerebbe un pregiudizio, non solo in capo al soggetto direttamente interessato dal provvedimento, ma anche ai suoi familiari, i quali verrebbero privati dello status di cittadini al pari del diretto interessato e quindi di una serie di diritti riservati ai cittadini di Stati membri dell’Unione Europea.
La Corte di Giustizia ha quindi posto attenzione sul concetto di proporzionalità tra il comportamento fraudolento, attuato da un individuo al fine di ottenere la cittadinanza di uno Stato membro ed il provvedimento di revoca della cittadinanza, nei casi di non grave comportamento inidoneo all’ottenimento dello status in questione, infatti, la corte, afferma la necessità di lasciare, almeno provvisoriamente, fin quando quindi il cittadino non abbia riacquistato la sua cittadinanza di origine, la cittadinanza dello Stato membro ottenuta in modo fraudolento.
3 Sentenza della Corte di Giustizia (Grande Sezione), Xxxxxxxx c. Freistaat Bayern.
1.13.Interpretazione univoca del concetto di cittadinanza, orientamenti della Corte di Giustizia ed esercizio della funzione nomofilattica, evoluzione normativa.
Se la libertà di circolazione all’interno dello spazio territoriale dell’Unione Europea costituisce uno dei pilastri, degli elementi basilari, sui quali si fonda la stessa Unione, non si può prescindere, nella sua analisi, da alcuni approfondimenti sulla cittadinanza, che senza dubbio costituisce presupposto per l’applicazione della libertà di stabilimento. Un processo di riforma legislativa, che ha interessato le questioni legate alla cittadinanza Europea, è stato avviato anche grazie a numerose pronunce della Corte di Giustizia, la quale, esercitando una delle funzioni che tra quelle delle quali è insignita, la nomofilattica, ha fornito degli orientamenti caratterizzati da un contenuto omogeneo.
I diritti di libera circolazione e stabilimento in Stati dell’Unione si preoccupano di valutare la dimensione sociale del cittadino europeo, infatti all’Art. 20 del TFUE si stabilisce come lo status di cittadino non abbia necessità di essere concesso a persone che rispettino determinati requisiti di sesso o di età, inoltre è curioso come tale dimensione sociale del cittadino europeo emerga anche nella volontà del legislatore europeo di allargare i diritti di libera circolazione e stabilimento all’interno di Stati membri anche ai familiari di coloro i quali esercitano tali diritti in funzione della cittadinanza di uno degli stati membri.
A tale proposito è di sicuro interesse quanto affermato dall’avvocato generale Xxxxxxxxx, il quale efficacemente dice, nelle conclusioni presentate alla Corte di Giustizia, nel caso Xxxx-Xxxxxxxx:
“Quando dei cittadini circolano, lo fanno come esseri umani e non come robot. Essi si innamorano, si sposano e creano famiglie. Il nucleo familiare, a seconda delle circostanze, può comporsi soltanto di cittadini dell’Unione o di cittadini dell’Unione e di paesi terzi, strettamente legati gli uni a gli altri”
0.00.Xx Direttiva CE 38/2004.
Ora tutto quanto derivante dagli orientamenti giurisprudenziali e dalle direttive precedenti, riguardanti il tema in questione, è confluito, a partire dai primi anni 2000 in un corpus normativo sovranazionale e, per la precisione, di promulgazione Europea, che è la Direttiva CE 38/2004 la quale si occupa di disciplinare ogni aspetto della libera circolazione e della libertà di stabilimento, incluse le limitazioni a riguardo.
Il diritto di circolazione dei cittadini all’interno dello “spazio europeo” è riconosciuto, a tutti gli effetti, dal TFUE all’Art. 21 che, letto con attenzione, garantisce il diritto alla libera circolazione solo in modo relativo, essendo, come in precedenza specificato, un diritto da esercitarsi secondo dei limiti.
La libertà di circolazione dei cittadini degli Stati membri e la conseguente libertà di stabilimento vengono ribaditi in alcuni articoli della CEDU.
È importante ricordare come, il succitato Art. 21 TFUE vada letto ed applicato contestualmente all’Art. 18 TFUE, alla lettura di entrambi emerge, appunto, che innanzitutto non può essere impedito, dal punto di vista della tutela giurisdizionale da esercitarsi in merito ai diritti in questione, che si ricorda acquisiti dai cittadini degli Stati membri per il solo fatto di essere, appunto, titolari dello status di cittadino, l’intervento del giudice nazionale e che inoltre il giudice nazionale non può negare la tutela giurisdizionale ai soggetti i quali abbiano deciso di avvalersi, stabilendovisi, della libertà di circolazione e soggiorno spostandosi in altri Stati membri, o ancora, risulta inconcepibile, tanto per il legislatore quanto per la Corte di Giustizia, stando agli orientamenti che emergono dalle sue pronunce, e sempre riferendosi a cittadini che avendo sfruttato la loro cittadinanza avessero effettivamente goduto della libertà di circolare e stabilirsi in altri Stati membri, che possano essere riservati a medesime categorie di individui trattamenti discordanti, o ancora trattamenti di egual genere per individui di categorie differenti.
Collegandomi a quest’ultimo riferimento, legato alla parità di trattamento, è importante inoltre ricordare quanto affermato dalla Corte di Giustizia nella sentenza Trojani riguardo il soggiorno di un cittadino di uno Stato Europeo all’interno di un altro Stato membro senza che questo sia in possesso dei requisiti economici idonei a garantirgli un tenore di vita indipendente e si trovi in uno stato di necessità. La Corte afferma, nel caso di specie, ed ovviamente fornendo un orientamento valido per le situazioni analoghe che, seppur non autosufficienti dal punto di vista economico, i cittadini di Stati membri dell’Unione Europea diversi da quelli in cui si trovino hanno comunque diritto alle prestazioni necessarie al regolare svolgimento delle loro funzioni vitali.
Il diritto, in capo ai cittadini degli Stati membri, di circolare liberamente non è, come prima specificato, un diritto incondizionato, ma un diritto da esercitarsi subordinatamente al rispetto di alcuni requisiti, talvolta da applicarsi alla generalità di chi gode dello status di cittadino, mentre altre volte da applicarsi a soli casi specifici.
A disciplinare il diritto di ingresso o uscita da uno Stato membro è l’Art. 4 della direttiva CE 38/2004, il quale stabilisce innanzitutto che, tanto per l’ingresso quanto per l’uscita da uno Stato membro dell’Unione Europea, è senza dubbio necessario un passaporto una carta d’identità in corso di validità, mentre non viene posta in capo ai cittadini che godo dello status in questione alcuna limitazione particolare legata a visti o documenti specifici; sussistono tuttavia delle restrizioni riguardanti la libertà di ingresso o di uscita che i cittadini degli stati membri subiscono e dovute per lo più a ragioni di ordine pubblico o sicurezza statale. È comunque doveroso dire che oltre ad essere accertate le situazioni che pregiudicano in capo ai cittadini l’esercizio dei diritti in questione e derivanti dal loro status, devono essere le restrizioni stesse proporzionali e proporzionate alla turbativa che lo spostamento degli individui considerati determinerebbe.
Conseguenza diretta del diritto di libera circolazione è, senza dubbio alcuno, il diritto di stabilimento all’interno di uno Stato membro di quello di origine, in modo particolare, sembra opportuno citare l’Art. 16
della Direttiva CE 38/2004 il quale, come in precedenza già ricordato, afferma che tale diritto, acquisito da chi possiede lo status di cittadino, deve essere esteso anche ai familiari di coloro i quali, appunto, raggiunto il limite dei cinque anni dalla data di stabilimento ottengono un permesso di soggiorno definitivo nello Stato ospitante.
Condizione necessaria per l’ottenimento del permesso di soggiorno permanente nello stato membro è senza dubbio la capacità, o, per meglio dire, l’esercizio da parte del cittadino richiedente del diritto di circolazione verso uno Stato differente da quello di origine, ciò appare razionalmente ineccepibile nella misura in cui, il cittadino che gode del diritto di libera circolazione, senza che lo eserciti, non potrà in alcun modo richiedere, seppur, appunto, in possesso della cittadinanza di uno Stato membro, un diritto di soggiorno permanente in uno Stato membro terzo rispetto a quello di origine.
Il diritto di soggiorno in uno Stato membro differente da quello di origine deve essere senza dubbio esercitato legalmente, rispettando dunque le prescrizioni della Direttiva CE 38/2004 ed inoltre il mancato esercizio dei diritti derivanti dallo status di cittadino non determina la loro soppressione ne tantomeno l’impossibilità di godere se e quando desiderato dal cittadino stesso dei diritti in capo ad esso spettanti. Il diritto di soggiorno diventa permanente nel momento in cui i cinque anni necessari al suo ottenimento siano trascorsi continuativamente nel paese ospitante da parte del cittadino di uno Stato membro terzo o con interruzioni che non superino i sei mesi l’anno o anche più lunghe ma giustificabili con particolari esigenze legate allo svolgimento del servizio militare o ancora sono rese possibili interruzioni della permanenza della durata di un anno per motivi legati alla maternità, malattia o formazione professionale. La continuità nel soggiorno viene invece interrotta da provvedimenti di allontanamento dallo Stato ospitante emessi nei confronti dei richiedenti diritto di soggiorno permanente. La continuità del soggiorno può essere dimostrata da coloro i quali chiedono di avvalersi del diritto di soggiorno permanente con ogni mezzo idoneo a farlo in base a quanto regolamentato dallo Stato ospitante.
L’Art. 17 della Direttiva CE 38/2004 contiene le deroghe all’Art. 16, le quali sono rivolte ai soggetti i quali abbiano cessato la loro attività lavorativa nel Paese ospitante prima dei cinque anni di soggiorno richiesti affinché il diritto in questione sia permanente, e tale concessione viene riservata contestualmente anche ai familiari. È chiaro che la concessione del diritto di soggiorno permanente sia legata, come già in precedenza affermato, e stando alle prescrizioni normative dell’ormai nota Direttiva CE 38/2004, alla capacità economica del soggetto che richiede il godimento del diritto di soggiorno permanente, e tale capacità economica deve essere idonea quantomeno al sostentamento del fabbisogno personale e di quello della sua famiglia.
L’articolo 45 TFUE4 che ha, come analizzato, uno stampo garantista, pone comunque un limite alla libera circolazione e di conseguenza alla libertà di stabilimento dei lavoratori cittadini di Stati membri, tale limite,
4 “1. La libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione è assicurata.
posto in ricezione della Direttiva CE 38/2004, è legato a ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica.
In primo luogo è importante affermare come l’interpretazione a tali fattispecie derogatorie del principio di libera circolazione e della libertà di stabilimento debba essere restrittiva a differenza del principio di circolazione degli individui, concetto il cui deve essere interpretato estensivamente.
La Corte di Giustizia, tramite una corposa giurisprudenza, ha tenuto a specificare che la norma contenuta nella Direttiva CE 38/2004 non può in modo alcuno essere mezzo idoneo all’abuso del diritto di libera circolazione e stabilimento e quindi, ogni qualvolta venga ritenuto necessario da uno Stato membro derogare ai diritti prima citati, questo deve essere fatto nel modo meno invasivo possibile e rispettando la proporzionalità della misura derogatoria adottata rispetto all’evento scatenante.
Per quanto risulti la direttiva sino ad ora analizzata punto cardine della disciplina della libera circolazione degli individui all’interno degli Stati membri dell’Unione occorre senza dubbio specificare come, ruolo di primordine nella regolamentazione della disciplina in questione, lo assume il Regolamento 492/2011 che dopo oltre quarant’anni dall’emanazione del Regolamento 1612/68 del 15 ottobre 1968, il quale è stato per un lungo periodo, stando a quanto pocanzi specificato, punto cardine della disciplina della libertà di circolazione e quindi di stabilimento, lo ha adeguato alla condizione geopolitica che attualmente caratterizza il complesso di Stati costituenti l’Unione Europea.
1.15.Evoluzione nell’interpretazione dell’Art. 7, paragrafo 3, lettera b) della Direttiva CE 38/2004 dopo la Sentenza della CGUE Xxxxxx Xxxx.
Volendo, in ultimo, soffermarsi sulla possibilità in capo ai cittadini degli Stati membri di circolare liberamente, pare opportuno ricordare, onde evitare superficiali conclusioni, che, nonostante gli Artt. 21 paragrafo 1 e 18 del TFUE, l’esercizio della libertà di circolazione, del diritto di soggiorno e l’equo trattamento non sono uniformi per tutte le categorie di cittadini europei e come prima già accennato.
2. Essa implica l'abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità̀ , tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.
3. Fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, essa importa il diritto:
1. a) di rispondere a offerte di lavoro effettive;
2. b) di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri;
3. c) di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un'attività̀ di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l'occupa zione dei lavoratori nazionali;
4. d) di rimanere, a condizioni che costituiranno l'oggetto di regolamenti stabiliti dalla Commissione, sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego.
4.Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione.”
La discriminante che rende idoneo o meno un cittadino di uno Stato membro al godimento dei diritti spettanti ai cittadini dello Stato dal quale il primo è ospitato è il possesso, in capo alla prima categoria di cittadini, dello status di lavoratore che si contrappone, inevitabilmente, a quello di cittadino economicamente non attivo. Mi trovo ancora, inoltre, a specificare che la Corte di Giustizia ha decretato come “diritto fondamentale” la libertà di circolazione ed inevitabilmente quella di stabilimento a partire dagli anni ottanta5, e si è ritenuta, come specificato già in precedenza, limitabile per soli motivi previsti dai Trattati.
È conseguenziale, rispetto alla lettura imposta dalla corte in merito alle interpretazioni fornite sulla libertà di circolazione ed evidentemente di stabilimento, la possibilità in capo ai cittadini di uno Stato membro la possibilità di “migrare” in cerca di offerte di lavoro o in risposta a queste ottenendo la tutela dei medesimi diritti spettanti in capo ai cittadini degli Stati ospitanti.
La possibilità in capo ai soggetti ospitati al fine di rispondere a proposte o offerte di lavoro pone in essere l’effettiva condicio auspicata, a questo punto vien da pensare dallo stesso legislatore Europeo, ossia la possibilità di accedere ad un trattamento omogeneo indipendentemente dallo Stato del quali si è effettivamente cittadini e ciò non fa che confermare la volontà di garantire l’accesso a quell’insieme di prerogative nelle quali si sostanzia la c.d. cittadinanza sociale europea.
Di ragionevole importanza pare specificare come il concetto di “cittadinanza sociale europea” abbraccia quell’insieme di diritti spettanti, almeno in generale, a tutti coloro i quali rispondano alla condizione di cittadino di uno Stato che può definirsi di welfare, prescrizioni, quelle in materia di welfare, che vengono disciplinate a livello comunitario nel 20046 e che riguardano principalmente i settori della sicurezza sociale ed in particolare:
le prestazioni di malattia; di maternità e di paternità assimilate; le prestazioni di invalidità; le prestazioni di vecchiaia; le prestazioni per i superstiti; per infortunio sul lavoro e malattie professionali; gli assegni in caso di morte; le prestazioni di disoccupazione; di pensionamento anticipato e le prestazioni familiari. Oltre ciò ogni lavoratore e, conseguentemente, i familiari, hanno diritto ad ogni qualsivoglia tipo di prestazione sociale non dipendente dallo svolgimento di un’attività lavorativa indipendentemente dal fatto che questa sia subordinata o autonoma.
Lo status di lavoratore ed i relativi vantaggi sociali che ne derivano è inoltre garantito, per via del diritto derivato della stessa Unione Europea, non solo nei confronti dei cittadini di uno Stato membro, seppur non il proprio d’origine, in qualità di lavoratore ma anche dopo aver cessato l’attività lavorativa ed in particolare ciò in due casi disciplinati dalle norme dell’Unione, ossia:
• Se l’interessato è temporaneamente inabile al lavoro in caso di malattia o infortunio
• Se l’interessato, trovandosi in una condizione di disoccupazione involontaria debitamente comprovata ed aver esercitato un’attività lavorativa per almeno un anno, si sia registrato presso un ufficio di collocamento al fine di trovare un lavoro.
5 Sentenze 13 luglio 1983, causa C-152/82, Forchieri, punti 11 e 15; Sentenza 15 ottobre 1987, causa C-222/86,
Unectfef/Xxxxxxx, punto 14.
6 Regolamento CE 883/2004.
Il cittadino di uno degli Stati membri mantiene per un periodo di tempo non inferiore a 6 mesi la qualità di lavoratore nel caso in cui riesca a dimostrare che per motivi a lui non imputabili si trovi ad essere disoccupato dopo un periodo di lavoro che non abbia, non solo sperato, ma nemmeno raggiunto i 12 mesi e si sia comunque registrato presso l’ufficio di collocamento competente al fine di trovare un lavoro e sia in ogni caso iscritto ad un corso professionale di formazione collegato all’attività che lo stesso aveva precedentemente svolto.
In realtà il diritto derivato disciplina in modo frammentario e superficiale i diritti sociali spettanti in capo a coloro i quali non si trovino ad avere una regolare occupazione e, tolti alcuni casi particolari, li garantisce ai cittadini degli Stati membri per un periodo, se questi sono disoccupati appunto, non superiori a tre mesi e se effettivamente sussistano in capo ai soggetti in questione i requisiti economici idonei al sostentamento di se e della propria famiglia in modo da non costituire un irragionevole carico per l’assistenza dello Stato membro ospitante ed è inoltre necessario che il soggetto sia iscritto, come anche xxxxxxx affermato, agli uffici dell’impiego e seguire un xxxxx xx xxxxxxxxxx, xxx xxxxxxxxxxx, xxxxxx a parere della Corte di Giustizia un elemento essenziale affinché possano sovvertirsi i precetti normativi propri dell’ordinamento dell’Unione in quanto, effettivamente, questi citati paiono elementi idonei a dar adito alla tesi per la quale, chiunque ne sia in possesso, abbia una ragionevole possibilità di essere in procinto di ottenere, presso lo stesso Stato membro ospitante, un’occupazione e questo, a chiosa delle considerazioni appena riportate, a discapito anche delle ripercussioni che possa avere o meno sul sistema di welfae dello Stato membro ospitante e tutto ciò al solo fine di tutelare il diritto a circolare e stabilirsi, senza alcuna restrizione, in capo ai cittadini degli Stati membri.
Pare dunque di poter affermare come ad impedire la possibilità in capo ai cittadini degli Stati membri possa essere soltanto un grave impedimento legato, ad esempio, all’impossibilità fisica che dovrebbe affliggere un cittadino di uno Stato membro al fine di impedire lui la permanenza in uno Stato membro ospitante. Tali norme, incontrovertibilmente tese a limitare la capacità di permanenza dei soggetti in questione, sembrano, ad un occhio attento e critico, come è senza dubbio quello della dottrina prevalente, idonee solo a voler, peraltro ingiustificatamente, limitare l’aggravio dei sistemi di welfare degli Stati membri al fine di proteggerli dal fenomeno del “Turismo Sociale”7 .
Attenzionare la realtà dei fatti parrebbe essere lo scopo finale di un elaborato come questo, perciò ad onor del vero, porre rimedio al turismo sociale può sicuramente essere di rilevante importanza ma non determinante o fondamentale e ciò poiché, nonostante la possibilità, a questo punto quasi incondizionata, di soggiornare in uno Stato membro ospitante, i cittadini che sono impiegati in una qualsivoglia attività lavorativa ottengono un trattamento differente rispetto a colo i quali dimostrino di essere, per l’appunto, in procinto di ottenere un impiego ma non l’abbiano.
7 Per turismo sociale si intende lo spostamento di numerosi cittadini europei intenzionati ad approfittare solo dei benefici sociali migliori offerti da altri Paesi membri.
Tutti i temi finora trattati sono al centro di una sentenza recente e di grande valore giurisprudenziale, la sentenza della Corte di Giustizia “Xxxxxx Gusa”8.
In incipit, riferendoci alla sentenza appena citata, sembrerebbe opportuno fornire, almeno sommariamente, un quadro generale della situazione del Sig. Xxxxxx Xxxx, il quale è un cittadino comunitario e, nello specifico, originario della Romania, il quale, a partire dal 2007 si è stabilito in Irlanda dove dal 2008 al 2012, nel primo anno di permanenza era stato infatti sostentato dai figli già maggiorenni, ha svolto la professione di imbianchino versando regolarmente le imposte a suo carico nonché i contributi.
A partire dal 2012 il Sig. Xxxxxx Xxxx, con l’inasprirsi della crisi economica, si è trovato nella condizione di dover cessare la propria attività di lavoratore autonomo ed a richiedere un sussidio che spetterebbe ai cittadini irlandesi disoccupati ma in cerca di occupazione o in procinto di ottenerla, ed il fatto che lo stesso non fosse cittadino irlandese poiché non trascorso un periodo di tempo di cinque anni in cui lo stesso fosse occupato nella propria attività lavorativa, ha garantito, almeno teoricamente, alle autorità irlandesi la possibilità di non accordare la richiesta di sussidio nonostante le prescrizioni dell’Articolo 7 paragrafo 3 lettera B della direttiva CE prescriva la possibilità che un cittadino di uno Stato membro conservi lo status di lavoratore se abbia svolto una professione, come dipendente o in forma autonoma, per almeno un anno nel Paese ospitante e si trovi in uno stato di disoccupazione involontaria e non imputabile al soggetto stesso, le autorità irlandesi sono comunque del parere che tale norma possa applicarsi ai soli casi in cui il lavoratore abbia svolto un attività di lavoro subordinata e non autonoma come era invece il caso del Sig. Xxxxxx Gusa.
Il Sig. Xxxxxx Xxxx ricorreva a questo punto in appello e la Court of Appeal, a sua volta, in via pregiudiziale, adiva la Corte di Giustizia dell’Unione Europea relativamente, appunto, al citato disposto dell’Articolo 7 paragrafo terzo lettera B della direttiva CE 38/2004 per chiedere di stabilire se effettivamente possa tale norma estendersi anche a coloro i quali abbiano esercitato un’attività autonoma e non solo nei confronti di coloro i quali avessero esercitato un attività di lavoro subordinato. In secondo e con un secondo quesito i giudici della Court of Appeal chiedono alla Corte di Giustizia se, effettivamente, il soggetto, in base alla norma presa in considerazione, possa continuare a soggiornare nel territorio dello Stato ospitante o dovesse esservi allontanato ed ancora pone in via pregiudiziale un terzo quesito con il quale interroga la Corte di Giustizia sulla legittimità di corrispondere, in ottemperanza all’Articolo 4 del regolamento 883/2004, l’indennità di disoccupazione al Sig. Xxxxxx Gusa.
Il ragionamento della Corte verte verso l’impossibilità di corrispondere al Sig. Xxxx l’indennità richiesta dal momento in cui, ad una lettura delle disposizioni ex Art. 7 della direttiva CE 38/2004 che se analizzata risulta essere senza dubbio superficiale, l’attività svolta non sarebbe stata assimilabile a quella dei lavoratori subordinati che, almeno a fronte di una prima interpretazione dell’allora adita corte d’Irlanda, avrebbe garantito senza necessità alcuna di una qualsivoglia attività d’interpretazione di fonte processuale la possibilità in capo al Sig. Gusa di ottenere i benefici dallo stesso lamentati e ad esso dovuti.
8 Sentenza 20 dicembre 2017, causa C-442/16, Xxxxxx Xxxx contro Minister for Social Protection. Irlanda, Attorney General.
Al vaglio della Corte del Lussemburgo, la questione a questa preliminarmente posta, ha dato modo alla predetta, ancora una volta, di esprimersi fornendo un’interpretazione della norma in questione, la Direttiva CE 38/2004, estensiva nella misura in cui la stessa deve essere interpretata ai fini della sua corretta interpretazione in base alle finalità da essa perseguita, evitando, quindi, un’interpretazione restrittiva e letterale del dettato del legislatore comunitario, il quale, senza ombra di dubbio, si prefiggeva quantomeno lo scopo di superare, ai fini della concessione di quei diritti chiesti ed evidentemente, a questo punto, spettanti al ricorrente, la distinzione tra lavoratori subordinati e lavoratori autonomi.
Sarebbe, al di là dell’errata interpretazione della volontà del legislatore europeo, inoltre moralmente inadeguato nei confronti del Sig. Gusa negare lui, in virtù del contributo da esso garantito al sistema tributario e previdenziale irlandese per un periodo temporale ben maggiore di un anno, la possibilità di godere di alcuni benefici previdenziali richiesti per cause ad esso non imputabili e da riscontrarsi nell’impossibilità di svolgere la sua professione a causa della diminuzione della richiesta di lavoro dovuta alla crisi economica globale scoppiata nel primo decennio degli anni 2000.
La sentenza Xxxxxx Xxxx si caratterizza, almeno a livello giurisprudenziale, per la sua interpretazione evolutiva dell’Art. 7, paragrafo 3, lettera b), della Direttiva CE 38/2004 e l’evoluzione in esame consiste, per la precisione ed in ripetizione o meglio per chiarire, nella equiparazione giuridica della figura del lavoratore autonomo e del lavoratore subordinato e questo poiché, dell’Articolo pocanzi menzionato, proprio il paragrafo terzo si occupa del mantenimento dello status di lavoratore ed afferma, se letto in forma critica e come prima stabilito elastica, che non possano sussistere, quantomeno in ordine di status di lavoratore, la sostanziale uguaglianza tra tutti coloro i quali abbiano svolto un’attività lavorativa, sia stata essa di tipo subordinato o di tipo autonomo.
L’interpretazione estensiva della norma in esame appare inoltre apprezzabile, se non addirittura l’unica percorribile, poiché la Corte la fornisce considerando anche che, la Direttiva all’interno della quale l’Articolo in esame è inserito, si inspira senza dubbio agli Artt. 18 e 21 del TFUE i quali si occupano di stabilire il divieto di discriminazione determinato dalla nazionalità, nonché il divieto di impedire ai cittadini la libera circolazione o il soggiorno nel territorio degli Stati membri; sono inoltre costituenti disciplina fondante per la Direttiva CE 38/2004 gli Artt. 46 e 50 e 59 del TFUE i quali si occupano di disciplinare la libera circolazione dei lavoratori, ed ancora la libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi.
È quindi interessante capire come, effettivamente, la Corte del Lussemburgo consideri l’equo trattamento, nel caso di specie riferito ai lavoratori subordinati ed autonomi, elemento fondate ai fini del perseguimento delle libertà economiche ed in astratto della cittadinanza europea.
Le novità di carattere interpretativo fornite dalla sentenza Xxxxxx Xxxx si pongono in netta contrapposizione rispetto ai precedenti orientamenti ed in modo particolare da quanto affermato nella sentenza Dano
9 che, piuttosto di un’interpretazione elastica alla stregua di quella perpetrata nella precedentemente analizzata Xxxxxx Xxxx, si caratterizzava per l’ambiguità dei suoi tratti fondamentali, tanto da rendere di ambigua interpretazione la direttiva in esame ed in particolare l’Art. 7, paragrafo 3, lettera b), in merito quindi alle prescrizioni su libertà di soggiorno ed i relativi diritti in merito di parità di trattamento, ossia gli elementi fondanti della Direttiva in questione.
I motivi che hanno spinto la Corte di Giustizia ad un’interpretazione restrittiva della norma in questione sono da ricercarsi nell’opportunità di salvaguardare la dimensione collettiva di solidarietà nazionale, la sentenza Xxxx, infatti, è stata emessa dai Giudici del Lussemburgo in un periodo di crisi economica e mirava evidentemente alla tutela dei lavoratori nazionali per via di un orientamento limitativo della libertà di soggiorno connessa inevitabilmente alla cittadinanza Europea.
A garanzia di una corretta interpretazione delle peculiarità che rappresentano la sentenza in questione, appare quantomeno corretto affermare come l’interpretazione restrittiva alla quale si fa riferimento non sia direttamente rivolta alla libertà di soggiorno e quindi incidente sul concetto di cittadinanza europea, interviene più che altro sulla possibilità in capo ai cittadini di altri Stati membri rispetto a quello di origine di avvalersi di trattamenti, per lo più di carattere previdenziale, parificati rispetto ai cittadini degli Stati in questione, questo principalmente al fine di evitare oneri spropositati in capo agli stessi Stati, ma, statuendo in favore della possibilità di omettere dalla concessione di un equo trattamento in materia di welfare, non si crea altro che una confusione in merito specificamente agli obiettivi che la Direttiva CE 38/2004 si prefissa di raggiungere con le prescrizioni in essa contenute.
Volendo semplificare il concetto al punto da renderlo, forse, banale, la Corte di Giustizia pone un limite invalicabile all’equità di trattamento tra i cittadini dei vari stati membri volendo escludere, anzitutto, che debbano essere inclusi nelle politiche di welfare degli Stati membri, appunto.
Dunque, in definitiva ed in conclusione del presente capitolo, pare opportuno, riassumendo, affermare che l’orientamento della Corte subisca, anche, e va senz’altro specificato, a fronte della risoluzione della crisi economica mondiale che ha determinato in capo ai singoli Stati sicuramente, ma anche al sistema normativo sovrannazionale, rappresentato, nel caso di specie, da quello dell’Unione Europea, una virata netta rispetto quanto emergeva alla lettura delle sentenze che hanno costituito l’orientamento precedentemente prevalete rispetto alla sentenza Xxxxxx Xxxx, ossia quello che a lungo ha imposto una lettura distopica della Direttiva CE 38/2004 che veniva interpretata, quindi, rigidamente e non consentiva il raggiungimento degli scopi che, in incipit, il legislatore sovrannazionale si era prefissato.
È apparso, soprattutto nelle ultime pagine, come la reale intenzione fosse quella di garantire l’applicazione di un’equità di trattamento atta ad assottigliare quanto più possibile la concessione ai cittadini di Stati membri la possibilità di godere, in tema di welfare, dei medesimi vantaggi o quanto meno del medesimo trattamento spettante ai cittadini di uno Stato ospitante al fine di equilibrare il trattamento dei cittadini, lavoratori s’intende, verso un assetto più solidale.
9 Sentenza della Corte di Giustizia (Grande Sezione), 11 novembre 2014, C-333/13.
CAPITOLO II
LA LIBERA PRESTAZIONE DI SERVIZI, PROFILI GIUSLABURISTICI E GIURISPRUDENZA.
2.1 INTRODUZIONE
Trattato nel primo capitolo dell’elaborato il tema della libertà di stabilimento, correlato evidentemente a quello della cittadinanza europea e racchiusi entrambi dal più ampio “diritto” spettante ai cittadini di Stati membri dell’Unione Europea ed ancora, in forma senza dubbio compressa, ai cittadini di Sati terzi rispetto a quelli dell’Unione Europea, a patto che vengano rispettati dal richiedente criteri posti in essere dai Trattati stessi dell’Unione, della libera circolazione, è opportuno proseguire nella stesura dell’elaborato dedicando attenzione alla libera prestazione dei servizi da parte di cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea in altri Stati membri.
Per quanto un’analisi approfondita della libera prestazione di servizi sia stata, quantomeno storicamente, posta in essere e collocata all’interno di un contesto giuslaburistico e quindi effettuata correlandola a norme, tanto di natura comunitaria quanto di natura nazionale, di diritto del lavoro, secondo alcuni orientamenti di dottrina 10 che ho analizzato e condivido, si presenta l’esigenza, riguardo tale argomento, di spostare il focus dal contratto di lavoro al rapporto commerciale avente come oggetto la prestazione di servizi.
Nel nostro ordinamento giuridico, quello italiano, la prestazione di servizi gode, ad esempio, di una definizione giuridica tanto vasta da consentire di accostarla a più fattispecie giuridiche tra le quali, due, assumono particolare rilievo e sono: l’appalto, o tutte quelle fattispecie giuridiche caratterizzate da una locatio operis, ed il rapporto di lavoro subordinato.
È proprio la vicinanza, sostanziale, della fattispecie giuridica della prestazione dei servizi e quella della prestazione di lavoro subordinato che, appunto, ha destato curiosità da parte dei giuslavoristi. Dato ciò, è lecito affermare che, a fronte di tale approfondimento vi è stata la tendenza sempre crescente di identificare una prestazione di servizi in una prestazione di lavoro subordinata deducibile già da una sostanziale “terzializzazione” dei mercati, legata per lo più allo sviluppo dei servizi ad alta intensità che necessitano senza ombra di dubbio di un considerevole apporto di mano d’opera, ma che, allo stesso tempo, pone in primo piano, non il fattore quantitativo, quanto più quello qualitativo legato all’ attività di prestatori di servizi.
Parlando del ruolo che invece riveste, stante la sussistente produzione normativa europea, la prestazione di servizi, dobbiamo, senza dubbio alcuno, collocarla tra le quattro libertà fondamentali riconosciute e disciplinate dalle norme del diritto europeo -merci, persone, servizi e capitali – che godono ciascuna di un
10 Xxxxxxxx Xxxx-Diritto del lavoro e libera prestazione di servizi nell’Unione europea (Società editrice il Mulino)
regime normativo e disciplina autonomi e contrapposti rispetto alle altre, e che vedono, senza possibilità di replica, relegata, la libera prestazione di servizi, appunto, in una posizione marginale, o, per meglio dire, residuale rispetto le altre libertà fondamentali.
Tale residualità è, senza dubbio alcuno “riflessa”, e ciò nella misura in cui non è il diritto di prestazione di servizi ad essere subordinato ad uno degli altri inviolabili riconosciuti dalle norme di diritto dell’Unione, risulta,invece, più che altro subordinata la disciplina applicabile al diritto di prestare un servizio piuttosto che quella applicabile ad uno degli altri tre, sembra perciò imprescindibile, nel caso ci si trovi al cospetto di una situazione giuridica che rientri nel novero dei diritti fondamentali riconosciuti dalla normativa Europea, considerare la possibilità di applicare in primo luogo le regole riferite alle altre tre categorie di diritti fondamentali, per capire se, effettivamente, ci si trovi a confrontarsi solo apparentemente con una prestazione di servizi, e, solo nel caso in cui non si possano applicare le norme sopra menzionate, procedere con l’applicazione del complesso legislativo applicabile alla fattispecie giuridica che ricade nella normazione sulla libera prestazione di servizi.
È probabile, o comunque plausibile, che venga attribuito questo ruolo subalterno alle norme che regolano la libera prestazione di servizi poiché è in qualche modo possibile che la fattispecie giuridica in questione possa essere racchiusa o abbracciata, così come poi accade, ad un’analisi meno superficiale, alla libertà di spostamento delle persone, dalla libertà di stabilimento.
Ciò è possibile affermarlo alla luce del fatto che, tanto la libertà di spostamento in capo ad un singolo soggetto cittadino di uno stato membro dell’Unione europea, quanto la possibilità, in capo al soggetto stesso di esercitare una prestazione di servizi, sono riconducibili all’esigenza, in capo al cittadino stesso, di esercitare la propria libertà di stabilimento all’interno di uno Stato membro dell’Unione europea differente da quello di origine, che, in ottemperanza al dispositivo dell’Art. 45 TFUE, per essere incondizionata, ha necessità di essere supportata da adeguate risorse economiche che il cittadino dovrà avere a disposizione per se, ed eventualmente i suoi familiari; ciò può avvenire, dunque, solo mediante l’esercizio , da parte del cittadino, di un attività economica che, nel caso di specie e considerato l’argomento cardine del capitolo in questione, è la libera prestazione di servizi.
2.2 LA LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE COME PRESUPPOSTO NECESSARIO DELLA LIBERA PRESTAZIONE DI SERVIZI.
È dunque riconducibile al fattore di mobilità del lavoro la possibilità di sovrapporre la libertà di stabilimento e, di riflesso, quella di circolazione dei cittadini degli Stati membri, a quella di prestare servizi per via della loro natura che è riconducibile all’esercizio di una prestazione di lavoro autonoma. È possibile affermare infatti che, così come, stando a quanto delineato nelle righe immediatamente precedenti, la libertà di stabilimento, nel caso delle persone innanzitutto, è riferita alla possibilità che l’individuo goda di ampi margini di mobilità che potrà sfruttare per impegnarsi a svolgere prestazioni lavorative per lo più autonome, nel caso invece della prestazione di servizi non sarà l’individuo in quanto tale a godere della libertà a lui riservata negli spostamenti, ma lo sarà certamente di riflesso poiché sarà il servizio che offrirà ad essere in realtà libero di essere effettuato in uno Stato membro dell’unione europea differente da quello di origine del prestatore. Quindi il diritto Europeo, ed in particolare le norme che si riferiscono alla libera prestazione di servizi, si curano per lo più della prestazione stessa, ponendo inevitabilmente in secondo piano il soggetto prestatore.11
È in ultimo possibile affermare, a fronte di questa breve analisi condotta sovrapponendo l’aspetto individuale, inteso proprio rispetto all’individuo, quindi soggettivo, all’aspetto più squisitamente economico relativo alla libera prestazione di servizi da parte del cittadino di uno Stato membro; non vi è infatti in primo piano l’aspetto esclusivamente sociale implicato nel sistema lavoro (mi riferisco, nel caso di specie, al lavoratore), bensì un valore esclusivamente economico qual è definito il servizio e la garanzia di una sua propria circolazione transnazionale agevolata dall’assenza di ostacoli normativi.
11 Xxxxxx Xxxxxxxxxxx [2000, 60]: “services are viewed as an objective economic reality which should be enchanged, rather than as an activity of some natural or legal person who should be protected against discriminations and restrictions”
2.3 DEFINIZIONE GIURIDICA DI “LIBERA PRESTAZIONE DI SERVIZI”
Nonostante il ruolo residuale e di chiusura ricoperto dalla libera prestazione di servizi all’interno dell’apparato normativo dell’Unione europea, possiamo affermare senza dubbio che tale libertà, considerata fondamentale, sia rivolta a molteplici e strategici settori.12
Dunque, svolte le predette riflessioni in tema di libera prestazione di servizi, possiamo definire la stessa come:
L’esercizio temporaneo di un’attività economica non salariata in ambito transnazionale13
Come, appunto, specificato pocanzi, nel tentativo di definire la libera prestazione di servizi, risalta immediatamente la caratteristica di essere un’attività non salariata, rientrante quindi a pieno titolo nel novero di quelle attività di lavoro autonomo le quali possono esercitarsi in due forme distinte la prima delle quali è senza ombra di dubbio l’attività d’impresa, mentre la seconda è una più semplice prestazione d’opera, il confine tra le quali è, seppur inequivocabile, tracciato da una linea di confine piuttosto sottile che è determinata dalla organizzazione dell’attività di impresa ed il conseguente “sfruttamento” di mezzi idonei all’attività in questione. Essendoci un’organizzazione di mezzi se non del tutto assente, quasi è possibile ricondurre la libera prestazione di servizi a quella che nell’ordinamento domestico è definita “prestazione d’opera”
La prestazione di servizi, dunque, più che la produzione di un bene o il suo trasferimento si caratterizza per una prestazione di facere.
Spesso accade, inoltre, parlando della libera prestazione dei servizi che il suo esercizio comporti il trasferimento di beni sollevando la questione sulla possibilità che un’attività economica rientri nell’insieme di quelle considerate riconducibili alla prestazione di servizi.14 La questione viene risolta, più che relegando a fattispecie residuale quella della semplice prestazione di servizi, valutando in concreto, dal punto di vista economico, la prestazione principale.
12 Nella categoria dei servizi vengono espressamente comprese:
a) Le attività di carattere industriale;
b) Le attività di carattere commerciale;
c) Le attività artigiane;
d) Le attività delle libere professioni.
13 Xxxxxxxx Xxxx – Diritto del lavoro e libera prestazione di servizi nell’Unione europea.
14 Si prenda ad esempio il caso della distribuzione di un film, prestazione la quale richiede senza dubbio il trasferimento di una merce, ma, nel caso di specie, ad assumere rilievo ai fini dell’identificazione della fattispecie giuridica concreta è senza dubbio il rapporto tra il produttore ed il distributore.
Partendo da quanto poco sopra affermato riguardo il lato economico legato alla libera prestazione di servizi, è possibile quantomeno sostenere che i servizi vengono resi in cambio di una controprestazione economica, nel senso che ogni servizio viene reso dietro la corresponsione di una retribuzione; nel caso della prestazione di servizi, però, il termine retribuzione non può sovrapporsi al salario corrisposto ad un lavoratore subordinato in cambio della sua prestazione lavorativa, bensì alla semplice corresponsione in danaro che il fornitore ed il cliente hanno pattuito prima dell’attuazione della prestazione. La prestazione di servizi, quindi, non è altro che un’attività autonoma atta ad assicurare al prestatore un guadagno,15 potendo invero classificarsi, volendo essere precisi, anche l’attività economica che porta al prestatore del servizio un guadagno anche indiretto, non corrisposto quindi da colui che ha commissionato il servizio.16
Non assumono i connotati di fattispecie giuridica di prestazione di servizi le prestazioni, appunto, per le quali non è stata pattuita preventivamente alcuna controprestazione di carattere economico e le prestazioni effettuate dallo Stato non a scopo di lucro ed iscritte a bilancio.
2.4 IL CARATTERE TRANSFRONTALIERO DELLA LIBERA PRESTAZIONE DI SERVIZI
Proseguendo con l’analisi della definizione giuridica di libera prestazione di servizi, ci si deve soffermare sul carattere transfrontaliero che deve caratterizzare la prestazione di servizi, perciò deve avvenire, definendolo banalmente, un attraversamento delle frontiere; il facere che contraddistingue la prestazione di servizio, non può aver luogo all’interno dello stesso Stato membro, con la precisazione che, l’attraversamento della frontiera da parte del servizio, deve avvenire tra Stati membri dell’Unione europea.
Questo carattere di transnazionalità che contraddistingue la prestazione di servizi ha portato a quattro forme distinte di mobilità del servizio:
a) La prima è rappresentata dal prestatore di servizi che si sposta dal suo Stato di stabilimento ad uno stato terzo dove si svolgerà la prestazione;
b) La seconda è invece rappresentata dal corollario inverso della prima ed è quindi costituita dalla possibilità che il destinatario del servizio si sposti nello stato di stabilimento del prestatore del servizio;
c) Il terzo esempio di mobilità transnazionale nella prestazione di servizi è quello in cui entrambi i soggetti coinvolti nello svolgimento della prestazione, tanto il prestatore quanto il beneficiario, si spostino dal loro Stato di stabilimento ad uno Stato terzo;
d) La quarta ed ultima forma di mobilità transnazionale dei servizi, di derivazione giurisprudenziale, prevede che entrambe le parti, quindi il prestatore ed il destinatario, abbiano facoltà di rimanere nel proprio Stato di stabilimento e far spostare la prestazione che costituisce il servizio, ciò è reso
15 Come nel caso delle guide turistiche, Cgue 26 febbraio 1991, causa C-180/90 Commissione c. Italia.
16 Si fa l’esempio di un atleta al quale non viene riconosciuto un corrispettivo per la sua prestazione nel corso di un evento sportivo, ma che viene comunque ricompensato dagli introiti pubblicitari che egli contribuisce a far incassare.
possibile dal fatto che la prestazione del servizio avviene in uno stato differente da quello in cui ne usufruisce il destinatario.
2.5 IL CARATTERE TEMPORANEO DELLA LIBERA PRESTAZIONE DI SERVIZI
Ultimo carattere distintivo che contraddistingue la libera prestazione di servizi è certamente quello della temporaneità che costituisce anche una linea sottile posta a contraddistinguere la stessa libera prestazione di servizi dalla vera e propria libertà di stabilimento.
A tal proposito sembra giusto, infatti, dire che vi è tra, la libera prestazione di servizi e la libertà di stabilimento, un sostanziale squilibrio nel radicarsi nel Paese dove la prestazione deve essere svolta, dunque mentre nel caso della libertà di stabilimento ci si radica stabilmente nel paese del destinatario della prestazione, nel caso della prestazione di servizi non può nemmeno parlarsi di un vero e proprio radicamento nel paese nel quale la prestazione deve essere svolta, sarebbe infatti più corretto affermare che vi siano degli spostamenti occasionali del prestatore dei servizi verso il destinatario o viceversa.
I criteri che vengono adottati per stabilire quando effettivamente il soggiorno, nello Stato terzo in cui avviene la prestazione o la si riceva, possa definirsi occasionale sono certamente la stabilità e la continuità nell’apporto economico del soggetto che si sposta in uno Stato terzo dal paese possa dare allo Stato ospitante, dunque ai fini della temporaneità vengono principalmente considerati quattro elementi: la durata, la frequenza, la periodicità e la continuità.
Il requisito della temporaneità che caratterizza la prestazione di servizi assume quasi una posizione minoritaria rispetto agli altri requisiti citati poiché assume realmente rilievo sono nel caso in cui vi sia da una delle due parti del rapporto effettivamente uno spostamento dallo Stato di stabilimento ad uno Stato terzo, mentre perde di pregnanza nel caso in cui a spostarsi sia il servizio stesso.
È ancora da dire che, secondo degli orientamenti giurisprudenziali, debbano considerare criteri di temporaneità più elastici di quelli in vigore per definire una prestazione occasionale, potendo questa essere costituta da un’attività sicuramente di breve durata ma potrebbe, allo stesso modo, essere costituta da un’attività che richiede dei periodi di svolgimento maggiori, come nel caso, ad esempio, dei servizi offerti da un’impresa edile incaricata di portare a termine un cantiere in uno Stato membro differente da quello di stabilimento.
Ancora, riguardo il requisito della temporaneità, ed in relazione alla prestazione di servizi, possono anche considerarsi tali quelli effettuati in modo più o meno frequente o regolare da un operatore economico stabilito in un altro Stato membro in modo anche prolungato come può accadere nel caso di un’attività di consulenza stabilmente prestata in paese differente da quello di stabilimento.
La stabilità e continuità della prestazione devono pertanto, secondo gli orientamenti della giurisprudenza, essere valutati in relazione al risultato economico ottenuto dallo svolgimento della prestazione piuttosto che in base al tempo impiegato dal fornitore per effettuarla.
2.6 I DESTINATARI DELLA DISCIPLINA SULLA PRESTAZIONE DI SERVIZI
Il trattato di Lisbona prevede che la libertà nella prestazione dei servizi sia riservata ai cittadini di Stati membri dell’Unione europea nei confronti di destinatari stabiliti in Stati membri dell’Unione differenti da quello del prestatore. La dottrina prevalente spiega come questa esigenza, ossia la possibilità che la prestazione di servizi si svolga tra cittadini di Stati membri sì, ma di Stati differenti, derivi dal fatto che il legislatore europeo volesse garantire un vantaggio economico agli individui stabiliti all’interno di uno Stato membro, senza garantire le medesime agevolazioni a cittadini di Stati terzi. Nel novero dei prestatori di servizi ai quali viene effettivamente riferita la normativa rientrano senza ombra di dubbio anche le persone giuridiche che vengono costituite secondo la legislazione vigente in uno degli Stati membri ed avente la sede principale, l’amministrazione centrale o il centro delle proprie attività all’interno di uno degli Stati membri. Vale comunque l’eccezione che prevede, su proposta del consiglio, ed ottenuta una maggioranza qualificata da una votazione in Commissione, di estendere i benefici sopra citati a prestatori di servizi di Stati terzi che hanno, comunque, il fulcro della loro attività in uno degli Stati membri.
Il destinatario della prestazione non deve essere inoltre obbligatoriamente un cittadino di uno Stato membro dell’Unione, è sufficiente infatti che quest’ultimo sia semplicemente stabilito in uno Stato membro, è garantita, in questo modo, la possibilità ai cittadini di Stati terzi di usufruire, purché all’interno dei confini dell’Unione europea, della prestazione di un servizio.
Solitamente la prestazione di servizi si concretizza nell’opera di un prestatore autonomo e, più precisamente, di un individuo che non è investito di pubblici poteri; la regola può essere soggetta ad interpretazioni elastiche nel caso in cui il soggetto che svolge la prestazione la effettui secondo i crismi di un rapporto giuridico intercorrente tra privati ma, può trovarsi, nello svolgimento della prestazione in questione, ad esercitare un pubblico potere17. Nel caso in questione risulta opportuno valutare se l’assunzione del carattere pubblicistico della prestazione sia da considerarsi preponderante e, quindi, di primaria importanza per lo svolgimento della stessa oppure solo marginale, nella seconda delle due ipotesi la deroga prevista dal Trattato non potrà essere applicata.
17 Ad esempio le guardie private addette alla vigilanza, ma con la possibilità di effettuare arresti in flagranza per certi tipi di reato.
In relazione alle considerazioni svolte riguardo la libertà di stabilimento e la conseguente istituzione di un libero mercato, almeno tra gli Stati membri dell’Unione europea, è importante analizzare la questione delle barriere, spesso elevate dagli stessi Stati membri, per limitare la libera prestazione di servizi all’interno dello spazio dell’Unione.
Le condizioni di market access, in un sistema come quello dell’Unione europea, sono disciplinate da tre modelli analitici tra loro concorrenti:
a) Vi è in primo luogo il modello di host state control per il quale l’accesso al mercato domestico avviene seguendo le regole imposte pe il caso di specie dallo Stato ospite;
b) In secondo luogo possiamo parlare del modello di home state control il quale prevede che le condizioni di accesso al mercato siano dettate dallo Stato di origine, ciò comporta tuttavia la sussistenza di una consistente varietà di modelli normativi applicabili;
c) Infine, ultimo modello di disciplina del market access è quello che possiamo definire come controllo sovranazionale che accentra la competenza normativa, almeno per quanto riguarda l’armonizzazione delle varie norme nazionali, alle istituzioni dell’Unione europea.
È riservata al prestatore di servizi che, per i suddetti motivi, si sposti all’interno degli Stati dell’Unione parità di trattamento, rispetto a quella garantite dal paese ospitante ai propri cittadini, per lo svolgimento della prestazione; tale attenzione nei confronti del prestatore del servizio da vita al così detto principio del trattamento nazionale posto in essere chiaramente dal legislatore a tutela, in assoluto, del prestatore di servizi.
Deroghe alla parità di trattamento possono essere poste in essere solo nel caso in cui questo sia previsto dai trattati e senza alcuna interpretazione estensiva, vi sono, dunque, motivi tassativi a costituire motivo di deroga e sono l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza e la sanità pubblica.
Vi sono poi delle altre fattispecie, elaborate dalla giurisprudenza comunitaria, che possono, oltre a quelle sopracitate, determinare una disparità di trattamento tra chi è stabilito nello Stato membro nel quale si concretizza la prestazione ed il prestatore cittadino di un altro Stato membro.18
“Sono escluse dalle norme riservate alla libera prestazione dei servizi tutte quelle attività che nello Stato membro interessato partecipino anche occasionalmente all’esercizio di pubblici poteri”.
Obiettivo del legislatore europeo è senza dubbio quello di eliminare tutte le restrizioni che impediscono la libera prestazione dei servizi, tuttavia è giusto, almeno in incipit, precisare come, senza dubbio alcuno, mentre le restrizioni relative alla libera circolazione degli individui e alla cittadinanza sono lesive per la libera prestazione dei servizi ed assumono natura discriminatoria nei confronti del prestatore di servizi, le restrizioni applicate alla prestazione di servizi non hanno, invece, sempre natura discriminatoria.
18 Prende vita a questo punto la “dottrina degli ostacoli” tramite la quale i giudici possono testare sindacandole le norme del Paese nel quale la prestazione viene effettuata se non conformi ad una delle tre deroghe previste dal Trattato.
L’Art. 56 TFUE19 è l’articolo del TFUE che, appunto, pone un veto, o se non un veto, la possibilità in capo al legislatore di uno Stato membro evidentemente differente da quello di origine del prestatore del servizio, essendo, tra l’altro, considerabile una prestazione di servizi, come noto, tale solo nel caso in cui questa venga effettuata dal prestatore in uno Stato membro differente da quello di origine o del quale lo stesso sia cittadino, di eliminare le restrizioni nei confronti del prestatore di servizi.
Se inserite le considerazioni riguardanti gli strumenti che i legislatori degli Stati membri hanno a contrasto della discriminazione, o meglio ancora di un trattamento di disparità, nei confronti dei prestatori di servizi in un contesto economico caratterizzato da un market access sicuramente molto incisivo, risulta evidente come la dottrina degli ostacoli, appunto, non pone l’attenzione dei suddetti legislatori sul solo rispetto dell’eguaglianza, ma ritiene addirittura illegittima una previsione legislativa limitativa della libertà di prestare un servizio rivolta ad un cittadino di un altro Stato membro dell’Unione.
Si rileva, quindi, la necessità, arrivati a ritenere illegittima ogni previsione legislativa limitativa della libertà in questione ossia quella di prestare servizi, di una disciplina di raccordo tra quella interna degli Stati membri e la dottrina degli ostacoli in precedenza citata. Tale impianto normativo dovrebbe in ogni caso specificatamente essere rivolto esclusivamente al prestatore di servizi e non a tutti coloro i quali intendano stabilirsi all’interno di Stati membri dell’Unione differenti da quello di origine, esigenza questa già tutelata dalle norme dei Trattati relative alla libertà di stabilimento e più nello specifico alla cittadinanza europea.
2.7 LA TEORIA DEGLI OSTACOLI E QUELLA DEL MUTUO RICONOSCIMENTO
La normazione in questione, e quindi il regime alternativo e di raccordo che prima citavo e del quale si avverte ormai, come accennato, la necessità, innanzitutto si intende riferito al solo prestatore di servizi e non allo stesso cittadino dello Stato membro che riceve la prestazione, è quindi al servizio o al bene, nell’accezione economica affibbiatagli dal legislatore europeo, che viene rivolta l’intera disciplina della libera prestazione dei servizi, è come se i destinatari delle norme comunitarie in materia siano gli stessi beni e servizi offerti dai prestatori e siano dunque i primi a godere, fondamentalmente, dei benefici dei quali sto parlando.
Se, fino ad ora, abbiamo esclusivamente parlato della dottrina degli ostacoli come elaborata dalla Corte in modo statico, quindi, in altre parole, solo come da quest’ultima teorizzata, possiamo ora spostare il focus sul principio del mutuo riconoscimento, che possiamo, seppur banalmente, definire come la proiezione dinamico-applicativa della succitata dottrina degli ostacoli.
19 “Nel quadro delle disposizioni seguenti, le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello del destinatario della prestazione.
Il Parlamento europeo ed il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono estendere il beneficio delle disposizioni del presente capo ai prestatori di servizi, cittadini di un paese terzo e stabiliti all’interno dell’Unione”.
La Corte, dunque, volendo essere più precisi, ha elaborato, tramite i suoi orientamenti, una sua interpretazione pratica, in base certamente al contesto giuridico-istituzionale nel quale si è trovata ad agire e le premesse dalle quali la Corte ha preso le mosse sono che:
a) Vi è una pluralità di sistemi giuridici fra loro eterogenei e non armonizzati;
b) La libera circolazione transnazionale, prevista dal Trattato come libertà fondamentale, viene ostacolata dal fatto che la merce/servizio considerati dovrebbero a rigore rispettare sia le norme dello Stato di origine sia quelle dello Stato di destinazione.
Il lavoro che quindi ha sostenuto, o meglio, tramite il quale la Corte ha reso praticamente applicabile o, più correttamente, applicato il principio precedentemente teorizzato e definito dottrina degli ostacoli sino a renderlo effettivo e definendolo principio di mutuo riconoscimento che ha indotto definitivamente la Corte a valutare, poste in essere, come già poco sopra accennato, valutazioni in merito alle divergenze tra differenti ordinamenti giuslaburistici nazionali, quanto effettivamente gli ordinamenti appena citati possano trovarsi ad avere delle linee normative comuni e quindi la sussistenza formale di una somiglianza per garantire l’applicazione piena ed effettiva del principio del mutuo riconoscimento, appunto; tutto ciò, è importante specificarlo, la Corte lo valuta la fine di applicare, dove possibile rilevare quella sussistenza formale di punti di contatto tra ordinamenti della quale pocanzi parlavo, la normativa giuslaburistica dello Stato di origine della merce o del servizio scambiati.
L’applicazione del principio, ormai del tutto pratico, del mutuo riconoscimento va contestualizzato e, volendo essere puntigliosi valutandone l’applicazione stessa, è importante in primo luogo notare come questa dipenda, innanzitutto, dall’effettiva equivalenza funzionale riscontrata, al contrario di quanto sarebbe logico aspettarsi e pensare, non a monte, valutata quindi la norma in vigore nello Stato nel quale poi viene effettivamente posto in essere il servizio o scambiata la merce, bensì dal Giudice nazionale dello Stato ospite al termine di una comparazione tra la norma vigente nello Stato di origine del servizio e di quella in vigore, come poco fa accennato, nello Stato nel quale poi il servizio andrà effettivamente prestato.
In secondo luogo, ammesso che venga riscontrata quella equivalenza formale tra ordinamenti nazionali posta alla base del principio del mutuo riconoscimento, subentra, ancora, la rule of reason, la quale consiste nella possibilità, in capo allo Stato nel quale il servizio viene effettivamente prestato, di applicare delle condizioni, effettivamente limitative che legittimano, in caso di mancata soddisfazione, lo Stato ospitante ad applicare la sua normativa vigente in materia e facendo prevalere quindi il modello di host state control.
Possiamo in conclusione affermare quanto il principio del mutuo riconoscimento sia quindi compresso in favore di una valutazione discrezionale degli organi giudiziari degli Stati nei quali il servizio viene effettivamente prestato ed ancora sia legato a condizioni che, se non rispettate, garantiscono in capo allo stesso Stato ospitante la possibilità di applicare alla prestazione di un servizio la propria normativa interna.
2.8 I SISTEMI DI HOME STATE CONTROL ED I SISTEMI DI HOST STATE CONTROL
A questo punto, probabilmente, è utile, se non addirittura indispensabile, fare una considerazione riguardo l’effettiva valenza che assume la prestazione di servizi al di la di quale levatura normativa sia concessa in materia dal Trattato e dalle prescrizioni del Diritto dell’unione Europea; infatti è utile innanzitutto ribadire come, in effetti, non esista una disciplina che definisca in modo specifico e dettagliato il significato del “servizio” ma piuttosto si riconducono a questo termine una serie di attività che per comodità vengono suddivise in macro categorie.20
A testimoniare l’effettivo e reale impatto della disciplina dei servizi nel diritto degli Stati membri dell’Unione Europea è anche la risposta normativa dei singoli Stati membri rispetto alle prescrizioni dei Trattati in materia, non si può infatti parlare di una disciplina unitaria della materia o, quantomeno, di una disciplina omogenea per la maggior parte di essa, quanto piuttosto di una disciplina frammentaria ed eterogenea che impedisce, sostanzialmente, di sfruttare a pieno le potenzialità, almeno a livello occupazionale, concesse dalla libera prestazione di servizi.
In secondo luogo, citata e delineati i tratti essenziali della teoria del mutuo riconoscimento, è possibile parlare di una seconda forma di home state control che si distingue, appunto, dalla teoria del mutuo riconoscimento ed è definito come principio del paese di origine (Ppo).
Secondo questo principio il prestatore di servizi che, come già detto, si trovi ad eseguire la prestazione in un Stato membro differente da quello di stabilimento, conformemente a quanto stabilito dalle prescrizioni normative in materia, sarà sottoposto alla normativa in materia vigente nello Stato in cui è stabilito e lo Stato in cui, invece, la prestazione viene effettuata non può, di contro, porre alcun limite all’applicazione del corpus normativo in vigore nello Stato di origine del prestatore.
La ratio della pratica in esame è di agevole comprensione, si ritrova infatti nella possibilità di agevolare il mercato della libera prestazione di servizi all’interno dei confini dell’Unione Europea e tra cittadini degli Stati membri senza porre in capo ai prestatori stessi misure eccessivamente restrittive o condizionanti che li dissuaderebbero dalla loro pratica professionale.
Nel Ppo salta all’occhio innanzitutto come, distintamente dal caso rappresentato dal mutuo riconoscimento, per il quale, appunto, spetta in capo alla giurisdizione del giudice nazionale valutare se effettivamente sussistano le condizioni per l’applicazione delle norme giuslaburistiche dello Stato di origine del prestatore, in base alle similitudini che possano i giudici nazionali riscontrare tra i regimi normativi specifici in materia degli Stati coinvolti, riferendoci in questo caso tanto a quello di origine del prestatore quanto a quello in cui la prestazione viene da quest’ultimo eseguita, in via del tutto discrezionale.
20 Le macro-categorie alle quali si fa riferimento nelle righe precedenti sono nello specifico:
a) Servizi alle imprese;
b) Servizi alle imprese ed ai consumatori;
c) Sevizi ai consumatori.
Ed ancora, questo secondo regime di home state control, si distingue dal precedente, ossia da quello del mutuo riconoscimento, chiaramente per la possibilità, in quello di mutuo riconoscimento, in capo alla giurisdizione dello Stato in cui il servizio viene prestato di porre delle limitazioni o delle condizioni in capo la prestatore di servizi che, se eluse, garantiscono la possibilità di assoggettare il prestatore di servizi alla disciplina giuslaburistica dello Stato nel quale effettua la prestazione; chiaramente la diversificazione più evidente tra i due sistemi appena descritti, almeno in questo secondo caso, riporta all’impossibilità nel caso il modello di riferimento di home state control utilizzato sia quello del Ppo è rappresentato dall’impossibilità per la giurisdizione dello Stato in cui la prestazione avviene di assoggettare il prestatore alle proprie norme specifiche in materia, e ciò a prescindere da una valutazione discrezionale riguardo le possibili similitudini nei sistemi giuslaburistici degli Stati “coinvolti” nella prestazione del servizio.
Nonostante appaia, non solo all’occhio meno esperto, ma anche a quello del legislatore europeo, il modello Ppo come il più efficacie per valorizzare un mercato dei servizi quanto più libero e funzionale, non è questo identificato ed indicato dalle norme dei Trattati come riferimento normativo “ufficiale” in materia di libera prestazione dei servizi, anzi, quando è stato compiuto un tentativo di valorizzazione di tale modello nel 2004 tramite la direttiva Xxxxxxxxxx, dal nome del commissario europeo proponente, al fine di accelerare il processo di omogenizzazione delle prescrizioni normative in materia di libera prestazione dei servizi dei singoli Stati membri, questi stessi si sono ferventemente opposti poiché ritenevano fosse, un modello di gestione della libera prestazione di servizi come il Ppo, limitativo dell’autoomia normativa dei singoli Stati membri.
Sembra evidente, dunque, come il tentativo di armonizzazione intrapreso dal commissario Xxxxxxxxxx fosse rivolto, prima di essere in qualche modo ostacolato dalle rimostranze dei legislatori degli stati membri, ad ottenere la promulgazione di alcune direttive, anche mirate, in grado di agevolare, non solo il prestatore di servizi nello svolgimento delle proprie attività, ma anche tutti coloro i quali godono della fruizione del servizio da quest’ultimo fornito.
La direttiva Xxxxxxxxxx, e più nello specifico le misure in essa contenute ed introduttive di prescrizioni volte all’armonizzazione, appunto, delle norme giuslaburistiche nazionali in materia di libera prestazione dei servizi, non è stato un effimero tentativo da parte del legislatore europeo di ridurre l’indipendenza dei singoli Stati membri su questioni normative relative alla materia in questione, ma uno spunto per agevolare anche coloro i quali, cittadini di Stati membri dell’Unione Europea differenti da quello di origine del prestatore, avessero intenzione di avvalersi delle opere dei prestatori stessi.
Sarebbe stata la stessa disciplina proposta dall’allora commissario UE a prevedere tramite sistemi di soft law in primo luogo e, solo eventualmente, di hard law la possibilità che il prestatore, già favorito, appunto, dalla direttiva in questione, fosse controllato, a fronte dell’armonizzazione delle regole statali in materia, e dell’applicazione di un sistema basato sul modello Ppo, dalla giurisdizione competente degli stessi Stati membri, a garanzia dell’operato che dal prestatore in questione dovrà essere posto in essere valutando, per i due anni successivi al distacco, in particolar modo:
a) L’identità del lavoratore distaccato;
b) La qualifica e le mansioni che gli sono attribuite;
c) L’indirizzo del destinatario;
d) Il luogo di distacco;
e) La data di inizio e fine del distacco;
f) Le condizioni di lavoro ed occupazione del lavoratore distaccato.
La direttiva Xxxxxxxxxx è stata ritirata poiché considerata eccessivamente liberale nelle regole in materia di libera prestazione dei servizi e quindi sostituita nel 2006 dalla Direttiva CE 123/2006 tramite la quale il legislatore europeo ha inteso ridimensionare gli effetti della precedente cancellando in primo luogo gli effetti della disciplina del modello Ppo e garantendo, almeno stando a quanto previsto all’inizio del capo III della stessa, comunque, la possibilità ai prestatori di fornire un servizio in uno Stato membro differente da quello di origine o di quello in cui il prestatore stesso sia stabilito. Viene inoltre garantito, dalla Direttiva in questione, tramite l’imposizione allo Stato membro nel quale la prestazione oggetto del servizio ha luogo, il libero accesso ed il libero esercizio di un’attività di servizi. La mutazione effettiva riguarda il regime legislativo al quale è sottoposto il prestatore stesso che, in questo caso, è di host state control fatte comunque salve le pronunce della Corte di Giustizia riguardate l’applicabilità di alcune prescrizioni normative, come nel caso della dottrina degli ostacoli.
La Direttiva in questione, che tengo a ricordare essere la CE 123/2006, inoltre mira a rimuovere, ed in questo vi si riscontra un elemento di innovazione, quelle che vengono definite come frontiere al mercato dei servizi e lo fa dettando prescrizioni, dotate evidentemente del carattere dell’imperatività, che stabiliscono i requisiti che non possono essere imposti al prestatore di servizi per svolgere la sua attività.21
Proseguendo nella trattazione della libera prestazione dei servizi, occupandoci, come si conviene, dell’analisi dei profili di carattere laburistico in materia, ritengo importante, ai fini di una stesura esaustiva dell’elaborato, specificare come il legislatore europeo, tramite la disciplina in questione, nonostante la spinta senza dubbio liberale che ha voluto imprimere alla materia tramite la proposta di riforma avanzata per mezzo della direttiva Xxxxxxxxxx e successivamente con la Direttiva CE 123/2006 ha comunque inteso salvaguardare la dimensione domestica degli ordinamenti giuslaburistici nazionali, almeno in materia di
21 I requisiti che non posso essere imposti dal legislatore nazionale al prestatore di servizi dalle norme dei singoli Stati membri in materia sono:
a) L’obbligo di stabilimento sul loro territorio;
b) L’obbligo di ottenere un’autorizzazione dalle autorità nazionali competenti;
c) Il divieto al prestatore di dotarsi sul loro territorio di una determinata infrastruttura necessaria all’esecuzione della prestazione;
d) L’obbligo del prestatore di essere in possesso di un documento d’identità specifico per l’esercizio di un’attività di servizi rilasciato dalle autorità competenti;
e) L’applicazione di un regime contrattuale particolare tra il prestatore ed il destinatario che impedisca o limiti la prestazione di servizi a titolo indipendente;
f) Requisiti relativi ad attrezzature e materiali che costituiscono parte integrante del servizio, con eccezione di quelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro;
g) Le altre restrizioni vietate dal successivo Art. 20.
libera prestazione di servizi, da forme eventuali di regulatory competition. È possibile riscontrare tale peculiarità, innanzitutto, leggendo il comma 6 dell’Art. 1 della Direttiva CE 123/2006 che, appunto, afferma:
“La presente direttiva non pregiudica la legislazione del lavoro, segnatamente le disposizioni giuridiche o contrattuali che disciplinano le condizioni di occupazione, le condizioni di lavoro, compresa la salute e la sicurezza sul posto di lavoro, e il rapporto tra datori di lavoro e lavoratori, che gli Stati membri adottano in conformità del diritto Nazionale che rispetta il diritto comunitario. Parimenti, la presente direttiva non incide sulla normativa degli Stati membri in materia di sicurezza sociale”.
Si presenta a questo punto un problema non di poco conto, che spesso ha costituito oggetto di dibattito, ed è costituito, giustappunto, dai limiti che debba rispettare il diritto del lavoro dei singoli Stati membri nel regolare lo svolgimento della prestazione di servizi in modo conforme rispetto alle norme di diritto dell’Unione Europea nella stessa materia.
L’Art. 16 della stessa Xxxxxxxxx, al comma 3, stabilisce inoltre:
“Allo Stato membro in cui il prestatore si reca non può essere impedito di imporre requisiti relativi alla prestazione di un’attività di servizi qualora siano giustificati da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di sanità pubblica o tutela dell’ambiente, e in conformità del paragrafo 1. Allo stesso modo, a quello Stato membro non può essere impedito di applicare, conformemente al diritto comunitario, le proprie norme in materia di condizioni di occupazione, comprese le norme che figurano negli accordi collettivi”.
Sicuramente, le prescrizioni in questione sono in parte sufficientemente esaustive, soprattutto nello specificare l’applicabilità del diritto del lavoro nazionale, nel caso specifico in cui questo, però, non sia contrastante con il diritto UE, ed affermando quindi la sovranità dell’ordinamento laburistico nazionale stesso; nonostante il chiarimento parziale, la disciplina fornita dalla Direttiva CE 123/2006 non risulta essere esaustiva poiché difetta, l’Art. 16 come l’Art.1, di un chiarimento specifico sui limiti che rendono applicabile la disciplina nazionale in materia in relazione a quella europea che appunto è costituita dalla norma in questione.
Appare in ogni caso evidente come l’intento del legislatore europeo sia stato pienamente rispettato e trasmesso per mezzo della Direttiva in esame almeno per quanto riguarda il ricorso ad un regime legislativo straordinario per la disciplina della libera prestazione di servizi che obbligano, a questo punto incontrovertibilmente, all’applicazione di un modello normativo derogatorio di host state control appunto.
2.9 I LIMITI ESTERNI ALLA LIBERA PRESTAZIONE DI SERVIZI
Tra le ragioni imperative di interesse generale che giustificano le restrizioni alla libera prestazione dei servizi vi è, senza dubbio alcuno, la sussistenza di norme di diritto nazionale a tutela del lavoro. Occorre però, per completezza d’informazione ed a fronte di un’analisi più minuziosa della questione, affermare come, in realtà, come le tutele in ambito laburistico non costituiscano condizione sufficiente e necessaria alla disapplicazione delle norme dell’Unione, o meglio, non costituiscano condizione sufficiente seppur assolutamente necessaria; la norma laburistica dell’Unione, infatti, può essere limitata nel suo campo applicativo, dal legislatore nazionale, a favore delle tutele del lavoro solo se le limitazioni posseggano, qualora rapportate alle tutele per le quali vengono applicate, i requisiti di proporzionalità ed equivalenza. Di certo questo sta a significare che, come emergerà dai paragrafi a seguire, il ruolo della legislazione Nazionale assume senza dubbio un valore di primo piano, limitato però nella sua centralità dall’ingerenza del diritto Europeo il quale, disciplinando le libertà fondamentali delle quali nessun cittadino può essere privato, anche se, come già affermato in precedenza, relega la libera prestazione di servizi ad un ruolo marginale e quasi supplementare rispetto alle altre che costituiscono invece pilastro del diritto dell’Unione, funge da limes invalicabile stabilendo l’impossibilità di opporre, agli Stati membri, restrizioni ingiustificatamente eccessive a tutela del lavoro che cozzerebbero, senza inoltrarsi in un’accurata analisi della disciplina giuslaburistica europea, intanto con il dettato dell’Art. 56 TFUE.
Ancora, appare necessario, specificare come riferendosi alle norme poste a tutela del lavoro, la giurisprudenza intenda riferirsi al complesso di norme in materia di Diritto del lavoro, appunto, che lo Stato presso il quale viene svolta la prestazione di servizi abbia posto in essere. Per praticità e senso logico queste possono dividersi i due distinti sottogruppi, il primo dei quali racchiude quelle norme che vengono poste in essere dallo Stato ospitante nei propri interessi, quindi quelle norme che, ad esempio, vengano poste in essere a calmierare gli ingressi di lavoratori pronti a prestare manodopera nell’ambito di una prestazione di servizi, ciò, ricollegato alla tutela del lavoro, per non creare un’eccessiva concorrenza nel settore dei servizi, appunto.
Un secondo sottogruppo di norme a tutela del lavoro è rivolto, invece, ai singoli lavori e riguardano, per la precisione, quei diritti che le leggi nazionali dei singoli Stati membri pongono in essere non a tutela del lavoro i generale e, volendo esemplificare possiamo senza dubbio citare quelle riguardanti la retribuzione; ciò talvolta si scontra con quelle che sono le previsioni della contrattazione collettiva da applicare ai prestatori di servizi proveniente da Stati membri differenti da quelli in cui la prestazione si svolge, e ciò è dovuto al fatto che l’applicabilità dei pocanzi citati contratti collettivi, almeno in alcuni Stati dell’Unione, ha efficacia erga omnes.
Nella giurisprudenza i due gruppi di interessi che spingono gli Stati membri a far prevalere la loro sovranità nazionale, almeno in tema di norme laburistiche, non necessariamente vengono analizzati e giustificati distintamente, ma anzi capita che tali gruppi di interessi si sovrappongano e ciò ha portato nel corso del
tempo la Corte ad affermare come non deprecabili gli interessi tutelati dagli Stati in materia di diritto del lavoro e delle relative tutele, considerando delle eventuali ingerenze nel mercato del lavoro da parte di prestatori di servizi di altri Stati membri potenzialmente dannosi per la stabilità del mercato interno del lavoro stesso, e ciò poiché, fondamentalmente, le prestazione fornite sono di SLI22, quindi servizi di lavoro effettuati da prestatori di manodopera subordinata assimilabili in tutto e per tutto a semplici lavoratori subordinati che si stabiliscono permanentemente in uno Stato membro differente da quello di origine in cerca di fortuna, creando quindi uno scompenso nel “sistema-occupazione” dello Stato interessato all’avvento di nuova forza lavoro e giudicando quindi la tutela del succitato “sistema-lavoro” come un interesse generale meritevole di tutela da parte del singolo ordinamento23.
2.10 LA TUTELA INTERNA DEL MERCATO DEL LAVORO
La giustizia dell’Unione non è giunta ad una semplice risoluzione della questione riguardante il bilanciamento tra la tutela del mercato del lavoro nazionale e l’applicazione dell’Art. 56 del TFUE che disciplina, come sappiamo, la libera prestazione di servizi. La Corte di Giustizia, infatti, si è trovata in difficoltà a tracciare un confine netto tra il lavoratore subordinato assunto da un datore dello Stato nel quale questo si stabilisce e dopo essersi spostato da uno Stato membro differente da quello in cui viene assunto ed un prestatore di SLI. La Corte, comunque tramite pronunce successive afferma in modo piuttosto lineare come debba trovarsi differenza tra le due figure professionali nebulosamente qualificate considerando per lo più il fatto che il prestatore di SLI al termine della prestazione della quale è incaricato rientra dello Stato d’origine o dove abbia domicilio, è facile, a questo punto, stabilire che non perverrà un ingresso fisico del prestatore di SLI all’interno del mercato del lavoro nel quale si trovi a prestare un servizio.
In questo caso, come in altri, per disciplinare la differenza tra un lavoratore subordinato assunto in uno Stato membro differente da quello di origine ed un semplice prestatore di SLI, la Corte di Giustizia è stata chiamata in causa relativamente ad un contratto di appalto, differente e più nebulosa risulta essere la distinzione tra le due figure nel caso in cui ci si muova da un contratto non più d’appalto ma di somministrazione di lavoro.
In questo secondo caso, analizzato dalla corte a partire dalla sentenza Webb24, emerge quanto effettivamente il prestatore di un servizio, che svolga per via di un contratto di somministrazione, nonostante la fornitura di un servizio prestata a fronte della stipula di un contratto di somministrazione preveda, in sostanza, che il prestatore svolga la sua prestazione formalmente alle dipendenze del soggetto che somministra forza lavoro per lo svolgimento della prestazione stessa, ma sostanzialmente la prestazione, e quindi il servizio offerto dal prestatore, è diretto dal soggetto che ha richiesto manodopera o comunque forza lavoro per lo svolgimento
22 Con l’acronimo “SLI” ci si riferisce ai Services Labour Intensive, servizi quindi prestati da una corposa quantità di prestatori subordinati e alle dipendenze di colui il quale risulti essere l’effettivo prestatore di servizi.
23 C 113/89 Rush Portuguesa
24 Cgce 17 dicembre 1981, causa 279/80, Xxxx
della prestazione stessa; detto ciò appare in ogni caso evidente come la prestazione di un servizio offerta da un soggetto per mezzo di un contratto di somministrazione implichi un’ingerenza all’interno del sistema- lavoro dello Stato in cui il prestatore si trovi a svolgere la prestazione richiesta, mimando ai legittimi interessi dei lavoratori subordinati e contrattualizzati nel paese di svolgimento della prestazione.
A questo punto è la stessa Corte ad ammettere possibilità di rimediare al possibile ingresso nel sistema- lavoro dello stato in cui la prestazione avviene tramite una serie di tutele, come ad esempio le succitate, ritenute legittime onde evitare l’ingresso in massa di lavoratori nel sistema-lavoro dello Stato che inizialmente aveva ospitato i prestatori allo scopo di avvalersi di un servizio.
Riferendoci in generale ad una simile situazione, con particolare attenzione alla sentenza già in precedenza citata C 113/89 Rush Portuguesa, emerge la fragilità, o meglio la farraginosità, dell’orientamento della giurisprudenza comunitaria che non specifica in realtà, lasciando quindi libero arbitrio o quasi alla sovranità del legislatore nazionale, quali tutele debbano essere adottate a tutela del sistema-lavoro dei singoli Stati.
Dunque spetta, a questo punto, ai singoli Stati membri ospitanti organizzare un sistema di tutele che consentano di calmierare l’ingresso di manodopera importata e ciò avviene, almeno nella maggior parte dei casi, tramite richieste specifiche da parte di questi come posso essere quella di un permesso di soggiorno o, ancora, di un permesso di lavoro, nell’obbligo di rispettare una determinata procedura di distacco europeo ecc. questi sistemi di “filtraggio” sono stati comunque ritenuti illegittimi poiché non rispondono ai criteri di proporzionalità rispetto ai fini perseguiti.
È facile inoltre ipotizzare che l’orientamento della Corte, evidentemente permissivo nei confronti degli ordinamenti nazionali, e, più specificamente, nei confronti delle norme giuslaburistiche dedicate alla tutela del sistema-lavoro, siano rivolte alla tutela della concorrenza, dannosa per lavoratori subordinati dello Stato ospitante, che i prestatori di servizi pongano in essere all’interno del mercato nazionale del lavoro. La Corte è comunque ferma nell’affermare come la tutela della stabilità del mercato del lavoro e della concorrenza alle imprese interne non possa in alcun modo pregiudicare la libera prestazione dei servizi ne tantomeno legittimi i singoli Stati ad applicare, al di là di una giustificata proporzionalità, meccanismi restrittivi per l’ingresso dei prestatori di servizi.
La libera prestazione di servizi, nell’interpretazione che in dottrina forniscono gli studiosi degli Stati membri, sostanzialmente è una minaccia non solo ai fini della tutela del mercato del lavoro interno per i limiti posti all’eventuale applicazione delle tutele interne, ma anche perché costituisce un limite evidente al principio di territorialità del lavoro.
Dunque ci si chiede sempre più frequentemente se il soggetto che si avvale del servizio offerto da un prestatore che si avvalga di manodopera distaccata possa e, in certo qual modo, debba garantire a colui il quale metta a disposizione fisicamente la propria competenza sotto forma di manodopera di regolare il apporto in questione, almeno dal punto di vista giuridico, come se il prestatore, in questo caso riferendoci a ci fisicamente ponga in essere la prestazione, fosse un lavoratore subordinato svolgente la propria prestazione nel paese di distacco. Tecnicamente il quesito viene portato all’attenzione del Giudice
comunitario in Rush Portuguesa, ma quanto emerge ad un’analisi della sentenza in questione, che sostanzialmente non ritiene inapplicabili dei meccanismi di protezione interni del sistema-lavoro, non deve indurre a ritenere lecito un uso smodato dei limiti e delle tutele in questione.
2.11 I LIMITI ALLE TUTELE IMPOSTE DAGLI STATI MEMBRI
Attestato che, soprattutto in dottrina e giurisprudenza, vengano ritenute le tutele delle quali sino ad ora ho parlato giustificatamente applicabili, è altrettanto importante affermare come, volendo giocare con le parole, si debbano porre, ai limiti consentiti, dei limiti che, paradossalmente, alle volte, imporre i quali spetta al legislatore od al giudice nazionale come nel caso, ad esempio, delle modalità e dei limiti di conservazione di documentazione ed autorizzazioni dei prestatori di manodopera distaccati durante la prestazione fornita e nel paese ospitante e comunque restrizioni e limiti che siano compatibili con il principio della proporzionalità.
Oltre alla proporzionalità l’equivalenza deve indicarsi come requisito necessario delle limitazioni che i singoli Stati dell’Unione possono introdurre a tutela del sistema-lavoro, l’equivalenza funzionale, volendo ad essa riferirci, si riscontra quando le tutele poste in essere per i prestatori di manodopera distaccati vengono riconosciute non solo, ed eventualmente, dallo Stato ospitante che nel caso di specie è quello nel quale viene effettuata la prestazione e quindi quello del richiedente, ma anche dallo Stato di origine, ciò rende ingiustificato qualsivoglia sistema di tutela del sistema-lavoro applicato dallo Stato dove il servizio viene effettivamente prestato.
Il principio di equivalenza è quindi posto in essere per evitare che un doppio sistema di tutele al quale verrebbe sottoposto il prestatore o chi dovesse svolgere per suo conto la prestazione creando evidentemente una disparità concorrenziale per i prestatori transnazionali. Dunque risulta da tale lettura ed unitamente agli orientamenti giurisprudenziali che l’equivalenza sia necessaria per il prestatore transfrontaliero in modo da poter svolgere, in condizioni di assoluta parità rispetto al lavoratore subordinato cittadino dello Stato membro in cui la prestazione viene svolta; l’equivalenza assume, ormai, valore di regola d’accesso.
Spetta al giudice nazionale stabilire, valutando l’effettiva uguaglianza dei sistemi normativi degli stati i cittadini dei quali sono coinvolti nella valutazione stessa, se applicare quei meccanismi di tutela che si renderebbero inutili nel caso in cui fossero i medesimi dello Stato di origine.
Nella valutazione il giudice nazionale si muove con discrezionalità che non si può definire tuttavia incondizionata dal momento che, il giudice stesso, si trova costretto a considerare nelle sue valutazioni anche una serie di direttive d’armonizzazione della legislazione nazionale che si occupa appunto dell’applicazione delle tutele in questione25.
Il problema principale, quindi, per il giudice nazionale, è senza dubbio legato alla ricerca della quadra in fatto di armonizzazione delle norme giuslaburistiche dei vari ordinamenti, a ciò contribuirebbe, o, almeno
25 Cgce 23 novembre 1999 cause riunite C-369/96 e C 376/96, Xxxxxxx
inizialmente, avrebbe contribuito una sorta di collaborazione amministrativa tra lo Stato di origine e lo Stato ospitante, tale problema è stato in seguito risolto dall’emanazione della direttiva CE 96/71/Ce.
La direttiva in questione, nonostante l’ampio ventaglio di materie trattate, omette di occuparsi di alcune questioni rilevanti in ambito di diritto del lavoro e, volendo esser meno superficiali, salta all’occhio il fatto che ad essere tralasciati siano stati gli aspetti relativi alla tutela previdenziale, che senza dubbio interessano il cittadino comunitario prestatore di Sli; è dunque doveroso affermare come il cittadino comunitario prestatore di Sli resti, per il periodo di svolgimento della prestazione, assoggettato alla normativa in tema di previdenza vigente nello Stato di origine, ciò a condizione che la durata del servizio prestato non superi i dodici mesi.
Una vera svolta in tema di libera prestazione di servizi, almeno dal punto di vista normativo, si è avuta con la stesura e la ratificazione ed emanazione del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea che ha, per la prima volta, insignito la Carta di Nizza sui diritti fondamentali del valore di Trattato, e con ciò ha elevato ognuna delle libertà fondamentali da questa regolate a disciplina contenuta in fonte di rango primario.
In ogni caso, in un’ottica più moderna, la coabitazione dei diritti sociali fondamentali e delle libertà puramente economiche non può sussistere solo per mezzo di un tentativo di bilanciamento posto in essere dal legislatore europeo per mezzo del TFUE e delle attribuzioni, almeno in fatto di maggior dignità concessa alle libertà sociali fondamentali, concesse successivamente alla stesura del Trattato stesso. Nel caso di specie, come già accennato nelle pagine addietro, la dottrina degli ostacoli, ad esempio, si occupa di rendere efficace ed applicabile la tutela dei suddetti diritti fondamentali, contemperandoli però con strumenti che i singoli Stati possono attuare a tutela del proprio sistema-lavoro.
A questo punto subentra il concetto di “Accettabilità” che rappresenta il contemperamento degli interessi che vengono tutelati dai Trattati rispetto a quanti vengano invece tutelati, con buona dose di discrezionalità, dai giudici dei singoli Stati membri e volti per lo più alla tutela del mercato del lavoro interno; contemperare bilanciandoli entrambi gli interessi vorrebbe dire, a mio parere errando, porre su un piano medesimo le libertà sociali ritenute fondamentali e il liberalismo economico.
2.12 IL TENTATIVO DI ARMONIZZAZIONE DEL LEGISLATORE: LA DIRETTIVA “CE 96/71”
Si colloca nel quadro normativo della libera prestazione di servizi la Direttiva CE 71/96 del 16 dicembre 1996 che ha lo scopo di armonizzare le prescrizioni giuslaburistiche degli Stati membri e che aumenta per gli stessi le sicurezze in campo di tutela e che determina la disciplina applicabile ai prestatori di Sli che subiscono, nell’esercizio della loro prestazione un distaccamento transfrontaliero temporaneo in un paese che chiaramente, a fronte di quanto detto sino ad ora è differente da quello di origine.
Si ritiene, considerate le teorie in merito degli studiosi, che la direttiva in questione potrebbe essere il frutto di una duplice esigenza la prima delle quali è rappresentata dalla possibilità di garantire uno strumento utile agli Stati per bilanciare la forza lavoro presente al loro interno e quella invece proveniente da altri Stati
membri come avviene nel caso dei prestatori di Sli senza che si crei un’eccessiva concorrenza idonea a dare origine a fenomeni di dumping sociale, la seconda delle due teorie invece afferma come sia stata concepita la 96/71 al solo scopo di garantire ad ogni Stato membro la possibilità di esercitare la propria sovranità in ambito di tutele del sistema-lavoro volte a “calmierare” l’ingresso di prestatori di Sli all’interno del mercato nazionale del lavoro e più in generale soggetti provenienti da altri Stati nei singoli mercati nazionali.
La direttiva è dichiaratamente volta a:
“definire un nucleo di norme vincolanti ai fini della protezione minima cui deve attenersi nel paese ospite il datore di lavoro che distacca un dipendente a svolgere un lavoro a carattere temporaneo nel territorio di uno Stato membro dove vengono prestati i servizi.”
Per quanto appena letto possiamo dunque affermare come quanto il legislatore europeo intendesse veicolare il concetto per il quale dovesse applicarsi ai prestatori di Sli un sistema di regole e tutele di host state control.
L’applicazione della disciplina in questione, che si occupa, appunto, di regolare due ambiti del diritto del lavoro dell’UE ossia la libera prestazione di servizi e il distacco dei lavoratori, è considerata volta a normare, definendola in modo più ecumenico possibile il distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi.
È chiaro o almeno appare tale come un punto cardine della direttiva in questione sia, appunto, il concetto di distacco, il quale è stato definito ben prima della norma in questione e, per la precisione, nel regolamento CE 1408/1971 che all’Art. 14 lettera a statuisce che:
“La persona che esercita un’attività subordinata nel territorio di uno Stato membro presso un’impresa dalla quale dipende normalmente ed è distaccata da questa impresa nel territorio di un altro Stato membro per svolgervi un lavoro per conto della medesima, rimane soggetta alla legislazione del primo Stato membro, a condizione che la durata prevedibile di tale lavoro non superi i dodici mesi e che essa non sia stata inviata in sostituzione di un’altra persona giunta al termine del su periodo di distacco.”
Nel presente articolo, volendo essere precisi, è importante notare come viene concessa per “cause imprevedibili” la proroga di massimo dodici mesi concessa per il periodo di distacco. Nonostante si sia appena citata una nozione di lavoratore distaccato, possiamo affermare come ne sussistano altre ancora, postume rispetto quella citata poche righe ma antecedenti alla direttiva CE 96/71, le une non impediscono alle altre di essere applicate contestualmente, non essendocene effettivamente una preponderante. Il concetto di transnazionalità riferito alla prestazione è certamente meno ampio di quello di lavoratore distaccato, si parla dunque di transnazionalità nel caso in cui vi sia un semplice spostamento del prestatore di Sli, o più banalmente di una prestazione volta a garantire un servizio, che si sposta per l’effettuazione della prestazione
in questione in uno Stato diverso da quello di origine. Si può parlare di distacco inoltre nel caso in cui sussista un rapporto di dipendenza tra il lavoratore subordinato e l’impresa, rapporto che dovrà essere posto in essere antecedentemente rispetto al distacco. La disciplina viene inoltre applicata facendo riferimento alla nozione di lavoratore non dello stato di origine del prestatore di servizi ne tantomeno in virtù di una nozione generale di lavoratore, ma considerata la nozione del lavoratore riconosciuta dallo Stato in cui viene fornita la prestazione e, quindi, avviene il distacco.
È la stessa direttiva che provvede ad escludere alcune categorie di lavoratori dall’applicazione della direttiva in questione, infatti stabilisce esplicitamente la non applicabilità della stessa ai lavoratori delle imprese della marina mercantile, i suddetti lavoratori si vedono applicato il diritto internazionale privato, differente è la situazione del trasporto ferroviario, stradale, marittimo ed aereo sia da sottoporsi alla disciplina contenuta dalla 71/96 in mancanza di una disciplina definita in materia.
La Commissione, nel tentativo di chiarire la posizione dei lavoratori pocanzi citati, afferma che per costoro il fatto che siano abitualmente impiegati nella loro prestazione tra due o più Stati non può applicarvisi la disciplina della direttiva esaminata, mentre la stessa Commissione stabilisce, generando alcune perplessità che la 71/96 si applica per i “trasporti di cablaggio”.
Altra esclusione che salta all’occhio ed imposta dalla direttiva riguarda l’impossibilità di applicarla ai lavoratori che prestino dei servizi o, più semplicemente, che svolgano la loro professione e provenienti da paesi extracomunitari. Questa preclusione ha lo scopo, come è risultato evidente analizzando, non solo la disciplina della direttiva in questione, ma l’intera disciplina dei servizi e della loro libera prestazione, di arginare delle pratiche scorrette e anticoncorrenziali da parte di aziende o lavoratori autonomi pronti a fornire servizi e provenienti da Stati terzi. Importa, in ogni caso, affermare come la 71/96 non possa in modo alcuno influire sulle norme che regolano l’ingresso di cittadini, che siano lavoratori o meno, provenienti da Stati extracomunitari.
Parlando degli obiettivi della direttiva emerge che, oltre all’armonizzazione dei sistemi giuridici e giuslaburistici, questa si preoccupa maggiormente di garantire a tutti i prestatori cittadini dell’Unione le medesime tutele nel momento in cui si trovino a svolgere la loro prestazione. Si giunge a tale uniformità di trattamento innanzitutto definendo un elenco di materie nei confronti delle quali mettere in pratica il progetto in questione26 .
La differenza, dunque, tra gli orientamenti della giustizia europea successivi a Rush Portuguesa e quelli successivi alla direttiva CE 71/96 è certamente quella relativa all’obbligo, ricadente in capo agli Stati membri nei quali viene svolta la prestazione di servizi, di applicare la propria disciplina interna, in ogni caso armonizzata per via della norma in esame; ciò per evitare che lo Stato applicasse le sue norme, e quindi estendesse la propria sovranità, anche ai lavori distaccati in un altro Stato membro.
26 Periodi massimi di lavoro e periodi minimi di riposo; durata minima delle ferie retribuite annuali; tariffe minime salariali, comprese le maggiorazioni per il lavoro straordinario; cessione temporanea dei lavoratori; sicurezza, salute ed igiene sul lavoro; provvedimenti di tutela riguardo alle condizioni di lavoro e occupazione di gestanti o puerpere, bambini e giovani; parità di trattamento tra uomo e donna.
Unica materia tra quelle disciplinate dalla direttiva e che non subisce un tentativo di armonizzazione da parte del legislatore europeo è quella relativa ai salari minimi, vige infatti a proposito il principio per il quale a disciplinare l’argomento in questione debba essere lo Stato nel quale la prestazione viene svolta facendo pienamente applicazione del principio di host state control e ciò determina inevitabilmente un limite alla concorrenza che induce, a rigor di logica, i prestatori di Sli a svolgere il loro servizio lontano dallo Stato di origine in quanto riscontreranno condizioni economiche vantaggiose in paesi in cui il costo della manodopera, appunto, sarà meno esoso.
Per l’ennesima volta ci troviamo ad affermare come obiettivo della CE 71/96 sia quello di garantire parità tra i lavoratori che svolgono la loro prestazione nello Stato in cui essi abitualmente sono stanziant, e si possano quindi classificare più tradizionalmente lavoratori subordinati, e lavoratori distaccati che svolgono la loro prestazione in uno Stato membro diverso da quello di origine. Nel caso di specie occorre notare analizzando la norma europea come in due casi la discrezionalità del legislatore nazionale possa cozzare con le prescrizioni della direttiva ed in particolare ciò avviene nella determinazione del favor e, cioè, di quel complesso di norme definite già precedentemente come nocciolo duro della disciplina che trattiamo, e che può essere applicato, come nel caso delle ferie retribuite, in modo uguale nella quantità ma non ad esempio nella gestione della tutela in questione, determinando in caso uno squilibrio; e poi nella determinazione dell’applicazione stessa della materia della direttiva a determinati prestatori transfrontalieri che non godono della possibilità di ricevere le tutele in questione poiché prestano un servizio che non superi la durata di otto giorni e che quindi possa definirsi, nel caso in cui dovesse essere costituito dalla prestazione di manodopera qualificata, un servizio di montaggio o prima installazione di un bene.
È inoltre fondamentale specificare come a dover essere tenuta da riferimento sia l’impossibilità degli Stati membri di trattare, alla stregua di quelli a cui la direttiva sia rivolta, prestatori di servizi di Stati terzi e, quindi, extraeuropei, come fossero prestatori di Stati membri.
A questo punto importa definire quale sia la fonte normativa l’applicazione della quale potrebbe risultare idonea al processo di armonizzazione avviato dalla disciplina europea, e sarebbe impossibile non riferirsi, trascurandolo, al contratto collettivo, le parti del quale disciplinino gli argomenti del nocciolo duro indicati dalla CE 71/96 vengono applicati ai prestatori di Sli che svolgano la loro prestazione transfrontaliera in regime di distacco. Inizialmente la direttiva prevedeva la possibilità di applicare le parti del contratto collettivo nazionale di categoria relativo alla prestazione svolta solo se il contratto avesse efficacia erga omnes ma successivamente una modifica delle prescrizioni contenute nello stessa direttiva ha consentito, a tutti gli Stati membri che l’avessero disposto ed affermato con la legge d’applicazione della direttiva, e quindi tramite prescrizione legislativa, l’applicazione delle norme contenute nei contratti collettivi di categoria seppur, come nel caso dell’Italia, la loro efficacia non abbia valore erga omnes. Se quindi, almeno inizialmente, la prescrizione della direttiva sembrava porre in secondo piano l’efficacia e l’importanza del contratto collettivo nazionale, ora questo è considerato la fonte maggiormente efficacie in campo di armonizzazione tra le norme dello stato e la disciplina di concorrenza introdotta dalla CE 71/96.
Le imprese di servizi non sono tenute a garantire ai propri dipendenti l’applicazione degli standard imposti dallo Stato ospitante nel caso in cui sussistano delle specifiche condizioni in capo ai propri dipendenti riguardo la durata minima delle ferie annuali ed ancora dei minimi salariali in tre diverse situazioni:
a) Se si tratta di lavoratori di assemblaggio iniziale e/o di prima istallazione di un bene, previsti da un contratto di fornitura di beni, indispensabili per mettere in funzione il bene fornito;
b) Se tali lavori sono eseguiti da lavoratori qualificati e/o specializzati dell’impresa di fornitura;
c) Se la durata del distacco non superi un periodo di xxxx xxxxxx.
Per i distacchi inferiori ad un mese vi è la possibilità da parte delle imprese di servizi di evitare che ci sia l’applicazione di alcuni elementi costituenti, ai sensi della disciplina in questione, il nocciolo duro e, nel caso di specie, del minimo salariale nel caso in cui vi sia accordo con le parti sociali del paese ospitante e che l’accordo sia basato sugli usi dello Stato in questione in materia. Orientamenti più recenti, valutata come illogica la previsione in questione, ritengono che la deroga possa essere applicata indipendentemente dall’esito delle consultazioni con le parti sociali.
Vi è un ulteriore deroga che riguarda il periodo minimo di ferie e che, appunto, ha la funzione di derogare sul periodo minimo di ferie nel caso in cui l’oggetto della prestazione effettuata sia classificabile come di lieve entità, e le valutazioni a riguardo vengono effettuate discrezionalmente dagli ordinamenti nazionali. Tale impianto derogatorio, che, va precisato, non riveste grande importanza pratica ed applicativa, e deve essere disciplinato dai contratti collettivi che disciplinano anche i meccanismi di potere opposto.
Un altro importante punto della disciplina in questione è rappresentato dalla possibilità di applicare da parte degli Stati membri, indipendentemente dal fatto che la prestazione venga effettuata da un’impresa stanziale nel paese stesso o che sia un’impresa che presta un servizio, la medesima tutela nel caso in cui a dover essere disciplinati debbano essere dei rapporti rilevanti ai fini dell’ordine pubblico. In questo caso viene certamente rafforzato il concetto di host state control ma è pur vero che si parla di casi in cui l’interesse da tutelare è l’ordine pubblico e quindi i casi in cui vi sia una minaccia effettiva e sufficientemente grave per uno degli interessi fondamentali della collettività e può includere, in particolare, questioni legate alla dignità umana, alla tutela dei minori e degli adulti vulnerabili e al bene degli animali.
Il legislatore consente una duplice chiave di lettura per la direttiva CE 71/96 facendo in modo che questa stabilisca il corpus normativo applicabile al lavoratore distaccato, ed ancora che gli Stati membri, rispettando, appunto, quanto la direttiva in questione propone in ambito d’armonizzazione degli ordinamenti giuridici laburistici degli stessi Stati membri, di concedere a questi ultimi la possibilità di articolare un impianto normativo da applicare ai lavoratori distaccati. Ciò risulta evidentemente una possibilità che gli Stati si trovano a poter esercitare per derogare, parzialmente, alla norma in esame.
Non è una scelta aprioristica quella sulla disciplina applicabile al prestatore distaccato, la scelta è dettata principalmente dal rapporto che lo Stato ospitante vuole instaurare, chiaramente a livello di applicazione normativa, con il prestatore di servizi, ne discende che ad essere applicato con più frequenza sarà il regime ordinario disciplinato dalla norma europea, ma quest’ultima lascia aperta una finestra che guarda alla
disciplina derogatoria, prediletta ovviamente alla prima in virtù della sua capacità di salvaguardia dei precetti interni. Nonostante questa duplice possibilità, costituta dallo spiraglio appena descritto, e le perplessità generate da una possibile lettura contraddittoria della norma, non può definirsi l’Art. 3.10 della direttiva in questione come una norma contradditoria che contrasta palesemente con le disposizioni della direttiva in analisi che si propone di creare un contesto normativo, in materia laburistica, il più possibile armonizzato tra gli Stati dell’Unione Europea ed introdotto già con la sentenza Rush Portuguesa.
2.13 LA DIRETTIVA 2006/123 “BOLKSTEIN”
A completamento dell’analisi della direttiva CE 96/71 è importante quantomeno accennare alla successiva direttiva 2006/123 chiamata informalmente Bolkestein dal nome del commissario che la propose e recante disposizioni generali che permettono di agevolare la libertà di stailimento e la libera prestazione di servizi. La direttiva in questione generò non pochi contrasti con le organizzazioni sindacali poiché, la disciplina in essa contenuta, si temeva potesse generare diffusi casi di dumping sociale in grado di minare alla stabilità interna dei sistemi laburistici nazionali; ciò sarebbe peraltro avvenuto in relazione all’applicazione del principio del Paese d’origine per via del quale spetta ai prestatori di servizi la possibilità di applicare alla manodopera da essi dipendete un regime normativo più flessibile di quello eventualmente vigente nello Stato in cui la prestazione viene svolta.
Al termine delle discussioni avvenute in seno al palamento europeo sulla direttiva in questione si è deciso che questa dovesse in ogni caso rispettare la normativa vigente e riguardante, in modo specifico, la libera prestazione di servizi, per non sovvertire gli equilibri stabiliti tra l’autonomia, seppur parziale, mantenuta dai vari ordinamenti nazionali e la direttiva 96/71 e ciò emerge inequivocabilmente alla lettura dell’Art. 3 comma I.27
È dunque configurato il rapporto tra le direttive in questione come rapporto tra lex generalis, rappresentata nel caso di genere dalla direttiva 2006/123, e lex specialis, e ci si riferisce sta volta alla direttiva 96/71; la prima delle due citate non è quindi idonea ad influire sulla normazione dettagliata che la seconda pone in essere riguardo la prestazione transfrontaliera di servizi nonostante la più volte contestata idoneità della direttiva 96/71 a governare in maniera equilibrata le dinamiche di sviluppo del mercato transnazionale dei servizi poiché, ad esempio in tema di diritti sindacali analizzati in rapporto a quelli economici questa tutela a disciplina sovrana vigente nei singoli Stati membri.
27 “se disposizioni della presente direttiva confliggono con disposizioni di altri atti comunitari che disciplinano aspetti specifici o per professioni specifiche, le disposizioni di questi altri atti comunitari prevalgono e si applicano a tali settori o professioni specifiche”.
2.14 LA DIRETTIVA 67/2014 “ENFORCEMENT”
A seguito di un’analisi effettuata da un gruppo di esperti per conto della stessa Commissione sulle condizioni dei lavoratori distaccati che svolgono le loro mansioni nell’ambito di una prestazione di servizi transfrontaliera, è emersa la necessità di emanare una nuova direttiva in grado di colmare le lacune normative evidenziate in precedenza dalla CE 96/71 e confermate in seguito dalla 2006/123.
Si è giunti a compimento del progetto normativo in questione con la direttiva del 15 maggio 2014 n. 2014/67 fondata sugli Artt.53.1 e 62 TFUE e che introduce “disposizioni, misure e meccanismi di controllo necessari per migliorare ed uniformare l’applicazione nella pratica della direttiva 96/71”28, ciò anche a costo di inasprire le sanzioni perpetrate in violazione delle norme contenute nella direttiva 96/71.
A tale fine questa nuova direttiva, definita enforcement, procede, da un lato, a rafforzare, chiarendola, la nozione di distacco fornita dalla 96/71 al fine di calmierare gli abusi che se ne fanno, e, dall’altro lato, ad indurre regole più dettagliate sulla disciplina relativa all’accesso agli atti, alla cooperazione amministrativa fra gli Stati membri, nonché al rafforzamento della tutela nei riguardi dei lavoratori distaccati.
Specificamente riguardo al primo degli obiettivi della direttiva in questione, ossia la genuinità del distacco dei lavoratori che non deve essere fittizio e fonte di sconvolgimento dell’equilibrio interno del mercato del lavoro dello Stato ospitante, l’Art. 4 della enforcement stabilisce che le autorità nazionali siano preposte a due tipi di controlli nel garantire l’equilibri di cui sopra ed il primo dei quali è rivolto all’effettivo stabilimento dell’impresa distaccante nello Stato ove sono assunti i dipendenti distaccati all’estero, mentre il secondo è rivolto a confermare la temporaneità della presenza dei lavoratori nello Stato in cui avviene il distacco. Per la maggior parte la disciplina di controllo imposta dalle prescrizioni della 2014/67 si concretizza nella costituzione di una collaborazione, in merito di controlli anti-abusi, tra gli Stati membri e nell’assistenza tra organi amministrativi deputati a tali scopi.
L’Art. 5 della direttiva stabilisce, in materia di semplificazione delle informazioni riguardo la disciplina vigente negli Stati in cui avviene il distacco, che queste vengano fornite nel modo più trasparente possibile anche per mezzo di uno specifico sito web unico ed ufficiale.
L’Art. 9 istituisce, invece, la figura di una persona preposta ad interferire con il rappresentante legale del prestatore dei servizi; per quanto la portata dell’Art. 10 possa risultare innovativa, in quanto fa riferimento all’istituzione di adeguati meccanismi di controllo e vigilanza tenendo comunque fermi i principi di autonomia propri di ognuno degli Stat membri, l’Art. 11 suscita attenzione poiché concede alle organizzazioni sindacali di agire in nome e per conto dei lavoratori distaccati operando affinché vengano effettivamente applicate loro le tutele garantite dal Diritto Europeo.
Nonostante il denso quadro normativo fornito dall’enforcement non sono mancate, nei suoi riguardi, perplessità legate ai suoi limiti ed alle sue ambiguità e ne sono un esempio le mancate prescrizioni riguardo le sanzioni da applicare in caso di distacco non genuino, nonostante l’attenzione della direttiva a riguardo.
28 Art. 1 direttiva 2014/67.
Resta comunque da valutare anche come la Corte di Giustizia dell’Unione Europea intenda valorizzare le prescrizioni normative anti-dumping che sono contenute nella 2014/67 tramite le proprie sentenze, come nel caso dell’individuazione, da parte della succitata Corte, della nozione di “tariffe minime salariali” garantite ai lavoratori distaccati ex Art. 3.1 della 96/71. La Corte ha dimostrato in questo caso di volere allargare i propri orizzonti non sconfessando la sua precedente interpretazione ed i precedenti orientamenti rispetto il tema del dumping sociale.
2.15 LA DIRETTVA 2018/957
Da ultimo, ad ampliare la disciplina sul distacco transfrontaliero, soprattutto nei riguardi di quelle discipline concorrenziali che determinano, in virtù del distacco stesso e delle molteplici possibilità di eludere i sistemi normativi sino ad ora vigenti, è stata la disciplina contenuta dalla direttiva del 28 giugno 2018 n. 2018/957. Nel caso di questa norma la più innovativa delle prescrizioni normative veicolate è senza dubbio alcuno quella riferita alla sostituzione del concetto di “tariffe minime salariali” con quello di “retribuzione” in riferimento alla parità di retribuzione per lavoratori che svolgono al loro attività nello stesso luogo. Inoltre vi è, grazie alla direttiva in questione, l’allargamento dell’applicazione dei contratti collettivi non solo ai prestatori transfrontalieri del settore dell’edilizia, ma anche a tutti gli altri settori economici che permettono lo svolgimento di una prestazione di servizi. Un’importante disciplina, sempre fornita dalla 2018/957, è costituita dalle norme sui rimborsi delle spese sostenute dai prestatori di servizi nello svolgimento della loro opera.
Tale direttiva si occupa inoltre di disciplinare un punto rimasto a lungo nebuloso, ossia il termine utile per definire temporaneo il distacco per fornire la prestazione di servizi richiesta. Si stabilisce nella 2018/957 che il termine utile per essere considerato lavoratore distaccato e godere quindi delle relative tutele è di 12 mesi, periodo superato il quale il lavoratore si considererà a tutti gli effetti stabilito nel Paese ospitante anche se la parificazione risulta essere non del tutto completa.
2.16 LA SENTENZA 18 DICEMBRE 2007: “LAVAL”
A conclusione del capitolo ritengo importante citare una delle sentenze pronunciate dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nell’ambito di quello che viene definito il “quartetto Laval” ed in particolare proprio la sentenza Laval che viene pronunciata dalla Corte il 18 dicembre 200729 in relazione ai diritti fondamentali che l’Unione Europea ha inteso disciplinare per mezzo della Carta di Nizza e che vanno evidentemente contemperati, stando a quanto emerge dalla Direttiva CE 96/71 e successivamente dalla “Bolkestein”, Direttiva 2006/123, a quelli che sono gli interessi di rango economico.
29 Sentenza C-341/05
Importa considerare, in primo luogo, l’incipit della sentenza in questione nel quale la Corte stabilisce che, nonostante la competenza dell’Unione a disciplinare il diritto di sciopero e di serrata questo non garantisce la possibilità di escludere l’azione collettiva dal campo di operatività del Trattato in materia di libertà economiche e, nel caso di specie, di libera prestazione di servizi; da ciò la considerazione che lo sciopero è un diritto fondamentale senza dubbio alcuno, ma non può considerarsi immune da restrizioni.
Una tale restrizione nei confronti di una libertà economica, come può essere la libera prestazione di servizi, per mezzo di uno sciopero, risulterebbe lecita solo nel caso in cui l’obiettivo perseguito possa considerarsi legittimo, esistano ragioni imperative d’interesse generale e sia rispettato il principio di proporzionalità e la sentenza in questione afferma l’insussistenza delle pocanzi citate ragioni giustificative di una compressione tale rispetto la libertà economica tutelata dalla libera prestazione di servizi, non sussistevano infatti ne caso Xxxxx i presupposti giustificativi che avrebbero reso perfettamente legittimo uno sciopero volto ad ottenerne, rispetto alle tutele minime riservate ai lavoratori distaccati e garantite dalle Direttiva CE 96/71, maggiori e migliori.
Il caso in questione (Xxxxx) vede protagonista un’impresa edile lettone, la Laval appunto, che distacca dei suoi lavoratori per adempiere ad una prestazione di servizi e, una volta giunti questi in Svezia, la società e le confederazioni sindacali svedesi hanno tentato di trovare un accordo in materia di minimi salariali, accordo che non è stato trovato. I rappresentati di Xxxxx hanno quindi cominciato una contrattazione con le confederazioni sindacali Lettoni al termine delle quali hanno raggiunto un accordo sul salario minimo che chiaramente risultava penalizzante rispetto a quelli imposti dai contratti collettivi svedesi, a questo punto le confederazioni sindacali che rappresentavano i lavoratori della Laval decisero di impedire l’ingresso ai cantieri chiudendoli, a questo punto per solidarietà si sono uniti allo sciopero le confederazioni sindacali che rappresentano gli elettricisti che volevano impedire alla Xxxxx di svolgere i suoi servizi a condizioni vantaggiose. Per Natale i lavoratori rientrano in Lettonia senza mai fare ritorno ai cantieri che Xxxxx aveva in Svezia, cantieri che vennero boicottati dalle confederazioni sindacali svedesi.
A seguito di ciò Xxxxx cita in giudizio sia il sindacato dei lavoratori delle costruzioni e dei lavori pubblici, sia il sindacato dei lavoratori del settore elettrico per ottenere un orientamento giurisprudenziale che accertasse l’effettiva illegittimità dell’azione collettiva posta in essere dalla pocanzi citate confederazioni sindacali. Il giudice adito proponeva così domanda di pronuncia pregiudiziale ex Art. 234 TCE (ora 267 TFUE) alla Corte di Giustizia in relazione all’interpretazione degli Artt. 12 e 49 TCE (ora 18 e 56 TFUE), nonché della Direttiva 96/71.
Proprio quest’ultima dichiara come le condizioni e le tutele da applicare ai lavoratori siano quelle contenute nei contratti collettivi che sono dichiarati di applicabilità generale, ma in Svezia, innanzitutto, i contratti collettivi non godono dell’efficacia erga omnes e non si sono avvalsi, in ambito giuslaburistico, della possibilità di applicare le tutele previste dalla contrattazione collettiva grazie alla norma dell’Art. 3 comma 8 della Direttiva in questione.
Risulta quindi illegittima la richiesta di applicare tutele in ambito di salari minimi a lavoratori di uno Stato differente da quello in cui si svolge la prestazione e delle quali non possono godere in relazine all’applicazione in primo luogo dell’efficacia generalizzata dei contratti collettivi, che chiaramente non sussiste, e ne della norma paracadute che nel caso in questione corrisponde al già citato Art. 3 comma 8 della 96/71, a fronte della pronuncia il giudice svedese ha anche condannato le confederazioni sindacali citate dal ricorrente al risarcimento dei danni causati.
2.17 LA SENTENZA XXXXXX (PROCEDIMENTO C-415/93).
Di rilievo ai fini della normativa tutt’ora in vigore ed in merito alla libertà di stabilimento, e, più nello specifico, quella che regola la cessione dei diritti sportivi su coloro i quali esercitano l’attività in questione in modo professionale.
Per comprendere al meglio il valore da attribuirsi alla succitata pronuncia mi sembra doveroso contestualizzarla spiegando per sommi capi la vicenda.
Il Sig. Xxxxxx, che all’epoca dei fatti, risalenti ai primi anni novanta, esercitava la professione di calciatore, giunto a scadenza di contratto con il club per il quale era tesserato si accordava, tenendo conto della disciplina dei trasferimenti imposta da un regolamento UEFA, con un club della seconda divisione francese poiché, il rinnovo offerto al Sig. Xxxxxx era stato ritenuto dallo stesso insoddisfacente prevedendo un retibuzione annua di 30.000 BFR, ossia la retribuzione minima salariale che, secondo le norme federali allora in vigore in merito al salario, era il minimo da dover corrispondere.
La società francese di seconda divisione, con la quale il Sig. Xxxxxx si era accordato, gli offriva un salario medio annuo di 90.000 BFR per due anni ed in più avrebbe corrisposto al Sig. Xxxxxx un premio alla firma del contratto pari a 900.000 BFR.
Parallelamente alle negoziazioni con il Sig. Xxxxxx, la società francese si accordava con il club che deteneva i diritti alle prestazioni sportive del succitato Xxxxxx per ottenere solo in prestito il cartellino del Sig. Xxxxxx ed eventualmente riscattarlo alla fine della stagione per una cifra di circa 4.300.000 BFR al patto che venissero rispettate determinate garanzie in merito alla celerità nell’ottenimento del visto.
L’accordo in questione non andò in porto poiché la squadra belga che deteneva i diritti alle prestazioni sportive del Xxxxxx ostacolò il procedimento burocratico per l’ottenimento del visto in modo che non potesse essere celermente concesso e quindi il trasferimento saltare.
Per queste ragioni, il Sig. Xxxxxx, che non aveva ottenuto con nessuna delle due società un accordo contrattuale, stava fermo, quindi senza giocare, per una stagione al termine della quale si accordava con un club di seconda divisione francese con la quale ben presto ci stava una risoluzione contrattuale, ed ancora si accordava con una squadra francese con la quale ben presto interrompeva il rapporto per accordarsi infine con una società della terza divisione belga.
Il Sig. Xxxxxx nel mentre intentava una causa contro il club presso il quale all’inizio della vicenda era tesserato e, nello specifico, adiva la corte di Liegi, in Belgio, considerata quella territorialmente competente, affinché fosse risarcito tanto per il danno emergente, quanto per il lucro cessante di una cifra totale di circa
23.000.000 BFR, cifra questa ritenuta essere, tanto in primo grado dal tribunale di Liegi, quanto in secondo grado dalla corte d’appello, congrua.
Durante il secondo grado di giudizio, il Sig. Xxxxxx ha inoltre adito la Corte di Giustizia dell’Unione Europa proponendo, in via pregiudiziale, delle questioni relative alla legittimità del regolamento sui trasferimenti in vigore dal 1990, anno dell’ultima modifica compiuta in materia dalla UEFA, in particolar modo se relazionate le norme che lo compongono ad alcuni articoli del Trattato CEE e, nello specifico, all’Art.48 del Trattato CEE relativo alla libertà di circolazione dei lavoratori all’interno degli Stati membri dell’Unione Europea.
La CGUE, valutata l’opportunità di accogliere il ricorso ed avendola giudicata concreta, si è pronunciata favorevolmente rispetto le questioni poste dal ricorrente dando lui, quindi, ragione.
Le questioni pregiudiziali, per farla breve, erano rivolte ad ottenere una pronuncia in merito la corresponsione, prevista dal regolamento sui trasferimenti, di un’indennità alla società con la quale qualsivoglia sportivo aveva in essere un contratto e che, alla scadenza dell’accordo, si sarebbe trasferito in una società differente, giustificando tale corresponsione come premio di valorizzazione dello sportivo che, durante gli anni di contratto, ha avuto, almeno dal punto di vista sportivo una crescita.
Inoltre le questioni pregiudiziali si concentravano sull’opportunità o meno di consentire ai calciatori cittadini degli Stati membri dell’Unione di spostarsi liberamente senza necessità alcuna di ottenere prima dei visti lavorativi speciali e dedicati proprio agli sportivi professionisti.
La Corte, come già anticipato nelle righe precedenti, si è pronunciata favorevolmente rispetto le questioni preliminari proposte dal Sig. Xxxxxx, e lo ha fatto controvertendo tutte le argomentazioni addotte dalle federazioni sportive citate dallo Stesso e dagli avvocati difensori degli Stati coinvolti, i quali tentavano di dimostrare la ragionevole costruzione dei regolamenti, tanto della Federazione belga, quanto della UEFA, che tentavano di dimostrare come necessari alla crescita, allo sviluppo e, in un certo senso, alla difesa dei sistemi sportivi nazionali nella misura in cui, una certa chiusura, o, per meglio dire, limitazione al trasferimento transfrontaliero degli sportivi professionisti, ed in questo caso dei calciatori professionisti, fosse in un certo modo calmierato, imponendo un massimo di tre calciatori contrattualizzati con cittadinanza europea per ogni società.
La Corte si è pronunciata definendo i regolamenti federali presi in analisi contrastanti con l’Art. 48 del Trattato istitutivo della CEE e quindi considerando i calciatori professionisti, alla stregua di comuni prestatori di sevizi nei confronti dei quali applicare per intero la normativa dei trattati che solitamente veniva applicata a tutti cloro i quali svolgevano un’attività di prestazione di servizi per la quale era previsto un compenso.
Appare evidente, alla luce e soprattutto in seguito alla sentenza Xxxxxx, come la condizione degli sportivi professionisti, non tanto dal punto di vista contrattuale e del rapporto con il club presso il quale siano tesserati, ma dal punto di vista del riconoscimento della loro professione come prestazione di un servizio, non essendo comunque stati collocati nel novero dei lavoratori subordinati, spetti loro, nell’esercizio della stessa, appunto, all’ottenimento delle tutele ed al riconoscimento di ognuno dei diritti previsti dalle norme europee, tra le quali si distingue indubbiamente la possibilità di spostarsi liberamente per esercitare la loro attività.
2.18 LA GENESI DEGLI ACCORDI COMMERCIALI IN MERITO AGLI SCAMBI TRA REGNO UNITO E L’UNIONE EUROPEA DOPO LA BREXIT
Dopo la svolta rappresentata dalla Direttiva Xxxxxxxxxx, una ulteriore, senza dubbio di rilievo, che riguarda sempre le libertà fondamentali tutelate dalle norme e trattati dell’Unione Europea, è arrivata al culmine della procedura referendaria che ha coinvolto i cittadini del regno unito e che ha determinato l’uscita di quest’ultimo dall’unione europea.
L’uscita, che trae legittimazione ex Art. 50 TFUE, si è divisa in due fasi distinte fra loro, la prima delle quali è senza dubbio quella secondo cui, in ossequio delle prescrizioni normative del Paese richiedente, si è avviata una consultazione popolare al fine di considerare la posizione dei cittadini del regno unito rispetto tale possibilità e quindi la dichiarazione di avvio dei negoziati per la rescissione dall’accordo Ue del quale il Regno Unito è stato parte, la seconda, invece, legata ai negoziati veri e propri che hanno condotto alla stipula di un accordo bilaterale posto a regolare la disciplina degli scambi tra gli Stati membri e lo stesso Regno Unito che, come accennato già in relazione alla possibilità di spostarsi attraversando le frontiere degli stati membri nel caso della libertà di stabilimento, per un periodo di tempo di due anni sono stati disciplinati dalla normativa vigente in materia e che, sino al momento in cui i negoziati sono iniziati, li ha disciplinati considerando, non solo formalmente, ma anche fattualmente, il Regno Unito come membro dell’Unione.
Questo distacco progressivo ha di certo impedito quella che, dagli studiosi e dai commentatori, era definita hard Brexit, ossia quella condizione per la quale tra il Regno Unito e le Istituzioni dell’Unione Europea vi sarebbe stato una brusca interruzione dei rapporti di scambio certamente, ma anche nelle condizioni poste a riguardo di cittadinanza e politiche migratorie.
Al fine di valutare le opzioni idonee al raggiungimento dell’obiettivo dichiarato da entrambe le parti, ossia la possibilità di mantenere in vigore un regime di partnership “forte e speciale” è stato necessario tener conto delle esigenze, innanzitutto, del Regno Unito e dell’Unione Europea poi i vincoli derivanti dal diritto internazionale ed ancora quelli imposti da vincoli esistenti ed in questo caso è possibile citare quelli dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e ripercorrere la genesi di questa “scissione”.
Le posizioni del Regno Unito sono state rese note nel libro bianco sulla brexit del 2 febbraio 2017 e tramite il quale, in ossequio al dettato dell’Art 50 TFUE, veniva delineata la strategia d’uscita dello stesso
dall’Unione. Una disciplina, quanto meno orientativa, era stata già fornita alla metà di gennaio dello stesso anno e nella quale in dodici punti si indicavano quali sarebbero stati, almeno sommariamente, i propositi da raggiungere tramite l’uscita da E-27, ed è al punto 8 di questa sorta di lettera d’intenti che l’allora primo ministro del regno unito, Xxxxxx Xxx, dichiarava le linee guida che il suo governo era intenzionato a seguire al fine di ottenere un accordo che avesse potuto mantenere una partnership agevolata con l’Unione Europea ed ancora al punto 9 della lettera in questione veniva anche dichiarato che lo stesso tipo di accordi erano volti ad istituire una collaborazione commerciale proficua anche con altri paesi o istituzioni.
A questo punto, banalmente, il raggiungimento di un accordo dipendeva dalla volontà delle parti che lo negoziavano e che, per quanto riguarda il regno unito sono state rese immediatamente note attraverso questi principi ed, appunto, il libro bianco sulla brexit mentre per l’Europa non sono stati resi noti tramite alcun canale ufficiale restava, quindi, il dubbio su quali fossero le reali intenzioni che, tramite l’accordo di recesso, potessero rappresentare la volontà dell’Unione e che si sono rivelati essere volti alla tutela per lo più dei cittadini europei i quali risiedevano nel regno unito e di quelli britannici che si trovavano ad abitare nel resto dell’Unione, assicurare gli obblighi finanziari del regno unito ed assicurarsi che nessun confine rigido venisse nuovamente stabilito tra l’Irlanda del nord e l’Irlanda.
Nonostante il sostegno mostrato dall’unione europea rispetto l’intento, apparentemente comune quindi, di instaurare una disciplina del regime di scambio quanto più possibile volta a favorire un atteggiamento liberale da parte dei contraenti, le linee guida diramate dall’unione dimostravano in realtà che non ci sarebbe stato, al termine delle procedure di negoziazione, una condizione giuridica per la quale potessero considerarsi persistenti le condizione di liberalità alle quali avvenivano gli scambi di beni tra paesi appartenenti all’Unione Europea.
L’intento della Commissione, come specificato anche in questo caso dalle linee guida che la stessa ha diramato, era quello di perseguire il raggiungimento di una disciplina unitaria degli scambi commerciali tra quegli Stati ancora membri ed il Regno Unito, rigettando, dunque, l’idea che potessero individuarsi differenti regimi regolamentari rispetto gli scambi commerciali e ciò determinava l’impossibilità per il Regno Unito di ottenere un sistema di regole uguale o migliore rispetto a quello che si applicava tra gli stati membri dell’Unione. Come già specificato in precedenza, importa affermare che, per un periodo di due anni e quindi che almeno ipoteticamente ed alle battute iniziali della trattativa di negoziazione sugli accordi di separazione e che sarebbe dovuto terminare nel marzo del 2019, il regime degli scambi, così come quello legato alla libera circolazione e la cittadinanza, fossero rimasti immutati garantendo pari opportunità tra cittadini degli Stati che rimarranno membri e quelli del Regno Unito.
Con l’uscita dal mercato unico del Regno Unito e la conseguente acquisizione dello stato di membro indipendente dell’OMC il Regno Unito è svicolato dal regime del libero scambio intercorrente tra i paesi dell’Unione Europea ed inoltre ha la possibilità di attuare gli accordi commerciali o di libero scambio che ha negoziato nel mentre con paesi terzi. Sembra comunque incontrovertibile l’intento del Regno Unito di uscire dal mercato unico, nonostante quanto detto pocanzi in merito alla conservazione degli accordi in vigore
durate il periodo di negoziazione, infatti, il chiaro intento del governo del Regno Unito è stato quello di discostarsi dalla loro attuazione soprattutto riguardo la libera circolazione dei capitali e delle persone ed, ancora, il Regno Unito non ha accettato, all’inizio dei negoziati, di partecipare ad un’unione doganale europea come, invece, hanno fatto altri pesi extra Ue e che partecipavano invece agli accordi sullo spazio unico europeo come nel caso Turchia, e ciò al fine di evitare le limitazioni imposte dal regime doganale europeo e negoziare accordi con paesi terzi liberamente e senza alcun vicolo negoziale derivante dagli accordi di libero scambio intercorrenti tra i paesi dell’Unione.
Le volontà del Regno Unito in relazione l’accordo di separazione emergeva chiaramente al principio numero 8 del libro bianco sulla brexit, nel quale è lo stesso regno unito a dichiarare che sostanzialmente sarebbe stato interessato ad un rapporto di partnership che gli avrebbe permesso una disciplina degli scambi il più possibile liberalista e priva di complicazioni senza tuttavia volere appunto proseguire ad essere stato membro del accordo commerciale europeo relativo ai dazi doganali.
Il regno unito ancora, nel dichiarare le proprie intenzioni in merito agli accordi idonei a regolare i rapporti di scambio con gli stati membri dell’Unione Europea, ha scelto la via dell’incertezza, con ciò facendo ritenere alla commissione che il suo intento potesse essere rivolto a regolare gli scambi commerciali applicando, almeno in parte e nella misura in cui lo avesse ritenuto conveniente, gli accordi intercorrenti tra le parti in causa ma, la stessa Commissione ha ritenuto che il Regno Unito, a seguito della consultazione referendaria e della scelta di separarsi dall’unione europea, non potesse servirsene, a maggior ragione nei soli ambiti in cui tali accordi sarebbero risultati esser particolarmente convenienti per lo stesso Regno Unito.
Il focus della questione relativa alla gestione degli accordi era rivolto ad una collaborazione stretta e liberalista ma non era ben chiaro come il Regno Unito, ad esempio, intendesse occuparsi della gestione degli scambi con l’Unione uscendo dal mercato. Di certo, l’accesso al mercato interno, che l’Unione gestisce applicando degli standard in merito ai prodotti e servizi scambiati, risultava essere complicato poiché, unendo la necessità di aprirsi a scambi commerciali con paesi terzi ed autonomi del OMC e quella di mantenere accordi che sarebbero stati particolarmente favorevoli in ambito di scambi commerciali con l’UE, il mancato rispetto degli standard che l’unione impone al fine di accedere alle agevolazioni del mercato interno avrebbero potuto non trovare riscontro nella normativa interna che, essendo uscito lo stesso regno unito dall’Unione, non aveva più alcun obbligo di trovare riscontro o applicazione nelle norme che disciplinano non solo lo scambio di beni e servizi, ma anche nella disciplina che ne regola la produzione o realizzazione; sono state, inoltre, private della loro competenza, una volta perfezionato l’accordo di separazione tra le parti, tutte quelle autorità che hanno il compito di verificare, in armonia alla normativa interna che recepisce le fonti europee, l’applicazione delle norme che stabiliscono i livelli di standard idonei affinché i beni o servizi prodotti nei paesi membri possano essere liberamente scambiati tra i membri del mercato unico.
Dal contenuto del libro bianco sulla brexit appare incomprensibile quale fosse l’intento del legislatore britannico nell’indirizzare i negoziati per il recesso dall’accordo sull’Unione Europea, di certo appare più
semplice capire quali siano state, alla lettura dello stesso libro bianco, le forme regolamentari che lo stesso regno unito non intendeva in alcun modo perseguire, neppure se, almeno ragionando per analogia, sarebbe parso idoneo applicare forme di regolamentazione dei mercati simili o coincidenti a quelle derivanti da accordi stipulati tra stati membri e paesi terzi come è il caso della Norvegia o, appunto, la Turchia.
Ancora, nell’estate dello stesso anno in cui l’unione ha pubblicato il libro bianco, un altro documento relativo alle motivazioni e le modalità d’attuazione degli accordi di recesso è stato pubblicato dal Regno Unito e si tratta nel caso di specie del paper bianco sulla brexit, anche in questo caso però non venivano indicati gli strumenti legali idonei al raggiungimento degli obiettivi che lo stesso Regno Unito si era prefissato nel momento in cui ha deciso di negoziare la rescissione dell’accordo.
Il Regno Unito, ad una lettura del documento citato, sarebbe sembrato potersi dire idoneo a realizzare due diversi sistemi di regolamentazione degli scambi commerciai, la cui attuazione, in un caso o l’altro, non si sarebbe perfezionata in un lasso temporale breve. Al di là delle considerazioni di carattere tecnico- applicativo, era il secondo tra i modelli d’integrazione normativa a sembrare quello maggiormente idoneo a raggiungere l’obiettivo prefissatosi dal Regno Unito e dal quale ha preso le mosse l’intero intervento referendario prima e negoziale poi che ha portato all’uscita dall’Unione Europea. Tali considerazioni derivano dal fatto che, il secondo modello d’integrazione, appunto, avrebbe previsto uno stretto rapporto tra le parti protagoniste dell’accordo e che avrebbe dovuto orientare le politiche commerciali allineandole quanto più possibile a quelle dell’Unione Europea e quindi innanzitutto abolendo i dazi doganali, in seconda battuta armonizzando la propria politica regolamentare a quella degli standard imposti dalla stessa Unione Europea al fine di agevolare, una volta ottenuti standard autonomi, l’abolizione non solo dei dazi doganali ma anche ei controlli alle frontiere.
Nonostante la spiccata propensione all’integrazione, queste forme di regolamentazione erano ben lontane dall’essere improntate ad una reale unione doganale con i paesi UE e, ancora, parimenti lontani dal regime doganale intercorrente con la Turchia.
Sostanzialmente, tra gli intenti palesati nel succitato paper, veniva palesato dal Regno Unito l’intento di differenziare i canali ed i controlli sui prodotti prima importati e poi destinati al mercato UE e che quindi sarebbero stati poi esportati, tramite tale procedura si sarebbe di certo creata la situazione per la quale gli scambi commerciali ed i relativi adempimenti doganali si sarebbero potuti semplificare, ma tale progetto regolamentare, oltre ad essere un inedito, nella misura in cui mai una proposta simile era stata mossa al fine di regolare scambi commerciali tra Paesi in cui la materia in questione è disciplinata da norme differenti, appariva, seppur giuridicamente possibile, molto complicata nella realizzazione pratica.
Il primo modello di regolamentazione per gli scambi commerciali, che, come specificato anche poco sopra, prevedeva l’istituzione di un domestic custom arrangement che non avrebbe fatto altro che confermare la volontà del Regno Unito di ottenere un’indipendenza nel regime doganale ed il quale avrebbe compreso controlli e dazi, ed in effetti è proprio il contenuto del paper che stabiliva come lo stesso Regno Unito
intendesse proseguire i rapporti con il resto dei paesi dell’unione europea ed estenderli alle economie degli altri pesi extra UE.
A regolare gli scambi, o, per meglio dire, i rapporti con i Paesi che operano in mercati distinti rispetto a quello comunitario sono i modelli e termini di riferimento che a livello regionale vengono previsti nell’ambito dell’OMC.
Secondo l’Art XXIV del GATT gli accordi regionali non posso in alcun modo essere esclusivi e quindi non possono applicarsi, ad esempio, ai nuovi tra Unione Europea e Regno Unito solo in alcune materie al fine di escluderne alcune poiché le barriere devono essere, almeno a livello regionale, eliminate, e ciò anche nel caso in cui la stessa Unione dovesse decidere di accettare una regolamentazione anche solo parziale dei rapporti.
È interessante il tema degli scambi e dei rapporti commerciai nella misura in cui una regolamentazione può non essere riferita esclusivamente agli scambi veri e propri ma può prevedere una normativa nel settore della proprietà intellettuale, degli scambi di servizi nonché nella regolamentazione degli investimenti e movimenti di capitali , la possibilità concreta di intervenire nella politica degli scambi poteva portare al risultato positivo dell’ istituzione di nuovi standard nelle materie appena citate che avrebbe consentito una maggiore protezione, che, a questo punto, doveva essere definita rafforzata, riguardo alcuni temi come le indicazioni geografiche tipiche o la risoluzione delle controversie relative con gli investitori.
Il modello appena citato è quello del CETA che regola gli accordi doganali tra Unione Europea e Canada e che vedrà la maggior parte dei dazi doganali da abolirsi e perciò è stato proposto come modello al quale far riferimento al fine di regolare in rapporto doganale nascente dall’accordo di recesso, ma il fatto che, l’accordo poco fa citato, sia volto all’eliminazione di praticamente il 99% degli obblighi ed imposizioni doganali tra UE e Canada non vuol dire che questo sia il modello ideale al fine di redigere un accordo bilaterale tra le parti in questione, e ciò poiché non garantirebbe la stesura di un accordo che sia totalmente privo di imposizioni doganali, conducendo alla conclusione secondo cui non sarebbe il modello in questione idoneo ad essere preso in considerazione per creare un accordo bilaterale quanto più possibile privo di imposizioni doganali. Da qui la consapevolezza per cui nessun accordo tra il Regno Unito e l’Unione Europea volto a regolare i rapporti commerciali tra i due sistemi avrebbe potuto effettivamente garantire l’assenza di restrizioni, seppur sarebbero potuti essere stipulati accordi che prevedevano l’esclusione di qualsivoglia dazio doganale, ciò a discapito pure dell’ingresso delle merci nell’Unione Europea via Regno Unito, la fuoriuscita di questi ultime, infatti, determinerebbe che le merci provenienti da paesi extra UE non potranno più essere introdotta nel mercato dell’Unione con la stessa semplicità.
Qualora il trattato brexit avesse dovuto produrre i suoi effetti, si sarebbe applicata, non più l’unione doganale tra il Regno Unito e l’unione europea, bensì i rapporti di scambi commerciali sarebbero stati caratterizzati, almeno dal punto di vista degli adempimenti burocratici legati alla sussistenza di dazi, al regime d’imposizione chiaramente distinto da quello intercorrente tra i soggetti i questione, nella misura in cui sarebbero state ripristinate le regole che disciplinavano, appunto, gli scambi commerciali tra Paesi
appartenenti alla Organizzazione Mondiale del Commercio, ma che presentavano modelli differenti rispetto al regime degli scambi intercorrente tra paesi dell’Unione Europea, in sostanza, dunque, il risultato sarebbe stato quello per il quale il Regno Unito alla stregua degli altri paesi appartenenti alla OMC avrebbe intrattenuto, senza dubbio alcuno, scambi commerciali con i paesi membri dell’Unione europea singolarmente considerati ed avrebbe intrattenuto, privo , tuttavia, di qualsivoglia agevolazione dal punto di vista burocratico o del regime dei dazi doganali.
Uno dei temi che ha assunto rilevanza determinante nell’accordo di recesso del regno unito dall’unione europea è quello relativo ai rapporti tra Irlanda del nord (che fa parte del regno unito) e Repubblica d’Irlanda, la quale, essendo una nazione indipendente ed autonoma, avrebbe mantenuto, successivamente la formalizzazione dell’accordo di recesso, i propri rapporti commerciali con l’Unione Europea, rimanendone parte, e quindi proseguendo nel godimento di quelle che sono le previsioni che gli accordi ed i trattati pongono in essere a regolare il mercato interno. È nel documento del 16 agosto 2017, intitolato “Brexit, Northern Ireland and Ireland”, che le parti in questione, supportate in realtà dall’accordo GATT, e, per la precisione, all’Articolo XXIV si stabilisce che non per forza se, nei rapporti commerciali intrattenuti tra due paesi membri dell’OMC, o, per meglio dire, tra due o più paesi facenti parte dell’OMC, non per forza tutti i paesi ad interagire tra loro hanno l’obbligo di conformare le prescrizioni normative e i dazi doganali al fine di renderli omogenei orientandoli verso quella che, tra le discipline adottate a regolare gli scambi con altri Paesi, sia la più favorevole. Ciò induceva dunque a ritenere che, sarebbe stato possibile, allargando anche la concezione giuridica per la quale tale disciplina più favorevole potesse essere solo riferita agli Stati, o, più precisamente ancora, ai territori di confine o strettamente considerabili di confine, ed anche a territori con un’estensione di superficie notevole come nel caso di specie dove, l’Irlanda, in realtà è un vero e proprio stato appartenente, peraltro, all’Unione Europea.
Tale lettura genera ancora un problema o una soluzione al problema che l’accordo Brexit ha evidenziato in merito al trasferimento di beni e servizi che, circolando praticamente senza stringenti restrizioni attraverso le frontiere di Stati confinanti, sarebbero potuti essere introdotti eludendo le restrizioni che l’Unione avrebbe imposto al Regno Unito a seguito degli accordi in questione e chiaramente agevolando l’intenzione di quest’ultimo di importare merci dall’Irlanda all’Irlanda del nord garantendosi delle notevoli agevolazioni fiscali e questo scenario determinerebbe senza ombra di dubbio una “unione doganale di fatto” tra il Regno unito, specificamente in riferimento ai territori dell’Irlanda del nord. Anche le soluzioni emerse dal joint Report del 2017 hanno portato a formulare delle soluzioni contraddittorie e quasi impossibili da realizzare, e che , specificamente consistono o, meglio, sarebbero consistite, nella possibilità di proseguire considerando, almeno dal punto di vista dei controlli doganali, il Regno Unito alla stregua di un Stato membro, almeno per quanto riguarda la normativa applicabile ai controlli doganali, soluzione questa che, ad esempio, renderebbe lo stesso Regno Unito meno indipendente della Svizzera dal punto di vista dell’indipendenza in materia di normativa sui controlli doganali.
L’alternativa sarebbe stata volta al concretizzarsi del sistema regolamentare in vigore post brexit, rendendo di fatto impraticabile l’applicazione di un sistema di scambio di merci, almeno nel caso dei confini tra Irlanda del nord e Repubblica Irlandese, che avrebbe garantito degli scambi per i quali istituire regole e tariffe doganali agevolate.
Un appunto necessario riguarda la possibilità che il Regno Unito, a fronte degli accordi brexit, non potesse inoltre partecipare o mantenere in vigore tutti quegli accordi commerciali bilaterali con paesi extra Unione Europea e che regolavano, prima della decisione sulla separazione, i rapporti commerciali tra gli Stati membri, i quali avevano più o meno libertà nella stipula degli accordi in questione, in base al tipo di accordo siglato, e, appunto, Stati non appartenenti all’Unione. Una soluzione a questo problema sarebbe potuta esistere ma avere natura essenzialmente provvisoria nella misura in cui, il regime doganale in vigore e dettato dagli accorti tra l’Unione ed altri Stati, in questo caso terzi, sarebbe rimasto a disciplinare gli scambi commerciali solo ed esclusivamente nel periodo che può essere definito di transizione.
All’Unione Europea sarebbe spettato, poi, il compito di comunicare all’OMC che al suo interno il Regno Unito non sarebbe stato più rappresentato dalla stessa Unione in quanto membro della stessa ma che si sarebbe, a seguito degli accordi in questione, rappresentato, all’interno dell’organizzazione, autonomamente con la possibilità, inoltre, di non essere sottoposto ad alcun vincolo sulle tariffe doganali che modificare avrebbe comportato, invece, l’interruzione di equilibri delicati ed il loro conseguente stravolgimento che probabilmente, per altro, sarebbe stato possibile, non in forma unilaterale, dal Regno Unito.
Per quanto riguarda, invece, la transizione di servizi, avendo negoziato l’Unione impegni in ambito GATS tra i singoli Stati membri, le modifiche imposte dagli accordi su brexit sembravano essere più agevoli.
A conclusione appare evidente come, per il Regno Unito, ottenere una fluidità nello scambio di beni e servizi, paragonabile a quella ottenuta essendo membro dell’Unione Europea sarebbe stato obiettivo irrealizzabile, almeno relativamente ai traffici tra lo stesso Regno Unito e l’Unione, ma all’epoca della stipula dell’accordo pareva essere l’unica soluzione da adottare al fine di garantirsi la possibilità di negoziare autonomamente e liberamente accordi commerciali con Paesi terzi.
2.19 ACCORDI COMMERCIALI TRA REGNO UNITO E UNIONE EUROPEA POST BREXIT
A fronte delle manifestazioni d’intenti che hanno caratterizzato, attraverso la stipula di una pluralità di bozze d’accordo in primo luogo e, dato vita a complessi dibattiti ai quali hanno preso parte i soggetti, almeno giuridici, interessati in secondo luogo, il 24 dicembre 2020, i negoziatori in questione hanno raggiunto un accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione, ed ancora un accordo sulla sicurezza delle informazioni tra Regno Unito e Unione Europea. Pochi giorni dopo e, più precisamente, il 29 dicembre 2020 il Consiglio ha reso noto che la validità degli accordi in questione, quelli appunto ai quali si fa riferimento alle righe sopra, sarebbero entrati in vigore, almeno provvisoriamente, a decorrere dal 1° gennaio 2021e ciò nella misura in cui la ratifica degli accordi è avvenuta il 30 dicembre 2020. Al termine del periodo in cui gli
accordi erano in vigore solamente in via provvisoria, quindi fino la fine del mese di febbraio 2021, si sarebbe dovuto procedere all’entrata in vigore degli accodi in via definitiva, data che è slittata dal momento in cui sono state necessarie delle verifiche volte e completare la revisione giuridico-linguistiche degli accordi in tutte le 24 lingue degli Stati membri e tale procedura è stata completata solo il 21 aprile 2021 mentre il 27 dello stesso mese il Consiglio, che inizialmente aveva posto in essere come data ufficiale di entrata in vigore degli accordi definitivi il 26 febbraio 2021, ha approvato la decisione sulla conclusione degli accordi in questione per ratificarne la versione definitiva il 29 aprile 2021 e deciderne l’entrata in vigore il 1 maggio 2021.
Sostanzialmente l’accordo stipulato tra le parti in causa prevede un intervento regolamentare in ambito di libero scambio di merci e quindi apposizione o meno di dazi doganali e un accesso limitato al mercato dei servizi ed ancora degli accordi di cooperazione in ambito politico e disposizioni sulla pesca che i pescherecci europei dovranno rispettare e che avranno, però, valore solamente transitorio, scontato pareva essere, già da prima del periodo di transizione che ha consentito la stesura dell’accordo in questione, il destino delle norme regolatorie degli spostamenti transfrontalieri che d’ora in poi saranno limitati e subiranno delle notevoli restrizioni che tuttavia non precluderanno al Regno Unito di partecipare ad alcuni programmi dell’Unione Europea.
L’accordo in questione prevede una revisione di quelle disposizioni che hanno regolato i commerci relativi agli scambi di merci e servizi, la libera circolazione dei cittadini tra Stati dell’Unione e del Regno Unito, le disposizioni in materia di esercizio del potere giudiziario e d pubblica sicurezza.
Al fine di fornire un quadro quanto più completo ma snello tramite il presente elaborato appare necessario occuparci innanzitutto della questione delle modificazioni alla disciplina che regola i commerci tra il Regno Unito e gli Stati membri dell’Unione, tanto di beni, quanto dei servizi.
La disciplina attualmente in vigore e che deve essere rispettata da tutti coloro i quali intendono porre in essere scambi di merci prevede che, quando questi intercorrano tra le parti delle quali si scrive, non sussistano restrizione legate quantomeno all’obbligo di corrispondere delle tariffe a titolo di dazio doganale al fine di scambiare merci da e per il Regno Unito verso l’Unione Europea, sono, anzi, gli stessi commercianti, o coloro i quali hanno interesse ad effettuare scambi transfrontalieri di merci che possono autocertificare che gli scambi di beni avvengano conformemente rispetto le prescrizioni normative in vigore e che li regolano, ma ciò è possibile sono nel caso in cui i prodotti ad essere scambiati siano a medio o basso rischio mentre per i prodotti che vengono definiti a rischio elevato vi è la necessità che la certificazione di conformità sia effettuata da un ente terzo e questo impedisce, agli enti certificatori inglesi, di rendere valida la loro certificazione all’interno del territorio degli Stati membri e viceversa. Tali agevolazioni, per quanto la certificazione dei prodotti scambiati e considerati ad altro rischio possa sembrare orientata in senso contrario, consente senza dubbio alcuno di facilitare gli scambi, appunto, ma resta imprescindibile operare quei controlli e quelle formalità pratiche che esulano, appunto, dal pagamento del dazio doganale in sé; per quanto riguarda l’IVA poi, questa viene applicata solo alle importazioni. Per quanto riguarda le forniture di
servizi, queste sono agevolate dalla possibilità che i singoli fornitori transfrontalieri siano agevolati quanto meno dal fatto che vengano trattati alla stregua dei fornitori cittadini dello stato in cui il servizio viene prestato e vengano in ogni caso agevolati i transfrontalieri che si occupano della fornitura di servizi digitali, appalti o dipendenti distaccati; discorso diverso viene invece fatto per i fornitori di servizi finanziari che non possono accedere ai propri clienti tramite “passaporto” e quindi vengono privati della possibilità di svolgere, per il solo fatto di essere abilitati all’esercizio della professione in questione nel Paese di origine, la stessa professione in Stati dell’unione Europea differenti da quello di origine30 e per i professionisti, invece, non vi è più il riconoscimento automatico delle qualifiche professionali.
30 Direttiva dell’ Unione Europea n. 92 del 23/07/2014
CAPITOLO III
IL CIELO UNICO EUROPEO, LA LIBERA PRESTAZIONE DI SERVIZI NELL’AVIAZIONE CIVILE ED IL CASO RYANAIR
3.1 INTRODUZIONE
Nei capitoli precedenti mi sono concentrato su questioni prettamente tecniche, e quindi normative, riguardanti due delle quattro libertà fondamentali ossia quella di circolazione e quella di prestazione di servizi, seppur la seconda risulti essere, almeno per la disciplina residuale che la regola, quasi di contorno rispetto alle altre che completano il quadro e sono la libera circolazione di merci e capitali. Tanto la libertà di circolazione e quella connessa di stabilimento, quanto la libera prestazione di servizi costituiscono e fondamenta di un settore, quello dell’aviazione civile, che ha subito nel tempo, da parte del legislatore europeo, numerose variazioni di carattere normativo che rappresentano, appunto, per quanto pocanzi affermato, un interessante spunto d’analisi per comprendere l’applicazione dei principi poco fa citati.
3.2 REGOLE DI MERCATO
Sembra logico, nello svolgimento del capitolo, procedere con un excursus storico muovendo, chiaramente, dagli interventi che il legislatore europeo ha posto in essere nel corso degli anni e finalizzati a dar vita a quello che prende il nome di cielo unico europeo e che sostanzialmente identifica, almeno figurativamente, l’area nella quale i vettori di compagnie con sede in Stati membri e, in rari casi, di Stati terzi godono della normativa dell’Unione e dei conseguenti diritti che ne derivano.
Va ricordato come, all’inizio del processo normativo intrapreso dal legislatore europeo, il mercato dell’aviazione civile ed in particolar modo le regole d’accesso al mercato dell’aviazione civile, formassero un quadro piuttosto frammentario in quanto, i singoli Stati appartenenti all’Unione Europea, che allora era ancora Comunità, regolavano autonomamente il sistema di trasporto aereo e l’accesso al mercato del trasporto aereo.
Al di là del mutamento incessante e palese delle necessità, nonché delle condizioni di vita, a livello economico, s’intende, dei cittadini degli Stati membri, a suggerire al legislatore europeo la soluzione dello spazio aereo unico è stata senza dubbio la volontà di uniformare un sistema normativo, ossia quello che disciplinava l’aviazione civile, indubbiamente frammentario e ciò poiché il settore in questione era regolato autonomamente dai singoli Stati, appunto, che esercitavano la loro sovranità normativa.
A partire però dalla seconda metà degli anni ’70, del Novecento chiaramente, e, più nello specifico, nel 1978 arrivò dagli Stati Uniti la prima svolta in materia di regolamentazione dell’aviazione civile e fu rappresentata
dall’Airline Deregulation Act, il quale ha costituto il primo atto normativo emanato allo scopo di liberalizzare il mercato dell’aviazione statunitense.
Sulla falsariga del pocanzi citato atto normativo statunitense, a partire dal 1986 e per circa un decennio, anche in Europa si è avvertita la necessità di intraprendere un percorso di “Deregulation” che avrebbe trasformato quello dell’aviazione in un mercato unico e competitivo del trasporto aereo, in particolare il primo ed il secondo pacchetto di norme emanate tra il 1987 ed il 1990 hanno contribuito a rendere più flessibili le norme relative a tariffe e capacità.
La svolta più concreta in materia è arrivata, senza dubbio alcuno, nel 1992 con il “terzo pacchetto” di norme31 che ha istituito, non solo formalmente, ma anche nella pratica, il mercato unico europeo dell’aviazione tramite la rimozione delle restrizioni ancora in vigore applicabili alle compagnie aeree operanti nell’Unione Europea.
Importa specificare come il regolamento appena citato fosse stato esteso alla Norvegia all’Islanda ed alla Svizzera e non vi è preclusione alcuna affinché possa essere esteso a stati terzi a patto che questi adottino tutte le prescrizioni normative in vigore ed obbligatorie per gli Stati europei, ciò non è ancora avvenuto in ogni caso.
È chiaro come, nonostante l’importanza che abbiano avuto i primi due pacchetti di norme nell’avviare il processo di riforme in esame, il terzo pacchetto di norme abbia rappresentato un vero e proprio punto di svolta e che sia quello meritevole di un’analisi, seppur sommaria in relazione ai fini da me perseguiti tramite questo elaborato, più attenta. Salta all’occhio senza troppo indagare come il pacchetto di norme in questione abbia reso i vettori delle compagnie aeree nazionali vettori di compagnie aeree europei e questi possono fissare liberamente le tariffe aeree di passeggeri e servizi, nonché accedere liberamente, senza alcuna necessità di autorizzazioni quindi, a tutte le rotte all’interno dell’Unione Europea32.
Come anticipato, è il “terzo pacchetto” a determinare i requisiti che i vettori europei devono rispettare per avviare o continuare la loro attività, ed in particolare questi sono:
a) L’essere di proprietà di Stati membri e/o di cittadini di Stati membri e da questi effettivamente controllati, e il loro principale centro di attività deve essere situato in uno Stato membro;
b) Avere una situazione finanziaria solida; devono essere opportunamente assicurati per coprire la responsabilità in caso di incidenti;
c) Avere la capacità professionale e l’organizzazione necessarie ad assicurare lo svolgimento in condizioni di sicurezza delle operazioni, conformemente alla regolamentazione in vigore. Tale capacità è attestata dal rilascio di un “certificato di operatore aereo”.
Parallelamente all’istituzione del mercato unico dell’aviazione, sono state istituite norme comuni per garantirne il funzionamento, il quale richiede in particolare:
31 Il terzo pacchetto di norme è composto segnatamente dai regolamenti CEE n. 2407/92, 2408/92 e 2409/92 del consiglio che oggi sono stati sostituiti dal regolamento CE n. 1008/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio.
32 Vengono fatte eccezioni per alcune rotte particolari per le quali gli Stati membri possono chiedere degli oneri di servizio pubblico, ciò sulla base di determinate condizioni e per un periodo di tempo limitato.
a) Condizioni di parità;
b) Un livello elevato e uniforme di protezione dei passeggeri.
Al fine di ottenere le condizioni di parità si applica, al settore dell’aviazione, la legislazione in materia di aiuti di Stato e concorrenza, ciò si manifesta, nei confronti dei vettori comunitari e non europei, tramite la parità di accesso ai servizi correlati al trasporto aereo; ciò non si verifica in determinati Paesi extraeuropei dove, pratiche discriminatorie e sovvenzioni possono conferire vantaggi concorrenziali ai vettori dei medesimi Paesi terzi.
L’equità di accesso agli aeroporti ed ai servizi aeroportuali è garantita dal regolamento CEE n. 93/95 che prevede, per gli aeroporti congestionati, l’assegnazione equa, non discriminatoria e trasparente di bande orarie33 alle compagnie aeree da parte di un “coordinatore delle bande orarie indipendente”, ciò non consente, tuttavia, un utilizzo ottimale della capacità degli aeroporti e perciò sono state introdotte alla norma in questione una serie di modificazioni nel corso del tempo, in più con la direttiva CE 96/67 è stato possibile allargare al mercato concorrenziale dei servizi di terra.
Sono inoltre in vigore dal 1989 una serie di norme comuni volte a garantire l’equità di accesso alle reti di distribuzione e ad evitare che le scelte dei consumatori siano da queste influenzate, ed ancora in base ad ulteriori norme i sistemi telematici di prenotazione, che costituiscono gli intermediari tecnici tra compagnie aeree ed agenzie di viaggio, devono garantire che vengano visualizzati i servizi che vengono forniti da tutte le compagnie aeree in modo affatto discriminatorio sugli schermi dei computer delle agenzie; tale strumento perde via via d’importanza nella misura in cui è sostituito dai sistemi di prenotazione online che la maggior parte delle volte sono gestiti dalle stesse compagnie tramite il proprio sito web.
3.3 SICUREZZA DELL’AVIAZIONE CIVILE
Anche le norme sulla sicurezza, che prima erano di natura per lo più nazionale, e volte a garantire un livello elevato ed uniforme di tutela in tutta l’Unione Europea, nonché per proteggere i passeggeri, sono state sostituite da disposizioni comuni estese in seguito all’intera catena del trasporto aereo; a dette norme è stata delegata, dopo la sua istituzione, l’Agenzia europea per la sicurezza aerea; sono inoltre state introdotte una serie di norme comuni a tutela dei passeggeri aerei finalizzate a garantire che questi ricevano quantomeno un livello minimo di assistenza in caso di ritardi considerevoli o cancellazioni con tanto di previsione di indennizzo, ma l’accesso a tale tutela risulta essere spesso assai difficoltoso e viene richiesto, non di rado, l’intervento dei tribunali.
Ora, proseguendo nell’analisi del contesto normativo in materia di aviazione, chiaramente a livello europeo, importa, seppur in modo sommario, fornire una panoramica dei rimedi normativi che il Parlamento Europeo e la Commissione, considerati anche i pareri del Comitato economico e sociale nonché del Comitato delle
33 Ci si riferisce nel caso di specie al permesso di atterrare o decollare in un orario specifico o in una data specifica.
regioni, hanno posto in essere in ottemperanza alle competenze ad essi riservate ex Art. 100 paragrafo 2 del TFUE.
È di facile intuizione identificare le finalità che le norme sulla sicurezza dell’aviazione vogliono perseguire, si parla in questo caso della prevenzione di atti di interferenza illecita. La delicatezza del tema in questione aveva spinto il legislatore a discuterne già precedentemente rispetto al 2001, anno in cui, con gli avvenimenti accaduti negli Stati Uniti l’11 settembre, si è registrata un’importante svolta nella legislazione in materia non solo da parte degli organismi internazionali che si occupano del mondo dell’aviazione, ma anche singolarmente da parte di singoli Stati. Tale potenziamento normativo era condotto dagli Stati che vi avessero aderito tramite le linee guida fornite all’epoca dall’ICAO (Organizzazione Internazionale dell’Aviazione Civile)34 e dell’allegato 17 della convenzione di Chicago relativa al programma universale di controlli di sicurezza.
L’Unione Europea ha deciso di aderire all’attuazione, dal canto suo, del progetto di modifica e potenziamento dell’apparato normativo in materia di sicurezza dell’aviazione tramite l’emanazione di una serie di norme delle quali, peraltro, si impegna, la stessa Unione, a rettifiche e modifiche dettate dal mutamento dei rischi legati alle minacce nonché dei progressi in campo tecnologico.
Volendo, a questo punto, fornire un dato più dettagliato riguardo la norma emanata al culmine del processo di adeguamento e potenziamento delle leggi in vigore già prima dell’11 settembre 2001, risulta necessario citare il Regolamento CE n.2320/2002 che ha fornito i criteri per l’interpretazione comune dell’allegato 17 della Convenzione di Chicago, tale regolamento è stato sostituito dal regolamento CE n.300/2008 istituito dal parlamento Europeo e dalla Commissione al fine di istituire regole e norme fondamentali sulla sicurezza dell’aviazione, nonché meccanismi atti a monitorarne il rispetto, e completato da una serie di disposizioni adottate dalla Commissione.
Il quadro regolamentare dell’UE si basa su norme comuni vincolanti e sui principi vincolanti elencati qui di seguito:
a) Ogni Stato membro è responsabile della sicurezza dei voli in partenza dal suo territorio (“responsabilità dello Stato ospitante”, come stabilito dall’ICAO);
b) Xxxxxxxxxx, equipaggio e bagagli devono essere sottoposti a controlli prima dell’imbarco; anche le merci, la posta e le provviste di bordo devono essere sottoposti a controlli prima di essere caricati a bordo, a meno che siano state sottoposte ad adeguati controlli di sicurezza;
c) Gli Stati membri hanno facoltà di applicare misure più rigorose, qualora le ritengano necessarie.
Tali norme, che incidono sulla totalità dei settori dell’aviazione, si applicano a tutti gli aeroporti dell’Unione aperti all’aviazione civile, a tutti gli operatori che forniscono servizi in tali aeroporti, inclusi i vettori aerei, e a tutti gli operatori che “applicano norme per la sicurezza aerea” e che forniscono beni o prestano servizi in
34 L’Organizzazione internazionale dell’aviazione civile è l’agenzia specializzata delle Nazioni Unite che è stata istituita dalla Convenzione sull’aviazione civile internazionale (la Convenzione di Chicago) firmata il 7 dicembre 1944; questa elabora, in particolare, norme e pratiche raccomandate.
tali aeroporti o tramite essi35. Le norme di sicurezza applicabili possono essere tuttavia adeguate in funzione dell’aeromobile, del volo o del traffico aereo.
È questo il contesto in cui ogni Stato membro dell’Unione designa un’unica autorità responsabile del coordinamento e del monitoraggio dell’attuazione delle norme sulla sicurezza dell’aviazione e redige ed attua altresì un “programma nazionale per la sicurezza dell’aviazione civile”.
Gli Stati membri redigono ed attuano anche un “programma nazionale per il controllo della qualità”, impongono sanzioni e cooperano con la commissione in occasione in occasione delle ispezioni da essa effettuate per controllare il rispetto delle norme UE sulla sicurezza dell’aviazione. Spetta, dunque, ad ogni operatore redigere ed attuare un “programma per la sicurezza” che sia conforme alle norme, in primo luogo dell’Unione Europea in materia, e anche alle prescrizioni che prendendo le mosse dal diritto comunitario vengono emanate dai singoli Stati membri. La Commissione dal canto suo effettua una serie di controlli ed ispezioni, rigorosamente senza preavviso, presso gli aeroporti ed i vettori ed i prestatori di servizi che svolgono la loro attività presso gli stessi aeroporti o i vettori, e tali controlli vengono effettuati in collaborazione con le autorità nazionali competenti per la sicurezza dell’aviazione.
Dal 2014, inoltre, per qualunque trasporto aereo che avesse previsto lo spostamento di merci, tanto gli aeroporti, quanto i vettori, si sono dovuti adeguare agli standard di sicurezza imposti, a livello comunitario, dal programma ACC3.
Al fine di agevolare il traffico aereo, la Commissione ha la facoltà di riconoscere l’equivalenza delle norme in materia di aviazione in vigore in paesi terzi, inoltre si riconosce l’equivalenza delle norme di alcuni Paesi terzi in materia di sicurezza dell’aviazione per quanto riguarda il trasporto delle merci sia nel caso in cui queste siano trasportate da aerei cargo, sia che il trasporto avvenga su vettori riservati all’aviazione di linea e quindi al trasporto passeggeri, e ciò a partire, invece, dal 2012. Per quanto riguarda i costi relativi alle procedure di sicurezza che devono essere attuate in base alle norme UE, nonostante una proposta di direttiva rivolta all’armonizzazione degli stessi, ha prevalso il principio di sussidiarietà che determina la prevalenza delle norme, nella materia in questione, in capo ai singoli Stati membri.
3.4 IL CIELO UNICO EUROPEO
Sempre sull’onda del paragrafo 2 dell’Art. 100 TFUE, il legislatore europeo ha posto in essere un’iniziativa volta al miglioramento dell’attività di gestione del traffico aereo e dei servizi di navigazione nei cieli dell’Unione che ha preso il nome di “cielo unico europeo” che potrebbe portare a vantaggi enormi quali l’abbattimento dei costi ATM fino a dimezzarli e di ridurre del 10% l’impatto ambientale provocato dai vettori, tali vantaggi darebbero i loro frutti, funzionando a pieno regime le misure adottate, tra il 2030 ed il 2035.
35 Le norme dell’UE in materia di sicurezza dell’aviazione si applicano anche a Norvegia, Islanda, Liechtenstein e Svizzera.
L’iniziativa in questione è stata pensata nell’ambito di una situazione che ha visto incrementarsi i ritardi nel traffico aereo nei cieli dell’UE sino al picco raggiunto alla fine degli anni ’90, periodo in cui la frammentazione dello spazio aereo riservato, in parte all’aviazione civile, in parte ad uso militare e poi dovuto all’ingresso nel panorama dell’aviazione di nove tecnologie. Lo scopo prefissatosi dal legislatore europeo è stato senza dubbio alcuno quello di aumentare la capacità e l’efficienza e la gestione non solo del traffico aereo, ma anche dei servizi di navigazione, tale progetto ha chiaramente natura paneuropea ed è rivolto anche ai Paesi vicini. Nella sostanza il raggiungimento dell’abbattimento dei costi di ATM sino a dimezzarli e la riduzione dell’impatto ambientale nelle percentuali sopra indicate dovrebbe essere realizzato tramite la riduzione dei tempi di volo.
A livello normativo, il primo provvedimento volto alla realizzazione del cielo unico europeo è stato emanato nei primi anni del 2000 e mi riferisco, nel caso di specie, al regolamento CE n.549/2004 tramite il quale si sono voluti indicare i principi generali per l’istituzione del cielo unico europeo, poi ancora, sempre dal punto di vista normativo, il regolamento CE n.551/2004 relativo alla fornitura di servizi di navigazione aerea, ancora il regolamento CE n.552/2004 sull’interoperabilità della rete europea di gestione del traffico aereo. Tale quadro normativo è stato poi modificato tramite l’incremento normativo apportato alla disciplina già in vigore dal regolamento CE n.1070/2009 (CUE II) tramite il quale si sono voluti includere dei meccanismi basati sulle prestazioni. Sono state inoltre aggregate all’impianto normativo deputato alla costituzione del cielo unico europeo un serie di norme di applicazione e tecniche nonché la disciplina in vigore già in materia di sicurezza dell’aviazione e gestione del traffico aereo e della gestione dei servizi di navigazione ed, in ultimo, delle operazioni aeroportuali ed attuazione a tale complesso incremento della struttura normativa relativa alla costituzione del cielo unico europeo ed inoltre a tutte le norme d’adeguamento e volte al suo miglioramento sono poste in essere, per la maggior parte dalla Commissione, tramite il sistema del comitato, ed anche dal legislatore.
Il quadro normativo mondiale in materia di aviazione ha certamente favorito la ristrutturazione delle leggi relative al cielo unico europeo ed ha contribuito alla separazione delle funzioni normative tra la navigazione vera e propria e i servizi collegati all’aviazione, ma ha favorito anche l’individuazione di quelle che possono essere considerate le “componenti essenziali” che costituiscono la struttura del cielo unico europeo, che sono:
a) A norma del “sistema di prestazioni”, sono fissati obbiettivi prestazionali vincolanti in settori chiave quali la sicurezza, l’ambiente, la capacità, l’efficienza complessiva della gestione del traffico aereo e dei servizi di navigazione aerea. Gli obiettivi prestazionali sono adottati dalla Commissione tramite la procedura di comitato. L’”organo di valutazione delle prestazioni” nominato dalla Commissione contribuisce alla formulazione dei suddetti obiettivi e vigila sull’attuazione del sistema di prestazioni;
b) Il “gestore di rete” (attualmente Eurocontrol36) si occupa di migliorare le prestazioni della rete di aviazione dell’UE. È inoltre responsabile della “funzione di rete”, che deve essere gestita in modo centralizzato, come nel caso della configurazione della rete europea delle rotte, della gestione dei flussi di traffico aereo e del coordinamento delle radiofrequenze utilizzate dal traffico aereo generale;
c) I “blocchi funzionale dello spazio aereo” sono intesi a porre rimedio alla frammentazione dello spazio aereo europeo ristrutturandolo in base ai flussi di traffico anziché ai confini nazionali. L’intento è quello di consentire una cooperazione rafforzata (ossia una migliore gestione dello spazio aereo, l’ottimizzazione della rete delle rotte e un’economia di scala attraverso l’integrazione dei servizi) o anche le fusioni tra fornitori di servizi oltre le frontiere nazionali, riducendo in tal modo i costi dei servizi di navigazione aerea. Per ogni blocco, gli Stati membri interessati devono designare congiuntamente uno o più fornitori di servizi di traffico aereo. Finora è stata considerata l’istituzione di nove blocchi funzionali di spazio aereo che interessano 31 paesi.
d) L’impresa comune SESAR (sistema europeo di nuova generazione per la gestione del traffico aereo), istituita nel 2007, gestisce la dimensione tecnologica e industriale del cielo unico europeo, ossia lo sviluppo e la realizzazione del nuovo sistema per la gestione del traffico aereo europeo. Il costo totale stimato della fase di sviluppo del programma SESAR (per il periodo 2008-2024) è pari a 3,7 miliardi di euro, da distribuire equamente tra l’Unione Europea, Eurocontrol e il settore. La fase di distribuzione (ossia la messa in opera su vasta scala del nuovo sistema tra il 2015 e il 2035) potrebbe richiedere circa 30 miliardi di euro, che saranno finanziati dal settore dell’aviazione (90%) e dall’Unione Europea (10%).
Nonostante un evidentemente miglioramento delle condizioni del traffico aereo, resta il dato di fatto dovuto alle crisi economiche del 2008 e successive ricadute che rendono, di fatto, di difficile realizzazione gli obiettivi relativi al programma d’attuazione del cielo unico europeo a fronte anche dell’imprevista crisi del settore dovuta alla pandemia di COVID-19 ad ora in corso.
3.5 SICUREZZA AEREA
Il completamento del mercato interno di prova del trasporto aereo ha imposto la contestuale attuazione di una serie di norme comuni obbligatorie, ovviamente per gli Stati membri, destinate a garantire la sicurezza ad un livello uniforme ed elevato.
Bisogna, senza timore alcuno, affermare come aviazione e sicurezza siano indissociabili e ciò poiché, in assenza di un complesso normativo che riesca a garantire un elevato livello di sicurezza non si sarebbe sviluppato così rapidamente ed esponenzialmente il trasporto aereo poiché il rischio di volare avrebbe inibito gli eventuali utenti.
36 L’organizzazione europea per la sicurezza della navigazione aerea è un’organizzazione intergovernativa civile e militare paneuropea e che ha un accordo con l’Unione europea per agevolare la realizzazione del cielo unico europeo.
Essendo il trasporto aereo l’unico mezzo tramite il quale percorrere delle lunghe distanze in tempi relativamente brevi, ed essendo quindi utilizzato, almeno nella maggior parte dei casi, per spostarsi tra paesi differenti, è importante, nel settore in questione, almeno in parte un buon grado di cooperazione internazionale a garanzia di sicurezza del trasporto aereo, che, sul piano mondiale è garantita dall’Organizzazione dell’aviazione civile internazionale (OACI), la quale ha i compito di dettare gli standard minimi di sicurezza e che per la maggior parte è appoggiata nel suo operato dagli Stati contraenti.
Per quanto riguarda, invece, l’Unione Europea è necessario, in virtù anche di quanto succede a livello di cooperazione in materia, si impegna dal canto suo a garantire ad ogni passeggero, ovunque voli all’interno dell’Unione Europea, un livello di sicurezza uniforme ed elevato. Le norme nazionali, dunque, demandano e talvolta vengono addirittura accantonate in favore delle norme sovranazionali emanate dal legislatore europeo; a fronte di questa prevalenza normativa sovranazionale si è costituito anche un meccanismo di sicurezza comunitario a cui partecipano le autorità nazionali dell’aviazione civile, tramite le loro istanze di cooperazione volontaria, la Commissione Europea e l’Agenzia per la sicurezza aerea europea.
Le norme europee in materia di sicurezza dell’aviazione sono spesso riprese e rafforzate prendendo in considerazione le raccomandazioni adottate dall’OACI che sono state estese all’intera filiera dell’aviazione e che si basano, al fine di prevenire incidenti, sulla responsabilizzazione degli operatori interessati, nonché sui controlli da applicarvi.
Dal 1994 le norme OACI relative alle indagini sono state trasposte nel diritto comunitario37 garantendo un’uniforme applicazione e l’indipendenza allo scopo di individuare le cause e le responsabilità di eventuali incidenti d’aviazione. Gli stessi principi di trasparenza ed indipendenza sono entrati a far parte della normativa dell’Unione Europea anche in ambito di eventi nell’aviazione civile38: dal 2005, infatti, ogni anomalia nella filiera dell’aviazione deve essere segnalata e registrata dalle autorità competenti ed inserita in uni repertorio centrale che viene tenuto dalla Commissione per lo più con finalità analitiche.
Dal 2003 le norme hanno disciplinato, non solo le norme relative agli strumenti di sicurezza concernenti la disciplina dei controlli, tanto dei vettori, quanto dei prestatori di servizi aeroportuali, ma anche la navigabilità degli aeromobili e con questo s’intende il metodo e le caratteristiche di progettazione non che di manutenzione da seguire.
Dal 2008 la normativa in questione è stata estesa alle operazioni aeree ed alla formazione del personal navigante, concentrandosi in questo caso sul modo in cui devono essere usati gli aeromobili; ancora nel 2009 l’estensione delle prescrizioni in esame avvenne in materia di gestione del traffico aereo, di gestione delle operazioni aeroportuali e della fornitura di servizi per la navigazione aerea. La Commissione europea ha inoltre stabilito che, a partire dal 2015, queste norme sulla sicurezza dell’aviazione civile venissero inasprite e modificate tenendo conto del fatto che si fossero fatti strada numero si progressi legati per lo più ai velivoli senza pilota (droni) o dell’interdipendenza tra la sicurezza nell’aviazione vera e propria ed altri settori come quello della tutela dell’ambiente.
37 Direttiva 94/56/CEE sostituita successivamente dal regolamento UE 996/2010.
38 Direttiva 2003/42 CE, regolamenti CE n.1321/2007 e 1330/2007 sostituiti poi dal regolamento UE 376/2014.
Il programma SAFA, invece, varato nel 1996 dalla Conferenza europea per l’aviazione civile, ha contribuito a gettare le basi per un’armonizzazione delle ispezioni degli aeromobili stranieri a patto che si trovino in aeroporti stranieri che aderiscano alla convenzione, e che siano quindi contraenti, per verificarne i requisiti minimi di sicurezza OACI. Dal 2006 il programma SAFA è obbligatorio per gli Stati membri e dal 2014 gli aeromobili di Stati aderenti alla convenzione vengono esaminati ed ispezionati sulla base degli standard dell’Agenzia che sembrano essere, talvolta, più restrittivi e che regolano l’ispezione di 6.000 aeromobili l’anno dei 27 Stati aderenti alla convenzione. L’AESA tiene inoltre un registro centralizzato dei rapporti d’ispezione e le eventuali carenze riscontrate dagli ispettori possono determinare l’inserimento dei vettori in questione all’interno di una lista nera dei vettori europei che ne determina il divieto di traffico; tale liste nera viene in ogni caso aggiornata affinché i passeggeri possano essere pienamente informati in ambito di sicurezza, a ciò si unisce l’obbligo, in capo a tutti i vettori di paesi terzi, di adeguarsi alle direttive ICAO in materia di sicurezza dell’aviazione se si vuole volare verso l’Unione e ciò avviene tramite un’autorizzazione emessa dall’AESA.
La creazione di tale lista nera dimostra, senza dubbio alcun, l’importanza che le istituzione dell’unione dedicano al tema della sicurezza e ciò è dimostrato ulteriormente dal fatto che, con i Paesi terzi ma confinanti o vicini, verso i quali i cittadini dell’Unione sarebbero indotti a spostarsi , l’Unione ha tentato un accordo per il loro inserimento nello spazio aereo comune e ha provato, contestualmente ad estendervi le norme in questione, tutto, ovviamente a garanzia della sicurezza dei passeggeri.
Gli accordi sulla sicurezza sono stati modellati anche al fine di omogeneizzare le norme sulla sicurezza dell’aviazione, non solo tra gli Stati membri dell’Unione Europea, ma anche tra Stati membri e Stati terzi, in favore dello scambio di prestazioni di servizi prevenendo, in questo modo, il moltiplicarsi delle norme tecniche emanate dai singoli Paesi ed ha fatto ciò stipulando accorda con i principali partner aeronautici. Un tentativo d’accordo in materia, ad onor del vero, è stato condotto nel 2018 nei confronti della Cina, senza tuttavia sortire l’effetto desiderato.
3.6 LE LIBERTÀ FONDAMENTALI DELL’UE E L’AVIAZIONE CIVILE
Dopo una panoramica generale su quelli che sono gli obiettivi dell’Unione Europea in materia di aviazione civile, e principalmente di regolazione del traffico e della sicurezza, perseguiti, in base alle loro competenze dalla Commissione, dal Parlamento o dal Consiglio, è importante, almeno a mio avviso, specificare come, la volontà della creazione del cielo unico europeo, concetto, peraltro, affatto dissociato da quello, già in precedenza trattato, della libertà di stabilimento ponga le norme sul trasporto in generale ma nel caso di specie del trasporto aereo alla stregua, appunto di quelle che, a partire dal TFUE, siano poste in essere a regolazione dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Volendo muovere dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea dobbiamo innanzitutto riferirci al Titolo VI intitolato “Trasporti” e che già all’Articolo 90 afferma:
“Gli obiettivi dei trattati sono perseguiti, per quanto riguarda la materia disciplinata dal seguente titolo, nel quadro di una politica comune dei trasporti”.
Risulta essere chiaro come, già dal primo Articolo del titolo, e come già precedentemente accennato, scopo del legislatore europeo è stato quello, tramite l’emanazione di successivi regolamenti, di garantire, partendo dalla tutela della fondamentale libertà di stabilimento, l’attuazione del quarto tra i principi fondamentali riservati ai Cittadini di Stati membri dell’Unione Europea, ossia la libera prestazione di servizi, garantendo quindi, conformemente all’analisi compiuta nei capitoli precedenti, la possibilità di stabilirsi dei vettori in Stati membri differenti da quello di origine per garantire in condizioni di maggior facilità, i vettori chiaramente, il servizio di trasporto.
Rimanendo nell’ambito del TFUE e tenuto conto di quanto pocanza espresso in relazione alla libertà di stabilimento, nonché di libera prestazione dei servizi e tenuto conto anche delle sentenze citate in precedenza ed appartenenti al famoso “quartetto Laval” in materia di libera prestazione di servizi, appunto, appare utile alla trattazione nonché d’interesse generale, prendere in esame un caso concreto relativo, tanto alle due tra le quattro libertà fondamentali analizzate nei primi due capitoli dell’elaborato, quanto al mondo dell’aviazione civile, e mi riferisco a questo punto a Ryanair.
IL CASO RYANAIR
La compagnia in questione, ossia Ryanair, che può essere definita come compagnia aerea a basso costo, è stata fondata nel 1985 dall’uomo d’affari irlandese Xxxx Xxxx il quale ha voluto inserirsi, grazie anche al processo di deregolamentazione in materia di trasporti civili, nel duopolio del trasporto aereo creatosi tra Inghilterra ed Irlanda e che vedeva protagonisti i soli vettori British Airways ed Aer Lingus. La tratta non fu inizialmente approvata dal governo irlandese al fine di proteggere gli interessi di Aer LIngus, ma l’allora Primo Ministro Britannico Xxxxxxxx Xxxxxxxx si espresse in modo diametralmente opposto autorizzando l’avvio delle operazioni di volo per la tratta che univa Waterford a London Getwick e nel solo primo anno di attività la compagnia fu in grado di trasportare 82.000 passeggeri. Nel 2012 il numero di passeggeri trasportati dal vettore irlandese è stato di 80 milioni il che ha reso la compagnia in questione la maggiore a livello continentale per volume di traffico supportato, il numero degli utenti, inoltre, non ha smesso di salire almeno fino al 2017, anno in cui i passeggeri che Ryanair, operante ormai rotte verso anche paesi del nord africa e dell’Europa orientale non facenti parte dell’Unione, ha trasportato ha raggiunto il numero di 118 milioni.
Nonostante i numeri in questione che rendono la compagnia irlandese quella maggiormente utilizzata dai passeggeri europei, Ryanair ha dovuto affrontare una serie di controversie in materia per lo più di diritto del lavoro e, più precisamente ancora, di condizioni dei lavoratori.
Volendo in breve riassumere quelle che sono le modalità di assunzione ed il trattamento contrattuale riservato ai dipendenti del vettore in questione, si deve, innanzitutto, identificare uno spartiacque che divide i contratti dei dipendenti tra quelli stipulati antecedentemente il 2017 e quelli stipulati a partire dal 2017 o successivamente.
Le modalità di assunzione dei dipendenti di Ryanair, almeno per quanto riguarda il personale di terra e gli assistenti di volo, è rimasto sostanzialmente invariato, con la differenza che, in termini piuttosto riduttivi, a partire dal 2017 gli assunti abbiano avuto modo di godere di alcuni benefici, tutele e soprattutto diritti in capo a questi ultimi spettanti.
Le modalità di assunzione, come già accennato nelle righe precedenti, sono le medesime, tanto prima del 2017, quanto a partire da questa data e successivamente, coloro che prestano servizi nel campo dell’aviazione e, nello specifico svolgendo l’attività di assistente di volo, sono reclutati, infatti, dalla low cost irlandese tramite un’agenzia interinale con sede in Irlanda e denominata CrewLink Ireland Ltd. con sede in Irlanda, appunto, e che ha un accordo di partenariato con Ryanair.
L’assunzione di coloro che svolgono il servizio sul vettore irlandese che per comodità definiremo assistenti di volo, avveniva direttamente tramite l’agenzia in questione che:
a) Xxxxxxxxxxx i suoi contrattualizzati ad un periodo di prova della durata di tre anni (eventualmente prorogabili) ed al sostenimento delle spese legate ai corsi di formazione per lo svolgimento dell’attività in questione nonché delle divise ed ancora del tesserino per accedere all’aeroporto, a questi costi è da aggiungere una cifra supplementare da versare in caso di mancato superamento del corso di formazione;
b) Obbligava, per interrompere volontariamente il rapporto di lavoro, i dipendenti a garantire un preavviso di almeno un mese, la Crewlink Ireland Ltd. qualora fosse sussistita un’inosservanza contrattuale o una giusta causa avrebbe potuto,invece, licenziare un proprio dipendete senza alcun preavviso qualora questo fosse stato contrattualizzato da meno di 13 settimane, con un preavviso di una sola settimana qualora questo fosse stato sotto contratto da almeno 13 settimane e da non più di 2 anni o, ancora, con un preavviso di almeno 2 settimane nel caso in cui il dipendente fosse stato sotto contratto da più di 2 anni;
c) A differenza dei contratti stipulati dalla Crewlink a partire dal 2018 che prevedono che il periodo di prova degli assistenti di volo sia di 6 mesi, fino al 2017 i dipendenti erano sottoposti ad un periodo di prova della durata di 12 mesi durante i quali, qualora avessero voluto interrompere il loro rapporto lavorativo con l’agenzia in questione sarebbero stati sottoposti ad ulteriori aggravi fiscali;
d) I contratti dei cabin crew fossero, prima del 2018, stipulati tenendo conto esclusivamente della legislazione irlandese in materia di diritto del lavoro, e ciò poiché la compagnia riteneva che, essendo registrati gli aeromobili in Irlanda, i dipendenti dovessero considerarsi svolgenti le loro mansioni nel territorio dello Stato;
e) Non sussistessero, in conformità della legislazione irlandese in materia, l’obbligo di corresponsione del TFR o di tredicesima e quattordicesima ed inoltre che i bonus ricevuti tra il primo ed il sesto mese dagli assistenti di volo debbano essere restituiti all’azienda nel caso in cui il dipendente decidesse di lasciare la compagnia;
f) Xxxxxxxxx, i cabin crew, garantire durante gli “stand-by days” reperibilità nel termine di tempo di un’ora qualora si trovassero a casa o immediata nel caso in cui fossero presenti già nell’aeroporto di assegnazione e ciò per il compenso minimo stabilito come idoneo a remunerare le canoniche otto ore lavorative.
g) Dovessero essere comunicate entro le 2 ore antecedenti il decollo del volo assegnato le eventuali assenze che sarebbero dovute essere giustificate tramite un certificato e che non sarebbero, in caso di malattia, state retribuite, Ryanair, inoltre, si sarebbe potuta discrezionalmente riservare il diritto di nominare un medico idoneo alla verificazione delle dichiarazioni di malattia ed inoltre, qualora vi fosse un periodo ingiustificata dal lavoro di oltre tre giorni, la compagnia avrebbe legittimamente potuto interrompere unilateralmente il rapporto di lavoro con il proprio dipendente;
h) Sarebbe stata in capo alla compagnia la possibilità, valutata l’affluenza di passeggeri in determinati periodi dell’anno, di impedire per un periodo di quattro settimane all’anno (periodo discrezionalmente estendibile) al dipendente di svolgere le proprie mansioni senza ricevere alcuna retribuzione ne tantomeno permettendo di cercare un’occupazione alternativa a pena di interruzione del rapporto contrattuale;
i) Non fosse riconosciuta la tutela sindacale dei dipendenti ne fossero riconosciute le associazioni sindacali che li avrebbero potuti tutelare, ed inoltre si invitavano i lavoratori a non condividere alcuna informazione di natura contrattuale relativa al rapporto intercorrente tra le parti in virtù della natura confidenziale del rapporto ma anche a fronte dell’immediato licenziamento;
j) La remunerazione fosse corrisposta in base alle ore trascorse effettivamente in volo, tale lasso temporale non avrebbe in ogni caso compreso i tempi tecnici durante i quali il vettore fosse stato a terra né tantomeno i ritardi accumulati anche se imputabili alla compagnia stessa. Va da sé che il contratto stipulato tra le parti non prevedeva un orario minimo o massimo di lavoro e non prevedeva una retribuzione minima, c’è d’aggiungere ancora che la corresponsione oraria per la prestazione svolta non sarebbe stata la stessa per tutti gli assistenti di volo, essendo questa determinata incontrovertibilmente dall’aeroporto dal quale l’assistente di volo parte poiché assegnatario di quella base.
3.8 LE CAUSE C-168/16 E C-169/16 PRESSO LA CGUE
Ora, stando a quanto riportato sino ad ora e ricollegandoci all’impianto normativo dell’unione europea, più che concentrarsi sul TFUE, occorre riferirsi, per analizzare le sostanziali modifiche che sono state poste in
essere dalla Crewlink Ireland Ltd., per conto di Ryanair, è possibile, nonché doveroso citare il regolamento CE 44/2001, considerato dal Giudice Europeo come norma giustificativa dei ricorsi unificati C-168/16 e C- 169/16 e relativo alla possibilità di citare, da parte del prestatore di servizi, il proprio datore di lavoro nel luogo in cui il prestatore stesso, seppur contrattualizzato in un paese differente dell’Unione Europea, svolge abitualmente la propria prestazione di lavoro.
Le cause in questione, la prima delle quali (C-168/16) vede contrapporsi la Sig.ra Xxxxxx Xxxxxxxx, il Sig. Xxxxxx Xxxxx-Xxxxxx, le Xxx.xx Xxxxxxxx Xxxxxxx e Xxxxx Xxxxxxx-Xxxxxxxxx, il Sig. Xxxx Xxxxxxx-Xxxxxxx e la Crewlink Ireland Ltd., mentre la seconda delle quali vede contrapporsi il Sig. Xxxxxx Xxxx Xxxxxx Xxxxxx e la Ryanair Designated Activity Company, già Ryanair Ltd., in merito alle condizioni di esecuzione e risoluzione dei contratti di lavoro della Sig.ra Xxxxxxxx e del Sig. Xxxxxx Xxxxx, nonché alla competenza internazionale dei giudici belgi a conoscere di tali controversie.
Partendo dalle norme di diritto internazionale che vale la pena non solo di conoscere ma anche di citare ai fini della trattazione della sentenza, occorre specificare che i riferimenti sono tanto al diritto internazionale vero e proprio e, nel caso di specie, alla convenzione relativa all’aviazione civile stipulata nel 1944 a Chicago e ratificata da tutti gli Stati membri dell’Unione Europea senza che tuttavia possano considerarsi contraenti, che prescrive all’Articolo 17:
“Gli aeromobili hanno la nazionalità dello Stato sul registro del quale sono immatricolati”
Mentre per quanto concerne il diritto dell’Unione, la Corte Europea deve riferirsi al regolamento “Bruxelles I” ed in modo particolare agli Articoli 13 e 19 i quali recitano in ordine crescente:
“(13) Nei contratti di assicurazione, di consumo e di lavoro è opportuno tutelare la parte più debole norme in materia di competenza più favorevoli ai suoi interessi rispetto alle regole generali.
…
(19) È opportuno garantire la continuità tra la convenzione ed il presente regolamento e a tal fine occorre prevedere adeguate disposizioni transitorie. La stessa continuità deve caratterizzare altresì l’interpretazione delle disposizioni di tale convenzione (…) ed il primo protocollo relativo all’interpretazione della convenzione dovrebbe continuare ad applicarsi ugualmente ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del presente regolamento”
La sezione 5 del capo II di tale regolamento, composta dagli Articoli da 18 a 21 di quest’ultimo, sancisce le norme sulla competenza relative alle controversie aventi ad oggetto contratti individuali di lavoro.
L’Articolo 18, punto 1, del citato regolamento così dispone:
“Salvi l’Articolo 4 e l’Articolo 5, punto 5, la competenza in materia di contratti individuali di lavoro è disciplinata dalla presente sezione”
L’Articolo 19 del medesimo regolamento così recita:
“Il datore di lavoro domiciliato nel territorio di uno Stato membro può essere così convenuto:
• Davanti i giudici dello Stato membro presso cui è domiciliato;
• In un altro Stato membro:
-davanti al giudicce del luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività o a quello dell’ultimo luogo in cui la svolgeva abitualmente, o
-qualora il lavoratore non svolga o non abbia svolto abitualmente la propria attività in un solo Paese, davanti al giudice del luogo in cui è o era situata la sede d’attività presso la quale è stato assunto”
Può, infine, essere tenuto in considerazione l’Articolo 21 del regolamento Bruxelles I che è del seguente tenore:
“Le disposizioni della seguente sezione posso essere derogate solo da una convenzione:
• Posteriore al sorgere della controversia, o
• Che consenta al lavoratore di adire un giudice diverso da quelli indicati nella presente sezione”.
Il preambolo della convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali aperta alla firma a Roma il 19 giugno 1980 (GU 1980, L 266, pag. 1; in prosieguo: la «convenzione di Roma») precisa:
«Le Alte parti contraenti del trattato che istituisce la Comunità economica europea,
sollecite di continuare, nel campo del diritto internazionale privato, l’opera di unificazione giuridica già intrapresa nella Comunità, in particolare in materia di competenza giurisdizionale e di esecuzione delle sentenze,
desiderose d’adottare delle regole uniformi concernenti la legge applicabile alle obbligazioni contrattuali,
hanno convenuto (…)».
Il regolamento (CEE) n. 3922/91 del Consiglio, del 16 dicembre 1991, concernente l’armonizzazione di regole tecniche e di procedure amministrative nel settore dell’aviazione civile (GU 1991, L 373, pag. 4), come modificato dal regolamento (CE) n. 1899/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006 (GU 2006, L 377, pag. 1) (in prosieguo: il «regolamento n. 3922/91»), concerne, come
prevede il suo articolo 1, «l’armonizzazione di regole tecniche e di procedure amministrative nel settore della sicurezza dell’aviazione civile, relative all’esercizio e alla manutenzione degli aeromobili e alle persone e imprese interessate a tali attività».
Tale regolamento comprendeva, prima dell’abrogazione dello stesso mediante il regolamento (CE)
n. 216/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 febbraio 2008, recante regole comuni nel settore dell’aviazione civile e che istituisce un’Agenzia europea per la sicurezza aerea, e che abroga la direttiva 91/670/CEE del Consiglio, il regolamento (CE) n. 1592/2002 e la direttiva 2004/36/CE (GU 2008, L 79, pag. 1), un allegato III il cui capo Q era rubricato «Limiti dei tempi di volo e di servizio e requisiti di riposo». L’operazione aerea (OPS) 1.1090, punto 3.1, che figurava in tale capo, prevedeva quanto segue:
«L’operatore designa una base di servizio per ogni membro dell’equipaggio».
Tale capo comprendeva anche l’OPS 1.1095 il cui punto 1.7, definiva la nozione di «base di servizio» come
«[i]l luogo designato dall’operatore per ogni membro d’equipaggio dal quale il membro d’equipaggio solitamente inizia e dove conclude un periodo di servizio o una serie di periodi di servizio e nel quale, in condizioni normali, l’operatore non è responsabile della fornitura dell’alloggio al membro d’equipaggio interessato».
Peraltro, l’OPS 1.1110, anch’essa contenuta nell’allegato III, capo Q, del regolamento n. 3922/91, rubricata
«riposo», recitava:
«1. Riposo minimo
1.1. Il riposo minimo da assicurare prima di intraprendere un periodo di servizio di volo che inizia dalla base di servizio deve essere almeno altrettanto lungo del precedente periodo di servizio o avere la durata di 12 ore, a seconda di quale dei due è più lungo.
1.2. Il riposo minimo da assicurare prima di intraprendere un periodo di servizio di volo che inizia da un luogo diverso dalla base di servizio deve essere almeno altrettanto lungo del precedente periodo di volo o avere la durata di 10 ore, a seconda di quale dei due è più lungo; in caso di riposo minimo fuori dalla base di servizio, l’operatore deve prevedere la possibilità di dormire per 8 ore, tenendo in debita considerazione le esigenze di trasferimento e le altre necessità fisiologiche.
(…)».
In materia di sicurezza sociale, la nozione di «base di servizio» è parimenti menzionata al considerando 18 del regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale (GU 2004, L 166, pag. 1), come modificato dal regolamento
(UE) n. 465/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2012 (GU 2012, L 149, pag. 4). Tale considerando è redatto nei seguenti termini:
«Nell’allegato III del regolamento [n. 3922/91] il concetto di “base di servizio” per gli equipaggi di condotta e di cabina è definito come il luogo designato dall’operatore per ogni membro d’equipaggio dal quale il membro d’equipaggio solitamente inizia e dove conclude un periodo di servizio o una serie di periodi di servizio e nel quale, in condizioni normali, l’operatore non è responsabile della fornitura dell’alloggio al membro d’equipaggio interessato. Al fine di facilitare l’applicazione del titolo II del presente regolamento agli equipaggi di condotta e di cabina, è giustificato utilizzare il concetto di “base di servizio” come il criterio per determinare la normativa applicabile agli equipaggi di condotta e di cabina. Tuttavia, la legislazione applicabile agli equipaggi di condotta e di cabina dovrebbe restare stabile e il principio della “base di servizio” non dovrebbe condurre a modifiche frequenti della legislazione applicabile a causa dei modelli di organizzazione del lavoro in questo settore o delle domande stagionali».
L’articolo 11 del regolamento n. 883/2004, contenuto nel suo titolo II, relativo alla determinazione della legislazione applicabile, così dispone:
«1. Le persone alle quali si applica il presente regolamento sono soggette alla legislazione di un singolo Stato membro. Tale legislazione è determinata a norma del presente titolo.
(…)
3. Fatti salvi gli articoli da 12 a 16:
a) una persona che esercita un’attività subordinata o autonoma in uno Stato membro è soggetta alla legislazione di tale Stato membro;
(…)
5. Un’attività svolta dagli equipaggi di condotta e di cabina addetti a servizi di trasporto aereo passeggeri o merci è considerata un’attività svolta nello Stato membro in cui è situata la base di servizio, quale definita all’allegato III del regolamento (CEE) n. 3922/91».
L’articolo 3 del regolamento n. 465/2012 precisa che il paragrafo 5 dell’articolo 11 del regolamento
n. 883/2004 entra in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea. Poiché detta pubblicazione è avvenuta l’8 giugno 2012, le modifiche apportate da tale regolamento non sono conseguentemente applicabili, ratione temporis, alle controversie nei procedimenti principali.
Procedimenti principali e questioni pregiudiziali
Causa C-169/16
Il 21 aprile 2008, il sig. Xxxxxx Xxxxxx ha stipulato, in Spagna, un contratto di lavoro con la Ryanair, compagnia aerea con sede legale in Irlanda.
A norma di tale contratto, le sue funzioni includevano «la sicurezza, la cura, l’assistenza e il controllo dei passeggeri; le operazioni d’imbarco e a terra (…); le vendite a bordo dell’aereo; la pulizia dell’interno dell’aereo, i controlli di sicurezza e tutti i pertinenti compiti che possono (…) essere affidati dalla società».
Ai sensi di tale contratto, redatto in lingua inglese, i giudici irlandesi erano competenti a conoscere di eventuali controversie sorte tra le parti in relazione all’esecuzione e alla risoluzione dello stesso, mentre la normativa dello Stato membro di cui trattasi disciplinava il rapporto di lavoro tra gli stessi. Lo stesso contratto indicava altresì che le prestazioni di lavoro del sig. Xxxxxx Xxxxxx, in qualità di personale di cabina, si consideravano effettuate in Irlanda atteso che le sue funzioni erano esercitate a bordo di aerei immatricolati in tale Stato membro ed appartenenti a tale compagnia aerea.
Inoltre, il contratto di lavoro del sig. Xxxxxx Xxxxxx indicava l’aeroporto di Charleroi (Belgio) come «base di servizio», e richiedeva che quest’ultimo risiedesse a un’ora di tragitto dalla base alla quale era assegnato, motivo per il quale lo stesso si è stabilito in Belgio.
In data 1o aprile 2009, il sig. Xxxxxx Xxxxxx è stato promosso alle funzioni di «supervisore». Egli ha rassegnato le dimissioni il 16 giugno 2011.
In seguito, ritenendo che il suo ex-datore di lavoro fosse tenuto a rispettare e ad applicare le disposizioni della normativa belga e reputando che i giudici del medesimo Stato membro fossero competenti a statuire su tali domande, il sig. Xxxxxx Xxxxxx, con atto di citazione dell’8 dicembre 2011, ha convenuto la Ryanair dinanzi al tribunal du travail de Charleroi (tribunale del lavoro di Charleroi, Belgio) per ottenere la condanna del suo ex-datore di lavoro a versargli varie indennità.
La Ryanair ha contestato la competenza dei giudici belgi a conoscere di tale controversia. A tale riguardo, la compagnia ha sostenuto che sussiste un legame stretto e concreto tra detta controversia e i giudici irlandesi. Oltre alla clausola di elezione del foro e quella che designa il diritto irlandese come legge applicabile, infatti, la medesima compagnia indica che il sig. Xxxxxx Xxxxxx è stato soggetto alla normativa irlandese in materia fiscale e di sicurezza sociale, che ha eseguito il suo contratto di lavoro a bordo di aerei immatricolati in Irlanda e soggetti alla legislazione di tale Stato membro e che, sebbene il sig. Xxxxxx Xxxxxx abbia
sottoscritto il proprio contratto di lavoro in Spagna, tale contratto si è perfezionato solo una volta sottoscritto dalla Ryanair presso la sua sede legale in Irlanda.
Con sentenza pronunciata il 4 novembre 2013, il tribunal du travail de Charleroi (tribunale del lavoro di Charleroi) ha dichiarato che i giudici belgi non erano competenti a conoscere della domanda del sig. Xxxxxx Xxxxxx. Quest’ultimo ha interposto appello avverso tale sentenza dinanzi al giudice del rinvio, la cour du travail de Mons (corte del lavoro di Mons, Belgio).
Il giudice del rinvio menziona anzitutto determinati accertamenti di fatto. Esso sottolinea quindi che il sig. Xxxxxx Xxxxxx iniziava sempre le sue giornate lavorative all’aeroporto di Charleroi e le concludeva nel medesimo luogo. Del pari, egli era talvolta obbligato a rimanervi reperibile al fine di sostituire un membro del personale eventualmente assente.
A seguito di tali precisazioni, detto giudice indica che, prima di statuire nel merito della controversia, esso deve pronunciarsi sulla competenza dei giudici belgi a conoscerla.
Dopo aver dichiarato la clausola attributiva di competenza non opponibile al sig. Xxxxxx Xxxxxx in forza dell’articolo 21 del regolamento Bruxelles I, tale giudice precisa che l’esame di una simile questione deve effettuarsi alla luce dell’articolo 19, punto 2, di tale regolamento. Il giudice del rinvio rammenta che tale disposizione designa differenti fori competenti a conoscere delle controversie che possono sorgere da un contratto di lavoro. Tra questi, esso ritiene che il luogo abituale di esecuzione del lavoro, nella giurisprudenza della Corte, sia considerato da tempo un criterio essenziale.
A tale riguardo, qualora lo svolgimento dell’attività affidata al lavoratore si estenda al territorio di più Stati membri, risulterebbe dalla giurisprudenza della Corte e, segnatamente, dal punto 24 della sentenza del 13 luglio 1993, Mulox IBC (C-125/92, EU:C:1993:306), che il luogo abituale di esecuzione potrebbe essere definito come «il luogo nel quale, o a partire dal quale, il lavoratore adempie principalmente le sue obbligazioni nei confronti del datore di lavoro». Ne conseguirebbe che, per determinare tale luogo, i giudici nazionali dovrebbero seguire un metodo indiziario, vale a dire prendere in considerazione tutte le circostanze del caso di specie al fine di determinare lo Stato con il quale l’attività professionale presenta il collegamento più forte.
Tuttavia, la determinazione del giudice competente a conoscere delle controversie sottoposte ai giudici degli Stati membri dal personale di volo delle compagnie aeree solleverebbe una particolare difficoltà.
Per quanto riguarda più concretamente l’individuazione del «centro effettivo delle attività professionali» di tali soggetti, il giudice del rinvio si chiede se tale luogo non costituisca, in definitiva, una nozione molto vicina a quella di «base di servizio», definita nell’allegato III del regolamento n. 3922/91, come
sembrerebbe anche indicare il riferimento a tale nozione operato nella legislazione dell’Unione in materia di sicurezza sociale.
In tali condizioni, la cour du travail de Xxxx (corte del lavoro di Xxxx) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
«Se, tenuto conto:
– delle esigenze di prevedibilità delle soluzioni e di certezza del diritto che hanno ispirato l’adozione delle norme in materia di competenza giurisdizionale e di esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, come sancite dalla [convenzione del 27 settembre 1968 concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, come modificata dalle convenzioni successive relative all’adesione dei nuovi Stati membri a tale convenzione] nonché dal regolamento [Bruxelles I] (v., in particolare, sentenza del 19 luglio 2012, Mahamdia (C-154/11, EU:C:2012:491, punti 44 e 46),
– delle particolarità legate al settore della navigazione aerea europea, nell’ambito del quale il personale di volo delle compagnie aeree aventi sede legale in un determinato Stato dell’Unione sorvola quotidianamente il territorio dell’Unione europea a partire da una base di servizio che può essere situata, come nel caso di specie, in un altro Stato dell’Unione,
– delle specificità inerenti alla presente controversia, quali descritte nella motivazione [della domanda di pronuncia pregiudiziale],
– del criterio dedotto dalla nozione di “base di servizio” (come definita nell’allegato III del regolamento [n. 3922/91]) utilizzato dal regolamento [n. 883/2004] per determinare la legislazione di sicurezza sociale applicabile ai membri degli equipaggi di condotta e di cabina a partire dal 28 giugno 2012,
– degli insegnamenti desunti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, secondo le sentenze citate nella motivazione della presente decisione,
la nozione di “luogo abituale di esecuzione del contratto di lavoro”, quale contemplata dall’articolo 19, punto 2, del regolamento [Bruxelles I], non può essere interpretata nel senso che è equiparabile a quella di “base di servizio” definita nell’allegato III del regolamento [n. 3922/91] come “il luogo designato dall’operatore per ogni membro d’equipaggio dal quale il membro d’equipaggio solitamente inizia e dove conclude un periodo di servizio o una serie di periodi di servizio e nel quale,
in condizioni normali, l’operatore non è responsabile della fornitura dell’alloggio al membro d’equipaggio interessato”, e ciò al fine di determinare lo Stato contraente (e, pertanto, la sua giurisdizione) sul territorio del quale un lavoratore svolge abitualmente il suo lavoro, quando tale lavoratore è impiegato come membro del personale di volo di una compagnia soggetta al diritto di uno dei paesi dell’Unione che effettua il trasporto aereo internazionale di passeggeri sull’insieme del territorio dell’Unione europea, dal momento che questo criterio di collegamento, dedotto da quello di “base di servizio” intesa come “centro effettivo del rapporto di lavoro” in quanto il lavoratore sistematicamente vi inizia e vi conclude la propria giornata lavorativa, vi organizza il proprio lavoro quotidiano e in prossimità della quale ha stabilito la propria effettiva residenza durante il periodo dei rapporti contrattuali, è quello che presenta, allo stesso tempo, il legame più stretto con uno Stato contraente e assicura la tutela più adeguata alla parte contraente più debole».
Causa C-168/16
La sig.ra Xxxxxxxx e a., aventi cittadinanza portoghese, spagnola o belga, hanno stipulato, negli anni 2009 e 2010, contratti di lavoro con la Crewlink, persona giuridica con sede in Irlanda.
Ciascuno dei loro contratti di lavoro prevedeva che tali lavoratori sarebbero stati impiegati dalla Crewlink e distaccati come personale di cabina presso la Ryanair, con funzioni paragonabili a quelle ricoperte dal sig. Xxxxxx Xxxxxx.
Redatti in lingua inglese, tali contratti di lavoro precisavano inoltre che il loro rapporto di lavoro era soggetto al diritto irlandese e che i giudici di tale Stato membro erano competenti a conoscere di tutte le controversie attinenti all’esecuzione o alla risoluzione di tali contratti. Del pari, siffatti contratti prevedevano che la loro retribuzione sarebbe stata versata su un conto bancario irlandese.
I rapporti di lavoro hanno preso fine per dimissione o licenziamento nel 2011.
La sig.ra Nogueia e a. hanno adito il tribunal du travail de Charleroi (tribunale del lavoro di Charleroi) al fine di ottenere il pagamento di varie indennità, per i medesimi motivi del sig. Xxxxxx Xxxxxx.
Con sentenza del 4 novembre 2013, tale giudice ha statuito che i giudici belgi non erano competenti a conoscere di tali domande. I ricorrenti nel procedimento principale hanno interposto appello avverso tale sentenza dinanzi al giudice del rinvio.
Il giudice del rinvio sottolinea inoltre che, nei contratti della sig.ra Xxxxxxxx e a., viene pattuito che «gli aeromobili del cliente sono registrati in Irlanda e, siccome le mansioni verranno da Lei svolte su detti aeromobili, la sede di lavoro è in Irlanda», che l’aeroporto di Charleroi è la «base di servizio» («home
base») di tali lavoratori e che ciascuno di essi dovrà risiedere ad un’ora di tragitto dalla base alla quale sarà assegnato.
D’altronde, detto giudice rileva una serie di fatti pertinenti che risultano dai suoi accertamenti. In primo luogo, sebbene il loro contratto di lavoro conferisse al datore di lavoro la possibilità di decidere di trasferire la sig.ra Xxxxxxxx e a. in un altro aeroporto, è pacifico, nel caso di specie, che l’unica base di servizio della Crewlink è stata l’aeroporto di Charleroi. In secondo luogo, ciascuno dei lavoratori di cui trattasi iniziava la propria giornata lavorativa all’aeroporto di Charleroi e ritornava sistematicamente alla propria base al termine di ogni giornata lavorativa. In terzo luogo, a ciascuno di essi è successo di dover restare reperibile presso l’aeroporto di Charleroi al fine di sostituire un membro del personale eventualmente assente.
Per inciso, il giudice del rinvio segnala che i contratti di lavoro della sig.ra Xxxxxxxx e a. li obbligavano a rispettare la politica di sicurezza aerea praticata dalla Ryanair. Allo stesso modo, la presenza di un locale comune alla Ryanair e alla Crewlink presso l’aeroporto di Charleroi nonché l’esercizio del potere disciplinare del personale dirigente della Ryanair nei confronti del personale messo a disposizione dalla Crewlink dimostrerebbe sufficientemente l’esistenza di una comunità di lavoro tra il personale delle due società.
Il giudice a quo giustifica, in termini analoghi a quelli della sua domanda di pronuncia pregiudiziale nella causa C-169/16, la necessità di un rinvio pregiudiziale. La cour du travail de Xxxx (corte del lavoro di Mons) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale in sostanza simile.
Con decisione del presidente della Corte dell’11 aprile 2016, le cause C-168/16 e C-169/16 sono state riunite ai fini della fase scritta ed orale del procedimento, nonché della sentenza
Sulle questioni pregiudiziali
Con le sue questioni, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se, nel caso di ricorso presentato da un lavoratore membro del personale di volo di una compagnia aerea o messo a sua disposizione e al fine di determinare la competenza del giudice adito, la nozione di «luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività», ai sensi dell’articolo 19, punto 2, lettera a), del regolamento Bruxelles I, sia equiparabile a quella di «base di servizio», ai sensi dell’allegato III del regolamento n. 3922/91.
In via preliminare, occorre precisare, in primo luogo, che, come emerge dal considerando 19 del regolamento Bruxelles I e nei limiti in cui tale regolamento sostituisce, nei rapporti tra gli Stati membri, la convenzione del 27 settembre 1968 concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, come modificata dalle successive convenzioni relative all’adesione a tale convenzione dei nuovi Stati membri (in prosieguo: la «convenzione di Bruxelles»), l’interpretazione fornita
dalla Corte con riferimento alle disposizioni di tale convenzione vale anche per quelle del citato regolamento, qualora le disposizioni di tali atti possano essere qualificate come equivalenti (sentenza del 7 luglio 2016, Hőszig, C-222/15, EU:C:2016:525, punto 30 e giurisprudenza ivi citata).
A tale riguardo, sebbene, nella sua versione iniziale, tale convenzione non contenesse disposizioni specifiche per il contratto di lavoro, l’articolo 19, punto 2, del regolamento Bruxelles I è redatto in termini quasi identici a quelli dell’articolo 5, punto 1, secondo e terzo periodo, di tale convenzione nella sua versione risultante dalla convenzione 89/535/CEE relativa all’adesione del Regno di Spagna e della Repubblica portoghese alla convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, nonché al protocollo relativo alla sua interpretazione da parte della Corte di giustizia, con gli adattamenti ad essi apportati dalla convenzione relativa all’adesione del Regno di Danimarca, dell’Irlanda e del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e dalla convenzione relativa all’adesione della Repubblica ellenica (GU 1989, L 285, pag. 1), cosicché, conformemente alla giurisprudenza rammentata al punto precedente, è necessario assicurare la continuità nell’interpretazione di tali due atti.
Peraltro, per quanto concerne un contratto individuale di lavoro, il luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio, previsto all’articolo 5, punto 1, seconda parte del periodo, della convenzione di Bruxelles, deve essere determinato secondo criteri uniformi che la Corte deve definire basandosi sul sistema e sugli obiettivi di tale convenzione. La Corte ha infatti evidenziato che tale interpretazione autonoma è l’unica che possa garantire l’applicazione uniforme di detta convenzione, che mira, segnatamente, ad unificare le norme in materia di competenza dei giudici degli Stati contraenti, evitando, nei limiti del possibile, la molteplicità dei criteri di competenza giurisdizionale relativamente al medesimo rapporto giuridico, ed a potenziare la tutela giuridica delle persone residenti nella Comunità, permettendo sia all’attore di identificare facilmente il giudice che può adire, sia al convenuto di prevedere ragionevolmente dinanzi a quale giudice può essere citato (sentenza del 10 aprile 2003, Xxxxxxxx, C-437/00, EU:C:2003:219, punto 16 e giurisprudenza citata).
Ne consegue che tale requisito dell’interpretazione autonoma si applica parimenti all’articolo 19, punto 2, del regolamento Bruxelles I (v., in tal senso, sentenza del 10 settembre 2015, Xxxxxxxxx Ferho Exploitatie e a., C-47/14, EU:C:2015:574, punto 37 e giurisprudenza ivi citata).
In secondo luogo, da una giurisprudenza costante della Corte emerge che, da un lato, per le controversie relative ai contratti di lavoro, il capo II, sezione 5, del regolamento Bruxelles I enuncia una serie di norme che, come emerge dal considerando 13 di tale regolamento, perseguono lo scopo di tutelare la parte contraente più debole con norme in materia di competenza più favorevoli ai suoi interessi (v., in tal senso, sentenze del 19 luglio 2012, Mahamdia C-154/11, EU:C:2012:491, punto 44 nonché la giurisprudenza ivi citata, e del 10 settembre 2015, Xxxxxxxxx Ferho Exploitatie e a., C-47/14, EU:C:2015:574, punto 43).
Infatti, tali norme consentono in particolare al lavoratore di convenire il suo datore di lavoro dinanzi al giudice che egli considera più vicino ai propri interessi, riconoscendogli la legittimazione ad agire dinanzi ai giudici dello Stato membro nel quale il datore di lavoro ha il suo domicilio o dinanzi al giudice del luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività o, qualora tale attività non sia svolta in un solo paese, dinanzi al giudice del luogo in cui è situata la sede d’attività presso la quale il lavoratore è stato assunto. Le disposizioni della citata sezione limitano parimenti la possibilità di scelta del foro da parte del datore di lavoro che agisce contro il lavoratore nonché la possibilità di derogare alle norme sulla competenza sancite da detto regolamento (sentenza del 19 luglio 2012, Mahamdia, C-154/11, EU:C:2012:491, punto 45 e giurisprudenza ivi citata).
D’altro lato, le disposizioni contenute nel capo II, sezione 5, del regolamento Bruxelles I non possiedono solo un carattere di specialità, bensì parimenti di esaustività (v., in tal senso, sentenza del 10 settembre 2015, Xxxxxxxxx Ferho Exploitatie e a., C-47/14, EU:C:2015:574, punto 44 e giurisprudenza ivi citata).
In terzo luogo, l’articolo 21 del regolamento Bruxelles I limita la possibilità per le parti di un contratto di lavoro di concludere un accordo attributivo di competenza. Quindi, un siffatto accordo deve essere stato concluso successivamente al sorgere della controversia o, qualora sia pattuito precedentemente, deve consentire al lavoratore di adire giudici diversi da quelli ai quali le citate norme attribuiscono la competenza (sentenza del 19 luglio 2012, Mahamdia, C-154/11, EU:C:2012:491, punto 61).
Ne consegue che tale disposizione non può essere interpretata nel senso che una clausola attributiva di competenza potrebbe applicarsi in modo esclusivo e impedire, in tal modo, al lavoratore di adire i giudici che sono competenti a titolo degli articoli 18 e 19 del regolamento Bruxelles I (v., in tal senso, sentenza del 19 luglio 2012, Mahamdia, C-154/11, EU:C:2012:491, punto 63).
Nel caso di specie, occorre constatare, come evidenziato dall’avvocato generale ai paragrafi 57 e 58 delle sue conclusioni, che una clausola attributiva di competenza, come quella stipulata nei contratti in esame nei procedimenti principali, non soddisfa né l’uno né l’altro dei requisiti fissati dall’articolo 21 del regolamento Bruxelles I e che, conseguentemente, tale clausola non è opponibile ai ricorrenti nei procedimenti principali.
In quarto ed ultimo luogo, occorre rilevare che l’interpretazione autonoma dell’articolo 19, punto 2, del regolamento Bruxelles I non osta a che si tenga conto delle disposizioni corrispondenti contenute nella convenzione di Roma, dal momento che tale convenzione, come emerge dal suo preambolo, è parimenti diretta a perseguire, nell’ambito del diritto internazionale privato, l’opera di unificazione giuridica già intrapresa nell’Unione, segnatamente in materia di competenza giurisdizionale e di esecuzione delle sentenze.
Come evidenziato dall’avvocato generale al paragrafo 77 delle sue conclusioni, infatti, nelle sentenze del 15 marzo 2011, Xxxxxxxx (C-29/10, EU:C:2011:151), e del 15 dicembre 2011, Voogsgeerd (C-384/10, EU:C:2011:842), la Corte ha già operato un’interpretazione della convenzione di Roma alla luce segnatamente delle disposizioni della convenzione di Bruxelles relative al contratto individuale di lavoro.
Per quanto riguarda la determinazione della nozione di «luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività», ai sensi dell’articolo 19, punto 2, lettera a), del regolamento Bruxelles I, la Corte ha ripetutamente statuito che il criterio dello Stato membro in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività deve essere interpretato in senso ampio (v., per analogia, sentenza del 12 settembre 2013, Schlecker, C-64/12, EU:C:2013:551, punto 31 e giurisprudenza ivi citata).
In merito a un contratto di lavoro eseguito sul territorio di più Stati contraenti e in assenza di un centro effettivo delle attività professionali del lavoratore a partire dal quale avrebbe adempiuto la parte sostanziale delle sue obbligazioni nei confronti del suo datore di lavoro, la Corte ha statuito che l’articolo 5, punto 1, della convenzione di Bruxelles, data la necessità sia di determinare il luogo con il quale la controversia presenta il nesso più significativo, in modo da designare il giudice che si trova nella migliore posizione per decidere, sia di garantire un’adeguata tutela al lavoratore, in quanto parte contraente più debole, e di evitare la moltiplicazione dei fori competenti, va interpretato come se si riferisse al luogo nel quale, o a partire dal quale, il lavoratore di fatto adempie la parte più importante delle sue obbligazioni nei confronti del datore di lavoro. Infatti, questo è il luogo nel quale il lavoratore può, con minor spesa, promuovere un’azione contro il proprio datore di lavoro o provvedere alla propria difesa e il giudice di tale luogo è il più idoneo a dirimere la controversia sorta dal contratto di lavoro (v., in tal senso, sentenza del 27 febbraio 2002, Xxxxx, C-37/00, EU:C:2002:122, punto 49 e giurisprudenza ivi citata).
Pertanto, in simili circostanze, la nozione di «luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività», sancita all’articolo 19, punto 2, lettera a), del regolamento Bruxelles I, deve essere interpretata come relativa al luogo nel quale, o a partire dal quale, il lavoratore di fatto adempie la parte più importante delle sue obbligazioni nei confronti del datore di lavoro.
Nel caso di specie, le controversie nei procedimenti principali riguardano lavoratori impiegati come membri del personale di volo di una compagnia aerea o messi a sua disposizione. Pertanto, il giudice di uno Stato membro investito di tali controversie, qualora non sia in condizione di determinare senza ambiguità il «luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività», deve, al fine di verificare la propria competenza, individuare il «luogo a partire dal quale» tale lavoratore adempiva principalmente le sue obbligazioni nei confronti del suo datore di lavoro.
Come rammentato dall’avvocato generale al paragrafo 95 delle sue conclusioni, dalla giurisprudenza della Corte emerge altresì che, per determinare concretamente tale luogo, il giudice nazionale deve fare riferimento ad un insieme di indizi.
Tale metodo indiziario consente non soltanto di rispecchiare meglio la realtà dei rapporti giuridici, in quanto deve tener conto di tutti gli elementi che caratterizzano l’attività del lavoratore (v., per analogia, sentenza del 15 marzo 2011, Koelzsch, C-29/10, EU:C:2011:151, punto 48), ma altresì di evitare che una nozione come quella di «luogo nel quale, o a partire dal quale, il lavoratore svolge abitualmente la propria attività» sia strumentalizzata o contribuisca alla realizzazione di strategie di elusione (v., per analogia, sentenza del 27 ottobre 2016, D’Oultremont e a., C-290/15, EU:C:2016:816, punto 48 e giurisprudenza ivi citata).
Come evidenziato dall’avvocato generale al paragrafo 85 delle sue conclusioni, considerate le specificità dei rapporti di lavoro nel settore del trasporto, nelle sentenze del 15 marzo 2011, Koelzsch (C-29/10, EU:C:2011:151, punto 49), e del 15 dicembre 2011, Voogsgeerd (C-384/10, EU:C:2011:842, punti da 38 a 41), la Corte ha indicato molteplici indizi che possono essere presi in considerazione dai giudici nazionali. Tali giudici devono in particolare stabilire in quale Stato si trovi il luogo a partire dal quale il lavoratore effettua le sue missioni di trasporto, dove ritorna dopo le sue missioni, riceve le istruzioni sulle sue missioni e organizza il suo lavoro, nonché il luogo in cui si trovano gli strumenti lavorativi.
A tale riguardo, in circostanze come quelle ricorrenti nei procedimenti principali, e come evidenziato dall’avvocato generale al paragrafo 102 delle sue conclusioni, occorre anche tener conto del luogo in cui sono stazionati gli aerei a bordo dei quali l’attività viene svolta abitualmente.
Conseguentemente, la nozione di «luogo nel quale, o a partire dal quale, il lavoratore svolge abitualmente la propria attività» non può essere equiparata a una nozione qualsiasi presente in un altro atto di diritto dell’Unione.
Per quanto riguarda il personale di volo di una compagnia aerea o messo a sua disposizione, tale nozione non può essere equiparata alla nozione di «base di servizio», ai sensi dell’allegato III del regolamento n. 3922/91. Il regolamento Bruxelles I, infatti, non fa riferimento al regolamento n. 3922/91 e non ne persegue i medesimi obiettivi, posto che quest’ultimo regolamento è diretto ad armonizzare regole tecniche e procedure amministrative nel settore della sicurezza dell’aviazione civile.
La circostanza secondo cui la nozione di «luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività», ai sensi dell’articolo 19, punto 2, lettera a), del regolamento Bruxelles I, non possa essere equiparata a quella di «base di servizio», ai sensi dell’allegato III del regolamento n. 3922/91, non comporta, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 115 delle sue conclusioni, che quest’ultima nozione sia priva di qualsiasi
rilevanza al fine di determinare, in circostanze quali quelle dei procedimenti principali, il luogo a partire dal quale il lavoratore svolge abitualmente la propria attività.
Più in particolare, come emerge dai punti da 61 a 64 della presente sentenza, la Corte ha già evidenziato la necessità di utilizzare un metodo indiziario per l’individuazione di tale luogo.
A tale riguardo, la nozione di «base di servizio» costituisce un elemento che può avere un ruolo significativo nell’individuazione degli indizi, rammentati ai punti 63 e 64 della presente sentenza, che consentono, in circostanze come quelle dei procedimenti principali, di determinare il luogo a partire dal quale i lavoratori svolgono abitualmente la loro attività e, pertanto, la competenza di un giudice che potrà conoscere di un ricorso presentato dai medesimi, ai sensi dell’articolo 19, punto 2, lettera a), del regolamento Bruxelles I.
Tale nozione, infatti, è definita nell’allegato III del regolamento n. 3922/91, all’OPS 1.1095, come il luogo a partire dal quale il personale di volo inizia e dove conclude sistematicamente la sua giornata lavorativa organizzandovi il proprio lavoro quotidiano e in prossimità del quale i lavoratori, durante il periodo di esecuzione del loro contratto di lavoro, hanno stabilito la loro residenza e sono a disposizione del vettore aereo.
Secondo l’OPS 1.1110 di tale allegato, il periodo di riposo minimo dei lavoratori, come i ricorrenti nei procedimenti principali, varia a seconda che tale tempo inizi fuori dalla «base di servizio» o presso di essa, ai sensi dell’allegato III del regolamento n. 3922/91.
Inoltre, occorre rilevare che tale luogo non è determinato né in modo aleatorio né dal lavoratore, bensì, in forza dell’OPS 1.1090, punto 3.1, di tale allegato, dall’operatore per ciascun membro dell’equipaggio.
Sarebbe solo nell’ipotesi in cui, tenuto conto degli elementi di fatto di ciascun caso di specie, domande, come quelle in esame nei procedimenti principali, presentassero nessi più stretti con un luogo diverso da quello della «base di servizio» che verrebbe meno la rilevanza di quest’ultima per individuare il «luogo a partire dal quale i lavoratori svolgono abitualmente la loro attività» (v., in tal senso, sentenza del 27 febbraio 2002, Xxxxx, C-37/00, EU:C:2002:122, punto 53, nonché, per analogia, sentenza del 12 settembre 2013, Schlecker, C-64/12, EU:C:2013:551, punto 38 e giurisprudenza ivi citata).
Inoltre, la natura autonoma della nozione di «luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività» non può essere rimessa in discussione dal riferimento alla nozione di «base di servizio», ai sensi di tale regolamento, contenuta nel testo del regolamento n. 883/2004, in quanto quest’ultimo regolamento ed il regolamento Bruxelles I perseguono finalità distinte. Invero, mentre il regolamento Bruxelles I persegue l’obiettivo menzionato al punto 47 della presente sentenza, il regolamento n. 883/2004, come indicato al suo considerando 1, oltre alla libera circolazione delle persone persegue l’obiettivo di «contribuire al miglioramento del loro livello di vita e delle loro condizioni d’occupazione».
Peraltro, la considerazione secondo cui la nozione di luogo nel quale o a partire dal quale il lavoratore svolge abitualmente la propria attività, di cui all’articolo 19, punto 2, lettera a), del regolamento Bruxelles I, come emerge dal punto 65 della presente sentenza, non è equiparabile ad alcun’altra nozione, vale altresì per quanto riguarda la «nazionalità» degli aeromobili, ai sensi dell’articolo 17 della convenzione di Chicago.
Pertanto, e contrariamente a quanto fatto valere dalla Ryanair e dalla Crewlink nell’ambito delle loro osservazioni, lo Stato membro a partire dal quale un membro del personale di volo di una compagnia aerea o messo a sua disposizione svolge abitualmente la propria attività non è neppure equiparabile al territorio dello Stato membro di cui gli aeromobili di tale compagnia aerea hanno la nazionalità, ai sensi dell’articolo 17 della convenzione di Chicago.
Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alle questioni poste dichiarando che l’articolo 19, punto 2, lettera a), del regolamento Bruxelles I deve essere interpretato nel senso che, nel caso di ricorso presentato da un membro del personale di volo di una compagnia aerea o messo a sua disposizione e al fine di determinare la competenza del giudice adito, la nozione di «luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività», ai sensi di tale disposizione, non è equiparabile a quella di «base di servizio», ai sensi dell’allegato III del regolamento n. 3922/91. La nozione di «base di servizio» costituisce nondimeno un indizio significativo per determinare «il luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività.
Sulle spese
Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:
L’articolo 19, punto 2, lettera a), del regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, deve essere interpretato nel senso che, nel caso di ricorso presentato da un membro del personale di volo di una compagnia aerea o messo a sua disposizione e al fine di determinare la competenza del giudice adito, la nozione di «luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività», ai sensi di tale disposizione, non è equiparabile a quella di «base di servizio», ai sensi dell’allegato III del regolamento (CEE) n. 3922/91 del Consiglio, del 16 dicembre 1991, concernente l’armonizzazione di regole tecniche e di procedure amministrative nel settore dell’aviazione civile, come modificato dal regolamento (CE) n. 1899/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006. La nozione di «base di servizio» costituisce nondimeno un indizio significativo per determinare il «luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività».
3.9 I CONTRATTI DI LAVORO IRLANDESI E LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA EUROPEA
A fronte delle sentenze della CGUE appena citate è possibile, quantomeno sommariamente, occuparsi di quelli che sono i caratteri basilari del sistema contrattuale, chiaramente riferito ai lavoratori subordinati, quindi il medesimo che regola i contratti che Ryanair stipula con i propri dipendenti.
La forma contrattuale più diffusa in Irlanda è, senza dubbio alcuno, quella del contratto a tempo indeterminato ed è una forma contrattuale che si interrompe, risolvendo il rapporto, solo nel momento in cui consensualmente o unilateralmente le parti interessate decidono di porvi fine. Tale forma contrattuale da diritto, secondo la normativa Irlandese, ad una serie di tutele tra le quali quelle da menzionare sono indiscutibilmente:
• Quelle legate alla corresponsione del salario minimo;
• Quelle legate alle prestazioni di assistenza sanitaria
• Quelle legate al tetto massimo di ore di lavoro settimanali che, in base all’impiego ed alle mansioni svolte, può variare tra le 35 e 40 ore settimanali.
Ci sono inoltre delle specificità che il singolo contratto deve contenere al suo interno affinché assuma una vera e propria efficacia tra le parti e queste specificità sono:
• La professione da svolgere;
• Obblighi e diritti del lavoratore e del datore di lavoro;
• Le condizioni di lavoro;
• La retribuzione;
• Gli orari di lavoro.
Tutti gli elementi essenziali che devono essere contenuti nel contratto che disciplina e regola il rapporto intercorrente tra il datore di lavoro ed il lavoratore sono indicati nello specifico da sette Regulatin Act il primo dei quali risale al 1973 e disciplina le condizioni d’occupazione, il secondo ed il terzo, invece, del 1991 che disciplinano rispettivamente i rapporti salariali e la protezione sul lavoro, il quarto del 1994 si occupa di regolare la disciplina sulla protezione della maternità, il quinto emanato nel 1996 che disciplina la protezioni dei minori in ambito lavorativo, il sesto del 1997 che si occupa di regolare gli orari di lavoro ed infine il settimo ed ultimo Act che regola il congedo parentale ed è stato emanato nel 1998.
Apprese queste informazioni, seppur sommarie, riguardanti il sistema contrattuale Irlandese, assume rilevante importanza la diversità che il contratto di lavoro in esame presenta rispetto a quelli in vigore negli
Stati membri dell’Unione Europea nei quali i dipendenti di Ryanair svolgono abitualmente la loro attività professionale.
A fronte di ciò appare, al fine di fornire un quadro chiaro della situazione, e successivamente all’esposizione delle sentenze della Corte precedentemente citate occorre render noto come per i motivi pocanzi citati il 10 agosto del 2018 i dipendenti di Ryanair, non soddisfatti dalle condizioni contrattuali alle quali sono stati sottoposti al momento dell’assunzione, hanno dato vita contestualmente in più Paesi dell’Unione Europea a quello che viene considerato il più grande sciopero dei lavoratori.
Collegandoci alla questione contrattuale sollevata dai dipendenti del colosso dell’aviazione protagonista delle vicende in questione, credo possa essere utile, ai fini di una trattazione completa della materia oggetto dell’elaborato, accennare alla contrattazione collettiva europea che tengo immediatamente a specificare essere un progetto fallito, almeno in parte, poiché sussistono tra gli Stati membri dell’Unione una serie di diversità legate all’importanza che innanzitutto le associazioni sindacali, ed in secondo luogo lo stesso contratto collettivo rivestono all’interno dei sistemi giuslaburistici in esame.
Di certo le associazioni sindacali, in base all’importanza ed il peso specifico che rivestono all’interno dei Paesi presso i quali sono attive, hanno più o meno possibilità di incidere sull’esito delle contrattazioni destinate a dar vita, nei vari ordinamenti, ai contratti collettivi di categoria, in Germania ed Olanda, ad esempio, la forza contrattuale dei sindacati è notevole, facendo in modo, quindi, che la loro volontà sia tenuta in forte considerazione, ci sono poi paesi come Spagna, Grecia e Portogallo dove la forza contrattuale dei rappresentanti di associazioni sindacali non è così evidente e quindi non hanno rilevante voce in capitolo in sede di stipula del contratto collettivo; ci sono infine Stati in cui i rappresentanti sindacali hanno un medio potere di incidere in sede di stipula di contratti collettivi ed è quest’ultimo il caso di Italia e Gran Bretagna.
Un problema ulteriore legato al fallimento del progetto di contrattazione collettiva europea, almeno come inizialmente concepito, è senza ombra di dubbio il valore che assume nell’ordinamento giuslaburistico il contratto collettivo.
Nonostante le difficoltà iniziali nell’applicazione della disciplina concepita inizialmente e contenuta nella proposta di regolamente chiamata “Monti II” inerente alla disciplina della libertà di sciopero nel contesto della libertà di stabilimento e prestazione di servizi, e quelle relative, invece alla disciplina contorta e sommaria contenuta all’interno della Direttiva del 15 maggio 2014 n. 67 soprannominata enforcement ed emanata nel tentativo di rendere le prescrizioni della citata Direttiva n. 96/71 più attuali rispetto ai sistemi giuslaburistici degli Stati membri dell’Unione Europea soprattutto in ambito di esercizio di diritti fondamentali quali quello dello scipero e della libera iniziativa economica, si è giunti alla Direttiva n. 957 del 28 giugno 2018, l’apporto fondamentale della quale giunge nel senso che, tramite quest’ultima, il legislatore europeo ha voluto espressamente, nell’ambito di una prestazione di lavoro connotata dal carattere transfrontaliero, garantire che i cittadini degli Stati membri terzi rispetto a quello in cui sono effettivamente
contrattualizzati ma in quelli in cui svolgono abitualmente la loro professione godano, esattamente come i lavoratori invece cittadini degli Stati in questione di tutti i diritti d i doveri, ma questo può avvenire solo nel caso i cui effettivamente tutte le aziende che contrattualizzano cittadini dello Stato stesso adottino le tutele imposte dai contratti collettivi, almeno nel settore specifico in cui i lavoratori transfrontalieri svolgono la loro abituale attività.
3.10 SVILUPPI RECENTI
Stando dunque a quanto affermato dal Giudice europeo in relazione ai rinvii pregiudiziali pocanzi citati, i dipendenti della Crewlink Ireland Ltd. godranno di una serie di diritti garantitigli dal fatto che saranno contrattualizzati secondo le norme del Paese in cui questi svolgeranno prevalentemente la loro attività lavorativa.
In ultimo ritengo importante rendere noto che, a seguito delle sentenze emesse dalla CGUE, Ryanair ha siglato, modificando quindi le condizioni di lavoro dei dipendenti assegnati alle basi presenti sul territorio dello Stato italiano, accordi con le principali organizzazioni sindacali presenti sul territorio come Anpac ed Anpav che rappresentano circa il 20% dei lavoratori del settore nel territorio dello Stato in questione, e, con ciò, a partire dal 2018 le clausole contrattuali sono state quantomeno adeguate alle norme in materia di diritto del lavoro in vigore nel Paese in questione, nonché nel rispetto delle norme comunitarie in vigore.