numero 1/IV-1994
numero 1/IV-1994
ISSN 1121-8762
DIRITTO DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI
Rivista semestrale della Associazione Lavoro e Ricerche
Pubblicazione semestrale - spedizione in abbonamento postale - 50%
Diretta da Xxxxxxx XxxxxxxxxXxxxxxxx e Xxxxx Xxxxx
Ricerche
Qualità totale
Efficacia temporale del contratto collettivo
e conflitto
Xxxxxxx Editore
Diritto delle relazioni industriali N.1-1994
Indice
Qualita` totale | Ricerche | |
Xxxxxxx’ Totale e teorie della subordinazione di Xxxxxxx Xxxxx | pag.3 | |
Il rapporto di lavoro dirigenziale nei sistemi di organizzazione aziendale ispirati alla “Qualita’ totale” di Xxxxx Xxxxxx Xxxxxxxxx | pag.15 | |
Organizzazione degli orari e Xxxxxxx’ totale di Xxxxxx Xxxxxxxx | pag.29 | |
Tecniche di selezione del personale e indagini sulle opinioni dei lavoratori in un progetto di Xxxxxxx’ totale. Spunti critici di Xxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxx | pag.47 | |
Il clima organizzativo: uno strumento per la diagnosi e il cambiamento in azienda di Xxxxxxx Xxxxx | pag.57 | |
Efficacia temporale del contratto collettivo e conflitto | Ricerche | |
Contratto collettivo e sciopero: variazioni metodologiche di Xxxxxxxx xxx Xxxxx | pag.67 | |
L’efficacia temporale del contratto collettivo di lavoro: atipicita’ dello schema negoziale, giuridicita’ del vincolo e cause di scioglimento di Xxxxxxx Xxxxxxxxxx | pag.83 | |
L’efficacia temporale del contratto collettivo nel sistema normativo corporativo di Xxxxx Xxxxxxxx | pag.133 | |
Autonomia collettiva e composizione dei conflitti di Xxxx Xxxxxxx | pag.149 | |
Stabilita’ del sistema della contrattazione collettiva e condotta antisindacale di Xxxx Xxxxxxxxx | pag.181 | |
Contratto collettivo e diritto di sciopero nell’esperienza comparata: il caso inglese e il caso tedesco di Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx | pag.189 | |
Abbreviazioni | pag.205 | |
Notizie sugli autori | pag.209 | |
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Diritto delle relazioni industriali N.1-1994
Xxxxxxx’ totale e teorie della subordinazione
Xxxxxxx Xxxxx
1. La QT frammenta il “prototipo”? 2. La QT devia dal modello “tipico”? 3. La QT afferma nuovi contenuti della subordinazione? 4. La QT rivaluta la volonta` individuale e ridimen- siona l’area del lavoro subordinato? 5. La QT propone un nuovo modello organicistico? 6. Dopo cinque risposte negative: contro una nuova teoria del rapporto di lavoro.
Sommario
1. La QT frammenta il “prototipo”?
Scopo di questo saggio e` quello di analizzare l’impatto teorico delle nuove strategie di qualita` totale (QT). Si indaghera`, percio` , in due direzioni: sul reale contributo che la QT puo` fornire ai processi di frammentazione della fattispecie tipica del lavoro dipendente, fino a poco tempo fa ritenuta unitaria; sulla risistemazione teorica della materia, dottrinalmente sollecitata da piu` parti, alla quale la QT puo` fornire interessanti spunti di indagine.
Il quadro entro cui si collocano queste riflessioni e` fortunatamente ben noto, avendo incontrato il favore degli studiosi, che, emulando in questa nuova fine secolo i colleghi di cento anni prima, hanno dato vita ad un dibattito ampio e articolato. Cio` , evidentemente, esime da premesse dettagliate, cos`ı come la collocazione di questo contributo esime da precisazioni, anche di base, sulle “nozioni” di QT.
Gli anni ’80, anche in questo campo, segnano l’inizio dell’“eta` della frammentazione”, figlia dei tempi “postmoderni”. Senonche´, questo fatto viene chiamato a connotare piu` cose, non sempre omogenee. In un primo senso, si osserva la perdita di centralita`, se non proprio la dissoluzione, del modello socialtipico egemone dei rapporti di lavoro, quello “classico” dell’operaio di fabbrica (Dell’Olio, 1984, p. 668). Nuovi lavori, nuovi mestieri, spingereb- bero a riconsiderare le basi monolitiche di un diritto saldamente arroccato su un prototipo del lavoro subordinato che si ritiene ormai non piu` idoneo alla sua funzione di perno della disciplina. Un primo slogan e` lanciato: la fuga verso il lavoro “atipico”. D’altro canto, le incisioni avverrebbero anche all’interno dello stesso rapporto di lavoro “tipico”, vuoi per situazioni di crisi di settori finora saldi vuoi per spinte individuali verso la ricerca di prestazioni dimensionate sulle proprie esigenze (Rusciano, 1991, p. 250). Cio` comporte- rebbe, appunto, una rimodellazione del rapporto di lavoro tradizionale, con struttura e modalita` esecutive piu` elastiche e modulabili. L’altra parola d’ordine e`, quindi, la ricerca del lavoro “flessibile” (per tutti, Xxxxxx, 1982, p. 373; Aa.Vv., 1986).
“Flessibilita`” e “atipicita`” sono pertanto i nuovi indirizzi della politica del diritto del lavoro per gli anni ’90. A livello teorico, la conseguenza e` quella dell’accantonamento di punti di riferimento finora assestati e della sempre minore nettezza dei confini tra subordinazione e autonomia. Si ravvisa l’inadeguatezza dell’art. 2094 e la crisi del concetto classico di subordinazione, di cui viene contraddetta la tradizionale tensione verso l’universalita`. Il che restituirebbe alle parti la liberta` di scelta del tipo contrattuale. Questo processo, che — se
non spaventano i chilometrici neologismi — e` stato definito di “destandardizzazione 3
Ricerche Qualita’ totale
Qualita’ totale e subordinazione Xxxxxxx Xxxxx
tipologica” e di “delavorizzazione”, viene poi letto in stretto collegamento con la differen- ziazione delle tutele assegnabili ad ogni fattispecie, anch’esse pertanto modularizzabili (De Xxxx Xxxxxx, 1986, p. 464; 1989, p. 116; 1990, p. 51; D’Xxxxxx, 1989, p. 45; 1990a, p. 539).
Gli interventi del legislatore, che superano le vecchie logiche dell’“emergenza”, parrebbero assecondare una tale tendenza, accreditando l’immagine di un diritto del lavoro non piu` monoliticamente standardizzato ed egualitarista ma frammentato e flessibile: appunto, “postmoderno” (D’Xxxxxx, Xx Xxxx Xxxxxx, Xxxxxxx, Xxxxxxx, 1988, p. XI).
In che senso la QT si inserisce in questo panorama, cosı` sommariamente abbozzato? Essa, in realta`, propone un semplice riadattamento delle condizioni lavorative, in grado di fornire maggiore “intensita`” alla prestazione. La “flessibilita`” sta tutta in una migliorata, forse ottimizzata, gestione dei tempi e dei contenuti del lavoro. Ma il rapporto funzionale che e` alla base del contratto di lavoro rimane assolutamente inalterato rispetto alla ipotesi “tipica”. Non pare ravvisabile, insomma, alcuna significativa modificazione nella causa del contratto, tale da giustificarne, da questo punto di vista, una pretesa atipicita`.
Del resto, va ricordato come il piu` delle volte il problema teorico della natura speciale dei rapporti flessibili sia stato risolto negativamente, sostenendosi che la facolta` di immettere contenuti particolari non determina alcuna deviazione dalla causa tipica del contratto di lavoro, ben potendo il programma negoziale, la modalita` della prestazione, integrare la struttura fondamentale del rapporto (D’Antona, 1988, p. 8). In piu` , la QT ha, per cosı` dire, il “difetto” di operare nel cuore del rapporto tipico, e cioe` all’interno della fabbrica di medio-grandi dimensioni, per cui ogni prospettazione di “atipicita`” e di “frammentazione” si dimostra ancora piu` difficile da accettare.
Se si dice, pero` , che la prestazione inserita in un progetto di QT diverge da quella “tradizionale” dell’operaio di fabbrica per come finora strutturata, si fa un’osservazione sociologicamente corretta. Ma e` sbagliato trasportare questo risultato sul piano delle teorie giuridiche. Se un’operazione del genere e` stata pensata, cio` e` dovuto ad una deviazione storica (perche´ di origini antiche) in cui incorre il giuslavorista italiano, abituato a vedere in un dato normativo complessivamente asettico ed “indifferente” il dato socio-economico di volta in volta prevalente, subito eretto al rango di prototipo della fattispecie.
Ci si ritornera` in seguito. Per ora puo` sinteticamente dirsi che l’art. 2094 tratteggia in realta` una figura dai contorni amplissimi, caratterizzata esclusivamente dall’“attribuibilita`” della prestazione a favore di una struttura produttiva di imputazione. In tale figura risulta davvero difficile riconoscere i soli tratti del “prototipo”, il centro di tutti i rapporti di lavoro, rispetto al quale ogni altro rapporto che piu` o meno vi si avvicini gode di una sorta di luce riflessa, piu` intensa a seconda della sua vicinanza ad esso.
Pertanto, la portata reale della categoria dei rapporti di lavoro atipici va ridimensionata, anzi smascherata. Essi sono abitualmente ritenuti “rapporti diversi da quello di lavoro subordinato” (Xxxxxxx, 1991, p. 59), ma per essi — come si e` detto — non e` possibile evidenziare serie deviazioni qualitative rispetto al modello ampio dell’art. 2094, che non tratteggia di certo il solo lavoro prestato all’interno della fabbrica (medio-grande). La prospettiva e`, percio` , ben lungi dagli entusiasmi che in Francia hanno addirittura fatto parlare di un nuovo ramo autonomo del diritto del lavoro (Pe´lissier, 1985, p. 531). La vasta gamma dei modelli di lavoro dipendente rientrante nell’altrettanto vasta nozione “unitaria” dell’art. 2094 integra, invece, una categoria libera da asfissianti relazioni genere-specie, tipo-sottotipo o normale-speciale. L’atipicita` e` un concetto in se´ fasullo, se vuole alludere a particolarita` funzionalmente rapportabili a livello di teorie generali; la flessibilita` rischia di essere, anche da questo punto di vista, nient’altro che una “parola magica”, l’ennesimo nuovo “culto” che non riveste alcun reale significato giuridico (esemplarmente, Lyon-Caen, 1985, p. 801).
Le novita` teoriche della QT vanno percio` , sotto questo primo angolo visuale, sensibilmente ridimensionate: sia per una considerazione piu` generale, consistente nell’assenza dal nostro sistema normativo in materia di lavoro di rapporti preconcetti tra tipo e sottotipo, sia per l’osservazione molto piu` elementare che, collocandosi all’interno del rapporto ritenuto tradizionalmente “tipico”, non ne altera minimamente la sfera funzionale.
2. La QT devia dal modello “tipico”?
Il punto, pero`, e` un altro. Puo` darsi che si voglia intendere l’atipicita` ancora in un altro senso, ovvero come deviazione emergente proprio all’interno dello stesso prototipo classico.
4 Il lavoro-QT farebbe emergere delle differenze tali da restringere questo prototipo al
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solo lavoro in fabbrica svolto con un’organizzazione “tradizionale” (per esprimersi in termini molto generali). Simili differenze non si fermerebbero ad un livello di tipo socio- logico-descrittivo, bensı` consentirebbero di operare proficue correzioni di tiro anche dal versante piu` tecnicamente giuridico. Pare, quindi, che l’attenzione debba appuntarsi su altre particolarita` della prestazione-QT, che, anche stavolta, hanno fatto parlare di un abbatti- mento, o meglio di una revisione, delle frontiere sempre piu` mobili tra autonomia e subordinazione.
In primo luogo, va posta attenzione sul profilo del potere (contrattuale) del lavoratore nella gestione complessiva della prestazione, che si vuole vedere sensibilmente aumentato. Il lavoratore — si dice — e` piu` responsabilizzato, e` piu` padrone dei processi produttivi. C’e`, almeno sociologicamente, un contenuto molto piu` denso di autonomia che di subordina- zione: come venne affermato in una ormai famosa relazione, i rapporti di lavoro indotti dall’innovazione tecnologica vedono diminuire lo stato di soggezione del lavoratore ed aumentare la sua partecipazione (Carinci, 1985, p. 221). Quali ripercussioni e` pero` lecito argomentare a livello giuridico da questa aumentata attitudine del lavoratore?
Intanto, la premessa non e` da accettare senza discussioni. E, naturalmente, delle obiezioni sono state effettivamente avanzate, sostenendosi che alcune innovazioni tecnologiche vedono semmai accentuare la quota (“sociologica”) di subordinazione e i suoi tassi di sfruttamento (Ballestrero, 1987b, p. 297; Assanti, 1990, p. 148), tanto piu` che il controllo puo` presentarsi in forme piu` occulte e sofisticate, ma anche piu` pervasive rispetto ai rapporti “normali”. Anche a proposito della QT e` possibile sostenere — ed e` stato sostenuto — che con essa non aumentano affatto i margini “partecipativi” del lavoratore, quanto piuttosto la sua soggezione alle strategie dell’azienda, proposte stavolta con uno strumento piu` subdolo, in quanto coinvolge psicologicamente il lavoratore, lo illude di essere realmente piu` autonomo nelle decisioni, meno assoggettato al potere del datore, mentre invece questi conserva i tradizionali poteri di direzione e di controllo, supportati dal potere disciplinare (Xxxxxxxxx, 1991, p. 65). Anche prescindendo dalle critiche piu` “apocalittiche”, non puo` farsi a meno di notare come la fabbrica-QT tenda a diventare un “tubo di cristallo” (Xxxxxxx, 1993): al suo interno la prestazione e` analizzata e sorvegliata come mai prima, producendosi quel “lavoro trasparente” (Da¨ ubler, 1987) che sta appunto a significare possibilita` di controllo minuto per minuto, sconosciute ai pur occhiuti datori di qualche decennio fa.
Non e` pero` questa la sede per affrontare simili interrogativi. Superiamo, quindi, ogni obiezione e diamo per buono l’assunto che con i progetti di QT diminuisca davvero la quota di dipen- denza del lavoratore. In che misura un fatto del genere incide a livello di teorie giuridiche? Si e` detto — ma questo e` un discorso fatto a suo tempo a proposito delle “innovazioni tec- nologiche”, e non si sa fino a che punto esportabile al nostro caso — che l’influenza dei nuovi modi di lavorare si esplica, riguardo alle teorie qualificatorie generali, nel senso di richiedere una rilettura dei classici indici di rilevamento, privilegiandone quelli riconnessi alla fiduciarieta` ed alla professionalita` (Fanfani, 1988, p. 419; Sala Chiri, 1988, p. 608).
Si tratterebbe di un risultato ben magro. Ma probabilmente la conclamata rivoluzione e` ancora meno effettiva. Innanzitutto, infatti, la “personalita`” della prestazione non acquista rilievo maggiore rispetto al lavoro “normale”. Qui in realta` il discorso si biforca a seconda che riteniamo la personalita` come indicativa di “fiducia” oppure di “infungibilita`”, e le conseguenze sono in un certo senso opposte: la QT potrebbe far aumentare sı` la quota di fiduciarieta` insita nel rapporto, ma far diminuire senz’altro la quota di infungibilita`, dal momento che con le nuove modalita` produttive diventa piu` enfatizzata la dimensione del “gruppo”, la possibilita` per i lavoratori di sostituirsi, di collaborare.
Del primo profilo si parlera` piu` tardi. Riguardo alla possibilita` che una certa fungibilita` della prestazione faccia travalicare il lavoro-QT al di fuori degli schemi canonici del lavoro subordinato, puo` affermarsi senza dubbio l’insussistenza di preoccupazioni. Tecnicamente, da questo punto di vista, non sussiste alcuna anomalia: basti pensare, del resto, ai ben piu` marcati casi di cosiddetto lavoro gemellato (job sharing), nel quale due soggetti occupano la stessa posizione lavorativa, dividendosi a loro discrezione l’adempimento della presta- zione. Anche in un caso del genere si e` ritenuta sussistente la personalita` della prestazione, poiche´ il lavoratore resta personalmente e direttamente responsabile dell’adempimento dell’intera obbligazione, la cui struttura permane unitaria (Ichino, 1984-85, p. 407; Buon- cristiano, 1986, p. 533).
Nulla giustifica, poi, una rilettura della classicissima distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato; distinzione ormai da tempo ritenuta priva di fondamento, se si identifica il
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risultato con l’interesse creditorio dedotto, per cui ogni obbligazione sarebbe — in questo senso — di risultato (Mengoni, 1954, p. 185). Il lavoro-QT non sposta di una virgola una tale conclusione, poiche´ l’interesse del datore di lavoro rimane soddisfatto dall’esatta esplica- zione del comportamento dovuto dal debitore.
Ne´ puo` sostenersi che la prestazione-QT contenga in se´ una diversa ripartizione del rischio, elemento spesso ritenuto caratterizzante della subordinazione (Cassı`, 1961, p. 105), anche se a torto, non essendo esso correlato alla causa del contratto, e costituendo anzi un elemento assolutamente non attinente all’attuazione dell’obbligazione (Mengoni, 1965, p. 439).
In definitiva, l’obbligazione del lavoratore permane qualitativamente la stessa che in una prestazione “tradizionale”, e l’interesse datoriale continua ad essere relativo esclusivamente all’adempimento diligente, senza coinvolgere profili ulteriori. La maggiore (apparente) autonomia decisionale coinvolta nei processi di QT attiene esclusivamente ad una (in ipotesi, piu` razionale) strutturazione interna della prestazione, del resto non nuova nel mondo dei rapporti di lavoro subordinato, che da sempre hanno conosciuto la possibilita` di riaggiustamenti razionalizzanti.
Ulteriore prova di questa conclusione e` offerta da un altro dei punti critici che la prestazione lavorativa caratterizzata da modalita` innovativa segnalerebbe, ovvero l’elemento della continuita`, di recente ritenuta non un semplice indice rilevativo della fattispecie, ma momento costitutivo, elemento strutturale, del contratto di lavoro subordinato (Grandi, 1987, p. 325), e xxxxxx` interpretata in senso tecnico-giuridico, cioe` come illimitata divisibilita` dell’adempimento in ragione del tempo (Xxxxxx, 1984-85, p. 28). Pur prescindendo dall’at- taccabilita` di un simile approccio, che finisce col riprendere la discussa distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato (Nogler, 1990, p. 197), non si vede come il lavoro-QT, per sua stessa struttura esplicitamente legato ad orari e tempi di lavoro forse anche piu` rigidi del “normale”, possa in qualche modo indurre riletture di questo indice. In realta`, cio` che conta, ancora una volta, e` la continuita` ideale del vincolo obbligatorio, ovvero la disponi- bilita` funzionale del lavoratore all’impresa altrui (Ghera, 1993, p. 54).
Di conseguenza, anche nel lavoro-QT il tempo assume il valore di modalita` di svolgimento della prestazione, e quindi non e` forse azzardato ritenere che esso incarni potenzialmente una sorta di “involucro vuoto”, del tutto indifferente rispetto alle scelte di qualificazione (Ghera, 1987, p. 171). Gli orari di lavoro sono anche qui rigidi e “tradizionali”; ma pur dando per buono che questo sia uno dei casi in cui il tempo di lavoro puo` essere “acquistato”, anziche´ per rigidi blocchi giornalieri, per quantita` elastiche ed elasticamente distribuite (Xx Xxxx Xxxxxx, 1986, p. 437), la cosa non avrebbe alcuna ripercussione in termini funzionali.
Non puo` allora ripetersi per la QT quanto si disse a suo tempo circa gli effetti dirompenti che l’innovazione tecnologica avrebbe comportato sulle tradizionali alternative qualificato- rie, e cioe` che il penetrante coordinamento spazio-temporale della prestazione, tradizionale caratteristica della subordinazione, non avrebbe avuto piu` senso in un assetto in cui al tradizionale inserimento della prestazione nell’organizzazione aziendale tendeva a sosti- tuirsi un diverso coordinamento che prescindeva dalla contiguita` spaziale e dalla coinci- denza temporale, per cui la distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato sarebbe divenuta ancora piu` evanescente che in passato, e lo stesso elemento della continuita` avrebbe perso molto della sua attitudine qualificatoria (Xxxxxx, 1985, p. 199). Tutto quello che in questi anni si e` pensato a proposito dell’innovazione (e non importa in questa sede verificarne l’attendibilita` “profetica”) ha avuto come modello non certo la prestazione classica del lavoratore all’interno della grande fabbrica e i suoi riadattamenti migliorativi. Percio` , anche ammettendo per un momento che l’innovazione abbia davvero deviato dai binari classici della subordinazione, il lavoro-QT pare invece continuare a marciarvi saldamente. E se l’innovazione tecnologica (meglio, “una” delle innovazioni tecnologiche possibili) rompe la classica visione del rapporto di lavoro fondata sulla unita` di tempo, di luogo e di azione (Veneziani, 1989, p. 198), il lavoro-QT continua ad essere imperturbabil- mente aristotelico.
3. La QT afferma nuovi contenuti della subordinazione?
La conclusione pare allora essere quella della sostanziale indifferenza della subordinazione riguardo alle nuove prestazioni inserite in progetti di QT. Lo si e` verificato finora attraver- sando il tema in relazione ad alcuni dei suoi indici di rilevazione piu` consueti. Non cambia
6 niente, in sostanza, per quanto attiene a quella che schematicamente viene definita
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subordinazione “giuridica”, che davvero non pare atteggiarsi in modo peculiare per il lavoro-QT. Il discorso puo` allora spostarsi a quella che altrettanto schematicamente (se non semplicisticamente) e` definita subordinazione “socio-economica”. Ma le conclusioni non differiscono di molto.
La ricostruzione — e` noto — si fonda sul requisito codicistico della “dipendenza”, per cui gli elementi caratterizzanti la fattispecie sarebbero l’alienita` rispetto ai mezzi di produzione e rispetto al risultato della prestazione, di cui si appropria l’imprenditore, o piu` in generale la situazione di complessiva debolezza economica (Scognamiglio, 1963, p. 105; Xxxxxxxxx, 1967, p. 189; Xxxxxxxxx, 1974, p. 70). Prescindiamo anche qui dalle critiche prospettabili (e prospettate: per tutti, Persiani, 1972, p. 864), ed assumiamo la correttezza della ricostru- zione. Ciononostante, non pare potersi sostenere che la subordinazione socio-economica, nel nostro caso, venga meno. Anche qui puo` guidarci il dibattito sulle innovazioni tecno- logiche. Si e` detto, infatti, che il nuovo lavoratore protagonista di questi rapporti, nel riappropriarsi della tecnica, mette in crisi la classica figura “titanica” dell’imprenditore, sempre piu` privato del controllo finale della produzione (Xxxxxxx, 1986, p. 75). I dubbi, pero` , sono molti. Innanzitutto, e` proprio vero che il lavoratore-QT si reimpossessa della tecnica? Il processo produttivo continua, invero, ad essere formalmente eterodiretto, e le nuove modalita` di gestione della prestazione, talvolta ancora piu` “alienanti” di quelle “normali”, sono sempre eterodeterminate (anche quando sono contrattate).
In secondo luogo, a voler essere puntuali, la teoria parla della titolarita` dei mezzi di produzione e della destinazione del risultato dell’attivita` lavorativa. Ed anche nel lavoro-QT essa continua a permanere nella sfera del datore di lavoro. E` possibile, anzi, che si vada in
direzione opposta a quella di un potenziale affrancamento: dell’“alienita`” c’e` mera razio- nalizzazione ed ottimizzazione. Il che — detto per inciso — induce a dar ragione a chi riduce la nozione di alienita`, in una versione estremamente ampia, ad una semplice descrizione del lavoratore che indirizza la sua attivita` a favore di una unita` produttiva e non direttamente al mercato (Alarco´ n, 1986, p. 534). E nessuna QT riuscira` a schiodare il lavoratore da questa caratterizzazione.
Se, poi, l’alienita` la si vuole leggere — in senso molto piu` sociologico che giuridico — come relativa non tanto alla proprieta` dei mezzi di produzione, quanto soprattutto al tempo esistenziale del lavoratore (Xxxxxxx, 1986, p. 93), non puo` allora non rilevarsi che la figura del dipendente alienato, che trascorre la giornata in un luogo estraneo, in cui “il tempo gli e` stato lungo e vissuto in esilio” (Weil, 1952, p. 264), si attaglia senza troppa fatica anche alla “condizione operaia” del dipendente-QT (il che, peraltro, non sposta le conclusioni gia` raggiunte circa la scarsa rilevanza selettiva attribuibile al fattore tempo).
La subordinazione potrebbe allora atteggiarsi in modo “particolare” riguardo all’altro grande requisito codicistico, quello della direzione. Il lavoro-QT presenterebbe un affievo- limento o addirittura l’assenza del tradizionale potere direttivo dell’imprenditore.
Innanzitutto, pare estremamente criticabile l’attribuzione al riscontro della soggezione al potere direttivo di un ruolo predominante nell’identificazione della fattispecie (Suppiej, 1982, p. 12; Pessi, 1989, p. 49), anche se la giurisprudenza pare vada enfatizzando negli ultimi tempi proprio questo requisito della prestazione (Xxxxxx, 1989, p. 220). Sorvoliamo anche qui sulle numerose critiche prospettate (per tutti, Xxxxxxxxx Vigorita, 1967, p. 56; Xxxxxxxxxxxx, 1990, p. 5), ribadendo soltanto come paia soddisfacente la ricostruzione che legge l’etero- direzione come inverata in un obbligo continuativo di obbedienza, giuridicamente sempre presente, anche se in concreto mancante o “attenuato”, correlato alla posizione del datore di poter astrattamente interferire in qualsiasi momento sulle modalita` di svolgimento della prestazione (Xxxxxx, 1992a, p. 21). La direzione — e` osservazione comune — si esprime con variazioni meramente quantitative, senza che cio` alteri nulla dal punto di vista giuridico- formale (Corrado, 1956, p. 108). Essa si configura come naturale, non essentiale negotii (Xxxxxx, 1992a, p. 24), e costituisce, ad ogni conto, un criterio molto generico e assai poco selettivo. Volendo utilizzare un termine alla moda, il potere direttivo e` allora un potere “virtuale”, e quindi puo` dirsi che il dovere di prestare l’attivita` non puo` essere inteso anche come dovere di obbedienza e di disciplina (Xxxxxxx, 1957, p. 25), ma semplicemente in termini di adempimento diligente della prestazione richiesta.
Xxxxxx` , anche se si sostiene che l’eterodeterminazione, cioe` la soggezione alle altrui direttive, puo` risultare quanto mai attenuata in certi tipi di lavoro subordinato piu` legato all’innovazione (Xxxxxxxxx Vigorita, 1988, p. 30), e quindi anche nel lavoro-QT, non puo` dirsi che sia cambiato qualitativamente qualcosa rispetto alle conclusioni raggiunte circa il mero valore descrittivo e virtuale giocato dal dato del potere imprenditoriale di impartire
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direttive. Anche nelle “nuove” strutturazioni della prestazione lavorativa tutto finisce col risolversi in un problema di diligenza e di esatto adempimento dell’obbligazione, dando in qualche modo ragione a chi ha ritenuto che l’eterodirezione sia in buona sostanza volta a designare lo strumento tecnico attraverso il quale il datore si avvale delle energie lavorative del prestatore, e ponendosi come momento strumentale rispetto all’adempimento dell’ob- bligazione (Grandi, 1987, p. 323).
Le situazioni di potere direttivo “affievolito” si inquadrano percio` perfettamente all’interno della struttura del lavoro subordinato, del quale non costituiscono peraltro un valido indice discretivo. C’e` da chiedersi, ulteriormente, se la QT attenui davvero il potere direttivo dell’imprenditore o se invece non lo trasformi piuttosto in qualcosa di potenzialmente piu` infido, anche perche´ mascherato da una struttura che coinvolge psicologicamente la volonta` del lavoratore. In quest’ottica molto permeata di scetticismo va percio` inquadrata la prima delle conseguenze innovative che il lavoro-QT potrebbe comportare nei confronti delle teorie classiche della subordinazione, e xxxx` la rivalutazione della volonta` individuale.
4. La QT rivaluta la volonta’ individuale e ridimensiona l’area del lavoro subordinato?
Se si assume che la figura del lavoratore-QT, maggiormente responsabilizzato e “padrone” dei processi produttivi, devia in modo sensibile rispetto al modello classico del lavoratore di fabbrica, un nuovo rilievo, ai fini discretivi, acquista appunto la volonta` individuale nella determinazione dell’inquadramento dogmatico della fattispecie. E` un argomento non a caso molto di moda negli ultimi anni, e strettamente legato ad altrettanto recenti teorizzazioni circa una subordinazione “forte”.
Xx e` un discorso che convince poco. Il lavoratore-QT sarebbe in grado di contrattare da solo la propria qualificazione giuridica, non essendo piu` un contraente debole, un soggetto bisognoso di tutela (collettiva), ma una persona autoresponsabile e “autonoma”, in grado di gestire da solo le modalita` della propria prestazione. Il discorso e`, quindi, quello della disponibilita` dell’inquadramento nel tipo disegnato dall’art. 2094, finora risolto in senso negativo, anche in presenza di un lavoratore particolarmente “forte”, che potrebbe apparire interessato ad una qualificazione diversa, ottenibile per via contrattuale.
Le tendenze che parte della dottrina ha individuato spingerebbero, appunto, in senso contrario, con una forte rivalutazione di uno strumento finora negletto quale il contratto individuale. Si e` parlato di spinte alla “reindividualizzazione” del rapporto, nell’ambito di quella che Xxxxxx Xxxxxxx, nel celebrare “lavoristicamente” il bicentenario della rivoluzione francese, ha chiamato la “riscoperta dell’individuo” nel diritto del lavoro (1990, p. 87). Da noi ha cominciato da un po’ di tempo a circolare una versione “corretta” di questa nuova liberta` contrattuale, giudicata utile a frenare l’eccessiva “tendenza espansiva” della subor- dinazione (da ultimo, Xxxxxx, 1992b, p. 81). Si rivaluta enormemente la volonta` individuale, sia in sede di stipulazione originaria che di manifestazioni modificative, e, pur non ritenen- dola elemento decisivo in ordine alla qualificazione della fattispecie, si ammette che l’indagine sul comportamento successivo delle parti puo` far disattendere la volonta` risul- tante dalla dichiarazione contrattuale solo nel caso in cui dia vita ad una univoca indicazione ad essa contraria (Pessi, 1989, p. 178).
E` pero` lecito avanzare serie perplessita`. Se davvero la disponibilita` del tipo contrattuale e` stata enfatizzata negli ultimi tempi come una delle nuove frontiere di un diritto del lavoro segnato da “esuberanza di tutele” (Xxxxxxxxx, 1994, p. 89), appaiono, per la verita`, del tutto convincenti le obiezioni critiche avanzate, anche di recente, in sede scientifica. Intanto, la sostanziale disparita` tra le parti non e` ancora venuta meno (Assanti, 1990, p. 157), e cio` e` vero (forse proprio in misura maggiore) anche nel lavoro-QT; sussiste, poi, una rilevante funzione di ordine pubblico sottesa all’individuazione del tipo legale del lavoro subordinato (Ballestrero, 1987a, p. 56; D’Xxxxxx, 1991, p. 475; 1992, p. 90), e, soprattutto, il procedi- mento di riconduzione dell’assetto degli interessi determinato dalle parti ad una specifica tipologia contrattuale spetta sempre al giudice (Xxxxxxxx, 1991, p. 495). Xxxxxxx, allora, l’accordo intercorso tra le parti — anche “forti” — puo` risultare una pura e semplice “coloratura ideologica” (Nogler, 1990, p. 217).
Le teorie sulla rivalutazione della volonta` individuale sono legate a filo doppio — come si diceva — ai tentativi dottrinali di ricostruire una subordinazione “forte”, dalla quale potrebbe in ipotesi esulare il lavoratore-QT, appunto perche´ meno eterodiretto e contrat- tualmente “libero” di chiamarsi fuori da essa.
8 E` Xxxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxxx a riaprire “un singolare dialogo con se stesso” (cosı` Xxxx,
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1988, p. 124), se non addirittura a “convertirsi” (cosı` Xxxxxxx, Ghera, Pera, Treu, 1992, p. 4), recuperando una certa idoneita` qualificatoria della definizione dell’art. 2094, a suo tempo sottoposta ad impietosa analisi critica. A suo giudizio la formula definitoria barassiana, contraddittoria solo in apparenza, allude invece ad una subordinazione connessa al dato strutturale dell’organizzazione imprenditoriale: il legislatore si sarebbe infatti pronunciato per una subordinazione forte e sostanzialmente rigida, idonea a richiamare l’area di applicabilita` di una tutela “di base” (Xxxxxxxxx Vigorita 1986, p. 983; 1988, p. 32; 1989, p. 98), lasciando l’applicazione di altre e differenti garanzie a processi di altro tipo, sia legislativi che contrattuali, sia individuali che collettivi (Xxxxxxxx, 1988, p. 113), anche indifferenti rispetto alla qualificazione del rapporto (c’e` chi ha parlato di un diritto del lavoro “su due fasce”: Treu, 1987, p. 57). La frammentazione e la conseguente differenzia- zione delle tutele non emerge, allora, solo nei “dintorni” della subordinazione, ma anche all’interno del suo “nocciolo” piu` tradizionale (De Xxxx Xxxxxx, 1989, p. 116). Ed in tal modo il lavoro-QT, pur rientrando a pieno titolo in questo nocciolo, potrebbe esulare dalla “nuova” nozione di subordinazione.
In realta`, questa “subordinazione hard-core” (perche´ addensata tutta intorno al “nucleo duro”) e` concentrata solo sulle caratteristiche materiali delle prestazioni e vede in fin dei conti circoscritta la propria idoneita` qualificatoria all’area delle fattispecie concrete (in sostanza, il lavoro nella grande impresa industriale) che in realta` non hanno bisogno di qualificazione (Tosi, 1988, p. 125). Gia` queste critiche potrebbero troncare ogni discorso sulla mancata subordinazione di certi lavoratori-QT: all’interno del prototipo opera sempre e solo la subordinazione. Ma, poi, la stessa lettera dell’art. 2094 — lo si vedra` meglio in seguito — non pare fornire punti di appoggio per teorie “forti” o “pluralistiche” (come quella che distingue tre categorie caratterizzate dalla presenza di esigenze di “sicurezza” sempre piu` specifiche, alle quali riconnettere differenti livelli di tutela: Xxxxxx, 1989, p. 263). Il rilievo circa una non meglio determinata “forza contrattuale” ricostruibile, in ipotesi, in capo ad alcune figure di lavoro-QT non sembra davvero produrre, allo stato, effetti giuridici particolari, rivelandosi un semplice artificio descrittivo, utile semmai sotto il profilo socio- economico. Lo Xxxxxxxxx Xxxxxxxx che sembra aver ragione e` allora quello del 1967, che aveva riconosciuto come intorno al dato dell’art. 2094 nessuna operazione discretiva potesse essere seriamente imbastita (p. 142).
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5. La QT propone un nuovo modello organicistico?
La seconda conseguenza che il tema della QT potrebbe comportare sulle teorie della subordinazione e` di taglio completamente diverso dalla precedente, consistendo nell’enfa- tizzazione della dipendenza, o meglio di un certo suo aspetto, con la resurrezione di teorie “organicistiche” che sembravano morte da tempo.
La QT, nella sua duplice strutturazione collaborativa (sia tra i lavoratori stessi che tra questi e la direzione), potrebbe dare adito, infatti, a nuove prospettazioni, questa volta in chiave postindustriale, di suggestioni comunitarie e in qualche modo “partecipative” dell’impresa. Pare proprio che la “giapponesizzazione” delle relazioni di lavoro abbia portato a termine quanto non era riuscito, piu` o meno intenzionalmente, al corporativismo tedesco ed italiano. Se da noi tutto si e` risolto in una montatura scenografica, la Betriebsgemeinschaft resuscita proprio ad oriente, dove si va affermando una struttura dell’impresa di tipo “neofeudale”, fondata appunto sull’assenza di conflitto, sull’aspettativa datoriale a risultati superiori alla prestazione normale, sull’obbedienza, sull’impadronimento di ogni tempo esistenziale del lavoratore.
Il ritorno al “sentimento di appartenenza” all’azienda del nuovo lavoratore one dimension, rivisitato in una diversa chiave tecnologica neomedievale, potrebbe appunto fornire lo spazio perche´ possa tornare ad operare una visione personalistica e fiduciaria del rapporto, una subordinazione nuovamente organicistica. Nella neo-impresa dominata da quella che in Italia si chiama QT si instaura un clima collaborativo, partecipativo, “confidenziale”, di orgoglio aziendale. Il modello e`, quindi, non a caso l’“impresa-comunita`”, caratterizzata da un sistema orientato verso l’organizzazione, i cui principali scopi sono comuni a tutti i suoi membri e travalicano i loro interessi privati, dove il legame comunitario significa lavorare non solo per il denaro ma anche per la soddisfazione di contribuire ad uno sforzo collettivo,
dove percio` “i salari non sono visti come il risultato di una dura contrattazione antagonistica 9
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ma come una equa quota dei frutti degli sforzi condivisi” (Dore, 1990, p. 199). Quasi il contrario del vecchio “costituzionalismo aziendale” di Sinzheimer.
Non pare che, allo stato, tale ricostruzione abbia possibilita` di successo. Come si vedra` tra poco, il legame del lavoratore con l’azienda e` di tipo meramente funzionale ed il suo “inserimento” e la sua “organizzabilita`” rispondono ad esclusivi fini tecnici. In una parola, la struttura del rapporto di lavoro permane conflittuale, nel senso di reciproca indifferenza tra (gli interessi del)le parti. Se bisogna certamente prendere sul serio il Giappone, lo stesso non va fatto a proposito di queste “minacce” neo-organicistiche.
Fino a questo momento, infatti, non si ravvisano le condizioni per affermare giuridicamente tali nuove letture organicistiche, potenzialmente piu` pericolose di quelle corporative perche´ non costituite solo da una fragile e scoperta facciata di cartapesta. Il lavoro “nell’impresa”, la “collaborazione”, la “dipendenza”, la “fedelta`”, se possono suggerire realmente un modello simil-giapponese, descrivono in effetti — come si vedra` anche meglio — una struttura “indifferente” e non necessariamente partecipativa.
Il nodo e` quello dell’inserimento del lavoratore nell’“organizzazione”. E si tratta di un tema notissimo (da ultimo, Xxxxxxx, 1993, p. 123), sul quale e` il caso di ritornare solo breve- mente, dopo aver ricordato che l’opzione “organizzatoria” si e` ormai da tempo liberata della matrice comunitaria o istituzionistica (a partire da Persiani, 1966), tanto che ora si proclama tranquillamente la natura non necessariamente conservatrice del nesso tra contratto di lavoro e organizzazione (Liso, 1982, p. 30; piu` di recente, Perulli, 1992, p. 109 e A. Xxxxxxx, 1993, p. 267).
Indubbiamente, il contratto di lavoro mostra, oltre alla funzione di realizzare lo scambio lavoro-retribuzione, anche quella di costituire un’organizzazione di lavoro. Ma la portata di tale conseguenza va sensibilmente ridimensionata. Il nesso contratto-organizzazione va, cioe`, interpretato in modo “asettico”, tecnico-funzionale, ovvero di semplice “riferibilita`” della prestazione e del prestatore all’organizzazione produttiva, senza che da questo dato possano ritrarsi conseguenze ulteriori. Xxxxxxxxxx sarebbe infatti ritenere — come e` stato fatto — che l’interesse del datore, soddisfatto col contratto di lavoro, non sta tanto nel conseguimento del risultato produttivo, quanto nell’organizzazione del lavoro altrui — ovvero nel coordinamento dell’attivita` del lavoratore — in vista di tale risultato, se non addirittura nella piu` complessiva organizzazione aziendale (Persiani, 1966, p. 91).
Il lavoratore — e la sua prestazione — devono, invece, considerarsi indifferenti rispetto alle vicende successive dell’organizzazione. L’adempimento non va valutato sulla base dello svolgimento di un’attivita` utile al conseguimento da parte del datore di tale risultato (e qui il problema verrebbe trasferito in capo al lavoratore-QT, che dovrebbe farsi carico di fornire una tale prestazione). Il ruolo pregnante dell’inserzione del lavoratore nell’impresa va del tutto svalutato: la Eingliederung non evoca certo un’organizzazione letta come un prius rispetto al contratto di lavoro, ma rileva esclusivamente in termini funzionali, di mera “attribuibilita`” tecnica della prestazione ad una “struttura di riferimento”. La “fedelta`” non va letta al di la` dell’art. 2105, ovvero nel senso di integrare obblighi di comportamento non soltanto negativi. Per quel che piu` ci riguarda, la nozione di subordinazione non consente il recupero del requisito della collaborazione, letto come elemento del contratto di lavoro quale contratto di organizzazione, ne´ sta a costituire il mezzo con cui l’imprenditore indirizza la prestazione al fine unitario dell’organizzazione. La “collaborazione” codicistica, una volta depurata delle scorie corporative, e del tutto priva di valore qualificatorio (Xxxxxxx, 1957, p. 111; Xxxxxxxxx Vigorita, 1967, p. 43), e` indice meramente tecnico, cui rimangono estranee le finalita` produttive dell’impresa, specificativo dell’obbligo ordinario di eseguire l’obbligazione lavorativa con la diligenza richiesta (Xxxx Xxxxxxxxxxx, 1978, p. 123).
In una parola, il rapporto di lavoro continua ad essere strutturato in forma conflittuale, nel senso appunto di indifferenza al risultato. Altrimenti si finirebbe col far rivivere giuridica- mente l’interesse al risultato complessivo dell’organizzazione produttiva mediante l’inte- resse al coordinamento, evocando poi una spontanea tensione del lavoratore verso la realizzazione di tale risultato (Liso, 1982, p. 50). Nel lavoro-QT deve allora escludersi che l’organizzazione aziendale (strutturata sempre autoritariamente) sia in grado di far espri- mere un valore che e` nella esclusiva disponibilita` del lavoratore: il consenso, l’adesione consapevole e spontanea alle strategie e ai valori dell’impresa (Carabelli, 1991, p. 66).
Il legame con quella che si e` chiamata “struttura di riferimento della prestazione” assume percio` connotati tecnici, empirici. L’azienda — il Betrieb, per adoperare una suggestione tedesca forse piu` precisa (Xxxxxxxxx Vigorita, 1961, p. 101) —, lungi dall’integrare il ruolo
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pregnante che rivestiva nelle ricostruzioni istituzionistiche, o anche nelle teorie del contratto di lavoro come contratto a causa associativa o con elementi di associazione (Cessari, 1969,
p. 110), assume percio` il connotato di “organizzazione tecnica del lavoro” (Liso, 1982, p. 50), intesa comunque in un’ottica non meramente produttivistica, bensı` in grado di raccordare la valenza economica del lavoro con quella socio-politica (X. Xxxxxxx, 1991, p. 83).
L’imprenditore e` quindi un’autorita` privata, che pero` puo` esigere dal proprio dipendente solo cio` che e` funzionale allo scopo “tecnico” dell’organizzazione, sempre nei modi e nei limiti contrattualmente ammessi; e l’inserimento di fatto nell’impresa puo` essere interpre- tato non solo come fonte di obblighi relativi alle esigenze di questa, ma anche come fonte dell’attribuzione di diritti inerenti alla persona (Romagnoli, 1971, p. 540). La logica non puo` non essere, allora, conflittuale e antagonistica. Percio` — si e` detto — “tra risultato dell’organizzazione produttiva e comportamento dovuto, unico punto di mediazione giuri- dicamente rilevante [e`] dato dall’esercizio del potere di supremazia” (Liso, 1982, p. 59). Se pero` — come si e` ritenuto di fare in questa sede — di tale potere viene fornita una versione tecnica, se non “virtuale”, anche questo terreno minimo su cui contratto e organizzazione dovrebbero incontrarsi diventa di consistenza sempre meno compatta, e l’“organizzabilita`” della prestazione assume anch’essa contorni asetticamente tecnici e potenziali.
Inteso in questo senso, il rapporto con l’organizzazione serve a suffragare una nozione amplissima di subordinazione. L’“organizzabilita`” tecnica, oltre ad essere sicuramente elemento comune a tutte le fattispecie contenute nella lezione “classica” di subordinazione, lo e` anche riguardo ad altre fattispecie che abitualmente vengono ritenute esularvi, e che invece vi rientrano a pieno titolo proprio in virtu` del nesso tecnico tra lavoro e organizza- zione, in virtu` cioe` dell’“organizzabilita`” virtuale della prestazione. Questo dato non va inteso tanto nel senso di un comportamento esecutivo della prestazione che ne consenta l’organizzabilita` (cosı`, invece, X. Xxxxxxx, 1991, p. 147) — formula che rischia di rivelarsi ambigua perche´ allusiva a gia` superati profili di “utilizzabilita`” vista come effettiva produ- zione di “utilita`” —, quanto piuttosto — inquadrandolo dall’altro lato del rapporto — in termini di semplice attesa dell’adempimento dovuto. Un’osservazione del genere, proposta (da Xxxxxx, 1987, p. 330) per negare ogni valore qualificante alla rilevanza organizzativa del rapporto di lavoro, serve invece a rafforzare la tesi piu` ampia della subordinazione, di quella enorme struttura dall’aspetto indifferenziato e indifferente, che esce fuori da questo esame. Evidentemente, non a selezionare all’interno di essa. Emergono sempre piu` netti i contorni di una subordinazione “senza qualita`”.
Qualita’ totale e subordinazione Xxxxxxx Xxxxx
6. Dopo cinque risposte negative: contro una nuova teoria del rapporto di lavoro.
La conclusione che si vuole prospettare — occasionata dal breve riesame dei dati testuali e di alcune categorie generali che il tema della QT ha costretto a rivisitare — e` un po’ controcorrente rispetto alle piu` o meno recenti richieste di una complessiva revisione del tema teorico della subordinazione (queste riflessioni si trovano esposte piu` ampiamente in Gaeta, 1993).
In effetti, l’art. 2094 enuncia una formula assolutamente ampia ed onnicomprensiva, una nozione unitaria all’interno della quale rientra ogni tipo di lavoro “organizzativamente” legato ad una struttura di imputazione dell’attivita`. In questa formula normativa in realta` vuota ognuno ha inteso calare i propri contenuti, con un’operazione per lo piu` preconcetta e di taglio eccessivamente dogmatico.
La subordinazione, invece, essendo attenta soltanto a descrivere delle caratteristiche mini- mali, e` categoria poco selettiva ed ormai “indifferente” rispetto alla posizione economico- sociale del soggetto interessato, fagocitando al suo interno le situazioni piu` disparate: e` Xxxxxx ad affermare che ormai “dentro la subordinazione [...] c’e` di tutto”, e che questa tensione unitaria ha mortificato la tipicita` del diritto del lavoro, inteso come diritto del contraente debole (1992, p. 74). La subordinazione e` allora una nozione “per tutte le stagioni”, pronta a sfidare i secoli, e non perche´ particolarmente incisiva ma proprio perche´ non dice assolutamente nulla di realmente caratterizzante, ed e` piegabile ad ogni operazione teorica e ad ogni esigenza che dovesse emergere in una data contingenza e in un dato momento dell’evoluzione socio-economica. Se l’organizzazione del lavoro e le relazioni industriali seguono ritmi veloci e talora vorticosi, il diritto e` in genere molto piu` lento e pesante, e proprio per questo le sue categorie sono costruite con materiale quasi indistrut-
tibile (forse appunto perche´ anodino). 11
Ricerche Qualita’ totale
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In questo contesto trova giusta collocazione (o si appiattisce) anche il lavoro-QT, le cui potenzialita` innovative sul versante teorico sono davvero inesistenti. E se anche qualcuno dei soggetti coinvolti in questi processi si “sente” autonomo e comunque diverso da un lavoratore “tradizionale”, puo` venire utile ricordare come in realta` convincere lo stesso lavoratore della sua indipendenza ed infungibilita` sia sempre stata una delle strategie — o dei giochi di prestigio — piu` vecchi, dal lavoro a domicilio del secolo scorso in poi. Riguardo a questo fasullo senso — piu` o meno inconscio, piu` o meno indotto — di “autonomia” e di “liberta`”, potrebbe ripetersi quanto Xxxx Xxxxxxxxx diceva della professionalita` operaia, che ormai “acquista il sapore di una madeleinette” (1980, p. 99). Se non fosse che nel nostro caso questo “tempo perduto” non e` mai esistito.
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Diritto delle relazioni industriali N.1-1994
Il rapporto di lavoro dirigenziale nei sistemi di organizzazione aziendale ispirati alla “qualita’ totale”
Xxxxx Xxxxxx Xxxxxxxxx
1. Premessa: i modelli produttivo-organizzativi fondati sulla qualita` totale: ripercussioni sul tradizionale assetto del lavoro subordinato. 2. Il diverso rapporto tra contratto di lavoro subordinato e organizzazione: la tipicita` del contratto di lavoro dirigenziale si consolida. 3. Una generale ridefinizione dei contenuti professionali. La tendenziale espansione della categoria dei dirigenti: osservazioni critiche. 4. La valenza dei sistemi retributivi premianti e/o incentivanti nel rapporto di lavoro dirigenziale. 5. Considerazioni conclusive.
Sommario
1. Premessa: i modelli produttivo-organizzativi fondati sulla qualita’ totale: ripercussioni sul tradizionale assetto del lavoro subordinato.
Il recente sviluppo di sistemi di produzione ispirati alla c.d. qualita` totale induce ad una riflessione circa l’incidenza che le trasformazioni in atto possono avere sulla configurazione tradizionale del rapporto di lavoro.
La problematica non e` nuova per i giuslavoristi in quanto i mutamenti della realta` organizzativa industriale degli ultimi venti anni hanno gia` profondamente alterato l’im- pianto su cui si struttura la fattispecie tipica del lavoro subordinato e screditato il concetto della unita` e della uniformita` della fattispecie stessa.
Si pensi agli effetti della crisi economica degli anni ’70 ed alle correlate istanze datoriali di flessibilita` e deregolazione del tradizionale rapporto di lavoro dipendente o alla rivoluzione tecnologica degli anni ’80 che ha profondamente diversificato contenuti e forma della prestazione lavorativa nell’impresa informatizzata rispetto al monolitico modello prefigu- rato dalla legislazione protettiva (Pisani, 1988).
La richiesta di destandardizzazione e di frantumazione del tipo legale lavoro subordinato (Xxxxxx, 1989, p. 22 ss.) insieme con la messa in discussione di un’attuale valenza definitoria dei tradizionali indici della subordinazione (Ballestrero, 1987, p. 296), che ne sono seguite, hanno dato sostanza ad un intenso e vivace dibattito dottrinale (Xxxxx, 1988; Xxxxxxxxx Xxxxxxxx, 1989; Xx Xxxx Xxxxxx, 1989; Xxxxxxxx, 1989; D’Antona, 1988). Il concetto di subordinazione e` stato sottoposto ad una verifica circa la sua stessa “capacita` dinamica di ambientazione in nuove situazioni di rapporti e in nuove condizioni organizzative” (Grandi, 1989, p. 16) e si sono affrontati i problemi di qualificazione giuridica che derivano dalle modificazioni morfologiche della prestazione lavorativa nel nuovo contesto industriale.
L’indagine intorno ai problemi tecnico-giuridici determinati dalla recente evoluzione dei sistemi di organizzazione verso forme integrate e partecipative si sovrappone a questo dibattito costituendone anche una naturale prosecuzione. Non si puo` , infatti, accedere a schematizzazioni e ad interpretazioni che tendano a differenziare artificiosamente i feno- meni teste´ indicati.
Le trasformazioni produttivo-organizzative cui si e` appena accennato non si collocano in ambiti temporalmente demarcati, ma si intersecano e si sovrappongono dando luogo ad uno
sviluppo complesso ed articolato sul piano della realta` fattuale. Cosı` le ripercussioni sul 15
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sistema giuslavoristico — consistenti nella tendenziale articolazione del tipo lavoro subor- dinato, nella differenziazione delle tutele e nel ripensamento sui ruoli e le qualifiche professionali tradizionali — si inseriscono in un complesso trend evolutivo in cui l’identita` e la funzione del diritto del lavoro lentamente e costantemente si adeguano ai mutamenti socio-economici.
In questo senso, le problematiche indotte dai sistemi di gestione aziendale fondati sulla qualita` vanno spiegate, ed analizzate, tenendo conto dell’intreccio tra innovazione tecno- logica ed innovazione organizzativa e considerando la “varieta` e la instabilita` dell’organiz- zazione del lavoro ... oltre (che la) ... possibile convivenza nello stesso ambiente tecnologico di modelli organizzativi antitetici” (Perulli, 1989, p. 407).
Non e` difficile constatare, infatti, che accanto a nuovi sistemi di qualificazione professionale/ripartizione di mansioni e a nuove formule collaborative convivono “modelli ispirati ad una logica funzionale di tipo gerarchico e tayloristico... a bassi livelli di parteci- pazione degli operatori” (Xxxxxxx, 1989, p. 408). Il che induce ad evitare generalizzazioni e facili scorciatoie interpretative nonche´ a ridimensionare letture troppo spinte in ordine alla inadeguatezza dell’attuale struttura normativa del rapporto di lavoro.
Le trasformazioni subite dal ruolo manageriale al cospetto delle nuove esperienze di gestione aziendale costituiscono un aspetto peculiare della suaccennata problematica.
Allo scopo di compiere alcune riflessioni su tale profilo e segnatamente di tentare una valutazione circa il grado di compatibilita` delle mutate attribuzioni manageriali con la categoria professionale dei dirigenti delineatasi nel nostro ordinamento, appare opportuno preliminarmente indicare quali sono i punti di maggiore impatto tra nuova realta` produttiva e organizzazione del lavoro.
I sistemi di qualita` totale si fondano su una concezione profondamente mutata sia dei rapporti tra i diversi soggetti operanti nella struttura produttiva, sia del rapporto tra singolo operatore e organizzazione complessiva nonche´ sulla preminente importanza strategica attribuita ad alcuni valori e risorse a discapito di altri.
Il cambiamento sociale ed economico degli ultimi anni ha comportato sul versante della produzione industriale, caratterizzata ormai dalla liberalizzazione dei mercati internazio- nali, l’emergere di istanze che si evidenziano, dal lato della domanda, in una richiesta di beni e servizi ad elevato contenuto qualitativo, dal lato dell’offerta, in una rapido adeguarsi al mutamento, attraverso programmi di riorganizzazione del processo produttivo e riqualificazione/ricomposizione delle mansioni in vista di una integrazione e polivalenza delle funzioni.
Nella sua strutturazione fondamentale la tipologia d’impresa che si va affermando assume connotati profondamente diversi dal passato anche recente. Dall’organizzazione del lavoro di tipo ford-tayloristico verticalizzata e rigida, diretta a massimizzare le economie di scala nella produzione di grande serie, si passa ad un modello produttivo flessibile orientato al perseguimento di obiettivi mutevoli, imposti da una domanda oscillante e qualitativamente selettiva. I principi informatori della nuova filosofia produttiva sono la qualita` e la parteci- pazione attiva e responsabilizzata di tutti gli operatori della struttura la quale di conse- guenza, si diverticalizza e si decentra assumendo una struttura c.d. a rete (Steri, 1992, p. 11). Ne derivano alcune importanti conseguenze: la combinazione dei fattori produttivi si incentra non piu` sulla ricerca del massimo risultato quantitativo, ma sul raggiungimento di una qualita` che involga tutte le fasi del processo produttivo.
Vengono coinvolti nel processo qualitativo sia il fattore tecnologico sia il fattore umano, ma quest’ultimo assume un ruolo centrale. Se infatti le tecnologie informatiche nel decennio passato avevano alimentato l’illusione (o la preoccupazione) di uno sviluppo automatico e deterministico della produttivita`, accompagnato da un declinante valore dell’apporto umano, ad eccezione delle fasce piu` elevate di professionalita`, nella fase attuale le stesse tecnologie costituiscono invece un importante supporto ad un nuovo utilizzo del potenziale umano, divenuto ormai determinante.
Si concede, e si richiede, ai lavoratori di controllare i processi, di partecipare all’attivita` di problem solving e al decision making, di erogare, pertanto, attivita` di pensiero e creativa, influenzando le decisioni di carattere operativo.
In questo contesto valore preminente assumono il controllo ed il coordinamento, essendo indispensabile che tutti gli apporti umani, ai vari livelli, vengano valutati in tempo reale e convogliati verso la realizzazione dell’obiettivo via via identificato.
Viene in ausilio la tecnologia, non piu` come mero elemento di labour saving ma come
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strumento fondamentale di controllo della catena di qualita`, di realizzazione del coordina- mento umano e di circolazione delle conoscenze attraverso le tecniche di soft-ware.
Il lavoro umano diventa la risorsa piu` preziosa nella nuova cultura aziendale, e l’elemento sul quale si incentrano le manovre strategiche e di riorganizzazione del sistema produttivo. Esso, difatti, nella sua articolazione manageriale, professionale ed operazionale registra le trasformazioni piu` profonde.
In questo senso vanno registrati: un diverso rapporto tra contratto di lavoro e organizza- zione; una ridefinizione dei contenuti professionali di tutte le mansioni rispetto alla quale puo` divenire problematica la utilizzazione dei consueti criteri di classificazione del personale fondati sui tradizionali mestieri ben definiti e collocabili in uno specifico segmento del processo produttivo; una tendenziale evoluzione dei sistemi remunerativi del lavoro subor- dinato verso forme partecipative e/o incentivanti, maggiormente collegate alla quantita`/qualita` del lavoro prestato e al risultato finale dell’organizzazione.
La ripercussione dei nuovi modelli produttivi sugli assetti tradizionali del lavoro dipendente teste´ elencate, andranno esaminate non in un’ottica globale, ma nella piu` limitata prospet- tiva manageriale. Si porra` al centro dell’indagine la figura del dirigente in riferimento alla quale sembra opportuno, nell’attuale contesto, domandarsi se la stessa costituira` il punto di approdo di una nuova cultura e configurazione del lavoro nell’impresa e se, di conseguenza, la categoria sociale e giuridica che di essa e` espressione sia destinata a perdere la sua connotazione di specialita` di fronte ad un esproprio progressivo dei suoi tratti caratteristici ad opera di altre figure lavorative; o se, invece, la stessa si presti ancora a cogliere una fondamentale differenziazione all’interno del lavoro subordinato.
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2. Il diverso rapporto tra contratto di lavoro e organizzazione: la tipicita’ del contratto di lavoro dirigenziale si consolida.
Per quanto concerne il rapporto tra dirigente ed organizzazione va subito sottolineato che il passaggio da una struttura produttiva ed organizzativa sequenziale e segmentata ad una struttura integrata e partecipativa mette in crisi la tipica “collocazione” verticistica del dirigente.
Il venir meno, infatti, della meccanica e rigida tipologia organizzativa d’impresa fondata su un’articolazione dai forti connotati gerarchici e il progressivo realizzarsi di istanze di coordinamento di natura collegiale conducono a una svalutazione del criterio discretivo della figura dirigenziale fondato sulla responsabilita` esclusiva delle scelte strategiche.
L’immagine professionale del dirigente e` quindi destinata, in un certo senso, a sbiadire nelle nuove forme di organizzazione partecipativa e flessibile dove alla verticalita` dei poteri decisionali e delle conoscenze/scelte strategiche e alle responsabilita` apicali si sostituiscono la circolarita` delle informazioni, la condivisione degli obiettivi e, quindi, il consenso sulle scelte operative nonche´ l’assunzione delle responsabilita` relative ai singoli obiettivi.
La ricerca della qualita`, inoltre, impone una costante verifica della stessa sin dalla proget- tazione piuttosto che un semplice controllo ex post sul prodotto finale, dimodoche´ anche la funzione di controllo, cosı` come quella direzionale, finisce per distribuirsi lungo tutta la scala della attivita` professionali presenti in azienda ulteriormente depauperando il bagaglio delle prerogative manageriali.
In questo nuovo approccio la qualita` totale consente di raggiungere determinati obiettivi non attraverso un massiccio ricorso a controlli tecnico-burocratici, bensı` grazie all’apporto per- sonale di ogni membro del sistema azienda. “Questo ruolo di controllo del sistema produttivo attribuito al fattore umano si esplicita in tre dimensioni: un miglioramento incrementale del- l’hardware, ovvero della struttura tecnica in senso stretto; una funzione di self-management del processo produttivo, in base all’assunto che i lavoratori che operano in reparto sanno me- glio cio` che sta accadendo sulla linea di produzione e spesso hanno piu` informazioni sull’at- tivita` produttiva attuale degli stessi tecnici; un compito di self-inspection, con autorita` e re- sponsabilita` di controllo sulla qualita` dei prodotti” (Ambrosini, 1991, p. 50).
Accanto a questi apporti individuali di partecipazione integrata al sistema produttivo esistono forme di coinvolgimento collettivo che si realizzano attraverso la creazione di gruppi di lavoro: “Si tratta in effetti di modalita` di lavoro in piccole subunita` piu` o meno aperte e piu` o meno stabili (isola, task force, team di produzione, team tecnologico, area integrata), in cui si osservano, alternativamente o contemporaneamente, tendenze a una
maggiore adattabilita`/fungibilita`, responsabilita`, iniziativa, cooperazione, autoregolazione 17
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nei ruoli dei componenti del gruppo, e del gruppo nel suo insieme, rispetto alla rigida divisione dei compiti, alla minuziosa prescrizione delle procedure, all’integrazione di tipo gerarchico-burocratico tipiche delle logiche organizzative tradizionali” (Regalia, 1993, p. 517).
I gruppi di lavoro c.d. circoli di qualita` presentano, rispetto alle forme di lavoro organizzato per gruppi in genere, l’aspetto ulteriore di perseguire dichiaratamente l’obiettivo della qualita`, attraverso l’individuazione, l’analisi e la risoluzione dei problemi riguardanti un’area di lavoro omogenea.
Essi sono stati introdotti anche in Italia, nei primi anni ’80, sulla scorta delle esperienze giapponesi ed europee (Gran Bretagna, Francia) ed hanno costituito un tentativo di ottenere risultati di maggiore produttivita` in termini sia quantitativi che qualitativi, attra- verso il coinvolgimento dei lavoratori negli obiettivi di impresa.
La vera ricchezza di questi strumenti, se inseriti in programmi piu` vasti volti al persegui- mento della qualita` totale ed improntati a logiche partecipative e non autocratiche risiede “nella capacita` che essi possiedono di motivare le persone, di farle sentire compartecipi di un progetto, perche´ pienamente inserite in un canale comunicativo e di scambi di informa- zioni, di permettere loro di prendere decisioni operative...” (Xxxx, 1988, p. 16).
Esperienze di questo tipo , in un’ottica di tendenziale sviluppo delle stesse, mettono in crisi la tradizionale contrapposizione tra contratto di lavoro subordinato e organizzazione; contrapposizione tesa ad “...arginare la trasposizione (sul piano del rapporto individuale) delle esigenze dell’apparato produttivo e ... (ad) evitare cosı` ogni pericolosa suggestione di intrinseca funzionalita` del rapporto stesso al dato tecnico-organizzativo” (Xx Xxxx Xxxxxx, 1976, p. 105).
La posizione debitoria del lavoratore subordinato, secondo la configurazione antagonistica del rapporto tra contratto e organizzazione e` estranea ad “ogni autonoma e spontanea tensione ... verso la realizzazione del risultato dell’organizzazione (Liso, 1982, p. 52; Xxxxxxx, 1993, p. 269), perche´ e` solo l’esercizio del potere di supremazia, attraverso le disposizioni per l’esecuzione e il coordinamento della prestazione lavorativa a determinare, e dimensionare, la convergenza tra impegno obbligatorio e interesse al risultato finale dell’organizzazione produttiva (Liso, 1982, p. 59 ss.).
La subordinazione risulta, conseguentemente, caratterizzata da un facere necessariamente e puntualmente eterodeterminato e coordinato laddove l’individuazione degli obiettivi inter- medi e finali dei comportamenti individuali necessari per la realizzazione del risultato finale e` di competenza dell’imprenditore o di colui che e` delegato ad esercitare il potere direttivo. La diversa intensita` della partecipazione all’iter produttivo, richiesta ai lavoratori nei nuovi modelli organizzativi, innesta, invece, “...nella naturale logica antagonistica del rapporto di lavoro subordinato, spinte al coinvolgimento negli obiettivi dell’organizzazione” (Zoppoli, 1993, p. 276) ed inietta nel cuore stesso della subordinazione “elementi di marcata discre- zionalita` tecnico-operativa” (Perulli, 1989, p. 410).
Le conseguenze di tutto cio` consistono in una nuova rilevanza dell’elemento organizzativo all’interno del rapporto individuale di lavoro, e in un affievolirsi della valenza qualificatoria dell’elemento eterodirezione, ai fini della ricognizione del prototipo normativo lavoro subordinato.
Nella prospettiva del lavoro dirigenziale tali modifiche nella struttura e nell’atteggiarsi della prestazione lavorativa subordinata stanno a significare un progressivo offuscamento di taluni tratti di specialita` della figura in esame.
La tradizionale e circoscritta “delega” di poteri imprenditoriali su cui si fonda in gran parte la ricostruzione della categoria in oggetto e che si basa sull’elevata specializzazione e competenza, diviene delega diffusa, impermeandosi sulla flessibilita` e creativita` di tutte le prestazioni lavorative.
In questo senso uno degli aspetti qualificanti la prestazione dirigenziale e cioe` l’attribuzione di poteri d’iniziativa, di direzione e di controllo, tipici del datore di lavoro, al fine del perseguimento degli obiettivi (compartecipati) dell’impresa, viene a perdere il carattere di specialita` che consentiva di collocare il dirigente in una posizione del tutto atipica all’interno del lavoro subordinato. Si puo` dire, forse un po’ semplicisticamente, che la subordinazione, atteggiandosi piu` come “cooperazione” che come “soggezione” (Carinci, 1985, p. 203) acquista, nel suo complesso, caratteri “lato sensu” dirigenziali.
Pertanto appare quanto mai opportuno, nell’attuale contesto, affermare che la “manage- rialita`” e` “un modo di essere che caratterizza l’intera struttura produttiva ed i suoi
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meccanismi d’azione; in tal senso, quindi e` una qualita` che ... permea l’organizzazione nella sua globalita` e ne condiziona tutte le manifestazioni, dalle modalita` di determinazione degli obiettivi alle tecniche di verifica del risultati” (Xxxxxxx, 1993, p. 263).
Oltre a perdere di intensita` dal punto di vista delle prerogative direttive e di controllo la prestazione di lavoro del dirigente si sgancia dal tradizionale modello organizzativo fondato sulla netta demarcazione tra ruoli di conoscenza (manager) e ruoli di mera esecuzione (managed).
Secondo questa concezione, propria del sistema ford-tayloristico, conoscere e fare possono essere separati, difatti i livelli manageriali di tipo gerarchico nascono per coordinare informazioni frammentate e limitate abilita`.
Questa impostazione ha comportato un accentramento delle conoscenze tecnologiche e gestionali nei livelli dirigenziali. “Il processo di comunicazione interna all’impresa tradizio- nale rispecchia questa impostazione organizzativa: quello che importa e` far pervenire ai diversi operatori aziendali istruzioni precise su cosa fare e su come, dove e quando operare. Tutto cio` che non e` contenuto in queste istruzioni e` di competenza dei livelli superiori” (Xxxxxxxxx, 1990, p. 18).
Nella nuova impresa fondata sulla partecipazione, mobilitazione delle energie e creativita` di ogni operatore, la circolarita` delle informazioni costituisce invece una condizione fondamen- tale di sviluppo. E` necessario, quindi, che i lavoratori mobilitino verso l’alto i loro “saperi derivanti dall’esperienza diretta delle tecnologie, dei materiali e dei processi, per fornire un contributo attivo all’innovazione” (Xxxxxxxxx, 1989, p. 340) e che i dirigenti comunichino verso il basso le informazioni piu` importanti relative all’impresa, al suo mercato e ai suoi pro- blemi, “con l’esplicito intento di rendere l’impresa comprensibile a tutti gli operatori ed ele- vare quindi il livello di consapevolezza delle situazioni aziendali” (Trabucchi, 1990, p. 20). Ne deriva che il “ruolo interno” del dirigente si “sostanzia in un’autorita` sempre meno imposta e sempre piu` accettata da parte di persone che devono essere gestite, nell’ambito di strutture organizzative flessibili, e non guidate da un unico centro di competenza, e con uno stile di direzione sempre meno ‘autocratico’ e sempre piu` ‘consultivo’ tale da riuscire a coinvolgere tutti gli attori dell’impresa” (Xxxxxxxxxx, 1990, p. 163).
A conclusione delle considerazioni esposte circa il diverso rapporto tra prestazione di lavoro subordinato e organizzazione e circa l’affievolirsi di alcune tipiche attribuzioni manageriali, deve affermarsi che, sostanzialmente, le modificazioni descritte non alterano il rapporto tra prestazione di lavoro dirigenziale ed organizzazione, laddove per organizzazione si intende l’assetto di interessi che caratterizza la posizione del datore di lavoro.
La specificita` del tipo di lavoro dirigenziale risiede nel “contenuto gestorio” dello stesso e “negli elementi antagonistici che questo (contenuto) introduce all’interno dello schema tipico del lavoro subordinato” (Xxxx, 1974, p. 152).
Il lavoro subordinato, infatti, e` caratterizzato dall’antitesi rispetto all’interesse datoriale al risultato produttivo; la collaborazione diretta e immediata del dirigente all’attivita` impren- ditoriale implica, invece, “una valutazione del regolamento contrattuale che privilegia il momento della convergenza di interessi piuttosto che quello della conflittualita`” (Xxxx, 1974, p. 155).
Se il dirigente, almeno nella versione piu` selettiva dell’alter ego elaborata dalla giurispru- denza, e` il lavoratore che esplica la propria attivita` con larghi poteri discrezionali, con ampia autonomia e piena liberta` di determinazione di scelte che influenzano l’intera vita del- l’azienda o di un ramo importante di essa (1), cio` significa non soltanto che l’intervento del datore di lavoro non puo` andare oltre l’emanazione di direttive di massima o puramente programmatiche, ma anche e soprattutto che l’attivita` del dirigente e` omogenea e allineata a quella dell’imprenditore essendo costituita, essenzialmente, da prerogative organizzative e direttive volte ad incidere sull’andamento dell’intero organismo aziendale.
Pertanto, poiche´ il contratto di lavoro attribuisce al dirigente l’essenziale funzione impren- ditoriale di incidere sulle sorti dell’intera impresa, al dirigente stesso ” ...non puo` non chiedersi la realizzazione dell’interesse ultimo dell’imprenditore, che coincide, senza alcun dubbio, con il risultato dell’intera organizzazione della produzione...” (Xxxxxxx, 1993, p. 296).
Ne consegue che l’organizzazione complessiva rileva direttamente nel programma nego- ziale, il quale non sara` volto a delimitare la sfera dei poteri datoriali in funzione della liberta`
(1) Tra le sentenze piu` recenti in tal senso: Cass. 12 dicembre 1989 n. 5509, in Mass. Foro It., 1989; Cass. 20 agosto 1991 n. 8975, in Mass. Foro It., 1991.
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del lavoratore (secondo lo schema del lavoro subordinato) ma ad operare una sorta di distribuzione dei poteri volti al perseguimento di uno scopo che puo` considerarsi comune ad entrambi i contraenti (imprenditori e dirigente) (Xxxxxxx, 1993, p. 295 ss.).
Se la funzione tipica del dirigente e` quella di raggiungere gli obiettivi aziendali, l’integra- zione con i fini produttivi che la qualita` totale richiede, valorizza al massimo il rapporto tra dirigente e complesso organizzativo esaltando la connotazione atipica del contratto di lavoro dirigenziale: l’identificazione o quanto meno la sovrapposizione tra interesse del datore di lavoro e interesse del lavoratore.
3. Una generale ridefinizione dei contenuti professionali. La tendenziale espansione della categoria dei dirigenti: osservazioni critiche.
Le osservazioni alquanto teoriche sulla accentuata rilevanza dell’organizzazione nell’assetto di interessi tipico del contratto di lavoro dirigenziale, lasciano il posto a considerazioni molto piu` pragmatiche allorche´ si passa ad analizzare il piano dell’incidenza, delle modifi- cazioni produttive in atto, sul tradizionale sistema di classificazione dei lavoratori.
La mobilitazione delle risorse umane imposta dalla sfida della qualita` viene a configurarsi nei termini di una elevata disponibilita` dei lavoratori, a “...finalizzare consapevolmente il proprio comportamento attuativo dell’obbligazione lavorativa all’obiettivo di ottimizza- zione dei risultati dell’impresa...” (Xxxxxxxxx, 1991, p. 65).
Cio` comporta l’acquisizione di un nuovo concetto di professionalita` connotato oltre che dalle specifiche competenze tecniche di base, dai caratteri della polivalenza e della flessi- bilita` funzionale. La valutazione della prestazione lavorativa tende di conseguenza ad incentrarsi, in un contesto produttivo dinamico ed orientato da una domanda mutevole, sulla “capacita` di padroneggiare segmenti allargati del processo produttivo, di apprendere rapidamente nuove mansioni o il funzionamento di nuove macchine, si saper gestire ruoli professionali piu` complessi” (Xxxxxxxxx, 1989, p. 334).
Ecco che allora “scompaiono chiarezza e stabilita` di strutture entro cui ricoprire mansioni e posizioni chiare entro cui sviluppare una carriera prevedibile” (Xxxxxxx, 1989, p. 414) e si determina una rapida obsolescenza del tradizionale sistema di classificazione del personale fondato sui livelli di competenza, differenziati per qualifiche e categorie sulla base della rilevanza concreta delle mansioni statiche o su una generica valorizzazione dell’autonomia e della responsabilita` (vedi la categoria dei dirigenti).
Il problema, che ne consegue, di pianificazione e riqualificazione della forza lavoro involge delle conseguenze di ordine pratico di non scarso rilievo, dal momento che l’inquadramento del lavoratore in una determinata categoria costituisce tuttora l’essenziale parametro di riferimento per la determinazione della concreta disciplina del rapporto.
Il discorso, applicato alla categoria dirigenziale, offre un duplice spunto di riflessione. Da un lato, l’attuale fluidita` dei connotati tipici della categoria e la tendenziale proliferazione delle figure di dirigente rischiano di accentuarsi al cospetto del progressivo accedere delle prestazioni lavorative nella grande impresa ai caratteri di autonomia, informalita` e poliva- lenza. Dall’altro lato la caratteristica connotazione in negativo della disciplina legale del lavoro dirigenziale, consistente nell’esclusione dall’ambito di applicazione di alcune rilevanti normative a carattere protettivo, richiede un’attenta valutazione circa la sussistenza, in ogni prestazione che si fregi degli attributi della managerialita`, di quegli elementi che giustifi- xxxx, in base alla ratio della singola disciplina, la non applicazione della stessa alla categoria dei dirigenti.
La figura del dirigente nel nostro ordinamento e` la risultante di una integrazione complessa tra definizione legale, elaborazione giurisprudenziale, declaratorie contrattuali alle quali puo` aggiungersi il contributo derivante dalla prassi del riconoscimento formale attraverso l’attribuzione convenzionale della qualifica (Tosi, 1974, p. 46 ss.; Xxxxxxxx, 1991, p. 1 ss.). Sulla base dell’art. 2095 c.c. che nel prevedere la nota tricotomia distintiva dei prestatori di lavoro (dirigenti amministrativi o tecnici, impiegati, operai), rimanda alle leggi speciali e alle norme corporative l’individuazione di requisiti di appartenenza, si e` sviluppato un proce- dimento di qualificazione del tipo, all’interno del quale la giurisprudenza ha svolto un ruolo centrale. Questo sia perche´ essa, in pratica, ha assolto il compito di enucleare la nozione legale di dirigente in assenza di leggi speciali, sia perche´ la contrattazione collettiva raramente perviene a definizioni della qualifica dirigenziale, richiamandosi nella maggior parte dei casi, agli indici qualificatori elaborati dalla giurisprudenza, in un processo di
20 continuo rinvio dall’una all’altra fonte.
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L’individuazione dei requisiti di appartenenza alla categoria dei dirigenti che ne deriva appare fortemente irrigidita intorno al criterio prevalente “della funzione sostitutiva del- l’imprenditore”.
In base ad esso il dirigente viene definito come l’alter ego dell’imprenditore cui competono poteri di supremazia gerarchica sugli altri dipendenti e di autodeterminazione e la cui collaborazione appare connotata dal carattere spiccatamente fiduciario e da una subordi- nazione esclusiva e diretta nei confronti del datore di lavoro.
Gli sviluppi della realta` economica e produttiva con il conseguente emergere di nuove tipologie organizzative e strutturali dell’azienda, depotenziano il valore qualificatorio di alcuni indici, quali quelli della rappresentanza e dell’autonomia genericamente intesi, o quello del vincolo di dipendenza diretta dall’imprenditore; indici che assumono la piccola impresa come dato referente del contesto organizzativo in cui si svolge la prestazione. “Al contempo compaiono anche nuovi criteri che attribuiscono importanza alla partecipazione del dirigente al coordinamento delle attivita` generali” (Xxxxxxx, 1990, p. 125). Nello sviluppo, quindi, dell’elaborazione giurisprudenziale viene tendenzialmente ad assumere rilievo centrale un elemento che sembra assurgere a vero e proprio criterio descrittivo della immediata derivazione della figura dirigenziale da quella imprenditoriale: la possibilita` di imprimere un indirizzo ed un orientamento all’attivita` di tutta l’azienda e di uno dei suoi rami principali, influenzano l’intero organismo aziendale (Zoppoli, 1990, p. 126). Si identi- fica, cosı`, nella convergenza tra gli interessi sottostanti alla posizione dirigenziale e interessi del datore di lavoro il tratto tipizzante la posizione del dirigente; tratto che consentira` anche di attribuire una particolare valenza all’elemento fiduciario del relativo rapporto di lavoro (Xxxx, 1974, p. 153) in funzione soprattutto di deroga alla disciplina di tutela contro il licenziamento individuale.
Non di meno il dato emergente dall’opera della giurisprudenza risulta, fino ai giorni nostri, estremamente elitario e restrittivo, non tenendo in conto l’emersione di figure che (seppure non investite di poteri direttivi o decisionali) nella valutazione dell’ambiente sociale e del lavoro appartengono al gruppo dirigenziale “o per il contenuto specializzato delle mansioni o per la funzione ausiliaria ma insostituibile che esplicano nei riguardi di organi propria- mente direttivi” (Xxxx, 1974, p. 80).
Xxxxxxxx´ accanto alla figura di dirigente tracciata dalla giurisprudenza, di alto profilo e for- temente selettiva, riferibile a quella e´lite usualmente definita top management, si staglia una varieta` di posizioni differenziate che insieme compongono il quadro del complesso ruolo di- rigenziale. In questa prospettiva di progressiva divaricazione tra la nozione giurisprudenziale unitaria dell’alter ego e modelli dirigenziali emergenti nella realta` organizzativa del lavoro si collocano sia un secondo orientamento della giurisprudenza volto a conferire valore primario alle declaratorie contrattuali nel procedimento di qualificazione del tipo (2) (Tosi, 1974,
p. 60), sia la prassi del riconoscimento formale operato dal datore di lavoro consistente nel- l’attribuzione convenzionale della qualifica di dirigente (Tosi, 1974, p. 60).
“Per questa via la nozione monolitica di dirigente si scioglie aprendo spazi all’autonomia ne- goziale collettiva e alle dinamiche concrete dell’organizzazione imprenditoriale” (Xxxxxxxx, 1990, p. 174) in perfetta aderenza con i caratteri di ambiguita` e complessita` oggettiva del ruolo dirigenziale e in sintonia con la esigenza, esposta dall’art. 2095 c.c., 2o comma, di desumere la categoria “in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura d’impresa”. Se la varieta` del tipo trova un preciso riconoscimento da parte della giurisprudenza e` pur vero pero` che, da un lato, i contratti collettivi sono alquanto indeterminati sul punto ricalcando sovente le definizioni giurisprudenziali, dall’altro, le ipotesi di riconoscimento convenzionale vengono svuotate di rilevanza giuridica qualificatoria allorche´ la giurispru- denza si riserva di disconoscere l’attribuzione della qualifica laddove — in riferimento a controversie che abbiano per oggetto tutele legali — il profilo effettivo delle mansioni svolte configuri, per la carenza di un effettivo potere direzionale, un’ipotesi di pseudo-dirigente (Xxxx, 1974, cap. II; Xxxx 1977; Fabris, 1984; Vallebona, 1981) (3).
Da questi passaggi complessi legge-giurisprudenza-contratti, sulle cui implicazioni non ci si puo` ulteriormente soffermare, sembra essere derivata una fondamentale ripartizione nella categoria: top managers da un lato, ossia dirigenti posti al vertice delle posizioni di comando con prerogative di coordinamento e gestione delle risorse al massimo livello e quindi con
(2) In questo senso: Xxxx. 9 giugno 1990 n. 5608, in Mass. Foro It., 1990; Cass. 8 marzo 1990 n. 1877, in Mass Foro It., 1990.
(3) Al riguardo x. Xxxx. 29 gennaio 1989 n. 537, in Mass. Foro It., 1989.
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potere tanto ampio da incidere sulla vita dell’intera azienda, e restanti dirigenti dall’altro. In questa seconda fascia andrebbe collocata la dirigenza di staff o funzionale che si pone a lato dei vari livelli gerarchici direttamente investiti di compiti di responsabilita`, determi- nando, talvolta con ampi poteri, i presupposti indispensabili per l’assunzione delle scelte generali, e la dirigenza tecnica, caratterizzata da conoscenze scientifiche altamente specia- listiche o capacita` operative peculiari, tali da apportare un contributo fondamentale e irrinunciabile all’attivita` dell’azienda (Tosi, 1974, p. 80; Xxxxxxx, 1990, p. 132.).
Sembra che nell’attuale contesto tecnologico/produttivo la fluidita` e la dinamicita` della categoria dirigenziale sia destinata ad accentuarsi. La concezione elitaria dell’alter ego, identificantesi con un livello dirigenziale di vertice non sara` toccato dall’evoluzione in atto e continuera` ad accorpare le prerogative di direzione strategica a livello economico ed organizzativo, mentre ai livelli inferiori si registrera` un movimento ascensionale, ossia una tendenziale espansione e proliferazione delle figure dirigenziali. Le nuove competenze richieste al personale, la flessibilita` e l’adattabilita` ai mutamenti della produzione, la capacita` di organizzare la propria attivita` lavorativa ma anche di coordinarsi all’interno di gruppi di lavoro in un’ottica di condivisione degli obiettivi aziendali, in pratica lo sviluppo delle caratteristiche dell’autonomia e della compartecipazione all’interno di tutte le fasce professionali, significa diffusione della cultura manageriale, appropriazione di importanti attribuzioni manageriali da parte di altre categorie di lavoratori.
Se e` vero allora che al di sotto del primo livello dirigenziale, il confine tra la sfera dei dirigenti e sfera piu` alta degli impiegati direttivi e` sempre stata alquanto incerta e collegata alla prassi aziendale e alle esigenze di mercato e se e` vero che “...le posizioni di lavoro (anche operaie e impiegatizie) nell’impresa (...) si manifestano sempre piu` in una progres- sione pressoche´ continua dal basso verso l’alto, nella quale e` difficile se non impossibile determinare con sicurezza il gradino iniziale e quello terminale” (Tosi, 1974, p. 88), l’attuale riqualificazione del personale condurra` ad una richiesta sempre crescente di riconoscimento della qualifica di dirigente da parte di impiegati direttivi con elevata competenza professio- nale e poteri di coordinamento e comando su una quota di lavoratori sottordinati.
Accanto a questa tendenza espansiva, della categoria dirigenziale, si puo` considerare un altro possibile percorso evolutivo, non necessariamente alternativo.
E` ragionevole, infatti, pensare che la sostituzione all’interno dell’impresa di relazioni di tipo gerarchico e piramidale con istanza di carattere collegiale, e l’emersione, anche all’interno delle altre categorie di lavoratori, dei tratti di autonomia, responsabilita` e cointeressenza tipici della figura tradizionale di dirigente possa far scadere il valore discretivo di un modello fondato sulla titolarita` del potere direttivo e, in ragione anche della sempre crescente necessita` di altissimo apporto tecnico e specialistico, conferire preminente importanza al contenuto tecnico delle mansioni cui finora sembra essere stata prestata scarsa attenzione ai fini della ricognizione della categoria dirigenziale. In tale prospettiva non sara` piu` , o non sara` piu` principalmente, l’aspetto gerarchico o quello della spiccata autonomia ed incidenza sull’attivita` di tutta l’azienda a caratterizzare il lavoro del dirigente ma i connotati di alta specializzazione tecnica delle mansioni, intorno ai quali tendono a svilupparsi posizioni apicali all’interno dell’organizzazione aziendale.
In una prospettiva di riorganizzazione dell’inquadramento dei lavoratori, il problema del trattamento normativo applicabile acquista nuovo rilievo. Cio` vale particolarmente per i dirigenti in relazione ai quali si e` posta anche in passato la questione relativa alla fonte dalla quale attingere la nozione di dirigente cui si riferiscono le deroghe legali alle discipline di tutela del prestatore di lavoro (Xxxx, 1974, p. 94 ss. e p. 155 ss.; Xxxx, 1977; Vallebona, 1981; Fabris, 1984). Sia che si ritenga che il riferimento debba essere individuato nella categoria legale ed oggettiva, quale risultante non da leggi speciali ma dall’elaborazione giurispru- denziale (Liso, 1977, p. 1127; Pera, 1972, p. 436-437), sia che, invece, si ritenga che “la categoria in questione sia destinata ad assumere — nella stessa logica dell’ordinamento — i connotati e i confini richiesti volta a volta dal particolare profilo da cui e` riguardata la condizione di dirigenti” (Tosi, 1974, p. 94) e` necessario, oggi piu` che mai, accedere ad un’interpretazione restrittiva delle leggi derogatorie ed in particolare dell’esclusione dalla disciplina limitativa dei licenziamenti (Zoppoli, 1990, p. 133).
Il diffondersi, infatti, di forme di partecipazione dei lavoratori ed un’intensificazione del contenuto della collaborazione ex art. 2094 c.c., sotto forma di ricaduta all’interno del vincolo obbligatorio di una certa quota del risultato finale dell’organizzazione, non valgono certo a dissimulare la conflittualita` esistente nel rapporto di lavoro subordinato tra interesse datoriale e interesse del singolo lavoratore. Ecco perche´, una tendenziale espansione della
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categoria dirigenziale, nel senso che si e` dianzi precisato, che non sia accompagnata da una contemporanea acquisizione, all’interno delle nuove figure, del carattere gestorio proprio della prestazione lavorativa dell’alter ego in senso stretto, ossia della convergenza di obiettivi tra dirigente e imprenditore, non consente una corrispondente espansione della sfera di esclusione dall’ambito operativo della legge sui licenziamenti individuali. E` quanto mai appropriato, dunque, nell’attuale contesto accreditare di validita` “la premessa meto- dologica secondo cui le norme che statuiscono specifici profili di disciplina mantengono la loro autonomia rispetto alle disposizioni definitorie, imponendo all’interprete di sottoporre a controllo la relazione di coincidenza tra le une e le altre, in dipendenza del contenuto e della ratio delle prime” (Tosi, 1974, pp. 94-95).
Ne discende che la disciplina sui licenziamenti individuali, cosı` come la legge sull’orario di lavoro (r.d.l. 15 marzo 1923 n. 692) o la legge sul riposo settimanale e domenicale (l. 22 febbraio 1934 n. 370) andranno applicate nei confronti dei dirigenti intermedi e inferiori “per i quali non e` possibile far ricorso ne´ all’oggettiva diversita` dagli altri lavoratori, ne´ all’esistenza di un rapporto fiduciario” (Xxxxxxxxxxx, 1975, p. 310) “e che siano sforniti di diretta responsabilita` e di poteri di organizzazione (...) e per contro assoggettati ad una rigida predeterminazione e al controllo del loro orario di lavoro” (Xxxx, 1974, pp. 111-112) (4).
A margine di queste osservazioni circa le ripercussioni delle innovazioni organizzative sulla tradizionale configurazione del dirigente, va segnalata una diversa valutazione della fun- zione dirigenziale all’interno dell’impresa ispirata al modello della qualita` totale. La risorsa dirigenziale, nel senso piu` moderno ed attuale di capacita` manageriale, diviene fondamen- tale per lo sviluppo del nuovo progetto organizzativo, ed assume dimensioni specifiche. Una rilevanza precipua viene attribuita alla gestione delle risorse umane sia sotto l’aspetto della valutazione del personale, sia sotto l’aspetto dell’integrazione e del coinvolgimento moti- vazionale dei singoli dipendenti (Lucertini-Toscano, 1986).
In relazione al primo profilo viene in rilievo l’attivita` di selezione, di pianificazione e sviluppo del personale che richiede, in un sistema improntato al perseguimento di obiettivi di qualita` totale, una elevata capacita` di misurare il grado di compatibilita` del singolo lavoratore con le caratteristiche professionali della posizione lavorativa in un’ottica di ottimizzazione del risultato della singola prestazione lavorativa e di integrazione funziona- lizzata della stessa al contesto organizzativo (Gatta, 1990).
Con riguardo al secondo profilo emerge una dimensione particolare dell’attivita` manage- riale: la capacita` di comunicazione. “Oggi un’impresa gioca il suo futuro non solo definendo la propria strategia e il proprio rapporto con il mercato, ma anche sviluppando una forte capacita` di dialogo con i suoi interlocutori” (Xxxxxxxxx, 1990, p. 15). Sul versante interno la comunicazione diviene una delle piu` importanti leve di gestione del personale sia perche´ consente di ottenere una interiorizzazione dei valori aziendali da parte dei dipendenti, sia perche´ costituisce lo strumento piu` idoneo a realizzare il consenso, inteso come disponibilita` del personale a finalizzare consapevolmente il proprio comportamento agli obiettivi del- l’impresa (Testa, 1991).
La capacita` di ascoltare, motivare, negoziare nella relazione con i collaboratori diviene allora parte integrante delle competenze manageriali, arricchendo di nuova professionalita` la categoria dirigenziale a tutti i livelli nei quali sia presente una sia pur minima attivita` di coordinamento delle risorse umane.
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4. La valenza dei sistemi retributivi premianti e/o incentivanti nel rapporto di lavoro dirigenziale.
In una logica di rispondenza, diretta o indiretta, alla flessibilita` produttiva e occupazionale richiesta dal sistema industriale si sono sviluppate recentemente forme di c.d. retribuzione flessibile che si pongono in rapporto di discontinuita` rispetto alle analoghe esperienze passate. Se, infatti, alcune forme di retribuzione variabile, commisurate non al tempo ma, in linea principale, ai risultati della prestazione lavorativa e ai prodotti dell’azione aziendale (cottimo e partecipazione agli utili ex art. 2099 c.c.) si erano gia` diffuse nella prassi, esse
(4) In questa direzione si era gia` mossa, nel 1972, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 121 che dichiarava infondata la questione di costituzionalita` dell’art. 10 legge 604/1966. La Corte aveva ritenuto di non poter escludere “...che, sempre nei limiti della compatibilita` ed evidentemente in relazione alle note che caratterizzano la categoria dei dirigenti ed alle circostanze del singolo caso, possono valere per gli stessi le norme legislative dettate per gli impiegati”. Per un commento di questa sentenza: Xxxx, 1974, p. 132 ss.; Tinti, 1979, p. 1154 ss.).
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erano ispirate ad obiettivi di massimizzazione ed erano concentrate su misuratori di quantita` temporali-produttive (Carinci, 1990, p.9).
Nell’attuale fase la retribuzione variabile assume una connotazione diversa ispirata com’e` ad una logica di coinvolgimento/identificazione del lavoratore con gli scopi, i valori e le strategie dell’impresa e di tendenziale realizzazione di una cointeressenza economica dei lavoratori medesimi alle fortune aziendali.
L’aspetto incentivante caratterizza in maniera prevalente le nuove forme di retribuzione flessibile le quali si specificano in istituti salariali molto diversi: “dai tradizionali cottimi individuali o collettivi, ai premi, individuali e di gruppo o d’impresa, legati ad indicatori che sono stati definiti di tipo “fisico” (ore di presenza, volume, qualita` del prodotto, ecc.), o a quelli legati a indicatori di tipo “economico” (costi, fatturato, valore aggiunto, profitti, ecc.). Altre distinzioni utilizzate sono da un lato quella fra incentivi di prestazione (cottimi, premi legati alla presenza), incentivi di risultato (premi legati al raggiungimento di risultati predefiniti) incentivi di successo (legati a miglioramenti delle performances aziendali variamente definite)” (Regalia, 1993, p. 522).
Laddove pero` vengono privilegiati indicatori di tipo economico-aziendale, legati non alla produttivita` ma alla redditivita` dell’impresa (premi d’impresa in funzione della redditivita`, cioe` dei profitti risultanti dal bilancio aziendale), sembra farsi piu` problematica l’influenza dei lavoratori sulle variabili rilevanti, ed il sistema di retribuzione flessibile che ne deriva risulta ispirato piu` che al principio dell’incentivazione a quello della compartecipazione al rischio di impresa, cui si collega anche la pratica delle agevolazioni nell’acquisto di azioni della societa` da parte dei dipendenti. Incentivazione e compartecipazione sono dunque alla base delle forme di retribuzione variabile.
Questi valori risultano fortemente omogenei alla concezione dell’impresa ispirata ai modelli della qualita` totale, nella quale e` insito, lo si e` visto in precedenza, l’obiettivo della massima valorizzazione delle risorse umane in senso partecipativo ed in funzione di una ottimizza- zione del risultato produttivo.
La retribuzione incentivante, in questa prospettiva, si volge a stimolare l’elemento della collaborazione, gia` presente peraltro nel vincolo della subordinazione (art. 2094 c.c.) (Xxxxxxxxxxxx, 1989, p. 312) inducendo il massimo impegno nel personale dipendente e nello stesso tempo, attraverso la spinta al conseguimento del miglior risultato produttivo, allarga l’area di sovrapposizione tra obiettivi individuali e obiettivi aziendali.
Sotto questi aspetti puo` rilevarsi una tendenza ad innestare nel rapporto di lavoro subor- dinato in genere, una forte motivazione a porsi in linea, anziche´ in conflitto, con gli interessi datoriali. All’inverso, parlare di una funzione di coinvolgimento degli incentivi, in relazione al lavoro dirigenziale, appare fortemente riduttivo. “Difatti la quota retributiva variabile nel lavoro manageriale sembra essere piuttosto l’elemento in cui si concretizza l’affinita` di interessi esistenti tra datore di lavoro e lavoratore” (Zoppoli, 1991, p. 49); affinita` che costituisce l’aspetto qualificante il rapporto di lavoro del dirigente.
La categoria dirigenziale e` quella che meno delle altre sembra nuova a forme di incentiva- zione o partecipazione ai risultati aziendali ed anche ad altri meccanismi di tipo premiante, come i fringe benefits, che possono essere considerati “un premio di fedelta`, manifestazione di una reciproca lealta` e benevolenza” (Costa, 1989, p. 293).
Questo perche´ incentivi e sistemi premianti costituiscono l’altra faccia della medaglia dell’assunzione di potere e responsabilita` e, quindi, fetta essenziale della retribuzione del manager (Xxxxxxx, 1991, p. 49).
In relazione a quei sistemi retributivi, che si possono far rientrare nella categoria della share economy, in quanto collegano la variabilita` di parte della retribuzione alla redditivita` aziendale, si puo` osservare che gli stessi introducono nello schema del lavoro subordinato un elemento estraneo al tipo. La commisurazione, infatti, di una quota di retribuzione all’an- damento dell’impresa rende partecipe il lavoratore del rischio dell’utilita` del lavoro, la cui inerenza esclusiva alla posizione datoriale costituisce, invece, uno dei criteri di individua- zione della tipica fattispecie lavoro subordinato.
Se per le categorie diverse da quella dirigenziale le suddette modifiche dell’assetto negoziale tendenti “ad accomunare l’orizzonte temporale del datore di lavoro e del lavoratore” (Zoppoli, 1991, p. 51) inducono a ripensare il concetto di subordinazione (D’Xxxxxx, 1988) per la categoria dei dirigenti il discorso va differenziato.
Sul punto specifico della ripartizione del rischio va notato che il sistema retributivo del dirigente non e` estraneo ad una partecipazione al rischio dell’utilita` finale del risultato produttivo. Esso infatti si fonda per una parte cospicua, su differenziali individuali legati
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oltre che al grado di responsabilita` e ai risultati perseguiti, al complessivo andamento dell’azienda in aderenza alla comunanza di interessi tra datore di lavoro e dirigente.
In questo modo il rischio proprio dell’imprenditore, viene a caratterizzare anche la posi- zione manageriale, in relazione alla quale va misurato in funzione del “nesso tra risultati e premi/punizioni” (Rugiadini, 1985, p. 136). E` questa, un’ulteriore conferma della validita` di
una ricostruzione della categoria in esame come campo di convergenza di interessi dell’im- prenditore e del lavoratore, in antitesi alla tradizionale contrapposizione presente nelle altre categorie.
Si puo` quindi concludere che la retribuzione incentivante e/o partecipativa segna il punto di massima emersione della rilevanza, all’interno del contratto di lavoro, dell’organizzazione, intesa come risultato produttivo complessivo.
Se tale rilevanza costituisce gia` aspetto caratterizzante la prestazione di lavoro dirigenziale, gli effetti piu` rilevanti della tendenza in atto, saranno allora da registrare principalmente altrove.
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5. Considerazioni conclusive.
L’articolazione e la complessita` del contesto tecnico-organizzativo in cui si svolge la prestazione di lavoro se, da un lato, hanno determinato un’evoluzione della subordinazione e delle sue modalita` espressive verso forme di cooperazione e autoregolazione accentuando, di conseguenza, anche la difficolta` di individuare precisi criteri discretivi tra le diverse categorie dei lavoratori, dall’altro, hanno riproposto istanze garantistiche nei confronti di un uso troppo flessibile e funzionalizzato agli interessi datoriali, della prestazione lavorativa. (Perulli, 1989, p. 403; Xxxxxxxxx, 1991, p. 63 ss.).
Anche l’affermazione di un generale arricchimento dei contenuti professionali in seguito ai mutamenti organizzativi, va corretta, se e` vero che da piu` parti si e` osservato che essi hanno dato vita “ad una polarizzazione di figure lavorative... con la formazione da un lato di una ristretta area di lavori ad alta professionalita`, ma dall’altro di una ben piu` ampia area di lavori con scarso contenuto professionale” (Xxxxxxxxx, 1991, p. 64). Seppur mutati, i termini del rapporto di lavoro subordinato mantengono la loro identita` che rispecchia il tipo di inserimento del lavoro salariato nell’impresa, e quindi, pur laddove e` possibile registrare cambiamenti significativi nel senso di una migliore qualita` del lavoro, sotto il profilo ambientale e di partecipazione individuale, da un punto di vista tecnico-giuridico non e` consentita una archiviazione del social tipo lavoratore subordinato, ne´ una svalutazione totale del complesso normativo relativo all’area del lavoro dipendente che continua ad essere caratterizzato dal conflitto con gli interessi imprenditoriali.
La stessa classificazione tradizionale dei lavoratori, sia pure con linee di demarcazione mobili, continua ad avere un suo significato. In questo senso la distinzione tra dirigenti ed altre categorie di lavoratori ha ancora un senso, cosı` come la nozione di dirigente delineatasi nel nostro ordinamento puo` risultare ancora adeguata “tanto all’attuale contesto giuridico quanto a quello sociale”, trattandosi soltanto di attribuirgli il suo reale e preciso significato deducendone le conseguenze. (Xxxxxxx, 1990, p. 153).
Una ipotizzabile espansione della categoria, pertanto, non sara` accompagnata da una corrispondente espansione delle deroghe alla disciplina di tutela.
Questa affermazione e` in sintonia con l’attuale tendenza del diritto del lavoro che, da una parte, sembra voler espellere dal suo ambito segmenti rilevanti di lavoro subordinato che si caratterizzano sempre piu` come cooperazione, dall’altro continua pero` ad esercitare una “forza di attrazione verso ogni forma di lavoro destinata ad inserirsi con continuita` all’intero di un’organizzazione produttiva” (Zoppoli, 1993, p. 284). Testimonianza di questa resistente capacita` attrattiva, proprio nel campo del lavoro dirigenziale, sono i recenti interventi giurisprudenziali e normativi, volti ad estendere parte della disciplina contro i licenziamenti individuali, anche ai dirigenti (5).
(5) V. la sentenza della Corte Costituzionale n. 427 del 1989 sull’applicabilita` delle garanzie previste nell’art.7 legge 300/1970 anche al licenziamento disciplinare intimato nell’area del recesso ad nutum, e la legge n. 108 del 1990 che, negli artt. 2, II comma e 3, estende ai dirigenti, rispettivamente, la sanzione dell’inefficacia per il licenziamento non scritto e quella della nullita` per il licenziamento discriminatorio. Su questi aspetti, in dottrina v.: Xx Xxxx Xxxxxx- D’Xxxxxx (a cura di), 1991, p. 133; Basenghi, 1991, cap. II; Xxxxxxxxx, 1991, p. 23; Xxxxxxx, 1991, p. 151; Alleva-Ballestrero-Vallebona, 1990, p. 133.
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Il risultato di queste tendenze antitetiche potra` consistere in un formale riconoscimento dei caratteri di autonomia e responsabilita` ad un numero sempre maggiore di lavoratori inquadrati nei piu` alti livelli impiegatizi, con conseguente attribuzione di qualifica dirigen- ziale. Per altro verso la concreta disciplina applicabile sara` desumibile dalle caratteristiche oggettive della prestazione, allontanandosi dal sistema garantistico del lavoro subordinato, tanto quanto xxxx` consentito dal grado di identificazione con la figura elitaria e selettiva di dirigente elaborata dalla giurisprudenza, che, per la sua caratteristica di tendenziale unifor- mita` alle posizioni datoriali, si colloca con difficolta` nell’area della subordinazione.
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Organizzazione degli orari di lavoro
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1. Premessa. 2. Delimitazione del campo di indagine: la nozione di orario di lavoro e di tempo di lavoro. 3. I modelli di organizzazione degli orari di lavoro. 4. Innovazione tecnologica e modelli di orario. 5. I principi della qualita` totale e i modelli temporali. 5.1. Il concetto di tempo nell’ambito della fabbrica integrata. 6. Le esperienze negli altri Paesi. 7. Verso nuovi modelli di orario. 7.1. La nozione di orario di lavoro. 7.2. Durata della prestazione. 7.3. Le pause e i riposi intermedi. 7.4. La distribuzione dell’orario di lavoro. 8. Qualita` totale, distribuzione dell’orario e nuovi interessi. 9. Conclusioni.
Sommario
1. Premessa.
La risposta delle imprese alla sfida legata all’introduzione della qualita` totale, alla realiz- zazione della fabbrica integrata e alla globalizzazione dei mercati, passa innanzitutto attraverso una profonda revisione degli assetti organizzativi aziendali (Xxxxxxx, 1990).
La ricerca della qualita` totale nell’ambito dei processi produttivi comporta, come e` stato rimarcato nei diversi interventi su questa rivista, un radicale mutamento di mentalita` da parte delle imprese innanzitutto, e dei lavoratori stessi in secondo luogo.
L’impresa moderna, tecnologicamente all’avanguardia, in competizione magari con altre realta` produttive presenti sui mercati esteri, di fronte ad una tendenziale omologazione dei servizi e dei prodotti e quindi ad un cliente sempre piu` esigente, deve puntare alla qualita` dei processi produttivi attraverso due strade.
La prima deve essere imperniata adattando la struttura organizzativa alle esigenze esterne: i rapporti gerarchici tradizionali devono lasciare il passo a rapporti piu` elastici; i ruoli dei lavoratori devono essere rivisti in funzione del soddisfacimento del cliente.
In poche parole quello che il datore di lavoro deve privilegiare e` il modello di azienda corta (Bellamio 1992), flessibile, il piu` possibile adattabile agli stimoli esterni.
Il secondo livello di intervento riguarda direttamente il personale che deve essere coinvolto nelle decisioni, deve trovare nuove e diverse motivazioni verso il lavoro, sentirsi parte indispensabile dei processi produttivi.
Si tratta forse di una rivoluzione “culturale” che si pone su di un piano grandemente diverso rispetto alla rivoluzione tecnologica degli anni ottanta, conseguenza diretta dell’automa- zione e della informatizzazione dei processi.
Si passa dalla fase dell’automazione spinta, della ricerca della competitivita` a bassi costi a quella del raggiungimento della qualita` nei processi produttivi. Non che i primi due elementi decadano negli obiettivi delle imprese, ma diventano subordinati all’altro obiettivo princi- pale della qualita`.
Infatti il mondo industriale sembra essersi accorto in un non lontano passato che il perseguimento di politiche di rigida automazione non comportava sempre e comunque
elevata qualita`/bassi costi. In diverse situazioni aziendali la mancanza di progetti robusti, la 29
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numerosita` delle linee di produzione, le perdite per interferenze e per manutenzione, la crescente complessita` del prodotto e infine l’accorciamento dei cicli di vita si sono rivelati fattori che hanno messo in crisi l’automazione spinta sino a livelli elevati (Guerci, 1993). Le conseguenze legate all’introduzione di politiche di qualita` totale sul piano organizzativo tendono sicuramente ad influenzare anche le politiche del tempo di lavoro e degli orari, come del resto dimostrato da esperienze concrete svolte in specifiche realta` aziendali.
Il duplice obiettivo di questo intervento e` innanzitutto quello di verificare le possibili ricadute delle politiche improntate alla qualita` totale sulle politiche aziendali del tempo di lavoro: come cercheremo di dimostrare piu` avanti nel corso della trattazione, con l’abban- dono del rigido e immutabile modello di produzione taylorista il tempo di lavoro finisce per costituire oggetto di strategie organizzative, mediante azione sulle componenti principali dell’orario di lavoro.
In secondo luogo vedremo di verificare quali siano i vincoli e le incompatibilita` che i modelli teorici ispirati ai principi della qualita` totale, oltreche´ le concrete esperienze di applicazione aziendale, incontrano rispetto al quadro legale e contrattuale nel suo complesso, alla luce anche delle interpretazioni fornite dalla giurisprudenza.
2. Delimitazione del campo di indagine: la nozione di orario di lavoro e di tempo di lavoro.
Prima di procedere alla verifica dei rapporti tra politiche aziendali e politiche sugli orari e sul tempo di lavoro, occorre definire con esattezza entrambe le nozioni e delimitare il campo di indagine.
L’orario di lavoro non viene esattamente definito dalla legge, anche se dalle due norme cardine dell’attuale regime, e cioe` il Regio decreto legge 15 marzo 1923, n. 692 e l’art. 2107 del Codice civile, e` possibile rilevare una nozione di orario di lavoro temporalmente limitata alla giornata e alla settimana lavorativa.
L’espressione orario di lavoro avrebbe una portata ristretta ad una connotazione dimen- sionale, ossia puramente quantitativa del lavoro dovuto e non ordinale, intesa come collocazione temporale nell’arco della giornata, della settimana o dell’anno (Ichino, 1984, 4). Cio` significa che la legge si preoccupa semplicemente di stabilire “quanto” il lavoratore deve lavorare in determinato arco temporale, non come e quando collocare e distribuire la prestazione lavorativa.
Nella realta` l’espressione “orario di lavoro” rappresenta uno strumento molto piu` duttile (Fondazione Seveso, 1985 p. 8), adattabile a seconda delle esigenze produttive e di lavoro e in grado di assumere diverse “forme”: una determinata forma di orario rappresenta una modalita` pratica di organizzazione del lavoro nell’azienda.
Un altro aspetto in cui si estrinseca l’orario di lavoro e` legato alla velocita` di esecuzione della prestazione lavorativa (Fondazione Seveso, 1985 p. 11): entrano in questa sfera le pause, i tempi di attesa, i ritmi ecc.
Il tempo di lavoro costituisce invece una nozione di portata ben piu` ampia rispetto a quella dell’orario: in assenza ovviamente di una precisa connotazione, il tempo di lavoro puo` essere definito come il periodo durante il quale il lavoratore presta la propria attivita` a favore del datore di lavoro. Esso racchiude innanzitutto l’arco di tempo compreso tra le altre due dimensioni temporali della vita umana: il tempo di studio e l’eta` del pensionamento.
Questa nozione pero` ne presuppone un’altra: la contrapposizione tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro, concetto quest’ultimo che possiamo far coincidere con la nozione giuridica di tempo di riposo. Il tempo di non lavoro comprende dal punto di vista sociale sia il cosiddetto “tempo libero” finalizzato alla realizzazione di attivita` personali del lavoratore da lui liberamente scelte, sia il tempo dedicato ad attivita` in un certo senso dovute, a causa ad esempio di impegni familiari, a spostamento o ad attivita` burocratiche (Tempia, 1993, 25).
Il concetto di riposo anche in questo caso, varia a seconda dell’unita` temporale presa in considerazione: il riposo puo` essere inteso come pausa nel corso della prestazione lavorativa giornaliera, come intervallo di tempo tra le prestazioni di due giornate lavorative (riposo giornaliero), come riposo settimanale, annuale oppure come periodo di inattivita` lavorativa durante l’eta` pensionabile.
Anche nel caso dei riposi la legge compie una regolamentazione parziale: mentre non esiste una disciplina legale delle pause lavorative e del riposo giornaliero, la legge (22 febbraio
30 1934, n. 370) articola una tutela dettagliata del riposo settimanale e il Codice civile (Art.
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2109) fissa dei principi generali, integrati dalla contrattazione collettiva sul riposo annuale. Appare evidente da questa sommaria ricostruzione dei concetti di orario e di tempo di lavoro che ci troviamo di fronte a due fenomeni che, pur strettamente intrecciati tra di loro, appartengono a piani diversi e subiscono il condizionamento di fattori esterni non collegati e spesso non riconducibili alla medesima origine.
L’organizzazione e l’articolazione del tempo di lavoro subisce continui cambiamenti sotto la spinta di fenomeni di ampia portata, come le innovazioni tecnologiche, la trasformazione dei settori produttivi, l’accresciuta mobilita` delle popolazioni, il diffuso pendolarismo, i flussi migratori, il mutamento degli stili di vita, di consumo, l’aumento della domanda di tempo libero ecc.
L’entita` dei cambiamenti varia inoltre da posto a posto, a seconda che si tratti di grossi agglomerati urbani o di piccoli centri (Tempia, 1993, 25).
Altre questioni contingenti e provvisorie possono concorrere al mutamento dell’articola- zione complessiva del tempo di lavoro, spesso determinando situazioni di conflitto e fortemente in contraddizione tra di loro: si pensi soltanto all’attuale situazione di invec- chiamento della popolazione contestualmente alla crisi recessiva in atto. Il primo aspetto comporta l’adozione di misure (peraltro gia` prese o in via di discussione avanzata) come l’innalzamento dell’eta` dell’obbligo scolastico e dell’eta` pensionabile. La crisi economica porta viceversa a sfruttare gli ammortizzatori sociali per favorire l’espulsione dei lavoratori in esubero dalle attivita` produttive per anticipare il loro collocamento in pensione. Ne sono un esempio i recenti provvedimenti in materia di pensionamenti anticipati e di mobilita` “lunga”.
Infine le stesse politiche e le manovre sugli orari di lavoro determinano conseguenze sul sistema generale del tempo di lavoro.
La questione sara` oggetto di approfondimento nel prossimo paragrafo. Basti per ora considerare che le tendenze in atto alla cosiddetta “destandardizzazione” degli orari di lavoro, ossia alla loro crescente diversificazione per esigenze sia da parte delle aziende che dei lavoratori comporta necessariamente dei riflessi sulla domanda di tempo libero da parte dei lavoratori e quindi delle conseguenze sulla domanda e offerta complessiva di tempo di lavoro in quei settori (si pensi soprattutto al terziario) investiti da una maggiore richiesta di servizi destinati al maggior tempo libero dei lavoratori.
La questione pero` , come vedremo, e` molto piu` complessa e contradditoria di quel che possa sembrare. Accanto ad un indubbio mutamento della gestione del tempo di lavoro assistiamo a forme di orari in apparente controtendenza e improntati a criteri di rigidita`: ne e` un esempio l’aumento in atto degli orari di fatto e il notevole incremento del lavoro straordi- nario.
Dall’insieme del quadro appena tratteggiato e` possibile apporre i confini al presente intervento e delimitarne l’oggetto.
Da una parte abbiamo un progetto, un’idea, se vogliamo una filosofia che spinge le imprese ad adottare dei precisi comportamenti organizzativi.
Dall’altra sul versante dell’organizzazione del tempo di lavoro troviamo una situazione sociale gia` in gran parte matura ad accogliere innovazioni al regime degli orari, anche perche´ sensibilizzata nei confronti di nuovi valori e di diverse aspirazioni individuali.
Se quindi il terreno sembra essere fertile ad accogliere profonde innovazioni, non tutti i problemi possono dirsi risolti.
Resistenze possono venire dall’attuale diritto positivo e dalle tendenze della giurisprudenza: si tratta infatti di verificare fino a che punto i processi potenziali e concreti di riorganizza- zione degli orari, frutto in quest’ultimo caso di esperienze reali, possano conciliarsi con la legge, la contrattazione collettiva e la prassi giurisprudenziale.
Si tratta di fare i conti con un sistema normativo vecchio nel suo impianto di fondo, anche se arricchito da piccole modifiche piu` o meno recenti (contratti part time e di solidarieta`) e da un sistema di relazioni industriali scarsamente elastico, piu` attento a non alterare i rapporti di forza che sviluppare nuove condizioni di lavoro. La differenza in tal senso con alcune legislazioni straniere e` parecchio significativa.
Questo aspetto debole del nostro sistema positivo puo` pero` rivelarsi a lungo andare il minore dei mali, soprattutto se ad esso dovessero contrapporsi imposizioni rigide di modelli standard di organizzazioni del lavoro, valide per qualsiasi realta` (Xxxxxx, 1985b, 266). Si pensi, ad esempio, all’attuale dibattito sulla riduzione dell’orario di lavoro su base settima- nale come risposta ai problemi della disoccupazione.
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3. I modelli di organizzazione degli orari di lavoro.
Come abbiamo gia` accennato in precedenza e` solo da pochi anni che gli orari di lavoro hanno costituito oggetto di strategie da parte aziendale e da parte dei lavoratori, entrambi consapevoli che le manovre sull’orario possa portare benefici sia agli uni che agli altri.
Nella societa` industriale, cosı` come si e` sviluppata a partire dal secolo scorso, non e` mai esistita una politica del tempo di lavoro; o meglio la nozione di orario di lavoro ha seguito pari pari il modello di sviluppo imperniato sull’assimilazione delle teorie tayloristiche.
La “vecchia” societa` capitalistica si basava essenzialmente sulle attivita` industriali e, in secondo luogo, su prodotti in gran parte standardizzabili in quanto legati ad una domanda uniforme e poco differenziata. Cio` ha fatto sı` che la produzione dei beni e quindi l’organizzazione produttiva fosse estremamente prevedibile, non soggetta a fluttuazioni o cambiamenti improvvisi. Conseguentemente “i cicli di produzione, la centralita` degli im- pianti e le durate degli orari sono diventate i cardini di un’organizzazione del lavoro industriale che ha operato attraverso integrazioni di unita` spazio/temporali contigue: si produce in modo da far lavorare contemporaneamente macchine e persone che si avvicen- dano secondo sequenze predeterminate” (Tempia, 1993, p. 20).
In questo contesto, caratterizzato da estrema rigidita`, il lavoro subordinato costituisce la forma unica attraverso cui si realizza la prestazione lavorativa e l’orario di lavoro viene scandito da eventi fissi e immutabili e non risulta quasi per nulla articolato nel’ambito della stessa unita` produttiva.
I fattori che hanno portato all’evoluzione di questa situazione sono diversi e complessi. Volendo limitarci a compiere una sintesi delle principali cause possiamo senz’altro cos`ı schematizzarle:
— l’evoluzione dei mercati e la loro progressiva internazionalizzazione;
— le accresciute esigenze dal lato della domanda con la conseguente espansione e artico- lazione dei prodotti;
— il miglioramento dei trasporti e dello scambio di informazioni;
— l’introduzione di nuove tecnologie;
— l’accresciuto benessere della popolazione e il sorgere di nuove esigenze legate diretta- mente al concetto di tempo libero;
— quest’ultimo elemento ha, a sua volta, portato ad una “terziarizzazione” dell’economia e all’acquisizione in questi ultimi anni da parte di questo settore di rilevanti quote di personale in esubero espulso dall’industria.
Non ci soffermeremo ulteriormente su questi aspetti proprio per evitare eccessive sempli- ficazioni: a noi basta trarre alcune prime conclusioni circa i rapporti tra questo nuovo modello di sviluppo e le politiche incentrate sull’orario di lavoro.
Il primo concetto che appare in tutta la sua evidenza e` la progressiva incertezza in cui sono costrette ad operare le imprese, anche se paradossalmente l’evoluzione tecnologica con l’introduzione spinta dei processi di informatizzazione avrebbe dovuto portare ad un migliore governo delle informazioni.
L’incertezza e la situazione di indeterminatezza complessiva si riflette direttamente sulle strategie aziendali che devono essere in grado di rispondere adeguatamente alle diverse sfide potendo contare sull’estrema flessibilita` della struttuta produttiva e organizzativa.
Il vecchio modello tayloristico risulta pertanto decisamente superato e non piu` in grado di rispondere alle nuove esigenze; il governo del tempo di lavoro diventa fondamentalmente governo dell’articolazione e della collocazione temporale delle prestazioni, e non sempli- cemente, come in passato, garanzia di successione e di contemporaneita` delle prestazioni lavorative stesse.
Le imprese hanno infatti avvertito l’esigenza fondamentale di sfruttare al massimo le capacita` produttive e strumentalizzano l’orario di lavoro in questa direzione, puntando su orari atipici, elastici e diversificati in modo da coprire il periodo massimo di ciclo produttivo. Contemporaneamente a tutte queste trasformazioni, nell’ambito della stessa classe lavora- trice si assiste all’insorgere di un approccio diverso nei confronti degli orari, non piu` e non solo basato sulla difesa della durata massima della prestazione, ma orientato anch’esso verso una gestione del tempo lavorativo piu` duttile ed elastica.
Non necessariamente pero` di fronte a queste premesse, domanda e offerta di tempo di lavoro sono destinate ad incontrarsi: cio` deriva da tutta una serie di resistenze individuali da parte dei lavoratori stessi, per i quali le aspirazioni non sempre coincidono con la fattibilita` concreta delle azioni, soprattutto per le difficolta` di coordinare il proprio tempo con quello
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familiare e sociale. In secondo luogo resistenze sono rinvenibili da parte sindacale sia per un’inveterata difficolta` di accettare modelli flessibili e quindi poco governabili con i tradizionali strumenti di controllo sindacale, sia, come vedremo piu` avanti, per il rischio di un venir meno della loro funzione centrale di tutela degli interessi dei lavoratori che le nuove forme di gestione degli orari porta con se`.
Infine un terzo livello di resistenza puo` essere riscontrato a livello delle imprese. Infatti se- condo alcune opinioni (Xxxxxxxx, 1988, 70) la flessibilita` di cui hanno bisogno le aziende e` di tre tipi: flessibilita` “numerica” intesa come possibilita` di aumentare o diminuire con rapidita` e senza troppi vincoli i dipendenti (assunzione e licenziamento); flessibilita` “funzionale” intesa come possibilita` di mutare la posizione professionale del lavoratore (mansioni e trasferi- mento); flessibilita` “finanziaria”, ossia possibilita` di cambiare rapidamente la retribuzione e il costo del lavoro. Tutte le altre scelte strategiche imprenditoriali, compresa quella degli orari di lavoro, sarebbero strettamente dipendenti alle tre flessibilita` sopra menzionate.
Questa posizione, che comunque ci riserviamo di approfondire successivamente avendo a disposizione ulteriori elementi di analisi, starebbe a dimostrare che in realta` da parte imprenditoriale non esisterebbe una politica autonoma degli orari.
Questa posizione, pur consapevoli della necessita` di non trarre conclusioni affrettate, ci trova sostanzialmente consenzienti e desiderosi di approfondire se con il modello di Total quality o di fabbrica integrata abbia ancora fondamento.
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4. L’innovazione tecnologica e i modelli di orario.
Accanto agli incrementi di produttivita`, gli effetti che sul lungo periodo l’innovazione tecnologica e` in grado di produrre consistono in una diminuzione del tempo dedicato al lavoro (Xxxxxxxxx, 1985, 103): le macchine finiscono infatti per diminuire e in certi casi sostituirsi all’intervento dell’uomo pemettendogli di liberare parte del suo tempo di lavoro a favore del tempo libero.
Per contro pero` la tecnologia non e` riuscita ad apportare consistenti cambiamenti sull’in- tensita` o durata della prestazione lavorativa; e` vero che si e` determinato un’arricchimento delle tipologie di orario, ma sono altresı` aumentati i ritmi e le cadenze, i turni, il lavoro notturno, gli straordinari ecc. e quindi non si e` determinata quella “liberazione” dal tempo di lavoro auspicata.
L’analisi dei modelli di orario indotti dall’innovazione tecnologica puo` essere schematica- mente suddivisa in due parti: nella prima la verifica verra` condotta a livello di disciplina legale e contrattuale; nella seconda parte si prenderanno in considerazione alcune espe- rienze al livello di contrattazione aziendale.
Le principali novita` introdotte dall’intervento della legislazione e della contrattazione collettiva si possono sinteticamente riassumere nelle seguenti manifestazioni: riduzione degli orari di lavoro, distribuzione del tempo di lavoro e lavoro a tempo parziale.
a) La riduzione dell’orario di lavoro rappresenta l’elemento di maggior frizione relativo alle politiche sugli orari di questi ultimi anni, su cui si e` sviluppato intenso il dibattito nell’ambito delle relazioni industriali. La questione della riduzione degli orari ha subito vicende alterne legate sicuramente alla congiuntura economica del Paese, con la conseguenza che, dopo un periodo di intensa discussione avviatasi nella seconda meta` degli anni ottanta, ultimamente l’attenzione dei commentatori si era spostata su altre questioni. In questi ultimi mesi infine si assiste ad un ritorno sulla scena del dibattito sulla riduzione di orario, principalmente in chiave di risposta alla recessione economica in atto.
Occorre pero` chiarire che, dal punto di vista tecnico, per riduzione dell’orario di lavoro si possono intendere due cose a seconda dello strumento giuridico adoperato per realizzarla: da una parte abbiamo la cosiddetta riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, concordata in quasi tutti i contratti colettivi di lavoro, in base alla quale i lavoratori hanno diritto, a parita` di retribuzione, alla riduzione delle ore lavorative, secondo modalita` generalmente da concordarsi a livello aziendale. Questo strumento nato per favorire miglioramenti alla qualita` della vita dei lavoratori e per far fronte a crisi occupazionali, ha sostanzialmente fallito il suo obiettivo soprattutto per l’opposizione manifestata da parte della classe imprenditoriale e per la scarsa originalita` con cui essa viene realizzata a livello aziendale. Le forti resistenze aziendali alla riduzione generalizzata dovute ai vincoli di produttivita`, alla competizione internazionale e all’utilizzo degli impianti hanno prodotto forme di riduzione scarsamente incidenti su qualsiasi tipo di risultato e concretizzatesi quasi generalmente in
un’aumento del numero di giorni di ferie a disposizione. La riduzione di orario in questi 33
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termini non ha quasi mai costituito uno strumento strategico per le politiche aziendali, ne` un mezzo per il miglioramento della vita dei lavoratori.
Il secondo strumento legislativamente previsto (artt.1e2 della legge 863/84 e ora art. 5 della legge 236/93) di riduzione degli orari e` quello dei contratti di solidarieta`, nelle due forme previste di gestione degli esuberi e di incremento dell’occupazione.
Si tratta di uno strumento potenzialmente in grado di offrire parecchie opportunita` alle imprese per una gestione flessibile della manodopera, come e` del resto dimostrato da recenti indagini in merito (AA.VV., 1993, 43), anche se il suo utilizzo e` stato diretto alla gestione delle eccedenze di personale e quindi come sistema di integrazione salariale.
Spostando l’analisi dal terreno normativo a quello di realizzazione pratica a livello aziendale finiamo per scoprire una maggiore articolazione delle esperienze di riduzione di orario.
Da uno studio specifico sulla questione (Fondazione Seveso) si evince come soprattutto nei comparti chimici e del commercio le ore di riduzione di orario a disposizione vengono concentrate o su alcuni giorni della settimana (uscita anticipata al venerdı`) oppure su tutti i giorni della settimana concentrati pero` su determinate parti dell’anno: il risultato e` sı` quello di una diminuzione dell’utilizzo degli impianti, pero` in corrispondenza di periodi di “bassa stagione” caratterizzati da una minore domanda.
In altri casi le riduzioni di orario hanno riguardato i turni a ciclo continuo o semicontinuo, con l’inserimento di ulteriori cinque giornate di riduzione, come nel settore chimico, e l’incremento degli organici necessari nelle squadre di produzione.
Nei casi sopra descritti si puo` assistere in definitiva alla realizzazione di vere e proprie manovre sull’orario di lavoro con effetti di tipo organizzativo/produttivo, attraverso la leva della riduzione degli orari.
b) La questione della distribuzione dell’orario di lavoro ha giocato a partire dagli anni ’80 un ruolo centrale nell’ambito delle politiche di flessibilita`, soprattutto attraverso un ruolo attivamente svolto dalla contrattazione aziendale. Vedremo piu` avanti le diverse ragioni che hanno pesato a favore di questa scelta; sta di fatto che una forte spinta al processo di destandardizzazione degli orari e` venuta proprio dalla varieta` di soluzioni escogitate nella collocazione temporale della prestazione lavorativa: e` aumentato il ricorso al lavoro notturno, a quello domenicale e festivo; sono incrementati di conseguenza i turni, in particolare quelli a ciclo continuo, nelle diverse gamme e tipologie ecc.
Questo fenomeno ha determinato, come vedremo oltre, la polverizzazione dei rapporti di lavoro, l’accentuazione delle forme di contrattazione individuale degli orari su quella collettiva, finendo per svilire il ruolo dell’autonomia collettiva medesima.
c) I contratti a tempo parziale costituiscono la riforma di origine legale piu` significativa in tema di orario di lavoro in quest ultimi anni, benche´ l’impianto complessivo della legge istitutiva lasci trasparire luci e ombre (Xxxxxx, 1985b, 246), pur costituendo un tentativo di ridisegnare la nozione di tempo di lavoro e di introdurre di fatto una forma di orario alternativa rispetto a quella “normale”.
La caratteristica principale del lavoro part time dovrebbe essere costituita dalla sua intrinseca flessibilita`, sia per le diverse tipologie realizzabili (orizzontale, verticale, ciclico ecc.), sia per l’elasticita` con la quale e` possibile distribuire la durata della prestazione nell’arco dell’unita` di tempo presa in considerazione. Sembra assodato in dottrina il fatto che la legge lasci libere le parti di fissare una distribuzione di orario non rigida e precostituita, ma adattabile a seconda delle esigenze dell’una o dell’altra parte (Ichino, 1987, 80).
Nell’ambito del filone inerente il lavoro a tempo parziale sono fiorite per opera soprattutto della contrattazione individuale forme non regolamentate di rapporti non a tempo pieno di derivazione soprattutto nord americana: e` il caso del cosiddetto job sharing.
Con questa forma di rapporto due o piu` lavoratori assumono in solido un’unica obbligazione di lavoro subordinato, corrispondente ad una prestazione a tempo pieno, con piena liberta` di distribuirsi tra loro l’orario di lavoro (Xxxxxx, 1987, 94) (1).
(1) In Italia il Job sharing costituisce una forma presente in alcune realta` aziendali soprattuto a livello sperimen- tale; si pensi all’accordo sottoscritto alla Benetton che ha tra l’altro mobilitato l’attenzione della stampa non specialista.
Si rinvia per un commento all’articolo di X. Xxxxxxxxxx, Una nuova flessibilita`, in Nuova Rassegna sindacale, 1989, 29.
In Francia esiste la figura, la cui legittimita` viene messa in discussione in dottrina, del contrat de commandite con il quale un gruppo di lavoratori si impegna a fornire una certa prestazioneentro un determinato lasso di tempo. In Germania il Job sharing e´ disciplinato dalla legge fin dal 1985.
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Un altro esempio di applicazione flessibile del contratto a tempo parziale e` quello che permette al lavoratore di cumulare due contratti part time alle dipendenze di due distinte aziende, che abbiano stipulato una apposita convenzione e che possano gestire il rapporto secondo le diverse punte stagionali (2).
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5. I principi della qualita’ totale e i modelli temporali.
Occorre premettere con estrema chiarezza che l’analisi che ci accingiamo a compiere, dapprima sul piano socio organizzativo e poi su quello giuridico, circa i possibili riflessi delle politiche di qualita` totale sui modelli di orario, non si avvale di una base empirica e sperimentale molto ampia; anzi, al contrario, le esperienze in tal senso sono scarse oppure limitate nel loro ambito ad alcuni marginali aspetti delle politiche del tempo di lavoro.
Anche le stesse ricerche teoriche sull’argomento sembrano segnare il passo, risultando essere piu` orientate verso l’approfondimento di altre tematiche sulla qualita` totale, ampia- mente trattate nelle ricerche apparse su questo e sul precedente numero della Rivista.
Fatta questa doverosa premessa, l’analisi e le eventuali conclusioni che ci sentiamo di compiere comunque sull’argomento riguardano in progressione i seguenti aspetti:
— le ricadute che l’idea qualita` totale puo` avere sulla “cultura” e sulla “filosofia” dell’or- ganizzazione del lavoro;
— le conseguenze possibili e quelle empiricamente realizzatesi sull’orario di lavoro; - la compatibilita` dei “modelli di orario” cosı` individuati al precedente punto della ricerca rispetto al diritto positivo e ai modelli giurisprudenziali.
5.1. Il concetto di tempo nell’ambito della fabbrica integrata.
Abbiamo visto all’inizio di questo intervento come il concetto essenziale che ruota intorno all’intera filosofia dell’organizzazione del lavoro nell’ambito di una azienda che sia spinta verso il raggiungimento della qualita` totale, e` il concetto di flessibilita`. Abbiamo anche visto quali siano i diversi significati da attribuire al termine flessibilita` rispetto agli strumenti giuslavoristici; esistono nel contempo altri significati in relazione agli obiettivi strategici ed organizzativi dell’azienda. Vi puo` essere flessibilita` strategica, intesa come capacita` dell’im- presa di adattarsi ai cambiamenti esterni modificando le proprie strategie; c’e` poi la flessibilita` strutturale, in cui l’impresa muta le sue strutture senza pero` modificarne la filosofia; quella operativa che e` la capacita` dell’impresa di ridemensionarsi in funzione delle nuove esigenze di mercato; e infine, ma non ultima in ordine di importanza, la flessibilita` culturale dell’impresa che la rende capace di accettare in maniera aperta i cambiamenti indotti dall’esterno e di mettere mano alla struttura organizzativa e ai processi tecnologici per adeguarsi alle nuove realta` (Butera, 1984).
La stessa mentalita` e lo stesso approccio al lavoro da parte dei lavoratori in un’ottica di questo tipo e` destinata a cambiare: l’obiettivo della qualita` deve spingere l’azienda verso un sempre maggior coinvolgimento del lavoratore e quindi far sentire il lavoro sempre meno come una costrizione e sempre piu` come una scelta. Questa affermazione, contenuta nei principali manuali sulla qualita` totale (Xxxxxxx, 1990) e al di la` della forte carica retorica in essa contenuta, esprime il concetto che la flessibilita` rispetto alla prestazione lavorativa si esprima nella adattabilita` del lavoratore alle esigenze dei processi produttivi e nella sua capacita` di cambiare rapidamente. Rispetto alla specifica organizzazione del lavoro e ai rapporti giuridici conseguenti, questi aspetti si potranno riflettere nell’incremento di occu- pazioni atipiche sganciate dall’unita` temporale e spaziale costituita dall’impresa (lavoro interinale, telelavoro ecc.), ma anche, come vedremo, da un’organizzazione interna all’im- presa in cui i confini tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro sfumano sempre piu` (Scarpitti, 1991, 12).
In ogni caso la chiave di volta della strategia della flessibilita`, sia nell’ottica aziendale che in quella del lavoratore, e` la diversa considerazione del fattore tempo: quest’ultimo dovra`
(2) E` il caso della convenzione stipulata tra le Industrie Poretti (produzione di birra con punte stagionali di attivita` in primavera ed estate e la Bulgheroni Spa (produzione cioccolato con punte stagionali in autunno ed inverno): Chiesi, Politiche del tempo, metodi di ricerca e strumenti di intervento, IRES Lombardia, p. 19.
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essere considerato come una risorsa anch’essa da sfruttare al pari delle altre e non piu` come un dato imposto e scandito dai ritmi delle macchine.
“Nei sistemi automatizzati lo scopo e` quello del funzionamento autonomo di una sequenza piu` o meno complessa di operazioni secondo un programma predeterminato: non e` richiesto l’intervento umano. Viceversa un sistema integrato ha l’obiettivo di render interdipendente cio` che avviene nelle diverse fasi del processo produttivo e di apportare, momento per momento, quelle correzioni che si rendono necessarie per minimizzare il costo totale di produzione” (Paracone, 1988a, 10).
Appare evidente da questa affermazione riportata integralmente, come non sia piu` la macchina soltanto a scandire i tempi, ma allo stesso modo della macchina anche il fattore umano che ha il compito di controllare i processi produttivi, di intervenire e di risolvere i problemi che dovessero insorgere.
Rimanendo sempre nell’ambito delle tecniche di razionalizzazione dei tempi di lavoro e di riduzione al minimo degli sprechi non possiamo a questo punto non parlare della tecnica produttiva del just-in-time (JIT).
Con il sistema JIT l’azienda si pone l’obiettivo di far avanzare il sistema produttivo, mediante la riduzione delle scorte di magazzino o, addirittura, mediante il loro progressivo azzeramento. Si tratta di un meccanismo che deve essere inquadrato nell’ambito di un sistema complessivo di Qualita` globale e sottointende lo scopo di ridurre la sovraprodu- zione, lo spreco di tempo alle macchine, nelle lavorazioni e nel mantenere le scorte (Imai, 1986, 118 e s.; Brandolese, 1993).
Il sistema JIT si basa inoltre su due contrapposti meccanismi: il primo consiste nel rendere regolari i flussi produttivi e le diverse cadenze all’interno di ciascun “anello”; il secondo, detto di retroazione, prevede l’intervento dei lavoratori nell’apportare degli interventi correttivi ad eventuali modificazioni del flusso, derivanti da incremento o diminuzione della domanda. L’intervento dei lavoratori in questa seconda fase deve essere effettuato tempe- stivamente e in tempo reale su tutta la catena produttiva.
Un altro importante tassello per poter comprendere quale possa essere il modello di flessibilita` ottimale nella fabbrica integrata e` quello dell’assetto complessivo dell’organiz- zazione del lavoro che gravitera` intorno all’impresa. E` infatti evidente che da una serie di fattori quali l’orienterantamento delle professioni, il tipo di mansioni richieste, e il livello di adattamento produttivo (ossia la capacita` e la disponibilita` a passare da un lavoro all’altro), dipende in gran parte anche l’organizzazione temporale del lavoro e cioe` quale tipo di flessibilita` potra` essere richiesta al lavoratore rispetto al tempo di lavoro.
Un ultimo fattore, infine, di non poco conto e` costituito dalle relazioni industriali: si tratta cioe` di verificare se il ruolo che la legge e la giurisprudenza assegnano alle organizzazioni sindacali nella contrattazione degli orari possa costituire un ostacolo alle politiche aziendali orientate verso la qualita` totale o viceversa un prezioso strumento.
6. Le esperienze negli altri Paesi.
Prima di entrare nel vivo dell’analisi tecnica sui modelli di orario fattibili in un sistema che potremmo definire di “nuova flessibilita`”, e` forse opportuno fare alcuni richiami sommari alle esperienze giuridiche di altri Paesi in cui la legislazione sulla flessibilita` degli orari e` piu` avanzata (Francia), oppure dove le esperienze di adeguamento alla qualita` totale e` ampia- mente inserita nella cultura di impresa (Giappone).
In tutte le esperienze giuridiche dei principali paesi “occidentali” il dato comune e` costituito da un ampio ricorso alla gestione flessibile del tempo di lavoro, attraverso specifici interventi soprattutto di tipo legislativo.
Nell’ambito dell’esperienza francese sono da segnalare diversi sistemi tecnici relativi all’ora- rio di lavoro atti a incentivare la flessibilita` dell’impiego della manodopera (Xxxxxx, 1990, 17).
Il principale e` senz’altro costituito dalla modulazione dell’orario di lavoro che consiste nella possibilita` di variare “la durata settimanale di lavoro ... su tutto o una parte dell’anno a condizione che nell’anno tale durata non ecceda in media le trentanove ore per settimana lavorativa” (art. L. 212-8 cod. trav.). Particolare risulta il sistema congegnato dalla legge del 19 gennaio 1987 per disciplinare le ore di lavoro prestate oltre le 39 settimanali. Un primo sistema non considera le ore di lavoro prestate in piu` rispetto alle 39 ore come heures supplementaires, ossia come pacchetto di ore di cui il datore di lavoro puo` disporre
36 legalmente, benche´ eccedenti la durata legale massima.
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Con un secondo meccanismo, le ore in eccesso, oltre al beneficio descritto in precedenza, non permettono al lavoratore ne` il diritto alle maggiorazioni salariali, ne` ai riposi compen- sativi. In definitiva le ore prestate in piu` rispetto alle 39 ore nell’ambito della settimana, non sono heures supplementaires; quest’ultime scatteranno quando alla fine del periodo di modulazione risulteranno delle ore in esubero rispetto alla media annua di 39 ore settima- nali.
Il ciclo costituisce invece un’altra modalita` di realizzazione di orari flessibili. Esso consiste in un breve periodo, multiplo della settimana (con un massimo di 12 settimane), durante il quale l’orario puo` superare il limite delle 39 ore, con possibile compensazione nel periodo rimanente, fino a che la media delle ore complessive sia pari a 39 ore alla settimana (art. L. 212-5, u. c., cod. trav.).
Un’ultima modalita` di gestione degli orari si traduce nell’istituto del recupero delle ore perse collettivamente, a causa, ad esempio, di fattori accidentali, per inventario di fine anno oppure per un ponte lavorativo. In questi casi il datore di lavoro puo` unilateralmente (a differenza della modulazione e del ciclo che presuppongono una contrattazione collettiva), recuperare le ore di lavoro perse nei dodici mesi precedenti o sucessivi la perdita, con l’unica condizione che il recupero non comporti un incremento dell’orario di lavoro oltre un’ora al giorno e otto ore alla settimana (art. D. 212-2, c. 2, cod. trav.).
I decreti di attuazione della suddetta legge del ’36 prevedono tre modalita` di distribuzione dell’orario di lavoro da parte del datore di lavoro: uno consiste nel ripartire il lavoro effettivo su 8 ore al giorno per 5 giorni con riposo il sabato o il lunedı`; con un secondo sistema il lavoro effettivo viene circoscritto a 6 ore e 45 minuti per giorno lavorativo. l’ultimo sistema consente al datore di ripartire in maniera diseguale l’orario tra i giorni della settimana in modo da permettere una mezza giornata di riposo settimanale.
In Giappone il sistema di gestione della flessibilita` del tempo di lavoro e` articolato in maniera piu` semplice, anche perche´ esso si avvale del vasto sistema dei cosiddetti “lavoratori irrego- lari”, sorta di mercato del lavoro parallelo rispetto a quello dei lavoratori occupati (3). La risposta flessibile da parte delle aziende e` infatti in gran parte assicurata dal ricorso a questo serbatoio di lavoratori il cui rapporto e` regolato da contratti generalmente atipici (temporanei, part time, stagionali, a domicilio ecc.) e in gran parte da un ampio ricorso al lavoro straor- dinario che in Giappone non soffre di limitazioni particolari (Xxxxxxxxxx, 1993). Accanto a questi sistemi sembra abbastanza diffuso il cosiddetto flexitime, sistema con il quale viene consentito al lavoratore a tempo pieno di scegliere volontariamente l’orario di inizio e fine della giornata di lavoro, assicurando nel contempo un minimo di ore mensili di lavoro.
Per quanto concerne la Germania gli istituti della flessibilita` sono regolamentati da una specifica disciplina legislativa (Berschaftigunfurderungsgesetz del 26 aprile 1985) e dall’ac- cordo collettivo siglato il 27 giugno 1984 tra IG Metall e Gesametall.
La legge introduce l’istituto del “Kapovaz” e disciplina il lavoro a tempo parziale.
Con il primo le parti introducono nel contratto una clausola con la quale il prestatore di lavoro si impegna a fornire al datore una prestazione corrispondente alla quantita` di lavoro utile (Xxxxxxxx, 1988, 3), con la previsione di alcune garanzie minime tendenti soprattutto a contrastare il possibile tentativo del datore di utilizzare il lavoratore con il sistema del c.d. lavoro a richiesta (4) In Gran Bretagna invece le forme di gestione flessibile si traducono in particolare nell’utilizzazione del job-sharing (5) e il prepensionamento flessibile. Quest’ul- timo permette ad un lavoratore vicino all’eta` pensionabile di trasformare il rapporto in part time e al datore di lavoro di assumerne un altro a tempo parziale, con interventi finanziari dello Stato per garantire il reddito del lavoratore fino alla risoluzione del rapporto (Scarponi, 1988, 4).
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7. Verso nuovi modelli di orario.
Le forti spinte che il sistema economico determinera` sul modo di produrre delle imprese nei prossimi anni influira` quasi sicuramente sul riassetto complessivo del sistema degli orari di lavoro cosı` come si sono venuti a configurare sotto la spinta dell’innovazione tecnologica. Si
(3) Si rinvia all’intervento di X. Xxxxxxxxxx nel precedente numero della Rivista per una disamina complessiva dei sistemi di flessibilita` nell’organizzazione del lavoro giapponese.
(4) Il testo della legge del 26 aprile 1985 puo` essere letto in RIDL, 1985, III, 131.
(5) Vedi la nota 1.
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tratta di capire fino a che punto le rilevanti tendenze poste in essere sul sistema degli orari di lavoro dal progresso tecnologico e consistenti soprattutto nell’accentuata esigenza e domanda di flessibilita` siano le stesse che questa nuova fase di industrializzazione porta con se`.
Il quesito ha, a mio avviso, una risposta affermativa: innanzituto per la nuova e diversa valenza che il fattore “tempo” ha in se` e per le enormi potenzialita` di sfruttamento di questa risorsa nell’ambito di una rinnovata cultura della flessibilita` sia da parte aziendale che da parte del lavoratore.
In secondo luogo la stessa legislazione dei principali competitori economici del nostro Paese, descritte nel precedente paragrafo, presenta generalmente un maggior numero di strumenti di gestione della flessibilita` rispetto alla nostra. Xxx` dovra` comportare a lungo andare una riforma legislativa del tempo di lavoro affinche´ anche il nostro sistema economico possa essere dotato di analoghi strumenti competitivi.
Ma e` in particolare la nuova cultura della flessibilita`, descritta nel paragrafo 1.1, che spinge verso una diversa gestione del tempo di lavoro: la flessibilita` degli anni ottanta, pur con la realizzazione di importanti cambiamenti, puo` essere definita come una flessibilita` a senso unico, a favore dei soli interessi imprenditoriali, diretti, ad esempio in campo industriale, alla massima utilizzazione degli impianti, alla massima efficienza produttiva e al migliora- mento dei margini di competitivita`.
Abbiamo avuto gia` modo di vedere la realizzazione concreta di questi obiettivi: aumento del lavoro straordinario, incremento dei turni e dei cicli continui, accresciuta incidenza del lavoro domenicale e notturno, ecc.
Secondo una certa dottrina (Xxxxxx, 1991, 27) la disciplina legislativa italiana degli anni ottanta si e` caratterizzata per la sua sostanziale immutabilita` rispetto alla normativa del 1923. Infatti il processo di deregolazione ha investito la disciplina dell’orario di lavoro interessando forme e condizioni marginali di organizzazione del tempo di lavoro.
Cio` sta quindi a significare che gli attuali sistemi di flessibilita` dell’orario di lavoro risultano insufficienti per le nuove esigenze aziendali e che quindi, in mancanza di correttivi legislativi e contrattuali, le aziende dovranno “adattare” gli attuali strumenti offerti dalla normativa, sempre che cio` risulti comunque compatibile con i vincoli che la stessa impone.
Ma quali sono i modelli di orario verso cui tende l’organizzazione del lavoro in una fabbrica che persegue l’obiettivo della qualita` totale? Si tratta in definitiva di formulare delle “ragionevoli” ipotesi sui possibili modelli di orario di lavoro e sulle tendenze in atto dalle poche e rare esperienze a riguardo di cui ci e` riuscito averne notizia.
Questi sono i temi che saranno investiti dall’emergere di nuovi modelli di orario e di nuove modalita` di gestione del tempo lavorativo.
a) La nozione di orario di lavoro;
b) la durata giornaliera e settimanale della prestazione;
c) il sistema delle pause nel corso della giornata lavorativa e fra una giornata e l’altra;
d) la flessibilita` della prestazione dl punto di vista del lavoratore (flexitime);
e) le tecniche di recupero e compensazione del lavoro straordinario;
f) la contrattazione delle modalita` di distribuzione dell’orario di lavoro;
g) i rapporti tra autonomia individuale e autonomia collettiva.
7.1. La nozione di orario di lavoro.
Come e` noto l’attuale sistema di regolamentazione dell’orario di lavoro e i limiti di durata massima della prestazione lavorativa sono riferiti esclusivamente all’ambito del lavoro effettivo (6). Il regolamento di attuazione della legge del ’23 (art. 5 R.D. n. 1955/1923) esclude espresamente dal concetto di lavoro effettivo i seguenti periodi:
— i riposi intermedi, purche´ “prestabiliti ad ore fisse ed indicati nell’orario di cui all’art 12”;
— “le soste di lavoro di durata non inferiore a dieci minuti e complessivamente non superiore a due ore, comprese tra l’inizio e la fine di ogni periodo di giornata di lavoro, durante le quali non sia richiesta alcuna prestazione” (7);
— il tempo impiegato dal lavoratore per recarsi al lavoro.
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(6) Cosı` l’art. 1 del R.D.L. 692 del 1923: “La durata massima normale della giornata di lavoro... non potra` eccedere le otto ore al giorno e le quarantotto ore settimanali di lavoro effettivo”.
(7) La legge inoltre prevede che il limite di dieci minuti non venga applicato qualora le soste siano concesse nei lavori molto faticosi allo scopo di ripristinare le condizioni fisiche.
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Rientrano invece nell’ambito della nozione di lavoro effettivo i lavori preparatori e complementari, come quelli di manutenzione, di apprestamento delle macchine, di collaudo ecc.
La norma delinea quindi con sufficiente precisione che cosa debba intendersi per lavoro effettivo, rimanendo al di fuori di esso i periodi o gli intervalli di inattivita` del lavoratore durante i quali a quest’ultimo e` consentito allontanarsi dal luogo di lavoro. Si ritiene (Xxxxxx, 1987, 27) che la legge sia ispirata al criterio della libera disponibilita` degli intervalli di inattivita` ai fini della loro esclusione dal limite di orario. Infatti, le c.d. pause interne non sono considerate lavoro effettivo se di durata brevissima (inferiori a dieci minuti), perche´ esse non consentono al lavoratore la piena disponibilita` del relativo tempo libero.
In questo quadro legislativo occorre inserire la questione dei riflessi prodotti da una organizzazione del lavoro derivata da un’impresa fortemente automatizzata.
Gia` con il passaggio dal modello di impresa tayloristico ad una automatizzata, Il lavoratore modifica enormemente sia la quantita` che la qualita` di occupazione del proprio tempo: si passa da una situazione di stretta osservanza delle proprie mansioni e di saturazione di tutto il tempo a disposizione, ad un ruolo di maggior controllo dei diversi processi produttivi e di minore dipendenza dalla macchina.
Le scelte organizzative effettuate, in definitiva, devono avere la capacita` di “assorbire solo una parte del tempo dei lavoratori dell’impianto” (Butera, 1993, 44), e le stesse pause lavorative costituiscono, accanto alla prestazione effettiva, un’aspetto centrale in quanto la prestazione stessa viene connotata sempre piu` dalla semplice messa a disposizione di energie in compiti di attesa e controllo, “secondo un modello piu` astratto di attivita` lavorativa” (Butera, 1993, 68).
Tutto cio` comporta, a giudizio di chi scrive, un diverso modo di porsi del lavoratore rispetto al concetto di lavoro effettivo che contrassegna i limiti alla durata massima della prestazione, concetto elaborato circa settanta anni fa, quando la prestazione del lavoratore era concepita in termini di stretta dipendenza dalla macchina a cui era addetto per almeno otto ore al giorno. Per questo lavoratore nel corso della giornata o vi era prestazione effettiva (comprese le pause inferiori a dieci minuti e i lavori preparatori) o c’era inattivita`. La legge del 1923 considera cioe` l’orario di lavoro, nella sua estrinsicazione giornaliera, come il periodo di tempo in cui il lavoro e` effettivamente prestato, con la sola attenuazione costituita dalle pause inferiori ai dieci minuti in cui viene preso in considerazione anche la semplice messa a disposizione della energie del lavoratore.
Nell’ambito invece della fabbrica integrata possiamo segnalare l’emergere di tendenze fra di loro contradditorie. Da una parte l’obiettivo “di rendere interdipendente cio` che avviene nelle diverse fasi del processo produttivo e di apportare, momento per momento quelle correzioni che si rendono necessarie” (Paracone, 1988a, 9), comporta la trasformazione delle mansioni del lavoratore verso un modello di maggiore professionalita` e partecipazione. Rispetto ai tempi di lavoro l’effetto piu` marcato puo` consistere nella forte riduzione dei tempi interni di inattivita` rispetto all’operaio del modello di impresa automatizzato.
D’altro canto a livello di applicazione di progetti di qualita` totale vanno segnalate espe- rienze che si discostano dalle precedenti affermazioni: nell’ambito del sistema di produzione della Toyota, ad esempio, la ricerca del miglioramento continuo e la stretta concatenazione dei processi produttivi determina, al verificarsi di un dato problema, l’arresto di tutta la linea produttiva fino a che non sia stata trovata la causa, anche se cio` puo` determinare delle gravi ripercussioni sull’andamento della produzione (nel sistema di produzione della Toyota questo sistema viene chiamato “autonomazione”, in quanto le macchine vengono progettate per fermarsi automaticamente ogni volta che insorgono dei problemi). Il fenomeno appena descritto indica in maniera eloquente come la fase di inattivita` dei lavoratori in questo caso non sia un episodio, ma si inquadri nel sistema complessivo della strategia della qualita` totale.
Sta di fatto comunque che risulta superata nei fatti la normativa del ’23 sulla nozione di orario: la rigida demarcazione tra lavoro effettivo ed inattivita` non pare piu` plausibile in un sistema produttivo orientato alla massima flessibilita`, in cui il suddetto limite puo` essere superato ogniqualvolta vi sia la necessita`.
In attesa pertanto che il legislatore metta mano ad una riforma della legge del 1923 formulando una nozione di orario di lavoro, ispirandosi anche ad alcuni modelli delle
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legislazioni di altri Paesi (8), occorre stabilire se una estensione convenzionale tra le parti del rapporto della durata della pausa interna sia ammissibile oppure no.
L’art. 5 del R.D. n. 1955 non puo` costituire una norma inderogabile in quanto essa pone una semplice presunzione che le pause c.d. “interne” inferiori a 10 minuti siano tempo lavorativo e non destinato al riposo. Nulla vieta a questo punto che le parti (individuali o collettive) individuino delle pause piu` ampie di semplice attesa in cui il lavoratore si mantenga a disposizione del datore di lavoro e che costituiscono convenzionalmente “lavoro effettivo”. In caso contrario si violerebbe proprio lo spirito della norma in quanto la prestazione giornaliera del lavoratore sarebbe costituita dalla sommatoria delle ore di prestazione resa effettivamente piu` il tempo di semplice attesa, prolungando cosı` la durata normale della sua prestazione (in tal senso Xxxx. 17 giugno 1981, n. 3948).
7.2. Durata della prestazione.
Si tratta di uno degli aspetti piu` rilevanti nell’ambito di politiche aziendali di flessibilita` del tempo di lavoro.
Come e` dimostrato da alcune legislazioni straniere e da contratti collettivi nazionali, la tendenza in atto e` quella di uscire dalla rigida predeterminazione della durata massima della giornata e della settimana lavorativa, prevedendo che la durata normale del lavoro non superi un certo numero di ore settimanali, o addirittura, un monte ore annuo con il rispetto di una certa media oraria settimanale (ad esempio la modulazione di orario prevista dalla legislazione francese, oppure l’esperienza della “annualizzazione” nella legislazione belga). Nell’ambito dei progetti orientati alla “qualita` totale”, la possibilita` di agire in maniera flessibile sulla durata della prestazione senza sottostare a vincoli particolari, costituisce (e costituira`) un aspetto centrale delle nuove politiche aziendali.
Questa possibilita` non appare pero` cosı` facilmente attuabile, in considerazione dei vincoli posti dalla nostra legislazione sulla durata massima della prestazione.
Come e` noto infatti nel nostro ordinamento il nodo centrale della questione riguarda la possibilita` di rapportare il concetto di durata normale massima dell’orario di lavoro alla settimana, cosı` come fanno, ad esempio, i contratti di lavoro dei Metalmeccanici e del Commercio e non alla giornata. L’interpretazione prevalente che invece si ritrova nell’am- bito della giurisprudenza in merito all’art. 1 del R.D.L. 692/23, e` quella di considerare come superamento della durata normale massima l’effettuazione di ore di lavoro in piu` sia rispetto alla giornata (otto ore), sia rispetto alla settimana (48 ore) (9).
La dottrina appare per contro meno rigida nell’ammettere l’alternativa e non il concorso tra i due limiti, giornaliero e settimanale, superando il dato letterale della norma con una serie di argomentazioni (10).
Questa dottrina giunge alla conclusione di ritenere la norma del 1923 istitutiva di un limite flessibile alla durata normale giornaliera della prestazione: le 8 ore devono essere rispettate come limite di durata giornaliera media nell’arco della settimana.
Un’interpretazione del genere permetterebbe sicuramente di agevolare la richiesta di flessibilita` da parte imprenditoriale e potrebbe nel contempo favorire indirettamente le esigenze di flessibilita` del lavoratore; inoltre consentirebbe alle aziende di avvicinare la propria organizzazione del lavoro e quindi la propria risposta in chiave di flessibilita` alla situazione dei concorrenti stranieri che operano in contesti legislativi indirizzati verso modelli di massima elasticita`.
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(8) Significativa e` in tal senso e` la recentissima proposta di Xxxxxxxxx (doc. 6661/93) che deve essere approvata dal Parlamento europeo che definisce l’orario di lavoro “come ogni periodo durante il quale il lavoratore e´ al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attivita`, o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o alle pratiche nazionali. Si veda il commento di X. Xxx in DPL, 1993, 2685.
(9) Cosı` Cass. 20 aprile 1983, n. 2729, in MGL, 1984, 35; Pret. Torino 12 luglio 1984, L80, 1985, 174.
(10) Si veda da ultimo Xxxxxx, p. 19 e ss. che fonda le sue argomentazioni su una serie di fattori che possiamo sinteticamente cosı` riassumere:
— se il limite giornaliero e quello settimanale fossero concorrenti il secondo sarebbe del tutto superfluo dal momento che non possono essere superate le 48 ore settimanali lavorando solo 8 ore per 6 giorni;
— per dare un senso alla formulazione legislativa occorre che il limite giornaliero vada riferito alle attivita` agricole dei lavoratori assunti “a giornata”, particolarmente frequente negli anni venti, e il limite settimanale ai rapporti di durata superiore alla settimana. Da qui si spiega il senso della disgiuntiva “o” e pertanto l’orario massimo, secondo questa lettura, sarebbe pari a otto ore al giorno o a quarantotto settimanali, a seconda, rispettivamente, che il rapporto di lavoro abbia durata inferiore o superiore ad una settimana.
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A giudizio di chi scrive pero` una tale interpretazione sembra urtare contro lo spirito della norma rivolta a tutelare il lavoratore contro i possibili abusi del datore di lavoro, dal momento che quest’ultimo potrebbe sentirsi autorizzato a far compiere prestazioni giorna- liere senza alcun limite di orario, in assenza inoltre nel nostro ordinamento di una precisa norma che sancisca l’entita` del riposo giornaliero (11).
Il richiamo alla norma costituzionale dell’art. 36 non e` sufficiente dal momento che quest’ultima afferma sicuramente che la giornata lavorativa debba avere una durata massima, ma senza specificarne l’entita`, rinviando sul punto ad una norma di legge che nella fattispecie e` costituita dall’art. 1 del R.D.L. del 1923.
La stessa legislazione speciale del ’23 consente inoltre una ampia gestione flessibile del tempo di lavoro: intendiamo riferirci sia all’art. 4 del R.D. 692, che all’art. 9 del R.D. 1955/23. Il primo disciplina la flessibilita` ultrasettimanale per esigenze tecniche e stagionali a favore delle attivita` e con i tempi previsti dal decreto di attuazione n. 1957/23, consentendo di superare le 8 ore giornaliere e le 48 settimanali, purche´ la durata media del lavoro entro determinati periodi, non ecceda i limiti indicati dal successivo R.D. 1957.
La seconda norma consente il superamento delle 12 ore settimanali massime di lavoro straordinario, a condizione che esista un accordo tra le parti e per un periodo non superiore di 9 settimane, sempre che la media di lavoro straordinario in tale periodo non ecceda le 12 ore settimanali.
Dall’insieme delle suddette norme si ricaverebbe, secondo un’altra recente posizione dottrinale (Xxxxxxxx, 1988, 100), che il limite generale delle otto ore giornaliere non e` da considerare come orario medio, perche´ nei casi in cui il legislatore ha inteso farvi riferi- mento lo ha fatto espressamente.
Da quanto detto si possono a questo punto tirare alcune conclusioni:
— la durata normale massima della prestazione deve essere contenuta sia rispetto al limite giornaliero delle 8 ore sia rispetto a quello settimanale delle 48;
— un accordo individuale intercorso tra le parti del rapporto che deroghi al suddetto principio e` senz’altro nullo in base all’art. 8 R.D. 692.
Rimane da chiarire un punto fondamentale della questione e cioe` quello relativo alla sorte di accordi collettivi derogatori del regime legale. Nella realta` due importanti contratti collettivi di categoria, quello dei Metalmeccanici privati e del Commercio rapportano l’ordinarieta` o la straordinarieta` della prestazione rispetto al solo limite settimanale (12). La possibilita` di ritenere senza alcun dubbio nulle clausole di questo genere risiede nel considerare la riserva di legge contenuta nel c. 2 dell’art. 36 della Costituzione come assoluta: in tal caso infatti nessun altra norma che non sia una legge ordinaria potrebbe intervenire sulla materia, ne` una fonte normativa secondaria, ne` un accordo collettivo.
Ritenendo invece la riserva di legge in materia di durata giornaliera della prestazione come relativa e non assoluta, si puo` far salva la costituzionalita` dell’art. 2107 del Codice civile, in cui vengono fatte convivere le due fonti della legge e delle norme corporative (oggi contrattazione collettiva).
In tal modo si potrebbe recuperare la contrattazione collettiva a ruolo di fonte della limitazione giornaliera della prestazione lavorativa, a patto pero` che la stessa fissi in maniera precisa l’entita` massima della durata dell’orario giornaliero nell’ambito di una durata media della durata settimanale. Non sarebbe cioe` legittima una clausola che stabilisse un limite di durata media della prestazione settimanale, lasciando pero` indeterminata la durata giorna- liera.
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7.3. Le pause e i riposi intermedi.
Il nostro ordinamento positivo in materia di tempo di lavoro si caratterizza da un lato per l’estremo rigore di alcune norme, come quelle sulla durata normale della prestazione o sull’obbligo del riposo settimanale, e dall’altro dalla mancanza di previsioni in merito ad altri aspetti come ad esempio le pause e riposi giornalieri. Sia in un caso che nell’altro infatti
(11) La stessa proposta di direttiva gia` citata al paragrafo appare estremamente vaga sul punto del riposo giornaliero, limitandosi a stabilire la garanzia di un periodo minimo di riposo di 11 ore consecutive nell’ambito di ogni periodo di 24 ore.
(12) D’Avossa, in Contratto dei Metalmeccanici privati, IPSOA, 1987, p. 120, ritiene questo tipo di xxxxxxxx xxxx’altro nulle per contrasto con gli artt. 1 e 8 del citato R.D. 692.
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la legge non impone alcun vincolo per le parti, anche se nel caso del riposo giornaliero l’intervallo tra una prestazione di una giornata e quella della successiva deve essere tale da non frustrare lo scopo dell’interruzione che e` quello di far ritemprare le energie del lavoratore (13).
Analogo discorso va fatto in tema di pause nell’ambito della prestazione giornaliera. Anche qui manca una norma di ordine generale che imponga un minimo orario di pausa nell’am- bito della stessa prestazione, tranne che per i lavoratori domestici, i minori, gli addetti ai servizi di trasporto extra urbani, gli addetti alla coltivazione del riso e coloro che sono impiegati nei lavori in cassoni ad aria compressa (14).
La mancanza di norme cogenti per la generalita` dei lavoratori fa sı` che siano consentite pattuizioni di qualisiasi tipo in ordine alla presenza, all’entita` e alle modalita` di fruizione delle pause stesse. Inoltre una clausola collettiva che fissi il diritto alla pausa retribuita (come nel caso citato dei Metalmeccanici), puo` prevederne la sostituzione mediante accantonamenti, monetizzazioni ecc., se le condizioni tecnico-organizzative non consentano l’effettivo godimento del beneficio (D’Avossa, 1987, 121).
La questione delle pause, soprattutto quelle intermedie nell’ambito della prestazione giornaliera possono costituire un valido strumento di flessibilita` nell’ambito dell’organizza- zione del lavoro di una fabbrica integrata, per una serie di ragioni: le pause rappresentano lo strumento piu` facilmente gestibile sia per ragioni pratiche che per motivi giuridici, dal momento che non esistono norme inderogabili di tutela.
A riguardo e` esemplare l’accordo aziendale concluso tra la Fiat e le associazioni sindacali per regolamentare l’organizzazione del lavoro della fabbrica di Melfi (accordo 11 maggio 1993).
L’accordo in questione, pur non presentando modelli rivoluzionari di organizzazione degli orari, dimostra pero` come gli interventi su fattori apparentemente marginali, come le pause, possa essere foriera di sviluppi interessanti e in grado di armonizzare i problemi di competitivita` e qualita` delle aziende, con la cura del tempo libero dei lavoratori.
Viene infatti previsto un orario di lavoro strutturato su sei giorni alla settimana, con alternanza dei lavoratori su tre turni (6, 14, 22) e un orario giornaliero pari a 7,45 minuti compresa la mezz’ora di intervallo retribuita che viene collocata a fine turno con possibilita` (a scelta del lavoratore) di uscire dalla fabbrica. L’orario effettivo e` quindi di 7,15 minuti per ciascun lavoratore, mentre tra un turno e l’altro e` prevista un intervallo di 45 minuti. Questo sistema consente quindi una maggiore concentrazione della prestazione lavorativa a tutto vantaggio della azienda, compensata con una minor presenza dei lavoratori in fabbrica e con relativo ampliamento del periodo destinato al tempo libero.
7.4. La distribuzione dell’orario di lavoro.
La questione della distribuzione dell’orario di lavoro costituisce sicuramente uno degli argomenti piu` importanti nell’ambito delle politiche gestionali del tempo di lavoro nel corso di questi ultimi anni.
La distribuzione dell’orario di lavoro riguarda le concrete modalita` con cui l’orario di lavoro (nella sua determinatata estensione temporale) viene distribuito nel corso della giornata, piuttosto che nella settimana o nel mese, l’organizzazione del lavoro a turni, l’effettuazione del lavoro notturno, l’utilizzo dei riposi settimanali ecc.
La legge non detta alcuna norma a riguardo, fatta eccezione per il lavoro a tempo parziale (art. 5 della legge 863/84), mentre a livello di contrattazione collettiva, pur in un quadro non omogeneo, assistiamo in via generale alla fissazione della distribuzione “normale” dell’ora- rio, con la possibilita` che il datore di lavoro opti per altre soluzione, tramite, generalmente, lo strumento dell’accordo aziendale o dell’esame preventivo con le RSA.
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(13) In alcuni casi la legge impone direttamente ad alcuni rapporti di lavoro speciali, un minimo di ore di riposo tra una prestazione e l’altra a cavallo di due giornate: lavoratori domestici (otto ore); addetti ai servizi di trasporto pubblico in concessione, ai servizi pubblici extraurbani e trasporti su strada (da 7 a 11 ore).
In Germania il periodo di riposo giornaliero e` fissato in 11 ore, mentre in Spagna e` di 12 ore. La recente proposta di Direttiva della Comunita` europea fissa il periodo di riposo giornaliero in 11 ore.
(14) Il CCNL dei Metalmeccanici privati prevede un intervallo retribuito di mezzo’ora per i lavoratori turnisti (art. 5 parte comune). La proposta di Xxxxxxxxx citata alla nota precedente stabilisce il diritto a delle pause qualora il lavoro superi le 6 ore. Infine la Direttiva n. 90/270 impone il diritto alle pause per gli addetti ai lavori di videoterminale.
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La questione della distribuzione o della collocazione temporale della prestazione ha sicuramente subito un incremento di interesse da parte sia della dottrina che della giuri- sprudenza per una serie di motivi tra cui ci sentiamo di mettere al primo posto la necessita`, derivata dalle trasformazioni produttive che abbiamo cercato di descrivere all’inizio di questo intervento, di destandardizzare i tempi di lavoro e quindi di variare corrisponden- temente i regimi di orario. A questa esigenza, come ha fatto notare qualche autore, hanno poi dato una spinta rilevante la diffusione crescente del lavoro a tempo parziale e le riduzioni degli orari (Xxxxxx, 1986, 733), ampliando le fasce orarie a disposizione dell’im- prenditore. A questi fattori ci sentiamo di aggiungere anche la parziale rigidita` che l’impresa incontra nell’attuare una certa flessibilita`, attraverso l’estensione della durata normale della prestazione, a causa dei limiti imposti dalla attuale normativa.
L’analisi giuridica prevalente nel corso degli anni ottanta si e` sostanzialmente soffermata sulle conseguenze derivanti dalla modifica della collocazione temporale della prestazione, raggiungendo le seguenti schematiche conclusioni:
— il potere di modificare l’orario di lavoro compete per intero al datore di lavoro, tranne che per l’ipotesi di lavoro a tempo parziale, in cui si richiede l’accordo tra le parti;
— gli eventuali accordi individuali che modificano la distribuzione d’orario sono in grado di prevalere su di un accordo collettivo confliggente.
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8. Qualita’ totale, distribuzione dell’orario e nuovi interessi.
Quanto descritto in maniera estremamente semplificata al paragrafo precedente costituisce il quadro legislativo ed interpretativo attualmente esistente, alla luce del quale collocare le problematiche conseguenti alla applicazione di progetti di qualita` totale in azienda.
Come gia` accennato in precedenza, riuscire ad enucleare delle vere e proprie linee-guida sui comportamenti che potranno essere assunti e` alquanto difficile. Ci limiteremo quindi a tratteggiare alcune possibili ipotesi, mettendo in risalto le principali differenze con le tendenze in atto.
I principi sui cui si basano le strategie produttive orientate alla qualita` totale sono orientati in enorme misura verso il continuo miglioramento dei processi produttivi, sulla base anche delle sollecitazioni dei lavoratori stessi, e quindi sul continuo processo di destandardizza- zione delle operazioni, cosa che si contrappone al modo di produrre “tradizionale”, in cui invece prevale la ricerca continua degli standard, in funzione della minimizzazione dell’in- tervento manuale (Imai, 1986, 15).
Un tal sistema di produzione non puo` quindi non intervenire pesantemente sulla stessa organizzazione produttiva e quindi sul terreno della organizzazione dell’orario di lavoro: la ricerca di nuovi standard e l’esigenza del miglioramento possono sconvolgere, soprattutto in tempi rapidi l’organizzazione degli orari in essere, se cio` e` di ausilio al miglioramento stesso. A questo proposito possiamo sicuramente trarre delle indicazioni in tal senso dall’espe- rienza giapponese che piu` di ogni altra realta` economica ha concretamente applicato i principi della qualita` totale, anche se tale esperienza va poi calata nella realta` non solo produttiva, ma anche giuridica del nostro Paese.
Due sono gli aspetti che emergono dalla lettura dei testi sulla qualita` globale:
— il miglioramento della qualita` dei processi produttivi deve prevalere su altri obiettivi quali la produttivita` oppure la ricerca di costi piu` bassi e deve avvenire in termini di risposta rapida attraverso strutture e comportamenti flessibili;
— la spinta al miglioramento puo` nascere (anzi e` opportuno che nasca) su sollecitazione dei singoli lavoratori che proprio per questo possono sentirsi piu` coinvolti ed appagati nel portare avanti il nuovo processo produttivo.
Questi due aspetti sono in grado, secondo il citato autore giapponese (Imai, 1986, 128 e s.), di modificare grandemente i rapporti tra lavoratori da una parte e management dall’altra: in una situazione del genere i rapporti non sono piu` concepiti in termini di contrapposizione, ma di collaborazione partecipata, onde per cui dovrebbe attenuarsi notevolmente anche il ruolo mediatorio dell’agente collettivo, con il prevalere di rapporti informali ed individuali su rapporti orientati all’organizzazione nel suo complesso, mediati attraverso processi negoziali.
Per concludere questa rapida analisi, ci sembra interessante verificare l’impatto sulla organizzazione degli orari di un sistema di produzione Just-in-time.
Come abbiamo avuto modo di evidenziare il sistema JIT si basa su due componenti
essenziali: il livellamento della produzione e il meccanismo di retroazione (cfr. par. 5.1). Il 43
Ricerche Qualita’ totale
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Xxxxxx Xxxxxxxx
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primo meccanismo, basandosi sulla omogeneizzazione delle cadenze produttive, e quindi su dei ritmi produttivi uguali, richiede interventi sulle attrezzature e sulle lavorazioni, e relativamente sui tempi, qualora le cadenze tra i diversi “segmenti” non siano le stesse (Paracone, 1988b, 11). Occorre cioe` modificare la velocita` della macchina oppure aumentare gli organici, o al limite, a parita` di condizioni, chiedere un aumento della durata oraria della prestazione, se lo scarto tra le diverse cadenze dovesse essere minimo. Non riteniamo invece fattibile, in base ai principi della qualita` totale, un’intensificazione dei ritmi individuali con segmentazione della prestazione tra piu` lavoratori che lavorano non a tempo pieno in modo da compensare l’accresciuto sforzo.
Anche il secondo dei meccanismi tipici del JIT (retroazione) si presta a considerazioni interessanti.
La possibilita` di correggere rapidamente il flusso regolare della produzione, per far fronte ai mutamenti improvvisi del mercato, richiede un enorme grado di flessibilita`: i lavoratori stessi devono intervenire in tempo reale per correggere il flusso produttivo senza attendere l’intervento della direzione (Paracone, 1988b, 11). Cio` nella pratica non e` poi cosı` semplice dal momento che ad un risultato del genere ci si puo` arrivare, ad esempio, o attingendo ad un livello minimo di scorte oppure sovradimensionando la capacita` produttiva (Brandolese, 1993). Dal lato del tempo di lavoro la possibilita` di intervenire in tempo reale sulla correzione dei processi puo` avvenire, a nostro giudizio, solo con incremento dei ritmi e del lavoro straordinario fino a che non sia stato ripristinata la regolarita` del flusso.
Quali conclusioni possono essere a questo punto tratte dall’analisi sin qui condotta? Non si puo` dare per scontato niente in una fase in cui i processi di cambiamento sono ancora in una fase sperimentale, scarsamente diffusi e soprattutto senza tener conto di altre variabili in via di definizione quali il mutamento di assetto delle mansioni e il ruolo della contrattazione collettiva.
Fatte queste doverose premesse ci proponiamo di tratteggiare le linee di tendenza sugli assetti organizzativi del tempo di lavoro.
Innanzitutto va notato che, mentre con l’introduzione delle tecnologie e dell’automazione la manovra principale delle imprese e` stata quella di agire sulla leva della distribuzione degli orari in funzione della possibilita` di sfruttare al massimo gli impianti, con il sistema della qualita` totale la gestione del tempo sembra incentrata meno sulla collocazione temporale della prestazione. La fabbrica “corta”, la presenza di personale con ruoli interscambiabili, l’eliminazione degli sprechi dei tempi di lavorazione e, nel sistema JIT, l’obiettivo della regolarita` della produzione, costituiscono fenomeni che portano, a nostro giudizio, a riconsiderare il significato della gestione degli orari di lavoro e della stessa ricerca di flessibilita` che le manovre sui tempi in genere richiedono. Le aziende richiederanno probabilmente meno flessibilita` di orario perche´ in un sistema improntato alla qualita` totale, la flessibilita` dovra` essere di tutto il sistema stesso, a partire dall’assunzione, durante la fase di gestione del rapporto (in particolare le mansioni e la retribuzione), fino al recesso.
Aumenteranno invece gli interventi diretti sulle pause soprattutto nella direzione di una loro riduzione per ottimizzare i tempi; si ricorrera` al lavoro straordinario estemporaneo, non programmato, come sistema di risposta in tempo reale alle disfunzioni del sistema produt- tivo o alle esigenze del mercato. A ben vedere si tratta, in entrambi i casi, di strumenti (pause interne e straordinario) gestibili direttamente dall’azienda e dal lavoratore, ovvia- mente nei limiti di legge.
I mutamenti cui si e` fatto cenno aprono in gran parte nuove prospettive in tema di gestione collettiva degli interessi dei lavoratori coinvolti in progetti di qualita` totale, anche senza pensare di applicare alla realta` delle nostre relazioni industriali le esperienze di altri paesi, oltretutto lontani dalla nostra cultura giuridica.
Il dato di fondo e` che si potrebbe verificare un notevole mutamento degli interessi in gioco in grado di mettere in discussione gli assetti tradizionali su cui si basano le attuali relazioni industriali.
Occorre sicuramente partire dalla premessa, riconosciuta del resto dagli stessi rappresen- tanti delle imprese (Magnabosco, 1993,36) che in un sistema orientato alla qualita` e con una forte partecipazione dei lavoratori, il ruolo degli stessi agenti negoziali deve non solo essere confermato, ma addirittura valorizzato.
Rimanendo sul terreno dell’orario di lavoro ci sembra che gli elementi salienti possano esere ridotti ai seguenti:
— l’emergere di un possibile interesse del lavoratore ai cambiamenti organizzativi (e quindi dell’orario di lavoro), in funzione di un miglioramento della qualita` complessiva del proprio
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lavoro e non solo per aumentare i margini del tempo libero a disposizione. Molto spesso questo interesse, indirizzato soprattutto ai piccoli miglioramenti non solo potrebbe non essere negoziato dalle rappresentanze sindacali, ma addirittura ignorato dalle stesse in quanto oggetto di discussione e negoziazione tra lavoratori e datore di lavoro.
— il sindacato potra` quindi dedicarsi ad un ruolo piu` politico, cioe` di gestione generali degli orari e di organizzazione complessiva degli stessi in funzione degli obiettivi di qualita`, non disperdendo le proprie energie in compiti di risoluzione di “microconflitti” legati a situazioni specifiche e direttamente gestibili dai lavoratori stessi in prima persona.
La tendenza da noi evidenziata alla fine del paragrafo precedente di una spinta probabile verso una maggiore uniformita` di orari, in controtendenza rispetto alla fase di automazione, e verso una minore accentuazione di orari “su misura”, porta verso un recupero del ruolo tradizionale rivestito dalla contrattazione collettiva, nella gestione degli orari, di compar- tecipe con l’impresa dell’organizzazione complessiva.
Orari di lavoro e
qualita’
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9. Conclusioni.
Il percorso dei mutamenti delineati in questo intervento, a partire da quelli introdotti a partire negli anni ottanta con l’introduzione dei processi di automazione, per giungere all’analisi della fabbrica integrata, ci ha portati a disegnare una sorta di mappa del sistema di organizzazione del tempo di lavoro.
Quello che, a nostro giudizio, emerge e`, rimanendo ovviamente immutato il quadro normativo, una tendenza verso un sistema di orari di lavoro alquanto diverso rispetto a quello introdotto con i processi di automazione.
La conclusione forse un po’ paradossale che ci sentiamo di trarre e` che l’organizzazione del tempo di lavoro nel futuro modello di fabbrica integrata, sara` meno imperniata sulla flessibilita` degli orari, sulla diversificazione degli stessi e di piu` sulla ottimizzazione del tempo di lavoro effettivo, sulla eliminazione degli sprechi, in un quadro di maggiore partecipazione dei lavoratori e delle loro organizzazioni. Infatti in una prospettiva teorica di orientamento alla qualita` e` il sistema nel suo complesso e, in particolare, il rapporto di lavoro che dovranno adattarsi a delle logiche di flessibilita` e non unicamente, come accaduto in un recente passato, il solo orario di lavoro.
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Diritto delle relazioni industriali N.1-1994
Tecniche di selezione del personale e indagini sulle opinioni dei lavoratori in un progetto di Xxxxxxx’ Totale.
Spunti critici.
Xxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxx
1. Premessa. 2. La motivazione dei lavoratori come oggetto di indagine. Aspetti problema- tici. 2.1. I colloqui di selezione pre-assuntivi. 2.2. La somministrazione dei test. 2.2.1. I test proiettivi. 2.2.2. I test psico-attitudinali. 2.3. Rilevazione del clima e indagini motivazionali.
3. Divieto di indagini sulle opinioni e ‘cultura del consenso’. 4. Il trattamento informatico dei dati e i limiti dell’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori.
Sommario
1. Premessa.
“Prima di produrre merci, dobbiamo produrre uomini”: questa, in sintesi, l’idea fondamen- tale cui si ispirano le strategie di gestione del personale improntate al modello della Qualita` Totale. La centralita` delle risorse umane appare, infatti, come uno dei punti chiave di quella politica aziendale che tende al raggiungimento della qualita` totale del prodotto, proprio attraverso la partecipazione e responsabilizzazione di tutti i dipendenti in tutte le fasi della produzione. Il riferimento obbligato e` alle aziende giapponesi che, fin dagli anni cinquanta, nel corso della grande opera di ricostruzione post-bellica, hanno basato in massima parte la realizzazione dei propri obiettivi sull’utilizzo fino all’estremo dell’unica risorsa praticamente illimitata a loro disposizione: la forza lavoro. In quel dato contesto, per ottenere il massimo contributo possibile da ogni singolo lavoratore, si sono attuati modelli gestionali, successi- vamente esportati in occidente, che prevedevano in primo luogo sia il rifiuto del taylorismo sia l’applicazione delle cosiddette teorie motivazionali elaborate negli Stati Uniti fin dagli anni trenta.
Secondo tali teorie, fondate sull’assunto che la competitivita` aziendale sia determinata in massima parte dalla politica di gestione del personale, e` indispensabile ottenere una efficace cooperazione dei dipendenti all’aumento della produttivita`, valorizzando e promuovendo l’autorealizzazione di ciascuno di essi attraverso il lavoro. Di conseguenza, motivazione, partecipazione, coinvolgimento, responsabilizzazione dei lavoratori diventano gli obiettivi principali di una strategia che si propone di “utilizzare non solo il cervello ma anche il cuore degli uomini” (Xxxxx 1990). Cio` significa che la costruzione di una cultura comune e la proposizione di modelli comportamentali omogenei a tale cultura acquistano un ruolo centrale nei programmi di formazione e addestramento del personale; la filosofia del- l’azienda deve essere quella di “incoraggiare il personale a comportarsi sempre e comunque nel rispetto di standards etici che devono far parte del bagaglio personale piu` che di regole fisse” (Xxxxxxx 1990). Uno dei fondamenti delle teorie motivazionali si basa sulla conside- razione che, essendo ogni comportamento umano attivato da un bisogno, per ottenere un certo comportamento occorre indurre determinati bisogni; nei manuali teorici sulla Qualita` Totale si ricorre a un modello detto ‘scala di Xxxxxx’ (dal nome dello psicologo americano
che l’ha elaborata) che inquadra i bisogni dell’uomo, ognuno dei quali motiva determinati 47
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Indagni sulle opinioni
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comportamenti, in cinque livelli: fisiologici, di sicurezza, sociali, bisogni dell’Io, bisogni di autorealizzazione.
In un progetto di Qualita` Totale, la formazione e l’addestramento sono orientate a ottenere il massimo contributo possibile da ciascun dipendente, stimolandone il bisogno di autorea- lizzazione, attraverso una serie di meccanismi premianti ed incentivanti che agiscono nella sfera della personalita` morale del lavoratore, sul presupposto teorico che l’appagamento dei bisogni materiali — sicurezza del posto di lavoro e incentivi salariali — non sia sufficiente a motivare il lavoratore a dare il massimo di se´. In conseguenza di cio` e` considerata dote fondamentale di un ‘capo’ quella di saper motivare e coinvolgere negli obiettivi dell’azienda i propri collaboratori, riuscendo a tradurre le potenzialita` di ognuno in contributi utili alla produzione. In Giappone questa politica di gestione del personale ha effettivamente consentito alle aziende di sfruttare fino all’estremo le capacita` dei lavoratori di ogni livello, raggiungendo i ben noti risultati in termini di efficienza produttiva.
L’esportazione dei sistemi di gestione ispirati ai principi della Qualita` Totale in Occidente, e` avvenuta o in forma diretta, attraverso i cosiddetti transplant (stabilimenti di aziende giapponesi, installati in Occidente), o in forma indiretta, con l’appropriazione culturale del modello giapponese da parte delle aziende occidentali. L’effetto complessivo, e` stato comunque quello di indirizzare la politica di gestione del personale verso modelli parteci- pativi e consensuali con i quali, infine, hanno dovuto confrontarsi le organizzazioni sindacali e deve confrontarsi il diritto del lavoro.
Le diverse ricerche (Xxxxxxx 1993) condotte sui transplant europei hanno messo in evidenza come l’attuazione della politica della Qualita` Totale, affidata al management proveniente dalla casa madre, abbia comportato in primo luogo una attentissima cura nel selezionare e plasmare la mano d’opera locale, in modo da ottenere un ‘clima’ culturale ricettivo di valori, orientamenti, modelli di comportamento imposti da un programma di massimizzazione della produttivita` aziendale.
Puo` essere significativo notare come l’operazione di esportazione di un determinato modello organizzativo e culturale nelle fabbriche sia riuscita molto piu` facilmente in territori ‘vergini’, dove l’installazione di un nuovo stabilimento costituiva l’unica opportunita` di lavoro nella zona (si puo` ricordare lo stabilimento di Melfi della Fiat), mentre ha trovato maggiori ostacoli nelle zone gia` industrializzate, scontrandosi con una radicata cultura operaia tradizionalmente conflittuale. D’altro canto lo scontro culturale e ideologico ricade, in concreto, sulle condizioni di lavoro e di vita: la maggior parte delle aziende giapponesi, per esempio, pretende la stipulazione di una clausola contrattuale per cui l’azienda, in circostanze che, a proprio insindacabile giudizio, risultino critiche, si riserva il diritto alla illimitata disponibilita` fuori orario dei dipendenti. (Xxxxxxxx e Xxxxxxx, 1991, 1992).
In un progetto di Qualita` Totale, la grande attenzione riservata alla formazione e all’adde- stramento del personale comporta la necessita` da parte dell’azienda di acquisire il maggior numero possibile di dati sulle caratteristiche professionali e personali dei lavoratori attra- verso una serie di strumenti in grado di misurare e valutare attitudini, bisogni, capacita`, impegno e risultati raggiunti. Questi strumenti di misurazione intervengono in ogni fase della vita lavorativa: nella selezione dei candidati all’impiego, nella progressione in carriera e nella mobilita` interna all’azienda e, infine, tutti i dati accumulati durante la vita lavorativa potranno avere un’influenza sulla scelta dei lavoratori da prepensionare, collocare in cassa integrazione o licenziare. Colloqui, performances reviews, test psico-attitudinali, sondaggi d’opinione, indagini motivazionali costituiscono i principali canali attraverso i quali l’azienda raccoglie informazioni sui lavoratori. Dato che ognuno di questi strumenti di indagine puo` costituire un attentato al diritto di riservatezza e porsi in contrasto con la dignita` e la liberta` dei lavoratori, si cerchera` di valutarne la compatibilita` con i principi sanciti in materia dall’ordinamento.
2. La motivazione dei lavoratori come oggetto di indagine. Aspetti problematici.
Dato che nella filosofia della Qualita` Totale assumono fondamentale importanza la sele- zione e la formazione degli uomini anche dal punto di vista psicologico e comportamentale, acquistano necessariamente rilevanza sia metodi e tecniche atti a tracciare un profilo psicologico dell’individuo sia sondaggi d’opinione e indagini motivazionali, che rappresen- tino globalmente l’atteggiamento e il ‘clima’ dell’intera collettivita` dei lavoratori.
La valutazione e misurazione anche degli atteggiamenti psicologici, del comportamento, dei
48 bisogni, delle variabili affettive, sociali ed emotive dei lavoratori, risponde all’esigenza di
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perseguire in via tendenziale l’omologazione dei lavoratori alla ‘cultura’ aziendale espressa dal modello della Qualita` Totale.
Cio` che giustifica, dunque l’interesse per le metodologie di valutazione del personale e` proprio la rilevanza attribuita all’atteggiamento psicologico dei lavoratori indipendente- mente dalla particolarita` delle mansioni assegnate e in funzione di un determinato progetto di gestione del personale teso alla realizzazione di un modello partecipativo e consensuale.
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2.1. I colloqui di selezione pre-assuntivi.
Tra i meccanismi di selezione piu` diffusi vi e` quello della sottoposizione degli aspiranti lavoratori a un colloquio-intervista con personale specializzato, preposto a valutarne l’ido- neita` professionale. Del contenuto di tali colloqui, ovviamente si puo` dare una rappresen- tazione solo generica, dato che ogni azienda e ogni valutatore adottano criteri autonomi, applicando tecniche di psicologia sociale e del lavoro e comunque non identificabili con uno schema fisso. Nessuna prescrizione legislativa vincola specificamente il metodo di tali colloqui, se non in termini negativi per quanto riguarda i divieti di cui all’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori, la cui violazione, tuttavia, risulta difficile da provare in sede di eventuale giudizio, data l’oralita` e l’informalita` del colloquio. D’altra parte l’interesse a denunciare la violazione della norma e` del tutto teorico, e la scarsissima giurisprudenza in proposito lo dimostra, per l’impossibilita` di condannare giudizialmente l’azienda ad assu- mere un determinato candidato.
La mancanza di un procedimento regolato ed in qualche modo controllabile e la forma
colloquiale rendono inafferrabile dal punto di vista giuridico questa tecnica di selezione del personale. Peraltro, i colloqui preassuntivi costituiscono uno strumento di fondamentale utilita` per le aziende e per conseguenza sarebbe auspicabile la predisposizione di meccani- smi di controllo sui criteri selettivi e sul contenuto dei colloqui. Al contrario il momento della selezione, cosı` delicato sotto molteplici aspetti, sfugge concretamente a ogni verifica, mentre resta affidata all’iniziativa del singolo l’unica possibilita` di controllo giudiziale a posteriori,presumibilmente, poi, nei soli casi di esito negativo del colloquio e di mancata assunzione dell’aspirante. Palesemente, la posizione del singolo candidato all’impiego e` particolarmente debole nel momento del colloquio e, successivamente, l’instaurazione di un giudizio per l’accertamento della violazione di norme di legge non e` piu` in grado di soddisfare alcun interesse concreto. A fronte della scarsa effettivita` concreta della tutela ex articolo 8 dello Statuto, non e` dubbia l’esistenza di un interesse non solo del singolo, ma anche generale al rispetto di quei diritti fondamentali, sanciti a livello costituzionale e ribaditi dalla norma stessa in relazioni a situazioni inter-private.
Alla luce delle considerazioni svolte sembra di poter affermare che un’effettiva tutela di tale interesse possa configurarsi solo attraverso un’azione collettiva che si faccia carico ed abbia la forza di contrattare una maggiore procedimentalizzazione della selezione preassuntiva che consenta di individuare possibili forme di controllo sindacale sulla legittimita` delle indagini svolte dall’azienda. In realta` questa prospettiva si scontra con un tradizionale atteggiamento sindacale di disinteresse circa questi temi che puo` imputarsi anche ad un certa incomprensione del fatto che i metodi di selezione e formazione del personale adottati dalle aziende rivestono un importanza non trascurabile nella costruzione di un modello culturale d’impresa, come quello che fa riferimento alla Qualita` Totale, nel quale lo stesso ruolo del sindacato viene tendenzialmente ridimensionato privilegiandosi l’instaurazione di rapporto diretto tra il singolo e l’azienda.
2.2. La somministrazione di test.
Nei colloqui selettivi come in quelli in corso di rapporto e` diffusa la pratica di somministrare test psicologici, capaci di misurare o valutare alcuni aspetti della personalita` del soggetto indagato o di tracciarne il profilo psicologico. L’impiego di tali strumenti, mutuati dalle tecniche di indagine psicologica, presenta una serie di questioni che non trovano risposta nella disposizione dell’articolo 8 dello Statuto e che il nostro legislatore non ha ancora affrontato. Generalmente, in dottrina, si ammette pur con qualche riserva (Pera 1972), l’utilizzo di questo tipo di test considerando che alcune caratteristiche della personalita` del
lavoratore possano effettivamente, in relazione alla particolarita` delle mansioni svolte, 49
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costituire fatti rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale a norma dell’articolo 8 dello Statuto.
In un contesto aziendale improntato alla Qualita` Totale il problema si fa piu` complesso perche´, tendenzialmente, la considerazione del profilo psicologico del lavoratore non e` strettamente collegata allo svolgimento di specifiche mansioni assegnate ma diviene rile- vante in se`. Gli aspetti problematici, dunque, devono essere valutati in via generale alla luce della particolare intrusivita` e insidiosita` dell’intera metodologia organizzativa tipica della cultura della Qualita` Totale.
Tra i test maggiormente utilizzati dalle aziende possono distinguersi quelli proiettivi da quelli attitudinali: le due tipologie andrebbero differenziate anche per quello che riguarda le ricadute in termini di effetti giuridici derivanti dalla loro utilizzazione.
2.2.1. I test proiettivi.
I test di tipo proiettivo si utilizzano allo scopo di tracciare un profilo psicologico del soggetto attraverso la rilevazione delle reazioni a stimoli intenzionalmente ambigui e suscettibili di interpretazioni soggettive differenti. Sono strumenti tipicamente impiegati nell’ambito della psicologia clinica e capaci di sondare in profondita` la psiche del soggetto, rivelandone gli aspetti piu` nascosti e inconsci. Per cio` che ne riguarda l’uso nella selezione e valutazione del personale, va detto che la loro stessa struttura non consente che il soggetto indagato sia informato circa i dati ottenibili e i metodi per ottenerli, essendo indispensabile la sponta- neita` delle reazioni e l’inconsapevolezza del significato degli stimoli cui si viene sottoposti. Queste caratteristiche porterebbero a escluderne la compatibilita` con i principi del nostro ordinamento per una serie di ragioni. Relativamente alle disposizioni dell’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori, bisogna osservare che lo studio generale dell’intera personalita` del lavoratore travalica i limiti imposti dalla norma che pretende una correlazione evidente tra le indagini svolte e le mansioni assegnate; il mezzo si configura sicuramente eccessivo rispetto allo scopo legittimo della valutazione della sola attitudine professionale. Inoltre, pur riconoscendo che alcuni aspetti della personalita` possono effettivamente influire sulla prestazione lavorativa, esistono altri metodi meno intrusivi e piu` mirati che consentono di individuarli senza mettere a nudo la sfera piu` intima dell’individuo. In ogni caso sottoporre un candidato all’impiego o un lavoratore ad analisi psicologiche cosı` approfondite, capaci di rivelare elementi della personalita` ignoti perfino alo stesso soggetto indagato, pone la questione della compatibilita` dell’utilizzo di tali strumenti con il principio costituzionale per cui l’iniziativa economica non puo` svolgersi in contrasto con la dignita` umana. L’impiego dei test proiettivi sembrerebbe inserirsi in un modello che ripropone il rapporto di lavoro subordinato come un vincolo sulla persona del lavoratore, in radicale contrasto con lo spirito della Costituzione e dello Statuto.
2.2.2. I test attitudinali.
Di natura diversa sono i test psico-attitudinali, i quali consentono di misurare la predispo- sizione di un individuo a svolgere certe attivita`, mettendo in relazione alcune caratteristiche del soggetto con la capacita` di svolgere in concreto determinate mansioni: un test di questo tipo valuta la direzione in cui una data caratteristica puo` essere applicata per ottenere i risultati migliori. L’effettiva validita` ed attendibilita` dei risultati raggiungibili attraverso tali metodi di misurazione delle capacita`, sembrerebbe, pero` , condizione indispensabile per ammetterne la legittimita` ai sensi dell’articolo 8 dello Statuto e, tuttavia, anche qui la questione non puo` risolversi in termini generali e definitivi.
Per avere un’idea dei problemi cui puo` andare incontro l’impiego dei test attitudinali, soprattutto nell’ipotesi — ormai tendenziale anche nel nostro paese — di una struttura sociale entro la quale convivono culture differenti, puo` essere interessante riportare brevemente i termini del dibattito che da tempo e` in corso negli Stati Uniti, paese multirazziale, dove, peraltro, l’utilizzo di tali test per l’accesso al lavoro e` generalizzato. Proprio con riguardo al problema della discriminazione razziale i toni della polemica si sono fatti aspri, affermandosi che l’impiego dei test attitudinali nell’industria costituisce “molto piu` un businness che una scienza” e rappresenta “la piu` consistente barriera all’uguaglianza delle opportunita` e alla giustizia razziale nel mondo del lavoro” (Xxxxx 1982). In effetti la
50 pretesa neutralita` scientifica dei test psico-attitudinali e` stata sottoposta a severa critica
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rilevandosi come le persone che elaborano i test siano inevitabilmente condizionate dalla appartenenza ad un determinato sistema di valori e riferimenti culturali al quale verra` parametrata la valutazione dei risultati, con la conseguenza di selezionare individui non ‘oggettivamente’ piu` capaci, ma solo tendenzialmente omogenei ad un determinato modello culturale.
In ogni caso, pur ammettendo in linea teorica l’effettiva idoneita` dei test a rivelare particolari attitudini professionali del soggetto indagato, il loro utilizzo dovrebbe essere sottoposto a particolari limiti. La dottrina tedesca (Daubler 1993) ha elaborato una serie di condizioni, che trovano essenzialmente concordi tutti gli autori, in assenza delle quali i test psicologici dovrebbero considerarsi illegittimi. Una prima condizione e` stata individuata nella necessita` del consenso espresso del candidato; tale requisito, pur se evidentemente necessario, soggiace ai limiti della particolare situazione di debolezza in cui solitamente si trova chi viene sottoposto a una selezione. Piu` interessante, per la maggiore efficacia della tutela, e` la rilevata necessita` di informare dettagliatamente il candidato circa le caratteri- stiche o i dati personali che possono emergere dalla prova psicologica e i metodi attraverso i quali si ottengono tali informazioni; si puo` osservare che la tutela del candidato acquiste- rebbe sicuramente maggiore effettivita` nell’ipotesi in cui fosse prevista l’assistenza di esperti capaci di valutare la corrispondenza e la pertinenza dei mezzi usati con i fini dichiaratamente perseguiti dall’azienda. Ulteriore condizione e` che le informazioni ottenibili attraverso il test psicologico non possano ottenersi utilizzando mezzi meno intrusivi; infine viene individuata la necessita` che i test vengano somministrati solo da psicologi. La stessa dottrina tedesca tende a escludere comunque la legittimita` sia delle prove di misurazione dell’intelligenza sia dei test tendenti a rivelare l’intera personalita` dell’individuo in quanto contrastanti con il rispetto della dignita` e della riservatezza dei lavoratori.
In Francia si e` recentemente arrivati a una soluzione legislativa dei diversi problemi sorti in relazione alla selezione e valutazione del personale: la legge 31 dicembre 1992 n 1446 contiene infatti una serie di disposizioni poste a tutela della riservatezza del lavoratore e del candidato all’impiego che si basano sui principi di trasparenza, pertinenza tra gli scopi dichiarati e i mezzi impiegati, legalita`, protezione della vita extraprofessionale. La legge impone un obbligo di informazione circa i metodi e le tecniche di selezione e valutazione, escludendo che qualsiasi prova possa essere eseguita all’insaputa dell’interessato e introduce altresı` un obbligo di riservatezza riguardo ai dati ottenuti. L’aspetto piu` innovativo della legge riguarda la previsione di una tutela collettiva che coinvolge il sindacato presente in azienda, introducendo una particolare procedura d’urgenza attivabile in caso di lesione dei diritti della persona o delle liberta` individuali. Tale procedura, modellata sulla disciplina gia` esistente in tema di salute e sicurezza, prevede che il lavoratore o il candidato all’impiego che lamenti un attentato alla propria riservatezza o liberta` ne informi il delegato sindacale, il quale richiedera` all’azienda di verificare lo stato dei fatti e quindi porre rimedio alla situazione. In caso di inerzia dell’azienda, o in mancanza di accordo tra questa e il sindacato circa le soluzioni da adottare, potra` essere adita l’autorita` giudiziaria che decidera` sulle misure necessarie e potra` condannare l’azienda al pagamento di una somma in favore del Tesoro pubblico. La legge stabilisce, inoltre, che il comitato d’impresa deve essere obbli- gatoriamente informato e consultato su metodi e tecniche di selezione e valutazione del personale cosı` come sui sistemi di memorizzazione e conservazione dei dati raccolti in modo da assicurare il maggior grado possibile di trasparenza, controllo e riservatezza.
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2.3. Rilevazione del clima e indagini motivazionali.
Il perseguimento di un progetto di Xxxxxxx` Totale contempla necessariamente la cura e lo sviluppo di una rete di comunicazione che consenta un rapido ed efficiente passaggio di informazioni in ogni direzione: dalla base al vertice aziendale e viceversa. La stessa comunicazione interna, come si e` gia` sottolineato, e` funzionale alla diffusione di idee, valori, sentimenti che costituiscono il nucleo teorico della Qualita` Totale e che si vorrebbero comuni a tutti i lavoratori al fine di un loro coinvolgimento, anche emotivo, nel persegui- mento degli obiettivi d’impresa. La cosiddetta rilevazione del ‘clima’ aziendale dovrebbe consentire all’azienda di controllare gli effetti della propria politica del personale, rivelando le situazioni piu` critiche, i motivi di maggiore insoddisfazione dei dipendenti, gli errori nelle strategie di comunicazione interna e cosı` via.
Strumenti che consentono la rilevazione del clima aziendale (cfr., su questo stesso numero
Xxxxx) sono i sondaggi d’opinione o indagini motivazionali, cosı` definite perche´ tendono 51
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appunto a verificare il grado di soddisfazione e di motivazione dei lavoratori rispetto alla propria posizione lavorativa, le quali sono effettuate in forma di questionari anonimi distribuiti a tutta la popolazione aziendale.
L’applicazione delle teorie motivazionali presuppone che l’azienda indaghi su bisogni, aspettative, esigenze dei dipendenti al fine di elaborare risposte adeguate per ottenere il massimo in termini di collaborazione alla produttivita`. La loro struttura corrisponde a quella di un questionario a risposte multiple suddiviso generalmente in paragrafi che trattano argomenti di varia natura: i rapporti con i superiori, l’efficienza dei servizi forniti dal- l’azienda, l’ambiente di lavoro, i rapporti con i colleghi, le aspettative, il carico di lavoro, il senso di appartenenza e il grado di motivazione. Su questi ed altri temi il lavoratore e` invitato ad esprimere, in forma anonima, la propria opinione con l’assicurazione da parte dell’azienda che verra` data adeguata risposta alle esigenze emerse dai risultati; il messaggio che esse sottendono e` proprio quello della necessita` e della proficuita` della collaborazione reciproca.
La forma collettiva e anonima risponde evidentemente all’esigenza di consentire ai lavora- tori la libera espressione delle opinioni, ma induce a riflettere sul fatto che anche nel caso in cui la comunicazione interna coinvolga la totalita` dei lavoratori, mettendo in luce esigenze collettive, si privilegi il rapporto diretto tra azienda e lavoratori attraverso strumenti che escludano o scavalchino la mediazione delle rappresentanze sindacali dei lavoratori. In effetti la ricerca di un dialogo diretto con i lavoratori tendente a escludere il sindacato sembra proprio essere uno dei fili conduttori del modello di gestione del personale che qui consideriamo mentre, d’altra parte, la scarsa sindacalizzazione delle categorie operanti nel settore del terziario avanzato, banco di prova dell’esportazione della Qualita` Totale, e il disinteresse sindacale verso certi temi hanno di fatto escluso il sindacato dalla gestione o dal controllo delle strategie di comunicazione aziendale.
Data la forma anonima dei questionari, non sembra che le indagini motivazionali possano rientrare nella fattispecie prevista dall’articolo 8 dello Statuto (Castelvetri 1992) e costituire una forma illegittima di raccolta di informazioni, tuttavia occorre segnalare che, in effetti, l’uso che l’azienda fa delle informazioni cosı` acquisite e` totalmente sottratto a qualsiasi forma di controllo mentre sarebbe auspicabile l’attuazione di un principio di trasparenza intorno a tutto cio` che riguarda la gestione del patrimonio dei dati e informazioni riguar- danti i lavoratori, in modo particolare se si tiene conto, come diremo piu` oltre, delle potenzialita` lesive insite nell’archiviazione ed elaborazione informatica dei dati.
3. Divieto di indagini sulle opinioni e ‘cultura del consenso’.
Se in un progetto di Xxxxxxx` Totale gli obiettivi fondamentali della formazione del personale sono orientati a ottenere coinvolgimento, partecipazione anche a livello emotivo, adesione alla filosofia aziendale, appare evidente la difficolta` di confrontare tale modello con quello prefigurato nello Statuto dei lavoratori e, in particolare, con il suo articolo 8 del quale si e` ripetuto che mira alla spersonalizzazione del rapporto di lavoro. Si pone dunque il problema di verificare la adattabilita` dei mezzi di tutela predisposti dall’ordinamento di fronte alle nuove tecniche di indagine, valutazione e conservazione dei dati raccolti e soprattutto di fronte all’affermarsi di un diverso sistema di gestione del personale che coinvolge l’intera personalita` dell’individuo.
Il confronto della fattispecie vietata dall’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori con il modello di gestione del personale frutto della filosofia della Qualita` Totale mette in evidenza il conflitto tra due sistemi di valori antitetici. Se il legislatore dello Statuto vuole garantire il “diritto al conflitto” anche all’interno dei luoghi di lavoro, la Qualita` Totale si fonda precisamente sull’eliminazione di esso e sulla costruzione di una cultura ispirata ad obiettivi comuni. Sembra porsi, pertanto, un problema di “incomunicabilita`” tra i due modelli tale da rendere obsoleti e inefficaci gli strumenti di tutela approntati dalla norma in esame.
Il problema si risolve nello stabilire se il grado di adesione alla cultura d’impresa, di motivazione al lavoro o di coinvolgimento personale possano ritenersi diretta espressione dell’attitudine professionale del lavoratore e, di conseguenza, oggetto legittimo di misura- zione e valutazione. La questione non e` semplice, dato che occorre trovare il punto di contatto tra due modelli che sembrano non averne, tuttavia, si puo` provare a ragionare considerando la ratio della norma statutaria.
Il legislatore, nel consentire al datore di lavoro di compiere indagini dirette a appurare
52 l’attitudine professionale del lavoratore, nulla dice sul criterio di individuazione degli
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elementi rilevanti a questo scopo, lasciando la fattispecie aperta e indeterminata. Si potrebbe allora ritenere sufficiente considerare rilevante al fine della valutazione dell’atti- tudine professionale cio` che il modello di gestione Xxxxxxx` Totale prefigura come tale, per trovare nella fattispecie normativa la risposta al quesito sulla legittimita` delle indagini su alcuni tratti della personalita` del lavoratore.Tuttavia, se si guarda alla norma nel suo insieme, alla collocazione della stessa sotto il titolo della liberta` e dignita` del lavoratore e ancor piu` allo spirito dell’intera legge, appare evidente che la tutela della dignita` del lavoratore debba passare anche attraverso la salvaguardia della libera espressione del conflitto, gia` garantita dalla Costituzione, all’interno dei luoghi di lavoro.
E` senz’altro vero che il conflitto prefigurato nello Statuto si esprime tipicamente in forma
collettiva, tuttavia, proprio la restituzione della dignita` e liberta` di espressione al singolo si rivela presupposto fondamentale della aggregazione e azione collettiva. In questa prospet- tiva puo` immaginarsi che il legislatore abbia individuato nelle opinioni politiche del lavoratore un indice rivelatore della maggiore o minore predisposizione a un atteggiamento conflittuale rispetto agli interessi aziendali, e abbia voluto impedire che tale elemento costituisse motivo di discriminazione nell’accesso al lavoro. Nel contemperamento di interessi operato dalla norma risulta prevalente l’interesse del lavoratore a non essere discriminato in ragione delle sue opinioni rispetto a quello del datore di lavoro a procurarsi dei collaboratori tendenzialmente non conflittuali verso gli obiettivi dell’impresa. Se lo spirito dell’intero Statuto e` quello di garantire la libera espressione del conflitto all’interno dei luoghi di lavoro e` legittimo dubitare della conformita` alla legge di una selezione che, pur non passando necessariamente attraverso una indagine sulle opinioni politiche del lavora- tore, pervenga tuttavia al risultato di discriminare i lavoratori in base alla loro propensione al conflitto, piuttosto che al consenso, verso una certa cultura d’impresa.
L’articolo 8 dello Statuto prevede due distinti divieti di indagine che costituiscono il limite legale all’interesse del datore di lavoro di procurarsi quante piu` notizie possibili sul lavoratore. La prima parte della norma prende in considerazione i cosiddetti dati ‘sensibili’ e costruisce una tutela antidiscriminatoria preventiva, vietando al datore di lavoro di indagare sulla appartenenza politica, sindacale, religiosa del candidato o del lavoratore.
La tecnica fondata sul divieto assoluto di accesso a quelle categorie di dati che storicamente hanno determinato le piu` pericolose discriminazioni e` stata adottata da tutte quelle legislazioni nazionali che abbiano predisposto una tutela della riservatezza del cittadino e del lavoratore; l’elenco dei dati sensibili, nelle piu` recenti leggi e` piu` completo e dettagliato rispetto a quello statutario e comprende i dati relativi allo stato di salute e alle abitudini sessuali, alle convinzioni filosofiche, all’origine razziale o etnica, alla situazione familiare. Questo strumento di tutela, che tende a impedire le piu` macroscopiche forme di discrimi- nazione, non pone particolari problemi: essendo un divieto assoluto e tassativo saranno certamente illegittime tutte le domande o indagini dirette a appurare le opinioni politiche e religiose del lavoratore, che, d’altra parte, nessun datore di lavoro sara` cosı` sprovveduto da porre direttamente o palesemente.
In effetti le tecniche di selezione e le strategie di comunicazione aziendale si sono evolute in base a modelli molto piu` raffinati rispetto a quelli presi in considerazione dal legislatore statutario, mentre lo stesso concetto di discriminazione potrebbe essere rielaborato tenendo conto di meccanismi piu` sottili e complessi di selezione che coinvolgono molteplici aspetti della personalita`, per cui la ‘devianza’, rispetto a una sorta di modello ideale di lavoratore, puo` rivestire mille forme, a volte sfuggenti, difficili da identificare e che non passano necessariamente attraverso le opinioni politiche del lavoratore.
Questo problema emerge con maggior evidenza dall’analisi della seconda fattispecie previ- sta dalla norma che istituisce un principio di finalita` e di pertinenza delle indagini consentite vietando al datore di lavoro di indagare su “fatti non rilevanti ai fini della valutazione delle attitudini professionali del lavoratore”. Prescindendo, in questa sede dalla disamina della dottrina, che ha rilevato nella formulazione del divieto in esame una serie di notevoli problemi interpretativi, tanto da affermare che la norma apre piu` problemi di quanti ne chiuda (Romagnoli 1979), si deve comunque sottolineare che il nodo interpretativo tuttora irrisolto si incentra sull’ampiezza ed il significato da attribuire al concetto di “attitudine professionale” espresso dal legislatore.
La peculiarita` delle nuove politiche di gestione del personale consiste nel pretendere di trarre il massimo contributo possibile dal personale di ogni livello anche in termini di partecipazione, iniziativa e coinvolgimento personale negli obiettivi di impresa indipenden- temente dalla qualificazione professionale; in questa prospettiva il concetto di attitudine
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professionale, al quale viene attribuito un significato assai ampio, si intreccia strettamente con aspetti legati alla personalita` del lavoratore. Uno dei piu` grandi imprenditori giapponesi si e` cosı` espresso a questo proposito rivolgendosi agli imprenditori occidentali: “per voi l’essenza del management consiste nel tirar fuori le idee dalla testa dei dirigenti per metterle nelle mani degli operatori (uffici e reparti). Per noi l’essenza del management e` precisamente l’arte di mobilitare le risorse intellettuali di tutto il personale al servizio dell’azienda” ( Xxxxxxx 1990). L’elemento innovativo, con il quale occorre confrontare il significato di attitudine professionale, sembra essere proprio il tentativo di instaurare un modello con- sensuale e partecipativo che coinvolga i lavoratori di ogni livello e non solo quelli con poteri direttivi o ruoli di particolare fiducia.
La soluzione interpretativa piu` accreditata in dottrina ritiene che la valutazione dell’attitu- dine professionale debba essere considerata verificando caso per caso la congruenza delle indagini svolte dal datore di lavoro con le mansioni concretamente affidate al lavoratore (Romagnoli 1979). Di conseguenza, possono considerarsi legittime le indagini volte a appurare aspetti della personalita` dell’individuo collegati con la prestazione lavorativa, quando questa richieda particolari doti legate al carattere individuale, cio` che potra` avvenire per esempio per il personale a diretto contatto con il pubblico, che dovra` dimostrare buone capacita` di relazione interpersonale, o per il personale direttivo dal quale si potra` preten- dere anche una certa adesione alla cultura aziendale.
Si pone allora il problema di verificare se tale concetto di attitudine professionale possa ricomprendere tratti della personalita` del lavoratore, anche se non strettamente riferibili alle concrete mansioni svolte. In altre parole occorre interrogarsi sui limiti entro i quali sia lecito misurare e valutare il grado di adesione a un certo modello culturale, il grado di partecipazione e motivazione, i bisogni, le aspirazioni, i tratti della personalita` quando la valutazione di tali elementi venga considerata necessaria nell’applicazione di un determi- nato progetto di gestione delle risorse umane e, tuttavia, non sussista un immediato collegamento con le concrete mansioni svolte. Di fronte alla difficolta` di pervenire a una soluzione soddisfacente della questione, appare evidente ancora una volta che si tratta di rendere compatibile il modello di tutela prefigurato dallo Statuto sulla base di una deter- minata concezione di organizzazione d’impresa con un modello di gestione radicalmente differente che esige nuove tecniche di tutela a fronte di nuovi possibili attentati alla dignita` e riservatezza del lavoratore. In attesa di una evoluzione della legislazione di tutela, sembra ancora una volta imporsi la centralita` del ruolo del giudice che valuti caso per caso il significato ed il fine delle singole indagini svolte dall’azienda, confrontandone la compati- bilita` con i principi dell’ordinamento, operazione che si fa sempre piu` complessa con l’affinarsi delle teorie e delle tecniche di gestione aziendali.
4. Il trattamento informatico dei dati. Limiti dell’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori.
Riguardo alla tutela della riservatezza del lavoratore, va segnalata, infine, l’esistenza di un problema piu` ampio e articolato che emerge soprattutto in relazione alla informatizzazione della raccolta delle informazioni e che, in certa misura, dilata e sposta i termini della questione. Mentre nell’interpretazione dell’articolo 8 l’attenzione e` rivolta a definire l’area di legittimita` delle indagini svolte dal datore di lavoro, l’impiego delle tecnologie informa- tiche impone l’elaborazione di una tutela incentrata sul controllo della gestione dei dati personali pur legittimamente raccolti. Rispetto al fenomeno della informatizzazione della raccolta, gestione e conservazione dei dati riguardanti il lavoratore, la formulazione dell’ar- ticolo 8 dello Statuto appare inadeguata sotto diversi profili. In primo luogo il divieto sancito dalla norma prefigura una tutela di tipo negativo per cui soggetto agente e` solo il datore di lavoro che non puo` acquisire determinate informazioni, mentre al lavoratore non e` attri- buito alcun diritto di controllo o di informazione sulle modalita` di acquisizione dei dati; altrettanto lacunosa si rivela la tutela per cio` che riguarda la gestione delle informazioni che il datore di lavoro puo` legittimamente raccogliere sulle quali il lavoratore sembra perdere ogni diritto, tanto da non poterne verificare l’esattezza e controllare l’utilizzo. In altre parole l’articolo 8 dello Statuto si limita a vietare o consentire al datore di lavoro determinate indagini laddove sarebbe opportuna una procedimentalizzazione dell’intera operazione di selezione e raccolta delle informazioni sui dipendenti, in linea con le tendenze della legislazione europea e comunitaria in tema di protezione dei dati personali. La possibilita` di aggregare, confrontare ed elaborare dati provenienti da fonti diverse, fino a ottenere il
54 profilo dell’intera personalita` dell’individuo, impone di attualizzare gli strumenti
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di tutela della riservatezza per adeguarli alle nuove potenzialita` lesive insite nell’uso delle tecnologie informatiche (Rodota` 1984).
Esiste una ampia e ormai consolidata elaborazione dottrinale sul tema della protezione del cittadino rispetto al trattamento informatico dei dati personali che ha elaborato il concetto di ‘identita` informatica’ costruendovi attorno una serie di diritti e tutele. Gli stessi principi possono agevolmente essere applicati al trattamento informatico dei dati all’interno del rapporto di lavoro subordinato, nel senso gia` indicato dal Consiglio d’Europa con la Raccomandazione del 1989 (siglata N.R.89) intitolata appunto “Sull’uso dei dati personali nel rapporto di lavoro“. Gli strumenti di tutela indicati dalla elaborazione dottrinale e dalle legislazioni esistenti fanno riferimento ai principi della trasparenza e del controllo che si sono tradotti nella individuazione, in capo al soggetto cui i dati si riferiscono, di una serie di diritti.
Una tutela effettiva della riservatezza del lavoratore, in presenza di sistemi informatizzati di gestione dei dati personali, non puo` prescindere dalla applicazione di tali diritti alla sfera del rapporto di lavoro subordinato.E` evidente come le problematiche in questione fossero del tutto sconosciute al legislatore negli anni settanta, di conseguenza nello Statuto dei lavora- tori non e` rintracciabile in alcun modo la previsione di quei diritti legati alla informatizza- zione del rapporto di lavoro; l’inadeguatezza strutturale della tutela prevista dallo Statuto puo` essere corretta unicamente in via legislativa, prevedendo il diritto di accesso dei lavoratori, in forma individuale o collettiva, agli archivi informatici contenenti dati personali che li riguardano. Solo attraverso la possibilita` di un controllo sulle modalita` di raccolta e gestione dei dati potranno, infatti, essere soddisfatte quelle esigenze di tutela della ‘identita` informatica’ che acquistano grande rilevanza anche nel rapporto di lavoro. Si pensi all’im- portanza che riveste, per un candidato all’impiego o per un lavoratore, il fatto che le informazioni in possesso dell’azienda siano sempre esatte, complete ed aggiornate o all’interesse che alcuni dati riguardanti, per esempio, sanzioni disciplinari o valutazioni negative, vengano cancellati dal curriculum dopo un certo periodo. A tali esigenze corri- spondono il diritto di rettifica dei dati inesatti o incompleti il cui presupposto naturalmente e` il diritto di accesso, e il cosiddetto diritto all’oblio che consente di cancellare quei dati che non hanno piu` ragione di essere conservati oltre un certo periodo. A cio` deve aggiungersi sia per il lavoratore subordinato, sia per il sindacato la previsione della possibilita` di farsi assistere da esperti.
Anche sotto questo profilo appare evidente il limite di una tutela affidata all’iniziativa del singolo lavoratore il quale puo` solo reagire alla lesione di un proprio diritto senza avere il potere di incidere sulle scelte strategiche dell’impresa. L’effettivita` della tutela e del controllo passa ancora una volta dal coinvolgimento del sindacato nella gestione della politica del personale cosa che puo` rappresentare l’unica reale garanzia di trasparenza nell’uso degli strumenti informatici cosı` come nelle tecniche di selezione e valutazione degli uomini.
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Il clima organizzativo: uno strumento per la diagnosi e il cambiamento in azienda
“Misurare un clima e` un po’ come fotografare la faccia invisibile della luna: richiede un diverso ap- proccio e soprattutto una diversa mentalita`“
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Sommario
1. Premessa. — 2. La formazione del personale nelle organizzazioni complesse. — 3. Clima organizzativo, clima psicologico: un chiarimento teorico. — 4. Un intervento di cambia- mento organizzativo attraverso la diagnosi di clima. — 5. I risultati: criticita` e opportunita` emersi dall’indagine di clima. — 6. Clima e managerialita`. — 7. Conclusione.
1. Premessa.
Il presente articolo si propone di illustrare come, nell’attuale situazione di complessita`, nelle organizzazioni si attivino interventi di formazione del personale volti, non solo a migliorare capacita` manageriali, ma anche ad aumentare i livelli di autonomia e partecipazione nella gestione organizzativa.
Dopo un’introduzione teorica sui “climi organizzativi”, si presentera` brevemente un inter- vento avvenuto nel triennio 1990/93 in una primaria azienda italiana operante nel settore dei servizi.
In questo intervento il clima si e` dimostrato uno strumento di diagnosi e di cambiamento della cultura organizzativa per migliorare la qualita` del lavoro e, contemporaneamente, la qualita` della vita in azienda.
2. La formazione del personale nelle organizzazioni complesse.
La societa` post-industriale ha evidenziato la crisi delle organizzazioni burocratiche e centralistiche. Infatti, il mercato richiede prodotti che sono piu` strettamente collegati alla qualita` della vita individuale e collettiva, sempre piu` raffinati dal punto di vista qualitativo e personalizzati, al punto da soddisfare i bisogni soggettivi; “...ma la qualita` del prodotto e` strettamente collegata alla qualita` globale dell’organizzazione e questa e`, a sua volta, individuabile nella qualita` del lavoro espressa non solo nel contenuto e nel grado di autonomia, ma soprattutto nel clima organizzativo, nel sistema di relazioni, di comunica- zione, integrazione e di scambio” (1).
Oggi le organizzazioni non hanno piu` bisogno di personale esecutivo e non pensante e dovrebbero privilegiare uomini capaci di comunicare efficacemente, partecipare attiva- mente a gruppi di lavoro, con capacita` di diagnosi, valutazione, decisione e in grado di assumersi responsabilita` di ruolo.
Vi e` necessita` quindi di apprendimenti sulle social skills (competenze relazionali) per
(*) Si ringrazia la xxxx. Xxxxxx Xxx` per gli utili suggerimenti e la disponibilita` a fornire materiale JSMO inedito.
(1) Dispensa inedita ISMO (Interventi e Studi Multidisciplinari dell’Organizzazione).
note
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Clima organizzativo
Xxxxxxx Xxxxx
affrontare le situazioni instabili in cui l’organizzazione e` continuamente sfidata a sperimen- tare nuovi compiti di apprendimento per nuovi problemi.
Ne consegue che anche la formazione del personale in azienda deve porre sempre piu` attenzione ai bisogni individuali oltreche´ organizzativi, migliorare capacita` di apprendi- mento continuo, capacita` di scambio, di autonomia, di gestione dell’incertezza e le capacita` creative e innovative.
Una nuova consapevolezza dell’importanza strategica delle Risorse Umane puo` essere vincente sia per lo sviluppo professionale dei lavoratori che per il conseguente sviluppo dell’organizzazione.
Come afferma Xxxxxxxx la “Formazione e` un’occasione di apprendimento e di evoluzione degli individui attraverso l’arricchimento delle loro conoscenze, delle loro abilita`, lo svi- luppo dei loro atteggiamenti, di modo che le loro capacita` di comprendere i problemi, affrontarli e risolverli siano adeguate alle situazioni” (2).
Questa definizione di formazione sottolinea l’importanza dell’evoluzione degli individui come premessa per l’evoluzione organizzativa.
Anche l’indagine di “clima” diventa uno strumento formativo “forte”, perche` interviene sugli aspetti soft dell’organizzazione, quelli da cui trarre flessibilita` e capacita` di adegua- mento e riprogettazione in funzione dei cambiamenti dell’ambiente esterno e della volonta` di influenzare il mercato.
Intervenire sul clima vuol dire infatti fornire strumenti di lettura della propria cultura organizzativa, favorendo l’autoanalisi che attiva un processo di apprendimento e una progettualita` volta a migliorare l’esistente.
3. Clima organizzativo, clima psicologico: un chiarimento teorico.
note
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La parola “clima” si riferisce ad una terminologia metereologica ed e` quindi un concetto facilmente comprensibile: spesso ci esprimiamo nei termini di “clima caldo, repressivo, gelido” o altro e possiamo ipotizzare che tutti ne abbiano un livello di comprensione sufficientemente chiaro.
E` un campo di ricerca piuttosto recente, ha circa venticinque anni, ma su cui si e` concentrato l’interesse di molti studiosi: alcuni usano indifferentemente i termini “clima organizzativo” e “clima psicologico“, altri ne fanno una sostanziale differenziazione.
Prima di illustrare sul piano operativo, un esempio di utilizzo della diagnosi di clima per migliorare la qualita` nelle organizzazioni, e` opportuno riferirci ai modelli teorici maggior- mente accreditati.
Xxxxxx e Stringer definiscono il clima organizzativo come “...un insieme di aspettative e di incentivi ed anche un costrutto molare che: a) consente l’analisi delle determinanti dei comportamenti motivati in complesse ed effettive situazioni sociali; b) semplifica i problemi della misura dei determinanti situazionali legati alle percezioni e ai convincimenti indivi- duali; c) consente la specifica definizione della situazione globale di influenza sia dell’ambito esterno, sia dei vari tipi di ambienti interni all’organizzazione” (3).
Il modello da essi proposto risulta articolato in nove dimensioni:
1. struttura: l’insieme dei regolamenti, degli strumenti operativi e delle procedure esistenti, la presenza/assenza di canali comunicativi formali/informali;
2. responsabilita`: il grado di autonomia e discrezionalita` rispetto a tutte le decisioni, la consapevolezza delle proprie capacita` e delle prestazioni che sono richieste dall’esercizio del ruolo;
3. sistema di ricompense: la percezione che la buona riuscita nel lavoro sara` riconosciuta e compensata in termini retributivi e di opportunita` di carriera;
4. accettazione dei rischi: la necessita` di correre dei rischi per poter evolvere professional- mente, collegata alla capacita` di cogliere i segnali del cambiamento nel lavoro e nell’orga- nizzazione;
5. calore: la percezione di vivere in un ambiente complessivamente amichevole e la capacita` di vivere relazioni positive all’interno dei gruppi di lavoro, facendosi benvolere e riducendo al minimo gli aspetti formali;
(2) QUAGLINO G.P., Xxxx formazione, Il Mulino, Bologna, 1985.
(3) LITWING X.X.-XXXXXXXX R., Motivation and organizational climate, Harvard University Press, Cambridge, 1968.
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6. sostegno: la capacita` di reciproco aiuto percepita sia dai colleghi in relazione orizzontale che da quelli nella scala gerarchica superiore o inferiore;
7. standards: la consapevolezza dei livelli di prestazione attesi, esplicitati o meno, e degli obiettivi individuali e di squadra;
8. conflitto: la capacita` di affrontare le differenti opinioni espresse dai diversi gradi della scala gerarchica, piuttosto che negarle o trascurarle;
9. identita`: la consapevolezza di appartenere ad un’organizzazione con un ben definito ruolo, riconosciuto e apprezzato dal gruppo di lavoro.
Come sottolinea Quaglino “La peculiarita` del modello di riferimento si conferma nella ricerca consapevole di soddisfare alla necessita` di una precisa articolazione tra variabili organizzative e variabili individuali, dove le prime identificano sostanzialmente proprio l’area negoziale tra individuo e organizzazione e le seconde si articolano tra elementi di appartenenza istituzionale ed elementi di esplicito orientamento relazionale ” (4).
Xxxxx e Xxxxx definiscono due tipi di clima:“Il clima organizzativo si riferisce ad attributi organizzativi ed ai loro effetti principali, o stimoli, mentre il clima psicologico si riferisce ad attributi individuali, chiamati processi psicologici intervenienti, per mezzo dei quali l’indi- viduo trasforma l’interazione tra attributi organizzativi percepiti e caratteristiche individuali in una serie di attese, comportamenti, atteggiamenti ecc.” (5).
Questi autori affermano il predominio e la centralita` del clima psicologico in quanto:
a) riflette rappresentazioni cognitive, psicologicamente significative, di varie situazioni, piuttosto che non essere il riflesso automatico di specifici eventi situazionali;
b) e` generalmente piu` importante che non la situazione oggettiva nella produzione di molte ed importanti variabili individuali;
c) e` basato sulla esperienza sviluppata e spesso comprende la conflittualita` generata dalla conservazione di valori e schemi consueti da un lato, e la disponibilita` al cambiamento, nell’interesse sia del processo di adattamento che dei sistemi funzionali uomo-ambiente, dall’altro;
d) e` in relazione reciproca con la memoria, l’affettivita` e il comportamento in un modello causale che predice una causalita` reciproca tra percezione e affettivita` e tra individui e ambiente” (6).
Gli Autori forniscono anche un elenco di elementi che compongono il clima psicologico: l’importanza del lavoro svolto, il conflitto, il sostegno della dirigenza, la cooperazione, l’amicizia e il “calore”. Essi individuano una correlazione tra clima e resistenza al cambia- mento; considerano inoltre il clima un fattore di orientamento dell’azione dei soggetti.
Xxx Xxxxxxxxx “...le percezioni di clima sono descrizioni molari psicologicamente significa- tive che le persone accettano come caratteristiche delle pratiche e procedure di un sistema. Attraverso le sue pratiche e procedure un sistema puo` creare molti climi...le percezioni molari funzionano come schemi di riferimento per conseguire una certa congruenza tra il comportamento e le pratiche e procedure del sistema” (7).
Xxxxx e Xxxxxx definiscono il clima come “... una percezione globale dell’ambiente organizzativo. Queste percezioni sono concettualmente non valutative e multidimensio- nali” (8). Per gli Autori tutti i climi sono percettivi, quindi di natura psicologica; le informazioni provenienti da altri individui od eventi contribuiscono all’elaborazione delle percezioni climatiche: il clima e` dunque descrittivo.
Oltre all’enfasi attribuita al clima psicologico Xxxxx e Xxxxxx si distinguono soprattutto per l’introduzione di un nuovo concetto, la discrepanza di clima.
“I climi psicologici sono composti da due parti: una componente organizzativa condivisa con gli altri individui, e la discrepanza di clima che rappresenta la singola prospettiva personale riguardo al clima organizzativo. La discrepanza climatica rappresenta una precisazione dei
(4) QUAGLINO G.P.-MANDER M., I climi organizzativi, Il Mulino, Bologna, 1987.
(5) XXXXX A.P.-XXXXX X.X., Psychological and organizational climate: dimensions and relationship, relazione presentata all’American Psychological Association, S. Xxxxxxxxx. Ca. 1977.
(6) XXXXX X.X.-XXXXX X.X., Psychological climate: dimensions and relationship of individual and aggregated work environment perceptions, in Organizational Behavior and Human Performance, 1979.
(7) XXXXXXXXX X., Organizational climate: an essay, in Personnel Psychology, n. 28, 1975.
(8) XXXXX W.F.-XXXXXX J.W., Climates in organizations, in XXXX X., Organizational Behavior, S. Xxxxxxxxx Xxxx., 1979.
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concetti di clima organizzativo e psicologico che chiarisce la distinzione tra questi concetti spesso confusi” (9).
Xxxxx definisce il clima di un’organizzazione come “...l’atmosfera psicologica che circonda e risulta dalle operazioni strutturali; conseguentemente essa e` sia un risultato che una deter- minante del comportamento degli individui o dei gruppi all’interno della struttura” (10).
Xxxxx propone aspetti innovativi nella definizione di clima perche`, pur esplicitandone la soggettivita`, lo collega ai valori di un’organizzazione attraverso gli obiettivi e la struttura operativa.
Quest’ultima e`, perl’Autore, l’elemento principale componentel’organizzazione perche` e` l’in- sieme dei sistemi di relazione, di comunicazione, di processi decisionali, norme, valutazioni e sistemi di ricompense. Il funzionamento della struttura organizzativa crea quell’ambiente emozionale che Xxxxx definisce “clima” e che condiziona i membri dell’organizzazione.
In questo modello le variabili climatiche sono numerose: morale, accettazione dei rischi, stress, collusione, tensione, liberta`, fiducia, competizione, apertura, confronto, chiarezza, autonomia, identita`, ottimismo e affermazione.
In Italia si sono occupati di clima principalmente Quaglino, Spaltro e Volpe.
Xxxxxxxx definisce il clima come “un insieme di elementi, opinioni, sentimenti, percezione dei membri che colgono la qualita` dell’ambiente del gruppo, la sua atmosfera” (11). Il clima e` rilevabile attraverso i suoi indicatori di cui i principali sono: il sostegno, il calore, il riconoscimento dei ruoli, l’apertura e il feed-back.
Quaglino tenta di mediare tra climi organizzativi e climi psicologici e tra individuo e organizzazione: “Si deve...ritrovare lo spazio, in senso lewiniano, tra l’individuo e l’orga- nizzazione, e questo significa collegare chiaramente il clima, da un lato alla motivazione, come peculiare variabile individuale, dall’altro alla cultura, come peculiare variabile orga- nizzativa” (12).
Spaltro fornisce alcune interessanti definizioni a cui fa seguire interventi di ricerca, come la diagnosi organizzativa attraverso la misurazione dei climi.
“Il clima e` una percezione prevalentemente descrittiva, con una unita` di analisi di piccolo gruppo od organizzativa e con una prevalente collocazione metodologica di piccolo grup- po...un clima altro non e` che il modo in cui una pluralita` di individui da` un significato prima diverso e poi comune (non uguale) al proprio mondo organizzativo” (13).
“Il clima e` l’insieme di sentimenti, percezioni, atteggiamenti come confluenza di fatti interni agli individui, cioe` agenti nell’interno e per motivazioni intrinseche soggettive e psicologi- che” (14). Spaltro nel volume “Il check-up organizzativo” espone un modello di intervento per diagnosticare le organizzazioni e, in particolare, i climi, attraverso l’analisi di sei dimensioni: a) l’importanza attribuita ai problemi, b) la speranza del cambiamento, c) la credibilita`/fiducia, d) gli stili di leadership, e) il livello di socializzazione (considerato come variabile fondamentale), f) l’atteggiamento di base di chi si occupa dell’organizzazione.
Volpe e la sua e´quipe hanno realizzato e concettualizzato un approccio all’analisi di clima nella prospettiva psico-sociale del cambiamento e sviluppo organizzativo; di esso daremo piu` ampio richiamo nella parte applicativa.
“La diagnosi di clima diventa, allora, premessa e momento importante dell’intervento psicosociale diretto a stimolare lo sviluppo e il cambiamento organizzativo facendo leva sulla soggettivita` (individuale e di gruppo) e, quindi, sulla valorizzazione e su un miglior utilizzo delle risorse umane” (15).
4. Un intervento di cambiamento organizzativo attraverso la diagnosi di clima
Dalle riflessioni teoriche sui climi, sopra illustrate, conseguono considerazioni sulle varie
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(9) XXXXX W.F.-XXXXXX J.W., Climate discrepancy: refining the concept of psychological and organizational climate, in Human Relations, n. 11, 1982.
(10) XXXXX J.E., The organizational universe, in XXXXX X.X.-XXXXXXXX J.W., The 1981 Annual Handbook for group facilitators, Univrsity Ass. Inc., S. Xxxxx, Ca., 1981.
(11) QUAGLINO G.P.-XXXXXXXXXX S.-CASTELLANO A., Gruppo di lavoro lavoro di gruppo, Cortina, Milano, 1992.
(12) QUAGLINO G.P.-MANDER M., op. cit.
(13) SPALTRO E., Il check-up organizzativo, Isedi, Milano, 1977.
(14) XXXXXXX E., Pluralita`: manuale di psicologia di gruppo, Patron, Bologna, 1985.
(15) XXXXXXXX X., Check-up organizzativo: due casi a confronto, in Psicologia e lavoro, n. 82, 1991.
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possibilita` applicative: la diagnosi organizzativa, la modificazione delle percezioni climati- che, il cambiamento della cultura organizzativa, in definitiva lo sviluppo organizzativo.
Desideriamo illustrare un intervento formativo, attuato nell’ultimo triennio da una societa` di consulenza, ISMO (Interventi e Studi Multidisciplinari nelle Organizzazioni) di Milano, in una societa` di servizi presente capillarmente su tutto il territorio nazionale.
L’obiettivo era quello del miglioramento dell’integrazione fra ruoli e funzioni, della comu- nicazione e delle relazioni interpersonali e gruppali in uno scambio fortemente orientato allo sviluppo ed al cambiamento sia sul piano tecnologico che organizzativo, agendo sulle strutture territoriali organizzate a livello provinciale. La ristrutturazione, contemporanea- mente in atto, vedeva il passaggio da struttura funzionale a struttura divisionalizzata e necessitava dell’inserimento di nuovi valori; in particolare, in una struttura decentrata, diventano essenziali processi comunicativi efficaci e rapidi e le integrazioni fra le funzioni e i diversi livelli dell’organizzazione.
All’obiettivo dichiarato seguiva inoltre un processo di rinnovamento della cultura organiz- zativa.
Viene concordato con la committenza che comunicazione e integrazione sono gli obiettivi su cui focalizzare l’attenzione.
L’intervento proposto e poi realizzato dalla consulenza e` stato caratterizzato dai seguenti criteri:
“a) Utilizzare un approccio psico-sociale, centrato sulle relazioni, sulla valorizzazione della soggettivita`, sull’utilizzo dell’esperienza come fonte di analisi critica e di apprendimento, sull’orientamento al cambiamento come situazione di progettualita` condivisibile, sull’accet- tazione ed utilizzo dell’emotivita` ed affettivita` nelle situazioni organizzative.
b) Una formazione che si pone come “aiuto” diretto, trasformando la realta` operativa in “laboratorio” di ascolto, di ricerca, di progettualita`. La formazione utilizza l’esperienza quotidiana dei partecipanti e dell’istituzione per rileggerla, valutarla, cambiarla.
c) Affrontare ogni realta` territoriale, provincia per provincia, per cio` che e`, partendo da una lettura rigorosa del suo habitat esterno ed interno, dai suoi problemi, dai suoi punti forti e punti deboli, dalle sue potenzialita`” (16).
Questi punti metodologici sono stati tradotti in un coerente modello d’intervento via via sviluppato in tutto il territorio nazionale, coinvolgendo oltre 10.000 persone nelle diverse strutture periferiche, nelle diverse attivita` e con diverse modalita`. (Nella fig. 1 la flow-chart). All’interno di questo intervento un’area di particolare efficacia e` stata l’analisi di clima su cui desideriamo soffermarci.
L’avvio dell’intervento e` dato da Seminari Introduttivi destinati alla dirigenza di ciascuna delle agenzie periferiche per illustrare il Progetto, definire il contratto psicologico e i ruoli all’interno del percorso formativo. Si costituisce poi con essi un gruppo di monitoraggio (Monitoring Team) per seguire le tappe successive del Progetto e per pianificare l’intervento che si articolera` attraverso una ricerca sull’ambiente interno ed esterno all’organizzazione e la diagnosi di clima.
Il progetto si caratterizza per una “centratura” sul territorio, sulle Risorse umane specifiche di quella realta` e sulle problematiche locali.
La metodologia della ricerca-intervento prevede due azioni: una ricerca sull’ambiente interno/esterno all’organizzazione realizzata dalla stessa committenza e l’analisi di clima, la dimensione piu` soggettiva dell’organizzazione, realizzata dalla consulenza, che focalizza l’attenzione sulle problematiche del rapporto fra individuo e organizzazione.
Il fatto di affidare alla committenza la ricerca sull’ambiente interno/esterno e una scelta metodologica legata alla necessita` di attivare le Risorse locali per trovare soluzioni di miglioramento ad hoc.
L’indagine di clima deve invece essere necessariamente svolta dalla consulenza a garanzia della corretta metodologia e per motivi deontologici, dovendo salvaguardare l’anonimato degli intervistati in una delicata lettura delle percezioni soggettive dei dipendenti. “Diagnosticare psicologicamente le organizzazioni significa, in effetti, trattare le organizza- zioni come insieme di sentimenti, atteggiamenti, percezioni ecc., come confluire di fatti interni agli individui, fatti diametrali, cioe` agenti per motivazioni soggettive e psicologiche” (17).
(16) X. XXXXX, Saggio in via di pubblicazione, Milano, 1993.
(17) DE XXXX XXXXXXXXXX P., La misura del clima come indice dello sviluppo organizzativo, in Psicologia e lavoro, n. 57/58, 1983.
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La ricerca si articola in cinque fasi che prevedono sempre lavori in piccoli gruppi, rappre- sentativi degli attori organizzativi nei quattro livelli: dirigenti, capi intermedi, assistenti e operativi.
La prima fase e` quella della discussione di gruppo sulle percezioni climatiche, favorita da stimoli creativi e metodologie che facilitano la libera discussione.
La seconda fase e` individuale e prevede la somministrazione di un questionario con 48 items su sei aree d’indagine: l’organizzazione del lavoro, il rapporto fra capi e collaboratori, il rapporto fra colleghi, fra l’organizzazione e i suoi clienti, la percezione del cambiamento organizzativo (area aggiunta dopo la ristrutturazione) e il rapporto fra il Centro e la Periferia.
Il questionario e` anonimo e con una scala a cinque risposte da 1 (molto negativo) a 5 (molto positivo).
Lo strumento d’indagine viene proposto alla totalita` del personale dirigente e dei quadri intermedi, a gruppi statisticamente significativi di personale assistente e personale operativo ( oltre il 10%).
62 La terza fase riguarda la socializzazione di tutti i dati delle due ricerche effettuata “a
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cascata” con la consulenza. E` la fase piu` rilevante; infatti, a distanza di due mesi circa dal Seminario introduttivo, si portano nel workshop con il Monitoring Team i risultati ottenuti dalle ricerche sul territorio e sul clima. Dall’analisi dei dati e problemi emersi si formula un piano di lavoro per gestire meglio i processi di integrazione e di comunicazione.
Poi si attivano Seminari per i capi di quel territorio, della durata di cinque giorni: due dedicati all’analisi dei dati di ricerca e alle proposte di miglioramento per le aree individuate come critiche e tre giornate sulle skills del capo, inteso come allenatore della propria squadra e come facilitatore dei processi comunicativi.
Durante i Seminari dirigenti e capi intermedi elaborano anche le modalita` di comunicazione dei risultati agli altri collaboratori.
La quarta fase prevede momenti di Follow-up del Progetto a livello territoriale per analizzare le numerose proposte di miglioramento e implementare le piu` rispondenti ai bisogni organizzativi.
Infine, nella quinta fase, questa ricerca-azione si conclude con una Convention regionale con l’obiettivo di consolidare la rete di reciprocita` e complementarita` fra Centro e Periferia, mettendo in comune esperienze e proposte.
Il processo prevede inoltre, momenti di supervisione a livello regionale, volti a sottolineare, anche sul piano simbolico, l’attenzione per l’integrazione.
In questa prospettiva le persone coinvolte, a tutti i livelli, si sono attivate per progettare modalita` di lavoro piu` efficaci e migliorare il clima aziendale.
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5. I risultati: criticita’ e opportunita’ emerse dall’indagine di clima.
Il processo formativo ha visto risultati immediati gia` durante il percorso.
Si e` evidenziata una maggior attenzione al cliente interno ed esterno, la traduzione di nuovi valori in nuovi comportamenti e nuovi linguaggi, un maggior coinvolgimento dei collabo- ratori in una politica di maggior trasparenza e di delega. Infine un gran numero di proposte operative alcune delle quali sono state realizzate subito dai gruppi stessi.
E` stato favorito il rinnovamento della cultura aziendale col passaggio dalla cultura buro- cratica, centrata su norme e prescrizioni, alla cultura della qualita` globale “della soddisfa- zione del cliente che punta a comportamenti flessibili, alla diagnosi, alla comunicazione ed ascolto, all’integrazione, all’innovazione.
Dall’organizzazione che pianifica e separa l’attivita` e le responsabilita` di ciascuno con meccanismi e regole gerarchiche, all’organizzazione partecipata che necessita di continue sinergie interfunzionali a tutti i livelli” (18).
Con riferimento specifico agli apprendimenti sviluppati dall’analisi di clima, possiamo evidenziare alcuni aspetti.
Parlare del clima vuol dire parlare anche di se stessi, quali attori, piu` o meno partecipi e consapevoli, della realta` organizzativa; questo genera un lieve livello di ansia per i conflitti che possono insorgere nella chiara esplicitazione delle proprie percezioni e rispetto al fatto di essere “giudicati” dagli altri attori organizzativi.
Ha prevalso la voglia di interrogarsi reciprocamente, il coraggio di esprimersi, una forte curiosita` e il desiderio di essere ascoltati. La vivacita` partecipativa ha creato un clima favorevole allo scambio e all’arricchimento di idee, oltre alla messa in comune di progetti ed esperienze di miglioramento.
Tutti i lavoratori, garantiti dall’anonimato, partecipavano attivamente alla discussione sul clima, anche con l’uso di associazioni creative: “Qual e` il clima in azienda?” “C’e` una nebbia fitta... E` freddino... E` rovente... E` molto nuvoloso”. “Come rappresentate l’organizzazione, in questo momento?” “Un elefante forte e lento...Una bussola smagnetizzata...Una flotta senza piu` una meta“. “Qual e` il colore del clima aziendale?” “Grigio scuro...Verde speranza...Rosso infuocato”. “Qual e` il sapore?” “Agrodolce... Amaro... Salato”.
Questo “riscaldamento” del gruppo permetteva un clima relazionale piu` disteso e facilitava il percorso successivo, mantenendo il livello partecipativo sempre alto.
I risultati venivano messi a disposizione con modalita` “a cascata”: alla presenza della consulenza che aveva elaborato i dati, i dirigenti li illustravano ai quadri intermedi e questi ai loro collaboratori.
La priorita` attribuita dall’azienda a questo Progetto rispetto agli altri interventi formativi in
(18) X. XXXXX, op. cit.
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atto e la presenza della dirigenza sia in apertura dei Seminari per presentare i dati delle ricerche che in chiusura della settimana per raccogliere le proposte di miglioramento formulate dai partecipanti, rinforzavano l’interesse e la partecipazione delle persone coin- volte al punto che si producevano numerosissime proposte di miglioramento della comu- wicazione interna/esterna e dell’integrazione verticale/orizzontale, in parte gia` sperimentate durante il Seminario.
Il livello di soddisfazione era cos`ı elevato che tutto il personale coinvolto si dichiarava certo che ad una nuova somministrazione del questionario di clima, questo sarebbe risultato, senza dubbio, migliore.
E` possibile che questo strumento venga riutilizzato dall’azienda per monitorare il clima, in
modo che si mantenga un alto livello di attenzione che permetta di individuare e affrontare situazioni critiche in tempo reale, ma soprattutto mantenga viva la capacita` di ascolto, critica ed autovalutativa.
6. Clima e managerialita’ .
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E` utile approfondire l’approccio dei manager ai problemi incontrati nella adesione e gestione del Progetto che ha preceduto e accompagnato il processo di cambiamento organizzativo.
Il cambiamento organizzativo presuppone anche il cambiamento degli uomini: “piu` com- petenza manageriale, formazione interdisciplinare, motivazioni legate ai risultati piu` che ai compiti, piu` capacita` di autonomia, orientamento al rischio e all’innovazione” (19) e conseguenti comportamenti organizzativi piu` improntati all’integrazione, alla pianificazione e alla decisione.
Pur considerando l’utilita` di questa svolta i manager esprimono difficolta`, ad esempio, a rinunciare a parte delle tecnicalita` (quelle per cui si sentono riconosciuti) per dare spazio alle nuove competenze manageriali (quelle su cui non si sentono ancora adeguati).
Essi, pur condividendo una lettura di cambiamento del mercato visto come complesso e turbolento, e la conseguente esigenza di adeguare l’organizzazione alle nuove necessita`, assumono, in maggioranza, atteggiamenti di attesa e di sospensione delle attivita` decisionali per le difficolta` di gestione scaturite dall’incertezza e dall’ansia.
A volte assumono atteggiamenti di passivita` e di riduzione al minimo della discrezionalita`, anziche` attivarsi per cercare le risposte e le informazioni di cui abbisognano.
E` questo un comportamento derivato da una cultura organizzativa di tipo burocratico- tecnocratico, mentre ora si rende indispensabile aderire ad un modello di tipo partecipativo in cui siano condivisi responsabilita`, successi e insuccessi.
Anche il passaggio da valori legati alle capacita` tecniche a valori che pongono primaria- mente enfasi sulle capacita` gestionali, non e` indolore; esso comporta infatti un cambiamento nella visione e interpretazione del proprio ruolo da esperto gestore di macchine a esperto gestore di uomini.
Si possono immaginare le conseguenze portate dall’innovazione alla percezione della sicurezza personale dei manager: un abbassamento dei livelli di sicurezza interna dovuta alla necessita` di nascondere l’obiettiva difficolta`, fa assumere atteggiamenti volti a rinforzare il livello di sicurezza esterna.
La necessita` di una continua integrazione con le altre funzioni richiede capacita` di nego- ziazione, mediazione, cooperazione, umilta`, flessibilita` e gioco di squadra ecc. che raramente sono state esperite fino a questo momento, se non occasionalmente.
Quanto esposto porta ad indicare come elemento decisivo e prioritario la capacita` per il manager di interiorizzare obiettivi organizzativi.
Per realizzare nei fatti di tutti i giorni questi continui cambiamenti occorrono atteggiamenti di fiducia (verso i colleghi, i superiori e l’organizzazione) e di accettazione del rischio non vissuto con la paura di perdere, ma come sfida per raggiungere l’autorealizzazione.
L’utilizzo del clima, inoltre, e` per il manager uno strumento di gestione della propria leadership: permette un ascolto attivo delle istanze dei colleghi e dei collaboratori, un coaching piu` mirato, un maggiore infiuenzamento attuabile attraverso comportamenti volti a favorire buone relazioni. Il clima diventa uno strumento per “Fare qualita` organizzativa
(19) Dispensa inedita ISMO.
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attraverso la qualita` delle relazioni” (20) ed un miglioramento del clima aumenta il livello di coesione del team e produce sinergie tali da migliorare i risultati.
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7. Conclusione.
L’indagine di clima si rivela un utile strumento per dare spazio in azienda alla soggettivita` e progettualita`, facilitare i flussi di comunicazione e individuare, in gruppi di lavoro interfunzionali, problemi e soluzioni di miglioramento per l’organizzazione e per il suo ambiente esterno.
Le organizzazioni hanno la possibilita` di porsi in “ascolto attivo” per poter monitorare meglio la situazione attuale e cogliere in tempo, opportunita` e criticita`.
Quasi sempre le persone coinvolte si appropriano del Progetto indagando sul proprio benessere e malessere e confrontandosi per migliorare il livello qualitativo della vita aziendale. Sperimentano un nuovo valore e il riconoscimento di “essere parte”; studiando il clima lo cambiano e, come afferma DuBrin:“Un cambiamento di clima e` simultaneamente un cambiamento nella cultura organizzativa” (21).
In ogni processo formativo in cui si fa uso dell’analisi di clima si realizza che un clima relazionale “caldo” favorisce il miglioramento dei processi comunicativi e l’integrazione interfunzionale molto piu` efficacemente di un organigramma o di un perfetto strumento operativo.
Concludiamo con una definizione di clima che enfatizza la dimensione attiva, propositiva e partecipativa: “Il clima e` un costrutto intermedio, variabile, mutevole e differenziato a cui ciascun soggetto e` necessariamente e inconsapevolmente esposto, ma di cui ciascun soggetto e` anche un interprete attivo” (22).-
(20) X. XXXXX, op. cit.
(21) XXXXXX A.J., Foundations of organizational behavior: an applied perspective, Englewood Xxxxx, N.Y. Xxxxxxxx Xxxx, 1984.
(22) XXXXX E., Clima e socializzazione al lavoro in ambiente bancario, in Psicologia e lavoro, n. 87, 1992.
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Contratto collettivo e sciopero: variazioni metodologiche (*)
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1. Contratto collettivo e titolarita` individuale del diritto di sciopero. 2. Esercizio del diritto di sciopero, conseguenze. 3. Sciopero per rinegoziare ante tempus le clausole del contratto collettivo e sua configurabilita` alla stregua del diritto positivo. 4. Applicabilita` della disciplina codicistica. 5. La teoria positivistica di Xxxxxx e il successivo sbocco nella titolarita` individuale. 6. Lo stato della questione negli anni sessanta. 7. La teoria della non vincola- tivita` dei patti di tregua. 8. La teoria di Dell’Olio. 9. La teoria della titolarita` del diritto di organizzazione. 10. Valutazione del comportamento del sindacato: recesso-inadempimento.
11. Inadeguatezza della definizione del contratto collettivo quale contratto normativo astratto. 12. tregua sindacale e sciopero. 13. L’accordo sul costo del lavoro del 23 luglio 1993: un diverso apporccio alla tregua sindacale. 14. Una soluzione di ermeneutica contrattuale.
Sommario
1. Contratto collettivo e titolarita’ individuale del diritto di sciopero.
La questione della compatibilita` delle iniziative di lotta sindacale con la vigenza del contratto collettivo — questione che e` stata riproposta in una recente sentenza — mette in discussione alcuni problemi fondamentali del diritto del lavoro e fra essi il problema della rilevanza del punto di vista positivistico, unitamente alla constatazione che nel diritto del lavoro il discorso giuridico ha incorporato asserzioni descrittive di situazioni, prassi e realta` mutevoli che sembrano contrapporsi alle norme codificate (1).
Con una enunciazione molto schematica la nostra questione puo` venire cosı` riproposta nei suoi termini tradizionali: e` legittimo che il sindacato, quale parte di un contratto collettivo a termine, promuova un’iniziativa di lotta sindacale al fine di rinegoziare le clausole del contratto prima della sua scadenza?
La formulazione del problema rimanda all’istituto dello sciopero che, per l’art. 40 della Costituzione, e` un diritto che si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano.
In assenza di una disciplina legislativa, e` toccato alla dottrina e alla giurisprudenza definirne le regole essenziali e, fra queste, la titolarita` individuale del diritto di sciopero e` divenuta un punto fermo o, quantomeno, un’acquisizione cosı` fortemente radicata nel pensiero giuridico da scoraggiare ogni teorizzazione volta a risolvere il problema su enunciato sulla base della assunzione della titolarita` (invece, o anche) collettiva del diritto di sciopero.
Non si comprenderebbero appieno, percio` , le ipotesi teoriche avanzate sulla natura del
(*) I contributi di Xxxxxxxx xxx Xxxxx, Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Xxxxx Xxxxxxxx, Xxxx Xxxxxxx, Xxxx Xxxxxxxxx e Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx qui pubblicati riproducono le relazioni presentate al IV Seminario di Diritto delle relazioni industriali, tenutosi a Milano il 22 novembre 1993, su iniziativa congiunta delle Universita` di Milano e Napoli con la collaborazione dell’ALAR.
(1) D’XXXXXX, L’analisi post positivista del diritto del lavoro e la questione del metodo, RCDP, 1990, 207.
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Ricerche Efficacia temporale del contratto collettivo e conflitto
Contratto collettivo e sciopero
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contratto collettivo e, piu` in generale, sul contenuto della liberta` sindacale, se non si avessero presenti le difficolta` nella valutazione del comportamento sindacale, dovute alla mancanza della titolarita` del diritto di sciopero in capo al sindacato stesso.
E` evidente, infatti, che se la titolarita` del diritto di sciopero fosse stata attribuita al sindacato, o anche al sindacato, una parte rilevante della disciplina del rapporto collettivo fra imprenditore e organizzazioni sindacali sarebbe stata profondamente diversa, e diverse sarebbero state le ipotesi teoriche esplicative di quel rapporto.
2. Esercizio del diritto di sciopero, conseguenze.
Il problema della legittimita` dell’esercizio sindacale del diritto di sciopero prima della scadenza contrattuale e` quindi essenzialmente il problema del se e del come il sindacato, privo della titolarita` del diritto costituzionale di sciopero — che e`, come si e` detto, di esclusiva spettanza di ogni singolo lavoratore — possa promuovere uno sciopero “contro” il contratto collettivo da esso stipulato e, quindi, tenere un comportamento anticontrattuale, senza peraltro essere titolare della tutela costituzionale dell’art. 40.
Dottrina e giurisprudenza hanno da tempo raggiunto un assestamento quanto alla deter- minazione degli effetti dell’esercizio del diritto di sciopero sul rapporto individuale di lavoro (2).
Lo sciopero non costituisce inadempimento e non e` in alcun modo sanzionabile. Esso produce, in forza del principio sinallagmatico, la sospensione delle obbligazioni principali con l’effetto di liberare il datore di lavoro dall’obbligo di pagamento della retribuzione (durante il tempo dello sciopero).
Poiche´ questo effetto limitato, non sanzionatorio, che si produce sul contratto individuale di lavoro e` ricollegabile alla titolarita` del diritto di sciopero in capo al singolo lavoratore, un eguale trattamento non sembra avere ragion d’essere in relazione al comportamento del sindacato che, nel promuovere un’iniziativa di lotta contro le clausole da esso sottoscritte, non puo` richiamarsi all’esercizio di un proprio diritto costituzionalmente garantito.
Ancora meno giustificato puo` apparire il fatto che mentre il lavoratore scioperante perde il diritto alla retribuzione, l’iniziativa di lotta sindacale contraria al contenuto del contratto collettivo non comporti alcun effetto nella sfera del sindacato e del datore di lavoro.
3. Sciopero per rinegoziare ante tempus le clausole del contratto collettivo e sua configurabilita’ alla stregua del diritto positivo.
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Secondo i principi generali in materia contrattuale — che per la giurisprudenza sono applicabili al contratto collettivo di lavoro — un comportamento che manifesta in modo concludente la volonta` di non ritenere piu` vincolante il rapporto negoziale, ovvero che manifesta la volonta` di non adempiere, puo` essere configurato — in relazione alle sue concrete modalita` di fatto — come recesso o come inadempimento.
L’iniziativa di lotta sindacale diretta a conseguire ante tempus la rinegoziazione degli accordi collettivi assume il valore di esempio o prova cruciale per saggiare la diversita` — se essa esiste e come puo` essere valutata — della disciplina del contratto collettivo rispetto agli altri contratti cosiddetti di diritto comune: e questa prova assume un particolare ed attuale interesse per il presentarsi all’attenzione del giurista di due massime tanto dirette nel loro riferimento al codice civile, quanto sostanzialmente estranee o marginali rispetto alla teorizzazione giuslavoristica, ma che richiedono una speciale attenzione, qualora le si voglia considerare alla luce di una recente proposta metodologica, secondo la quale il diritto sindacale dovrebbe ispirarsi al valore della positivita` del diritto e ad una nuova sensibilita` ermeneutica o costruttivistica in grado di abbracciare nel suo campo visivo le pluralita`, le analogie, le interazioni, le lacune dell’ordinamento (3).
Le massime alle quali mi riferisco sono:
I) “Xxxx affermarsi che il recesso ordinario va ammesso come causa estintiva normale del
(2) GIUGNI, Diritto sindacale, Bari, 1991, 221 s.; XXXXXXX, DE XXXX XXXXXX, TOSI, TREU, Il diritto sindacale, Torino, 1993, 318; GHEZZI-ROMAGNOLI, Diritto Sindacale, Bologna, 1982, 223. Cass. 14 gennaio 1984, n. 315, MGI, 1984, col. 76, TOSI, Contrattazione collettiva e controllo del conflitto, DLRI, 1988, 452.
(3) D’ANTONA, op. cit., 225. Cfr. MENGONI, Problemi e sistema nella controversia sul metodo giuridico, in Diritto e valori, 1985, 11 ss., da Jus, 1976, 3-40.
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rapporto di durata a tempo indeterminato e risponde all’esigenza di evitare la perpetuita` del vincolo obbligatorio” (fattispecie in materia di recesso dal contratto collettivo) (4);
lI) “La violazione di un patto sindacale costituisce inadempimento al quale l’azienda puo` legittimamente contrapporre l’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.)” (5);
La prima massima e` relativa a due sentenze della corte di cassazione che intervengono direttamente sulla controversa questione della recedibilita` dai contratti atipici di durata e che ne affermano l’ammissibilita`: essa non riguarda e non affronta il problema del nesso intercorrente fra sciopero e adempimento del contratto collettivo, ma introduce una causa di cessazione del contratto — il recesso — in ordine alla quale puo` formularsi l’ipotesi che essa costituisca il risultato giuridico della condotta sindacale rivelatrice di una volonta` contraria alla permanenza del rapporto obbligatorio instaurato con l’altra parte.
Si intende dire, in sostanza, che l’iniziativa di lotta sindacale puo` venire interpretata sulla base dell’analisi degli elementi della fattispecie come recesso dal contratto.
Infatti, se e` legittimo il recesso dal contratto collettivo e se la dichiarazione di volonta` corrispondente puo` essere manifestata con ogni mezzo, e` giustificato chiedersi se la proclamazione dello sciopero contro le clausole di un contratto collettivo non scaduto possa costituire manifestazione tacita concludente della volonta` di recedere dal rapporto.
La seconda massima individua invece nello specifico comportamento sindacale un’ipotesi di inadempimento e giudica, per converso, legittimo il comportamento dell’imprenditore iscrivendolo nella struttura di autotutela codificata con l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c. Entrambe le massime, pur con diversi percorsi, riportano in primo piano il problema del nesso tra fattispecie sciopero e vincolativita` del contratto collettivo.
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4. Applicabilita’ della disciplina codicistica.
In via generale e` stato osservato che al di sopra di una soglia di tutela indisponibile, la normativa lavoristica non presenta un effettivo grado di autonomia rispetto ai processi economici e alle relazioni industriali e che, significativamente, la disciplina costituzionale in materia di lavoro appare diretta non tanto al riconoscimento di un equo contempera- mento degli interessi in conflitto, quanto nell’attribuzione di un trattamento normativo minimo (art. 36 e 38 Cost) (6), mentre l’effettiva determinazione delle condizioni di scambio del lavoro dipendente e` affidata alla dialettica delle forze sociali (e all’intervento del legislatore) (7).
Non e` dunque da principi generali del diritto del lavoro che puo` trarsi una ragione di diversita` della regolamentazione del contratto collettivo rispetto ad altri contratti, ma piuttosto dalle relazioni che, nell’esperienza delle interpretazioni giuridiche delle fattispecie, si stabiliscono fra norme e contesto, attraverso un procedimento ermeneutico, attento alle realta` socio-economiche, che si rivolge sia alle norme che ai fatti da interpretare.
Ne´ la rilevanza pur attribuita dal legislatore al contratto collettivo a tutela di diritti individuali dei lavoratori (art. 2113 c.c.) puo` di per se` offrire elementi per risolvere questioni che attengono agli effetti ricollegabili ai comportamenti delle parti contraenti del contratto collettivo, tanto piu` se attinenti alla parte obbligatoria di tali contratti.
5. La teoria positivistica di Xxxxxx e il successivo sbocco nella titolarita’ individuale.
E` significativo che le piu` convincenti ipotesi formulate per risolvere il nostro problema abbiano accettato di misurare il loro fondamento negli istituti del codice civile fino alle estreme conseguenze, per poi, eventualmente, recuperare sulla base delle norme costitu- zionali in tema di liberta` sindacale e di diritto di sciopero, il dato positivo normativo per giungere al giudizio di liceita` dello sciopero ante tempus.
(4) Cass. 9 giugno 1993, n. 6408, in DPL, 1993, 2414 e MGL, 1993, 414; Conforme Cass. 16 aprile 1993, n. 4507,
RIDL, 1993, II, 684, con nota di XXXXXXXXX, Recesso unilaterale dal contratto collettivo e principio di buona fede.
(5) Pret. Milano 10 marzo 1993, in OGL, 1993, II.
(6) XXXXXXX, Ordinamento, ruolo del sindacato, dinamiche collettive di tutela, Padova, 1981, p. 31.
(7) XXXXXXX, op. e loc. cit.
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La prima importante formulazione teorico-critica della posizione, di stretta osservanza privatistica, contenuta nel principio «pacta sunt servanda“, e` opera di Xxxxxx (8).
Concludendo un’ana`lisi condotta con riferimento a principi di diritto comune, egli osser- vava: “Giunto a questo punto e traendo le fila del discorso, parrebbe potersi concludere nel senso che allo stato attuale del diritto privato italiano nessun mezzo si offre alle associazioni sindacali in mancanza di un accordo solutorio (c.d. mutuo dissenso) per chiedere la revisione anticipata (cioe` prima del normale termine di scadenza) del contratto collettivo” (9).
Tuttavia l’Autore perveniva ad affermare la legittimita` dell’azione di lotta sindacale diretta ad ottenere la revisione anticipata della disciplina collettiva non solo sul piano del rapporto individuale, ma anche su quello del rapporto collettivo, riconoscendo esplicitamente, non soltanto ai singoli lavoratori , ma anche alle associazioni sindacali, la titolarita` del diritto sancito dall’art. 40 Cost. (p. 108).
Conferendo alla proclamazione dello sciopero da parte del sindacato una tutela costituzio- nale analoga a quella espressa e sintetizzata in termini di diritto soggettivo relativa al singolo lavoratore, Ghezzi risolveva il problema della compatibilita` della lotta sindacale col per- manere del rapporto collettivo del quale si intendeva rinegoziare i contenuti prima della scadenza.
Ma il riconoscimento in capo al sindacato della specifica esenzione dalle regole comuni in tema di inadempimento (di cui all’art. 40) non poteva che passare attraverso l’affermazione che “non nel singolo lavoratore va ricercata la titolarita` del potere di valutare in concreto se l’interesse collettivo esige lo sciopero” (10). In assenza di una regolamentazione norma- tiva, la definizione del profilo strutturale del diritto del sindacato esigeva che a quest’ultimo fosse attribuito il potere di iniziativa.
Tuttavia l’adozione di una soluzione interpretativa che giustificasse sul piano dell’ordina- mento un sistema a doppia titolarita`, anziche´ rafforzare, indeboliva l’esercizio del diritto di sciopero, degradando a scioperi illegittimi quelli non proclamati dal sindacato (11).
Prevalse allora la preoccupazione di affrancare il diritto di ciascun lavoratore da una condizione di validita` dello sciopero rimessa alle scelte del sindacato. E la giurisprudenza si oriento` a ritenere irrilevante il momento della deliberazione collettiva della astensione dal lavoro.
In tal modo lo sciopero si costituiva come diritto individuale, la titolarita` del quale era riconosciuta esclusivamente al singolo lavoratore, mentre l’ipotesi di una titolarita` collettiva non ha avuto ulteriori sviluppi e successi nella cultura giuridica italiana (12).
La conseguenza di questo consolidato prodotto del diritto vivente e` stata, come osservava Mengoni (13), che l’art. 40 Cost. impedisce soltanto che dal contratto collettivo per se´ stesso possano derivare a carico dei lavoratori effetti obbligatori limitativi del diritto di sciopero, ma che effetti di questo tipo sono esclusi per il sindacato che stipula il contratto collettivo in nome proprio e non in nome dei lavoratori (14).
Se Xxxxxx aveva potuto evitare, proprio richiamandosi all’art. 40 della Costituzione, l’inadempimento del sindacato, Xxxxxxx, che giudicava insostenibile quel richiamo, osser- vava che allo stato attuale della legislazione la modificazione del contratto non potrebbe che avvenire se non ad opera delle stesse parti mediante la riapertura della contrattazione (15).
6. Lo stato della questione negli anni 60.
Il problema della legittimita` dello sciopero prima della scadenza del contratto collettivo e`
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(8) GHEZZI, La responsabilita` contrattuale delle associazioni sindacali, Milano, 1963, 114.
(9) XXXXXX, op. cit., p. 104.
(10) XXXXXX, op. cit., p. 109 e nota 63; vedi autori ivi citati).
(11) Cass. 10 agosto 1963, n. 2283, MGL, 1963, 293; CASS. 22 LUGLIO 1963, DL, 1964, II, 54; CASS. 28 GIUGNO 1976,
N. 2480, OGL, 1976, 853; PRET. BOLOGNA 30 SETTEMBRE 1967, RGL, 1968, II, 129.
(12) XXXXXXXX, Il conflitto collettivo nell’ordinamento giuridico italiano, DLRI, 1989, p. 1 ss.; XXXX, Il diritto di sciopero, RIDL, 1986, I, 447 ss.
(13) MENGONI, Il contratto collettivo nell’ordinamento giuridico, in Diritto e valori, Bologna, 1985, 279, da Jus, 1975, 167-198.
(14) MENGONI, op. cit., p. 280.
(15) MENGONI, op. cit., p. 282.
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stato posto e discusso dentro lo schema teorico del cosiddetto dovere di pace sindacale (16) ed e` stato messo alla prova dall’esperienza giurisprudenziale nelle sentenze che hanno pronunciato sulla validita` ed efficacia delle clausole di tregua e sulla responsabilita` del sindacato per la loro violazione (17).
Occorre considerare che la discussione teorica ha dovuto misurarsi in una situazione cos`ı intricata e convulsa di rapporti sindacali — quella dei primi anni 70 (18) — nella quale si era ritenuto di intravvedere una crisi irreversibile dell’istituto contrattuale e, in particolare, del contratto collettivo di lavoro, cosı` da porre agli interpreti l’esigenza di una sua rifondazione teorica sulla base della realta` sostanziale del fenomeno (19), con la conseguenza di sbilanciare il discorso ermeneutico verso una considerazione privilegiata degli accadimenti
— riconosciuti validi per se stessi e, attraverso un procedimento di generalizzazione — assumendoli quindi quale fonte primaria delle regole del gioco.
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7. La teoria della non vincolativita’ dei patti di tregua.
Nel periodo considerato, fra le teorie che hanno cercato di dare una soluzione al problema della legittimita` del comportamento sindacale di contestazione del contratto collettivo, ha avuto un ruolo di primo piano la teoria della vincolativita` unilaterale del contratto collettivo (20). Nonostante le forti critiche che ad essa sono state autorevolmente mosse, e che l’hanno definita proposizione giuridicamente non apprezzabile dal punto di vista dell’ordinamento statuale (21) e nonostante sia stata abbandonata anche da parte degli iniziali sostenitori (22), questa teoria ha avuto successo soprattutto presso la dottrina (23).
Una variante si e` sviluppata come ricerca diretta a trarre da conclusioni “empiriche”, raccolte e catalogate, peraltro, sulla base di esperienze puramente mentali, un giudizio di inutilita` (per lo stesso imprenditore) della configurazione di una responsabilita` del sindacato per la violazione del dovere di tregua ovvero di violazione di clausole obbligatorie del contratto collettivo (24).
Un filone particolare di questa ricerca ha dedicato attenzione al nesso causale tra compor- tamento del sindacato ed evento-sciopero (25).
E` stato scritto che non facendo scattare il momento collettivo, non si evitano necessaria- mente gli scioperi ne´ degli associati ne´ dei non associati. Tutte le volte che il sindacato giunge alla proclamazione di uno sciopero cio` non produrrebbe, con nesso di causalita`, l’agitazione, la quale dipenderebbe da una decisione concorrente, ma autonoma, dei singoli lavoratori (26).
Questa tesi, che dovrebbe condurre ad un giudizio di irrilevanza dell’iniziativa sindacale sulla attuazione dello sciopero e, quindi, sul regime del contratto collettivo, non si misura, pero` , con due obiezioni di fondo:
1) l’inadeguatezza dell’argomentazione che, procedendo da premesse di tipo normativo e, quindi, generali ed astratte, pretende di trovare la soluzione in una valutazione di fatto qual’e` quella del nesso causale tra proclamazione-comportamento e sciopero-evento. Si
(16) Per una analisi critica delle posizioni teoriche sul tema del dovere relativo di pace sindacale si veda MAGNANI,
Contrattazione collettiva e governo del conflitto, DLRI, 1990, 687 s.
(17) Cfr. XXXX, nota a Tribunale di Massa 13 maggio 1969, FI, 1970, I, 338 e autori e giurisprudenza ivi citati. Si veda, pero` , Xxxx. 10 febbraio 1971, MGL, 1971, 371, con note di Riva San Xxxxxxxx e Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, che pronuncia anche in assenza di dovere relativo. Contra GIUGNI, Obbligo di tregua: valutazioni di diritto comparato, RDL, 1973, I, 14 ss.
(18) SCOGNAMIGLIO, Le azioni sindacali in vigenza del contratto collettivo, in La contrattazione collettiva, crisi e prospettive, 1976, p. 64.
(19) X. XXXXXXXXXXX, Il contratto collettivo come strumento di pace sindacale, ivi, p. 46. Cfr. XXXXX, Contratto a tempo indeterminato e recesso ad nutum, RIDL, 1993, I, 454.
(20) GIUGNI, L’autunno caldo sindacale, Il Mulino, 1970, 24; GIUGNI-XXXXXXX, Movimento sindacale e contratto collettivo, RGL, 1972, 325 s. Cfr. TIRABOSCHI, Problemi e prospettive in tema di risoluzione e recesso nel contratto collettivo di lavoro, in Collana del Dipartimento di Economia Aziendale dell’Universita` di Modena, n. 20, 1992, p. 20.
(21) MENGONI, op. cit., p. 281; XXXX, Diritto di lavoro, Padova, 1984, 289.
(22) La tesi non compare piu` nelle edizioni successive a quella del 1980 del manuale di “Diritto sindacale”, di Giugni.
(23) Cfr. ASSANTI, Il protocollo Xxxxxx davanti ai giudici: alcune considerazioni, RGL, 1987, 312 s.
(24) ASSANTI, op. cit., 320; SCOGNAMIGLIO, La disciplina negoziale del diritto di sciopero, RDL, 1972, 351.
(25) ASSANTI, op. e loc. cit..
(26) ASSANTI, op. e loc. cit., p. 321, che richiama GHEZZI e ROMAGNOLI, Il diritto sindacale, Bologna, 154.
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tratta di un quid facti che non e` omogeneo e non e` quindi logicamente confrontabile con le premesse che sono costituite da un quid iuris.
2) la negazione che essa implica della rilevanza del nesso causale, in ipotesi di concorso dell’azione sindacale, in contrasto col principio generale dell’ordinamento previsto dall’art. 41 cod. pen.
La teoria della non vincolativita` e` insoddisfaciente, da un primo punto di vista, per il suo apriorismo, in quanto perviene ad affermare un criterio regolatore astratto, fondandolo esclusivamente su asserite qualita` intrinseche delle dichiarazioni del sindacato (qualita` politica, dichiarazioni non impegnative, destinate al ruolo di semplice apparenza), senza collegarle ad alcun principio normativo vigente; da un altro punto di vista essa non soddisfa per l’istanza teorico-pratica che la informa, la quale appare esclusivamente quella di togliere rilevanza a comportamenti pur incompatibili con le clausole del contratto collettivo: istanza di per se´ non meritevole di tutela da parte dell’ordinamento.
Questa teoria non ha trovato adesioni in giurisprudenza.
Neppure nel periodo in cui e` stata piu` vivace, da parte della dottrina, la critica delle clausole di tregua, la convergenza delle soluzioni giurisprudenziali verso l’opzione dottrinale circa l’irrilevanza di tali clausole non si e` mai fondata sulle asserzioni teoriche dell’irrilevanza del comportamento sindacale e della insussistenza del nesso causale. Nelle pochissime pronun- cie giurisprudenziali che e` dato rintracciare sul tema, le questioni sono state risolte alla stregua del diritto positivo, non con giudizi a priori circa l’insussistenza o l’irrilevanza dell’obbligazione del sindacato, bensı` attraverso un giudizio di fatto circa la effettiva volonta` (ritenuta mancante) delle due parti contraenti di vincolarsi alla pace (27).
Tuttavia tali spiegazioni della non obbligatorieta` delle clausole di tregua date sulla base di precisi riferimenti codicistici, se potevano appagare l’esigenza di motivare una decisione conforme al diritto, non soddisfacevano il giurista che intravvedeva, oltre l’immagine formale del mutuo dissenso, una causa prima, vera ed effettiva ragione determinante della liberta` del sindacato di proclamare uno sciopero anche per rinegoziare una clausola prima della sua scadenza.
La questione ritorna dunque al problema di carattere generale: quello del cosiddetto dovere relativo di pace sindacale. Si ritorna a discutere di struttura del negozio giuridico collettivo: con la necessita` di superare le condizioni di difficolta` constatate da chi (Xxxxxxx) riteneva che la modificazione del contratto non potesse avvenire se non ad opera delle stesse parti e della loro concorde volonta` di riaprire la negoziazione (28).
(27) L’ipotesi che la stipulazione di un patto di tregua fosse accompagnata dalla volonta` di non darvi esecuzione era stata formulata dalla dottrina in concomitanza al formarsi di una giurisprudenza relativa al dovere di pace sindacale, consistente nel pervenire ad un accertamento di fatto che escludeva, in concreto, la volonta` delle parti del contratto collettivo diretta alla costituzione di tale patto.
Infatti, dopo la fine degli anni sessanta, di fronte alla grande diffusione della contrattazione collettiva aziendale, in deroga ai divieti contenuti nei patti di tregua stipulati a livello nazionale (GIUGNI e XXXXXXX, Movimento sindacale e contratti collettivi, in GIUGNI, XXXXXXX, Potere sindacale e ordinamento giuridico, Bari, 1972, 110, nonche´ GIUGNI, Commento alla premessa, in CARINCI (a cura di) Il contratto dei metalmeccanici, Bologna, 1978), la giurisprudenza, chiamata ad applicare la clausola di pace sindacale contenuta nella premessa del contratto collettivo nazionale per i metalmeccanici dell’8 gennaio 1970, affermava, attraverso una tortuosa argomentazione di fatto, la presenza di un “dissenso occulto” delle parti circa l’inserzione nel contratto collettivo della clausola suddetta, con l’effetto di dichiararla nulla sulla base del combinato disposto degli artt. 1325, n. 1 e 1418, 2o comma c.c.: cosı` il Tribunale di Padova, 4 luglio 1973 (FI, 1973, I, 3205).
In sede di appello, la corte di Venezia, giudicando insostenibile la decisione del tribunale di Padova, riformava la sentenza, confermando, peraltro, la non vincolativita` del patto di tregua, sulla base di una interpretazione del contratto che non si arrestava al senso letterale delle parole, ma che poneva particolare e determinante attenzione al comportamento delle parti (art. 1365 c.c.).
Accertava, in fatto, la Corte veneziana che l’inserzione nel contratto collettivo 8 gennaio 1970 per i metalmeccanici di una clausola tralatizia che risaliva al contratto nazionale del 1966, non aveva effetto vincolante, essendo pacifico in causa che: “nel corso degli anni 1967-1968-1969, cioe` posteriormente alla stipulazione del contratto nazionale del 1966, vennero stipulati in grandissimo numero contratti collettivi aziendali che, stando alla formulazione letterale della premessa, non avrebbero potuto formare oggetto di utleriore contrattazione per il periodo di vigenza di quel contratto” (App. Venezia 29 aprile 1976, FI, 1976, I, 1701, 1705). Xxxxxx` , concludeva la Corte, il comportamento delle parti indicava che le stesse non ritenevano vincolante il formale richiamo alla suddetta clausola.
(28) Trasformando la disponibilita` soggettiva dei contraenti a rinegoziare in una oggettivazione della volonta` comune che agisce quale forza autonoma determinante il regolamento delle parti sociali. “La volonta` delle parti stipulanti viene intesa non piu` come ‘ voluto ’ (alla cui sussistenza lo Stato ricollega la nascita delle obbligazioni giuridiche) ma come ‘ volere ’ come capacita`, cioe` di garantire direttamente (al di fuori dello Stato) l’applicazione
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8. La teoria di Dell’Olio.
Sotto uno specifico profilo la volonta` e` chiamata in causa per conferire una peculiare struttura alla fattispecie del contratto collettivo, che risulta configurata come contratto plurilaterale di organizzazione (29). Essa esprime l’idea di gestione dei rapporti individuali di lavoro (30) realizzata mediante il coordinamento o concerto di comportamenti indivi- duali.
Questa concezione, peraltro, non mira a descrivere la realta` in atto, ma piuttosto una possibile linea di tendenza concernente non gia` e non solo la gestione, ma gli stessi rapporti di lavoro con il tendenziale assorbimento di questi in una nozione globale di rapporto o relazione collettiva o industriale (31).
Ora, questa impostazione teorica dell’organizzazione sindacale potrebbe in effetti condurre a superare il problema della titolarita` (ritenuta, tuttavia, individuale da chi l’ha formulata) del diritto di sciopero, risolvendo o dissolvendo la contrapposizione tra individuale e collettivo nell’azione di gestione accorpata degli interessi individuali.
Senonche´, anche nella prospettiva della teoria della gestione accorpata, lo sciopero e` ancora un diritto del singolo mentre, per quanto concerne il momento collettivo, viene da essa rivalutata la costruzione della proclamazione dello sciopero come atto autorizzativo (32). Per quanto ricca di spunti e di stimoli a produrre nuove ipotesi di soluzione del problema, questa dottrina non offre — ne´ si propone di offrire — strumenti di immediata applicazione pratica per la soluzione delle controversie che vengono poste all’esame della giurisdizione la quale ha peraltro il compito di mediare situazioni complesse che possono esigere, come di fatto e` accaduto recentemente, anche la negazione radicale degli assunti protocollari della teoria ora considerata: “Ha natura non di contratto collettivo aziendale” — sentenzia la Corte di Cassazione — “ma di contratto individuale di lavoro, ancorche´ plurisoggettivo o plurilaterale, l’accordo stipulato dal datore di lavoro con i proprii dipendenti impegnati singolarmente e senza la partecipazione di alcun rappresentante sindacale, in conformita` delle valutazioni emerse da una loro precedente assemblea” (33).
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9. La teoria della titolarita’ del diritto di organizzazione.
Un approfondimento di questi aspetti strutturali e` stato compiuto da chi ha colto nel nesso, pragmaticamente irrisolto, del rapporto tra individuale e collettivo la chiave per penetrare nel nucleo in cui si fondono il diritto di sciopero e l’organizzazione sindacale dei lavoratori; chiave consistente nell’attribuire al singolo lavoratore, sulla base dell’art. 39 Cost., anche la titolarita` del diritto di organizzazione, in tal modo annullando lo scarto fra diritto di sciopero e azione sindacale (34).
Punti di contatto e affinita` sorprendenti fra questa concezione e la realta` sindacale sono riscontrabili nell’esperienza giurisprudenziale di questi anni.
Cosı`, in relazione ad un accordo raggiunto fra la generalita` dei lavoratori e l’azienda, il Pretore di Parma ha osservato che tale accordo “non puo` non avere carattere collettivo aziendale ancorche´ sottoscritto dai singoli lavoratori, non essendovi, al momento, una rappresentanza dei medesimi; nel senso che esso non e` la somma di contratti individuali, ma il risultato di un trattativa condotta congiuntamente e collettivamente, cioe´ non singolar- mente, con la generalita` dei lavoratori; quindi e` un atto di autonomia negoziale, che concernendo un pluralita` di lavoratori collettivamente considerati, ha realizzato una disci-
del precetto costituzionale”: XXXXXXX, Contratto collettivo e ordinamento giuridico, pag. 28: il diritto e` cio` che effettivamente si manifesta come tale.
(29) DELL’OLIO, L’organizzazione e l’azione sindacale, Padova, 1980, p. 80 ss.
(30) DELL’OLIO, op. cit., p. 90.
(31) DELL’OLIO, op. cit., p. 92.
(32) DELL’OLIO, op. cit., p. 102.
(33) Cass. 6 luglio 1988, n. 4458, MFI, 1988, 655.
(34) XXXXXXX, Individuale e collettivo nel contratto di lavoro, Milano, 1933, 253; XXXXXXXXX, Lavoratore subordinato e autotutela collettiva, Milano, 1993, 184, 185 e 253. Cfr. Xxxxx, Contratto a tempo indeterminato e recesso ad nutum, RIDL, 1993, p. 455; XXXXXXX, Ordinamento intersindacale e teoria dei sistemi, DLRI, 1984, 8 s.
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plina uniforme nell’interesse collettivo di costoro, con efficacia normativa generalizzata, tipica della contrattazione collettiva anche se limitata ad una sola azienda” (35).
Tuttavia, nella sentenza di riforma del Tribunale di Parma (36), il momento dell’organiz- zazione e il momento dello sciopero vengono ancora tenuti nettamente separati. E il percorso giurisprudenziale si conclude con la sentenza della Corte di Cassazione n. 289 del 1992, che riconfigura la fattispecie come un’ipotesi di bilanciamento tra una legitti- mazione eccessiva del sindacato e la giustificazione del dissenso dei singoli o di gruppi minoritari (37).
La Cassazione recupera la teoria della rappresentanza di diritto comune dimostrando che nei momenti di incertezza sono ancora e sempre gli strumenti del diritto civile quelli che la giurisprudenza usa per arbitrare le controversie del diritto sindacale. Navigando a vista, secondo la metafora di un autore (38), la Cassazione utilizza un modello di diritto positivo, dopo averne saggiato l’utilita`, con un procedimento di natura ricostruttiva che le consente di mediare tra il riconoscimento della volonta` espressa dall’assemblea dei lavoratori e la tutela dei dissenzienti.
10. Valutazione del comportamento del sindacato: recesso — inadempimento.
Sotto una diversa prospettiva interferisce con l’oggetto di questa ricerca il problema della demarcazione tra inadempimento contrattuale (del contratto collettivo) imputabile al datore di lavoro e comportamento antisindacale dello stesso.
Se inadempimento e antisindacalita` coincidessero (39) il datore di lavoro sarebbe privato, alla stregua del diritto comune, del diritto di opporre all’altrui inadempimento l’inesecu- zione delle proprie obbligazioni; diritto che potrebbe apparire meritevole o non meritevole di tutela in relazione alla concreta fattispecie.
Per contro, se l’inadempimento non potesse venire altrimenti qualificato che inesecuzione degli obblighi contrattuali, esso potrebbe divenire un salvacondotto per eludere il divieto di compiere atti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della liberta` e dell’attivita` sindacale. La risposta che corrisponde all’orientamento prevalente afferma che l’antisindacalita` della condotta del datore di lavoro e` configurabile solo con riguardo ad atti lesivi di interessi di una larga parte dei lavoratori, che siano diretti a reprimere in radice il conflitto con i sindacati, non anche con riguardo ad atteggiamenti del medesimo datore di lavoro nell’am- bito di tale conflitto, e aggiunge che essa deve essere accertata con rigore nel caso di violazione di un accordo sindacale destinato ad operare direttamente sul piano dei rapporti fra datore di lavoro e lavoratori, non essendo tale violazione di per se´ sufficiente per la sussistenza del requisito oggettivo della detta antisindacalita` (40).
Si tratta, come si vede, di una risposta che consente soluzioni non predeterminate e che implica un giudizio valutativo dei concreti comportamenti delle parti e delle circostanze in cui si manifesta la fattispecie.
Ma ancora una volta in essa l’attenzione e` posta a cio` che accade nella sfera giuridica del sindacato; alle facolta`, ai diritti, alle azioni che sorgono in capo al sindacato a causa del comportamento dell’imprenditore.
Per indagare, invece, su che cosa accade nella sfera del datore di lavoro per effetto del comportamento del sindacato, dobbiamo ritornare al problema della possibile qualificazione dell’azione sindacale in vigenza del contratto collettivo e del controllo dell’ipotesi che l’azione sindacale possa costituire una dichiarazione tacita di volonta`, contraria alla prose- cuzione del rapporto.
Occorre qui ricordare che l’esigenza di fornire una disciplina della onerosita` sopravvenuta al fine di legittimare l’azione sindacale ha portato ad individuare nelle disposizioni dell’art.
note
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(35) Pret. Parma, 20 febbraio 1989, DPL, 1989, 2308, 2310, che richiama, sulla definizione del contratto aziendale, Cass. 16 aprile 1980, n. 2489. Si veda pero` Xxxx. 4458/1988 utl. cit.
(36) Trib. Parma, 13 luglio 1989, DPL, 1989, 2311.
(37) XXXXXX, L’efficacia della contrattazione e il dissenso: la Cassazione “naviga a vista”?, XXXX, 1993, II, 82 ss.
(38) Xxxxxx, op. e loc. cit. La sentenza della Cassazione si legge in DPL, 693, con nota di D’AVOSSA.
(39) La dottrina considera antisindacale il comportamento datoriale quando l’opposizione al sindacato e` opposi- zione al conflitto, cioe` repressione dello stesso, mentre considera lecito il comportamento del datore che “si muove nel conflitto accettandolo e accettandone le conseguenze” e cioe` “si muove nella logica del conflitto stesso”: XXXXXXXX, Interessi collettivi e condotta antisindacale dell’imprenditore, Napoli, 1979, 84.
(40) Cass. 17 gennaio 1990, n. 207, FI, 1990, I, 2591; RGL, 1990; II, 277.
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1467 del codice civile il modello sul quale costruire la giustificazione teorica dello sciopero prima della scadenza contrattuale. All’azione di lotta intrapresa dal sindacato stipulante viene attribuita, in tal modo, il valore di una manifestazione di volonta` diretta alla risoluzione del contratto (41).
Cio` peraltro ha un senso solo se il contratto e` a tempo determinato, perche´ se, invece, il contratto e` a tempo indeterminato quella volonta` diretta alla risoluzione del rapporto altro non e`, nella sostanza, che l’esercizio di un diritto potestativo di recesso.
Si possono, allora, formulare due ipotesi:
1) che la proclamazione dello sciopero prima della scadenza del contratto collettivo costituisca recesso del sindacato dal contratto collettivo stesso, ovvero:
2) che, non essendo consentito il recesso (in caso di contratto a tempo determinato) l’iniziativa di lotta sindacale costituisca inadempimento rispetto al quale il datore di lavoro puo` opporre l’eccezione ex art. 1460 c.c..
Naturalmente la verificabilita` di queste ipotesi si da` solo in concreto e a posteriori.
Ma la configurabilita`, in astratto, della proclamazione dello sciopero come recesso unilate- rale del sindacato era gia` stata posta da Xxxxxxx quale premessa dell’argomentazione per assurdo contro l’ipotesi della denuncia del contratto a tempo determinato: “salvo il limite della clausola rebus sic stantibus, durante il termine del contratto possono essere avanzate dal sindacato nuove pretese soltanto per materie non contemplate dal regolamento collet- tivo. Sostenere il contrario equivale a dire che, a dispetto della clausola formale che fissa un termine al contratto, questo e` divenuto, di fatto, un contratto a tempo indeterminato, come tale denunciabile in qualsiasi momento: significa, cioe`, formulare una proposizione contra- ria, non gia` conforme alla legge del contratto“ (42).
Recentemente il Tribunale di Milano ha ritenuto che un nuovo accordo tra imprenditore e sindacati: “e` apprezzabile, indipendentemente dai suoi limiti soggettivi, come estrinseca- zione di una non equivoca volonta` aziendale di recedere dagli accordi preesistenti” (43). E` dunque possibile concludere — ricostruendo la trama normativa sulla base delle consi- derazioni che precedono — che l’iniziativa di lotta intrapresa dal sindacato con l’intento di rinegoziare le clausole del contratto collettivo in vigore possa costituire, a questa stregua, una non equivoca manifestazione della volonta` sindacale di recedere dal contratto.
Nel caso di contratto a tempo indeterminato essa avrebbe l’effetto di risolvere il rapporto. Se, invece, il contratto e` a tempo determinato si possono dare due alternative:
a) il datore di lavoro recede a sua volta dal contratto con dichiarazione espressa o con fatti concludenti e, per conseguenza, il contratto si risolve per mutuo dissenso;
b) il datore di lavoro non recede dal contratto e allora il comportamento del sindacato, configurandosi come inadempimento, rende legittima l’autotutela del datore di lavoro a norma dell’art. 1460 c.c.
Le conseguenze, in entrambi i casi, sono rilevanti. Nel caso di recesso unilaterale dal contratto a tempo indeterminato, ovvero di recesso bilaterale dal contratto a tempo determinato, la situazione e` equiparabile a quella del contratto collettivo scaduto. La Corte di Cassazione precisa che “essendo intervenuta la manifestazione di volonta` di recesso, ogni ipotesi di ulteriore efficacia del contratto aziendale e` da escludere” (44).
Il datore di lavoro non e` piu` tenuto all’adempimento del contratto collettivo e non potra` venire in ogni caso ricollegata all’inesecuzione delle clausole, sia della parte obbligatoria che di quella normativa, alcun profilo di antisindacalita`.
Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione “il perdurare dell’efficacia di una clausola di contratto collettivo postcorporativo scaduto — non operando piu` l’ultrattivita` della prevista dalla norma dell’art. 2074 c.c. che era correlata all’abrogato ordinamento corporativo, ne` potendo richiamarsi il principio del trattamento piu` favorevole, valido soltanto per le pattuizioni individuali — dipende solo dalla libera volonta` delle parti, la quale puo` essere manifestata anche per facta concludentia, salva l’ipotesi della specifica previsione di una particolare forma” (45).
Ad analoga soluzione e` pervenuto il Pretore di Novara. Dopo aver ritenuto ammissibile il
(41) Cfr. autori citati da XXXXXX, op. cit., p. 96, nota 27; la questione e` esaminata criticamente da TIRABOSCHI, op. cit., 48, s.
(42) MENGONI, op. cit., p. 285.
(43) T. Milano 3 luglio 1991, in OGL, 1991, III, in motivazione, p. 517.
(44) Cass. 16 aprile 1993, n. 4507, cit. (in motivazione). (45) Cass. 13 febbraio 1990, n. 1050, NGL, 1990, 478.
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recesso dagli accordi aziendali a tempo indeterminato, si e` posto il problema degli effetti sui rapporti individuali di lavoro della cessazione dell’efficacia di tali accordi. Richiamata la prevalente giurisprudenza della Corte di Cassazione che afferma che le disposizioni del contratto collettivo non si incorporano nei contratti individuali dando luogo a diritti quesiti, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma di regolamentazione, concorrente con la fonte individuale, la sentenza individua, tuttavia, nel comportamento aziendale che abbia continuato a corrispondere agli operai il trattamento economico oggetto della disdetta, una conferma del principio di ultrattivita` “secondo cui la disdetta del contratto collettivo fa venir meno la fonte, ma non gli effetti che restano ovviamente sterilizzati” (46).
Se invece, secondo l’altra ipotesi formulata, la proclamazione dello sciopero da parte del sindacato costituisce inadempimento, il datore di lavoro potra` rifiutarsi con richiamo all’art. 1460 c.c. di dare esecuzione alle clausole del contratto collettivo che gli impongono obblighi nei confronti del sindacato (47)
A tali conclusioni perviene infatti la sentenza del Pretore di Milano sopra richiamata, secondo cui: “non sono ravvisabili gli estremi della condotta antisindacale ex art. 28 Statuto dei lavoratori, nella sospensione dei miglioramenti retributivi pattuiti dall’azienda con le
r.s.a. a fronte dell’impegno delle stesse al recupero della produttivita` ed alla disponibilita` ad effettuare il lavoro straordinario, impegno non osservato con ricorso ad uno sciopero degli straordinari per il punto di contingenza” (48).
Lo sciopero attuato dai lavoratori non costituisce per essi inadempimento. Tuttavia, in virtu` del principio sinallagmatico, l’effettuazione dello sciopero — secondo una giurisprudenza assolutamente consolidata — esclude l’obbligazione di pagamento delle retribuzioni che gravano sul datore di lavoro (49).
Se tale effetto si produce nei confronti dei titolari del diritto che hanno partecipato allo sciopero, risulterebbe incongruo che nel rapporto col sindacato (che, pur avendo stipulato il contratto collettivo, abbia tenuto un comportamento contrario all’adempimento, senza essere titolare del diritto di sciopero) non si producesse alcun corrispondente effetto capace di operare nella sfera del datore di lavoro, onde resterebbe invariata l’obbligazione di quest’ultimo ad adempiere alle disposizioni del contratto collettivo.
La conseguenza, che appare coerente al principio di sinallagmaticita`, e` che la proclamazione dello sciopero e l’iniziativa di lotta sospendono le obbligazioni del datore di lavoro derivanti dal contratto collettivo nei confronti del sindacato.
Secondo la giurisprudenza per valutare la buona fede dell’eccezione di inadempimento si deve procedere alla valutazione comparativa del comportamento dei contraenti con riferi- mento all’elemento cronologico delle rispettive inadempienze ed al rapporto di proporzio- nalita` degli inadempimenti rispetto alla funzione economico sociale del contratto (50).
Tuttavia, aggiunge la stessa Corte di Cassazione 2843/82, quando una delle parti abbia manifestato per prima, con fatti positivi e non equivoci, il proposito di non adempiere l’obbligazione, non e` piu` possibile alcuna comparazione dei rapporti di causalita` e di proporzionalita` tra i due inadempimeneti a meno che il primo di essi risulti di scarsa importanza avuto riguardo all’interesse dell’altro contraente.
Peraltro mentre nel caso di recesso, venendo meno il contratto collettivo, vengono meno anche le obbligazioni del datore di lavoro nei confronti dei singoli lavoratori, non identico e` l’effetto della eccezione di inadempimento opposta dall’impresa al sindacato. Infatti
(46) RIDL 1991, p. 299. Un’inversione di prospettiva e` data da Xxxxx (XXXX, 1991, p. 311) secondo cui tale effetto deriverebbe non gia` dalla natura del contratto collettivo ma dai limiti che il nostro ordinamento pone al potere di recesso del datore di lavoro dal contratto individuale di lavoro: “in altre parole il problema del vincolo perpetuo dello scambio di risorse deriva, nel caso del rapporto di lavoro dai peculiari limiti che la legge impone al recesso del contratto collettivo” (ivi, p. 312 s.). Da quest’ultima considerazione si distingue, sempre in tema di recesso, il pretore di Serravalle il quale nega l’ultrattivita` degli accordi e la rilevanza di fatti concludenti confermativi a livello individuale dei patti collettivi (Pret. Serravalle Scrivia, 23 dicembre 1988, Giur. Piem., 1989, 63).
(47) Pret. Milano 10 marzo 1993, cit., 298. All’eccezione di inadempimento proponibile dal datore di lavoro nei confronti del sindacato che pone in essere comportamenti in contrasto con la pattuizione collettiva (nella specie proclamazione ed attuazione dello sciopero) aveva gia` fatto espresso riferimento il Pretore di Milano nel decreto
31 dicembre 1985, GI, 1986, I, 2, 478, e, particoalrmente, in motivazione, col. 480. E` stato a questo riguardo
osservato che: “non si e` mai seriamente dubitato che” ... “sul piano dei principi alla violazione dell’impegno possano ricollegarsi conseguenze di tipo risarcitorio”: TOSI, Contrattazione collettiva e controllo del conflitto, DLRI, 1988, 457. Negli stessi termini MAGNANI, op. cit., 714.
(48) Pret. Milano 10 marzo 1993, cit.
(49) GIUGNI, Diritto sindacale, 1991, cit., 218 s.
(50) Cass. 7 maggio 1982, n. 2843 A civ. 1983, 65. Cass. sez. lav. 5 maggio 1983, n. 3089.
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poiche´ inadempiente e` soltanto il sindacato, il contratto collettivo permane vincolante nei rapporti fra i singoli lavoratori e il datore (51).
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11. Inadeguatezza della definizione del contratto collettivo quale contratto normativo astratto.
Per negare la recedibilita` dal contratto collettivo di lavoro e` stato osservato che, trattandosi di contratto normativo esso non sarebbe riconducibile alla categoria dei contratti di dura- ta (52) cosicche´ non gli sarebbero applicabili le disposizioni in tema di recesso.
E` , pero` , da rilevare che la configurazione del contratto collettivo quale contratto normativo non e` affatto pacifica (53); inoltre tale configurazione non puo` essere attribuita alle clausole
c.d. obbligatorie del contratto collettivo. A questo riguardo parte della dottrina ritiene che il collegamento esistente fra le due parti “obbligatoria” e “normativa” escluderebbe soluzioni differenti in tema di recedibilita` quando in un contratto collettivo siano presenti clausole dell’uno e dell’altro tipo (54). Ma si e`, di contro, argomentato che anche dalla parte normativa del contratto collettivo nascono obbligazioni di durata in capo agli stipulanti (55). Obbligazioni certamente di durata sarebbero quelle aventi ad oggetto il rispetto della parte normativa del contratto collettivo, al quale ciascuna delle parti stipulanti sarebbe vincolata verso l’altra. Si tratterebbe di una obbligazione di durata perche´ riferita non ai singoli contratti di lavoro, ma al comportamento adempiente delle parti stipulanti in relazione a tutti i contratti individuali stipulati ed a tutti i rapporti collettivi (56): cio` che, per l’appunto, integrerebbe l’obbligo di tregua.
Non contrasta con tale conclusione definire il contratto collettivo come negozio astratto che trova la sua giustificazione in se´ stesso e che, percio` , non potrebbe implicare un dovere di tregua sindacale.
La ragione fondante dell’accettazione o del rifiuto del dovere coessenziale di tregua non puo` infatti consistere nella ricerca della “vera” natura del contratto collettivo.
Quando Xxxxxxx — che si richiamava a Xxxx-Xxxxxx — indicava l’interesse del datore di lavoro a stipulare contratti collettivi nella funzione che questi svolgono come metodo di gestione dell’impresa (57), aveva presente un concreto regolamento di interessi, non un sistema astratto di clausole contrattuali. La funzione descritta da Xxxxxxx si esercita sottoscrivendo l’impegno ad osservare un complesso di norme; il paradigma sinallagmatico di tale impegno esige il rispetto delle obbligazioni assunte.
Che nella fattispecie descritta nella sentenza del pretore di Milano 10 marzo 1993 sopra richiamata non fosse in gioco l’applicazione di un contratto normativo “astratto” ma che, all’opposto, le parti si confrontassero nell’ambito di un sinallagma che richiedeva al sindacato dei lavoratori di astenersi durante la vigenza del regolamento collettivo dal promuovere rivendicazioni relativamente alle materie regolate, risulta evidente dalla sinte- tica motivazione che non ha ravvisato gli estremi della condotta antisindacale “nella sospensione dei miglioramenti retributivi pattuiti dall’azienda con le r.s.a. a fronte dell’im- pegno delle stesse al recupero della produttivita` ed alla disponibilita` ad effettuare il lavoro straordinario, impegno non osservato con ricorso ad uno sciopero degli straordinari per il punto di contingenza”, quale che sia poi, in concreto, l’accettabilita`, in relazione alla fattispecie, della decisione assunta.
A differenza di quanto si verifica in relazione al contratto normativo di diritto comune (58), la permanenza in vita del contratto collettivo di lavoro non e` affatto irrilevante sul regime dei singoli rapporti individuali, come e` provato dagli effetti che si ricollegano alla sua
(51) Il Tribunale di Massa 15 maggio 1969, in FI, 1970, I, col. 337, nel ritenere valido il patto di tregua e applicabile al sindacato la regola dell’inadimplenti non est adimplendum, ne esclude l’applicabilita` nei confronti del lavoratore “che non abbia promosso od organizzato lo sciopero di protesta” o dato il suo appoggio o collaborato.
(52) XXXXX, In tema di recesso del contratto collettivo, RIDL, 1991, p. 311, 312.
(53) MENGONI, Legge e autonomia collettiva, MGL, 1980, 692; PERSIANI, Saggio sull’autonomia privata collettiva, 1972, 149 ss.; CATAUDELLA, Adesione del sindacato e prevalenza del contratto collettivo sul contratto individuale di lavoro, RTDPC, 1966; SCOGNAMIGLIO, Autonomia sindacale ed efficacia del contratto collettivo di lavoro, RDG, 1971, 140.
(54) RUCCI, op. cit., p. 310.
(55) XXXXX, Contratto a tempo indeterminato, cit., p. 476.
(56) XXXXX, op. cit., p. 478. Cfr. GIUGNI, La funzione giuridica del contratto di lavoro, in Il contratto collettivo di lavoro, Atti del 3o Congresso nazionale di diritto del lavoro, Milano, 1968, 23.
(57) MENGONI, Il contratto collettivo ... cit., 277. (58) Cass. 14 marzo 1991, n. 2727.
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cessazione (59). Si ritiene, inoltre, che il sindacato abbia un interesse proprio e una propria legittimazione al rispetto del contratto collettivo (60).
12. Tregua sindacale e scipero.
Dobbiamo infine porci il problema della compatibilita` dell’ipotesi qui formulata, se cioe` la proclamazione dello sciopero possa costituire inadempimento o recesso secondo il diritto comune, con i risultati della teorizzazione giuslavoristica sul tema della tregua sindacale. A differenza delle teorie sulla struttura del rapporto collettivo finora considerate, che effettivamente sono in posizione antagonista all’applicazione delle regole del diritto co- mune, l’inesistenza, ritenuta in dottrina, del dovere di pace sindacale si trova su un piano che non collide direttamente col nostro problema.
Apparentemente la contrapposizione potrebbe ritenersi esistente. Infatti, se il contratto collettivo — come si sostiene da parte di alcuni — non comporta un dovere relativo di pace sindacale e se, quindi, consente l’esercizio dello sciopero in opposizione al contratto medesimo, esso non potrebbe configurarsi come recesso.
Un’obiezione cosı` formulata non regge alla verifica logica, come dimostra il fatto che identica conclusione puo` trarsi — e con miglior coerenza — mutando la premessa dell’ar- gomentazione.
Se, infatti, si ipotizza che il contratto collettivo comporta un dovere di pace sindacale, poiche´ da quella stessa dottrina si ammette che tale dovere, quando esiste, non consente l’esercizio del diritto di sciopero — si dovrebbe, coerentemente, concludere per la configurabilita` dell’azione di lotta sindacale come recesso o come inadempimento.
Cio` prova che tale dottrina non contiene alcuna ragione di carattere logico-giuridico, connessa al problema dell’esistenza o meno dell’obbligo relativo di tregua, che impedisca di configurare lo sciopero come recesso o come inadempimento.
Al contrario, se si ritiene che il contratto collettivo non comporti di per se´ un obbligo di tregua e che esso abbia il solo scopo di “chiudere una controversia senza avere la pretesa di impedirne una futura” (61), allora il significato piu` appropriato da attribuire all’iniziativa di lotta sindacale sarebbe quello della manifestazione della volonta` di far cessare la tregua sanzionata con la stipulazione del contratto collettivo.
Xxx` conferma che se un problema si pone alla configurazione dello sciopero come recesso, questo si verifica proprio in relazione all’ipotesi che esista un dovere di tregua coessenziale alla stipulazione del contratto collettivo. Solo se e` possibile dimostrare l’esistenza di un tale dovere, la proclamazione di uno sciopero dovrebbe essere considerata alla stregua di inadempimento del sindacato e non di recesso (62).
13. L’accordo sul costo del lavoro del 23 luglio 1993: un diverso approccio alla tregua sindacale.
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Ai molti sostenitori dell’inesistenza di un dovere di tregua, coessenziale alla stipulazione di un contratto collettivo, potrebbe oggi essere mosso il rimprovero che, a distanza di un decennio dal primo approccio di carattere scientifico al dovere di pace sindacale in Italia (63), veniva rivolto a chi, come Xxxxxxx, riteneva tale dovere una conseguenza necessaria del valore impegnativo del contratto. Si disse, allora, che il difetto del giurista e` che: “messo di fronte ad una disciplina nuova, ... non si dispone alla sua lettura con liberta`;
(59) Cass. 13 febbraio 1990, n. 1050, NGL, 1990, 478, secondo la quale nel contratto collettivo sindacale il venire meno del contratto normativo fa venire meno i diritti che da esso derivano ai singoli lavoratori.
(60) Pret. Milano 5 ottobre 1984, L80, 1985, 133. ROMAGNOLI, Le associazioni sindacali, Milano, 1969, 70 ss.; SASSANI, Le clausole “normative” di contratto collettivo e azioni del sindacato, GC, 1984, I, 1861, ss.; VALLEBONA, Sulle controversie collettive sindacali per l’interpretazione del contratto collettivo, GC, I, 1984, 1859.
(61) XXXXXX-XXXXXXX, p. 329; vedi anche Xxxx. 4507 del 1983 cit. che giustifica il recesso sul rilievo che il contratto collettivo si pone come mezzo di composizione di conflitti sorti in uno specifico contesto suscettibile sovente di improvvise e talora imprecisate variazioni di mercato ed e` quindi connaturata ad esso una durata limitata nel tempo.
(62) Pret. Milano 10 marzo 1993, cit.
(63) Y, SUWA, Riflessioni sul dovere di pace sindacale nel diritto comparato, RTDPC, 1978, p. 514, a proposito dell’opera di Xxxxxx.
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non parte mai da zero, parte da meno uno: si lascia cioe` condizionare da quel che ha appreso studiando la disciplina precedente” (64).
Questo stesso rimprovero potrebbe rivolgersi ora a chi non avvertisse come il contratto collettivo sia venuto assumendo un contenuto sempre meno diretto alla composizione di un conflitto — per principio permanente — quanto, invece rivolto a fondare una trama di obbligazioni reciproche destinate a durare nel tempo. Basti un accenno all’ultima espres- sione di autoregolamentazione intersindacale contenuta nell’accordo del 23 luglio 1993, accordo che prevede, tra l’altro, una sanzione specifica per le parti che violeranno, con iniziative unilaterali o con azioni dirette, un determinato periodo c.d di raffreddamento del conflitto.
Sicche´ il permanere di una valutazione del canone pacta sunt servanda, quale “massima di ragion pura da applicarsi attraverso un procedimento deduttivo, puramente logico formale”, appare a sua volta, quantomeno nell’auspicabile transito verso assetti collettivi radicati in un contesto di regole certe, come una manifestazione di conservatorismo.
Al contrario, se il contratto collettivo e` — come la giurisprudenza continua a ripetere — un contratto di diritto comune, risulta impossibile escludere, in astratto e per sempre, l’appli- cazione della regola fondamentale fissata dall’art. 1372 c. c. secondo la quale: “Il contratto ha forza di legge fra le parti”.
D’altra parte abbiamo visto che la validita` delle clausole di tregua non viene messa in discussione, onde il diritto contrattual-collettivo del lavoro avrebbe questa particolarita`: che le sue clausole, per essere vincolanti, devono essere accompagnate da una clausola aggiun- tiva (che in qualsiasi altro contratto sarebbe considerata una irrilevante clausola di stile) che, di volta in volta, ne stabilisca la vincolativita`.
Solo cosı` si evieterebbe quel vizioso procedimento deduttivo logico formale (65) necessario (in assenza di apposita clausola) per ottenere che le clausole sottoscritte abbiano l’effetto previsto dall’art. 1372 cc.
In realta`, come ben vedeva Xxxxxx — il quale ragionava prescindendo dall’esistenza di clausole di tregua — nessun mezzo si offre alle associazioni sindacali in mancanza di un accordo solutorio (mutuo consenso) per chiedere la revisione anticipata del contratto collettivo (66).
La nota soluzione data da Xxxxxx (titolarita` collettiva del diritto di sciopero) ci riporta dunque al problema del nesso fra contratto collettivo e sciopero, senza passare per i risultati della teorizzazione negativa del dovere relativo di pace sindacale, risultati raggiunti ope- rando esclusivamente su un’immaginaria peculiarita` del contratto collettivo che per se´ stesso si sottrarrebbe al principio pacta sunt servanda.
L’introduzione nel discorso giuridico di formule estranee al suo statuto, quale quella della non vincolativita` dei patti, del valore politico delle dichiarazioni di volonta`; oppure l’espul- sione da specifiche figure negoziali di alcuni caratteri strutturali quali l’efficacia del contratto (art. 1372 c.c.), anziche´ un risultato di rifondazione ha conseguito l’effetto di allontanamento da una positivita` che si ripresenta invece oggi quale termine necessario nella composizione dei conflitti non risolti dalla comune volonta` delle pareti.
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14. Una soluzione di ermeneutica contrattuale.
Il problema posto dalle due sentenze che abbiamo riportato all’inizio non e` se esse siano o meno coerenti con il sistema del diritto del lavoro quale “dovrebbe essere” e se, quindi, il recesso dal contratto collettivo, ovvero la responsabilita` del sindacato per l’iniziativa di lotta sindacale costituiscano, oppure no, frammenti della disciplina generale dei rapporti sinda- cali. Il problema e`, in primo luogo, se esse costituiscano ipotesi di soluzioni razionalmente fondate, compatibili col sistema normativo in generale nonche´, in secondo luogo se, in coerenza con tale sistema, siano invece possibili e giustificabili altre soluzioni.
La risposta sul primo punto e` all’evidenza affermativa.
Ma e` affermativa anche sul secondo punto nel senso che, con riferimento alle medesime norme richiamate dalle due sentenze, sarebbe stato possibile pervenire alle decisioni
(64) XXXXXX-XXXXXXX, op. e loc. cit. Ma il solo modo di procedere del pensiero e` quello di far riferimento al pensiero precedente.
(65) GHEZZI, op. cit., 144.
(66) XXXXXX, op. cit., p. 104.
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opposte, nel senso di ritenere, rispettivamente, non recedibile il contratto collettivo e antisindacale la condotta del datore di lavoro.
Quelle decisioni trovano la loro giustificazione nella rilevanza attribuita dai giudici alle posizioni delle parti in conflitto, agli effetti che la decisione poteva produrre sull’assetto degli interessi contrapposti, al grado di sopportabilita` da parte dell’uno o dell’altro con- traente delle conseguenze della decisione.
Si tratta di un insieme di circostanze che richiedono di essere esaminate ogni volta che si ripresentano nelle singole fattispecie.
Il senso delle due massime puo` essere allora un indice del fatto che per alcune questioni ancora cruciali del diritto del lavoro la linea di separazione non passa tra visione conser- vatrice di impronta civilistica e visione innovatrice capace di cogliere le trasformazioni della societa`, ma tra diverse valutazioni ed impiego degli strumenti del diritto positivo per la tutela degli interessi ritenuti piu` meritevoli.
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Contratto collettivo e
sciopero
Xxxxxxxx Xxx Xxxxx
Bibliografia
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L’efficacia temporale del contratto collettivo di lavoro: atipicita’ dello schema negoziale, giuridicita’
del vincolo e cause di scioglimento
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1. Alcune questioni pregiudiziali: il processo di sistemazione giuridica del contratto collet- tivo di lavoro. 2. Posizione del problema. 2.1. I riflessi della sistemazione giuridica del contratto collettivo di lavoro sulla determinazione della disciplina applicabile in tema di risoluzione e recesso. 2.2. Indicazioni di metodo e primo approccio all’individuazione della disciplina applicabile. 3. Il quadro di riferimento normativo. 3.1. Normativa corporativa, diritto comune dei contratti e risoluzione del contratto collettivo di lavoro per inadempi- mento, per impossibilita` sopravvenuta e per eccessiva onerosita` 3.2. Efficacia del contratto tra le parti e cause di scioglimento. Diritto comune dei contratti e contratto collettivo di lavoro: mutuo dissenso, clausola di risoluzione convenzionale e recesso. 3.2.1. Clausole di risoluzione convenzionale. 3.2.2. Mutuo dissenso. 3.2.3. Recesso, risoluzione e revisione nel contratto collettivo. 3.2.3.1. Recesso, risoluzione e revisione nel contratto collettivo: i suggerimenti provenienti dallo studio comparato. 3.2.3.2. Recesso, risoluzione e revisione nel contratto collettivo: il caso italiano (legge, dottrina e casistica giurisprudenziale). 3.2.3.3. Recesso, risoluzione e revisione nel contratto collettivo: la prassi intersindacale. 4. Revi- sione anticipata del contratto collettivo, clausole di tregua sindacale e cosiddetto obbligo di pace. 5. Conclusioni: le prospettive in tema di recesso dal contratto collettivo aperte dall’Accordo sul costo del lavoro del 3-23 luglio 1993.
Sommario
1. Alcune questioni pregiudiziali: il processo di sistemazione giuridica del contratto collettivo di lavoro.
E` stato giustamente osservato che mentalita` conservatrice ed esigenze di certezza portano il giurista a qualificare i fenomeni sociali nuovi utilizzando schemi gia` noti e sperimentati: l’oggettiva difficolta` di impostare i problemi in termini radicalmente diversi o anche solo l’incapacita` culturale di formulare compiute alternative inducono l’interprete a ricorrere a categorie concettuali saldamente radicate nella tradizione, che vengono dunque impiegate anche al di la` della sfera di operativita` originaria.
Cosı` e` stato — se e` lecito semplificare complesse posizioni interpretative sviluppatesi ed arricchitesi nel corso di un secolo di storia giuridica, e riassumere poi questo articolato
(*) Il presente saggio costituisce un approfondimento, circoscritto alla sola fattispecie del «contratto collettivo», di un piu` ampio lavoro — svolto sotto la direzione del prof. Xxxxxxx Xx Xxxx, nell’ambito di una ricerca del CNR — sui profili giuslavoristici della risoluzione e del recesso (cfr. Xxxxxxxxxx, Risoluzione e recesso nel contratto collettivo di lavoro, e Id., Categorie civilistiche e recesso unilaterale: il contratto di «lavoro subordinato», in De Nova, Risoluzione e recesso nei contratti, Xxxxxxx`, Milano, 1994). Questo lavoro, corredato di numerose note esplicative, e` in parte gia` stato pubblicato anche presso la Collana del Dipartimento di Economia Aziendale dell’Universita` degli Studi di Modena, anno 1992, n. 20, con il titolo: Problemi e prospettive in tema di risoluzione e recesso nel contratto collettivo di lavoro. Cfr. anche Xxxxxxxxxx, Contratto collettivo di lavoro a tempo indeterminato e liberta` di recesso: considerazioni a proposito di un recente mutamento di indirizzo della nostra giurisprudenza di Cassazione. Nota a Cassazione 9 giugno 1993 n. 6408, in OGL, 1994, n. 1.
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processo ricostruttivo identificandolo nel suo risultato finale anche se, xxxxxxxxx, non ancora definitivo — anche per la sistemazione giuridica del contratto collettivo di lavoro. A prescindere dalle specificita` della parentesi corporativa, si puo` infatti agevolmente consta- tare, quale preliminare riflessione su un dibattito ormai quasi centenario, che, in assenza di una regolamentazione legale, la ricostruzione in termini giuridici del fenomeno sociale
«contratto collettivo» nell’ordinamento giuridico italiano — della sua struttura, della sua funzione e della sua disciplina — procede da sempre, pur tra costanti ripensamenti ed indubbia varieta` di posizioni, nel solco rassicurante del diritto comune dei contratti.
Non manca certo la consapevolezza dei limiti e dell’insufficienza della strumentazione civilistica a spiegare, in una cornice di legalita` adeguata, natura ed effetti di questo spontaneo fenomeno di normazione extrastatale, espressione tangibile delle dinamiche di organizzazione dell’autonomia collettiva dei gruppi professionali: gia` alle origini del diritto del lavoro, i giuristi che per primi si trovarono ad osservare l’improvvisa emersione di una consistente fenomenologia di accordi e intese tariffarie tra datori e prestatori di lavoro dall’angolo visuale offerto dal diritto comune dei contratti ebbero chiara coscienza della parzialita` e, tutto sommato, della inadeguatezza della prospettiva in cui si muovevano (Lotmar, 1984, ma 1900, p. 316; Messina, 1948, ma 1904 spec. p. 42 e ss.; Sinzheimer, 1971, ma 1907; Galizia, 1907, p. 6 e ss. e p. 68 e ss.). Nondimeno, quelle pressanti esigenze di certezza del diritto e di rigore sistematico, che, in realta`, fanno da corollario piu` ad un abito mentale della cultura giuridica europeo-continentale che ad un astratto principio o dogma di completezza priva di lacune dell’ordinamento giuridico, hanno trovato, non senza un qualche affanno, una tranquillizzante — anche se mai fino in fondo convinta — risposta nella teoria del contratto normativo quale efficace strumento di riconduzione del contratto collettivo — definito, in seguito, dalla dottrina e dalla giurisprudenza postcorporativa di
«diritto comune» — alle «categorie» predisposte dal sistema di diritto privato (ampi ragguagli bibliografici sono in Xxxxxxxxxx, 1981, spec. p. 13 e ss. e in Bortone, Curzio, 1984,
p. 60 e ss. e ivi spec. note 60, 63, 64, 75). Ed anzi, anche quando proprio in nome della volonta` di dare tutt’altra “certezza giuridica” al sistema sindacale, indipendentemente dall’attuazione del dettato costituzionale in tema di contratto collettivo, la dottrina meno condizionata dal formalismo interpretativo ha cercato all’interno di un ordinamento sinda- cale originario soluzioni maggiormente aderenti “ai valori e (alle) tecniche di relazione proprie di un fenomeno di normazione e di organizzazione sociale”, questo e` avvenuto non in “alternativa”, ma a “supporto” delle ricostruzioni del contratto collettivo elaborate sulla scorta della strumentazione civilistica (cosı` difatti Giugni, 1989, ma 1970, p. 205 e ss.). Alla stregua del diritto positivo, la teoria dell’ordinamento intersindacale, nata con il proposito di superare le zone d’ombra della metodologia civilistica, finira` infatti, quanto- meno nella sua formulazione originaria, per riconfermare dal punto di vista interno all’or- dinamento giuridico statuale (1) la centralita` della soluzione privatistica, limitandosi ad operare — “nella relativita` e variabilita` storica dell’interpretazione” giuridica — quale fattore di rinnovamento di quest’ultima (Xxxxxx, 1960, p. 69 e ss.; Id., 1977, p. 187). E sara` poi proprio sul piano applicativo, in riferimento alla sistemazione giuridica del contratto collettivo, che l’innovativa dottrina dell’ordinamento intersindacale dovra` riconoscere, a pena di “smentire se stessa”, l’impossibilita` di individuare struttura e trattamento delle fattispecie reali se non all’interno delle categorie giuridiche e delle norme dell’ordinamento giuridico generale,“alias del diritto privato contrattuale” (Giugni, 1957, p. 182): da qui l’adesione alla qualificazione del contratto collettivo come contratto di «diritto comune», diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322 c.c.) e, in quanto tale, sottoposto, come tutti i contratti, ancorche´ non appartengano ai tipi che hanno una disciplina particolare (art. 1323 c.c.), alle disposizioni sui contratti in generale contenute nel Libro IV, Titolo II, del Codice Civile (Giugni, 1989, ma 1967, pp. 151-155; Id., 1991, p. 17 e pp. 143-144).
La fondamentale indicazione di carattere metodologico, proveniente dalla stessa dottrina, ad impostare lo studio del contratto collettivo attraverso una pregiudiziale indagine empi- rica, diretta a rilevare la configurazione della fattispecie nella concretezza dei rapporti
(1) Per la distinzione tra punto di vista interno e punto di vista esterno all’ordinamento giuridico, quale imprescin- dibile strumento concettuale per separare l’operazione giuridica di qualificazione della realta` sociale (discorso precettivo) dall’analisi empirico-sociologica (discorso descrittivo) v.: Xxxx H.L.A., 1980, ma 1965; Xxxxxxxxx U., 1982. Un quadro completo della problematica con interessanti applicazioni nel diritto sindacale e` ora in Carabelli, 1986, p. 147 ss.
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sociali (Giugni, 1964), si risolvera` cosı`, sotto il profilo operativo, nel tendenziale riferimento alle norme generali in materia di contratto, quale medio logico obbligato per la riconduzione del fenomeno sociale «contratto collettivo» all’interno del diritto statuale. A ben vedere, infatti, l’esigenza di ricostruire struttura e disciplina del contratto collettivo all’interno dell’ordinamento giuridico statuale portera` questa dottrina ad attenuare l’inadeguatezza del diritto comune dei contratti e delle obbligazioni, aderendo, sia pure con toni non troppo convinti, alla classica — e per lungo tempo dominante — teoria della rappresentanza di X. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx (Giugni, 1989, ma 1967, p. 170 ss.; v. pero` ora Id., 1991, pp. 84-85), per poi sdrammatizzare, con una soluzione decisamente “prassista”, il problema dell’inderogabilita` del contratto collettivo, valorizzando in termini di certezza giuridica la pratica — priva peraltro di fondamento positivo — della costante applicazione giurisprudenziale dell’art. 2077 c.c. (cfr. Xxxxxxx, 1985, p. 287, nota 81; Id., 1982, p. 709).
Verra` cosı` indubbiamente rovesciato il metodo di approccio al contratto collettivo rispetto alla prevalente dottrina di impostazione formalistica, senza tuttavia poter utilizzare, nel- l’ambito di un discorso rigorosamente precettivo, le molteplici potenzialita` applicative del pur riconosciuto ruolo di strumento di auto-organizzazione (in chiave) ordinamentale assunto dal contratto collettivo nella prassi delle relazioni industriali. Di modo che il dato socialmente caratterizzante della logica interdipendenza tra contratto collettivo contratta- zione collettiva e sciopero, giuridicamente apprezzato dal punto di vista interno a “un ordinamento nell’ambito del quale contratto ed obbligazione si riqualificano nella peculiare luce di strumenti organizzativi del potere sociale paritario” (Giugni, 1960, p. 116, corsivo dell’A.), si potra` riflettere sul piano dell’ordinamento statuale soltanto come mero presup- posto ‘‘culturale”, utile all’interprete per una migliore conoscenza delle dinamiche interne dell’autonomia collettiva, nonche´ degli stessi istituti del diritto civile, privo tuttavia di diretta rilevanza giuridica (2).
Certamente, la dottrina dell’ordinamento intersindacale, arricchendo quel filone della dottrina giuslavorista particolarmente attento ai dati della realta` sindacale e sensibile alle sollecitazioni dell’analisi storico-comparativistica, operera` con una chiara coscienza della necessita` di evitare una determinazione aprioristica del materiale contrattuale, laddove dietro una apparentemente neutra «definizione» di contratto collettivo si nasconde, il piu` delle volte, una preventiva rappresentazione del risultato che si intende conseguire a livello interpretativo. Cosı` come, esteso il campo di osservazione giuridica fino ai dati di tipicita` sociale della fattispecie contrattuale, sara` in grado di percepire con rinnovata consapevo- lezza la natura e la funzione economico-organizzativa dei fenomeni di autotutela extrasta- tuale degli interessi di lavoro, favorendo — sempre perlopiu` sul piano dell’interpretazione
(2) Insiste sul carattere puramente “metodologico” e non “ontologico” della teoria dell’ordinamento intersinda- xxxx Xxxxxx, 1977, ma 1960, p. 16 ss. e p. 74 ss. Cfr. Xxxxxxxx, 1979, p. 3 e ivi nota 5, e xxxx Xxxxxxxx M.S., 1957, p. 223 ss., Id., 1958, p. 222.
Resta certamente da valutare la rilevanza giuridica “mediata” della teoria dell’ordinamento intersindacale nel diritto dello Stato, segnatamente nel diritto giudiziario, attraverso la “relativita` e variabilita` storica dell’interpre- tazione” giuridica. In tutta la dottrina giuslavorista manca, in realta`, una specifica indagine sul “se” e — eventualmente — sul “come” le qualificazioni dell’ordinamento intersindacale siano penetrate, “alla base della piramide delle fonti“, nell’ordinamento giuridico statuale attraverso il canale dell’interpretazione giurispruden- ziale, informando poi la costruzione positiva degli istituti giuridici e, segnatamente, del contratto collettivo (v. pero`,
per qualche spunto, Persiani, 1972, p. 55 e Xxxxxxxxxx, 1981, p. 33-36, nota 13). E` chiaro infatti che solo un’indagine
di questo tipo potrebbe evitare — sentenze alla mano — le secche di un astratto concettualismo sulla sufficienza dell’interpretazione giudiziale quale unico canale di comunicazione tra i due ordinamenti. L’impressione, tuttavia, e` che questa comunicazione non sia mai avvenuta. Ne sono testimonianza, in tema di ricostruzione del contratto collettivo: i) il recupero giurisprudenziale delle norme contenute nel libro V del codice civile (artt. 2070, 2074 e 2077); ii) i meccanismi giurisprudenziali di estensione dell’efficacia del contratto collettivo; iii) il “ricorso ad un atto di autonomia individuale per fondare gli effetti giuridici dell’atto di autonomia collettiva” (Ichino, 1975, p. 463). A ben vedere, infatti, anche al di la` dei “limiti” puramente tecnici (su cui ampiamente Xxxxxxxx, 1984, p. 15 ss. e passim), l’orientamento della giurisprudenza in tema di ricostruzione del contratto collettivo prescinde completa- mente da quella funzione di strumento di effettivita` dell’autotutela svolta dal contratto collettivo nel sistema di relazioni industriali, per valorizzare piuttosto una linea di politica del diritto volta all’eterotutela del singolo lavoratore (Xxxxxxx, 1985, p. 168 ss. e passim, Pedrazzoli, 1985, p. 211 ss.). Lo stesso Xxxxxx, 1989, ma 1970 p. 212 e p. 213, riconoscera` che “buone o cattive che siano le singole soluzioni, vero e` che, con esse, la giurisprudenza giudiziaria ha riformato un parte del diritto sindacale, senza entrare nella logica di quest’ultimo“, tanto che il suggerito “processo di adeguamento alla realta` fenomenica nuova e` stato rallentato dalla mancanza dello stimolo derivante dalla casistica giudiziale. Le posizioni nuove che sono emerse nella dottrina, il piu` delle volte, anziche´ tradursi in processi decisionali, sono rimaste allo stadio di asserzioni non verificate dalla esperienza giuridica concreta” (corsivo mio).
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dottrinale, piuttosto che in rapporto dialettico con la giurisprudenza — soluzioni aderenti al buon senso e rispettose di una logica sanzionatoria fondata, per la verita`, piu` sulla prassi dei rapporti di forza tra le parti sociali o su gentlemen’s agreements privi (pur in presenza di un contenuto patrimoniale della prestazione, nonche´ di un interesse economico del creditore) di rilevanza giuridica, che sulle regole scritte del diritto civile. Ma tutto questo non toglie che, una volta tolti gli occhiali del teorico dell’ordinamento intersindacale per indossare quelli del giurista positivo dello Stato, la qualificazione del contratto collettivo come fattispecie giuridicamente rilevante verra` operata — e con cio` innestandosi nell’alveo della dottrina civilistica tradizionale — attraverso l’utilizzazione dei principi generali del diritto comune dei contratti, al pari di qualsiasi altro atto negoziale di autonomia privata. Benin- teso: nella misura in cui norme speciali o di rango superiore non introducano deroghe od eccezioni al diritto comune delle obbligazioni e dei contratti.
Sara` proprio in questa prospettiva — di deroga (o esenzione) al diritto comune dei contratti
— che si muovera` un altro filone dottrinale argomentando, ex art. 40 Cost., l’inoperativita` dei principi civilistici in tema di risoluzione e recesso nella disciplina del contratto collettivo di lavoro (Mortati, 1954, spec. p. 203 e ss.; Xxxxxx, 1963, spec. p. 92 e ss.; Id., 1967, p. 148 e
p. 167). In questo caso, tuttavia, il contributo teorico non si limitera` soltanto a confutare il postulato della dottrina tradizionale, secondo la quale le controversie economiche — e “non solo quelle per la formazione di una nuova disciplina collettiva, ma anche quelle per la revisione di un regolamento collettivo in corso di esecuzione” — sono lasciate “all’azione e alla composizione delle parti interessate, nei limiti consentiti dalla legge” (Xxxxxxx Xxxxxxxxxx F., 1961, ma 1949, p. 189) e, quindi, nei limiti del principio codicistico di rispetto dei patti (pacta servanda sunt) in carenza di una vicenda risolutiva degli stessi (Xxxxxxx Xxxxxxxxxx F., 1971, p. 374). Per questa via, infatti, si andra` molto piu` lontano, giungendo in definitiva a denunciare una “crisi storica di fondazione del concetto medesimo di contratto” applicato ai rapporti intersindacali (Xxxxxx, 1968, p. 34; Id., 1970, p. 411), finendo cos`ı per spostare opportunamente il discorso dal piano della rigorosa esegesi del dato codicistico a ben piu` impegnative — ma anche discutibili, in quanto fondate su una “parziale” lettura della Carta costituzionale — valutazioni di politica del diritto su ruolo e funzione del sindacato e degli strumenti di autotutela collettiva nell’ordinamento giuridico italiano.
In ogni caso, le feconde potenzialita` di questa dottrina dell’ordinamento intersindacale risulteranno cosı` pregiudicate sul piano applicativo: se, per un verso, verra` garantita quella circolazione di idee indispensabile per un ripensamento critico dei termini entro cui vengono tradizionalmente inquadrati i fenomeni dell’autonomia collettiva (Treu, 1979, spec.
p. 182 e ss.), per l’altro, mancando uno sbocco applicativo — sul piano giuridico statuale — della ricchezza di qualificazioni giuridiche segnalata in sede intersindacale, continuera` a perpetuarsi il senso di disagio e l’insoddisfazione del giurista positivo nei confronti dei prodotti concettuali e delle costruzioni teoriche a sua disposizione (per una valutazione d’insieme, cfr. Xxxxxxxx, 1984, spec. p. 51 e ss.).
Non per nulla, benche´ la sistemazione giuridica dell’istituto sia ormai (abbastanza) pacifi- camente assestata all’interno del diritto comune dei contratti (cfr. da ultima, Sciarra, 1989,
p. 62 e ivi nota 9. Contra: Xxxxxx, 1975, p. 460 e ivi nota 12 e p. 483 e ss.; Xxxxxxxxxx, 1981, spec. p. 284 e ivi nota 702 e p. 330; cfr. anche Pera, 1991, pp. 144-145), le contraddizioni e i nodi non risolti in tema di natura e rilevanza giuridica della fattispecie «contratto collettivo di lavoro» si ripropongono periodicamente all’attenzione della dottrina e della giurispru- denza: non piu` soltanto sotto il consueto profilo dell’efficacia del contratto collettivo, ma anche, e piu` incisivamente, ora in tema di concorso e conflitto tra contratti collettivi di diverso livello, ora in tema di rilevanza giuridica delle nuove tipologie contrattuali emerse nella realta` delle relazioni industriali, ora, infine, in tema di equiparazione funzionale tra contratto collettivo e legge, in una articolata ricostruzione dei rapporti tra le fonti di regolamentazione delle relazioni di lavoro (in tema, per tutti: Xxxxxxx, 1981). Conseguenza prevedibile di questa impasse teorica e` stato un atteggiamento dottrinale, gia` segnalato nel corso degli anni Settanta, di rinuncia alla soluzione dei problemi formali di sistemazione del contratto collettivo, per volgere l’attenzione ai profili dinamici della contrattazione collettiva; contrattazione collettiva intesa, tuttavia, per lo piu` come “metodo di sviluppo delle relazioni industriali in un contesto di conflittualita` permanente nei rapporti di fabbrica (...) in cui predomina il momento politico-sociologico” (Mengoni, 1985, ma 1975,
p. 266 e p. 267), che come fattispecie giuridicamente riconosciuta dall’ordinamento statuale (cfr. difatti Prosperetti U., 1976, p. 47; Xxxxxxx, 1976, p. 161; Ghera, 1976, p. 166; Pera, 1974,
p. 978). E xxxx` questo il contesto teorico-culturale sul cui sfondo si sviluppera`
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la nota teoria della vincolativita` unilaterale del contratto collettivo, alla stregua della quale solo le associazioni datoriali e/o i datori di lavoro di lavoro sarebbero giuridicamente vincolati dal termine finale apposto al contratto, libere dal canto loro le organizzazioni dei lavoratori di riaprire il conflitto ogniqualvolta mutate condizioni dei rapporti di forza tra le parti o (anche) semplici ragioni di opportunita` suggeriscano modifiche radicali o anche soltanto semplici aggiustamenti dell’intesa precedentemente raggiunta (Giugni, 1970, p. 24 e ss.; Id., 1973, p. 14 e ss. e spec. p. 18; Xxxxxx, Xxxxxxx, 1972, spec. pp. 331-332. Contra, con vari accenti, Xxxxxxx, 1985, ma 1975, p. 276 e ss.; Xxxxxxxxxxxx, 1976, spec. p. 254; Id., 1975,
pp. 285-286; Xxxxxxxxxxx X., 1976, p. 53 e ss.; Pera, 1976, p. 129; Xxxxxxx, 1976, spec. p. 141; Xxxx, 1976, spec. p. 132; Xxxxxxx Xxxxxxxxxx G., 1976, p. 170 e ss.; Riva San Xxxxxxxx, 1986, p. 68).
Con lo spostamento dell’angolo visuale della ricerca, all’idea di ordine e di certezza giuridica propria del «contratto» si sostituira` cosı` una concezione dinamico-conflittuale delle relazioni industriali, assunta come valore positivo di una societa` democratica e pluralista, nella quale la logica del principio generale di rispetto dei patti, vigente in tema di obbligatorieta` dei contratti (art. 1372 c.c.), viene piegata alle ragioni del conflitto industriale (Romagnoli, 1971,
p. 77): gli stessi aspetti giuridico-formali della risoluzione e del recesso nel contratto collettivo perderanno cosı` rilievo, in quanto espressione di una mentalita` classificatoria estranea alla realta` delle relazioni industriali e, dunque, agli equilibri dei rapporti di forza e di potere tra le parti contrattuali nelle fasi di amministrazione del contratto stesso. Xxxxxxxxx` tuttavia attendere gli anni Ottanta per vedere i primi tentativi di ricondurre — nell’ambito di un rigoroso discorso precettivo condotto attraverso le norme ed i principi della Costituzione — il fenomeno «statico» contratto collettivo nella logica delle dinamiche di un sistema di contrattazione collettiva intesa, questa volta, come processo di produzione normativa extrastatuale dotato di rilevanza giuridica anche all’interno dell’ordinamento giuridico italiano (cfr. con diversi accenti: Xxxx’Xxxx, 1980; Xxxxxxx, 1984; Xxxxxxx, 1986; Xxxxxxx, 1992; Xxxxxxxxx F., 1993). E xxxx` solo a partire da questa svolta dottrinale che anche il giurista dello Stato sara` sollecitato ad affrontare i problemi formali di qualificazione e sistemazione del contratto collettivo impiegando, se necessario, in una prospettiva peraltro ancora tutta da verificare sul piano applicativo, strumenti “alternativi” al diritto comune dei contratti, in grado di tradurre in un plausibile discorso prescrittivo gli aspetti socialmente tipici della fattispecie considerata.
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2. Posizione del problema.
2.1. I riflessi della sistemazione giuridica del contratto collettivo di lavoro sulla determinazione della disciplina applicabile in tema di risoluzione e recesso.
L’insistenza sui risultati poco appaganti cui e` pervenuta la dottrina giuslavorista, non solo italiana (cfr. Xxxxxxxxxx, 1992, pp. 3-8 e ivi note 3, 5, 7, 11), nella sistemazione giuridica del contratto collettivo di lavoro e, di riflesso, su un complesso dibattito teorico — necessaria- mente dato, nei suoi passaggi argomentativi, per scontato — non e` esercizio di sterile concettualismo: a ben vedere, infatti, e` proprio nella ricostruzione della fattispecie che sono contenuti i fondamentali presupposti metodologici per la determinazione della disciplina applicabile in tema di risoluzione e recesso. Per di piu` , come del resto e` facile immaginare, questa ormai piu` volte denunciata propensione del giurista a scandagliare la realta` delle cose ed impostare i conseguenti “problemi” giuridici sulla base dei tradizionali modelli di ragionamento non e` teoricamente neutra, quantomeno se si pone attenzione ai suoi riflessi, ideologici e tecnici, sulla costruzione giuridica di un istituto.
Ora, sui presupposti e sui valori del positivismo giuridico e sulla (presunta) neutralita` della scienza giuridica si e` a lungo dibattuto, soprattutto in un settore di alta “ingegneria” giuridica e di marcato “vuoto” legislativo come il diritto del lavoro italiano; per di piu`, qualsiasi considerazione su un argomento tanto controverso potrebbe apparire superflua o parziale, una volta dato per scontato che l’opzione ideologica, la politica del diritto per dirla col Giugni (opp. citt.), influenza in un modo o nell’altro tutte le costruzioni della dottrina, che, come prodotti della storia e dell’interpretazione, non possono altro che riflettere — magari anche solo per contrasto, in una logica di critica e rovesciamento — i valori dominanti e la mentalita` dell’ambiente da cui provengono (Xxxxxxx, 1972, ma 1967; Xxxxxxxxx U., 1982; D’Antona, 1990). A ben guardare, difatti, l’analisi giuridica e` a tal punto
predeterminata da una fitta rete di «vincoli ambientali» — metodologici, concettuali e 87
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ideologici —, che il processo di interpretazione del dato normativo, anche quando si tratti di valutare una disposizione “nuova”, si traduce sostanzialmente in un discorso di integra- zione-critica-sviluppo delle elaborazioni dogmatiche e degli orientamenti giurisprudenziali preesistenti: le tormentate vicende del diritto sindacale italiano post-corporativo stanno quantomeno a dimostrare che le famose “tre parole” del Legislatore di cui parlava il Xxxxxxxxx (1942) non mandano mai al macero intere biblioteche.
In ogni caso, e prima ancora di argomentare sul mancato impiego di eventuali strumenti alternativi, e` comunque importante avere ben presente i rischi meno manifesti di questa radicata mentalita` conservatrice. Puo` essere difatti molto utile sottolineare che a questo atteggiamento sistematico-classificatorio si accompagnano automatiche e, dunque, non sempre del tutto consapevoli scelte di politica del diritto; e tenere poi presente che queste, a loro volta, si ripercuotono non solo sulla costruzione giuridica, ma anche sulla disciplina ritenuta applicabile al fatto analizzato, nella logica consequenza che vuole da una premessa data un effetto condizionato. Un rischio allora c’e`, ed e` quello che l’utilizzazione di schemi preconfezionati al di la` dell’ambito di operativita` che gli e` proprio comporti “l’applicazione di una determinata disciplina giuridica a ipotesi o fatti che, in base a considerazioni storiche, politiche o finalistiche, sfuggono al «significato» e alla funzione della norma” (Romagnoli, 1963, p. 2); rischio tanto piu` insinuante se si tiene presente che, una volta date per scontate le premesse, l’operazione di imputazione della disciplina al fenomeno analizzato viene poi presentata come logica — e quindi neutra — applicazione dello schema fattispecie-effetti, quando invece, a ben vedere, il vero problema sta tutto proprio nella costruzione della premessa, della fattispecie.
Come abbiamo visto, il prezzo di questo rischio verra` pagato fino in fondo dalla dottrina giuslavorista italiana: una volta ricondotto il contratto collettivo nel precario contesto della legge comune dei contratti, la tipicita` sociale di quello che gia` la dottrina di inizio secolo aveva visto chiaramente essere un processo dinamico di autonormazione dell’autonomia collettiva verra` risolta, sul piano del diritto positivo, in un astratto ed aprioristico imprigio- namento della nuova fattispecie contrattuale nelle strette maglie dello schema del contratto normativo. Ma c’e` dell’altro. Questo fenomeno di inerzia interpretativa non solo stempera gli aspetti di novita` della fattispecie in una poco limpida logica di conservazione delle categorie concettuali, ma permette anche di apprezzare, da un lato, la completezza dell’or- dinamento giuridico e di valorizzare, dall’altro, la continuita` della normativa nel passaggio da un regime giuridico all’altro, alimentando cosı` piu` o meno striscianti vischiosita` inter- pretative ed istituzionali. Teorie concetti e discipline, che per ispirazione ideologico- culturale e riconoscimento positivo storicamente appartengono a diversi regimi giuridici, intrecciano cosı` una fitta trama di vincoli interpretativi “della quale, senza consapevolezza critica, l’interprete non ritiene sia plausibile o opportuno volersi liberare” (Xxxxxxxxxxx, 1990, p. 16; Xxxxxx, 1989, ma 1982, spec. pp. 322-323; Rodota`, 1969, p. 11 e ss. e p. 126 e ss.). Questi schemi interpretativi — consolidati in un “significato mediano” che riassume dentro di se´, per via di successive accumulazioni, connotazioni e significati diversi (Castelvetri, 1990, p. 1)
— vengono poi rilegittimati sul piano operativo attraverso un “uso” decisamente disinvolto
dell’analogia giuridica, fino a fornire in termini di discorso precettivo la disciplina dell’isti- tuto analizzato. Esemplare, al riguardo, al di la` dei riflessi — notevoli, ma tutto sommato limitati sul piano di una diretta rilevanza prescrittiva — delle stratificazioni “normative” sulle elaborazioni dogmatiche in tema di autonomia collettiva, la ricostruzione del contratto collettivo di diritto comune operata dalla giurisprudenza attraverso l’arbitrario “salvatag- gio” delle norme del Codice Civile dedicate al contratto collettivo corporativo.
Dovrebbe risultare ormai chiaro che l’individuazione (e la coscienza dell’esistenza) di possibili diversi approcci giuridici al fenomeno sociale «contratto collettivo» si presenta come il passaggio logicamente obbligato nell’identificazione del trattamento giuridico effettivamente assegnabile all’istituto. Se, infatti, in mancanza di una specifica determina- zione legislativa degli effetti imputabili alla realta` fattuale analizzata, spetta all’interprete ricostruire la disciplina effettivamente applicabile al contratto collettivo di lavoro, appare allora evidente che la distribuzione tra le parti di diritti, pretese, facolta`, obblighi, respon- sabilita` e immunita` scaturira` automaticamente dalla costruzione in termini giuridici della fattispecie. Nel nostro caso, per esplicitare il ragionamento che verra` sviluppato nelle pagine che seguono, la vigenza temporale del contratto collettivo di lavoro, e segnatamente la disciplina della risoluzione e del recesso, dipenderanno integralmente — nel silenzio della
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legge (3) — dalla qualificazione giuridica dell’istituto operata in via interpretativa sulla base dei dati e degli strumenti offerti dall’ordinamento giuridico contemplato nella sua totalita` e completezza: a seconda degli strumenti impiegati, in base a piu` o meno consapevoli giudizi di valore, si registreranno infatti automatiche corrispondenze sul piano degli effetti, pro- fondamente differenziate tra loro in ragione dei distinti giudizi (questa volta non piu` di valore, ma) ipotetici che scaturiscono dalle norme e dai concetti di volta in volta utilizzati.
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2.2. Indicazioni di metodo e primo approccio all’individuazione della disciplina applicabile.
Presupposto di partenza della nostra indagine rimane comunque l’idea che il contratto collettivo sia un contratto in senso tecnico (pur assumendo questo termine, al momento, nella sua indeterminatezza), fonte di obbligazioni per entrambe le parti; e precisamente, quale che sia poi la ricostruzione dell’autonomia negoziale cui si vuole accedere (per una sintesi delle diverse teorie cfr. Xxxxxxx, 1993, pp. 731-734), un autoregolamento di interessi idoneo a realizzare sul piano del diritto dello Stato un vincolo giuridico tra le parti contrapposte, con tutte le conseguenze che ne discendono in ordine alla tutela giurisdizio- nale in caso di mancato adempimento (4).
La ragione di questa scelta merita di essere esplicitata; a nostro modo di vedere, a fronte dell’insufficienza del diritto civile a spiegare in una cornice di legalita` adeguata i fenomeni di autonomia collettiva, il vero problema da risolvere non e` tanto quello di “trovare” nuove etichette o soluzioni a tutti i costi originali, col rischio di limitarsi semplicemente a riversare questioni di sostanza in questioni di forma, bens`ı quello di verificare se e fino a che punto
(3) A titolo informativo, si puo` ricordare la previsione della possibilita` di denuncia ante tempus del contratto collettivo per sopravvenuta notevole modificazione dello stato di fatto esistente al momento della stipulazione contenuta nei progetti legislativi di attuazione dell’art. 39 della Costituzione. In particolare, in tema di denuncia del contratto collettivo prima della scadenza del termine, il Disegno di Xxxxx Xxxxxxxxx (4 dicembre 1951) stabiliva, in caso di opposizione di una delle associazioni sindacali registrate, la necessita` della “convalida” giurisdizionale della risoluzione dal contratto; mentre, sotto il profilo della scadenza del contratto collettivo a tempo determinato, stabiliva, in assenza di una denuncia o richiesta di revisione delle parti, l’ultrattivita` ex atto amministrativo del contratto per un periodo di tempo identico a quello originariamente convenuto. Cfr. anche: i) gli artt. 22 e 29 del Progetto Xxxxxxxxx (in appendice a Xxxxxx, 1958, p. 181 e ss.), in relazione ai quali si segnalava (Prosperetti U., 1953, p. 62) come la facolta` di revisione anticipata del contratto collettivo costituisce “un esempio di competenza del potere giurisdizionale che, pur essendo molto limitata, e` simile a quella che, secondo la Legislazione del 1926, spetta alla Magistratura del lavoro per la revisione dei contratti in corso” di esecuzione; ii) gli artt. 20 e 21 del Progetto Malagodi, in RDL, 1958, p. 303 e ss.; iii) gli artt. 23 e 24 del Progetto Roberti, in RDL, 1958, p. 289 e ss.;
iv) il punto 16 del Parere del CNEL del 1960, in RGL, 1960.
Va inoltre aggiunto che, sulla falsariga di quanto sancito rispettivamente nell’ultimo comma dell’art. 2071 c.c. e nell’art. 2074 c.c., la Relazione allo Schema per la disciplina dei sindacati e dei contratti collettivi del 1949 (in DL, 1949, I, p. 3 e ss., spec. p. 8) stabiliva che: i) “l’art. 15 determina il contenuto obbligatorio del contratto collettivo compresa la durata, attenendosi a quanto dispone l’attuale codice civile“; ii) “il contratto collettivo scaduto continua a produrre i suoi effetti fino a che sia intervenuto un nuovo contratto collettivo. Anche prima della sua scadenza, quando si sia verificato un notevole mutamento dello stato di fatto esistente al momento della stipulazione, e` ammessa la revisione del contratto collettivo a iniziativa di uno dei sindacati registrati”. Non e` invece prevista la facolta` di denunciare il contratto, anche perche´ (Relazione cit., p. 8) “la denuncia non potrebbe essere data da una parte del contratto collettivo, parte che, essendo costituita dalla rappresentanza unitaria dei sindacati, non sopravvive alla stipulazione del contratto collettivo”.
A parere della dottrina del periodo gli obiettivi perseguiti da tali norme sarebbero dunque i medesimi gia` individuati dal Legislatore corporativo: da un lato, garantire la continuita` della regolamentazione dei rapporti di lavoro evitando “pericolose soluzioni di continuita`” (Scorza, 1949, p. 296; Xx Xxxxxx, 1949, p. 175); dall’atro lato, temperare la facolta` di revisione illimitata della disciplina collettiva ovvero, all’opposto, l’impossibilita` di revisione del contratto fino alla scadenza del termine, al fine di “non pregiudicare grandemente (...) l’utilita` del contratto collettivo” (Xxxxxxx Xxxxxxxxxx F., 1949, p. 278).
Sempre al di la` del diritto vigente v. la disciplina della vigenza temporale del contratto contenuta nel progetto di legge sulla contrattazione collettiva di lavoro di diritto comune elaborato da Pera, in MGL, 1986, p. 683 (punti 5, 6, 7), e Id., 1991, p. 135.
Per una ricognizione della situazione normativa di altri Paesi in tema di vigenza nel tempo del contratto collettivo si puo` consultare Xxxxxxxxxx, 1992, pp. 28-29, nota 61, e pp. 75-85.
(4) Con questa scelta ricostruttiva della fattispecie negoziale “contratto collettivo di lavoro” si intende espressa- mente ribadire — in una linea di pensiero in chiara controtendenza rispetto alle piu` recenti raffigurazioni in chiave ontologica dell’ordinamento intersindacale, e pertanto in piena adesione al valore esclusivamente metodologico dell’ipotesi pluriordinamentale, cosı` come originariamente elaborata da Xxxx Xxxxxx in riferimento al diritto sindacale italiano (opp. citt.) — che, dal punto di vista interno all’ordinamento giuridico dello Stato, il contratto non puo` essere valutato (anche, o esclusivamente) alla stregua di un ordinamento a se´ stante, quale fonte originaria di produzione di regole giuridiche disciplinata in via esclusiva dal regolamento negoziale posto dai soggetti contraenti.
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siano operanti anche per il contratto collettivo tutte quelle norme e quegli schemi concettuali che vengono solitamente utilizzati, alla stregua del diritto comune dei contratti, nell’impostare i problemi di rilevanza giuridica ed efficacia temporale dell’accordo tra due o piu` soggetti (cfr. Barcellona, 1973, p. 220 e ss. e p. 249 e ss.).
A ben guardare, difatti, solo una volta spostato il problema dal piano della logica conse- quenzialita` tra fattispecie ed effetti, che vuole, una volta qualificato il contratto collettivo come contratto di «diritto comune», l’automatica applicazione delle disposizioni sui con- tratti in generale in tema di efficacia e durata del contratto (cfr. artt. 1372-1373 c.c.; artt. 1453 e ss. c.c.), a quello dell’adeguatezza o meno di certe operazioni interpretative, si potra` poi apprezzare, in stretta aderenza al dettato costituzionale, la necessita` o anche solo l’oppor- tunita` di forgiare strumenti “alternativi” in grado di tradurre in un plausibile discorso prescrittivo gli aspetti socialmente caratterizzanti della fattispecie considerata. Mentre, per altro verso, non si puo` poi trascurare la circostanza che proprio i procedimenti logici (ed analogici) predisposti dall’ordinamento al fine di consentire l’inquadramento di fenomeni negoziali nuovi o, comunque, non direttamente disciplinati dalla legge (art. 1322 c.c.) si fondano su un giudizio (preliminare) di idoneita` (o, ancora una volta, di adeguatezza) dello strumento individuato dall’autonomia privata a soddisfare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico e, dunque, a realizzare la nascita di un vincolo giuridico. Va peraltro precisato che, dietro questa scelta di metodo, indubbiamente sensibile alle sollecitazioni offerte dallo studio della realta` sindacale, non si puo` semplicisticamente ravvisare, come pure e` stato sostenuto, la “pretesa di risolvere tutte le antinomie del sistema di relazioni industriali all’interno del cd. «ordinamento sindacale»” (Xxxxx, 1993, p. 47); semmai, e piu` correttamente, la ferma negazione che nella disciplina dei fenomeni negoziali il diritto positivo dello Stato possa esaurirsi e riassumersi nel solo diritto comune dei contratti e delle obbligazioni. Non puo` essere difatti seriamente posto in discussione — neppure dai piu` radicali assertori dal monismo ordinamentale — questo elementare prin- cipio: in un ordinamento come il nostro, caratterizzato da una Costituzione rigida, il Codice Civile deve essere necessariamente letto, interpretato ed integrato alla luce dei valori e dei precetti costituzionali (da ultimo, cfr. Xxxxxxxxx F., 1993). Precisazione quest’ultima per niente superflua, solo se si considera che proprio una recente dottrina impegnata nello studio dei rapporti tra contratto collettivo e recesso ad nutum (Xxxxx, 1993), forse prigioniera di talune astrazioni concettuali della teoria del negozio giuridico, pare a piu` riprese dimenticarsi del fondamentale criterio di gerarchia delle fonti, trascurando quantomeno di verificare l’incidenza del riconoscimento costituzionale della attivita` sindacale e del diritto di sciopero sui fenomeni di autonomia privata collettiva e, soprattutto, sui rapporti giuridici che da essi scaturiscono.
Ne´ varrebbe molto osservare, in proposito, che “la «precomprensione» del giudice che
interpreta fenomeni di autonomia collettiva trova il suo momento di verifica normativa nell’ordinamento che egli e` tenuto ad applicare, ossia quello statuale”, per poter poi sostenere la automatica applicazione delle “regole di diritto privato che disciplinano nel nostro ordinamento i contratti, a meno che non si voglia negare la stessa natura contrattuale dell’accordo collettivo” (Xxxxx, 1993, pp. 49-50). Cosı` argomentando, non solo si cade ancora una volta nel grave equivoco di circoscrivere arbitrariamente il diritto statuale negli stretti confini del diritto privato, dimenticandosi delle fondamentali indicazioni provenienti dal dettato costituzionale; piu` ancora, difatti, a questa dottrina e` agevole replicare anche muovendosi sul piano della semplice ermeneutica contrattuale, e precisamente ricordando che la fase della costruzione della struttura giuridica del «contratto collettivo», cosı` come di ogni altra fattispecie negoziale (tipica o atipica che sia), va rigorosamente tenuta distinta dalla valutazione dei rapporti giuridici (e degli effetti) che scaturiscono dal contratto stesso (cfr. Scognamiglio, 1959, p. 274 e ss. e p. 333 e ss.; Id., 1954, p. 331 e ss.; Xxxxxxx, 1955, c. 247 e ss.; Id., 1963, p. 8). Come detto, nessuno nega che il contratto collettivo di lavoro sia a tutti gli effetti un contratto; cosı` come nessuno nega che il diritto civile resti sicuramente la fonte cardine di disciplina di questa fattispecie negoziale. Tuttavia, in ragione del riconoscimento costituzionale dell’attivita` sindacale e dello strumento dell’autotutela col- lettiva (sciopero), e alla luce del complessivo ambiente socio-economico in cui il singolo regolamento contrattuale di volta in volta si inserisce, puo` verificarsi che determinate regole del diritto comune possano non trovare applicazione, rimanere “paralizzate” o anche, piu` semplicemente, risultare del tutto irrilevanti nell’ambito del nostro ordinamento giuridico cosı` come complessivamente considerato. Senza con questo inficiare alla stregua del diritto positivo la ricostruzione in termini civilistici della struttura di quello che e` e
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rimane un negozio giuridico; e soprattutto, senza giungere a ritenere che, nell’ambito del nostro ordinamento giuridico, il contratto collettivo debba essere configurato come una fonte normativa non negoziale eteronoma.
Il problema dell’inquadramento della risoluzione e del recesso negli atti di autonomia privata collettiva non puo` allora consistere in una ricerca diretta ad argomentare in via generale e astratta la sussumibilita` o meno del contratto collettivo negli schemi del diritto comune dei contratti ovvero, come fa parte della nostra giurisprudenza, clausola per clausola o istituto per istituto, anche solo la riconducibilita`, in chiave tipologica, delle diverse fattispecie negoziali ad una figura astratta di contratto collettivo, che trova la sua disciplina in alcune delle norme del Codice dedicate al contratto collettivo corporativo (nel nostro caso, nell’art. 2074). Il percorso argomentativo sara` invece capovolto. Non, dunque, sus- sunzione nella (o approssimazione — in chiave tipologica — alla) norma della fattispecie contrattuale, ma determinazione delle norme realmente applicabili al contratto collettivo mediante un rapporto dialettico tra tutti i dati normativi disponibili (Codice, Costituzione, leggi speciali, orientamenti giurisprudenziali: ratio complessiva del diritto del lavoro e ordinamento giuridico nella sua totalita`) e la funzione socio-economica delle diverse tipologie contrattuali, cosı` come si presentano nella prassi delle relazioni industriali (qua- lificazioni provenienti dall’ordinamento intersindacale, volonta` dei soggetti collettivi, cor- nice delle circostanze concrete e comportamento complessivo reciprocamente tenuto dai contraenti: valutazione tipica del contenuto del rapporto e della fattispecie negoziale nella realta` delle relazioni industriali).
In base a questo criterio interpretativo, si mostra allora necessario rinunciare ad una preventiva definizione concettuale del contratto collettivo e delle norme ad esso applicabili: “il significato di un’enunciazione normativa, cioe` la norma, non e` precostituito al, ma prodotto dal, processo interpretativo” (Xxxxxxx, 1966, p. 357) (5).
Beninteso: la ricerca di una nozione astratta di contratto collettivo — quale che essa sia, purche´ rappresenti un ragionevole strumento conoscitivo della sua struttura e delle sue funzioni — non e` tanto un’operazione sbagliata, almeno in un sistema chiuso e ordinato per concetti come quello del Codice, quanto inutile, perche´ “trascura la premessa maggiore, l’analisi di cio` che rappresenta il contratto collettivo nella realta` sociale, nella realta` delle relazioni industriali” (Xxxxxx, 1976, p. 147). L’analisi del materiale contrattuale mostra, in effetti, l’esistenza di una pluralita` di clausole nei contratti collettivi irriducibili ad un’unica funzione o causa in senso tecnico (6): il che pare gia` sufficiente a superare il problema —
(5) A scanso di equivoci, pare opportuno chiarire che qui non si vuole prendere posizione a favore del metodo tipologico di qualificazione del contratto, svalutando cos`ı il tradizionale metodo di sussunzione sillogistica; piu` semplicemente, si ritiene doveroso prendere atto della necessita` metodologica di conciliare i due procedimenti, attraverso la valorizzazione del metodo tipologico nel “momento valutativo inerente alle operazioni preliminari di ricerca dei termini della sussunzione” (cos`ı, superando con argomentazioni piu` che convincenti una contrapposi- zione teorica che pareva inconciliabile, Xxxxxxx, 1986, p. 5 e ss.). A nostro parere, sia che si utilizzi un giudizio di perfetta identita` sia che si proceda per approssimazione, quello che veramente e` decisivo per la corretta impostazione del problema e` la costruzione delle premesse: l’interpretazione del dato normativo e la ricostruzione del materiale contrattuale. Per ulteriori chiarimenti e riferimenti bibliografici si puo` consultare Xxxxxxxxxx, 1993, p. 31 e ss.
(6) Sulla scorta di una tradizionale bipartizione mutuata dalla dottrina tedesca (ma sul punto cfr. le opportune precisazioni di Xxxxxxx, 1984, p. 5 nota 13 e p. 15 nota 47) si tende ad operare una schematica distinzione tra clausole normative e clausole obbligatorie, rispettivamente riconducibili alla c.d. parte normativa ed alla c.d. parte obbligatoria del contratto collettivo. La realta` contrattuale mostra, invero, l’esistenza di una pluralita` di clausole miste o atipiche o sui generis, che solo approssimativamente possono essere ricondotte ai modelli astratti sopra indicati, tanto che la distinzione tra le due parti del contratto collettivo, ben delineata in astratto, sfuma poi secondo linee via via piu` sottili nella pratica (emblematiche, in tal senso, sono le clausole sui diritti di informazione). Del resto, le stesse clausole che concernono l’inizio, la durata e l’estinzione del contratto collettivo (e che rientrano nell’oggetto di questo studio) sono difficilmente riconducibili alla sola parte normativa o alla sola parte obbligatoria del contratto collettivo, mentre discutibile e` l’opinione, espressa anche dalla Cassazione (sentenza 10 febbraio 1971
n. 357, in FI, 1971, I, c. 887 e ss.), che le cosiddette clausole di tregua sindacale rientrino nella parte normativa del contratto collettivo, in modo da vincolare non solo il sindacato, ma anche i singoli prestatori di lavoro. Al di la` di questa precisazione, e` importante sottolineare che la dottrina ha tendenzialmente cercato di ricostruire le clausole obbligatorie o convenzionali in un nesso di strumentalita` con la parte normativa (cosı`, con diversi accenti Grasselli, 1974, p. 22 e ss., p. 60 e ss. e p. 129 e ss.; Balletti, 1963, p. 348, Xxxxx, 1993, p. 62). Il fatto — in verita` — non stupisce: in questo modo ci si assicura la possibilita` di pervenire, attraverso una successiva costruzione unitaria della causa-funzione (normativa), all’affermazione di una tipicita` astratta e, persino, di una tipicita` giuridica del contratto collettivo. Questo non toglie, tuttavia, la scorrettezza di una simile operazione ricostruttiva; e, difatti, superato l’asserito nesso di strumentalita` delle clausole convenzionali rispetto a quelle
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peraltro decisamente controverso nella dottrina civilistica — della possibilita` di individuare la disciplina del contratto attraverso una qualificazione orientata in senso causale-funzionale (cosı` invece: Xxxxxxx Xxxxxxxxxx F., 1961, ma 1958, p. 245 e ss.; Persiani, 1972, p. 188; Xxxxxxxxx, 1974; Xxxxx, 1993). Tanto piu` che la stessa legittimita` del presupposto concettuale di una simile operazione interpretativa, imperniata attorno all’individuazione di una aprio- ristica ed astratta causa-funzione del negozio giuridico, e` tutt’altro che scontata nella dottrina civilistica, che difatti nega la validita` della tradizionale assimilazione — invero ancora frequente nella nostra giurisprudenza e, soprattutto, acriticamente adottata dalla dottrina giuslavorista — della causa alla funzione economico sociale del negozio, fino a giungere a sostenere la peculiarita` dell’elemento causale di ogni concreta figura negoziale (Ferri G.B., 1966, p. 2, pp. 252-254, p. 345 e ss.; Gorla, 1955, pp. 206-207; p. 503; De Nova,
1974, p. 59 e ss. e spec. p. 62 e ss.; Sacco, 1982, pp. 315-320; Xxxxxxx, 1993, pp. 761-773.
Contra: Betti, 1954, pp. 181-196).
Non va difatti trascurato che con questa scelta metodologica di assimilare la causa del contratto alla sua funzione socialmente tipica, si finisce inconsciamente per perpetrare quella nociva (ed equivoca) tendenza, ben evidenziata da X.X. Xxxxx, ad assorbire i problemi del «tipo» contrattuale, e cioe` quelli della qualificazione di una struttura negoziale (anche) in ragione della sua funzione astratta, in quelli della «causa», circoscritti invece alla ricerca della ragione giustificativa ovvero alla verifica della liceita` del singolo contratto, confon- dendo cosı` due problemi giuridici che sono e devono restare necessariamente distinti: l’oggettiva idoneita` dello schema negoziale a realizzare interessi (funzioni) meritevoli di tutela rileva, difatti, nel giudizio astratto di ammissibilita` di una struttura negoziale nuova (non appartenente ai tipi aventi una disciplina particolare); ma non dice ancora nulla per quanto riguarda la causa, che difatti, in quanto requisito del singolo contratto (art. 1325, n. 2 c.c.), deve essere analizzata in concreto, in ragione del complessivo assetto di interessi realizzato dalle parti, e non gia` in funzione della struttura negoziale tipica consolidatasi nella prassi degli affari. In definitiva, il concetto di funzione economico-sociale serve unicamente a determinare quali sono gli elementi tipici di un contratto e, dunque, a risolvere sempli- cemente i problemi di “inquadramento o classificazione di un caso concreto fra i tipi usuali, al fine di determinare le norme ad esso applicabili direttamente o per analogia” (Gorla, 1955, pp. 206-207; cui xxxx Xxxxxxx, 1978, p. 933 e ss.; Id. 1993, pp. 762-765, p. 771).
Un’ulteriore considerazione, in proposito, e` degna di nota, a conferma della propensione
(del giudice in questo caso) a qualificare i fenomeni sociali nuovi utilizzando schemi gia` noti e sperimentati: l’operazione giurisprudenziale di ricostruzione della disciplina del contratto collettivo in chiave causale-funzionale pare difatti ben inserirsi in quella tendenza alla tipizzazione argomentata dalla dottrina civilistica a proposito delle tecniche giurispruden- ziali di qualificazione delle fattispecie contrattuali nuove o sui generis (Sacco, 1982, pp. 440-444, e gia` De Nova, 1974, p. 3 e ss.). Come e` ben noto, il contratto collettivo e` formalmente qualificato come contratto atipico, perche´ (sebbene ampiamente nominato dal Legislatore) non e` dotato di una disciplina particolare; e, dunque, viene ricondotto nell’or- dinamento giuridico attraverso gli artt. 1322, secondo comma, e 1323 del Codice Civile. La tipizzazione — intesa come riconduzione pura e semplice del contratto ad un genus codificato, al di la` delle peculiarita` o degli elementi di novita` o atipicita` del singolo caso concreto — avviene pero` subito dopo, quando si procede al recupero delle norme del Libro V sul contratto collettivo corporativo: non si opera certo la sussunzione in un «tipo» legale
«contratto collettivo corporativo» (7), ma — indubbiamente — l’applicazione di tratti
normative (Persiani, 1972, p. 188; Xxxxxxx, 1986, pp. 150-151) si agevola la comprensione del fatto che il contratto collettivo ha piu` di una funzione e, dunque, una “pluralita` di cause in senso giuridico” (Giugni, 1976, p. 147). O meglio, una volta negata l’assimilazione della causa alla funzione tipica del contratto, si deve riconoscere che esistono diverse tipologie di contratto collettivo.
(7) Operazione peraltro tecnicamente improponibile: nonostante il linguaggio utilizzato dal Legislatore (parti contraenti, nullita` o annullabilita` del contratto collettivo, etc.) e nonostante il richiamo ex art. 60 del regolamento
n. 1130/1926 al diritto comune dei contratti per risolvere le questioni non disciplinate dal Legislatore, nell’impianto codicistico del 1942 il contratto collettivo di lavoro (artt. 2067 e ss.), in quanto norma corporativa (art. 5 Preleggi), e` fonte del diritto (art. 1 Preleggi) e non “tipo” contrattuale, tanto che e` pure previsto il ricorso in Cassazione per “violazione o falsa applicazione delle disposizioni dei contratti collettivi” (art. 454 c.p.c.). Cfr. Xxxxxxx, 1942, p. 61 e p. 65; Xxxxx, 1928, p. 184 e ss., nonche´ Xxxxxxx, 1983, p. 753, secondo il quale il contratto collettivo corporativo maschera “dietro la dualita` (solo giuridica) delle parti l’unilateralita` della legge”. V. tuttavia Xxxxxxx, De Xxxx Xxxxxx, Tosi, Treu, 1987, p. 242, che parlano del contratto collettivo corporativo come contratto tipico, in quanto oggetto di specifica disciplina legale.
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della disciplina del contratto collettivo corporativo al contratto collettivo di «diritto co- mune» viene realizzata attraverso un giudizio — sbagliato, prima ancora che tecnicamente discutibile — di approssimazione o sufficiente conformita`, che postula l’esistenza di una tipicita` “astratta” del contratto collettivo quale contratto con funzione (causa) normativa. Inutili le citazioni, tanto tale giurisprudenza e` nota, anche se non e` mai ben chiaro, sempre ammesso che vi sia, il presupposto concettuale da cui procede. Pare dunque confermato non soltanto che “il contratto atipico, cui applicare le sole regole generali contenute negli artt. 1321-1469 del Codice Civile, non ha mai fatto apparizione in un ufficio giudiziario!” (8), ma anche quella sorta di “finalismo di valutazione orientata teleologicamente piu` che sillogi- sticamente nella qualificazione del contratto” (Sacco, 1982, rispettivamente p. 440 e p. 443; cfr. anche Xxxxxxx, 1993, p. 769), per cui la fattispecie e` ricostruita in funzione degli effetti giuridici voluti; nel nostro caso, in funzione dell’inderogabilita` del contratto colletivo. Semmai, pare opportuno segnalare come simili operazioni di tipizzazione, basate su una (presunta) tipicita` astratta del contratto collettivo, sono frequenti anche nella dottrina giuslavorista e vengono condotte ora sulla base delle norme del Libro V del Codice Civile (Assanti, 1967, spec. p. 73 e ss.; Id., 1981, p. 108), ora sull’abbondante legislazione che si riferisce ai contratti collettivi di diritto comune (Grasselli, 1974, p. 29 e ss. e p. 60 e ss.; Pera, 1991, p. 144 e ss.), ora sul presupposto del riconoscimento dell’inderogabilita` del contratto collettivo contenuto nell’art. 2113 c.c., come novellato dalla Legge n. 533/1973 (Xxxx Xxxxxxxxxxx, 1982 p. 251 e ss.), ora su un vero e proprio ricorso all’analogia giuridica (Ghera, 1968, p. 168 e ss., Balletti, 1963, p. 339 e ss. e p. 348 e ss.), ora, infine, sulla (presunta) identita` concettuale tra la funzione ultima del contratto collettivo e la sua causa giuridica (Xxxxx, 1993, p. 54, pp. 57-62).
L’equivoco e` evidente, e sta nel costruire — il piu` delle volte sul filo di una discutibilissima analogia tra contratto collettivo corporativo e contratto collettivo di diritto comune — una aprioristica e astratta causa-funzione (economico-sociale) del contratto collettivo, comune a tutti i contratti collettivi e, dunque, valida sempre e in ogni ordinamento giuridico: la funzione di fissare la disciplina dei rapporti individuali di lavoro ovvero la funzione di tutela degli interessi dei lavoratori coalizzati o, anche, la funzione di controllo del mercato del lavoro. Quando invece la realta` delle relazioni industriali sta a dimostrare che la funzione del contratto collettivo non si articola attorno ad un unico schema tipicamente precostituito, ma si atteggia in varie guise in ragione delle clausole e dei contenuti predisposti di volta in volta dai soggetti stipulanti.
La conseguenza e` altrettanto incongruente, e consiste, in termini di discorso prescrittivo, nella pretesa di determinare la disciplina concretamente applicabile all’istituto attraverso il recupero, condotto sulla base di questa “descrittiva” tipicita` astratta del contratto collettivo, ora delle norme del Codice dedicate al contratto collettivo corporativo ora delle norme sui contratti ad esecuzione differita o periodica. Quando invece e` ormai dimostrata l’inattitu- dine qualificatoria del criterio causale ad individuare il trattamento giuridico concretamente applicabile alla fattispecie, rilevando semmai nel momento della valutazione della liceita` o dell’illiceita` del negozio (Ferri G.B., 1966, p. 127 e ss. p. 370 e ss.; Xxxxxxxx, 1981, pp. 189-190; Xxxxxxx, 1993, pp. 763-769). Ne´ varrebbe poi molto argomentare, sotto altro profilo, ma sempre ai fini della determinazione degli effetti concretamente imputabili alla fattispecie, di una «tipicita` sociale» del contratto collettivo, data la altrettanto scarsa pregnanza qualificatoria del concetto, risultando in definitiva una mera “descrizione, senza pratiche conseguenze sul piano della disciplina, di un fenomeno che — e` superfluo ribadirlo
— a nessuno verrebbe in mente di qualificare come socialmente non apprezzabile”, ed in quanto tale e` pacificamente riconosciuto meritevole di tutela ex art. 1322 c.c., anche in assenza di una disciplina ad hoc (Gramiccia, 1987, p. 680, e xxxx Xxxxxxxxx, 1947, pp. 66-68). A ben vedere, poi, questa tipicita` astratta del contratto collettivo come contratto normativo, storicamente costruita attorno dalla figura condizionante ed assorbente del contratto
(8) La dottrina civilistica e` solita attribuire scarsa importanza pratica al contratto atipico, relegandolo al piu` nell’ambito di quei comportamente ancora socialmente non generalizzati, “quei comportamenti che, dal punto di vista della tipicita`, sono stati qualificati da una certa dottrina come immaturi” (cosi, per tutti: Xxxxxxx, 1993, p. 763). La vastissima diffusione nella prassi degli affari dei contratti collettivi di diritto comune testimonia invece il contrario, al punto che pare ormai ineludibile — e proprio a partire da chi ha giustamente evidenziato i limiti e gli equivoci sottesi alla tendenza giurisprudenziale verso la tipizzazione — un ripensamento dei confini dell’atipicita`. Ingiustificato e`, in ogni caso, il silenzio della dottrina (tanto civilistica che giuslavorista) su un punto cos`ı tanto controverso quanto imprescindibile nella ricostruzione della giuridicita` dei vincoli contrattuali e, piu` in generale, dei rapporti esistenti tra ordinamento giuridico e autonomia privata.
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collettivo nazionale di categoria, non solo non da` conto della effettiva funzione economico- sociale dell’istituto, che, nella complessa esperienza contrattuale odierna, quale e` desumibile dal concreto atteggiarsi dei diversi soggetti negoziali al momento della stipulazione, di volta in volta si specifica in normativa, obbligatoria, gestionale, istituzionale, compositiva, etc. (Giugni, 1991, p. 147; cfr. anche Cassazione 22 maggio 1987 n. 4658, in OGL, 1987, p. 573 e ss.), ma anche e soprattutto trascura due dati ormai imprescindibili nello studio del contratto collettivo: 1) le molteplici tipologie contrattuali emerse dalla prassi delle relazioni industriali; 2) le diverse e mutevoli valenze normative che il contratto collettivo stesso assume o, quantomeno, pare assumere oggi — nel periodo di passaggio dal “garantismo” individuale al “controllo sindacale” — nell’ordinamento giuridico italiano.
Spostato l’angolo di osservazione giuridica (cfr. l’art. 1322 c.c.) da una astratta sistematica classificatoria, tutta incentrata attorno ad un’omnicomprensiva fattispecie «contratto collet- tivo di lavoro», verso un approccio relativistico-problematico alle dinamiche della autono- mia privata collettiva, i recenti contributi allo studio del contratto collettivo di lavoro forniscono difatti l’immagine di una realta` contrattuale assai eterogenea e complessa: difficilmente razionalizzabile nel quadro di una configurazione unitaria del contratto collet- tivo e variamente diversificata per soggetti negoziali, contenuti, causa, oggetto/i, funzione/i, efficacia e rilevanza giuridica. Si pensi, pur senza entrare nel merito di un argomento decisamente accidentato, alle differenze sempre piu` marcate tra «contratto nazionale di categoria» e «contratto aziendale», che inducono a riconoscere nella autonomia tecnica e funzionale di quest’ultimo una fattispecie del tutto peculiare di contratto collettivo (Xxxxxxx, 1981, p. 147 e ss., pp. 154-155 e ss.; Rusciano, 1984, p. 121 e ss.), ovvero ai “prodotti” contrattuali della cosiddetta «negoziazione triangolare» tra parti sociali e Governo, che pongono quantomeno il dubbio se il contratto collettivo rimanga un accordo privato o non diventi piuttosto vera e propria legge (cfr. Xxxxxxxxxx of Xxxxxxx, Sciarra, 1989, p. 45 e ss.; sul punto v. infra nota 15). E ancora, si pensi a tutta quella serie di provvedimenti legislativi di valorizzazione (rinvio al, o recezione) del contratto collettivo che ruotano attorno alla figura del «sindacato maggiormente rappresentativo»; o anche alla problematica sistema- zione giuridica degli accordi collettivi in tema di rientro dalla Cassa integrazione guadagni o relativi all’introduzione di nuove tecnologie; o, infine, alle diverse tipologie di accordi collaborativi e concessivi. E gli esempi potrebbero ancora continuare.
Ora, indubbiamente, e` alla “teoria generale” del contratto collettivo che spetta una piu`
approfondita riflessione sul “se il contratto di diritto privato rappresenti ancora ed effetti- vamente la categoria di inquadramento formale di tutte le tipologie di contratti collettivi (...) o non costituisca ormai solo una categoria parziale” (Xxxxxxx, 1984, pp. 17-18 e pp. 127-128); cosı` come sul se, una volta preso atto dell’impossibilita` di riguardare il contratto collettivo come fattispecie giuridica unitaria, “il necessario punto di riferimento unificante per dare una corretta valutazione della singola fattispecie concreta” possa essere allora individuato, come a noi pare, all’interno del processo di contrattazione collettiva quale “vera fonte di giuridicita` dell’intero fenomeno” (Xxxxxxx, 1986, p. 152). E` pero` altrettanto indubitabile che uno studio volto all’individuazione della disciplina concretamente applica- bile al contratto collettivo non possa non tener conto di questa diversificazione strutturale e funzionale delle tipologie contrattuali ormai acquisita, seppure in termini problematici, al dibattito giussindacale. Prospettiva, questa, che inevitabilmente suggerisce di adottare, quando necessario, un’approccio tendenzialmente differenziato quantomento tra contratto collettivo nazionale e contratto collettivo aziendale. A ben vedere, poi, ulteriori distinzioni potrebbero essere adottate in relazione alle svariate ipotesi contrattuali emerse nella pratica contrattuale. Quello che tuttavia e` importante precisare, anche a conferma delle premesse di metodo fissate in precedenza, e` che sembra non solo opportuno ma, a questo punto, anche doveroso da un punto di vista rigorosamente metodologico escludere l’applicazione di criteri interpretativi astratti e predeterminati nell’individuazione della disciplina applicabile in tema di risoluzione e recesso, stante l’impossibilita` di individuare, sempre e necessaria- mente, un criterio giuridico unitario a cui ricondurre una proteiforme tipologia contrattuale che si presenta, sia nella realta` intersindacale sia nella realta` dell’ordinamento giuridico italiano, profondamente differenziata in ragione del substrato giuridico-ambientale in cui si colloca, trova fondamento e legittimazione.
Xxxxxxxxx: non si tratta di rinunciare ad un sia pur minimo intento sistematico-ricostruttivo, che e` poi il vero compito dell’interprete, per rimettere alla esclusiva “sensibilita`” del giudice la determinazione della disciplina di volta in volta applicabile ai diversi tipi di contratto collettivo emersi nella prassi delle relazioni industriali, ma solo prendere atto che la
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costruzione della premessa maggiore del ragionamento non puo` poggiare sull’impalcatura teorica del solo contratto collettivo nazionale ovvero del solo contratto normativo, bens`ı deve articolarsi attorno alle differenti tipologie contrattuali cosı` come di volta in volta si caratterizzano — anche in termini di diritto positivo — all’interno del processo di contrat- tazione collettiva cui appartengono. Di modo che sul piano applicativo, e a meno che non si voglia sostituire una determinazione aprioristica della fattispecie con un’altrettanto aprioristica individuazione della disciplina applicabile, si potra` fornire solamente un quadro parziale di riferimento normativo — riferibile ora indiscriminatamente a tutte le tipologie contrattuali ora tendenzialmente al solo contratto nazionale ora, infine, tendenzialmente al solo contratto aziendale —, che dovra` essere necessariamente integrato dal necessario raffronto colle specificita` — sociali, ma anche giuridiche — dei singoli casi concreti che emergono nella quotidiana opera di applicazione del diritto. In definitiva: la disciplina concretamente utilizzabile per risolvere i problemi della risoluzione e del recesso nel contratto collettivo sara` allora quella che risultera` soltanto a conclusione del circolo ermeneutico instaurato di volta in volta, in un continuo rimando, tra premessa maggiore e premessa minore.
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3. Il quadro di riferimento normativo.
3.1. Normativa corporativa, diritto comune dei contratti e risoluzione del contratto collettivo di lavoro per inadempimento, per impossibilita’ sopravvenuta e per eccessiva onerosita’ .
A questo punto e` opportuno sgombrare il campo dell’indagine dagli equivoci che possono ingenerarsi col richiamo alle norme del Libro V del Codice Civile.
In epoca corporativa il R.D. n. 1130/1926 di attuazione della L. n. 563/1926, intitolata alla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, stabiliva, in caso di notevole sopravve- nuta modificazione dello stato di fatto esistente al momento della stipulazione, la possibilita` di adire la (Corte d’Appello in funzione di) Magistratura del lavoro per la formulazione di nuove condizioni di lavoro anche prima della scadenza del contratto collettivo (art. 71); notevole mutamento dello stato di fatto da accertare caso per caso ed in aderenza al fondamentale criterio dell’interesse nazionale e della produzione (dichiarazione IV della Carta del lavoro del 21 aprile 1927), che poteva anche determinare, su richiesta della parte interessata o del P.M., la revisione giudiziale del contratto con “sentenza collettiva”, costitutiva di nuove condizioni di lavoro (ex artt. 13 e 71) anche prima della scadenza del termine in essa indicato (art. 89).
L’evoluzione della disciplina convenzionale non era dunque affidata all’istituto della riso- luzione (volontaria, in quanto l’ordinamento corporativo non contemplava, sino al Codice del 1942, una forma generale di risoluzione per eccessiva onerosita`), che avrebbe interrotto il rapporto contrattuale, ma ad un procedimento ad hoc. L’art. 71 del R.D. n. 1130/1926, in particolare, stabilendo che “l’azione per la formulazione di nuove condizioni di lavoro e` ammessa anche quando sia intervenuto il contratto collettivo, e anche prima della scadenza del termine in questo stabilito per la sua durata, purche´ si sia verificato un notevole mutamento dello stato di fatto esistente al momento della stipulazione”, apriva cos`ı la strada alla soluzione giudiziale non soltanto delle controversie giuridiche, relative all’applicazione e interpretazione delle disposizioni contenute nei contratti collettivi, ma anche delle controversie economiche, che comportano un’attivita` non semplicemente dichiarativa quanto pure creativa di diritto, pronunciando sentenza che sostituisce il contratto collettivo (Xxxxxxx, 1942, pp. 81-87).
Inoltre, al medesimo scopo di assicurare una vigenza costante della disciplina collettiva, quale fonte normativa generale e astratta che esplica i suoi effetti sui contratti individuali di lavoro, non solo era esclusa la risoluzione del contratto collettivo per eccessiva onerosita`, ma anche quella per inadempimento: l’associazione sindacale che avesse subito danni in seguito all’inadempimento della controparte non poteva agire in giudizio per la risoluzione del contratto, ma poteva ottenere esclusivamente un risarcimento dei danni ex art. 55 delle norme di attuazione della Legge del 1926. Ai sensi di quest’ultimo articolo, le associazioni firmatarie del contratto collettivo rispondevano dei danni cagionati dall’inadempimento degli obblighi assunti in proprio (primo comma), nonche´ dell’inadempimento del contratto collettivo da parte di coloro che vi erano vincolati, soci e non soci, ma solo se avessero omesso di fare quanto fosse in loro potere per ottenerne l’osservanza (secondo comma). Era
inoltre previsto che, nel caso di espressa assunzione di garanzia dell’esecuzione del contratto 95
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stesso, l’associazione stipulante rispondesse in proprio dell’inadempimento di coloro che vi erano vincolati, quale fideiussore solidale (terzo comma). A queste sanzioni di matrice civilistica si accompagnava poi una responsabilita` di tipo politico-amministrativo verso lo Stato, che si traduceva in pene precisate dagli artt. 7 e 8 reg. 1926, che potevano condurre, nei casi piu` gravi (art. 9 reg. 1926), anche alla revoca del riconoscimento dell’associazione (Zanobini, 1940, pp. 330-331; Xxxxxxxxx, 1934, pp. 257-262).
Accanto a questa normativa, il Legislatore corporativo, stabilito che il contratto collettivo “deve contenere la determinazione della sua durata” (art. 2071 c.c. e, precedentemente, art. 10 L. 1926), ne disciplinava poi espressamente (art. 2073 c.c. e, precedentemente, art. 53 reg. 1926, modificato dall’art. 1 L. 1934 n. 150) la denunzia, prevedendo, inoltre, fino a che non fosse intervenuto un nuovo regolamento collettivo, l’ultrattivita` del contratto collettivo stesso (art. 2074 c.c. e, precedentemente, art. 3 L. 1934 n. 150), in ragione della inammis- sibilita` di un eventuale “vuoto normativo”, stante la innegabile funzione di diritto pubblico assunta da quella che e` stata definita da piu` parti una vera e propria legge della «categoria» professionale: una forma di eterocomando, che si differenzia dalla legge soltanto per il fatto di essere stata posta in essere non dall’organismo superiore-Stato, ma dall’organismo inferiore-Sindacato (Guidi, 1928, p. 184 e ss.; Xxxxxxxx, 1940, p. 328. Cfr. anche Coniglio, 1932, pp. 262-263; Pergolesi, 1934, p. 202 e ss.; Xxxxxxx, 1942, p. 81 e ss. e p. 115 e ss.).
Come e` ben noto, tutte queste disposizioni sono da ritenersi implicitamente abrogate per l’avvenuta soppressione degli organi corporativi centrali (R.D.L. n. 721/1943) e delle organizzazioni sindacali fasciste (D.Lg.Lgt. n. 369/1944). Vi fu, in realta`, un tentativo di recuperare l’art. 2074 c.c. in relazione al vuoto normativo determinato dalla disdetta (9) della Confindustria dell’Accordo interconfederale del 25 gennaio 1975 sulla scala mobile (Per- siani, 1982, p. 554 e ss.). Anche questa dottrina, tuttavia, conformandosi all’opinione dominante, ritiene oggi in contrasto col principio costituzionale della liberta` sindacale — comprensivamente inteso come di attivita` sindacale — l’applicazione dell’art. 2074 ai contratti collettivi di diritto comune (Persiani, 1986, p. 71; cfr. Cessari, 1950, p. 847 e ss.; Treu, 1965, p. 360; Pera, 1983, c. 18 ss.; Riva Xxxxxxxxxxx, 1986, p. 110 e ss. Isolata la posizione della Assanti, 1981, p. 108, che, in base ad una tipizzazione astratta del contratto collettivo, ritiene applicabile anche al contratto collettivo postcorporativo le norme del Libro V in quanto “compatibili”). La giurisprudenza e` del pari orientata a negare l’opera- tivita` delle norme del Libro V del Codice anche al contratto collettivo post-corporativo (tra le piu` recenti: Cassazione 9 giugno 1993 n. 6408, in MGL, 1993, p. 414; Cassazione 16 aprile
1993 n. 4507, in OGL, 1993, p. 576 e in RIDL, 1993, II, p. 82; 13 febbraio 1990 n. 1050, in
NGL, 1990, p. 480; Cassazione 6 giugno 1990 n. 5393, in Foro It. Rep., 1620, n. 20; Cassazione 14 luglio 1988 n. 4630, in DPL, 1988, p. 3120, nonche´ — per l’abbondanza di motivazioni — Pretura di Novara 5 giugno 1990, in RIDL, 1991, II, pp. 290-301 e in OGL, 1990, pp. 519-526. Procede invece ad un’estensione analogica del 2074 c.c. al contratto collettivo di diritto comune: Tribunale di Milano 3 luglio 1991, in OGL, 1991, p. 517; esclude l’applicabilita` del 2074, ma ammette l’estensione in via analogica del 2073 c.c. Pretura di Serravalle di Scrivia 23 dicembre 1988, in Giur. Piem., 1988, p. 68 e p. 69. Per ulteriori riferimenti e per una piu` completa ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali in materia cfr. Xxxxxxxxxx, 1994a, §. 2).
Piu` interessante, per i suoi riflessi sul prosieguo dell’indagine, e` invece questa considera- zione di carattere sistematico sull’attuale normativa di diritto comune ricavabile dall’im- pianto codicistico: il Legislatore corporativo cogli artt. 71 e 89 del R.D. n. 1130/1926, anticipando con formula meno rigorosa le disposizioni introdotte — con un’innovazione formale rispetto al Codice del 1865 — dal Codice del 1942 sull’eccessiva onerosita` (art. 1467), aveva provveduto a fornire una disciplina speciale per il contratto collettivo di lavoro in tema di sopravvenienza contrattuale, decisamente piu` elastica rispetto a quella stabilita`
(9) Al riguardo, va peraltro segnalato l’equivoco terminologico in cui spesso cadono sia la dottrina che la giurisprudenza giuslavorista, quando utilizzano i termini disdetta e recesso del contratto collettivo in qualita` di sinonimi. Si tratta, in realta`, di due istituti nettamente distinti: la disdetta attiene necessariamente ai contratti a tempo determinato, e impedisce la rinnovazione tacita del contratto alla scadenza del periodo pattuito; il recesso convenzionale attiene invece alla facolta` per una delle parti di sciogliere il vincolo contrattuale finche´ il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione (per i contratti non di durata: art. 1373, comma 1), o anche successivamente (per i contratti ad esecuzione continuata o periodica: art. 1373, comma 2), senza tuttavia che in questo caso il recesso produca effetti per le prestazioni gia` eseguite o in corso di esecuzione. Sul punto cfr. Xxxxx, 1992, p. 914.
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per i contratti in generale e, in ogni caso, maggiormente aderente alle particolarita` di questa tipologia contrattuale. La dottrina non ha mancato di evidenziare questo parallelismo tra normativa dedicata al contratto collettivo e disciplina codicistica, sottolineando che “l’isti- tuto della eccessiva onerosita` sopravvenuta e` penetrato nella legislazione ordinaria soltanto col nuovo codice sebbene per speciali applicazioni (contratto collettivo di lavoro) gia` prima il principio informatore fosse stato accolto” (Messineo, 1944; contra Ghezzi, 1963, pp. 101-102). Parallelismo fondato sulla identita` di ratio, e cioe` la necessita` di permettere un’adeguamento dei rapporti contrattuali di durata contro una sopravvenienza che alteri l’equilibrio contrattuale, e da cui consegue, una volta venute meno le norme corporative, la naturale applicabilita` della disciplina sull’eccessiva onerosita` sopravvenuta prevista per i contratti in generale anche al contratto collettivo di diritto comune.
Eppure, a ben vedere, la lettera delle due norme e` diversa: mentre il R.D. n. 1130/1926 parla semplicemente di notevole mutamento dello stato di fatto esistente al momento della stipulazione, l’art. 1467 c.c. parla di avvenimenti straordinari e imprevedibili: la soluzione che vuole una automatica applicazione al contratto collettivo delle norme dettate dal Codice Civile in tema di eccessiva onerosita` non solo pare di dubbia rispondenza alla lettera della legge sul piano sistematico, potendosi ben dubitare della identita` di ratio delle due ipotesi, che, infatti, avevano trovato una differente disciplina nell’impianto codicistico del 1942, ma soprattutto si mostra palesemente inadatta — sotto il profilo tecnico e pratico — alla figura contratuale in esame. E difatti, anche la dottrina di stampo tradizionale non ha avuto esitazioni a riconoscere che le stesse eventualita` della particolare congiuntura economica e della svalutazione della moneta, che sono le piu` rilevanti ipotesi di squilibrio delle presta- zioni dedotte in contratto, sono di ben difficile configurazione e, addirittura, impossibili in presenza di meccanismi come quello della scala mobile (Simi, 1971, p. 348; contra Prospe- retti U., 1976, p. 49). Senza dimenticare, poi, le numerose clausole cosiddette di “salvaguar- dia” presenti nei contratti collettivi, volte a consentire il recupero del salario a fronte di eventuali perdite del suo potere di acquisto dovute agli andamenti dell’inflazione (v. tra i tanti il C.c.n.l. del settore del credito, in DPL, 1990, n. 20, p. 1267 e ss.).
Certo, al di la` dell’ipotesi estremadello scoppio di guerre, restaancoradavalutare, questavolta sul lato dei datori di lavoro, la rilevanza di circostanze quali l’innovazione tecnologica e tec- nico-organizzativa, la crisi aziendale, l’oggettivo mutamento della situazione di mercato ov- vero l’incidenza di provvedimenti legislativi (tributari, doganali, previdenziali, etc.), che ren- dano eccessivamente oneroso il costo del lavoro. Ma anche in queste ipotesi pare da escludersi una benche´ minima rilevanza pratica delle norme sull’eccessiva onerosita`. In riferimento alla situazione di crisi aziendale, per esempio, operera` la regola generale che l’eccessiva onerosita` va riferita alla prestazione considerata oggettivamente, e non alla situazione soggettiva del debitore; a ben vedere, poi, l’innovazione tecnologica, l’intervento legislativo e le mutate con- dizioni di mercato sono fatti di portata generale che, anche quando diano luogo ad una one- xxxxxx` rilevante o straordinaria, sono pur sempre eventi costanti e prevedibili, e dunque ri- conducibili nell’alea normale del contratto (Lucifredi, 1980, p. 94 e ss., nonche´ Pretura di Novara 5 giugno 1990, in RIDL, 1991, II, p. 290 ss.) (10).
(10) In giurisprudenza, significativa la posizione del Tribunale di Milano (5 ottobre 1988, in L80, 1989, p. 94 e ss., con nota di Xxxxxxxx), che ritiene, in quello che potrebbe apparire a prima vista un semplice obiter dictum, modificabile unilateralmente un accordo collettivo aziendale sui ritmi di produzione, quando, in seguito ad un semplice “obiettivo mutamento della situazione di mercato”, l’adempimento da parte datoriale sia diventato piu` gravoso e non sia stato possibile pervenire ad una modifica unilaterale dello stesso (p. 97). Come si vede, in questa prospettazione della sopravvenienza contrattuale in riferimento al contratto collettivo e` esclusa in radice ogni possibile valutazione dei requisiti della straordinarieta` e della imprevedibilita` necessari per attivare il rimedio dell’eccessiva onerosita` ex art. 1467 c.c., rilevando anche eventi che rientrano nella alea normale del contratto. Xxxxxxxx, anzi, che il commentatore della sentenza abbia completamente trascurato questo inciso, che pure ben spicca nel circolo argomentativo della sentenza, ed anzi ne e` il presupposto logico (come riconosce lo stesso giudice al termine di pagina 97), per dedicarsi alla “teoria“. Viene cos`ı affermato — giustamente, peraltro —, e sulla scorta di autorevole dottrina, che la risoluzione per eccessiva onerosita` non opera di diritto (e che quindi il datore non puo` recedere provvedendo unilateralmente a formare una nuova disciplina), e che dunque l’eccessiva onerosita` non puo` essere opposta dalla parte convenuta come eccezione per l’adempimento (p. 96), trascurando tuttavia che la ratio decidendi della sentenza commentata, cioe` il principio di diritto alla stregua del quale e` stato deciso il caso oggetto del giudizio, e` proprio il riconoscimento della ammissibilita` di una modifica unilaterale del contratto collettivo, che viene dunque configurata come valida eccezione per l’inadempimento. Senza dire, poi, della acritica, sebbene non molto convinta, riconduzione dell’ipotesi delle mutate condizioni di mercato alla fattispecie della risoluzione per sopravvenuta eccessiva onerosita` (p. 95), che, peraltro, il giudice non si e` neppure sognato di prospettare. Assurda, poi, la prospettazione nel caso concreto (recesso del datore di lavoro) della teoria del
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Anche al di la` di questi rilievi, un approccio realistico al fenomeno permette di concludere che si tratta, in questi casi, di eventualita` che trovano adeguata soluzione negli strumenti di flessibilita` e di adeguamento alle mutate condizioni economiche predisposti in sede nego- ziale o dettati da specifiche disposizioni di legge, rendendo concretamente improponibili i presupposti formali e sostanziali della risoluzione per eccessiva onerosita` e per impossibilita` sopravvenuta.
Si pensi, per esempio, all’articolata regolamentazione convenzionale — contenuta ora nelle clausole contrattuali riguardanti i cosiddetti diritti di informazione comparsi gia` nel corso degli anni Settanta in alcuni contratti aziendali o di gruppo, e successivamente sviluppatisi anche in quelli nazionali di categoria o in specifici accordi aziendali cosiddetti gestionali — in tema di innovazione tecnologica e di crisi, riconversione o ristrutturazione aziendale (11), che si intreccia con una nutritissima trama di interventi legislativi in tema di mobilita`, cassa integrazione guadagni, licenziamenti collettivi, etc., giungendo, in taluni casi, anche a determinare specificamente la disciplina degli effetti nel tempo del contratto collettivo stesso. Cosı` infatti in tema di trasferimento d’azienda, il comma 3 del nuovo testo dell’art. 2112 c.c. — come modificato dall’art. 47 della L. n. 428/1990 — stabilisce che l’acquirente e` tenuto a mantenere le condizioni di lavoro convenute mediante contratto collettivo (anche aziendale) nei termini previsti da quest’ultimo per il cedente, fino alla data della risoluzione o della scadenza del contratto collettivo o dell’entrata in vigore o dell’applicazione di un altro contratto collettivo, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa acquirente, superando cosı` definitivamente le difficolta` interpretative determi- nate dal vecchio testo dell’art. 2112 sull’ultrattivita` dei contratti collettivi vigenti. Cosı` anche l’art. 3 della L. n. 218/1990 sulla trasformazione in S.p.A. degli enti pubblici creditizi, ove si stabilisce che ai dipendenti delle S.p.A.
«continueranno ad applicarsi le disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore della
presente legge, fino al rinnovo del contratto collettivo nazionale di categoria o fino alla stipula di un nuovo contratto integrativo aziendale».
Dal disposto della norma, peraltro di difficile interpretazione, non solo e` sicuramente escluso il recesso unilaterale, ma anche la possibilita` che il mutamento della natura giuridica delle banche e, quindi, la mutata situazione di mercato, costituisca causa di risoluzione delle disposizioni vigenti, cioe` dei regolamenti di carattere privato del personale che sono fonte di natura collettiva (oltre che, naturalmente, delle leggi speciali sui dipendenti delle banche pubbliche). Questi regolamenti del personale potranno dunque essere modificati o risolti solo per mutuo consenso o per scadenza del termine, a meno che, nell’ipotesi in cui le parti non provvedano alla stipulazione di un nuovo contratto, non si voglia prospettare la possibilita`, una volta passato il periodo transitorio di garanzia dei trattamenti previgenti, di una risoluzione legale delle disposizioni vigenti.
In definitiva, pare dunque che le problematiche dell’eccessiva onerosita` e della impossibilita` sopravvenuta rilevanti nelle ipotesi di crisi aziendale e innovazione tecnologica siano piu` propriamente assorbite nell’ambito della disciplina del recesso dal contratto individuale di lavoro per motivi economici e dai limiti legislativi, giurisprudenziali e convenzionali ad esso imposti. E lo stesso ragionamento potrebbe essere fatto, a ben vedere, anche in tema di inadempimento contrattuale, quantomeno in riferimento alla parte normativa del contratto collettivo, che essendo “destinata ad operare (...) direttamente sul rapporto individuale di lavoro (comporta che) la sua violazione si esaurisce nell’ambito di quest’ultimo” (Persiani, 1972, p. 190).
Del resto, seppure argomentando sotto un profilo squisitamente teorico, irrilevante alla stregua della prassi intersindacale, la dottrina che si interroga sull’operativita` delle dispo- sizioni codicistiche in tema di risoluzione e recesso unilaterale, in ragione della configura- zione del contratto collettivo come contratto normativo, rischia di porsi un falso problema,
contratto collettivo come contratto con obbligazioni di una sola delle parti e quindi dell’inoperativita` delle norme sull’eccessiva onerosita` (p. 96): anche ammesso che il contratto collettivo sia unilateralmente obbligatorio — secondo la nota teoria del Giugni, ricordata nel paragrafo1e su cui torneremo nel corso dell’indagine —, e` proprio il datore di lavoro la parte obbligata al rispetto del contratto, non certo il sindacato!
(11) Cfr. il C.c.n.l. dei metalmeccanici del 1987, Disciplina generale, Sezione I, in Commentario del contratto collettivo dei metalmeccanici dell’industria privata, a cura di Carinci, Napoli, 1989, p. 43 e ss., con commento sul punto di Xxxxxxxx, nonche´ gli artt. 5-7 del C.c.n.l. dei metalmeccanici del 4 dicembre 1990, in DPL, 1991, n. 8, p. 472 e ss. e l’art. 56 dell’accordo di rinnovo del C.c.n.l. per il personale dipendente dalle aziende petrolifere del settore privato, in DPL, 1990, n. 40, pp. 2492-2493.
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ferma restando per le parti la possibilita` di rendere de facto inoperante il vincolo obbliga- torio limitandosi a non dar seguito alla successiva attivita` contrattuale necessaria per dare attuazione ai contenuti delle clausole e degli schemi convenzionalmente predeterminati (Xxxxxxxxxxxx, 1969, p. 115 e ss.). Tanto che parte della dottrina civilistica ha messo in discussione la riconduzione del contratto normativo nella categoria dei contratti di durata (Sangiorgi, 1965, p. 73 e ss.), finendo cosı` per eliminare in radice il problema dell’applica- bilita` delle norme in tema di risoluzione e recesso a questa categoria contrattuale. E anche quando la dottrina si e` opposta a questa soluzione estrema, ha pur sempre riconosciuto sbagliata la qualificazione del contratto normativo in termini di contratto in senso tecnico, preferendo parlare piuttosto di accordo normativo proprio perche´ mancherebbe in questo caso l’essenziale funzione dispositiva delle fattispecie contrattuali, finendo anche in questo per escludere l’applicabilita` alla fattispecie di buona parte della disciplina sui contratti in generale (Xxxxxxxx, 1962, p. 117 e p. 120 e ss.; Id., 1968, pp. 651-665). Proprio muovendo da questi presupposti concettuali, la scarsissima dottrina giuslavorista che ha affrontato il problema della recedibilita` dal contratto collettivo prima e, anche, indipendentemente dalla previsione di un termine di scadenza ha contestato l’applicazione ad un contratto con funzione tipicamente normativa di una norma, l’art. 1373 c.c., che attiene alla disciplina dei contratti con effetti obbligatori (Rucci, 1991, pp. 311-312; Xxxxxxxx, 1990, p. 389. Contra De Nova, 1982, p. 548 e nota 5, che pone invece l’accento sulla totale delega conferita all’autonomia privata dal secondo comma dell’art. 1373).
Volendo seguire questo argomentare astratto, le conseguenze che se ne possono trarre sul
piano applicativo sono immediate: nel caso di una attivita` contrattuale degli associati al sindacato stipulante in contrasto con i contenuti predeterminati dal contratto collettivo, diretta a rendere de facto inoperante il vincolo negoziale, si potrebbe al piu` ipotizzare un inadempimento degli obblighi contrattuali che nascono dal vincolo associativo (Gugliemetti, 1969, pp. 251-260), prescindendo comunque “del tutto dall’efficacia del contratto collettivo in se´ considerato” (Persiani, 1972, p. 154), data la natura istantanea e non di durata dell’obbligazione da esso scaturente. Tuttavia, la dottrina piu` recente ha dimostrato, con argomentazioni pienamente convincenti sul punto, l’erroneita` di una simile conclusione. Ora, e` ben vero che il contratto normativo, a differenza del contratto tipo che si perfeziona solo al momento della stipulazione dei contratti e che quindi puo` essere liberamente disatteso, ha gia` instaurato tra le parti l’obbligo contrattuale di rispettare le condizioni predisposte nel testo contrattuale. Cosı` come e` vero che la realizzazione del vincolo negoziale non significa affatto che le parti si siano impegnate a dare luogo ad una futura attivita` contrattuale: questa, difatti, si presenta solo come un’ipotesi incerta, futura ed eventuale (Messineo, 1968, p. 657, p. 667; Dossetto, 1968, p. 665). Tutto questo non toglie pero` che, con la stipulazione del contratto collettivo, si sia gia` instaurato tra le parti un vincolo di durata, e precisamente un’obbligazione negativa (che dura sino a che dura il contratto) di non concludere alcun contratto con contenuto diverso da quello gia` predispo- sto in sede collettiva (Xxxxx, 1993, p. 65; Oppo, 1943, p. 239 e ss.).
Quest’ultima argomentazione e` a nostro avviso incontrovertibile sul piano dogmatico; anche
se resta da rilevare la limitata rilevanza pratica di un simile procedere concettuale, in ragione della inadeguatezza dei rimedi predisposti dal Codice in tema di risoluzione per inadempimento, avuto riguardo alla realta` delle relazioni industriali italiane.
Un esempio chiarisce meglio di qualsiasi argomentazione teorica l’insufficienza della nor- mativa di diritto comune. Si dia il caso di un inadempimento contrattuale dell’associazione datoriale, consistente nel mancato esercizio del proprio dovere di influenza sugli associati perche´ applichino la parte normativa del contratto collettivo. Dei due rimedi predisposti dall’art. 1453 c.c. uno, la risoluzione del contratto, puo` addirittura danneggiare la parte lesa, xxxxxx´ avrebbe come conseguenza il venir meno dell’intera disciplina contrattuale e quindi del regime normativo che regola il rapporto individuale di lavoro; l’altro, la richiesta di adempimento, e` decisamente inefficace dato che il giudice non puo` garantire coercitiva- mente l’adempimento di un facere infungibile, qual’e` l’attivita` di influenza sui propri soci. Peraltro, e` ovvio che in questo caso il sindacato xxxx` indotto a tutelarsi venendo meno corrispettivamente ai propri impegni e proclamando lo sciopero, in modo da indurre la controparte ad adempiere (Ardau, 1962, p. 11 e ss. e p. 115 e ss.; Xxxxxx, 1960, p. 128, nota 34). Senza contare che, se si tratta di ripetute e metodiche violazioni della parte normativa del contratto collettivo da parte di singoli imprenditori, di modo che per le circostanze e per le modalita` quantitative in cui si realizzano assumano il valore di un sistematico attentato
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all’ordine contrattuale e alla credibilita` del sindacato (come agente contrattuale), di ben altra effettivita` si mostra il rimedio predisposto dall’art. 28 dello Statuto dei lavoratori (condotta antisindacale), consistente nella cessazione del comportamento lesivo e nella rimozione degli effetti (Xxxxxxx, 1985, p. 367; Treu, 1974, p. 83). (Va tuttavia rilevato come altri autori abbiano invece sostenuto, in riferimento alla violazione della parte normativa del contratto collettivo, che l’inadempimento implichi esclusivamente la lesione della sfera individuale del singolo lavoratore e solo indirettamente quella del sindacato che l’ha stipulato. Cosı` Borghesi, 1980, p. 127; Proto Pisani, 1976, p. 155).
Si dia ora il caso di un inadempimento contrattuale da parte delle organizzazioni dei prestatori di lavoro, consistente nel mancato esercizio del proprio dovere di influenza sugli associati perche´ rispettino un obbligo di tregua esplicitamente assunto. Anche in questa eventualita` l’eccezione di inadempimento o la risoluzione del contratto possono danneg- giare la parte lesa “perche´ viene a provocare un’estensione dell’area del conflitto, sia per quanto riguarda la materia di esso sia per quanto riguarda i soggetti interessati: al limite, puo` essere rimesso in discussione l’intero contratto, coinvolgendo anche i lavoratori o i sindacati che siano stati estranei all’azione diretta” (Giugni, 1973, p. 24, Tosi, 1988, p. 457). Senza dimenticare che, in entrambe le ipotesi, la stessa domanda di risarcimento dei danni nei confronti della contrapposta organizzazione sindacale, che in ogni caso e` fatta salva dall’art. 1453 c.c., si presenta in questo caso problematica sul piano probatorio e di difficile valutazione, mancando elementi o parametri certi per quantificare il danno (Scognamiglio, 1972, p. 351 e ss.; Xxxxxxx, 1987, p. 312 e ss.). E questo perche´ si tratta evidentemente di impegni di carattere politico-intersindacale, piu` che di veri e propri impegni di carattere esclusivamente giuridico (Xxxxxx, 1991, p. 161).
La realta` delle relazioni industriali mostra, inoltre, situazioni ben piu` complesse e articolate, che rendono improponibile o, anche, semplicemente controverso il ricorso alle figure civilistiche della risoluzione del contratto e dell’eccezione di inadempimento. Si pensi ad un sindacato dissenziente, non firmatario del contratto collettivo posto in discussione o, anche, ad una coalizione spontanea non appoggiata dal sindacato stipulante, che proclaminino uno sciopero per ottenere una revisione ante tempus di una disciplina collettiva, senza voler pero` rifiutare i benefici gia` acquisiti nel contratto collettivo contestato (Xxxxxxx, 1989, p. 2026 e ss.). In questo caso — oltre ai noti e complessi problemi di rappresentativita` del sindacato
— non sarebbe certamente possibile il ricorso alle regole civilistiche in tema di responsa- bilita` contrattuale, poiche´ non e` configurabile alcun inadempimento del sindacato stipu- lante; e, tuttavia, il contratto non e` rispettato ne´ riesce a soddisfare l’interesse al rispetto dei patti ed alla continuita` della prestazione lavorativa della controparte.
E si pensi, poi, alla violazione di clausole obbligatorie contenute in un contratto collettivo stipulato da associazioni sindacali complesse, da parte delle associazioni semplici aderenti. Cosı`, per restare nella casistica contrattuale, nel recente C.c.n.l. per i lavoratori dipendenti da aziende metalmeccaniche del settore privato le Federazioni sindacali stipulanti (Fe- dermeccanica-Assital e FIM-FIOM-UILM), dopo aver stabilito un’innovativa disciplina in tema di aumenti periodici di anzianita` per i minori, e dopo aver rinunciato “reciprocamente ad ogni azione giudiziaria occorrendo anche negli interessi dei propri rappresentati, fondata sulla applicazione delle clausole circa la decorrenza dell’anzianita` di servizio, ai fini della maturazione degli aumenti periodici, dopo il compimento del 20o anno di eta` , contenute nei precedenti contratti collettivi nazionali”, al fine di provvedere alle conseguenze di un diffuso contenzioso giudiziario, si sono impegnate “anche a nome e per conto dei propri organismi territoriali ed aziendali a non promuovere alcuna iniziativa sindacale in sede centrale, territoriale ed aziendale, che persegua, anche indi- rettamente, finalita` contrastanti con quelle qui definite” (12).
In quest’ultimo caso l’individuazione del soggetto obbligato e, dunque, responsabile di eventuali inadempimenti contrattuali e` resa decisamente complessa dalla circostanza che il riferimento operato dalle Federazioni stipulanti alle strutture sindacali di grado inferiore non e` idoneo ad assumere diretta rilevanza giuridica “esterna”, operando soltanto nell’am- bito “interno” del rapporto associativo che lega le strutture sindacali semplici a quella complessa: e` ben noto, infatti, che le strutture sindacali di grado inferiore sono dotate di una propria autonomia negoziale ed operativa (in tema, per tutti: Carinci, De Xxxx Xxxxxx,
(12) C.c.n.l. dei metalmeccanici 14 dicembre 1990 (in DPL, 1991, n. 8, p. 479), art. 16 (aumenti periodici di anzianita`), disciplina speciale, parte prima, e art. 9 (aumenti periodici di anzianita`), disciplina speciale, parte terza.
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Tosi, Treu, 1994, pp. 338-339, p. 340; Xxxxxxx Xxxxxxxxxx G., 1983, p. 770, pp. 772-773, pp. 785-786, e, ancora piu` recentemente, con riferimento questa volta alla tenuta dell’Accordo del 3-23 luglio 1993 sul costo del lavoro, cfr. Treu, 1993, p. 217 ss.).
Inoltre, sempre in questa ipotesi, anche ammesso che le circostanze concrete e le manife- stazioni di volonta` delle associazioni sindacali locali permettano di configurare la violazione di un’obbligazione giuridicamente rilevante (e non di un semplice “impegno si potrebbe dire programmatico”: cosı`, in un caso per certi versi analogo, Pretura di Milano 26 marzo 1983, in L80, p. 802) di non attivare le consuete iniziative sindacali di sostegno alle azioni giudiziarie dei singoli lavoratori, resta decisamente problematica — ancora una volta — la quantificazione monetaria del valore di tale obbligo: il disimpegno del sindacato locale dall’attivare il contenzioso giudiziario in tema di scatti di anzianita` non avrebbe certo diretta ed incisiva influenza causale in relazione alla effettiva attivazione o meno delle iniziative giudiziarie da parte dei singoli lavoratori. Mentre — e sotto altra angolazione — il rimedio della risoluzione del contratto (art. 1453), e sempre che l’inadempimento non abbia scarsa importanza avuto riguardo all’interesse della controparte (art. 1455), sarebbe in questa circostanza controproducente per la parte lesa: il ritorno alla vecchia disciplina contrattuale in tema di aumenti periodici di anzianita` per i minori attiverebbe ulteriormente il conten- zioso giudiziario, non solo per le situazioni in corso, ma anche per quelle pregresse.
Senza dimenticare, infine, che impegni negoziali precisi e circoscritti come quello contenuto nel C.c.n.l. dei metalmeccanici del dicembre 1990 non sono certo la regola nella prassi delle relazioni industriali italiane. Ben piu` frequenti sono difatti impegni e promesse a contenuto accentuatamente imprecisato: impegni e promesse di per se´ gia` anodini in ragione l’utilizzo di espressioni approssimative e di formulazioni compromissorie, tipiche del linguaggio sindacale, che sfumano, il piu` delle volte, in generici obblighi politico-sindacali di esercitare gli opportuni coordinamenti nell’ambito delle relazioni industriali ai diversi livelli in cui l’associazione stipulante si articola. (Cfr. tra i tanti il § 1, punto 2, dell’Accordo intercon- federale 8 maggio 1986 tra Confindustria e CGIL-CISL-UIL: premesso che
“e` essenziale che i progressi in termini di inflazione e di competitivita` siano consolidati e proseguano nel prossimo triennio anche mediante coerenti comportamenti delle parti sociali, in un quadro di nuove relazioni industriali” (le parti) convengono che il prose- guimento degli obiettivi di rientro dall’inflazione per il prossimo triennio, a partire dal 1986, e la crescita produttiva, premessa indispensabile per favorire l’occupazione, costi- tuiscono un impegno comune di fondamentale importanza in vista di una crescita econo- mica equilibrata. Pertanto ciascuna delle parti esercitera` gli opportuni coordinamenti nell’ambito delle relazioni industriali ai diversi livelli affinche´ il contenimento della dinamica del posto di lavoro e la difesa del potere di acquisto dei salari siano coerenti con gli obiettivi di cui sopra”).
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3.2. Efficacia del contratto tra le parti e cause di scioglimento. Diritto comune dei contratti e contratto collettivo di lavoro: mutuo dissenso, clausola di risoluzione convenzionale e recesso.
A questo punto, una volta sgombrato il campo dell’indagine dalla disciplina corporativa e dalla normativa codicistica in tema di eccessiva onerosita` — e in buona parte anche da quella in tema di risoluzione per inadempimento e per impossibilita` sopravvenuta —, occorre verificare, all’interno di un rapporto dialettico tra dati normativi e fattispecie reali, se e fino a che punto siano operanti anche per il contratto collettivo le restanti norme di diritto privato in tema di risoluzione e recesso, nonche´ se siano o meno prospettabili, alla stregua del diritto positivo, diversi o alternativi rimedi per ottenere una revisione anticipata del contratto collettivo di lavoro anche al di la` dei rigorosi limiti posti dalle regole che disciplinano l’eccessiva onerosita`.
3.2.1. Clausole di risoluzione convenzionale.
Ai sensi dell’art. 1372, primo comma, del Codice Civile, il contratto ha forza di legge tra le parti e puo` essere sciolto — ovviamente accanto alle cause ammesse dalla legge, su cui ci soffermeremo piu` avanti — solo in seguito ad un nuovo atto di autonomia contrattuale, uguale e contrario al precedente, il cosiddetto mutuo dissenso. La dottrina civilistica insegna che il principio che vieta lo scioglimento unilaterale del contratto e` disponibile dalle parti, le quali possono dunque pattuire di riservarsi, o anche di riservare ad una sola di esse, la
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facolta` di recedere dal contratto (Xxxxxxxxx Xxxx, Xxeccia, Busnxxxx, Xxxxxx, 1989, p. 807; De Nxxa, 1982, p. 547). E in questi casi si parlera` di recesso convenzionale (art. 1373 c.c.).
Ora, il recesso convenzionale non determina particolari problemi interpretativi (riconoscono che il contratto collettivo puo` essere sciolto solo in presenza di clausole convenzionali o mutuo dissenso: Cassazione 12 febbraio 1990 n. 987, in RIDL, 1991, II, pp. 290-293; Pretura
di Milano 3 agosto 1989, in RIDL, 1990, II, p. 74; Pretura di Milano 26 marzo 1983, in L80,
p. 795), anche se e` pur sempre vero che il nostro sistema contrattuale non e` certo ricco di clausole contrattuali di questo tipo. Un esempio significativo di clausola risolutiva e` quello contenuto nell’Accordo economico collettivo per la disciplina del rapporto di agenzia e rappresentanza commerciale del settore industriale del 16 novembre 1988 (in Bollettino del lavoro, 1989, III, n. 25, p. 1876 e ss.). L’art. 19 di questo accordo statuisce che
«qualora, in qualunque momento della durata del presente accordo, venisse intrapresa un’azione legislativa tendente a modificare le clausole dell’accordo stesso, o che comunque comporti oneri nuovi per le ditte preponenti, le parti si impegnano — su invito di una di esse — a riunirsi immediatamente per concertarsi sui provvedimenti da adottare perche´ la sostanza e lo spirito del presente accordo ed in particolare il complesso degli oneri da esso derivanti, non subiscano modificazioni. Ove non sia possibile raggiungere un accordo prima dell’entrata in vigore della norma, da tale ultima data il presente accordo si intende decaduto».
Analoghe clausole risolutive espresse, che rendono possibile il recesso convenzionale dal contratto collettivo, si trovano nel rinnovo degli accordi dei marittimi delle societa` minori del 6 luglio 1988 (in Bollettino del lavoro, 1989, II, n. 21, p. 1595 e ss.) e nell’accordo sindacale del 28 luglio 1988 dei marittimi, all’Allegato “Contrattazione integrativa azien- dale” (in Bollettino del lavoro, 1989, II, n. 20, p. 1515 e ss.), che, con identica formulazione, stabiliscono
«con il presente accordo le parti si danno atto che deve considerarsi prorogata al settembre 1989 la contrattazione integrativa aziendale e/o interaziendale salvo radicali modifica- zioni aventi rilevante incidenza sui livelli occupazionali e sulle condizioni di lavoro».
E anche nel rinnovo degli accordi dei marittimi dell’armamento privato (addetti agli uffici) del 9 agosto 1988 (in Bollettino del lavoro, 1989, III, n. 23, p. 1723 e ss.), in base al quale
«le parti si danno reciprocamente atto che nelle societa` ove gia` sussista alla data della stipula del presente accordo una contrattazione integrativa aziendale conseguente alla gestione di specifiche attivita` connesse a quella armatoriale, tale contrattazione non potra` essere rinnovata prima del 30 settembre 1989 e non potra` avere ad oggetto materie gia` trattate a livello nazionale, salvo radicali modificazioni organizzative aventi rilevanti incidenze sui livelli occupazionali e sulle condizioni di lavoro».
La casistica e` dunque estremamente povera. Le poche clausole si rinvengono pressoche´ esclusivamente in settori produttivi particolarmente soggetti ai rischi di una sopravvenienza contrattuale, che modifichi notevolmente l’originario rapporto di valore tra prestazione e controprestazione, senza tuttavia integrare i requisiti della straordinarieta` ed imprevedibi- lita` richiesti dall’art. 1467 c.c. Non stupisce il fatto che, in questi casi, le parti desiderino evitare gli esiti incerti di un giudizio di risoluzione per onerosita` sopravvenuta, confidando invece nei tempi brevi di una procedura intersindacale di composizione della controversia o in una automatica decadenza del contratto: si tratta, a ben vedere, di settori in cui il ricorso alle forme di pressione e sanzionamento sociale e` reso problematico o difficile, ora in ragione della rilevanza di interessi superiori, come nel caso dei marittimi, ora in relazione alla impossibilita` di rinvenire l’esistenza di un diritto di sciopero in capo a lavoratori che non sono ne´ formalmente ne´ — anche dando per rilevante la circostanza — sostanzialmente subordinati, come nel caso degli agenti e dei rappresentanti di commercio.
Puo` essere significativo, allora, a contrario, il fatto che in contratti nazionali ben piu` importanti e numerosi, sostenuti da una ben diversa possibilita` di ricorso all’autotutela, non si rinvengano clausole convenzionali di risoluzione dell’intero contratto: si potrebbe infatti essere legittimati a pensare che, in questi casi, le parti confidino sulle rispettive posizioni di forza e sulla capacita` di attivare procedure sanzionatorie o conciliative intersindacali, senza ritenere necessario fissare in un documento scritto l’eventualita` — peraltro difficilmente ipotizzabile, se non addirittura completamente sconosciuta in un sistema di relazioni industriali come il nostro, in cui il vero problema e` quello di giungere alla firma di un nuovo contratto prima della scadenza del contratto precedente — di risoluzione o revisione
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anticipata del contratto collettivo. Del resto, come e` stato giustamente sottolineato, quando il sindacato, “utilizzando il proprio potere collettivo, riesce a produrre norme sostanziali, sente meno il bisogno di contrattare norme procedurali di riconoscimento di potere formalizzato” (Kemeny, Napoli, 1986, p. 28). In questi termini, anzi, il discorso e` ancora piu` evidente per i contratti collettivi aziendali che spesso, quando addirittura non siano semplici pattuizioni tacite, non prevedono clausole di durata.
Non va poi trascurato il fatto che, quantomeno per i contratti nazionali di categoria, le parti difficilmente avranno interesse a mettere in discussione l’intero contratto. Ben piu` frequenti sono difatti le ipotesi di clausole di recesso unilaterale predisposte in funzione di particolari istituti o congeniate per singole e limitate parti del contratto collettivo, ovvero le clausole risolutive espresse ex art. 1456 c.c. Cosı`, per fare qualche esempio, si puo` leggere l’art. 1 del
C.c.n.l. dell’industria metalmeccanica (cit.), intitolato alla disciplina della “Banca dati per l’analisi congiunta della situazione economico-sociale dell’industria metalmeccanica”, in cui si prevede la possibilita` per ciascuna delle parti di
«recedere dagli impegni previsti dal presente articolo con preavviso di sei mesi, dando comunicazione della sua volonta` all’altra e all’Ente che gestisce e cura la “banca dati”, con lettera raccomandata r.r. che dovra` pervenire agli interessati entro il 30 giugno o il 31 dicembre. Il preavviso puo` essere sostituito da una indennita` da versarsi dalla parte recedente a favore dell’altra (...)».
O, anche, l’art. 33 del C.c.n.l. del 31 marzo 1987 per gli addetti alle troupes per la produzione di film dipendenti da casa di produzione cinematografica (in Bollettino del lavoro 1989, II,
n. 15, p. 1118 e ss.), in cui si stabilisce che
«nell’ipotesi in cui vengano introdotte modifiche da parte delle competenti autorita` alle disposizioni vigenti in materia di orario di lavoro, ciascuna delle parti avra` diritto di chiedere alle altre, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, l’immediata decadenza delle norme contenute nel presente contratto relative all’orario di lavoro ed alle percentuali di maggiorazione per il lavoro straordinario».
Nonche´, infine, quale esempio di clausola risolutiva espressa, modellata sull’esempio delle norme poste dal Codice in tema di risoluzione del contratto per inadempimento, l’art. 14 del
C.c.n.l. del 24 febbraio 1987 per i lavoratori della piccola e media industria tessile (in Bollettino del lavoro 1989, III, n. 28, p. 2091 e ss.), secondo il quale
«le iniziative o i comportamenti in sede nazionale, territoriale, aziendale attuati in difformita` dagli impegni cosı` come definiti agli articoli “Investimenti e occupazione”, “Lavoro esterno”, “Mobilita` ”, daranno facolta` all’Uniontessile di dichiararsi, previo esame della situazione e tentativo di componimento da compiersi in sede nazionale con le organizzazioni sindacali, sciolta dalle specifiche obbligazioni assunte in tali presupposti».
Sempre restando alla analisi delle fattispecie contrattuali, di problematica valutazione si presenta invece la clausola risolutiva espressa — pure riconducibile all’art. 1456 c.c. — contenuta nel Protocollo IRI del 16 luglio 1986 (in Giugni, 1991, Appendice, p. 289 e ss.). Dopo aver concordato che la soluzione delle
«questioni afferenti l’applicazione e l’interpretazione del Protocollo rimanga riservata alla loro esclusiva disponibilita` nell’ambito di specifiche procedure inserite nel Protocollo stesso (e che) tali questioni devono essere devolute ad una Commissione paritetica e, qualora essa non raggiunga una soluzione, ad un Comitato dei garanti», le parti si sono infatti espressamente impegnate a considerare «il rispetto delle procedure stabilite e dei pronunciamenti assunti dalla Commissione paritetica e del Comitato dei garanti come essenziali per il raggiungimento degli scopi del Protocollo e pertanto il mancato adempi- mento degli stessi puo` costituire motivo di risoluzione dell’accordo. La risoluzione operera` su semplice dichiarazione della parte interessata. Le parti conseguentemente rinunciano ad utilizzare le disposizioni del Protocollo o i pronunciamenti della Commissione e del Comitato come titolo per azioni in giudizio (...)».
E` evidente che, attraverso questa serie di procedure sull’applicazione e sull’interpretazione del contratto collettivo sanzionate da una giurisdizione privata, le parti stipulanti hanno inteso predisporre un sistema chiuso e autosufficiente di legalita` intersindacale valorizzando lo strumento contrattuale come punto di equilibrio dei contrapposti interessi (in tema cfr. Giugni, 1960, p. 141 e ss. e p. 151 e ss., cui adde Xxxxxx, 1992, p. 47 e ss.). Eppure, la valorizzazione del contratto come pietra angolare su cui poggiare l’intero edificio di una giurisdizione intersindacale esclusiva — e, dunque, non semplicemente alternativa, rispetto
Efficacia temporale
Xxxxxxx Xxxxxxxxxx
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