UNIVERSITA’ DI PISA
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UNIVERSITA’ DI PISA
Dipartimento di Giurisprudenza
Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza
IL TEMPO E IL CONTRATTO: UNA RELAZIONE CHE
APRE A SVILUPPI
CANDIDATO RELATORE
Xxxxxxx Xxxxxx Prof.ssa Xxxx Xxxxxxxxxx
INDICE
pag.
INTRODUZIONE
CAPITOLO I
INCOMPLETEZZA DEI CONTRATTI DI DURATA: LIMITE O RISORSA?
1. Definizioni a confronto: incompletezza economica e 1
incompletezza giuridica
2. Il contratto incompleto: tipologie d’incompletezza 3
3. Complessità che portano all’incompletezza 4
4. Le modalità di completamento 7
4.1. Le modalità di completamento nell’ipotesi di 7
Incompletezza subita: le default rules
4.2. Segue. Il criterio di selezione del contratto ipotetico 8
4.3. Segue. Il criterio di selezione delle penalty default 13
rules
4.4. Riconoscimento di lacune e interpretazione 16
4.5. Il ruolo delle clausole generali 20
4.6. Ipotesi di completamento nel caso di incompletezza deliberata 26
5. Problemi di perfezionamento e validità del contratto 30
deliberatamente incompleto
6. Efficacia del contratto incompleto 41
7. L’inattuazione dell’accordo determinativo 41
8. Determinazione unilaterale/recesso e abuso di determinazione 45
unilaterale
CAPITOLO II
IL TEMPO E LE SUE PROBLEMATICHE: LE SOPRAVVENIENZE IN PARTICOLARE
1. Premessa: tre osservazioni preliminari 50
2. Il contratto di durata: evoluzioni di pensiero 53
2.1. L’esperienza italiana: il contratto di somministrazione 55
2.2. L’esperienza nordamericana: output e requirement contracts 56
2.3. Conclusioni 59
3. Durata: unico elemento per fondare la categoria 60
3.1. Partire dall’economia: le intermediate market transactions 61
3.2. Implicazioni giuridiche di tali relazioni durevoli:
l’opportunismo 62
3.3. Le due condizioni dell’elemento oggettivo e soggettivo come
fattispecie 65
4. Premesse all’analisi delle patologie 69
5. Salvaguardare gli investimenti specifici: il problema dell’hold up 71
5.1. Xxxxxxxx elaborate dalle parti 72
5.2. Rimedi di diritto per opportunismo in caso di inadempimento:
la buona fede 73
5.3. Segue. L’articolo 1564 cc.: norma adeguata ma
interpretazione sbagliata 75
5.4. Altri vizi funzionali: l’abuso di dipendenza economica 76
6. Sopravvenienze e modi di gestione: il problema dell’eccessiva
onerosità 80
6.1. L’evoluzione recente della disciplina normativa in common
e civil law 82
6.2. Rimedi più adeguati per la sopravvenienza all’interno dei
contratti di durata 84
6.3. Segue. Il particolare rimedio della reductio ad aequitatem 87
7. Un efficiente diritto dei contratti di durata: teorie 89
8. La teoria dei contratti relazionali: da sincronico a diacronico 95
CAPITOLO III
LIFE TIME CONTRACTS: UNA NUOVA FRONTIERA PER I CONTRATTI DI DURATA
1. Contratti di durata per l’esistenza della persona: una introduzione 99
2. Il declino del XIX secolo e la nuova ascesa nell’era della
produzione 103
3. Importanza dei life time contracts nella società di credito 104
4. La dimensione etico- giuridica del contratto: obblighi di solidarietà 108
5. Principali contratti della nuova categoria 113
6. Il diritto contrattuale europeo 114
7. L’EuSoCo declaration: preoccupazioni sullo sviluppo del diritto
contrattuale europeo 116
8. Principi di giustizia e life time contracts 116
9. Principi dei life time contracts 118
10. Il problema della povertà e dell’accesso alle risorse come limite da superare: un approccio differente nei sistemi di common e
civil law 122
11. Diritto, economia e povertà e obiettivi legali 124
11.1. Esclusione: analisi economica dei suoi incentivi 126
12. Un approccio contrattuale: la giustizia procedurale 127
13. Status di povertà e povertà relativa: verso un’unica dimensione 128
13.1. Status di povertà: povertà come destino 129
13.2. Povertà relativa: povertà come esclusione 130
13.3. Fusione status di povertà e povertà relativa 130
13.4. Povertà relativa in una società di credito: nuove prospettive 132
14. Contratti inclusivi: contenuti 133
14.1. Compatibili con la libertà di contratto? 134
15. Oltre la volotnà delle parti: il contratto dietro al contratto 136
15.1. Contratto di adesione: un contratto sociale incompleto 138
15.2. Il principio di buona fede 138
16. La storica compresenza di due contratti nel diritto del lavoro:
contratto individuale e accordo collettivo 139
17. I contratti sociali e le loro dimensioni: uno spunto per i life time Contracts 140
18. L’esempio del credito al consumo in Germania come presenza di
elementi inclusivi nel diritto civile 143
18.1. Scelta: ciò che vedi è ciò che ottieni 145
18.1.1. Indicazione del tasso annuo effettivo globale:
“corretta ed integrata indicazione del prezzo” 147
18.1.2. Il “periodo di raffreddamento”: tempo per riflettere 148
18.2. Accesso/conclusione. Concessione di credito ai poveri: una
giusta opportunità 148
18.2.1. Debitori sovra indebitati: socializzare le perdite 149
18.2.2. Bancarotta del consumatore: il diritto a una vita in
xxxxxxx 000
00.0. Standard minimi. Il problema dell’usura 152
18.3.1. Segue. La risposta legale: non più del doppio della
media 153
18.3.2. Divieto di anatocismo: nessun interesse su interesse 155
18.3.3. Interesse di mora e tasse di cancellazione: recupera
non più dei reali danni 156
18.3.4. Limiti al rifinanziamento: non trarre profitto da altre disgrazie 157
18.3.5. Operazioni collegate: stessi diritti verso venditore e
creditore | 158 |
18.4. Applicazione | 156 |
CONCLUSIONI | 161 |
BIBLIOGRAFIA | 162 |
SITOGRAFIA | 163 |
RINGRAZIAMENTI | 164 |
INTRODUZIONE
Il presente lavoro si propone di trattare la relazione particolare tra il tempo e il contratto, in particolar modo nelle relazioni a lungo termine. Nel primo capitolo si parlerà di un aspetto comune a molti contratti ma più accentuato all’interno dei contratti di durata, l’incompletezza: si analizzeranno le cause che portano ad essa, le varie tipologie e le modalità di completamento del contratto incompleto, con particolare attenzione alla tipologia dell’incompletezza deliberata, le sue modalità di completamento e le possibili conseguenze in caso di mancato completamento in relazione alle varie modalità. Nel secondo capitolo si affronterà più specificamente la categoria dei contratti di durata, trattando dell’evoluzione che ha portato ad una maggiore concentrazione su essi, degli elementi fondamentali della categoria messi in luce dall’economia, delle principali patologie come l’hold up e l’eccessiva onerosità sopravvenuta e della ricerca di un efficiente diritto dei contratti di durata (esponendo le teorie elaborate in merito); infine si farà un breve accenno alla teoria dei contratti relazionali, utile per comprendere ciò che verrà esposto nel successivo capitolo. Nel terzo capitolo si tratterà, all’interno della prima parte, di una recente evoluzione (non ancora accreditata) elaborata in materia di contrattazione di durata, cioè dei cd. life time contracts, evidenziando il modo in cui la categoria è venuta sempre più ad attirare l’attenzione degli studiosi ed esaminando i principi elaborati per tali contratti; nella seconda parte si parlerà poi di uno studio (precedente rispetto a quello dei life time contracts, ma che si ricollega ad essi e potrebbe esserne stato uno spunto) che è stato elaborato riguardo i problemi di povertà e accesso alle risorse, che prospetta per questi problemi una soluzione contrattuale (i cd. inclusive contracts), riportando come esempio di presenza di elementi inclusivi quello del credito al consumo.
CAPITOLO PRIMO
L’INCOMPLETEZZA DEI CONTRATTI DI DURATA:
LIMITE O RISORSA?
SOMMARIO: 1. Due definizioni a confronto: incompletezza economica e incompletezza giuridica. - 2. Il contratto incompleto: tipologie d’incompletezza. - 3. Complessità che portano all’incompletezza. - 4. Le modalità di completamento. - 4.1. Le modalità di completamento nell’ipotesi di incompletezza subita: le default rules. - 4.2. Segue. Il criterio di selezione del contratto ipotetico. - 4.3. Segue. Il criterio di selezione delle penalty default rules. - 4.4. Riconoscimento delle lacune e interpretazione. - 4.5. Il ruolo delle clausole generali come metodo di integrazione. - 4.6. Ipotesi di completamento nel caso di incompletezza deliberata. - 5. Problemi di perfezionamento e validità del contratto deliberatamente incompleto. - 6. Efficacia del contratto incompleto. - 7. L’inattuazione dell’accordo determinativo. - 8. Determinazione unilaterale/recesso e abuso di determinazione unilaterale.
1. DUE DEFINIZIONI A CONFRONTO: INCOMPLETEZZA ECONOMICA E INCOMPLETEZZA GIURIDICA.
Parlare di contratti di durata significa parlare di contratti caratterizzati da incompletezza. In special modo nell’analisi economica del diritto si tende ad affermare che tutti i contratti sono incompleti; se questo è vero per l’incompletezza economica, non lo è per quella giuridica. L’incompletezza giuridica infatti denota la presenza di un lacuna nel regolamento contrattuale che si verifica quando le parti non hanno specificato espressamente un aspetto del rapporto, ad es. una vendita mancante dell’indicazione del prezzo; bisogna precisare che c’è una piccola differenza tra common e civil law riguardo il riconoscimento di incompletezza giuridica: secondo la prima un contratto è giuridicamente incompleto quando le parti non disciplinano esplicitamente un aspetto del contratto, per la seconda invece il contratto può definirsi giuridicamente incompleto solo quando la lacuna non può essere colmata attraverso una regola legale. Passando invece all’incompletezza economica del contratto, la visione cambia completamente: un contratto è economicamente incompleto qualora non tiene conto di tutte le circostanze (o “stati del mondo”, più precisamente) che possono verificarsi dopo la sua conclusione; l’equilibrio economico del contratto è quindi condizionato a tutti gli
eventi futuri. Secondo questa visione quindi l’incompletezza è un dato fisiologico dei contratti e le forme nelle quali si manifesta, come vedremo meglio anche in seguito, sono due, in base alle cause che la determinano: incompletezza derivante dai costi transattivi (approssimativamente, “costi di scambio” delle transazioni) o da asimmetrie informative. All’interno della prima forma di incompletezza si è poi soliti fare un’ulteriore distinzione tra costi transattivi ex ante e costi transattivi ex post: i primi corrispondono ai costi di negoziazione, formazione o stipulazione e salvaguardia del contratto e dipendono dalle informazioni necessarie per descrivere un evento; le parti decideranno di inserire una clausola relativa ad un determinato evento solo se il costo della sua redazione è inferiore ai benefici attesi, ma nei contratti di durata è difficile anticipare tutti i possibili eventi e ancora di più riuscire a descriverli puntualmente. Il secondo tipo di costi invece corrisponde a quelli necessari per gestire il rapporto al momento in cui si verifica una sopravvenienza, come i costi per giungere ad una accordo modificativo (costi di rinegoziazione) oppure quelli per deferire a terzi la soluzione di eventuali conflitti (costi giudiziari). I costi ex post dipendono dal grado di incompletezza iniziale, sarà infatti più difficile modificare un equilibrio fissato ex ante: dall’altro lato però la scelta di incompletezza iniziale per ridurre costi ex post può generare un’altra specie di costi ex ante, ovvero quelli causati dalla decisione di non effettuare investimenti specifici.
Passando alla seconda forma di incompletezza, anche qui si distingue tra asimmetrie che possono intervenire tra le parti (c.d. informazioni non osservabili) e quelle che possono intervenire tra le parti e il giudice o un terzo (c.d. informazioni non verificabili); in questi casi le parti, non potendo osservare determinati comportamenti o trasmettere certe informazioni al giudice o al terzo, ritengono opportuno non tentare di concludere un contratto completo.
Vediamo quindi che le nozioni di incompletezza giuridica e di incompletezza economica non coincidono: l’integrazione di un contratto può essere richiesta non solo con riferimento a lacune giuridiche, ma anche a lacune economiche; interrogarsi sull’incompletezza giuridica significa interrogarsi su indeterminatezza e determinazione (legale e convenzionale) del contenuto del contratto, interrogarsi sull’incompletezza economica invece significa interrogarsi su rischio, responsabilità, sopravvenienze e risoluzione. Possono esistere contratti giuridicamente completi ma economicamente incompleti, oppure incompleti sia giuridicamente che
economicamente, e questo perché le due forme di incompletezza sono forme distinte tra loro e generano problematiche diverse.
2. IL CONTRATTO INCOMPLETO: TIPOLOGIE
D’INCOMPLETEZZA
Come abbiamo già visto, l’incompletezza economica è un fenomeno che può coinvolgere tutti i contratti, e possiamo quindi affermare che un contratto completo è difficile da realizzare. Perciò l’incompletezza non deve essere vista come un elemento negativo, ma come una risorsa, che addirittura le parti sfruttano in alcuni casi. Si deve infatti distinguere tra incompletezza “subita” e incompletezza “deliberata”: nel primo caso dietro l’incompletezza c’è un comportamento passivo delle parti, che possono non disdegnare l’integrazione legale delle lacune oppure preferire non redigere un contratto dettagliato a causa degli alti costi che questo comporterebbe; in tale ambito si ha una distinzione tra incompletezza subita “apparente”, dove le lacune sono dovute a vaghezza o ambiguità del linguaggio utilizzato dalle parti, cui si pone rimedio tramite l’interpretazione, e incompletezza subita “reale” dove le lacune sono dovute a un difetto di dichiarazione o comunicazione oppure a mancanza di volontà, cui si pone rimedio mediante l’integrazione. Di diversa natura è invece l’incompletezza “deliberata” o “strategica”: in questo caso le parti sono ben consapevoli che una parte del contenuto deve essere successivamente determinata al fine di attuare il rapporto e così vogliono, prevedendo all’interno del contratto un meccanismo di completamento delle lacune. Per entrambe le forme di incompletezza ci sono problematiche comuni, lievi differenze ci sono però nel caso dell’incompletezza deliberata per quanto riguarda la possibilità di un intervento diverso da quello previsto per far fronte alla sopravvenienza.
Nell’ambito del contratto deliberatamente incompleto si può rilevare poi una distinzione tra un contratto originariamente incompleto (che presenta una lacuna iniziale) se il contenuto è inizialmente indeterminato in virtù di una clausola di xxxxxxxx0, e un contratto originariamente completo ma successivamente incompleto ma
1 Ad esempio quando in un contratto di vendita si conviene che il prezzo sarà successivamente concordato tra le parti.
successivamente incompleto (presenta una lacuna successiva) se il contenuto diviene indeterminato in virtù di una clausola di ri-apertura2. Le due vicende comunque possono essere esaminate congiuntamente perché pongono gli stessi interrogativi.
Si fa poi un’ulteriore distinzione tra incompletezza essenziale e incompletezza relativa: la differenza non è fatta dal punto di vista qualitativo, cioè sulla base del fatto che manchi un elemento principale o secondario del contratto, ma da quello quantitativo: se non sono previsti limiti massimi e minimi alla successiva attività delle parti avremo un’incompletezza essenziale, se invece tali limiti sussistono avremo un’incompletezza relativa; ancor più genericamente una distinzione può farsi tra contratti incompleti che individuano un criterio alla stregua del quale si dovrà effettuare una successiva determinazione e contratti incompleti che invece si affidano alla scelta di chi dovrà effettuare la determinazione.
Merita fare un cenno anche ad una particolare clausola utilizzata per adattare il contratto ai cambiamenti: la clausola di adeguamento automatico: benché la sua funzione sia analoga a quella di una clausola di apertura o ri-aperutura anche se in maniera più ridotta, un contratto che contiene tale clausola è considerato giuridicamente completo e privo di lacune; si dice in questi casi che il contratto è flessibile ed è esposto agli stessi rischi del contratto completo, ovvero non riuscire a gestire ex ante il rischio contrattuale in modo efficace.
3. COMPLESSITA’ CHE PORTANO ALL’INCOMPLETEZZA
Quali sono le complessità che caratterizzano un’operazione economica che perdura nel tempo? Anzitutto possiamo fare una distinzione tra quelle complessità determinate da caratteristiche oggettive dell’operazione economica, cioè incertezza, durata e investimenti specifici, e le complessità determinate invece dalle caratteristiche soggettive dell’operazione economica, ovvero razionalità limitata e opportunismo.
L’incertezza è un dato piuttosto comune nei contratti di durata, il soddisfacimento delle aspettative delle parti è infatti condizionato ad eventi che le parti non sono in grado di controllare. Oltre all’incertezza
c.d. primaria che riguarda eventi come il caso fortuito, la forza maggiore ecc. (tutti eventi futuri e imprevibili per definizione) la teoria
2Ad esempio quando in un contratto di leasing quinquennale il canone mensile è pari ad un determinato importo, essendone però prevista, dopo il terzo anno o al verificarsi di un determinato evento, la ri-determinazione ad opera delle parti.
economica include anche l’incertezza c.d. secondaria, che attiene invece a comportamenti che i contraenti terranno nel corso dell’esecuzione del contratto; può darsi infatti che la parte, al fine di perseguire i propri interessi, adotti dei comportamenti opportunistici.
Anche la durata si presenta come un elemento problematico del rapporto. Si deve specificare un fatto importante che riguarda la connessione tra incompletezza e durata: i problemi dell’incompletezza interessano tutti quei contratti in cui sussiste un intervallo temporale tra la conclusione e l’esecuzione; ogni qual volta si verifica tale stacco temporale il contratto è esposto al rischio di sopravvenienze. Possono essere utili a questo proposito i dubbi sollevati sulla clausola rebus sic stantibus: essa rappresenta un primo tentativo di offrire adeguata risposta al problema della modificazione delle circostanze del contratto; essa specifica che le parti hanno concluso un accordo guardando alla situazione di fatto di quel momento e perciò fatti sopravvenuti, straordinari ecc. autorizzano la parte svantaggiata da essi a modificare o risolvere il contratto. Inizialmente si pensava che l’applicabilità di tale clausola fosse limitata ai soli contratti a lungo termine, ma successivamente a tal riguardo sono stati sollevati dei dubbi, e l’applicazione della clausola è stata estesa a tutti quei contratti dove c’è un intervallo tra conclusione ed esecuzione, perciò tale clausola si applica anche ai contratti ad esecuzione differita, dove si rinviene tale intervallo. Ad ulteriore dimostrazione di ciò possiamo menzionare anche il rimedio dell’art. 1467 cc. (eccessiva onerosità sopravvenuta), che è parimenti applicato a tutti quei contratti con scarto temporale tra conclusione ed esecuzione. Tutto ciò però non deve indurci in errore: una cosa è parlare di contratti ad esecuzione continuata o periodica, un’altra è parlare di contratti ad esecuzione differita. I secondi rientrano comunque nei contratti ad esecuzione immediata poiché i loro effetti si esauriscono in maniera istantanea, anche se l’esecuzione non avviene al momento del perfezionamento del contratto (come accade invece nei contratti ad esecuzione immediata); la prestazione è comunque concentrata in un solo momento. I primi invece sono contratti dove la prestazione si prolunga nel tempo e può consistere in una pluralità di adempimenti (esecuzione periodica) o in un adempimento ininterrotto (esecuzione continuata); solo questi sono considerati “contratti di durata”. Vediamo quindi che pur essendoci una connessione tra incompletezza e durata il primo problema non è esclusivo solo dei contratti di durata, ma è un problema che può interessare anche contratti sono di diverso tipo.
Anche gli investimenti specifici sono un altro aspetto oggettivo di complessità: talvolta per rendere efficiente l’operazione economica è necessario effettuare degli investimenti, tra essi si definiscono specifici quelli che una volta realizzati hanno più valore all’interno della relazione contrattuale che fuori, non specifici sono invece quegli investimenti che possono essere indifferentemente riutilizzati in altri contesti. Se tali investimenti specifici non sono bilaterali o se quelli realizzati da uno dei contraenti hanno maggior valore, l’operazione economica diventa difficoltosa per colui che li ha effettuati in quanto è esposto a possibili abusi da parte della controparte; la prosecuzione del rapporto diviene per lui necessaria ed è sottoposto a richieste opportunistiche di rinegoziazione3. Si pone il problema di tutelare questi investimenti, poiché in caso contrario le parti non sarebbero incentivate ad effettuarli; questo può riflettersi sulla possibilità per le parti di concludere un contratto incompleto, perché il legislatore potrebbe imporre dei limiti, e in ogni caso anche laddove l’ordinamento non limitasse l’autonomia privata è necessario un controllo sulle procedure determinative al fine di prevenire comportamenti abusivi.
Venendo alla caratteristiche soggettive, la razionalità limitata dei contraenti è un elemento che può portare all’incompletezza. L’analisi economica neoclassica riteneva erroneamente che i contraenti fossero dotati di razionalità piena e fossero in grado di prevedere gli eventi futuri, e su questo assunto elaborava le proprie teorie. La teoria economica dell’incompletezza contrattuale ha invece sostenuto la non completa razionalità dei contraenti, cosa che è stata condivisa anche dagli studiosi di analisi economica del diritto: i contraenti hanno capacità cognitive limitate, non sono in grado di raccogliere informazioni esaustive e sufficienti su tutti gli eventi futuri, per cui cercano soluzioni non ottimali ma solo soddisfacenti, visti anche i costi necessari per acquisire certe informazioni.
L’opportunismo rappresenta un’altra problematica soggettiva: i contraenti hanno una propensione naturale a comportarsi in modo opportunistico, cioè sfruttare egoisticamente le circostanze allo scopo di realizzare i propri interessi personali, in una relazione economica che dura nel tempo c’è quindi il rischio che le sopravvenienze creino circostanze favorevoli per un contraente e sfavorevoli per la controparte e che tali circostanze vengano sfruttate; il diritto può rimediare a ciò considerando scorretto tale sfruttamento ma ci sono
3 Del problema degli investimenti specifici, o hold up, parleremo più ampiamente in seguito.
casi in cui è difficile provare la scorrettezza della condotta. Significative al riguardo sono però le riflessioni che gli economisti hanno fatto sul tema della reputazione e il suo ruolo di assicurazione di esecuzione spontanea e cooperazione tra le parti: spesso il contraente si preoccupa del biasimo che una certa azione opportunistica possa provocare non solo nella controparte ma anche in altri eventuali patner; avere una cattiva reputazione significa perdere la possibilità di effettuare transazioni future, e questo è un disincentivo a comportamenti opportunistici4. C’è poi un particolare rapporto tra reputazione e completezza contrattuale: maggiori sono le potenzialità della prima e minore è la necessità di scrivere contratti completi e anzi l’incompletezza potrebbe essere una strategia per contraenti che vogliano affidare alla fiducia reciproca l’assicurazione del rispetto degli obblighi.
4. LE MODALITA’ DI COMPLETAMENTO
Quali sono i modi di completamento di un contratto incompleto? Abbiamo effettuato nel paragrafo 2 la distinzione tra incompletezza subita dove le parti non prevedono espressamente alcuni elementi e non pattuiscono nulla sul modo di determinarli successivamente, e incompletezza deliberata, dove le parti lasciano volutamente il contratto incompleto ma inseriscono clausole che vanno a colmare le lacune che sono state lasciate.
In entrambi i casi ci si deve porre il problema di come completare il contratto: le modalità cambiano a seconda che l’incompletezza sia subita o deliberata.
4.1. LE MODALITA’ DI COMPLETAMENTO NELL’IPOTESI DI
INCOMPLETEZZA SUBITA: LE DEFAULT RULES
Nel caso di incompletezza subita non avendo le parti previsto nel contratto nessun meccanismo di integrazione spetta all’ordinamento colmare le lacune e a questo proposito si parla delle default rules. Le default rules vengono anzitutto distinte dalle immutable o mandatory rules, le prime possono essere disapplicate dalle parti qualora lo vogliano, le seconde invece si applicano anche se le parti cercano di escluderle. Tale distinzione, fatta nell’ambito dei paesi di common law, è stata equiparata a quella tra norme dispositive e norme imperative nei paesi di civil law; è stato però ritenuto che le nozioni di
4 Anche dell’opportunismo si parlerà meglio in seguito.
default rule e di norma dispositiva non siano del tutto equivalenti: il diritto di common law infatti ha una formazione prevalentemente giurisprudenziale, perciò la distinzione tra default e immutable rules è applicata anche alle regole che hanno tale provenienza, mentre nei paesi di civil law la distinzione tra norme dispositive e imperative è applicata solo per le norme di fonte legislativa. Un’altra differenza si riscontra nel fatto che nella common law è la prova dell’esistenza di costi transattivi elevati, asimmetrie informative o razionalità limitata che porta all’applicazione di una regola eteronoma, quindi la scelta di una regola contrattuale è sempre presentata come integrazione di un contratto convenzionalmente incompleto; nella tradizione romano- germanica invece c’è un certo automatismo nell’integrazione del contratto per mezzo di fonti legislative5. Di tali differenze si deve tenere conto nel momento in cui si considerano i criteri di selezione delle regole di default.
In generale comunque possiamo utilizzare questa espressione per indicare in modo sintetico quelle regole che i giudici o i legislatori applicano ai contratti incompleti.
4.2. SEGUE. IL CRITERIO DI SELEZIONE DEL CONTRATTO IPOTETICO
Veniamo adesso ai criteri di selezione delle default rules, ovvero i criteri di determinazione del contenuto delle regole contrattuali che dovranno andare ad integrare le lacune di un contratto incompleto.
Il primo criterio di selezione delle regole di default che è stato proposto è stato quello del contratto ipotetico, considerato in linea col modello neoclassico dello scambio, caratterizzato da una generale assunzione di completezza dei contratti e una indifferenza verso costi transattivi nell’accezione di impossibilità di previsione di tutti i possibili stati del mondo e verso asimmetrie informative; vedremo infatti in seguito che tale criterio di selezione subirà delle obiezioni che saranno il riflesso del declino di tale modello di scambio.
L’elaborazione del criterio è dovuta soprattutto a Xxxxxxx Xxxxxx: secondo l’autore il problema delle lacune di un contratto può essere risolto se le corti applicano la regola che le parti avrebbero scelto qualora avessero deciso di negoziare espressamente sul punto, in questo modo il diritto dei contratti potrebbe ridurre i costi transattivi: le parti potrebbero solo specificare i termini essenziali dello scambio e
5 Vedi in proposito BELLANTUONO, I contratti incompleti nel diritto e
nell’economia, 110 e nota 11.
modificare le regole legali che reputano inadatte, tutto il resto sarebbe affidato alle fonti legali in quanto fornirebbero le stesse clausole che i contraenti avrebbero scelto. Di fronte ad una circostanza non presa in considerazione infatti le corti applicherebbero la regola che consente di farvi fronte nel modo più efficiente che non è altro che lo stesso risultato che avrebbero raggiunto le parti se non avessero incontrato dei costi transattivi. Notiamo che c’è un’immediata relazione tra efficienza e volontà delle parti: la massimizzazione del surplus è il punto di riferimento delle corti perché è ciò che le parti perseguono.
Vediamo come il criterio del contratto ipotetico opera quando si presentano circostanze sopravvenute che generano una lacuna nel regolamento contrattuale: il problema da risolvere è allocare una perdita provocata da un evento che ha reso la prestazione eccessivamente onerosa. Per stabilire cosa avrebbero deciso i contraenti si ritiene che si debba identificare la parte in grado di sopportare meglio il rischio in questione poiché pare plausibile che le parti avrebbero concordato di assegnare il rischio alla parte che poteva gestirlo al minor costo; la perdita dovrebbe essere sopportata da quella parte che poteva prevenirlo ad un costo inferiore rispetto a quello generato dall’evento: nel caso in cui nessuna delle due parti poteva prevenire l’evento ad un costo ragionevole, si ritiene che la perdita dovrebbe essere fatta gravare su chi è in grado di sopportarla meglio mediante il meccanismo assicurativo, cioè su chi poteva procurarsi una copertura assicurativa al minor costo.
La regola generale quindi è che la parte colpita dall’evento imprevisto può liberarsi dalla sua obbligazione solo se la controparte poteva prevenire l’evento o assicurarsi ad un costo inferiore a quello che la parte colpita avrebbe dovuto sopportare.
Le default rules perciò dovrebbero coincidere con le clausole che le parti avrebbero scelto se avessero negoziato in condizioni ideali, cioè in assenza di costi transattivi e con informazione completa.
Il criterio del consenso ipotetico però si presta a numerose critiche. Racchiuderebbe due forme di giustificazione, una legata alla presunta volontà delle parti, l’altra alla nozione di efficienza, ma le due cose non sono collegate: per Xxxxxx la scelta di regole che garantiscono la massimizzazione della ricchezza (quindi di regole efficienti) è legittimata non solo da considerazioni utilitaristiche ma dal principio del consenso. Esplicativo per comprendere tale assunto è il suo esempio dell’appaltatore che accetta di costruire una casa per un prezzo fisso: in tale caso l’appaltatore non può denunciare l’iniquità del contratto se il costo del lavoro o dei materiali sono aumentati nel
corso dell’esecuzione perché questo rischio è stato compensato con la pattuizione di un prezzo maggiore. In realtà il criterio della compensazione ex ante non comporta l’espressione di un consenso ipotetico ad una decisione che è totalmente basata su considerazioni di efficienza, anche perché l’applicazione della regola più efficiente può produrre effetti sfavorevoli per alcuni. Anche dal punto di vista dell’efficiente distribuzione dei rischi ad opera delle corti si va incontro a problemi: una distribuzione conforme ad efficienza dipende da numerosi fattori e l’accertamento di essi richiede informazioni di cui le corti non dispongono, esse hanno difficoltà nell’individuare la parte meglio in grado di assicurarsi contro eventi imprevisti perché solo le parti dispongono delle informazioni necessarie per programmare una distribuzione efficiente dei rischi, i giudici non sono in grado di replicare il processo che garantisce l’esito contrattuale più efficiente.
In più, invece di simulare i comportamenti di soggetti dotati di illimitate capacità di previsione sembra più idoneo valutare incentivi e vincoli con cui i contraenti si confrontano quando, al verificarsi di eventi imprevisti, cercano di salvaguardare i profitti attesi.
Un’evoluzione rispetto all’approccio tradizionale è l’impostazione che si propone di sfruttare tutte le potenzialità della nozione di contratto incompleto. A tale proposito è necessario menzionare due articoli citati da Bellantuono6 nella sua opera sui contratti incompleti. Il primo articolo è quello di Xxxx Xxxxx: egli porta il caso di un venditore- produttore che si impegna a fornire a un compratore un’unità di un bene o un servizio realizzato su ordinazione, il suo obiettivo è verificare se alla luce di un evento imprevisto (l’aumento del costo di produzione), l’esonero del venditore dalla prestazione da parte delle corti assicuri un’allocazione dei rischi più efficiente di quella delle parti. Xxxxx osserva che un abbassamento della soglia oltre la quale il venditore è liberato dalla prestazione riduce si la probabilità che il venditore sia condannato al risarcimento danni, ma espone il compratore al pericolo di non ricevere alcun risarcimento in caso di mancata prestazione; questo porterà ad una riduzione del prezzo del contratto, che di conseguenza esporrà il venditore al rischio di risarcimenti più elevati se non riesce ad ottenere la risoluzione7. Quindi anche il venditore potrebbe preferire un’impostazione che limita le sue
6 Vedi BELLANTUONO, I contratti incompleti nel diritto e nell’economia, 126 ss.
7 I danni da inadempimento sono infatti pari alla differenza fra valore che il contratto ha per il compratore e il prezzo; la riduzione del prezzo, incrementa tale differenza e annulla i vantaggi ricavabili dall’ampliamento delle cause di esonero.
cause di esonero dall’esecuzione della prestazione. Il modello che Xxxxx propone presuppone che le parti anche se non possono agganciare il prezzo al costo di produzione per via di costi transattivi, possono tuttavia tener conto di tutti i possibili stati del mondo, quindi esclude che ci possano essere sorprese in fase di esecuzione. I contraenti sono in grado di apprezzare l’opportunità di procurarsi una copertura assicurativa e un intervento giudiziale di esonero del venditore ridurrebbe solo gli incentivi a procurarsi idonee garanzie, favorendo un’ allocazione inefficiente; è preferibile quindi per Xxxxx che le corti obblighino le parti a rispettare i termini del contratto. La proposta di limitare il ricorso alle cause di esonero della prestazione però appare meno convincente quando ci si concentra sul fatto che i contraenti prendono decisioni su un numero ristretto di alternative e tendono a trascurare situazioni di cui non hanno diretta esperienza, così che l’assetto di interessi programmato risulterà inadeguato ogni volta che uno degli eventi poco probabili si verifica. Deduciamo quindi che i privati hanno capacità di valutare solo una quantità limitata di informazioni, la ricerca di alternative non si estende a tutti i possibili stati del mondo o è circoscritta a situazioni che non richiedono investimenti eccessivi (i contraenti ignorano quei rischi che non possono controllare a costi accettabili). Tale collegamento tra razionalità limitata e incompletezza induce a limitare l’ambito di operatività dell’approccio tradizionale; nelle situazioni di bassa probabilità il meccanismo assicurativo incontra gravi difficoltà, e discutibile è anche la posizione secondo cui i giudici non devono interferire con l’allocazione dei rischi programmata dalle parti.
Qui è opportuno menzionare il secondo articolo citato, quello di Xxxx Xxxxxxxx che riprende la distinzione tra informazioni osservabili e informazioni verificabili. Secondo l’autore di fronte a un contratto incompleto le corti adottano due strategie: se le informazioni sono verificabili c’è una tendenza a riconoscere la lacuna e ad esonerare il debitore; se invece le informazioni non lo sono, le corti assumono un atteggiamento passivo, negano l’esistenza della lacuna e applicano alla lettera i termini. Le argomentazioni di Xxxxxxxx però rivelano i vizi di fondo dell’approccio tradizionale perché i termini iniziali sono applicati senza tener conto delle circostanze successive, quando niente garantisce che gli accordi iniziali continuino ad essere efficienti in presenza di circostanze che le parti non hanno previsto. L’alternativa fra strategie attive e passive è fuorviante perché ignorare le lacune del contratto incompleto è altrettanto inefficiente che integrarlo con una regola non adeguata; chi vuole sostenere la strategia passiva deve
dimostrare che tale comportamento incentiva i privati a comportarsi in modo efficiente, e Xxxxxxxx tenta di dimostrarlo richiamando la letteratura sulla rinegoziazione dei contratti incompleti: secondo essa è possibile predisporre nel contratto iniziale un meccanismo di rinegoziazione per il caso di circostanze sopravvenute, così che le parti possano comunque essere incentivate ad investire a livello ottimale; il difetto di tali modelli però è quello di sostenere che la rinegoziazione sia priva di costi e avvenga in presenza di informazione completa, quando invece queste condizioni non sono presenti nella realtà. Secondo Xxxxxxxx quindi le corti sono legittimate a completare un contratto incompleto solo se riproducono gli stessi termini che i contraenti avrebbero scelto, se non sono in grado di farlo, devono astenersi; la regola di default sarebbe ancora una volta corrispondente alla regola prodotta dai privati. Il fatto che i giudici non possano scrivere contratti per le parti, e quindi debbano astenersi nel caso di informazioni non verificabili però non può delegittimare totalmente l’intervento giudiziale.
L’argomentazione di Xxxxxxxx, diversamente dal criterio del contratto ipotetico, assume la razionalità limitata delle parti ma presenta ancora un limite nel non considerare le problematiche della rinegoziazione: assumendo infatti che ci sono costi di rinegoziazione, l’obiettivo principale è ridurli; tempo, energie e spese in assistenza legale aumentano in proporzione alla durata delle trattative e se l’accordo non viene raggiunto le parti devono affrontare spese di giudizio.
Ragioni di efficienza consigliano perciò di utilizzare il diritto dei contratti per agevolare la rinegoziazione: le regole giuridiche possono incentivare le parti a raggiungere una soluzione concordata andando a definire le alternative all’accordo in modo che la revisione volontaria sia sempre preferibile.
Come è possibile fare questo? Possiamo fare un esempio: supponendo un aumento dei costi di prestazione, il debitore di essa corre il rischio di subire perdite corrispondenti alla differenza tra il prezzo pagato dal creditore e i costi attuali della prestazione, mentre il creditore risulta avvantaggiato perché l’esecuzione gli consente di ottenere un profitto maggiore di quello previsto; tale squilibrio potrebbe essere attenuato da una regola che escluda il debitore dall’esecuzione della prestazione, così che se il creditore rifiuta di rinegoziare, il debitore potrebbe minacciare il ricorso al giudice per lo scioglimento del contratto; tale ricorso deve diventare per il creditore una alternativa meno favorevole della revisione del contratto.
Quindi le regole giuridiche possono utilizzarsi per favorire una soluzione concordata, andando a ridurre i benefici che le parti sperano di ottenere da una strategia aggressiva.
4.3. SEGUE. IL CRITERIO DI SELEZIONE DELLE PENALTY DEFAULT RULES
Le argomentazioni illustrate finora hanno preso in considerazione le cause di incompletezza dei costi transattivi, cioè spese affrontate per la negoziazione e redazione del contratto, e dei costi di decisione, cioè quelli legati alla razionalità limitata.
Gli autori che applicano alla selezione delle default rules i risultati più recenti dell’economia dell’informazione analizzano un diverso tipo di incompletezza; Xxx Xxxxx e Xxxxxx Xxxxxxx propongono infatti un criterio di selezione delle default rules che affronta il problema dell’asimmetria informativa. Tale tipo di incompletezza deriva dalla presenza di informazione privata, che riduce i vantaggi dello scambio, è perciò necessario che le regole legali incentivino la parte che dispone di essa a rivelarla. A tale proposito si parla di penalty default rules, regole cioè che penalizzano la parte più informata e la costringono a negoziare.
Bisogna prima di tutto chiarire la relazione tra incompletezza strategica e incompletezza che dipende dai costi transattivi o dalla razionalità limitata: quando un contratto è concluso in condizioni di asimmetria informativa i costi di negoziazione e decisione non impediscono di adottare un regolamento completo, la parte meglio informata rinuncia a trattare su uno specifico aspetto per non rivelare le conoscenze di cui dispone ma questo non comporta per forza una lacuna contrattuale perché le parti possono limitarsi ad incorporare la disciplina legale; solo il tentativo di modificare le regole di default segnalerebbe fatti o situazioni che la parte meglio informata intende nascondere.
Secondo Xxxxx e Xxxxxxx le regole di default dovrebbero andare a penalizzare il contraente che dispone di informazione privata e l’esempio di cui si servono per illustrare questo è il caso inglese Xxxxxx x. Xxxxxxxxx (1854).
Il Sig. Xxxxxx era proprietario di un mulino e chiese alla società di trasporti nella quale Xxxxxxxxx aveva funzione di amministratore di trasportare il giunto principale del mulino a un’officina incaricata di costruire un pezzo analogo; la società di trasporti ritardò la consegna del pezzo e Xxxxxx non ne aveva un altro di riserva, questo comportò la chiusura del mulino per il tempo necessario alla costruzione e il
trasporto del nuovo giunto. Il Sig. Xxxxxx agì perciò in giudizio chiedendo un risarcimento per i profitti perduti nel periodo di chiusura e la società obiettò di non esservi tenuta in quanto non poteva prevedere tali danni. Ebbene, la Cort of Exchequer negò il risarcimento: secondo i giudici inglesi la parte danneggiata poteva ottenere il risarcimento dei danni che sono la normale conseguenza dell’inadempimento mentre i danni che non lo sono, sono risarcibili solo se al momento della conclusione del contratto le parti li abbiano considerati una conseguenza probabile dell’inadempimento (c.d. consequential damages, nel caso specifico i profitti perduti a causa dell’inadempimento).
Il limite al risarcimento dei consequential damages è una classica ipotesi di penalty default rule: solo il creditore infatti è in grado di valutare con esattezza i danni che subirebbe se ci fosse un ritardo o un inadempimento e se tale informazione fosse comunicata al debitore, egli adotterebbe precauzioni adeguate all’entità dei danni che dovrebbe poi risarcire in caso di inadempimento. La trasmissione dell’informazione però potrebbe ridurre i guadagni del creditore, costretto a pagare un prezzo più elevato al debitore, che deve effettuare una maggiore spesa in precauzioni; l’unico modo che il creditore ha per sottrarsi all’aumento di prezzo è di non rivelare l’informazione di cui dispone: il prezzo della prestazione sarà perciò calcolato tenendo conto del rischio medio delle varie categorie di creditori e il creditore otterrà condizioni più favorevoli, ma l’investimento in precauzioni non sarà efficiente.
Xxxxx e Xxxxxxx fanno notare che il limite al risarcimento dei consequential damages impedisce ai creditori ad alto rischio di tenere nascosta questa informazione: per ottenere il risarcimento dei danni consequenziali infatti il creditore ad alto rischio deve negoziare una deroga alla regola sopra esposta e pagare un prezzo più alto.
Facendo un confronto tra la penalty default rule e il tradizionale approccio del contratto ipotetico, possiamo notare che nel caso di incompletezza dovuta ad asimmetrie informative, la regola legale non dovrebbe rispecchiare le preferenze della maggioranza dei contraenti ma risultare inaccettabile per quelli che dispongono di informazione privata; Xxxxx e Xxxxxxx però denunciano i limiti dell’approccio tradizionale anche nel caso di incompletezza dovuta ad elevati costi transattivi: la regola che la maggior parte dei contraenti avrebbe scelto non garantisce automaticamente la riduzione dei costi transattivi, perché si deve considerare anche un fattore trascurato dall’approccio tradizionale, e cioè i costi che la minoranza deve affrontare per
modificare la regola di default. Quando infatti i costi per modificare tale regola sono elevati per la minoranza, essa rinuncerà alla modifica della disciplina legale e adotterà un regolamento contrattuale inefficiente.
Il modello dei due autori perciò suggerisce che in alcuni casi occorre adottare le regole preferite dalla minoranza poichè una regola di default minoritaria che possa essere facilmente modificata dalla maggioranza soddisfa le preferenze di entrambe le categorie e garantisce una migliore riduzione dei costi transattivi.
Nonostante i vantaggi delle analisi che impiegano gli strumenti della teoria dei giochi8 siano evidenti soprattutto per i problemi connessi alle asimmetrie informative, ci sono comunque degli inconvenienti: la capacità predittiva dei modelli d’interazione è spesso insoddisfacente e un ulteriore problema è la molteplicità degli equilibri; il loro numero è talmente ampio da rendere incerte le previsioni sulle strategie dei giocatori.
Vedendo più da vicino le principali critiche mosse alle tesi dei due autori possiamo capire meglio le problematiche: supponendo che il creditore comunichi l’entità degli eventuali danni, otterrà un risarcimento maggiore di quello consentito dalla regola di Xxxxxx ma allo stesso tempo il debitore richiederà un prezzo maggiore: in un mercato perfettamente competitivo l’aumento del prezzo corrisponderà esattamente all’aumento dei costi della prestazione, ma lo scenario cambia se il debitore non offre la sua prestazione in un regime di concorrenza perfetta, disponendo invece di un potere di mercato; grazie ad esso infatti il debitore è in grado di richiedere un prezzo sovra competitivo, pari al valore del contratto che gli è stato rivelato9. Per evitare questo esito sfavorevole il creditore è costretto a tenere nascosta l’informazione, ma il livello delle precauzioni risulterà inefficiente e ridurrà i guadagni complessivi dello scambio.
Situazione analoga si verifica quando anche il debitore dispone di informazione privata: essa può riguardare per esempio la sua affidabilità come partner contrattuale; egli cercherà di convincere il creditore della sua affidabilità e il creditore che consideri persuasive le sue dichiarazioni riterrà che la probabilità di subire danni sia molto bassa, così non avrà incentivi a rivelare l’informazione, avendo buoni motivi per rinunciare ai benefici di una copertura maggiore. Anche qui
8 Vedi BELLANTUONO, I contratti incompleti nel diritto e nell’economia, 157.
9 Rivelando l’entità degli eventuali danni infatti il creditore comunica anche il valore che attribuisce al contratto, così che l’incremento del prezzo può ben superare il costo dei maggiori costi di prestazione.
la regola di Xxxxxx non garantisce trasmissione di informazioni private.
Gli incentivi di Xxxxx e Xxxxxxx risultano quindi inefficaci in mercati non competitivi e con informazioni private da entrambi i lati, ma c’è di più: anche in regime di concorrenza perfetta il limite al risarcimento dei consequential damages potrebbe non incentivare la trasmissione dell’informazione: ricevendo l’informazione privata infatti, il debitore potrebbe adottare precauzioni diverse per ciascun creditore; il costo della prestazione sarebbe determinato dal rischio collegato a ciascuna categoria di creditori ma non è certo che il debitore riesca ad utilizzare l’informazione nel modo più efficiente. Potrebbe avere serie difficoltà nel valutare i danni che deriverebbero dal suo inadempimento e potrebbe trovare più conveniente ignorare l’informazione, e anche la decisione di differenziare le precauzioni per categorie di creditori potrebbe rivelarsi troppo costoso.
Possiamo quindi notare una notevole complessità di indagini necessarie per analizzare situazioni di contrattazione strategica; tuttavia l’indeterminatezza dei risultati derivanti dalla teoria dei giochi si fa meno preoccupante non appena si guardi all’attività di giudici e legislatori: la maggior parte delle regole contrattuali infatti sono caratterizzate da una notevole elasticità e attraverso il processo di interpretazione giudiziale poi è sempre possibile tenere conto del caso concreto.
Quindi il problema dell’incompletezza strategica, ovvero derivante da asimmetrie informative, è comunque un’ottima chiave di lettura per molte situazioni contrattuali.
4.4. RICONOSCIMENTO DELLE LACUNE E INTERPRETAZIONE
Dopo aver parlato dei criteri di selezione delle default rules ed aver sottolineato il notevole passo avanti fatto da quello della penalty default rule nel porre l’attenzione sull’aspetto dell’asimmetria informativa, merita trattare del riconoscimento delle lacune.
In questo ambito ruolo importante può essere svolto dall’interpretazione: negli ordinamenti occidentali vige il principio per cui i giudici non scrivono i contratti tra le parti; molte controversie sull’interpretazione hanno origine nell’incompletezza del contratto: attribuendo un significato alle clausole concordate dalle parti il giudice decide anche sull’esistenza o meno delle lacune. Primi ad occuparsi del riconoscimento delle lacune sono ancora una volta Xxxxx e Xxxxxxx:
per loro chiedersi se il contratto è incompleto vuol dire chiedersi se le parti hanno rispettato le condizioni per la modifica delle regole di default; se il giudice accerta che le parti non hanno voluto o potuto effettuare una modifica, il contratto sarà incompleto e dovrà essere integrato da una regola di default che egli dovrà selezionare. I due autori però trattano il problema concentrandosi principalmente solo su un aspetto: l’ostilità delle corti verso la modifica delle regole di default, e cioè il fatto che i privati pur avendo possibilità di redigere clausole difformi dalla disciplina vigente possano vedere vanificato tale obiettivo dall’interpretazione del contratto ad opera dei giudici; questo potrebbe fungere da disincentivo per le parti che vorrebbero modificare le regole legali. Perciò i due autori propongono, al fine di ridurre i costi derivanti dalla modifica delle default rules, che le corti indichino formule ed espressioni che una volta inserite nel contratto documentino in modo inequivocabile la volontà di sostituire le regole di default, ovvero identificare le ipotesi in cui esse rinunciano ad un integrazione del contratto dall’esterno; tale indicazione incentiverebbe il ricorso a soluzioni non convenzionali ogni volta che siano più efficienti della disciplina legale. Un approccio del genere però risponde solo in parte al problema del riconoscimento delle lacune: è difficile infatti che i giudici siano disposti a rinunciare in anticipo a non mettere in discussione determinate pattuizioni.
Ampia ricostruzione delle regole di interpretazione è fatta da Xxxxx Xxxxxx: per lui l’alternativa in generale si realizza tra regola di interpretazione letterale, che considera il significato risultante dal testo del contratto, e regola di interpretazione contestuale, che richiede un’indagine sul contesto in cui si svolge l’operazione. Il ricorso alla prima è ritenuto efficiente quando i contraenti sono operatori commerciali assistiti da legali: in queste ipotesi l’impiego di contratti dettagliati è abituale e quindi la ricerca di un significato diverso dal testo avrebbe dei costi superiori ai vantaggi dell’interpretazione letterale, che ridurrebbe i costi di giudizio (quindi il giudice sarà propenso a non integrare). Un’indagine sul contesto invece sarebbe opportuna quando il significato che le parti attribuiscono alle clausole è determinato dagli standard di comportamento di una determinata zona; in questo caso gli usi potrebbero utilizzarsi per interpretare un contratto incompleto. Ovviamente da questo non si deve ricavare che gli usi commerciali debbono essere sempre incorporati nei contratti da parte delle corti: è possibile infatti che le parti non vogliano attribuire rilevanza a certi usi oppure potrebbe darsi che i contraenti utilizzino un contratto che incorpora già prassi commerciali (in tale caso le corti
dovrebbero limitarsi a un’interpretazione letterale). Anche la classificazione proposta da Charny che separa le regole d’interpretazione in base alle categorie di contraenti cattura solo in parte il problema dell’interpretazione dei contratti incompleti: anche per i contraenti che sono operatori commerciali potrebbero esserci casi in cui l’interpretazione letterale non dovrebbe essere applicata, come ad esempio nel caso in cui l’incompletezza dipende dalla razionalità limitata; in questo caso tale tipo di interpretazione fungerebbe da penalty default rule, penalizzerebbe cioè le parti che non hanno espresso le loro intenzioni con abbastanza chiarezza. Nella classificazione di Charny l’interpretazione letterale si basa sul presupposto che contraenti sofisticati possano redigere contratti dettagliati con costi minori di quelli che dovrebbero affrontare i giudici per integrarli; se invece i costi di redazione del contratto sono elevati, sono necessarie regole d’interpretazione più articolate.
A questo proposito interessanti sono le riflessioni di Xxxx Xxxxxx: anche per lui l’alternativa è tra interpretazione letterale e interpretazione che fa leva su elementi extra testuali e i fattori cui secondo lui bisogna fare riferimento per scegliere l’una o l’altra sono i costi di redazione dei contratti e quelli di errori giudiziali.
Premettiamo che l’inserimento di ogni clausola in un contratto ha un costo e che quando i giudici adottano l’interpretazione letterale tutte le clausole inserite sono applicate senza possibilità di errore: i vantaggi di tale interpretazione sono evidenti quando i costi transattivi sono inferiori al valore delle clausole, gli svantaggi si hanno invece se i costi sono superiori al valore della clausola, cosa che porterà infatti le parti a non inserirla, senza poter però contare su un’interpretazione che legga il contratto come se quella clausola fosse presente. Vantaggi e svantaggi sono invece rovesciati nel caso in cui si utilizzi l’interpretazione extra testuale: il vantaggio in questa ipotesi si avrà se i costi transattivi sono superiori al valore della clausola perché l’intervento del giudice può consentire alle parti di raggiungere lo stesso risultato dell’impiego di un contratto più dettagliato mentre lo svantaggio ci sarà quando i costi sono inferiori al valore della clausola perché le parti possono inserirla ma corrono il rischio di un’interpretazione integrativa che disattenda le loro aspettative.
Il problema qui è che stabilire la superiorità dell’interpretazione testuale o extra testuale richiede un accertamento che si ottiene misurando le variazioni dei costi di redazione e del valore delle clausole, ma tali misurazioni sono difficili da effettuare.
Xxxxxx aggira il problema utilizzando degli indici esterni che sostituiscano la misurazione, proponendo di prendere in considerazione:
a) l’esperienza delle parti;
b) la complessità del contratto;
c) la novità del contratto.
I primi due elementi forniscono indicazioni sui costi di redazione10, il terzo elemento servirebbe a determinare la competenza dei giudici11. Questa classificazione fatta da Xxxxxx però incontra notevoli difficoltà nelle categorie di contratti più esposte all’incompletezza, come lui stesso sottolinea, ad esempio nei contratti relazionali di lungo periodo: qui la difficoltà di prevedere stati futuri del mondo induce a clausole generiche e alla periodica revisione delle obbligazioni, il contenuto delle prestazioni è determinato per lo più da accordi non inseriti nel contratto; vediamo così che in tal caso sono presenti sia elevati costi transattivi che elevate probabilità di errore nell’interpretare elementi extra testuali. Lo stesso Xxxxxx sottolinea che errori giudiziali sono possibili tanto con l’interpretazione letterale che extra testuale: nel primo caso l’errore consiste nel disapplicare una regola che anche se non inserita nel testo, consente di aumentare il valore di scambio; nel secondo consiste nell’applicare una regola extra testuale che diminuisce il valore di scambio.
Quali sono quindi le alternative a disposizione dell’interprete?
Possiamo fare una schematizzazione:
1) casi di incompletezza evitabile: il contratto è incompleto a causa della disattenzione o inesperienza delle parti, in tal caso i costi di redazione di clausole più dettagliate non sono proibitivi per cui vi si può porre rimedio avvalendosi di un consulente legale; sarà preferibile quindi adottare il criterio dell’interpretazione letterale che penalizza le parti e le incentiva ad adottare tutte le misure di salvaguardia che non hanno costi eccessivi.
2) casi di incompletezza da costi di informazione o decisione: se le informazioni non sono verificabili i giudici non hanno perfetta conoscenza dei fattori che dovrebbero guidare l’integrazione del contratto, tuttavia un’interpretazione extra testuale appare preferibile: è vero che un’indagine tale potrebbe concludersi con l’applicazione di una regola inefficiente, ma l’interpretazione extra testuale sembra
10 In generale la scarsa esperienza e l’impiego di un contratto complesso provocano
costi transattivi più alti.
11 La probabilità di errore è infatti più elevata quando i giudici devono interpretare contratti non convenzionali.
favorire la riduzione delle probabilità di errore poiché apre un processo di apprendimento, ad esempio l’indagine su usi commerciali; altro dato a favore è che l’opportunismo, che è uno dei principali inconvenienti dell’incompletezza, si manifesta con maggiori probabilità nel caso dell’interpretazione letterale, poiché la parte avvantaggiata da un evento imprevisto non deve far altro che invocare il rispetto del contratto.
3) casi di incompletezza strategica: anche qui l’estensione dell’indagine del giudice al contesto sembra il modo migliore per ridurre le probabilità di errore.
La portata concreta di tale schematizzazione dipende dalla possibilità di distinguere tra i vari tipi di incompletezza, compito che è molto difficile. Inoltre abbiamo visto che non è dato riscontrare una preferenza assoluta per l’uno o per l’altro tipo di interpretazione, ma solo una preferenza relativa in base alle differenti casistiche che di volta in volta si presentano.
4.5. IL RUOLO DELLE CLAUSOLE GENERALI COME METODO DI INTEGRAZIONE
Dopo aver parlato dei vari criteri di integrazione del contratto incompleto attraverso le default rules, è opportuno osservare come negli ultimi decenni si sia verificata un’ ascesa delle clausole generali (la buona fede in particolare) come possibili mezzi di integrazione. I comportamenti contrari a buona fede ed equità presentano infatti dei punti di contatto con le attività rientranti nella nozione di opportunismo e le regole ricavabili da tali clausole generali possono svolgere una funzione simile a quella delle default rules di fonte legislativa12.
Per vedere come concretamente una clausola generale, come la buona fede, sia un buon metodo per fronteggiare l’opportunismo è utile esaminare la giurisprudenza sullo scioglimento del contratto di apertura di credito bancario.
Nel contratto in questione, il fattore tempo incide sullo svolgimento di qualsiasi operazione di finanziamento ed espone le parti al rischio della variazione dei parametri economici, da cui dipende la restituzione della somma prestata; l’incompletezza si manifesta pertanto sul versante dei comportamenti richiesti al debitore. A tutto ciò si aggiunge la
12 Nel caso delle clausole generali infatti l’integrazione è giudiziale, a differenza di quello delle default rules dove l’integrazione avviene per mezzo di fonti legislative.
possibilità che il creditore si avvalga dei suoi diritti opportunisticamente.
Lo scioglimento del rapporto è la fase in cui il conflitto di interessi fra debitore e creditore si manifesta con maggiore chiarezza: la banca rivendica il diritto di recedere dal contratto e di chiedere la restituzione immediata del prestito non appena abbia notizia del pericolo di insolvenza; il debitore da parte sua utilizza l’apertura di credito per effettuare investimenti e non dispone di solito della liquidità necessaria per fronte alla richiesta di immediato rientro.
Gli orientamenti affermatisi sono generalmente favorevoli alle banche, ma in tempi recenti si è prospettata la possibilità che la decisione della banca di recedere sia sottoposta al controllo del giudizio di buona fede, proponendo anche di applicare la figura di abuso del diritto.
Punto di partenza per l’analisi della situazione italiana è l’art. 1845 cc. il cui primo comma stabilisce che la banca può recedere solo per giusta causa dall’apertura di credito a tempo determinato, ma ammette patto contrario; il secondo xxxxx invece distingue fra sospensione del credito, immediata, e restituzione delle somme utilizzate, per la quale si deve concedere un minimo di almeno quindici giorni. Nel caso di apertura a tempo indeterminato il recesso è sempre possibile, ma deve essere preceduto da un preavviso di quindici giorni, termine che è però derogabile dal contratto o dagli usi. Queste regole sono state applicate di rado dai giudici italiani.
Le norme bancarie uniformi, predisposte dall’ABI (Associazione Bancaria Italiana) e trasfuse nelle condizioni generali di contratto delle banche hanno introdotto una disciplina più favorevole di recesso per la parte creditrice: lo scioglimento è infatti ammesso in qualsiasi momento senza più distinguere tra aperura a tempo determinato e indeterminato, non richiede giusta causa, sospende immediatamente l’utilizzo del credito concesso ed è previsto un solo giorno di preavviso per la restituzione delle somme dovute. Allo stesso risultato é giunta la Cassazione negli anni quaranta applicando l’art. 1186 cc.: secondo la corte, la sopravvenuta insolvenza del debitore consentiva alla banca di esigere l’immediata restituzione e la giurisprudenza più recente ritiene addirittura che la disciplina convenzionale deroghi a tale articolo, ammettendo lo scioglimento anche in assenza delle condizioni che giustificano la decadenza del termine.
Risulta chiaro che i giudici italiani abbiano considerato dispositive le regole contenute nell’art. 1845 cc. e ritenuto legittimo l’esercizio del recesso senza giusta causa e con un preavviso minimo.
Un’osservazione più attenta dei precedenti in materia dimostra come in realtà i giudici si preoccupino di accertare la presenza di ragioni che giustifichino lo scioglimento; ad esprimere questa preoccupazione sono alcune pronunce che prospettano la possibilità di valutare la decisione di recedere alla luce del principio di buona fede, e anche se in nessuno dei casi l’esito è stato favorevole al debitore, il riferimento a tale principio segnala il tentativo di bilanciare l’interesse della banca a recuperare la somma prestata con quello del debitore (in particolar modo, l’imprenditore) a non vedersi privato dei mezzi necessari per la prosecuzione dell’attività. Tutto ciò potrebbe quindi rappresentarsi come un segnale della consapevolezza che in certe situazioni lo scioglimento assume i contorni dell’arbitrarietà.
Ma quali sono le circostanze che giustificano la limitazione del diritto di recesso?
Il riferimento alla figura dell’abuso di diritto suggerisce una contrapposizione tra interruzioni di credito che siano del tutto ingiustificate e interruzioni legittime a fronte del peggioramento delle condizioni finanziare del soggetto, ma questo potrebbe svuotare di significato il ricorso alle clausole generali: la casistica giurisprudenziale infatti evidenzia che il recesso si verifica di solito in presenza di circostanze che segnalano una difficoltà del debitore; se l’applicazione di tali clausole fosse limitata solo ai casi in cui queste circostanze sono assenti, la buona fede svolgerebbe solo un ruolo marginale.
Si deve perciò spostare l’attenzione sui conflitti di interessi che potrebbero spingere la banca ad esercitare recesso anche quando considerazioni legate alla massimizzazione del valore del prestito consiglierebbero di non interrompere i finanziamenti, perciò lo scioglimento dovrebbe essere impedito quando sia finalizzato a realizzare un trasferimento di ricchezza che pregiudica le finalità produttive del contratto.
Guardando all’esperienza americana, nel corso degli anni ottanta alcune pronunce favorevoli ai debitori diedero il via ad un intenso dibattito sul significato del principio di good faith nelle relazioni contrattuali tra banche e imprese; già all’inizio degli anni novanta si rilevava che l’applicazione di tale principio nel settore della responsabilità del prestatore non aveva prodotto esiti diversi da quelli in altri settori del diritto dei contratti; anche qui nella maggior parte dei casi l’esito giudiziale è stato favorevole ai creditori. Nonostante questo però il case law americano offre un’ampia rassegna di circostanze che
potrebbero favorire comportamenti opportunistici da parte delle banche; gli esempi più significativi sono:
- rifiuto di consentire accesso a fonti alternative di finanziamento;
- tentativo di interrompere il finanziamento di un progetto per investire in altri settori;
- esercizio di recesso per ragioni indipendenti dall’affidabilità del
cliente.
Ovviamente l’individuazione di tali situazioni non consente di stabilire dove stia la linea di confine tra legittimo esercizio del recesso e comportamento opportunistico; questo può essere fatto prendendo in considerazione la funzione della clausola che consente alla banca di interrompere il rapporto di credito. Dal punto di vista del creditore, il problema è evitare che il debitore gestisca la sua attività in modo da ridurre le probabilità di restituzione del prestito; la presenza di un prestito esterno spinge infatti il debitore a perseguire progetti con più alto valore atteso, sottovalutando però il rischio che l’investimento non vada a buon fine poiché le eventuali perdite vengono ripartite fra lui e il creditore. La possibilità della banca di chiedere l’immediata restituzione quindi le consente di tenere sotto controllo le scelte di investimento del debitore e la minaccia del recesso dovrebbe indurlo a perseguire progetti che hanno un minor valore atteso ma garantiscono un rimborso.
Da tutto ciò discende un giudizio sfavorevole al controllo delle cause di recesso: ricorrere alla clausola della buona fede, compromette la capacità della banca di influenzare le decisioni del debitore, tuttavia questo creerebbe un meccanismo per cui essendo probabile che il recesso sia dichiarato illegittimo, il debitore avrebbe incentivo ad effettuare investimenti troppo rischiosi, e l’ostacolo all’immediato recupero dato dall’intervento giudiziale porterebbe maggiori costi per le banche che si rifletterebbero sui tassi di interesse, finendo così per trasformare il tentativo di proteggere il debitore in un peggioramento delle sue condizioni per accedere al mercato del credito.
Secondo quanti respingono l’applicazione del principio di good faith nel settore in esame, le dinamiche dei rapporti di credito escludono un impiego distorto della discrezionalità da parte dei creditori: oltre al riferimento ai meccanismi di reputazione, che ridurrebbero il rischio di comportamenti scorretti, si fa leva sul fatto che nessun creditore rinuncia a finanziare un debitore con buone probabilità di tornare in attivo; in tale caso il recesso servirebbe solo a spingere il debitore verso altri finanziatori, perciò il danno derivante da un recesso arbitrario sarebbe limitato ai costi necessari per procurarsi un’altra
linea di credito. Questa ricostruzione suggerisce che i benefici derivanti da un esercizio opportunistico del diritto di recesso non sarebbero quasi mai sufficientemente elevati da indurre le banche ad approfittare della discrezionalità di cui dispongono. A questa conclusione possono muoversi due obiezioni:
1) la prima riguarda la descrizione del conflitto di interessi che contraddistingue i rapporti di credito;
2) la seconda riguarda le modalità di svolgimento delle relazioni tra banche e imprese nel sistema italiano.
Riguardo la prima obiezione, si è già detto che obiettivo del creditore è indirizzare il debitore verso investimenti che garantiscono la restituzione del prestito, ma questa strategia rischia di impedire lo sviluppo di progetti più rischiosi ma con maggiore valore atteso; un atteggiamento conservatore potrebbe anche essere favorito dalla presenza di garanzie: il creditore potrebbe limitarsi a controllare che il loro valore non scenda al di sotto della somma data in prestito, senza incentivare la crescita dell’impresa. Il conflitto di interessi descritto è presente in qualsiasi contratto di finanziamento: e il problema non è solo il fatto che in presenza di finanziatori esterni gli amministratori tendono ad effettuare investimenti troppo rischiosi, risolvibile sia fissando tassi d’interesse che scoraggino investimenti rischiosi sia favorendo la trasmissione di informazioni, ma anche il fatto che la concessione del credito è uno dei mezzi per trasferire il controllo dell’impresa; fin tanto che il debitore può far fronte ai suoi impegni il creditore non dispone di alcun potere di intervento sulla gestione dell’impresa, ma nel momento in cui il debitore diviene insolvente, è il creditore che decide se continuare a fargli credito o chiedere la liquidazione dell’impresa.
La possibilità che il controllo sia assegnato al creditore serve ad evitare che il debitore abusi dei suoi poteri di gestione, ma al tempo stesso il contratto non può descrivere ex ante gli stati che giustificano il trasferimento, perciò il creditore potrebbe chiedere la liquidazione anche in presenza di difficoltà finanziarie che non compromettono le prospettive di crescita in modo irreversibile. Questa possibilità che il controllo sia allocato in modo inefficiente lascia spazio alla rinegoziazione del rapporto: se le prospettive di crescita sono favorevoli, il creditore potrebbe rinunciare al diritto di recesso e stipulare un accordo che prevede ristrutturazione del debito o conversione in partecipazioni sociali. La probabilità di successo della rinegoziazione però dipenderà dall’informazione di cui dispone il
creditore: egli rinuncerà al diritto di recesso solo se riterrà che i futuri profitti ripagheranno il prestito.
Arrivati a questo punto possiamo affrontare la seconda obiezione: la facoltà di chiedere l’immediata restituzione del prestito dovrebbe servire ad evitare investimenti inefficienti degli amministratori; accertato che l’impresa è in crisi irreversibile, l’interruzione del finanziamento segnalerebbe che le risorse devono essere indirizzate verso impieghi più proficui; un intervento giudiziale che costringa la banca a giustificare la decisione, ridurrebbe l’efficacia di tale segnale. Ciò che viene lasciato in ombra da questa ricostruzione sono gli incentivi a svolgere una funzione di monitoraggio delle scelte imprenditoriali: la banca è infatti in grado di valutare in modo più accurato e con minori costi la situazione finanziaria della clientela, perciò la decisione di interrompere il finanziamento o rinnovarlo trasmetterebbe un segnale affidabile; tuttavia monitorare richiede un investimento di risorse che la banca potrebbe decidere di non effettuare, limitandosi ad interrompere il credito alla prima difficoltà e trasmettendo quindi un segnale sbagliato.
Tale scenario è importante per il sistema creditizio italiano, dove i rapporti tra banche e imprese sono stati per lo più ispirati al multiaffidamento, dove si riscontra la presenza di una banca leader che eroga la quota più consistente di credito e un certo numero di banche minori; la presenza di una pluralità di finanziatori riduce gli incentivi all’attività di monitoraggio poiché è dal comportamento delle altre banche, quella capofila in particolare, che si traggono le informazioni necessarie per valutare l’affidabilità del cliente, così che la banca potrebbe favorire la liquidazione dell’impresa anche quando abbia buone probabilità di recupero.
Le due obiezioni quindi ci consentono di avanzare dei dubbi sull’efficienza delle decisioni di recesso e consentono di ricavare indicazioni sugli spazi da assegnare al giudizio di buona fede.
Il conflitto di interessi tra la banca e l’impresa può verificarsi sia in condizioni di informazione completa che asimmetrica: nel primo caso la banca conosce le prospettive di crescita ma potrebbe preferire il recupero immediato di una somma leggermente inferiore al prestito; nel secondo la decisione di recedere si basa sui primi segnali di difficoltà, ma c’è il rischio che una crisi di liquidità venga scambiata per insolvenza irreversibile. In entrambe le ipotesi una facoltà illimitata di recesso realizza esiti inefficienti, perciò l’ambito di operatività della buona fede può essere individuato prendendo come riferimento l’ottimale allocazione del controllo nelle situazioni di
difficoltà finanziaria: dovrebbe essere illegittimo il recesso che compromette le prospettive di risanamento dell’impresa, perciò il trasferimento del controllo alla banca si può avere solo nei casi in cui il valore atteso degli investimenti è inferiore a quello di liquidazione.
Abbiamo visto sopra13come alcuni ritengano inopportuno l’intervento giudiziale sostenendo che il recesso ingiustificato imporrebbe al debitore solo i costi transattivi necessari per aprire una nuova linea di credito (nel caso di imprese con valore atteso positivo), ma tale osservazione appare infondata per due motivi: il recesso della banca segnala la scarsa affidabilità del debitore, i nuovi finanziatori non sono in grado di stabilire se il recesso è ingiustificato, perciò l’accesso a nuove fonti di finanziamento potrebbe essere impossibile a causa dell’asimmetria informativa. Altro motivo è che spesso la concessione di credito è accompagnata da garanzie (solo mezzo a disposizione delle imprese in crisi di liquidità per finanziare investimenti con valore atteso positivo) e in caso di recesso improvviso, la mancanza di esse potrebbe impedire al debitore di ottenere credito altrove.
L’intervento giudiziale a fronte di tutte queste considerazioni quindi potrebbe essere utile per innescare un circolo virtuoso, incentivando la banca ad assumere maggiori informazioni sulle condizioni delle imprese e ridurre il rischio di liquidazioni premature, poiché il controllo di buona fede impone loro di motivare la decisione del recesso. A segnalare al giudice le reali motivazioni di recesso ci sono vari indici indiretti: ad esempio nel caso di apertura di credito a tempo determinato il recesso dovrebbe considerarsi legittimo solo se la situazione finanziaria del debitore ha subito mutamenti importanti, dato che la banca si è impegnata a garantire il finanziamento per un certo periodo. E’ chiaro che individuare comportamenti opportunistici da parte dei giudici richiede accertamenti complessi, ma i costi sociali che tali comportamenti provocano fanno ritenere che la maggiore incertezza sull’esito dei giudizi è comunque compensata dai vantaggi di una allocazione migliore delle risorse.
4.6. IPOTESI DI COMPLETAMENTO NEL CASO DI INCOMPLETEZZA DELIBERATA
Dopo aver parlato dell’incompletezza subita e delle conseguenze che comporta, dall’integrazione mediante le default rules, i criteri per la loro selezione e la verifica della presenza di lacune (affermata o negata
13 Vedi pag. 23-24.
sulla base delle tipologie di interpretazione), veniamo adesso a parlare dell’altra tipologia di incompletezza e sicuramente più interessante, quella deliberata. Xxxxxxx già accennato al fatto che l’incompletezza non deve essere vista in un’accezione negativa e che, dal punto di vista economico almeno, tutti i contratti sono “incompleti”; l’incompletezza in certe situazioni può essere uno strumento utile per le parti per fronteggiare adeguatamente situazioni di cui non possono avere una completa e adeguata conoscenza al momento della conclusione del contratto.
Abbiamo già sottolineato che l’integrazione del contratto incompleto con regole dispositive è pressoché automatica; le parti che quindi non gradiscono la soluzione legislativa, dovranno concordare soluzioni diverse. Potrebbe però accadere che al momento della conclusione le parti non siano in grado di accordarsi sulla sostituzione della regola legale, perché non possono o non vogliono indicare elementi importanti; in questo caso è comunque importante che per evitare l’integrazione legale prevedano la possibilità di un completamento ex post del contratto. In questo modo esse vanno così a concludere un contratto “deliberatamente” incompleto che rinvia la determinazione di un aspetto ad un futuro accordo o ad un’altra modalità, così da poter sfuggire alla regola legale anche quando non è possibile immediatamente sottoscrivere una regola diversa.
Stessa cosa si può dire per il caso dell’incompletezza successiva, cioè nel caso in cui le parti abbiano inizialmente fatto una determinazione del contenuto ma l’abbiano sottoposta a condizione o termine; in tal caso le lacune emergeranno successivamente e anche in questo caso le parti dovranno esplicitamente manifestare la volontà di non integrazione automatica del contratto ad opera di norme dispositive.
Quali sono le modalità di determinazione successiva del contratto incompleto?
Se ne identificano tre tipi:
a) determinazione del terzo;
b) determinazione consensuale delle parti (accordo);
c) determinazione unilaterale.
Esistono poi delle figure cd. xxxxxx, riguardo le quali si può discutere
della riconducibilità all’una o l’altra modalità pura:
d) clausole di adeguamento “manipolabili” da un contraente;
e) clausole attributive del potere di determinazione unilaterale, che assegnano alla controparte il diritto di recedere.
La determinazione ad opera del terzo è la figura più studiata e nota, trovando anche riconoscimento del cc, art. 1349; il ricorso al terzo
permette alle parti di risolvere un conflitto di interessi senza incorrere in un costo transattivo eccessivo, presuppone o il fatto che le parti non abbiano informazioni su fatti rilevanti ai fini della determinazione del regolamento contrattuale o che esse abbiano difficoltà ad accordarsi. Tuttavia un ricorso al terzo non è possibile se le informazioni necessarie non sono da lui verificabili (es. asimmetrie informative tra le parti e i terzi); in tali casi le parti dovrebbero preferire una determinazione consensuale.
Il ruolo del terzo ai sensi dell’art.1349 cc è ovviamente diverso da quello che egli riveste quando giudica una controversia tra privati: quest’ultimo è il caso dell’arbitrato, dove il terzo ha una funzione giurisdizionale; nel primo caso invece si parla di arbitraggio, in cui il terzo procede a completare un accordo che presenta un contenuto lacunoso, ha cioè una funzione completiva che svolge su incarico delle stesse parti. Tale ricostruzione non muta se la determinazione del terzo è richiesta non come modalità immediata ma come alternativa, ovvero nel caso in cui falliscano altre procedure determinative; anche qui infatti il terzo provvede a determinare il regolamento contrattuale prevenendo un conflitto tra le parti, detta la sua regola, e non indica quale parte ha ragione, come invece fa l’arbitro. Un problema nell’ipotesi della determinazione del terzo in caso di altre trattative fallite potrebbe essere l’interpretazione della clausola con cui le parti si rimettono ad esso in caso di insuccesso, se essa preluda ad un arbitraggio o introduca un giudizio arbitrale: si ritiene che il dubbio possa essere sciolto con l’osservazione che il deferimento convenzionale del potere determinativo al terzo escluda la possibilità di considerarlo arbitro, bensì arbitratore.
C’è da precisare infine che la determinazione del terzo può colmare tanto una lacuna iniziale che successiva alla conclusione del contratto. Venendo al secondo tipo di determinazione, le parti possono prevedere un completamento del contratto basato su un loro accordo successivo, sia nel caso che lacuna sia iniziale, sia nel caso che sia successiva, il cd. accordo di rinegoziazione e/o hardship. Il termine rinegoziazione va ad identificare sia il procedimento che si apre sia il risultato cui le parti pervengono.
Clausole di hardship e clausole di rinegoziazione non sono clausole coincidenti: nelle prime le parti stabiliscono che al sopravvenire di certi eventi di carattere imprevedibile o incontrollabile ognuna di esse possa chiedere una modifica consensuale; queste clausole possono essere generiche o specifiche e si può prevedere che al momento della sopravvenienza la parte colpita possa sospendere l’esecuzione della
prestazione. Di solito poi, si stabilisce che qualora non si riesca a giungere ad una modifica consensuale, spetti al terzo adeguare il contratto tenendo conto delle sopravvenienze. Nel secondo tipo di clausole invece non si presuppone un’alterazione fondamentale dell’equilibrio contrattuale, perciò esse hanno una più vasta applicazione e corrispondo più ad un’esigenza di pianificazione dell’esecuzione nel tempo; come quelle di hardship, le clausole di rinegoziazione possono prevedere che in caso di disaccordo sulla modifica il potere di determinazione sia attribuito ad un terzo.
Anche la determinazione consensuale ha pro e contro: consente più di altre modalità di conservare una regolamento contrattuale soddisfacente e aumenta il clima di fiducia all’interno della relazione, in più è un ottimo metodo nel caso in cui ci siano informazioni osservabili tra le parti ma non verificabili dai terzi. Tuttavia può ridurre il livello di completezza economica, poiché la possibilità di riaprire le trattative può indurre le parti a non anticipare circostanze che però potrebbero essere contrattate senza grandi sforzi; inoltre potrebbe accrescersi il rischio di comportamenti opportunistici delle parti, che possono portare alla mancata conclusione dell’accordo, ma la previsione del ricorso in seconda battuta a terzi arbitratori fa da argine. Tale tipo di determinazione pone diversi interrogativi giuridici: il primo è il perfezionamento del contratto deliberatamente incompleto qualora la determinazione successiva debba avvenire consensualmente; il secondo è se il contratto da determinare successivamente sia valido secondo i requisiti di determinatezza e determinabilità dell’oggetto.
Il terzo modo di determinazione successiva del contratto è quello della determinazione unilaterale: in questo caso viene conferito ad uno dei contraenti il potere di determinare unilateralmente il contenuto; tale soluzione è preferibile in certi tipi di operazioni economiche.
L’utilità di questo strumento è visibile nell’art. 1711 cc.14 sul mandato, dove si riconosce al mandante il potere di fornire istruzioni e al mandatario quello di discostarsi da esse solo in virtù di certe circostanze; possiamo poi ritenerla una modalità che incentiva parti avverse al rischio a concludere un contratto15. Altri due esempi in cui tale tipologia di determinazione può essere utile sono la gestione di operazioni economiche caratterizzate da investimenti specifici
14 Cfr. FICI, Il contratto “incompleto”, 55.
15 Cfr. FICI, Il contratto “incompleto”, 55-56.
unilaterali o bilaterali ma asimmetrici16 e situazioni dove la modifica nel corso del rapporto sia una necessità dipendente da fattori esterni rendendo superfluo un accordo per la modifica.17
Come per tutte le altre modalità anche questa può intervenire nel caso di incompletezza iniziale o successiva18.
Il problema preliminare che la determinazione unilaterale va a destare è quello della sua ammissibilità al di fuori delle ipotesi in cui non sia oggetto di specifica previsione; risolta affermativamente questa questione si pone quella dell’abuso di tale forma determinativa e dei rimedi a disposizione del contraente che ne è vittima: l’efficacia di tale strumento dipende infatti dal controllo sul suo abuso19.
Passando alle cd. forme ibride, una prima forma è quella delle clausole di adeguamento manipolabili da un contraente: tali tipi di clausole sono al confine tra rendere un contratto incompleto o renderlo flessibile20. Possiamo fare l’esempio di clausole che calcolano il corrispettivo di una somministrazione sulla base dei costi di produzione del somministrante, rimanendo però egli libero di decidere quanto e come produrre; il risultato è lo stesso della determinazione unilaterale, anche se le sembianze sono quelle di una clausola di adeguamento automatico, perciò debbono considerarsi clausole di apertura di un contratto deliberatamente incompleto.
L’altra forma ibrida è quella della determinazione unilaterale con possibilità di recesso alla controparte: tale figura è autonoma rispetto alla semplice determinazione unilaterale, poiché in questo caso non abbiamo un diritto potestativo in capo alla parte a cui viene conferito tale potere, bensì un diritto di proposta; la proposta però può essere solo accettata o rifiutata dall’altra parte, che esercita un eventuale rifiuto tramite il recesso.
Questa procedura di determinazione si pone quindi a metà strada tra accordo e determinazione unilaterale.
5. PROBLEMI DI PERFEZIONAMENTO E VALIDITA’ DEL
CONTRATTO DELIBERATAMENTE INCOMPLETO
16Una parte in questo caso si troverebbe maggiormente esposta al rischio di comportamenti opportunistici; lo ius variandi consentirebbe perciò di tutelare investimenti specifici.
17 Un esempio sono contratti bancari rispetto alle variazioni di tassi d’interesse, quando queste dipendano da interventi regolatori delle autorità competenti; una rinegoziazione bilaterale avrebbe solo costi inutili.
18 In quest’ultimo caso si parla di ius variandi.
19 Di ciò parleremo meglio in seguito.
20 Cfr. Cap. I, par. 2, pag. 5.
Uno degli interrogativi che il contratto deliberatamente incompleto solleva è se la presenza di una lacuna e il rinvio alla successiva attività determinativa renda comunque il contratto un “vero” contratto o lo configuri piuttosto come una fattispecie in via di formazione. Come criterio per stabilire se il contratto sia concluso o meno potremmo prendere in considerazione la volontà delle parti di vincolarsi: se le parti hanno manifestato tale intenzione avremo un contratto concluso, se non la hanno manifestata avremo solo un’intesa precontrattuale.
Si sono però avanzati dei dubbi sul rapporto tra incompletezza del contenuto e volontà delle parti di vincolarsi, cioè se la mancanza di un certo tipo di contenuto renda il contratto comunque non perfezionato. Il caso di un contratto preceduto da trattative, cioè a formazione progressiva, è il caso che si realizza più frequentemente rispetto a un contratto a formazione cd. istantanea (dove trattative non sono presenti); in presenza di contenuti di contratto complessi le trattative potrebbero essere molto ampie e potrebbe essere difficile stabilire se il procedimento di formazione si sia concluso.
In dottrina si è discusso quindi della possibilità di fissare una soglia di determinazione del contenuto superata la quale la conclusione del contratto è considerata avvenuta in assenza di chiara volontà contraria delle parti; perciò il mancato accordo su un “contenuto minimo essenziale” renderebbe il contratto non perfetto.
Vi fu una disputa tra due autori riguardo una distinzione tra elementi essenziali e accidentali come fattori rilevanti in punto di formazione del contratto: Scialoja negava l’importanza di tale distinzione, ritendo che per le parti anche un elemento accidentale potesse avere un valore decisivo, per Xxxxxxxxxx invece tale distinzione sarebbe importante perché molto spesso le parti si accordano su punti essenziali (contenuto minimo) ed è in questo momento che il contratto nasce; possono poi successivamente disciplinare punti accessori per completare il regolamento. Lo stesso autore però precisa che ritenere sufficiente l’accordo sui punti essenziali per considerare il contratto concluso è sbagliato, poiché le parti possono attribuire importanza agli elementi accessori in due modi: o subordinando la conclusione del contratto all’accordo raggiunto anche su essi, o subordinando l’efficacia del contratto già concluso al successivo accordo sui dettagli. Perciò, il contratto nasce con l’accordo sugli elementi essenziali solo se le parti rimangono silenti sugli elementi accessori.
In questa teoria possiamo rinvenire il germe della futura commistione (anche se Xxxxxxxxxx non confonde) tra profili di conclusione e aspetti contenutistici del contratto.
Ma è davvero necessario porre un preliminare problema di avvenuta conclusione per il contratto deliberatamente incompleto?
In realtà, no: l’aspetto determinante della formazione del contratto va ricercato nell’accordo e non nel contenuto, senza distinguere tra elementi essenziali e non, né tra maggiore o minore incompletezza. Non si deve fare confusione tra accertare se e in che momento il contratto è concluso in assenza di un’indicazione chiara delle parti e discutere del contenuto lacunoso di esso e dei criteri di completamento: nel primo caso siamo nell’ambito della conclusione e dobbiamo guardare alla loro volontà di vincolarsi, nel secondo siamo di fronte a problemi di costruzione di un regolamento contrattuale di un contratto già concluso, cioè della sua validità e efficacia.
Perciò il criterio menzionato in apertura del paragrafo è quello da considerare: è la comune intenzione delle parti di vincolarsi, anche se con riserva di trattare o definire alcuni elementi del contenuto, che determina l’avvenuta conclusione del contratto, perché anche qui c’è un accordo e un oggetto, cioè di non determinare subito il contenuto. Possiamo trovare conferma di ciò sia nei Principi Unidroit21, che in quelli di diritto europeo22.
Quanto detto finora riguarda il contratto originariamente incompleto; una questione di avvenuta conclusione non si pone invece nel caso di un’incompletezza successiva perché in tal caso il contratto ha inizialmente contenuto determinato, benché non definitivamente.
Dubbi sull’avvenuta conclusione sono stati però sollevati facendo leva sull’incertezza della successiva determinazione, e questo riguardo a tutte le modalità di determinazione successiva.
Rispetto alla determinazione del terzo, dubbi sono stati sollevati sul caso di arbitraggio secondo mero arbitrio, poiché l’art. 13492 cc. stabilisce che “se manca la determinazione del terzo e le parti non si accordano per sostituirlo, il contratto è nullo”; tale tipo di contratto è perciò considerato a fattispecie incompleta.
Rispetto alla determinazione unilaterale secondo mero arbitrio, la dottrina ritiene che non si possa deferire la determinazione al mero arbitrio di una parte sulla base del fatto che il contratto non è considerabile come concluso.
Tali posizioni non possono essere condivise: l’incertezza della determinazione è elemento che non può riflettersi sull’esistenza del contratto, in quanto essa dipende dalla volontà delle parti di vincolarsi.
21 Art. 2.14
22 Art. 2:101, par.1, lett. a, art 2:103, par. 2
Guardando meglio l’art.1349 , il cc dispone la nullità in caso di mancata determinazione del terzo e tale sanzione presuppone l’avvenuta conclusione del contratto; inesistenza e nullità sono cose ben diverse.
Di mancata conclusione si parla anche quando le parti si siano rimesse ad un loro accordo successivo per determinare un elemento mancante: se tale posizione fosse fondata sull’opinione che la riserva di ulteriori trattative ostacolerebbe in ogni caso alla conclusione incorrerebbe nelle obiezioni fatte in precedenza; se utilizzasse l’argomento dell’incertezza incontrerebbe invece le stesse critiche mosse alla ricostruzione del contratto con clausola di arbitraggio secondo mero arbitrio come fattispecie incompleta. Perciò anche per tale ipotesi rimane valida l’attenzione all’accordo di vincolarsi.
Oltre al problema della conclusione del contratto, è necessario affrontare quello della validità del contratto deliberatamente incompleto; l’indagine va effettuata rispetto ad ogni modalità di determinazione successiva.
Principale elemento cui bisogna guardare è la determinatezza o determinabilità dell’oggetto ex art. 1346 cc.: cominciamo col dire che, per definizione, il contratto deliberatamente incompleto non ha contenuto inizialmente determinato.
Da un lato il fatto che l’art. 1346 cc parli di un oggetto anche solo determinabile al momento della conclusione legittimerebbe in via generale l’incompletezza deliberata, perché c’è un oggetto che non è determinato ma sarà determinabile ex post; dall’altro è proprio l’elemento della determinabilità ad essere un limite al contratto deliberatamente incompleto perché tutto dipende da come viene interpretata la nozione di determinabilità.
Se la determinatezza assume ruolo secondario ai fini dell’art.1346 cc. dal momento che per stipulare un contratto valido basta la determinabilità, non è detto che altre diposizioni non richiedano ai fini della validità stessa la determinazione ex ante di certi elementi: si allude in generale alla necessità che la causa risulti immediatamente dal regolamento contrattuale affinché il contratto sia valido; in particolare al fatto che per certe operazioni, il legislatore richiede la determinatezza.
Di limiti generali all’attività determinativa si è parlato riguardo i confini del potere determinativo del terzo arbitratore : l’art.1349 cc. fa espresso riferimento alla prestazione, ma è ovvio che il potere va oltre essa; parte della dottrina ha correttamente ritenuto che il potere del terzo non si possa spingere fino alla completa sostituzione delle parti
nella determinazione del contenuto, perciò ad esso non potrebbero deferirsi determinazione della causa, in quanto la sua assenza produce invalidità. Tali conclusioni sull’arbitraggio possono estendersi anche alle altre modalità di determinazione fatte secondo tale metodo.
Di limiti particolari fissati dal legislatore per particolari obiettivi si è parlato riguardo quei casi in cui egli prescrive la determinazione ex ante del contenuto o di certi elementi, o circonda di particolari cautele gli accordi di rinvio a determinazione successiva, o vieta alcune modalità di determinazione o appone limiti quantitativi all’attività determinativa. Queste sono tutte posizioni da cui si deduce che, se il legislatore non stabilisce diversamente, il contratto deliberatamente incompleto e le sue modalità di determinazione sono pienamente ammissibili e validi.
Xxxxxxx chiedersi dunque se la successiva determinazione del contratto nelle tre modalità previste (terzo, consensuale, unilaterale) rispetti il requisito della determinabilità dell’oggetto: il primo problema è capire se il requisito della determinabilità sia soddisfatto dal rinvio ad una successiva attività determinativa: il secondo è se le caratteristiche di tale attività, ovvero l’incertezza nell’an e l’imprevedibilità del quantum, siano elementi di rilevanza nel giudizio sulla determinabilità dell’oggetto.
Riguardo il primo problema la risposta è positiva: il rinvio ad una successiva attività determinativa rende l’oggetto determinabile e a tal proposito si distingue tra determinabilità in senso lato (relatio formale) che si ha quando l’oggetto debba determinarsi con una pura operazione di calcolo e determinabilità in senso stretto (relatio sostanziale) che si ha quando la determinazione richiede una “attività” vera e propria; si ritiene che solo quest’ultima sia quella cui si riferisce l’art. 1346 cc. poiché nella prima ipotesi l’oggetto più che determinabile è determinato.
Il secondo problema invece è più complesso, in quanto l’elemento di incertezza dell’an e imprevedibilità del quantum spesso fa concludere in alcuni casi che il contratto incompleto non abbia un oggetto determinabile e fa ritenere inammissibili alcune forme di determinazione unilaterale e consensuale.23
A tale proposito significativa è la decisione n.11003 dell’ 8 Novembre 1997 della Cassazione, che ha sostenuto l’invalidità per
23 Perciò va bene che il contratto stabilisca una successiva attività determinativa, cosa che soddisfa il requisito della determinabilità dell’oggetto, ma bisogna poi andare a guardare quanta incertezza nell’an e nel quantum essa lascia e se non renda alla fine l’oggetto indeterminabile.
indeterminabilità dell’oggetto della clausola attributiva di uno ius variandi illimitato (cioè rimesso al libero arbitrio del contraente): secondo essa se può ammettersi l’affidamento della determinazione ad una delle parti in base al criterio dell’equo apprezzamento, la stessa facoltà non può essere data alla parte se rimessa al suo libero arbitrio; tale tipo di determinazione è infatti giustificabile solo con riferimento al terzo perché l’ordinamento ne presume la neutralità e quindi una determinazione secondo mero arbitrio è un’ipotesi eccezionale giustificabile solo in relazione alla sua imparzialità. Da tale decisione deduciamo al contrario che una determinazione unilaterale rimessa all’equo apprezzamento è valida dal punto di vista della determinabilità dell’oggetto.
Nella stessa direzione va un’altra decisione della Cassazione, la n. 873 del 14 Febbraio 1986, riguardante però una successiva determinazione consensuale: in tal caso la Corte ritenne valido il contratto di compravendita in cui le parti avevano rinviato ad un successivo accordo la determinazione del prezzo, a patto che fossero prefissati criteri che consentissero in caso di dissenso l’intervento suppletivo del giudice. In tale decisione non assume rilevanza, come nell’altra, l’incertezza del quantum della determinazione, bensì dell’an. Perciò la Suprema Corte sostiene che il requisito di determinabilità debba essere inteso in senso meno ampio nel caso di determinazione successiva consensuale.
Gli elementi che le due decisioni mettono in evidenza sono quindi:
1) individuazione del requisito della determinabilità dell’oggetto come parametro per giudicare l’ammissibilità della determinazione unilaterale o consensuale;
2) introduzione nel giudizio di determinabilità dell’incertezza sia nel quantum che nell’an;
3) diversità di obiettivi: per la prima la tutela di un contraente contro eventuali abusi dell’altro, per la seconda la possibilità che non siano conclusi contratti destinati a rimanere inoperativi;
4) messa in secondo piano dell’arbitraggio e considerazione di esso
come mezzo eccezionale.
Questi sono gli argomenti con cui ci dobbiamo confrontare e per questo può essere significativo richiamare la vicenda della fideiussione omnibus anteriormente alla modifica ex art. 1938 cc., che porta a conclusioni diverse rispetto alle due decisioni esaminate.
Anzitutto, per fideiussione omnibus si intende il contratto con cui il fideiussore garantisce personalmente tutte le obbligazioni che il debitore garantito assumerà verso un istituto di credito (creditore); esso
è un contratto deliberatamente incompleto perché le parti stipulano una fideiussione con oggetto inizialmente indeterminato ma determinabile ex post e continuativamente sulla base delle obbligazioni che il debitore garantito assumerà o del credito che verrà concesso. Lo schema è quello di una clausola di adeguamento automatico manipolabile da un contraente.
Il fatto che si abbia un contratto incompleto e la sua determinabilità successiva sia sostanzialmente unilaterale ha posto questa tipologia contrattuale al centro di dibattito. I giudici hanno sempre affermato la validità della fideiussione omnibus affinando sempre di più le loro opinioni: in una prima fase ne hanno affermato la validità in relazione al fatto che il suo oggetto è determinabile per relationem alle somme per cui il creditore fa credito al debitore garantito; tali decisioni presumono una nozione letterale di determinabilità (determinabile è ciò che può essere determinato) e non considerano il fatto dell’unilateralità della determinazione24.
In una seconda fase invece l’interrogativo è se la presenza di una disposizione come l’art. 1349 cc. dove si contempla la determinazione successiva del terzo, non escluda altre forme di determinazione successiva, come quella unilaterale, perché non previste dal legislatore; la questione è risolta ritenendo che la disposizione in questione non sia tassativa ma semplicemente esemplificativa, ribadendo la legittimità della determinabilità per rinvio alla condotta del creditore. Si sottolinea poi, riguardo al quantum della determinazione, che il fideiussore non debba necessariamente conoscere o immaginare il debito garantito, basta che sia presente il criterio di determinazione che le parti hanno convenuto25.
Nella terza fase si introduce un aspetto ulteriore: la tutela del fideiussore contro abusi del creditore, vista l’ampiezza dell’oggetto e il fatto che tale soggetto, concedendo credito, potrebbe aggravare la posizione del garante; nonostante tali rilievi la Cassazione conclude comunque per la validità della fideiussione. La Suprema Corte distingue tra la validità in astratto e a priori della fideiussione omnibus, indiscutibile per il fatto che il suo oggetto è determinabile per relationem, e l’efficacia in concreto e a posteriori di essa in presenza di comportamenti abusivi della banca: in questo caso infatti è la buona fede che integra il contenuto del contratto in fase di esecuzione, vero limite operativo della fideiussione omnibus26.
24 Cfr. Cass., n.3037, 29 Ottobre 1971.
25 Cfr. Cass., n.6656, 1 Agosto 1987.
26 Cfr. Cass., n. 3362, 18 Luglio 1989.
Che cosa emerge da tutta questa vicenda? In primo luogo, vediamo che viene utilizzata una nozione di determinabilità in senso letterale: l’oggetto è determinabile se è prevista la modalità di determinazione nel contratto, il quantum è considerato irrilevante; in secondo luogo la determinazione unilaterale è contemplata come modalità di determinazione successiva dell’oggetto, cui le parti possono ricorrere in alternativa alla determinazione del terzo; in terzo luogo, la questione della tutela del contraente contro abusi è spostata in sede di controllo ex post, attraverso la clausola della buona fede.
L’art. 1938 cc. è stato modificato dalla l.154/1992, che ha consentito la fideiussione per obbligazioni future a patto che sia fissato un importo massimo garantito; in questo caso il legislatore ha ritenuto opportuno porre un limite all’autonomia privata, facendo si che adotti un regolamento almeno in parte completo, ma tale art. dimostra a contrario che in assenza di limiti particolari le parti sono libere di adottare regolamenti anche molto incompleti.
Dall’analisi delle varie decisioni possiamo notare che sono state offerte due interpretazioni di determinabilità: una letterale e una funzionale. La prima intende la determinabilità come possibilità di determinazione ex post, per la quale è sufficiente una previsione delle modalità con le quali deve essere effettuata ovvero che i contraenti specifichino come l’oggetto sarà successivamente determinato. La seconda introduce nella valutazione di determinabilità la verifica ex ante della certezza della successiva determinazione e prevedibilità dei suoi contenuti, ed è finalizzata ad impedire la nascita di contratti che portano in sé la propria fine.
A seconda dell’interpretazione che si accoglie si ampliano o si restringono i confini dell’autonomia privata sulla possibilità di concludere contratti deliberatamente incompleti poiché se si applica la prima un contratto di tale genere sarebbe sempre valido, bastando la mera previsione delle modalità di determinazione (da parte del terzo, consensuale o unilaterale); se si applica la seconda invece il contratto non sarebbe sempre valido perché la successiva determinazione consensuale renderebbe incerta la successiva determinazione in quanto le parti potrebbero non raggiungere un accordo, e la successiva determinazione unilaterale secondo mero arbitrio invece renderebbe imprevedibile il quantum.
La dottrina maggioritaria si attesta sull’interpretazione letterale e perciò possiamo in conclusione dire che il contratto incompleto è valido sotto il profilo della determinabilità dell’oggetto del contratto poiché tale requisito va valutato prescindendo da incertezza e
imprevedibilità della successiva determinazione, basta solamente che le parti abbiano indicato la modalità con cui giungere alla determinazione successiva. I motivi a sostegno di tale affermazione sono vari: riguardo la certezza della determinazione, la determinabilità così intesa non mina la garanzia di serietà dell’impegno: infatti il contratto deliberatamente incompleto consente di perseguire interessi che l’autonomia privata non potrebbe realizzare in altri modi o realizzerebbe meno efficacemente, perciò chi conclude contratti di tal genere vuole vincolarsi ad essi. L’incertezza dell’an è un rischio che i contraenti assumono consapevolmente e che peraltro è un elemento di ogni contratto incompleto a prescindere dalla modalità di determinazione successiva prescelta: anche il contratto con clausola di arbitraggio secondo mero arbitrio infatti può portare con sé la propria fine qualora il terzo non effettui la determinazione e le parti non si accordino per sostituirlo, ma tale fattispecie è legislativamente prevista. La previsione di nullità prevista in questo caso come sanzione per mancata determinazione poi non colpisce un atto viziato dall’inizio ma lo priva di efficacia perché non più in grado di funzionare; in più, ciò che scatena la nullità non è la direttamente la mancata determinazione del terzo, ma il mancato accordo per la sua sostituzione.
Non si comprende poi perché non si debba ammettere l’esistenza di un contratto che porta in sé la sua nullità, dato che essa è solo eventuale, e svolge nel caso della mancata determinazione successiva ruolo analogo ad una condizione risolutiva (che non rende mai un contratto nullo).
Riguardo l’imprevedibilità dei contenuti della determinazione, anzitutto possiamo dire che se il quantum è un minus rispetto all’an possiamo fare per esso le stesse considerazioni fatte per l’an; inoltre, l’incertezza del contenuto delle prestazioni è un elemento fisiologico dei contratti aleatori, la cui validità non è minimamente posta in discussione e il riconoscimento legislativo di un’aleatorietà convenzionale a maggior ragione porta a negare rilevanza alla prevedibilità dei risultati ai fini della validità del contratto. Per ultimo, questa idea che la prevedibilità rilevi ai fini della validità è avvertita in presenza di contratti dove si prevede una determinazione unilaterale per la quale non sono previsti criteri oggettivi né limiti quantitativi ed è necessario quindi tutelare il contraente esposto a tale determinazione; tale protezione però può essere realizzata non necessariamente ex ante applicando regole di validità, ma anche ex post mediante regole di responsabilità.
L’ultima cosa che dovrebbe realizzarsi poi sarebbe quella di assumere un atteggiamento meno severo rispetto al mero arbitrio, dato che è questo a far dubitare talvolta sulla validità di modalità di determinazione che sono considerate valide se invece seguono il criterio dell’equo apprezzamento.
Può essere utile a questo proposito l’esame dell’art.1349 cc. poiché indica tali due criteri per la decisione del terzo, e può aiutare a capirne la differenza.
Inizialmente nell’equo apprezzamento si identificava l’apprezzamento di una persona equilibrata e saggia (c.d. uomo medio) che tenga conto del caso singolo e nel mero arbitrio l’apprezzamento determinato da criteri puramente soggettivi e del tutto incontrollabile del terzo.
La nozione di mero arbitrio è stata poi rivisitata, così da giungere ad una diversa ricostruzione dei rapporti tra i due criteri: il mero arbitrio infatti non va accostato al capriccio, perché il terzo si deve comunque attenere alle regole di diligenza e correttezza, perciò anche il giudizio secondo mero arbitrio è un giudizio serio; ovviamente tale rivisitazione non annulla le differenze tra i due criteri, che non permangono solo riguardo il regime delle impugnazioni: nel caso dell’equo apprezzamento infatti il terzo non può discostarsi da tale criterio nell’assunzione della decisione, diversamente dal mero arbitrio, dove il terzo è libero di scegliere il criterio che ritiene più opportuno, ma non è certamente autorizzato a decidere irragionevolmente.
C’è poi una diversità nella disciplina codicistica: se manca la determinazione del terzo secondo mero arbitrio e le parti non si accordano per sostituirlo, il contratto è nullo; se invece manca quella secondo equo apprezzamento, è fatta dal giudice, senza che le parti abbiano prima tentato di accordarsi su un nuovo terzo. L’intervento da parte del giudice nel caso del mero arbitrio non è accettabile, data la particolare fiducia che in questo caso le parti ripongono nel terzo affidandogli addirittura la libertà di scelta del criterio; emergono perciò due figure di terzo: quello fungibile, nel caso il criterio sia l’equo apprezzamento, e quello infungibile, nel caso il criterio sia invece il mero arbitrio.
Esaurito l’argomento della validità del contratto deliberatamente incompleto in relazione alle varie modalità di determinazione successiva, dobbiamo precisare che la modalità di determinazione unilaterale in particolare è stata al centro di dibattito anche per altri profili.
Parte della dottrina ha infatti ritenuto la clausola attributiva di tale
potere incompatibile col principio dell’accordo come fonte di tale
regola contrattuale, ai sensi degli artt. 1321, 1325 e 1372 cc.: si potrebbe obiettare che nel caso di ius variandi convenzionale la bilateralità del consenso non è violata in quanto sussiste un accordo “a monte” secondo lo schema dell’art. 1349 cc., ma tale obiezione viene respinta negando l’estensione in via analogica di tale art. alla determinazione unilaterale per due motivi:
1) che l’art. 1349 cc. fa esclusivo riferimento al terzo, e ciò farebbe
supporre che il legislatore ha voluto vietare un “arbitraggio di parte”;
2) la ratio dell’art.1349 xx. xx xxxxx xxxx’xxxxxxxxxxxx x xxxxxxxxxx xxx
xxxxx, requisiti che mancherebbero in capo al contraente.
Altra parte della dottrina assume un atteggiamento di moderata apertura stabilendo che un potere unilaterale di determinazione può essere attribuito, ma solo a condizione che venga salvaguardato l’equilibrio tra le prestazioni (così, negli artt. 1556 e 15602 cc.)27 o si possa prevedere l’entità del sacrificio cui è esposta (così in art. 1286 cc., dove due e predeterminate sono le prestazioni dedotte in obbligazione); su questa posizione di limitata apertura si attesta la Cassazione nella sentenza 11003/1997, di cui abbiamo già parlato sopra28.
Atteggiamento di maggiore apertura è infine quello di chi fa rinvio all’autonomia contrattuale e alla libertà di prevedere modalità non bilaterali di determinazione: possiamo notare infatti che anche il legislatore ha introdotto ipotesi tipiche di modifica unilaterale in rapporti normalmente caratterizzati da asimmetria di potere economico fra le parti.
La prospettiva più corretta sembrerebbe quest’ultima, più liberale nei confronti dello ius variandi convenzionale: non si può negare infatti come a fondamento del diritto di determinazione unilaterale ci sia pur sempre un accordo, perciò il principio di bilateralità sarebbe comunque rispettato. A tale conclusione non può essere di ostacolo il fatto che l’art.1349 cc. si riferisca solamente alla determinazione successiva del terzo, facendo ritenere che un accordo a monte possa giustificare solo una determinazione successiva unilaterale da parte del terzo; abbiamo già detto che tale disposizione è esemplificativa e non tassativa ed esistono numerosi esempi di accordi a monte che attribuiscono ad un
27 Si citano gli articoli: art. 1556 “con il contratto estimatorio una parte consegna una o più cose mobili all'altra e questa si obbliga a pagarne il prezzo, salvo che restituisca le cose nel termine stabilito”; art. 12602 “Se le parti hanno stabilito soltanto il limite massimo e quello minimo per l'intera somministrazione o per le singole prestazioni, spetta all'avente diritto alla somministrazione di stabilire, entro i limiti suddetti, il quantitativo dovuto”.
28 Vedi pag. 27-28.
contraente poteri determinativi ex post incisivi ma della cui legittimità non si dubita in alcun modo, ad esempio la possibilità di determinare la nascita di un contratto (diritto d’opzione).
Riconoscere la compatibilità della determinazione unilaterale col sistema contrattuale però non vuol dire trascurare l’esigenza di tutela del contraente ad essa esposto (di ciò parleremo tra poco).
6. EFFICACIA DEL CONTRATTO INCOMPLETO
Distinto dai profili di conclusione e validità è poi quello dell’efficacia
del contratto incompleto prima della determinazione successiva.
Se il rinvio a successiva determinazione non influisce sulla conclusione del contratto, esso va al contrario a condizionarne gli effetti anteriormente alla procedura di determinazione, anche se l’inefficacia non riguarda l’intero contratto, bensì solo la parte oggetto di incompletezza. Se essa attiene alle prestazioni principali o il loro oggetto esse non sono esigibili, ma non è esclusa l’esigibilità di prestazioni accessorie o strumentali alla principale prima della sua determinazione; così ad esempio in caso di arbitraggio secondo mero arbitrio le parti sono tenute a rinegoziare per la nomina del terzo in sostituzione di quello che non ha eseguito l’incarico (art. 13492 cc.).
La questione dell’inefficacia va posta anche con riguardo all’incompletezza successiva: la scadenza del termine o il verificarsi della condizione incide sull’efficacia del contratto; l’indeterminatezza successiva non produce un’inefficacia definitiva del contratto ma solo una sospensione di essa, si aprirà una procedura di ri-determinazione che potrà chiudersi con la ripresa di efficacia del contratto (determinazione della lacuna) o con la definitiva inefficacia.
7. L’INATTUAZIONE DELL’ACCORDO DETERMINATIVO
Il problema principale del contratto incompleto si ha quando la determinazione successiva non si realizza. Tale problema è comune a tutte le modalità di determinazione, ma si pone in particolare in quella consensuale, il cui esito positivo è tutt’altro che scontato.
Quando le parti decidono di concludere un contratto deliberatamente incompleto lo fanno perché vogliono sfuggire all’applicazione della disciplina dispositiva, che reputano inadeguata.
Bisogna perciò chiedersi quale sia il ruolo e la funzione degli accordi determinativi e come ruolo e funzione si riflettano sulla loro natura giuridica; questo sia nel caso che gli accordi si innestino su un
contratto inizialmente incompleto, sia che xxxxxxxxxx contratti divenuti successivamente incompleti, finendo per coincidere con gli accordi di rinegoziazione.
Una prima soluzione potrebbe essere considerare gli accordi determinativi dei negozi modificativi, diretti a regolare un precedente rapporto giuridico, ritenendo che la rinegoziazione che va ad adeguare il contratto in corso di esecuzione sfocia nella conclusione di un contratto modificativo innestantesi sul precedente con efficacia costitutiva ex nunc. In realtà la collocazione degli accordi determinativi nell’ambito del contratto deliberatamente incompleto distingue essi dai contratti liberamente conclusi dalle parti per modificare un assetto contrattuale; i primi sono atti esecutivi, dovuti, non sono espressione di autonomia contrattuale perché parte di un programma già stabilito.
Questo vale sia con riguardo agli accordi di determinazione che di ri- determinazione che completano lacune successive del contratto originariamente completo: anche per il caso del contratto successivamente incompleto bisogna distinguere tra l’ipotesi in cui i contraenti decidono liberamente di modificare il contratto, dove si è in presenza di una libera scelta di regolare un precedente rapporto e l’ipotesi in cui le parti modificano perché il contratto prevede che a una certa data o al verificarsi di certe condizioni debbano rinegoziare, dove si è in presenza di una programmazione ex ante voluta dalle parti. In parte diversa è la posizione di chi distingue a seconda che siano indicati o meno nel contratto i criteri che la determinazione consensuale dovrà seguire: se per essa non è posto nessun criterio, avremo un contratto accessorio; se invece sono posti criteri, non si ritiene vi sia attività autonoma, che il contratto è già completo con la fissazione dei criteri ma non può essere eseguito, e si parla di atto dovuto (che non è un atto negoziale, ma mero atto giuridico).
Questa idea di decidere per la natura esecutiva o negoziale degli accordi sulla base della presenza o assenza nel contratto di criteri di determinazione non convince.
Importante è però la constatazione che gli accordi determinativi, rientrando nel programma del contratto di cui vanno a completare il contenuto, sono atti dovuti di esecuzione; così inquadrati essi possono essere accostati ad una figura del codice civile, cioè l’accordo di individuazione ex art. 1378 cc.
La dottrina ha messo in luce l’analogia tra la figura del negozio di genere e quella del negozio che contiene l’accordo determinativo: così come l’accordo di individuazione nella vendita di genere è un atto
esecutivo, l’accordo determinativo dà attuazione ad un programma
predeterminato dei contraenti e rileva come atto esecutivo.
Il rinvio ad un’attività determinativa rende dunque obbligatoria tale attività, ma bisogna chiedersi quale sia il contenuto di questa obbligazione.
Le due opinioni che sono state formulate in merito dalla dottrina sono:
1) dalle clausole di rinegoziazione nasce l’obbligo di contrattare in
buona fede per la modifica del contratto;
2) l’obbligo di rinegoziare, legale o convenzionale, è un obbligo di contrarre, suscettibile di esecuzione specifica ex. art. 2932 cc. in caso di inadempimento.
Nessuna delle due teorie appare però condivisibile.
Guardando alla prima, l’obbligazione di contrattare non comprende anche quella di concludere un contratto; l’unico effetto di una tale obbligazione sarebbe quello di obbligare le parti a comportarsi secondo buona fede durante trattative che sono tenute a iniziare e svolgere, e non quello di vincolare alla conclusione di un accordo.
In più risulta poco comprensibile come si possa qualificare l’obbligo che nasce da una clausola di rinegoziazione come obbligo di contrattare in buona fede e insieme sostenere che il giudice possa sostituirsi alle parti in caso di esito infruttuoso delle trattative, dal momento che non c’è un obbligo di contrarre.
Un’obbligazione di contrattare quindi non realizzerebbe gli interessi delle parti di un contratto deliberatamente incompleto, in quanto non prevede un vincolo rispetto al se della successiva determinazione, quando invece le parti intendono vincolarsi, anche se ad un regolamento flessibile.
Perciò è necessario qualificare l’obbligo di rinegoziare come obbligazione di contrarre, e capire però se qualora essa sia inadempiuta, possa ritenersi applicabile il rimedio ex. art. 2932 cc.
La posizione di certa dottrina che ritiene che in caso di inadempimento dell’obbligazione possa ottenersi una sentenza che produce gli effetti del contratto non concluso desta perplessità.
Si parla infatti in questo caso di applicare tale rimedio ad un contratto deliberatamente incompleto, che quindi ha un contenuto indeterminato; la volontà che la sentenza ex. art. 2932 cc. va a sostituire non è una volontà specifica, bensì generica, non è surrogatoria e non determina nel contenuto il rapporto; quindi tale rimedio potrebbe applicarsi solo nel caso in cui il contenuto dell’obbligo a contrarre fosse determinato. L’articolo in questione infatti tratta della mancata conclusione del contratto definitivo a fronte dell’avvenuta conclusione del contratto
preliminare, che contiene elementi già propri per legge del definitivo; perciò in ragione della completezza della volontà manifestata nel preliminare, si ritiene possibile non considerare abusiva la sentenza che faccia le veci del definitivo.
Il fondamento dell’art. 2932 cc. è quindi la completezza del contratto, e non l’incompletezza.
Ovviamente il fatto che non si possa applicare al contratto deliberatamente incompleto tale rimedio non significa che l’obbligo di contrarre debba essere degradato ad un mero obbligo di contrattare, senza contare che non è detto che l’istituto dell’esecuzione in forma specifica si applichi tassativamente a tutti i contratti preliminari, perché possono esistere anche preliminari aperti o flessibili, non eseguibili pertanto in forma specifica29.
C’è inoltre una ragione di opportunità per escludere l’art.2932 cc.: esso si applica in caso di inadempimento di un obbligo di contrarre solo quando l’inadempimento sussiste; ma se l’obbligo ha un contenuto indeterminato è anche difficile e costoso provarne l’inadempimento, si devono quindi cercare altre vie per vedere se il giudice possa in qualche modo supplire al mancato accordo delle parti o se invece l’unico rimedio possibile sia un risarcimento del danno.
In realtà, anche l’opinione sostenuta in dottrina che quando le parti hanno riservato ad un loro successivo accordo la determinazione del contenuto del contratto si deve escludere in ogni caso il potere di intervento del giudice in loro sostituzione è sbagliata.
Bisogna infatti operare una distinzione: se le parti, indipendentemente dai criteri indicati per la loro decisione, manifestano espressamente la volontà di escludere un intervento giudiziale, tale volontà deve essere rispettata; nell’ipotesi in cui invece le parti non effettuino questa precisazione è consentita in via analogica l’applicazione dell’art. 1349 cc., che consente al giudice di sostituirsi al terzo che deve determinare secondo equo apprezzamento in caso di inesecuzione del proprio incarico; tale principio si applica anche nel caso in cui le parti non abbiano indicato il criterio cui il terzo dovrà attenersi, poiché in caso di mancata indicazione si presume che esse abbiano voluto riferirsi all’equo apprezzamento.
In questo caso il riferirsi all’equo apprezzamento per la determinazione
consensuale rende tale determinazione non infungibile, e proprio il
29 Si distingue infatti tra i c.d. preliminari “aperti” e preliminari “chiusi”: i primi lasciano ancora imprecise alcune situazioni, i secondi invece sono perfetti e compiuti e attendono solo la riproduzione.
riferimento all’equità dimostra una ferma volontà di proseguire il
rapporto ad ogni costo.
Diverso è invece il caso in cui le parti utilizzino come criterio per la determinazione consensuale quello del mero arbitrio: qui le sorti del contratto sono legate alla personale valutazione della parti, poiché un determinazione esterna non è rispettosa delle loro volontà.
Qual è dunque la conseguenza della mancata determinazione ad opera delle parti quando un intervento sostitutivo del giudice non è consentito?
Si potrebbe applicare in via analogica l’art. 13492 cc. che sancisce la nullità del contratto se le parti non si accordano per determinare il contenuto.
L’obiezione muovibile a tale soluzione potrebbe essere la perdita degli investimenti specifici e i benefici derivanti dall’operazione economica, ma si potrebbe in contro risposta richiamare la teoria delle penalty defult rules: spesso una regola giuridica che produce conseguenze negative è quella che meglio incentiva le parti a raggiungere l’accordo necessario per escluderla.
Quindi la sanzione della nullità del contratto si presenta come il migliore incentivo alla determinazione consensuale quando il criterio indicato per essa sia il mero arbitrio e in caso di applicazione di tale sanzione per mancato accordo xxxx xxxxx la possibilità per ciascuna parte di chiedere risarcimento del danno per inadempimento dell’obbligo di determinare.
8. DETERMINAZIONE UNILATERALE / RECESSO E ABUSO DI DETERMINAZIONE UNILATERALE
Abbiamo già parlato della fattispecie ibrida della modalità di
determinazione unilaterale con diritto di recesso per l’altra parte. Anche la dottrina che assume un atteggiamento più restrittivo sull’ammissibilità del ius variandi muta opinione quando alla controparte è riconosciuto il diritto di recedere, e spesso quella legislazione che viene invocata per legittimare lo ius variandi di fonte convenzionale, attribuisce si il diritto di modificare ad una parte ma assegna allo stesso tempo alla controparte il diritto di recedere (es. disciplina dei contratti bancari, di viaggio, dei contratti professionista/consumatore).
Bisogna infatti precisare che in realtà la determinazione unilaterale non è tale se all’altra parte è attribuito il diritto di recedere; di determinazione in senso proprio è dato parlare solo quando c’è un
diritto potestativo di determinare e una corrispondente posizione di soggezione, perciò la fattispecie della determinazione unilaterale- recesso è quella di un accordo determinativo, caratterizzato da una procedura particolare: una parte ha diritto di proporre una certa determinazione mentre l’altra non può trattare, ma solo rifiutare o accettare tramite l’esercizio o meno del recesso.
Tale modalità ibrida può essere utile per gestire operazioni economiche caratterizzate da investimenti specifici bilaterali, poiché il recesso è una minaccia che incentiva chi ha il potere a fare proposte non opportunistiche, bensì effettivamente fondate sulle sopravvenienze; lo scioglimento del vincolo è pure minaccia per chi ha diritto di recesso, e perciò la parte che lo detiene lo eserciterà solo se la proposta della controparte è abusiva.
Il problema degli abusi in sede di determinazione successiva, nonostante sia comune a tutte le modalità di determinazione del contratto incompleto, è accentuato nel caso della determinazione unilaterale30.
Per spiegare meglio, possiamo richiamare un caso reale, quello del 1919 tra Xxxxxx Body e General Motors31: le parti avevano concluso un contratto della durata di dieci anni, dove Xxxxxx si impegnava a fornire a GM carcasse di automobili e per produrle aveva dovuto dotarsi di particolari macchinari e strumenti; GM si era impegnato ad acquisire tali carcasse solo da Xxxxxx, mentre quest’ultimo poteva vendere anche ad altri produttori di autoveicoli. Il prezzo per le carcasse era stabilito con questa formula: costi variabili di Xxxxxx più 17,6%.
Possiamo vedere quindi che il contratto è incompleto riguardo al prezzo e che possiede una clausola di adeguamento automatico che però è manipolabile da un contraente, Xxxxxx, poiché il prezzo dipende dai suoi costi variabili.
Questo schema poteva funzionare perfettamente finché i profitti di Xxxxxx dipendessero per la maggior parte dalla prosecuzione del rapporto. Ma supponiamo che intervenga una sopravvenienza, cioè il mercato automobilistico si sviluppi e la domanda di carcasse aumenti: in questo caso i profitti di Xxxxxx aumenteranno comunque ed egli potrebbe essere indotto ad sfruttare abusivamente le condizioni del contratto, preferendo sostenere un costo variabile laddove invece sarebbe più efficiente un investimento fisso poiché il prezzo è una variabile dipendente dai costi variabili.
30 Ovviamente si intende qui quella unilaterale in senso proprio, cioè non accompagnata dal diritto di recesso della controparte.
31 Cfr. FICI, Il contratto “incompleto”, 219-210.
Queste furono le preoccupazioni che indussero GM nel caso specifico ad acquisire Xxxxxx.
Indipendentemente dall’esito però la vicenda mostra i rischi che può presentare un contratto incompleto da determinare unilateralmente, rischi che possono disincentivare la conclusione di contratti incompleti o l’adozione della modalità unilaterale anche quando sia la modalità preferibile.
E’ necessario quindi regolare il potere di determinazione unilaterale per rendere a priori utilizzabile tale modalità ed evitare che induca le parti a comportamenti inefficienti: la regolazione può avvenire per vie legali o contrattuali e può essere ex ante oppure ex post.
La regolazione contrattuale è particolarmente utile in presenza di informazioni osservabili tra le parti ma non verificabili, cioè non comunicabili o dimostrabili a terzi e giudici: in tale caso il contratto con potere di determinazione unilaterale potrebbe o prevedere un diritto di recesso per l’altra parte oppure un corrispettivo per l’esercizio del diritto unilaterale. Abbiamo già chiarito che la prima soluzione deve essere fatta rientrare non nel campo della determinazione unilaterale ma in quella degli accordi determinativi. La seconda soluzione rende invece costosa la determinazione unilaterale, e può essere utile in caso non solo di informazioni non verificabili, ma anche non osservabili tra le stesse parti: in questo la previsione di un corrispettivo previene modifiche abusive.
La regolazione legale può consistere o nel divieto ex ante di clausole di determinazione unilaterale o nel controllo ex post sulle modalità di esercizio di tale potere. Nel primo caso l’ordinamento ritenga, nell’interesse del contraente debole, che la situazione contrattuale renda rischiose forme di determinazione unilaterale fa espresso divieto di introduzione di clausole che la prevedano o pone limiti quantitativi o qualitativi. Quando invece non è espressamente vietata la previsione di tali clausole può ritenersi consentita la determinazione unilaterale, e qui ci sarà un controllo ex post, che valuterà se la determinazione è corretta ai sensi dell’art.1375 cc.: la dottrina prevalente infatti nell’ammettere lo ius variandi convenzionale, ha ritenuto che l’esercizio di tale diritto fosse soggetto al limite della buona fede, e anche il legislatore in alcuni casi riconosce lo ius variandi ma richiede sia subordinato a giustificati motivi, dando ingresso implicito a un giudizio di buona fede.
La criticità di questa soluzione sta nella difficoltà di accertamento giudiziale della violazione della buona fede, si devono identificare dei
criteri per valutare l’abusività della determinazione unilaterale quando l’intento fraudolento del contraente che lo pone non sia palese.
I criteri identificati sono i seguenti:
- c’è abuso quando l’esercizio del diritto di determinazione unilaterale non sia conseguenza di una modificazione delle circostanze esistenti al tempo della conclusione del contratto;
- c’è abuso anche quando nonostante il mutamento delle circostanze il contraente esercita il diritto con la specifica finalità di riappropriarsi di utilità perdute al tempo della conclusione del contratto. Nel caso del contratto deliberatamente incompleto, il criterio di riappropriazione di utilità perdute si sostanzia nel fatto che il contraente esercita il diritto con lo scopo di provocare scioglimento del rapporto, imponendo modificazioni talmente inique da disincentivare l’altro alla prosecuzione del rapporto;
- c’è abuso poi quando non c’è un nesso funzionale tra esercizio del diritto e particolare scopo per cui tale modalità di determinazione è stata prevista e preferita, cioè quando la determinazione unilaterale non è diretta al perseguimento del particolare interesse alla soddisfazione del quale l’attribuzione di tale potere era preordinata.
Di fronte all’accertamento di una situazione di abuso, bisogna infine capire quali forme di reazione offre l’ordinamento, oltre al risarcimento del danno: sicuramente è possibile la sanzione dell’inefficacia della determinazione; non pacifico è invece se si possa domandare al giudice una determinazione sostitutiva di quella abusiva. I Principi Unidroit (art. 5.7) e i Principi di diritto europeo dei contratti (art. 6:105) consentono tale intervento; nel nostro ordinamento, non essendo prevista una disposizione generale sulla determinazione unilaterale, possiamo applicare in via analogica l’art. 1349 cc.: esso infatti contiene una logica che può essere applicata ai problemi di funzionamento del contratto incompleto a prescindere dalla modalità di determinazione.
Perciò nel caso in cui le parti abbiano rinviato al criterio dell’equo apprezzamento, l’intervento giudiziale in via sostitutiva è concesso, manifestando le parti con il rinvio a tale criterio l’intenzione di conservare il rapporto, anche tramite mediante il giudice; contrariamente ai Principi Unidroit e i Principi di diritto europeo le parti possono invece escludere l’intervento giudiziale sostitutivo sia rimettendosi al criterio del mero arbitrio della parte, sia qualora si siano rimesse all’equo apprezzamento di essa manifestando espressamente l’intenzione di escludere una determinazione giudiziale sostitutiva.
CAPITOLO SECONDO
IL TEMPO E LE SUE PROBLEMATICHE NEI CONTRATTI DI DURATA: LE SOPRAVVENIENZE IN PARTICOLARE
SOMMARIO: 1. Premessa: tre osservazioni preliminari. - 2. Il contratto di durata: evoluzioni di pensiero. - 2.1. L’esperienza italiana: il contratto di somministrazione. - 2.2. L’esperienza nordamericana: output e requirement contracts. - 2.3. Conclusioni. - 3. Durata: unico elemento per fondare la categoria? - 3.1. Partire dall’economia: le intermediate market transaction. - 3.2. Implicazioni giuridiche di tali relazioni durevoli: l’opportunismo. - 3.3. Le due condizioni dell’elemento oggettivo e soggettivo come base della fattispecie. - 4. Premesse all’analisi delle patologie - 5. Salvaguardare gli investimenti specifici: il problema dell’hold up. - 5.1. Xxxxxxxx elaborate dalle parti.
- 5.2. Rimedi di diritto per opportunismo in caso di inadempimento: la buona fede. - 5.3. Segue. L’articolo 1564 cc.: norma adeguata ma interpretazione sbagliata. - 5.4. Altri vizi funzionali: l’abuso di dipendenza economica. - 6. Sopravvenienze e modi di gestione: il problema dell’eccessiva onerosità sopravvenuta. -6.1. L’evoluzione recente della disciplina normativa in common e civil law. 6.2. Rimedi più adeguati per la sopravvenienza all’interno dei contratti di durata. -
6.3. Segue. Il particolare rimedio della reductio ad aequitatem. - 7. Un efficiente diritto dei contratti di durata: teorie. - 8. La teoria dei contratti relazionali: da sincronico a diacronico.
1. PREMESSA: TRE OSSERVAZIONI PRELIMINARI
Nel precedente capitolo abbiamo affrontato l’argomento dell’incompletezza del contratto, elemento tipico, anche se non esclusivo, dei contratti di durata. Concentriamoci adesso più specificamente su tale categoria di contratti.
La formula dei contratti di durata, almeno fino a qualche tempo fa, non aveva guadagnato una definizione, ritenendosi che quasi tutti i contratti avessero una qualche dipendenza dal tempo. Storicamente tale categoria ha incontrato la diffidenza degli ordinamenti e le soluzioni progressivamente adottate sono state inizialmente bizzarre; solo in esito a un lungo processo evolutivo le cose sono cambiate. Porre attenzione ai contratti di durata significa porre attenzione a quei contratti dove l’elemento tempo non è solo una mera coordinata, ma è un elemento di struttura. Se per la loro classificazione ponessimo
attenzione solo al momento di conclusione ed esecuzione, resterebbero esclusi dalla categoria solo quei contratti dove si realizza uno scambio contestuale, cioè dove non sussiste un minimo scollamento tra il momento di conclusione e quello di esecuzione.
Prima di tutto è necessario fare tre osservazioni.
La prima è che in essi il tempo si pone come elemento definitorio: non è la distanza nel tempo tra conclusione ed esecuzione che individua un contratto di durata, ma la prosecuzione o reiterazione della sua esecuzione. Nel panorama italiano la dimensione tempo rispetto al contratto ha ricevuto scarsa attenzione da parte degli studi giuridici, che si sono concentrati solamente su problematiche ricorrenti dei contratti di durata, come le sopravvenienze, non occupandosi invece di una ricostruzione della categoria.
La seconda osservazione è la tradizionale conformazione del diritto dei contratti e la sua organizzazione attorno a un modello sincronico di contrattazione, che non ha favorito lo sviluppo di particolare sensibilità a livello giuridico verso i contratti di durata; è dato costante infatti che in tutti i sistemi giuridici le disposizioni del diritto dei contratti sono ancora orientate al momento della conclusione del negozio più che alla vita della relazione che ne deriva e la ragione del privilegio per una dimensione uni-temporale ha origini di tipo storico, come vedremo meglio in seguito. Grande contributo ad una modifica nel pensiero dei giuristi è stato fornito senz’altro dalla teoria del contratto relazionale32: essa fornisce una visione del contratto articolata, dove lo scambio dei consensi, che da vita al contratto e le sue norme, non è più elemento portante, in quanto il contratto è sempre evento relazionale, soggetto a condizionamenti esterni e a valori interni che richiedono un continuo aggiustamento. Anche se la teoria in questione è stata sottoposta a varie critiche, come l’incapacità di fornire una definizione di contratto relazionale, per i contratti di durata è stata utile in quanto è riuscita ad imporre un mutamento di prospettiva dalla fattispecie agli effetti, dal consenso al rapporto, dalla conclusione alla esecuzione.
La terza osservazione da fare è la possibilità di considerare il diritto dei contratti come tecnica di controllo sociale contro i guasti causati dai fallimenti del mercato, sia all’interno della relazione che al suo esterno. Il contratto, e in particolar modo i contratti di durata, contrariamente a quanto affermato dal modello classico, producono esternalità: essendo contratti in cui prevale la caratteristica relazionale (cioè di continuità) possono sollevare una serie di questioni riguardanti
32 Il contributo della teoria relazionale sarà affrontato meglio nella parte finale del capitolo.
terzi (es. intermediazione del lavoro, tutela dei consumatori) ma anche interferire con dinamiche concorrenziali (blocco di risorse, esclusione di concorrenti ecc.). Tradizionalmente tutto ciò che è stato esterno al contratto non è stato considerato parte del diritto dei contratti, che ha sempre avuto invece finalità interna al rapporto; la prospettiva classica infatti sosteneva che i contraenti, oltre ad essere i migliori custodi dei propri interessi, erano anche in grado di internalizzare gli effetti negativi delle proprie scelte. Ma basta menzionare le ipotesi in cui il contratto è utilizzato per perseguire un disegno anticoncorrenziale o per abusare di un potere normativo d’impresa per ritenere smentita l’idea che la contrattazione individuale internalizzi le esternalità33. Finora la riflessione giuridica è stata legata alla convinzione che tra contratto e mercato esista un distinzione chiara, imperniata sulla diversità degli ambiti disciplinari, dei valori e delle finalità: il primo è regolato dal diritto privato (diritto dei contratti), suo valore ispiratore è la libertà individuale esprimentesi nell’autonomia privata e la sua finalità è appunto integrare e supplire (e di rado correggere) la volontà dei contraenti; il secondo è invece disciplinato dalle norme antitrust, il cui obiettivo è la promozione del benessere dei consumatori e il valore è la salvaguardia della concorrenza. Già a livello empirico possiamo notare invece che il contratto non esiste nel vuoto sociale, bensì nel mercato; a livello di valori protetti notiamo poi che spesso le norme antitrust hanno una molteplicità di fini e il suo oggetto si è via via avvicinato ai rapporti contrattuali34.
Il nuovo diritto dei contratti sta piano piano prendendo coscienza della sua funzione regolatoria, di un qualcosa che va a sanare o prevenire alcuni rapporti e un primo indizio di questa permeabilità a logiche regolatorie di tipo extra negoziale lo possiamo notare nel fatto che ci sono complessi di norme che anziché supplire all’autonomia privata si pongono come correttivi di essa, basandosi sul presupposto che non è perfetta; perciò non convince più l’idea che il diritto dei contratti non si occupi di questioni riguardanti cose esterne alla vicenda negoziale.
Per capire meglio, possiamo constatare che quando una regola contrattuale, dispositiva o imperativa, va a favorire la creazione o la circolazione di informazione in presenza di asimmetrie informative, ciò rappresenta una forma di contenimento di alcune imperfezioni di
33 Un accordo di cartello infatti, è fatto col preciso proposito di incidere sulla successiva contrattazione delle imprese ad esso aderenti e proietta su terzi gli effetti negativi della contrattazione.
34 Xxxx’oggetto della disciplina antitrust infatti il contratto c’è sempre stato, dal momento che è uno degli strumenti con cui si può attuare un disegno anticoncorrenziale.
mercato35, i cui effetti si ripercuotono ben oltre i confini della vicenda contrattuale.
Un più forte segnale che dimostra che il diritto dei contratti non ha funzione regolatoria solo interna (cioè limitata al funzionamento del sinallagma) ma anche esterna (riguardante le dinamiche di mercato), è il dibattito creatosi sulle norme dispositive: esso ha messo in luce che esistono ragioni di tipo economico, ovvero fallimenti del mercato, per intervenire sull’autonomia privata; alcune tra le disfunzioni del rapporto che le norme contrattuali si propongono di sanare (es. l’abuso dell’altrui dipendenza economica) hanno radice nel mercato e il rimedio previsto va ad influire anche su quello.
Gli approdi di tale dibattito sono due:
1) un intervento sull’autonomia privata è ammesso ogniqualvolta si accerta una disfunzione che rende inoperativa la presunzione che le parti siano i migliori interpreti dei rispettivi interessi e riescano a determinare liberamente il contenuto del regolamento andando a massimizzare le utilità congiunte;
2) lo strumento per la correzione dei fallimenti di mercato diviene la norma imperativa: laddove esista tra le parti una situazione di disparità proporre una regola dispositiva si traduce in un’ingenuità.
Ovviamente la possibilità di importare tale dibattito nel tema dei contratti di durata deve essere valutata laddove ci si trovi di fronte ad un contratto deliberatamente incompleto36.
2. IL CONTRATTO DI DURATA: EVOLUZIONI DI PENSIERO
Perché i contratti di durata hanno ricevuto fino a poco tempo fa scarsa considerazione?
Per rispondere a questa domanda, si ipotizzano due ragioni di tipo storico, andando a ripercorrere l’evoluzione del diritto civile e della common law:
1) il diritto dei contratti nella tradizione occidentale è frutto del pensiero giuridico del XVIII° e XIX° secolo, la cui maggiore preoccupazione era assicurare una normativa a tutela della volontà, considerata elemento fondante delle scambio; l’enfasi sul consenso (momento di incontro delle volontà) concentra il significato dell’operazione sul momento della conclusione, trascurando ciò che accade successivamente (cioè la relazione cui il contratto da vita). Tale indifferenza ha avuto come conseguenza naturale quella di guardare
35 In questo caso, l’asimmetria informativa, tipica forma di fallimento del mercato.
36 Cfr. cap. I
all’oggetto del contratto al momento della formazione, e non all’oggetto in fase di esecuzione37.
2) collegata intimamente alla prima ragione è l’assunzione della compravendita come modello dominante di contratto, dove il fattore tempo non è così rilevante come nei contratti di durata.
La concezione fino a poco tempo fa predominante era quindi quella del contratto come scambio e dello scambio come organizzato sul concetto di promessa; le economie più moderne però sono caratterizzate da esigenze più sofisticate, che possono essere soddisfatte con modelli diversi da quello della compravendita: tipologie come la somministrazione e l’appalto, che sono orientate non tanto all’istantaneità ma alla continuità della relazione, hanno oggi un peso superiore a quello della compravendita.
Bisogna capire come i contratti di durata sono riusciti a farsi spazio
all’interno del contesto sopra indicato.
L’iniziale diffidenza verso forme contrattuali a lungo termine è dovuta chiaramente alla necessità di identificare l’oggetto del contratto al momento della manifestazione dei consensi, al fatto che lo scambio ha ruolo dominante e che sua espressione principale è il modello della compravendita: le prestazioni sono esattamente individuate e sono scambiate in un momento circoscritto nel tempo.
Il momento in cui i contratti di durata cominciano ad avere riconoscimento nell’esperienza statunitense è un momento che presenta grandi differenze economiche e sociali rispetto a quello precedente: il modello di mercato perfettamente concorrenziale e armonioso aveva avuto ripensamenti dopo la crisi del 1929, la comparsa stessa del Restatement (first) of contracts38 (apice della produzione classica) destò numerose critiche.
I postulati dell’impostazione economica classica erano tre:
a) perfetta razionalità dei soggetti;
b) perfetta concorrenzialità del mercato e completa e simmetrica distribuzione dell’informazione rilevante;
37 Tra le scarse disposizioni sull’oggetto contrattuale in fase di esecuzione abbiamo l’ arbitraggio del terzo, ma questo è comunque una deviazione rispetto alla regola generale che l’oggetto debba essere lecito, possibile, determinato o determinabile, sulla base dell’art. 1346 cc
38 I Restatement of contracts nacquero con lo scopo di mettere in ordine e chiarificare il diritto americano; sono documenti che armonizzano il common law americano. Il testo è formato da proposizioni riassuntive, estratte dal diritto casistico. Nel tempo ne sono stati fatti diversi, poiché il loro scopo è far prevalere la soluzione più moderna e razionale in modo da armonizzare tutto il diritto statunitense.
c) assenza o sostanziale irrilevanza di costi transattivi39.
Tutti questi tre postulati verranno smentiti o superati dall’evoluzione di
altre teorie40.
Si abbandona progressivamente una visione semplificata del mercato: l’accesso costa e non è detto che maggiore concorrenzialità porti maggiore approvvigionamento; l’informazione è costosa ed è difficile identificare il contraente migliore; per beni complessi un mercato perfettamente concorrenziale è inesistente.
A tutto questo corrisponde un abbandono della visione del contratto come strumento minimale e circoscritto alla funzione di fornire alle parti un ambiente giuridico affidabile per avere un qualche rimedio a fronte di un’ inadempimento.
2.1. L’ESPERIENZA ITALIANA: IL CONTRATTO DI SOMMINISTRAZIONE
Nell’esperienza giuridica italiana il superamento della visione atomistica dello scambio può essere rintracciato nel periodo che va dal codice del commercio del 1882 alla codificazione del 1942: emblematica è l’evoluzione del contratto di somministrazione, che prendendo le distanze dal modello della compravendita diventerà lo schema negoziale tipo dei contratti di durata.
Inizialmente la somministrazione era atto oggettivo di commercio dell’impresa di fornitura e l’attrazione di tale fattispecie nel diritto commerciale conferiva ad essa carattere atomistico; se tale situazione aveva il pregio di sottolineare il naturale collegamento tra impresa e contratto di somministrazione, non riusciva tuttavia a mettere in luce aspetti del negozio che portavano ad una autonomia della figura e restava in particolare irrisolta la questione se oggetto dell’obbligazione fosse un facere o un dare.
I tentativi di una sua qualificazione oscillarono tra la locazione d’opera e la vendita, ma entrambe le soluzioni apparivano instabili: la locazione d’opera accentuava l’idea della continuità della relazione ma non al punto di far ipotizzare un ripensamento della causa; la vendita valorizzava l’elemento dello scambio, la cui istantaneità però collideva con i dati della durata e del rapporto.
39 Abbiamo già visto che siffatta concezione contribuiva a far concepire il contratto come completo, non considerando quelli che invece sono i principali fattori che ortano all’incompletezza; cfr. cap. I
40 Ad esempio l’assunto sulla razionalità subirà una ridefinizione ad opera degli studi sulla razionalità limitata e quello della perfetta distribuzione dell’informazione e assenza di costi transattivi sarà rivisitato dalle teorie economiche neoistituzionaliste.
Il passaggio definitivo dell’evoluzione è quello del nuovo codice: nel progetto del codice del commercio del 1941 la somministrazione è configurata come prestazione periodica o continuativa (la periodicità quindi è elemento chiave) e tale soluzione prevarrà in sede di fusione del codice del commercio in quello civile, nel quale si risolverà anche la questione della riconduzione della fornitura di servizi alla somministrazione: la somministrazione è quindi delineata come un contratto con causa di durata, avente ad oggetto obbligazioni ad esecuzione continuata o periodica. Il progressivo distacco dal modello della vendita è indizio di come la durata dell’interesse sia considerata causa autonoma e di come la somministrazione divenga il paradigma del contratto di durata.
Attraverso l’esposizione di questa evoluzione, possiamo porre in
evidenza tre aspetti importanti:
1) che il tempo è entrato nella struttura del contratto come tratto distintivo e come elemento funzionale41;
2) la ripetitività delle prestazioni presuppone l’organizzazione imprenditoriale, cosa che determina il carattere implicitamente commerciale del contratto42;
3) come disciplinare le fattispecie di durata o alcune patologie del rapporto che sono frequenti in tali contratti.
2.2. L’ESPERIENZA NORDAMERICANA: OUTPUT E
REQUIREMENT CONTRACTS
Un andamento evolutivo simile si riscontra anche nell’esperienza nordamericana: qui, gli output e requirement contracts43 (la fattispecie più cospicua dei contratti di durata) avevano all’interno del primo Restatement ricevuto addirittura un trattamento sfavorevole.
41 A tale proposito occorre fare riferimento all’art. 1564 cc., che disciplina l’inadempimento del contratto di somministrazione, poiché sottolinea il carattere relazionale del rapporto ed è eccezionale rispetto alla disciplina generale della risoluzione per inadempimento: l’inadempimento della singola prestazione rileva solo se capace di ripercuotersi sulla durata, intaccando la fiducia nei futuri adempimenti.
42 Questo rafforza il collegamento tra contrattazione a lungo termine e contrattazione d’impresa e determina conseguenze anche a livello di oggetto contrattuale, poiché in un contratto destinato a regolare un rapporto commerciale la determinazione di prestazioni corrispettive è approssimativa.
43 Nei requirement contracts, il venditore si obbliga a soddisfare il bisogno dell’avente diritto alla prestazione secondo le sue richieste; negli output contracts , il compratore si obbliga ad acquistare tutta la produzione di controparte. Non è difficile omologare le due situazioni alla somministrazione.
La common law statunitense però aveva un problema diverso rispetto all’esperienza italiana: mentre in Italia il problema della somministrazione si poneva in termini di riconduzione ad un tipo, qui il problema era un problema di determinazione dell’oggetto (di validità), piuttosto che di causa; la dottrina e giurisprudenza classiche di questo ambiente escludevano ogni possibilità di esecuzione del contratto in cui una parte avesse il potere di decidere se e in quale quantità comprare, in dipendenza dei bisogni che si sarebbero manifestati nel corso della relazione. L’accordo era per tale ragione invalido, in quanto una parte doveva far fronte alle richieste dell’altra senza che essa avesse un obbligo attuale e ciò si traduceva in una violazione del principio della reciprocità delle prestazioni44.
Per conservare la visione atomistica e riconoscere validità alle tipologie devianti dal modello tradizionale, la giurisprudenza individuò l’espediente delle presenza o meno della clausola di esclusiva: se il compratore è vincolato a comprare esclusivamente dal venditore, la promessa non è illusoria; il problema però rimaneva quando la clausola non era pattuita o era considerata implicita poiché continuava a mancare la reciprocità delle prestazioni.
Fu la § 2-306 dello Uniform Commercial Code, a fornire un criterio di validazione ai contratti di fornitura a quantità aperta secondo tre tipologie: contratti con esclusiva a carico del compratore, contratti senza esclusiva e contratti di distribuzione con patto di esclusiva; all’interno di tale sezione il problema dei validità dei contratti di somministrazione sembra superato in quanto non è più richiesta l’obbligazione dell’avente diritto alla somministrazione né viene recepito l’espediente dell’esclusiva.
Subito dopo l’adozione dello UCC la giurisprudenza è rimasta ancorata alla posizione tradizionale, sostenendo l’assenza di un vincolo in presenza di contratti di fornitura aperti quando l’avente diritto non fosse obbligato all’acquisto in esclusiva, ma tale posizione era manifestazione di un approccio sbagliato perché la presenza di un vincolo di esclusiva poteva generare gli stessi effetti di un contratto privo di esso tutte le volte che la parte avesse deciso di non rifornirsi.
Inoltre anche immaginando che una delle parti sia assolutamente libera di rifornirsi da chiunque voglia, pur essendo legata contrattualmente ad un fornitore, non è detto che accederà alle alternative perché c’è bisogno che esistano sul mercato (erroneamente concepito come perfetto) ulteriori fornitori disponibili; come ben sappiamo però la
44 Si realizzava così una mancanza di consideration o promessa, di ciò che si ottiene in cambio della propria prestazione.
presenza di costi transattivi rende difficilmente praticabile la via della sostituzione dei beni di un fornitore con quelli di un altro: c’è infatti un costo nel rifornirsi all’esterno, consistente nell’individuare il miglior fornitore e negoziare con lui.
Perciò sono le condizioni di scambio a creare un vincolo più forte e non la clausola di esclusiva.
Come elemento di integrazione del contratto di fornitura aperto la § 2- 306 dello UCC prevede il criterio della buona fede: se il contratto non prevede un ammontare predeterminato, la determinazione delle quantità da fornire o richiedere è effettuata sulla base di tale criterio; vediamo quindi che l’attenzione verso i contratti di somministrazione si sposta da un problema di validità della fattispecie ad un problema di determinatezza (o completezza), dell’oggetto contrattuale.
I problemi che si pongono dopo aver risolto anche questo problema sono quelli relativi al funzionamento del contratto in relazione a modificazione delle circostanze esterne o vicende interne al rapporto che modificano la posizione reciproca delle parti.
A questo proposito la § 2-306 dell’UCC prevede che l’offerta del venditore o la domanda del compratore sono limitate dal fabbisogno determinabile in base alla buona fede, salvo che la richiesta appaia “irragionevolmente sproporzionata” rispetto ad una stima espressa nel contratto o se essa non è presente rispetto al normale fabbisogno o quello determinabile in ragione delle precedenti forniture.
Bisogna interrogarsi su questa irragionevole sproporzione della richiesta e del suo rapporto col criterio di buona fede; sono state date due interpretazioni:
1) per alcuni si tratterebbe di un limite quantitativo alle variazioni in aumento o in diminuzione delle quantità offerte o domandate;
2) per altri di un limite qualitativo, postulando una assimilazione tra irragionevolezza e opportunismo.
La seconda interpretazione è stata critica in quanto introdurrebbe una limitazione che replica nella sostanza l’onere della buona fede; ma anche ammettendo che l’irragionevole sproporzione sia un limite quantitativo alle variazioni occorre comunque chiedersi perché gli autori abbiano voluto porre un limite ulteriore a quello della buona fede.
La soluzione va cercata nella dinamica dei rapporti tra le parti nei contratti di durata: se è vero che essi consentono grande flessibilità bisogna guardare agli incentivi all’adempimento che una parte ha quando la quantità è determinata da uno dei contraenti, perciò bisogna
occuparsi di individuare uno standard di comportamento che protegga
la libertà di una delle parti e non sia però pregiudizio per l’altra.
La conclusione più attendibile è ritenere che le formule linguistiche usate dal legislatore abbiano la doppia funzione di individuare un limite per la determinazione della soglia dell’inadempimento e di argine alle richieste opportunistiche di una delle parti.
Raggiunta questa conclusione però, manca omogeneità di vedute:
- alcuni ritengono che il criterio dell’irragionevole sproporzione si debba applicare solo in caso di inusuale aumento dell’offerta o della domanda rispetto a una situazione iniziale, per evitare comportamenti opportunistici; nei casi di diminuzione la buona fede sarebbe un argine di per sé sufficiente dal momento che nessuno ha un incentivo a fermare del tutto la produzione;
-altri che non vi sia ragione di intervenire sull’autonomia privata, in quanto se le parti hanno effettuato investimenti reciproci rilevanti confidando sulla continuità del rapporto è difficile che non abbiano previsto meccanismi di assicurazione contro rischi di aumento improvviso della domanda o dell’offerta; nel caso contrario l’assenza di rimedi fa presumere la modesta entità degli investimenti e la non necessità di proteggere una delle parti attraverso l’obbligo di buona fede.
2.3. CONCLUSIONI
Possiamo quindi vedere che le due evoluzioni sopra descritte, ovvero l’emersione della somministrazione come tipologia nominata e la vicenda degli output e requirements contracts, sono emblematiche sia per la perdita di centralità di un modello di scambio assorbito dal tipo della vendita, sia per il tramonto dell’importanza della “promessa” nell’ordinamento nordamericano, sia per l’evoluzione nello studio dei contratti di durata; l’indebolimento della funzione dello scambio rispetto alla necessità che la relazione si protragga per soddisfare un bisogno durevole porta alla configurazione di una causa autonoma di durata. Nei contratti di durata al momento della conclusione del contratto i futuri bisogni delle parti non possono tradursi in una precisa formulazione ma tale incertezza non può pregiudicare l’impiego dello strumento.
L’economia moderna vede sempre più di rado scambi istantanei, perciò è importante analizzare la categoria dei contratti di durata, ponendo attenzione a tutti i suoi aspetti fisiologici e patologici.
3. DURATA: UNICO ELEMENTO PER FONDARE LA CATEGORIA?
Abbiamo ripercorso le tappe che hanno portato gli ambienti giuridici ad un progressivo distacco da una concezione istantanea dello scambio e da una predilezione verso il contratto di compravendita.
Entriamo adesso nel vivo dell’argomento.
E’ necessaria una precisazione: vi sono tre profili che interessano la materia dei contratti di durata, dei quali due (cioè il secondo e il terzo), se sovrapposti, rischiano di creare confusione.
Il primo è quello che attiene al diritto: abbiamo già visto che la conclusione a cui si è giunti da questo punto di vista è che la caratteristica minima di tali contratti è che il tempo è la misura dell’interesse delle parti e la durata causa autonoma degli schemi negoziali. Bisogna verificare, e questo sarà l’obiettivo del paragrafo in questione, se tale condizione minima è anche sufficiente per delimitare la categoria o se è necessario procedere all’individuazione di ulteriori tratti differenziali.
Il secondo profilo è quello dell’interazione tra diritto e sociologia, ovvero il rapporto tra contratti di durata e contratto relazionale45: questi due termini non sono sinonimi e il riferimento alla teoria relazionale per l’analisi dei contratti di durata è utile solo per il mutamento di prospettiva che ha portato, ovvero quello che il contratto e le sue norme non sono la fonte esclusiva del rapporto; per il resto, l’errore principale è quello di considerare tutti i contratti come relazionali e perciò le sue aspirazioni generaliste renderebbero impossibile riferirsi ai contratti di durata come autonoma categoria giuridica.
Il terzo profilo è quello gius-economico, dei contratti incompleti: anche l’identificazione tra contratti incompleti e contratti di durata è frequente, ma è sbagliata: il fenomeno dell’incompletezza è un fenomeno che non riguarda solamente i contratti di durata, ma anche i contratti ad esecuzione differita46, perciò l’incompletezza è una caratteristica fisiologica dei contratti di durata ma non è un elemento definitorio di essi.
In conclusione quindi i contratti di durata hanno caratteristiche relazionali poiché all’interno di essi si creano vincoli di reciprocità e
45 Della teoria del contratto relazionale parleremo più specificamente in seguito, ma
v. anche paragrafo 1
46 Come abbiamo visto nel cap. I
interdipendenza e sono anche incompleti, perché così vogliono le parti
e per l’azione del tempo sulla vita del rapporto.
Chiarito ciò, dobbiamo tornare al primo profilo e riguardo la verifica del tempo come condizione minima e sufficiente per la delimitazione della categoria dei contratti di durata possiamo attingere all’economia.
3.1. PARTIRE DALL’ECONOMIA: LE INTERMEDIATE MARKET
TRANSACTIONS
Le ragioni di interesse dell’economia per la contrattazione di lungo termine derivano dal fatto che i contratti di durata sono uno degli strumenti per realizzare l’integrazione verticale.
Dal punto di vista strutturale, caratteristica dei contratti di durata è la necessaria estensione temporale del rapporto dovuta alla presenza di un interesse durevole di una delle parti e perciò impossibile da soddisfare istantaneamente; nell’ambito economico si connota come di durata tutto il complesso delle fattispecie attraverso le quali i diversi momenti di un processo produttivo sono collegati per esigenze di stabilità e coordinamento di un’organizzazione, le cd. intermediate market transactions47.
Indagini hanno dimostrato che i contratti di durata emergono soprattutto in situazioni di successione a comparti industriali a pregressa integrazione verticale strutturale: il tempo diventa fattore rilevante del contratto in conseguenza della destrutturazione, dal momento che finché le due fasi della vita dell’impresa sono parte della stessa unità l’elemento temporale è irrilevante, il soggetto è unico e quindi sincronico.
Attraverso il contratto di durata si cercano di recuperare i vantaggi dell’unità, un tempo lungo infatti riproduce una situazione simile all’integrazione: è chiaro ovviamente che questa pseudo-integrazione o integrazione da contratto è una soluzione migliore in maniera secondaria rispetto ad una fusione tra due unità distinte, che tuttavia è difficile da realizzare.
Nell’integrazione da contratto le due parti rimangono distinte, governate da centri decisionali diversi e soggette a fenomeni che possono modificare le condizioni del rapporto e questo, rispetto all’integrazione strutturale, apre la possibilità di comportamenti opportunistici: all’interno del contratto di durata infatti non sono presenti solamente dei costi ex ante consistenti nell’identificazione
47 Ovvero stadi intermedi dei cicli di produzione di un prodotto o erogazione di un servizio.
della controparte, nella negoziazione con essa e nella redazione del contratto ma anche e soprattutto dei costi ex post, riguardanti cioè non la formazione ma l’esecuzione, poiché non sempre sono possibili soluzioni preventive ai vari eventi da cui le parti possono trarre vantaggio48. Per quanto la contrattazione di lungo periodo cerchi di favorire la cooperazione, solo l’unione perfetta determina l’autoidentificazione degli interessi e elimina le possibilità di conflitto. La teorizzazione dell’opportunismo post-contrattuale o post-formativo rappresenta un grande contributo da parte dell’economia al tema dei contratti di durata: esso infatti è la fonte delle disfunzioni delle relazioni durevoli e un evidente segnale della dimensione relazionale dei contratti a lungo termine.
Proseguendo nella nostra analisi, l’esigenza di produzione e commercializzazione dei beni e dei servizi, può essere realizzata in due forme:
1) l’impresa può porre in essere al suo interno tutte le fasi di cui si compone il processo produttivo e assicurare anche quello distributivo;
2) Può andare a soddisfare alcune fasi all’esterno, quando i costi transattivi sono inferiori rispetto ai costi di organizzazione gerarchica. Il ricorso al contratto, proprio della seconda ipotesi, comporta che l’accesso al mercato sia ripetuto: è dall’esigenza di risparmiare sui costi di transazione senza però rinunciare alla flessibilità garantita dall’alternativa all’integrazione perfetta che nascono i contratti di durata, che conciliano il bisogno di una continua rinnovazione di atti col risparmio di attività individuale49.
3.2. IMPLICAZIONI GIURIDICHE DI TALI RELAZIONI
DUREVOLI: L’OPPORTUNISMO
Bisogna adesso, dopo aver brevemente visto le ragioni che hanno destato l’interesse dell’economia per la contrattazione di lungo periodo, vedere quali siano per il diritto le implicazioni derivanti dall’assunzione dei contratti di durata nella veste di interpreti dell’integrazione verticale.
48 La presenza di investimenti specifici ad esempio crea delle quasi-rendite di cui la controparte cerca di appropriarsi, che non esisterebbero se ci fosse un soggetto unitario.
49 Questo spiega l’importanza dei contratti di durata nelle economie industriali e post-industriali, dove alle esigenze di flessibilità nelle relazioni commerciali si accompagnano quelle di stabilità e continuità, indispensabili per relazioni di lungo periodo
Quando le parti si apprestano ad instaurare un rapporto di durata, le relazioni possibili sono riconducibili a due tipologie a seconda che l’oggetto sia un’obbligazione di facere, caso in cui l’integrazione verticale da contratto mira a riprodurre una situazione dove il contraente a valle realizza una fase del ciclo produttivo o commerciale di quello a monte e quindi l’obbligazione è quella di effettuare prestazioni in maniera continuata o periodica, oppure sia un’obbligazione di dare, se la relazione è organizzata attorno ad un obbligo di fornire beni in maniera continuativa o periodica e perciò l’interesse dell’avente diritto è soddisfatto dalle res piuttosto che dal comportamento del fornitore.
Alla prima categoria corrispondono i rapporti tra principal e agent, in cui rientrano quelli di distribuzione e fornitura, mentre alla seconda quelli tra seller e buyer, in cui rientra la somministrazione di beni.
Come differenza possiamo notare che la dipendenza dal comportamento del debitore è maggiore nei rapporti principal/agent rispetto a quelli seller/buyer, poiché il principal dismette un’attività che dipende in seguito esclusivamente dall’agent. Le due tipologie sono invece accumunate dalla medesima caratteristica di condivisione delle sorti delle parti: la durata e la complessità delle relazioni comportano l’impossibilità di determinare ex ante la quantità da prestare, i corrispettivi o le modalità di esecuzione e ciò si traduce nella necessità per le parti di lasciare quantità e prezzo indeterminati o determinabili sulla base dei bisogni. E’ proprio la discrezionalità lasciata alle parti derivante dall’incompletezza a favorire condotte opportunistiche, perciò bisogna fare attenzione alle possibili situazioni di conflitto e al potere reciproco delle parti.
Al fine di arginare il problema dell’opportunismo, limitarsi a constatare che il comportamento delle parti debba per esempio essere ispirato alla buona fede, criterio generale di condotta di fronte a urgenze di adattamento della relazione, non è un criterio valido per amministrare il contratto di durata se a monte non si individua un criterio di comportamento che deve essere generalmente osservato all’interno di ogni contratto di durata.
Proseguendo attraverso una chiave di lettura economica del fenomeno, la risposta può essere rintracciata ripercorrendo al contrario il processo di selezione del contratto di durata come modello di organizzazione del rapporto: tale contratto è infatti scelto per cercare di riprodurre il più
possibile una situazione di unità50, perciò è a questo che deve ispirarsi il criterio di comportamento; tale obiettivo si realizza attraverso la massimizzazione dell’ utilità congiunta dei contraenti, che diviene il criterio generale di comportamento delle parti e di integrazione del contratto di durata.
Ovviamente in presenza di due entità che contrattano la massimizzazione delle utilità congiunte si presenta come situazione ideale, perciò nel quantificare esattamente l’adempimento secondo tale criterio si effettuano inevitabilmente errori sulle variabili rilevanti e tali sbagli commessi dalle parti sono ancora più problematici quando il contratto deve essere amministrato dal giudice poiché gran parte dell’informazione può essere osservabile ma non verificabile.
Il contratto affetto da errori non realizza così la funzione per la quale i contraenti si sono serviti dello schema del contratto di durata (cioè massimizzare le utilità congiunte): il ricorso alla buona fede impone però che anche l’interprete si ponga il problema economico di determinare quale sia la soluzione che massimizzi le utilità non rispetto al modello ipotetico di formazione del contratto ma a quello concreto, riferito al momento del conflitto.
Possiamo quindi dire che la clausola della buona fede, una volta identificato il criterio di comportamento proprio all’interno di un contratto di durata, è un criterio guida della relazione, specialmente per l’attività del giudice.
E’ evidente dunque che i contratti di durata utilizzati per replicare forme di integrazione verticale sono caratterizzati da una serie di spinte contrapposte, verso la cooperazione e verso l’opportunismo, quest’ultimo dovuto ai termini aperti che le parti lasciano nel regolamento di interessi51.
Ferma restando la possibilità per le parti di predisporre autonomamente meccanismi per prevenire condotte opportunistiche o gestirle con rimedi ex post, gli ordinamenti predispongono regole come la buona fede, la diligenza del buon padre di famiglia ecc. non solo come criterio di integrazione, ma anche di prevenzione di abusi da parte dell’autonomia privata.
L’opzione integrativa che si esprime in una norma giuridica di comportamento (cioè massimizzare l’utilità congiunta) non è neutrale dal punto di vista degli effetti sul mercato: la posizione di dipendenza
50 La situazione ideale è infatti quella dell’unione, dove l’unico soggetto produttivo massimizza internamente la propria utilità.
51 L’impossibilità di ridurre un rapporto a termini esatti le induce a questo, con
notevole risparmio di costi transattivi.
che si determina in capo al soggetto a monte rispetto alla prestazione del soggetto a valle infatti, non è l’unico effetto derivante dalla situazione di integrazione verticale poiché tale relazione influisce anche sulla disponibilità del prodotto e dunque sul mercato; ciò chiarisce ulteriormente il terzo assunto di partenza, come esposto precedentemente52.
Quando sul mercato è presente un soggetto unico verticalmente integrato il diritto si preoccupa sia delle vicende che hanno portato all’integrazione, sia dei comportamenti che tale soggetto assume rispetto a terzi e tale funzione regolatoria è svolta dal diritto sulla concorrenza; quando invece l’originaria unità viene destrutturata e compaiono due soggetti il diritto prende in considerazione soprattutto il contenuto dei reciproci obblighi e diritti e i meccanismi endo- contrattuali con cui si assicura cooperazione e si reprime l’opportunismo, ma non si può negare che anche quando il diritto sta a supplire o integrare l’autonomia privata il suo contenuto non abbia effetti sul mercato, anche se tale ruolo regolatorio è residuale rispetto a quello di supplenza.
3.3. LE DUE CONDIZIONI DELL’ELEMENTO OGGETTIVO E
SOGGETTIVO COME BASE DELLA FATTISPECIE
Conclusa l’analisi di tale fenomeno, possiamo dire che l’accostamento della contrattazione di lungo periodo all’integrazione verticale fornisce elementi ulteriori per restringere l’indagine e specificare quali siano le fattispecie rilevanti per il discorso giuridico sui contratti di durata; il momento definitorio è difficile ma indispensabile.
Il ricorso alla relazionalità, pur segnalando una dimensione della vicenda temporalmente dilatata, rischia di essere controproducente poiché comprendendo tipologie disomogenee non fornisce un criterio per pervenire ad una delimitazione; anche l’aspetto dell’incompletezza non basta, poiché tutti i contratti sono incompleti.
Il fenomeno dell’integrazione da contratto ha messo in luce la virtù
strumentale dei contratti di durata e da qui occorre partire.
Attraverso le relazioni di lungo periodo le imprese contraenti riescono a conciliare due esigenze contrapposte: flessibilità, attraverso la scelta di non realizzare un’attività produttiva o distributiva in veste integrata, e stabilità della relazione in rapporto al tempo (come se i due contraenti fossero un solo soggetto); quello che contraddistingue il
52 V. par. 1, pag. 2.
contratto di durata non è il dato strutturale che conclusione e prestazione/i siano differite nel tempo poiché questo porterebbe a ricomprendervi fattispecie come la vendita a consegne ripartite. Ciò che vale ad identificare il contratto di durata è il fatto che esso è creato per la soddisfazione di uno speciale bisogno delle parti, che è quello di far fronte alle fluttuazioni del mercato in vista del soddisfacimento della domanda: dal momento che le fluttuazioni di domanda sono largamente imprevedibili e visto che l’impresa deve fronteggiare le esigenze dei consumatori, tutta l’organizzazione delle intermediate market transactions deve rapportarsi a instabilità e incertezza. Tutto questo comporta che dal punto di vista normativo la norma giuridica deve governare una struttura dove la continuità è un valore superiore alla completezza perché è la continuazione del rapporto che influenza la scelta di differire le intenzioni di raggiungere un accordo dettagliato sotto tutti i punti di vista.
L’impossibilità di effettuare previsioni sull’andamento della domanda influisce inizialmente solo sull’ultimo anello della catena di distribuzione, quello direttamente in contatto coi consumatori, successivamente però l’esigenza di programmazione del distributore va a coinvolgere a ritroso tutta la catena di distribuzione e trapassa a quella di produzione: questo è evidente ad es. nell’art. 1568 cc., dove si deduce che le richieste del somministrato sono in funzione della domanda che si determina a valle, ad opera dei consumatori effettivi; il contratto di durata svolge una sorta di funzione assicurativa perché l’organizzazione dei rapporti è pensata per assorbire incertezza e consentire programmazione.
Quando per far fronte ad un fabbisogno non determinabile i contraenti pattuiscono termini aperti l’allocazione del rischio da fluttuazioni cade sul venditore; per la stessa esigenza di far fronte all’incertezza egli troverà conveniente stipulare contratti a monte, trasferendo il rischio a ritroso: così mentre l’integrazione a valle tramite contratto ha la funzione di assicurare controllo sulla rete di distributori e contatto più immediato coi consumatori, quella a monte realizza un meccanismo di assicurazione e riassicurazione contro il rischio di fluttuazione della domanda.
Possiamo quindi concludere che il ricorso alla contrattazione di lungo periodo interessa non solo il momento di distribuzione ma anche quello di produzione; in entrambi i casi i rapporti di durata hanno funzione unitaria: dal punto di vista economico garantiscono la soddisfazione di un interesse durevole, da quello giuridico soddisfano la necessità di un adempimento continuativo o periodico. Bisogna
riconciliare il dato economico con quello giuridico, che ha prodotto tipi diversi attorno all’idea di prestazioni continuative o periodiche, cioè sulla base dell’idea di rapporti dove la durata è giustificata solo dalla dislocazione temporale dell’adempimento in un momento lontano rispetto alla conclusione.
La caratteristica ineliminabile dei rapporti in esame è che la prestazione/i sono determinate in funzione della durata, che comporta la necessità di continuazione della relazione e la dipendenza reciproca delle parti: possono considerarsi quindi di durata tutti i contratti degli stadi intermedi del ciclo di produzione e commercializzazione del prodotto, ad eccezione di quelli nei quali una parte è il consumatore.
Generalizzando, per avere un contratto di durata occorrono due condizioni:
1) dal punto di vista soggettivo, che nessuna delle parti sia un consumatore e che entrambe le parti siano professionisti (siamo quindi in presenza di contratti d’impresa);
2) dal punto di vista oggettivo, che investano il settore della produzione e della distribuzione e che siano impiegati per soddisfare un interesse durevole all’apporto dei beni e servizi in un arco di tempo abbastanza lungo.
Si è quindi inteso escludere dal punto di vista oggettivo quei contratti per i quali la durata è più una caratteristica della relazione in sé che non la conseguenza di un bisogno continuo delle parti.
Perciò si è ritenuto che il contratto di appalto per il compimento di un’opera o servizio (art. 1655 cc.) non sia un contratto di durata in quanto la continuazione dell’esecuzione non è determinata dal perdurare di un interesse in capo all’avente diritto ma dal fatto che il compimento dell’opera difficilmente può realizzarsi in un istante53; diverso ragionamento può farsi invece per l’appalto di servizi (art. 1677 cc.), dove l’elemento distintivo non è il compimento di un’opera ma l’apporto continuativo o ripetuto di prestazioni i servizi.
Allo stesso modo possono considerarsi inclusi fra i contratti di durata, e assorbiti nello schema tipo della somministrazione, la subfornitura, i contratti di distribuzione e tutti quelli che in generale si riportano all’idea di transazione intermedia del mercato.
Questo porta all’esclusione dei contratti xxxxxxx00.
53 Tale categoria può essere considerata ad esecuzione prolungata, cfr. XXXXXXXX, il tempo e il contratto, 208
54 Guardando ad esempio al mutuo, benchè il tempo abbia rilevanza in tale contratto, si è ritenuto che esso non entri nella definizione della fattispecie.
Questioni più problematiche rispetto alla loro inclusione o meno all’interno della categoria dei contratti di durata sono invece il contratto di lavoro dipendente e la somministrazione di lavoro.
Riguardo il primo, nonostante la sua dimensione relazionale e la sua ragione economica di assicurare un apporto continuativo di una determinata prestazione non può considerarsi un contratto di durata, in quanto manca il presupposto soggettivo della natura imprenditoriale in capo al dipendente; c’è sicuramente nel contratto una componente di verticalità, ma essa è data dal potere gerarchico del datore di lavoro sul dipendente e non si esprime nella relazione tra due soggetti imprenditoriali55.
Questione ancor meno agevole è quella della somministrazione di lavoro: fattispecie di recente formulazione56, pare innestare sullo schema tipo del contratto di durata l’elemento lavoristico; in realtà la formula è impropria, dal momento che la somministrazione ha ad oggetto la prestazione di cose, mentre l’erogazione di servizi in un rapporto di durata avviene secondo il diverso schema dell’appalto di servizi ex. art. 1677 cc. dove però chi rende la prestazione ha comunque natura imprenditoriale. Il problema non è quindi in questo caso la natura imprenditoriale del soggetto, ma il fatto che la dimensione temporale che pervade il rapporto discende non dall’esigenza di soddisfazione di un bisogno lungo dell’impresa, ma da quello di assicurare solamente flessibilità disponendo della prestazione del lavoratore somministrato per limitati periodi di tempo; la fattispecie quindi non difetta del presupposto soggettivo, ma di quello oggettivo proprio dei contratti di durata.
Se l’evoluzione storica della somministrazione precedentemente esposta57 è funzionale allo sforzo ricostruttivo in senso giuridico, ovvero l’identificazione di fattispecie contrattuali caratterizzate da prestazioni periodiche o continuative, è l’integrazione verticale da contratto che individua caratteristiche idonee a delineare i contorni dei contratti di durata: la definizione di contratto così raggiunta ha carattere funzionale, perché più che individuare un tipo, individua un’area di fenomeni negoziali che richiedono un trattamento giuridico diverso in ragione di alcune particolarità del rapporto.
55 Anche se avremo modo di vedere nel capitolo III come sui contratti di durata si affacci una nuova prospettiva, focalizzata sulla persona, che ha come oggetto proprio i contratti di lavoro, oltre alle fattispecie della locazione e del credito al consumo.
56 E’ stata infatti introdotta con il d.lgs. 10 Settembre 2003, n. 276.
57 Vedi par. II.
Temi come gli effetti della risoluzione per inadempimento (art.14581 cc.), il recesso, l’eccessiva onerosità, opportunismo devono essere trattati in modo particolare quando si parla di contratti di durata, ponendo attenzione prevalentemente alle dinamiche interne alla dimensione esecutiva del contratto, riferendosi a funzionalità all’organizzazione industriale, rilevanza dei costi transattivi post- formazione del contratto e all’interesse delle parti alla stabilità e flessibilità del rapporto.
4. PREMESSE ALLE ANALISI DELLE PATOLOGIE
Prima di affrontare le varie patologie che possono presentarsi all’interno del rapporto di durata è necessario fare delle piccole premesse. Abbiamo visto come il fenomeno dei contratti di durata sia un fenomeno complesso, caratterizzato da incertezza e interdipendenza delle parti. Quelle che tradizionalmente possono considerarsi patologie di un rapporto58 appaiono in essi condizioni normali della relazione, che si sforza continuamente di preservare un equilibrio che è esposto all’azione degli eventi che il trascorrere del tempo comporta.
La concezione sincronica e istantanea per lungo tempo prevalente ha avuto il fulcro del suo interesse nel momento di formazione del contratto, e con la comparsa delle fattispecie ad esecuzione continuata l’altro momento a cui il diritto ha dato rilievo è stato quello dell’eventuale eccessiva onerosità del contratto a causa di un evento non previsto e straordinario; la conseguenza di tutto ciò è stata la concentrazione dell’attenzione solamente su due momenti: quello indispensabile perché ogni vicenda venga ad esistenza, e quello aleatorio ed eccezionale. Tutto ciò che sta tra la formazione e la “morte” del contratto per lungo tempo è rimasto ignorato.
Per studiare i contratti di durata, bisogna porsi nella diversa ottica di un’attenta considerazione di tutti i segmenti del contratto, non solo dei due estremi: l’asse temporale infatti è lungo e caratterizzato da eventi di varia natura e intensità, e nonostante il dato che ha attirato di più l’attenzione dei legislatori sia stata l’eccessiva onerosità, per la sua capacità di determinare il collasso dell’operazione economica sottostante l’accordo, ci si rende pian piano conto che ci sono innumerevoli cambiamenti intermedi a nascita e fine del rapporto.
58 Per fare un esempio, il fenomeno dell’incompletezza.
In prima battuta, sono le parti a gestire la dimensione diacronica del rapporto, e possono farlo in due modi:
1) predisporre un accordo che disciplini ogni diversa situazione che si verifica nel tempo;
2) ricorrere a un accordo che contenga meccanismi di aggiustamento continuo.
In entrambi i casi, anche se nel primo le parti predispongono originariamente meccanismi per far fronte a problemi di difficile valutazione, possono verificarsi problemi di opportunismo poiché anche la presenza di un obbligo contrattuale di rinegoziazione e buona fede si presta all’approfittamento della parte che versa in condizioni migliori.
In uno scenario dove rilevano solo eventi straordinari e imprevedibili, se le prestazioni sono divenute svantaggiose, il contraente più svantaggiato ha come ultimo rimedio l’eccessiva onerosità sopravvenuta, mentre l’altro ha solo alternative favorevoli: continuare a godere del contratto reso più conveniente dall’evento favorevole, offrire di rinegoziare ricevendo un premio per aver collaborato, decidere di xxxxxxxxx se l’aggiustamento è conveniente anche per lui. Se però non ci sono i presupposti per il rimedio dell’eccessiva onerosità perché l’evento non è straordinario, il vincolo rimane, ovviamente alle condizioni dettate dalla situazione che si è verificata.
Le implicazioni del mutamento sono diverse, poiché mentre l’evento straordinario e imprevedibile compromette l’economia del rapporto è può raccomandare un aggiustamento, quando l’evento non è straordinario né imprevedibile ma comunque capace di rendere vulnerabile una delle parti, il rischio è proprio quello legato ad una modifica che si vorrebbe attuare ai danni della parte esposta.
Come già sottolineato sopra, il diritto che governa i contratti tra parti sofisticate e le operazioni complesse è un diritto che nasce dall’autonomia privata e che fa affidamento come rete di sicurezza sul diritto statale: giuridicamente l’interesse delle parti viene soddisfatto attraverso figure come l’appalto, la subfornitura, i contratti di distribuzione e la somministrazione, archetipo della contrattazione di lungo periodo.
Al di là della fattispecie considerata, i contratti di durata devono essere esaminati dal punto di vista della loro specificità, della funzione complessiva che devono svolgere e delle condizioni che devono essere rispettate.
Rispetto alla specificità, il rapporto di lungo periodo è caratterizzato da incertezza e complessità, da necessità di investimenti idiosincratici in
vista dell’adempimento e dalla ricorrenza di scambi e contatti tra contraenti; mentre i primi due aspetti possono essere potenzialmente presenti in tutti i contratti, l’ultimo aspetto presuppone uno schema di durata.
Per quanto riguarda la funzione complessiva, le parti di un contratto a lungo termine hanno precisi obiettivi, ovvero:
1) far si che la relazione si adatti al mutamento di variabili interne e esterne con ricorso a particolari clausole;
2) limitare gli incentivi all’inadempimento sulla base del fatto che la negoziazione è stata molto costosa e che trovare un altro contraente è difficile e dispendioso;
3) gestire il rischio di opportunismo, che in presenza di investimenti specifici e tempo dilatato è aspetto connaturato al contratto di durata;
4) predisporre meccanismi di gestione di eventi straordinari e
imprevedibili che possano compromettere l’equilibrio.
La funzione del contratto di lungo periodo che riassume tutte queste esigenze è quindi la necessità che tutti i contenuti siano ispirati alla massimizzazione dell’utilità contrattuale e la gestione del rischio di opportunismo.
Venendo alle condizioni che devono essere rispettate per la realizzazione degli obiettivi sopraelencati, esse sono essenzialmente due: minimizzazione dei costi transattivi, cioè quelli per prevenire un accordo e quelli da sostenere in ipotesi di rinegoziazione, e che la relazione sia possibilmente mantenuta autosufficiente, cioè evitare che essa sia determinata o aggiustata eteronomamente.
Questo ultimo punto tocca l’argomento del diritto dei contratti in relazione alle fattispecie di durata e quello del giudice di fronte alla volontà dei contraenti espressa nella relazione, ma quanto detto non deve indurre a concludere che le relazioni di lungo periodo vivano in completa assenza di diritto; perciò l’accesso a una qualche forma di giustizia e la disponibilità di norme giuridiche eteronome sono parte dell’analisi.
5. SALVAGUARDARE GLI INVESTIMENTI SPECIFICI: IL
PROBLEMA DELL’HOLD UP
La finalità principale delle parti nel porre in essere un contratto di durata è quella di assicurare nel tempo la massima flessibilità e prevenire la discrezionalità nei comportamenti (fonte di opportunismo contrattuale), nonché limitare l’ingerenza esterna.
Nel raggiungere questo obiettivo, le clausole incidenti su prezzo e quantità giocano un ruolo fondamentale: è su tali due clausole che si misura l’abilità dei contraenti nella gestione dell’incertezza di lungo periodo tramite l’uso delle poche informazioni disponibili al momento della negoziazione del contratto. La quantità si pone come variabile direttamente dipendente da fattori che sono sotto il controllo di entrambe le parti o almeno una, mentre invece il prezzo dipende solo in parte da fattori su cui i contraenti hanno potere d’intervento; da ciò consegue che le clausole prezzo nel lungo periodo sono più incerte di quelle sulla quantità ma la flessibilità del contratto è garantita solo agendo su tutte le variabili: se ad esempio fosse stabilita una quantità fissa e solo al prezzo fosse lasciata la possibilità di variare, l’emergere di un evento che rende necessario l’adeguamento del prezzo potrebbe rendere la relazione intollerabile per una delle parti; anche ricorrere a un prezzo fisso è sconveniente, perché non si è in presenza di uno scambio in un preciso momento del tempo con tutte le variabili identificate e stabili. Per assicurare gli obiettivi sopra indicati si dovrà adottare una clausola di prezzo variabile, e le parti dispongono di due possibilità:
a) rendere il prezzo rideterminabile, ovvero flessibile attraverso particolari tecniche che facciano riferimento al prezzo di mercato, siano a salire o siano indicizzate;
b) rendere il prezzo rinegoziabile, cioè fare in modo che al ricorrere di certe condizioni previste nel contratto questo si riapra e le parti rinegozino.
Ovviamente ognuna delle due soluzioni non è immune da difetti: i meccanismi di rideterminazione infatti assicurano flessibilità ma difettano perché essendo previsti ex ante non consentono alle parti di avvantaggiarsi della migliore situazione informativa in cui le parti si trovano nel momento in cui si produce la causa di aggiustamento; la rinegoziazione invece consente alle parti di usufruire delle informazioni disponibili proprio nel momento in cui esse sono rese necessarie dall’esigenza di adattamento, ma espone le parti alla tentazione di comportamenti opportunistici.
5.1. CLAUSOLE ELABORATE DALLE PARTI
Oltre a questi due meccanismi, la prassi dei contratti di durata offre una varietà di clausole per mezzo delle quali le parti cercano di bilanciare esigenze di flessibilità con il rischio di opportunismo:
- take-or-pay provision: clausola che rispetto al quantitativo minimo di acquisto fissato nel contratto prevede che l’avente diritto alla prestazione si obblighi a prelevare almeno il quantitativo minimo oppure a pagare l’equivalente. Questo meccanismo protegge l’affidamento della controparte e dà incentivi a questa per effettuare investimenti utili ai fini della prestazione, realizza quindi una sorta di assicurazione.
- walk-away provisions: clausola in base alla quale se l’avente diritto alla somministrazione non raggiunge il quantitativo minimo fissato per i periodi di riferimento, il fornitore ha diritto di rifiutare l’ordine e recedere dal contratto.
- meeting competition clause: clausola che subordina la continuazione degli acquisti alla condizione che il prezzo del fornitore rimanga a livelli competitivi rispetto a quello medio di fornitori in concorrenza con lui; tale clausola serve per stabilire quando il recesso è giustificato.
- clausole di esclusiva: clausola che nei contratti di durata può essere letta come un espediente contro l’hold up, nella misura in cui una o tutte e due possono rivolgersi al terzo.
5.2. RIMEDI DI DIRITTO PER OPPORTUNISMO IN CASO DI INADEMPIMENTO: LA BUONA FEDE
Dopo aver brevemente elencato alcune delle clausole predisposte dalla parti quale mezzo per bilanciare flessibilità e rischio di opportunismo, è opportuno affrontare le patologie tipiche dei contratti di durata, cioè i malfunzionamenti a livello esecutivo, guardare a quelle vicende che colpiscono il rapporto di obbligazione nel momento successivo alla sua formazione, e vedere come tutto questo viene affrontato dal diritto dei contratti.
In questa ottica, gli aspetti meritevoli di considerazione sono 4:
1) risoluzione del contratto per inadempimento;
2) fattispecie caratterizzate da opportunismo a scapito della massimizzazione dell’utilità congiunta;
3) il verificarsi di circostanze straordinarie e imprevedibili;
4) poteri del giudice e rimedi giurisdizionali a disposizione delle parti nella prospettiva del contenzioso.
Tutti questi aspetti, benché non nuovi, devono essere trattati in modo particolare quando sono rapportati al contratto di durata, concentrato più sull’esecuzione che sulla formazione, ed esposto alle circostanze esterne.
Concentriamoci meglio sul fenomeno dell’hold up: circostanze inattese, benché prevedibili, incidono sulla vita di relazione e portano talora modificazioni che finiscono per porre una parte in una posizione deteriore rispetto all’altra59; la caratteristica più problematica dell’abuso del vantaggio relativo (cioè non negoziato) determinatosi per effetto della modificazione di circostanze contrattuali interne o esterne è che esso tende a non emergere perché la minaccia di un’interruzione anticipata, rispetto al momento di recupero di investimenti idiosincratici60, frena ogni rivendicazione della parte svantaggiata, permettendo così alla parte avvantaggiata di ottenere vantaggi non negoziati originariamente. Inoltre, la disponibilità di rimedi contrattuali e procedure giurisdizionali ispirate ad una secca alternativa tra risoluzione e manutenzione non aiutano e non inducono le parti, o almeno quella svantaggiata, a rivolgersi al giudice.
In termini economici l’approfittamento di una situazione di vantaggio è identificato con il termine hold up, che sottende condotte diversificate, ed è una situazione che pende sul contraente avente interesse alla prosecuzione del rapporto e che per questo deve tollerare il ricatto.
Traducendo questa parola in termini giuridici, bisogna porre l’accento
su due elementi:
1) riguardo la vita del rapporto, si tratta di una circostanza sopravvenuta rispetto alla situazione esistente in fase di formazione del contratto;
2) si è in presenza di un potere contrattuale e il problema è quello di identificare i limiti del suo utilizzo.
Bisogna perciò trovare un punto di equilibrio tra due estremi: ritenere come abusivo o infondato l’esercizio di un potere sopravvenuto a fronte del cambiamento di circostanze, impedendo ogni modificazione del rapporto, oppure riconoscere come sempre possibili le modifiche che conseguono al suo esercizio.
Dal punto di vista economico il problema dell’hold up è stato collegato all’operare di costi transattivi sul mercato e agli investimenti specifici che le parti fanno in vista dell’adempimento: più alto è il livello di specializzazione dell’investimento, più alto è il costo necessario per identificare un diverso contraente o riconvertire le strutture industriali, più alto è il potere di ricatto che si ha sulla parte esposta dall’investimento.
59 Tutto ciò a prescindere dalla grandezza di un’impresa e del suo potere contrattuale
iniziale.
60 Ovvero investimenti specifici, fatti in relazione a quel particolare rapporto contrattuale.
Dal punto di vista giuridico il problema della minaccia dall’uscita del contratto interseca quello della stabilità dei rapporti: per l’ordinamento italiano l’art. 1375 cc. e, più in generale, una clausola generica di buona fede sono ritenuti strumento utile per arginare comportamenti opportunistici o ricattatori delle parti e questo a maggior ragione alla luce del significato che si è attribuito alla buona fede precedentemente61, come obbligo di massimizzazione delle utilità congiunte.
5.3. SEGUE. L’ARTICOLO 1564 CC.: XXXXX XXXXXXXX MA
INTERPRETAZIONE SBAGLIATA
Prima di interventi normativi recenti, si rinvengono solo sporadiche indicazioni per far fronte all’hold up, oltre a quella che fa leva sull’interpretazione della buona fede in senso anti-opportunistico.
Si è messo in evidenza che lo stesso contratto rappresenta una fonte di meccanismi intrinseci di prevenzione, poiché ogni azione interna ad esso presuppone costi transattivi che vanno sottratti dall’utilità attesa dal comportamento opportunistico e poiché la reputazione nei contesti commerciali è un dato importante, che è rischioso mettere a repentaglio con comportamenti scorretti62.
A riprova della moderna sensibilità relazionale, alcune norme sulla somministrazione mostrano virtù ad esempio nella repressione dell’opportunismo in caso di inesatto adempimento, come notiamo dall’art.1564 cc. che subordina la risoluzione per inadempimento al fatto che esso sia di « una notevole importanza » e sia « tale da menomare la fiducia nell’esistenza dei successivi adempimenti »; la norma alza la soglia in corrispondenza della quale il somministrante può liberarsi dal vincolo. Per la funzione che svolge bisognerebbe considerare tale art. una norma imperativa ed evitare che nella prassi si possano introdurre regole che escludano ogni giudizio sulla discrezionalità del somministrante.
61 Cfr. par. 3.
62 Per completezza, si segnala che nel diritto statunitense tutte le ipotesi di modificazioni del rapporto si scontrano con le difficoltà create dalla legal duty rule (se una parte è già legata da un contratto ad eseguire un certo obbligo, questo non può costituire giustificazione per un secondo contratto), che richiede, salvo eccezioni, il requisito di fresh consideration (valida giustificazione) perché si possa riconsiderare l’assetto di interessi consacrato nel contratto; tale regola, pur essendo concepita per contenere condotte anti-opportunistiche, accede ad uno dei due estremi esposti in precedenza: negare validità a ogni modificazione. Lo UCC ha attenuato la rigidità della regola, prevedendo che le modifiche di un accordo preesistente non richiedano autonoma consideration per la loro validità.
C’è poi da precisare che tale norma, nel complesso efficace a fronte di problemi opportunistici, è stata resa poco attenta alla dimensione relazionale da una linea interpretativa di cui si ha traccia in giurisprudenza, ovvero quella che ritiene che l’inadempimento in prossimità della scadenza di un contratto di durata debba essere valutato con minor rigore, proprio perché la vicinanza alla scadenza non consentirebbe di ritenere che quell’inadempimento possa menomare la fiducia: la direzione in cui si spinge questa ricostruzione è sbagliata perché introduce nella valutazione dell’inadempimento un aspetto che non è presente nella norma (cioè la prossimità alla scadenza) in quanto l’art. 1564 cc. si limita a fare riferimento a successivi adempimenti, ammettendo che anche uno solo o molti devono essere considerati parimenti meritevoli di tutela.
Le conseguenze di tale interpretazione hanno seri risvolti se ci si pone nell’ottica delle parti: in prossimità della scadenza esse potrebbero valutare la possibilità di rinnovare il contratto o prolungarne l’efficacia oltre il termine ed è possibile che in vista di tale prosecuzione siano indotte ad ulteriori investimenti specifici o abbiano sostenuto costi per aprire nuove fasi di negoziazione; da tale punto di vista non si può dire che l’inadempimento sia meno grave.
Un’interpretazione del genere può provocare una patologia, poiché se si sa che l’inadempimento in prossimità della scadenza riceve un trattamento meno severo, il rischio è che ciascuna parte cerchi di anticipare l’inadempimento dell’altra con una retroazione, così da conferire incertezza transazionale a tutta la relazione e rendere preferibile una reiterazione di singoli contratti (con aumento di costi transattivi) invece di optare per un contratto di durata.
È chiaro che il legislatore non può aver optato per una disposizione che riguardo ai rapporti di durata tende a irrigidire il vincolo contrattuale per scongiurare comportamenti opportunistici ma poi lo affievolisce con un diverso metro di valutazione dell’inadempimento quando esso si verifica nel momento in cui la relazione è in via di esaurimento; un’interpretazione del genere denoterebbe una scarsa sensibilità alla dimensione relazionale.
5.4. RIMEDI DI DIRITTO PER ALTRI VIZI FUNZIONALI:
L’ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA
Dopo aver fatto luce su un’ipotesi di opportunismo in caso di inadempimento, proseguiamo nel tentativo di identificare vizi funzionali del rapporto, cioè quelli che si verificano dopo la
conclusione del contratto ma prima della risoluzione o dell’adempimento: ci si imbatte in una serie di comportamenti che come già detto solo recentemente hanno acquisito autonoma luce e che la giurisprudenza ha iniziato a sanzionare.
Le condotte di approfittamento rese possibili dal sopravvenuto potere contrattuale, benché non elencabili, appaiono riconducibili ad alcune fattispecie.
Alcune condotte sono tipiche della fase di instaurazione del rapporto e si riflettono nel contenuto dell’accordo, determinando conseguenze sulla validità di esso e ricevendo sanzione attraverso norme già presenti nell’ordinamento: si pensi al rifiuto di vendere o di comprare o all’imposizione di condizioni contrattuali gravose; queste ipotesi sarebbero escluse dalla trattazione che stiamo facendo qui in quanto non riguardano gli effetti del rapporto ma la sua instaurazione, se non fosse che il sopravvenuto potere contrattuale può essere funzionale a finalità ricattatorie dirette a modificare il contratto durante la vita del rapporto o ad accettazione di condizioni non precedentemente pattuite. Perciò, il rifiuto di vendere o di comprare può essere rappresentato da una condotta omissiva tenuta non necessariamente in fase di negoziazione.
Con andamento non sempre consapevole del significato relazionale delle norme, sia l’imposizione di condizioni inique che i rifiuti di contrattare, l’interruzione arbitraria di rapporti contrattuali e il mancato rinnovo sono stati fatti oggetto di interventi normativi; è utile ripercorrerne i contenuti per accertare il livello di rispondenza ai parametri di amministrazione del contratto di durata secondo la prospettiva relazionale.
L’art. 9 della legge 18 Giugno 1998, n.192 sulla subfornitura industriale vieta l’abuso di dipendenza economica nei rapporti tra imprese; la dipendenza implica continuazione del rapporto e questo rende chiaro il collegamento tra abuso di dipendenza economica e contratto di durata, soprattutto nell’accezione proposta precedentemente di veste giuridica delle intemediate market transaction.
Secondo l’art. 92 di tale legge l’abuso vietato può consistere nel rifiuto di vendere o di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali gravose o discriminatorie o nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto, quindi contempla tutte quelle ipotesi di cui sopra si è parlato come paradigmatiche di condotte opportunistiche.
Ci sono alcuni elementi che indicano che l’avvento di tale clausola non
è stato accompagnato da una diffusa consapevolezza della sua portata:
se infatti fossero state chiare le patologie dei contratti di durata e la loro dimensione relazionale, l’abuso di dipendenza economica sarebbe stato introdotto in maniera autonoma, piuttosto che in occasione della disciplina della subfornitura e neppure si sarebbe dubitato della generale applicabilità della norma a tutti i contratti di durata. A conferma di questa inconsapevolezza di fondo è necessario menzionare un altro provvedimento legislativo, quello sul franchising o affiliazione commerciale, l. 6 Maggio 2004, n. 129: in essa il legislatore ha inteso introdurre, nell’art. 33, una disciplina specifica sulla durata minima del rapporto (quando a tempo determinato), che deve essere tale da consentire l’ammortamento iniziale dell’investimento da parte dell’affiliato, ovvero il recupero degli investimenti specifici, e comunque non inferiore a tre anni63. Possiamo chiaramente notare che tale norma è ridondante o comunque maggiormente specificativa di quanto già previsto nell’art. 9 della legge 192/1998 e forse anche di quanto era già previsto nell’art. 1569 cc.64: mentre era noto al legislatore che nella dinamica del rapporto di franchising il carattere idiosincratico degli investimenti dell’affiliato esponesse egli all’opportunismo della controparte, quello che è sfuggito è stato che tale tipo di contratto non è una fattispecie isolata, bensì una species del genere contratto di durata65; sembra poi che, nonostante la correttezza del principio di tutela dell’investimento, l’imposizione di una durata minima del contratto sia inutile o dannosa: se il giudice è già autorizzato a sindacare ex post l’adeguatezza della durata del rapporto in relazione agli investimenti specifici, l’imposizione di un minimo triennale potrebbe risultare eccessiva o insufficiente.
Oltre a questo c’è da dire che con riguardo alle vicende di abuso di dipendenza economica non è stata compresa neppure l’intima relazione tra contratto di durata, mercato e condizioni di mercato, al punto che è stata necessaria una novella, che ha chiarito l’ambito di applicazione dell’abuso di dipendenza e stabilito i corretti rapporti con le norme di diritto della concorrenza66: è chiaro che le fattispecie finora descritte
63 Per il contratto pattuito a tempo indeterminato non è detto nulla, ma la dottrina ritiene che la disposizione trovi applicazione anche in questo caso.
64 Tale art. infatti, relativamente alla somministrazione, stabilisce l’obbligo di preavviso per il recesso da contratti di durata stipulati a tempo indeterminato, facendo riferimento al termine pattuito o a quello stabilito dagli usi o, in mancanza, a quello congruo tendendo conto della natura della somministrazione; tale norma lascia ampio spazio all’interprete per tener conto delle ragioni della parte che subisce il recesso e per far si che la minaccia di esso non produca effetti distorti.
65anche l’art. 6 della stessa legge, che prevede obblighi di correttezza, lealtà e buona fede in capo ai contraenti, appare una ripetizione di quanto già contenuto nel codice. 66 Cfr. legge 5 Marzo 2001, n. 57, art. 11.
non mostrano carattere lesivo in generale, ma in rapporto alle caratteristiche di un contratto di durata come forma organizzativa alternativa all’integrazione strutturale. Un recesso ad nutum da un contratto infatti non è così pericoloso come quando una delle parti abbia fatto investimenti specifici o abbia promesso di non svolgere concorrenza o quando le condizioni di mercato rendono difficile l’identificazione di una nuova impresa cliente o fornitrice.
Se comportamenti opportunistici vengono posti in essere da un’impresa con potere di mercato, i comportamenti sono illeciti, ma la qualificazione dell’illiceità di essi deriva dalle norme antitrust: la dannosità riguarda direttamente gli effetti sul mercato in termini di riduzione della concorrenza o di perpetrazione di una situazione di oligopolio o monopolio; nella tutela immediata della concorrenza però trova soddisfazione anche l’interesse dei concorrenti.
Nelle fattispecie dove invece non si pone una questione di potere di mercato, non sono più le condizioni concorrenziali di esso ad essere oggetto di tutela, ma l’interesse della controparte debole (cd. dominanza relativa) danneggiata dalla condotta opportunistica: anche qui però possiamo notare che se il mercato fosse perfettamente concorrenziale, e quindi esistessero alternative soddisfacenti a livello di imprese clienti o fornitrici, il comportamento non sarebbe dannoso né abusivo.
Perciò la contrapposizione tra diritto dei contratti e diritto della concorrenza, l’uno come dominio dell’autonomia privata, l’altro come dominio dell’iniziativa economica, va corretta: si deve introdurre una terza area di rilevanza, quella del mercato nel diritto dei contratti; è in questo senso che si spiega il riferimento dell’art. 9 l. 192/1998 alla presenza di alternative commerciali per valutare l’abusività della condotta.
In conclusione, possiamo ritenere che la possibilità di trovare alternative soddisfacenti sul mercato come elemento definitorio dell’abuso, e l’indicazione delle condotte che possono considerarsi abusive, discendono dal complesso delle caratteristiche relazionali proprie dei contratti di durata; al di là di esse è difficile che la norma abbia un’applicazione significativa.
Nell’analisi fatta abbiamo evidenziato la progressiva attenzione ed estensione della giuridicità anche alle vicende modificative del rapporto, non sempre irrilevanti e non derivanti da circostanze straordinarie e imprevedibili, ma dall’esposizione del rapporto all’azione del tempo. Dalla modificazione della posizione delle parti discendono comportamenti che hanno via via ricevuto il giusto rilievo
come atteggiamenti da sanzionare, la cui dannosità discende dalla possibilità di determinare un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi nei rapporti con la controparte67.
Merita attenzione a questo proposito l’art. 9 della l. 192/1998, che nella sua formulazione non fa alcun riferimento alla conclusione del contratto, rendendo implicitamente chiaro che l’eccessivo squilibrio68 può determinarsi in qualsiasi momento; nella prospettiva del contratto di durata quindi il problema non è solo ciò che si riesce a negoziare, ma quanto si mantiene condiviso il proposito prescelto di massimizzazione dell’utilità congiunta, e fin tanto che non si dispone di un mezzo adeguato (come l’art.9) o lo si interpreta come incidente sul momento di formazione, si tende a privilegiare il momento di creazione del vincolo come esclusivo e questo perché rispetto a tale momento c’è sempre stato un qualche rimedio.
Bisogna infatti segnalare che la giurisprudenza ha dimostrato imbarazzo ad applicare rimedi non tradizionali, come l’abuso di dipendenza economica, a parziale correzione o deroga dell’autonomia privata perché essi conferirebbero poteri di natura eccezionale al giudice69; ma questo è solo un retaggio del fatto che tutto ciò che non è tradizionale, è percepito come eccezionale, anche se il fenomeno del contratto di durata è ben noto e non dovrebbe essere valutato come di carattere episodico.
Fuori di ogni dubbio però è la natura dei rimedi visti sopra: intendendo per contratto non solo il prodotto dell’incontro di due volontà ma una vicenda proiettata nel tempo, l’abuso di dipendenza economica è fonte di responsabilità contrattuale.
6. SOPRAVVENIENZE E MODI DI GESTIONE: IL PROBLEMA
DELL’ECCESSIVA ONEROSITA’ SOPRAVVENUTA
Finora abbiamo cercato di mostrare, attraverso l’analisi della patologia dell’opportunismo, l’esistenza di una terza dimensione rilevante per il contratto di durata.
La prima dimensione concerne la conclusione dell’accordo e dal punto di vista patologico contempla i cd. vizi genetici della fattispecie, come vizi del consenso e disparità di potere contrattuale.
67 Questa è, in sintesi, la definizione di abuso di dipendenza economica.
68 Perché nei contratti di durata c’è sempre un naturale squilibrio, ed è solo quando
diventa eccessivo che il proposito iniziale è frustrato e la norma trova applicazione.
69 Questo presuppone una riflessione sui poteri del giudice e sul ruolo del diritto nei contratti di durata, di cui xxxxxxxxx in seguito.
La seconda dimensione è quella del sopravvenire di eventi straordinari o di intensità tale da mettere in crisi l’economia del rapporto, eventi che le parti non hanno previsto e non hanno perciò potuto regolare; il novero delle patologie riconducibili a un evento non previsto viene ascritto alla categoria dei cd. vizi funzionali, ovvero difetti che incidono sull’esecuzione del rapporto, sul suo svolgersi, quali sono l’impossibilità sopravvenuta e l’eccessiva onerosità sopravvenuta.
La terza dimensione (di cui ci siamo occupati nel precedente paragrafo), è destinata ad arricchire le varietà ricondotte ai vizi funzionali: un’area di rilevanza per circostanze che si modificano e mutano la posizione delle parti nel corso del rapporto, creando in capo ad una di esse un potere.
Parlando da un punto di vista più generale della terza dimensione quindi, va affrontato il problema dell’adeguamento complessivo del contratto di durata, quindi dei modi di gestione in genere delle sopravvenienze, soffermandosi sulla dimensione tradizionale dell’evento sopravvenuto che rende la relazione improseguibile.
Oltre all’impossibilità cd. assoluta di prestare, che è causa di risoluzione del rapporto, esiste anche quella cd. relativa (intesa come onerosità), e l’evento che rende onerosa la prestazione pone il problema di adattamento e ricerca di rimedi che non solo le parti, ma anche i legislatori si propongono di rintracciare.
I rimedi utilizzati dall’autonomia privata manifestano la dimensione relazionale e cooperativa che le parti sanno di dover assumere in un rapporto di durata: tali espedienti tendono di solito a gestire la crisi aprendo una parentesi di riflessione e discussione all’interno del rapporto; non si riscontra la previsione di un rimedio definito, perché è molto difficile dare una risposta ad una specifica questione ex ante, ma una volontà comune di differire l’individuazione di una soluzione nel momento in cui si verifichi una circostanza che renda improseguibile il rapporto.
È da notare poi che nel diritto italiano la soglia di rilevanza degli eventi è definita dal concetto di « alea normale » del contratto70, ovvero il rischio inerente ad ogni operazione contrattuale relativo a variazioni di costi e valori delle prestazione; tale concetto è rilevante per le norme sulle sopravvenienze, poiché il superamento dell’alea normale denota l’eccessiva onerosità della prestazione. Le parti però, sono libere di introdurre ulteriori stati di rilevanza delle circostanze
70 Cfr. art. 1467, comma 2.
xxxxxx così sul menzionato criterio, dando vita ad una gestione concordata della nuova situazione.
6.1. L’EVOLUZIONE DELLA RECENTE DISCIPLINA
NORMATIVA IN COMMON E CIVIL LAW
Al di là della gestione delle sopravvenienze71 concordata dalle parti, si pongono le norme eteronome, riguardanti eventi capaci di rendere impossibile o impraticabile la prestazione: la disciplina riconnessa al mutamento delle circostanze o sopravvenienze (changed circumstances) ha una storia recente che accomuna diritto continentale e common law inglese e statunitense, di cui conviene ripercorrere l’evoluzione.
La dottrina delle changed circumstances affonda le sue radici nel Medio Evo a partire dalla filosofia tomistica72, che declina poi nel XIX secolo in conseguenza dell’ascesa del dogma della volontà, espresso dal principio pacta sunt servanda, che sancisce anche l’importanza del momento di formazione del contratto a scapito della dimensione dinamica del rapporto; ci vorrà più di un secolo perché dottrina e giurisprudenza comincino a riflettere sulla sopravvenienza. I tentativi di attenuazione del principio hanno fatto ricorso a vari espedienti, ad esempio l’errore bilaterale, per rimediare alla circostanza imprevista, ma riferirsi a vizi di volontà è inadeguato: l’errore consiste in una cattiva rappresentazione di una circostanza esistente al momento della conclusione e scoperta di solito a breve distanza da tale momento, mentre la sopravvenienza non è soltanto una circostanza inesistente al momento dell’incontro delle volontà, ma anche manifestantesi a distanza rilevante di tempo dalla conclusione del contratto.
Ma esaminiamo meglio le varie tappe di questo percorso.
La vera evoluzione del diritto dei contratti parte proprio dal rimedio contro l’impossibilità assoluta di eseguire la prestazione: negli ordinamenti colpiti da scompensi economici di origine bellica e post- bellica vengono proposte varie teorie, che porteranno alla commercial impraticability di UCC §2-615 e al nostro art. 1467 cc..
Lo scoppio della Prima Guerra mondiale e il suo impatto
sull’economia costrinsero la dottrina a riflettere sulla possibilità di
71 Intese, come abbiamo visto, non necessariamente come eventi straordinari ma come perturbazioni del normale svolgimento del rapporto.
72 Xxxxxxx x’Xxxxxx elabora una teoria sulla base di quella aristotelica dell’equità, in base alla quale una promessa non può essere mantenuta in circostanze nelle quali il promittente non avrebbe voluto essere vincolato.
configurare un rimedio contro le sopravvenienze; il problema fu individuare il fondamento dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, poiché non vi erano indicazioni normative: la quasi totalità degli autori era convinta che il fondamento generico dell’istituto fosse volontaristico, come era del resto tipico in un epoca dove le teorie della volontà erano di spicco e dove perciò al di fuori della diversa volontà delle parti, la forza di legge del vincolo andava rispettata; riguardo invece al fondamento specifico dell’istituto, come già accennato sopra, venivano proposte varie soluzioni: vizi di volontà, principio della responsabilità, proporzionalità delle prestazioni. Dal punto di vista applicativo però la giurisprudenza rimaneva legata al principio della forza di legge del vincolo, ammettendo eccezioni solo quando la causa di forza maggiore determinasse impossibilità di adempiere, non quando invece ci fosse difficoltà, anche gravissima, di eseguire, che non autorizzava la rottura di contratti stipulati. Solo all’esito delle vicende belliche il nuovo codice introdusse l’art.146773 cc., fornendo un rimedio contro le sopravvenienze.
Poco diversa è stata l’evoluzione nella common law: la prima giurisprudenza inglese era attestata sul principio per cui la prestazione è sempre dovuta, ma si specificava comunque che se si vuole rendere la prestazione condizionata rispetto al verificarsi o meno di un evento è consentita alle parti l’espressa previsione di ciò; da questo spazio riconosciuto all’autonomia privata sono nate le clausole di forza maggiore, originariamente pensate per l’impossibilità sopravvenuta assoluta74. L’eccessiva onerosità riceverà riconoscimento solo più tardi e con essa anche il ruolo del giudice; il mutamento di prospettiva da impossibilità assoluta come causa di scioglimento del vincolo ad altre forme di impossibilità avviene quando si comincia a sostituire il termine impossibility con quello di frustration (termine più equivoco): in queste ipotesi l’evento sopravvenuto non rende fisicamente impossibile la prestazione, ma rende inutile il contratto per le finalità originariamente previste dalle parti. Bisogna sottilineare però che nel caso degli ordinamenti di common law, anche dopo l’introduzione della commercial impraticability nello UCC, le pronunce che hanno riconosciuto l’eccessiva onerosità sono state poche e hanno trovato
73 Cfr. tale articolo.
74 L’impossibilità assoluta, lo ricordiamo, è impossibilità di fornire la prestazione, ed è diversa da quella relativa che invece è una difficoltà grave, eccessiva, nell’adempiere, ma non un’impossibilità.
anche notevoli critici, ma questo più per la natura dei rimedi talvolta adottati che per il difetto dei presupposti75.
Concludendo, la riemersione dell’argomento del mutamento delle circostanze nelle esperienze nazionali dopo il silenzio osservato a causa dell’affermazione del principio volontaristico, ha portato una frammentazione terminologica: sono diverse le conseguenze che scaturiscono da una prestazione impossibile in senso assoluto e da una che, seppur possibile in astratto, ha un costo inaccettabile per una delle parti.
6.2. RIMEDI PIU’ ADEGUATI PER LA SOPRAVVENIENZA ALL’INTERNO DEI CONTRATTI DI DURATA
Veniamo adesso a guardare questo rimedio con riferimento specifico alle fattispecie di durata: nonostante le faticose conquiste raggiunte a dispetto dell’intransigenza della forza di legge creata dall’incontro di volontà vengano applicate a tutte le fattispecie in cui conclusione ed esecuzione sono distanti nel tempo76, per i contratti di durata nell’accezione di cui si è parlato in precedenza ci sono due profili ulteriori di complessità:
1) è possibile trovarsi a discutere della sopravvenienza quando il rapporto è ancora in corso e può perciò risultare più utile trovare un rimedio di tipo continuativo, piuttosto che risolutivo;
2) c’è esigenza di tutela degli investimenti specifici che nella relazione di durata espongono una parte al potere dell’altra77.
Il problema è importante dal punto di vista dei poteri del giudice, sia perché la risoluzione, come configurata dall’art. 1467 cc, non lascia rimedi alternativi ad essa, sia perché, ricorrendo i presupposti per la risoluzione, il recupero di costi sostenuti in vista dell’adempimento non può giustificarsi sulla base di un giudizio di responsabilità della parte aggravata.
Quali sono quindi i rimedi più adeguati verso la sopravvenienza che si
verifica all’interno dei contratti di durata?
È necessario premettere che anche se le parti hanno ex ante previsto meccanismi per far fronte a cambiamenti non è detto che con tale
75 In alcune ipotesi infatti, al riconoscimento della sopravvenuta onerosità è seguita la riscrittura del contratto da parte del giudice.
76 Cioè l’art. 1467 cc. viene applicato sia al contratto ad esecuzione continuata o periodica, sia a quello ad esecuzione differita; cfr. anche FICI, Il contratto incompleto, 85.
77 Qui si pone il problema del contenimento dell’opportunismo e di misure
risarcitorie o indennitarie che contemperino gli interessi delle parti.
attività abbiano inteso rinunciare ad avvalersi di regole legali relative al rischio contrattuale; i rimedi di tipo legale sono considerati una regola dispositiva, sia nel senso che viene applicata nel silenzio delle parti, sia nel senso della sua applicazione quando la determinazione autonoma di esse non è in grado di gestire la sopravvenienza.
Detto questo, l’ipotesi di partenza è che il criterio di massimizzazione delle utilità congiunte possa avere efficacia anche nell’ambito delle sopravvenienze.
Gli ordinamenti hanno sempre posto la questione in termini di alternativa tra adempimento e risoluzione, e la scelta dell’uno o l’altra è subordinata al ricorrere di determinati presupposti, che nel caso dell’eccessiva onerosità sopravvenuta sono identificati nella straordinarietà e imprevedibilità dell’evento: la prima indica un fatto che non rientra tra quelli che accadono secondo un certo ordine, la seconda indica invece un fatto che non è arrivato ad un punto di maturazione tale che ogni uomo di media prudenza possa aspettarselo. Da subito si è sentita l’esigenza di ancorare il giudizio di prevedibilità ad un “contraente ideale”78; comunque il dovere di previsione è un dovere il cui adempimento va valutato in caso di verificazione dell’evento, e deve considerarsi come dovere non posto nell’interesse dalla parte, ma nell’interesse all’instaurazione di una relazione efficiente e stabile (in linea con un’ottica di massimizzazione dell’utilità congiunta). L’adempimento di tale dovere permette di vedere se l’impossibilità, sia pure relativa, è imputabile, e quindi è fonte di responsabilità, oppure è scusabile, e quindi fonte di risoluzione del rapporto.
Se non ricorrono i presupposti per l’applicazione dei rimedi sulle sopravvenienze, il giudice deve astenersi dall’intervenire sul contratto, e disporre la prosecuzione del rapporto alle condizioni originarie (soluzione dell’adempimento).
Le difficoltà del binomio adempimento/risoluzione si verificano laddove c’è un’obbligazione in ragione dell’interesse continuativo di una delle parti, perché in questa ipotesi la norma dovrebbe considerare un interesse ulteriore a quello di non adempiere se la prestazione è divenuta eccessivamente onerosa, ovvero quello di proseguire il rapporto su basi diverse: in presenza di investimenti specifici, di condizioni esterne al mercato che non favoriscono la copertura di bisogni e collocazione del contratto a un livello intermedio della catena
78 Il comportamento dell’uomo normale trovantesi nelle condizioni sociali e nell’ambiente economico in cui vive il contraente.
produttiva o distributiva, l’interesse alla prosecuzione appare non trascurabile.
La prassi mette in luce la presenza di meccanismi di aggiustamento del contratto che fanno presumere:
1) volontà delle parti di sottrarsi, per quanto possibile, al giudice;
2) volontà di aggiustare il rapporto.
Questo non perché i contraenti siano contrari all’intervento del giudice, ma per predisporre una relazione che sia in grado di sopravvivere il più possibile alla tentazione di ricorrere al giudice da un lato, e fornirgli elementi utili in caso di contenzioso, dall’altro. A questo proposito, il capitolo 6 dei Principi Unidroit sembra aver recepito queste esigenze, prevedendo una serie di alternative, come la rinegoziazione, grazie alla quale il giudice o arbitro può decidere se risolvere il rapporto o adeguarlo.
Possiamo dire che comunemente le soluzioni che si possono adottare in presenza dei presupposti di eccessiva onerosità sono tre:
a) la risoluzione;
b) l’obbligo di rinegoziazione;
c) l’aggiustamento.
Guardando alla seconda, a lungo la dottrina si è interrogata sulla possibilità di configurare tra i rimedi alternativi alla risoluzione ex art. 14671 cc. anche un obbligo di rinegoziazione a carico di entrambe le parti per favorire un aggiustamento concordato; l’obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto ben si presta ad assecondare la possibilità di una tale rinegoziazione (soprattutto se declinato come obbligo di massimizzazione dell’utilità congiunta).
Riguardo la terza soluzione, si discute se sia configurabile un obbligo di riequilibrio al di fuori delle norme sulle sopravvenienze e si possa ammettere un intervento del giudice sganciato da un’iniziativa delle parti, facendo magari leva, ancora una volta, sulla buona fede. Si riscontra in questo caso una tensione tra aperture e dubbi, dettati soprattutto dal pericolo di sovvertimento del principio dell’autonomia privata, per il fatto che venga concesso al giudice o all’arbitro il potere di riscrivere il contratto.
Posta su un piano più generale, tale questione si riconnette al problema delle patologie del contratto di durata, che portano un mutamento di tutte le circostanze e determinano alcune volte difficoltà insormontabili di adempimento, altre volte comportamenti opportunistici e ricattatori; perciò si è sostenuto che il rispetto dell’autonomia contrattuale non può comportare il totale astensionismo del giudice dal contratto se questo avviene al costo di ingiustizie.
6.3. SEGUE. IL PARTICOLARE RIMEDIO DELLA REDUCTIO AD AEQUITATEM
Tratto originale presenta il rimedio dell’offerta di riduzione ad equità del contratto divenuto eccessivamente oneroso nel diritto italiano: secondo l’art. 14673 cc., la parte che non ha subito l’evento straordinario e imprevedibile può impedire la risoluzione del rapporto mediante un’offerta; bisogna verificare se tale previsione è idonea a favorire soluzioni efficienti.
Lo snodo interpretativo dell’articolo è il passaggio dalla possibilità di previsione dell’evento al dovere di previsione, dovere da adempiere con massima diligenza; se le parti hanno negoziato prevendendo tutto quello che si sarebbe dovuto prevedere in un preciso momento, nel momento in cui si verifica la sopravvenienza, non le si può costringere a quella relazione disponendo l’adempimento, e anche la rinegoziazione entro uno schema diverso da quello che avevano previsto, ma influenzata dal quadro precedente, è esercizio dagli esiti incerti.
La reductio ad aequitatem ex art. 14673 cc. conferisce poteri asimmetrici tra giudice e parti e tra le parti nei loro reciproci rapporti e da ciò nasce la duplice possibilità di opportunismo ad opera del contraente non onerato, poiché ha a disposizione varie soluzioni.
Il promissario può vedere cosa farà la controparte e come si orienterà il giudice poiché è chiaro che se egli non ha interesse alla prosecuzione del rapporto non farà nulla per impedire che il giudice accerti l’eccesiva onerosità e dichiari la risoluzione; l’altra parte si ritroverà così con costi della parziale esecuzione a carico e senza contratto.
Se invece il contraente non onerato ha interesse alla prosecuzione, può agire in qualsiasi momento offrendo di ridurre il rapporto ad equità e determinando l’adeguamento: l’offerta è però condizionata alle posizioni contrattuali d’origine, che sono insoddisfacenti a causa della verificazione dell’evento; il promissario non andrà mai oltre quanto sufficiente perché il contratto torni ad essere accettabile e il contratto sarà riequilibrato su un piano che non sarà mai quello cui le parti sarebbero arrivate grazie ad una nuova negoziazione. Se non si configurano perciò poteri adeguati di intervento del giudice, la nuova situazione non potrebbe dirsi efficiente.
Ciò che favorirebbe una rinegoziazione a condizioni mutuamente più convenienti sarebbe piuttosto che la norma, nel caso di un interesse della parte non onerata alla prosecuzione del rapporto, disponesse senz’altro la risoluzione; in questo caso la minaccia di essa porterebbe
la parte onerata in una situazione migliore e lascerebbe quella non onerata senza contratto, creando i presupposti per una rinegoziazione più equa. Si ritiene che sarebbe persino più efficiente una situazione nella quale il giudice ha potere di disporre la risoluzione in qualsiasi momento nel quale sia stato raggiunto il convincimento che l’esecuzione è eccessivamente onerosa.
Concludendo quindi, possiamo dire che nella sua attuale formulazione l’art. 1467 cc. non è una norma adeguata, perché non riesce ad andare oltre quello che le parti pattuirono al momento della conclusione del contratto 79, e non apre ad un aggiustamento sulla base di condizioni economiche sussistenti al momento di verificazione della sopravvenienza.
Ripercorrendo brevemente le varie tappe, vediamo che si è partiti dall’indissolubilità del vincolo contrattuale per vicende successive alla sua instaurazione, a forme di attenuazione che hanno reso possibile affiancare all’inadempimento l’evento della risoluzione non imputabile per fatti sopravvenuti, per arrivare ad un momento di ulteriore evoluzione, ovvero la raggiunta consapevolezza della dimensione diacronica come normale condizione dei contratti di durata; tale dimensione è ricca di eventi straordinari e non, imprevedibili e non, capaci di spostare gli equilibri interni del contratto.
Il ricorso della dottrina all’istituto delle cd. sopravvenienze atipiche e gli strumenti divisati dall’autonomia privata per gestire la relazione sono il più evidente segnale dell’insufficienza di una concessione del diritto dei contratti di durata che guarda agli eventi straordinari e imprevedibili come gli unici capaci di far collassare le basi del contratto o rendere la relazione improseguibile80. Esistono infatti cambiamenti delle circostanze che sono presupposto di condotte che spostano le sorti delle parti e per esse si pone il problema di cosa debba fare il diritto, se consentire o obbligare la rinegoziazione, se impedire la risoluzione ecc.; parte delle risposte cominciano ad affiorare da una legislazione non sempre consapevole81, ma il motivo conduttore resta comunque quello di assistere l’autonomia privata durante la vita del contratto.
79 Dal momento che anche la riduzione ad equità deve avvenire all’interno del limite
posto dalle condizioni originarie.
80La mancata capacità di prevedere rimedi generici per sopravvenienze diverse da eventi imprevedibili e straordinari è manifestata chiaramente nell’introduzione dell’abuso di dipendenza economica come relativo al solo contratto di subfornitura e i dubbi sulla sua applicabilità a tutti i contratti di durata, v. supra pag. 27.
81 Anche per questo vedi paragrafo precedente.
Dire quindi che esiste un terzo momento di rilevanza nella vita dei contratti di durata significa riferirsi ad una continuazione di prestazioni: rinegoziare un contratto o riformarlo hanno senso se permane un interesse alla prosecuzione del rapporto, manifestato con la scelta di una fattispecie che si riferisce ai tipi di durata; perciò nei contratti di durata le patologie possono vedersi come contrarie al principio di massimizzazione delle utilità congiunte, compromettenti gli investimenti specifici in vista dell’esecuzione, come opposte all’aspettativa al mantenimento di un rapporto che potrebbe essere difficile da rimpiazzare.
7. UN EFFICIENTE DIRITTO DEI CONTRATTI DI DURATA: TEORIE
Il prolungato dibattito sul miglior diritto dei contratti, che continua ad interessare gli studiosi, coinvolge anche le fattispecie di durata, che presentano problemi maggiori rispetto alle altre tipologie. Le posizioni sul ruolo del diritto e dei giudici rispetto al contratto possono essere riassunte nel confronto tra funzionalisti e formalisti, anche se molte posizioni dell’uno e l’altro fronte hanno fondamenti comuni e si differenziano solo negli esiti. Uno degli aspetti comuni è quello di individuare nell’incompletezza la ragione delle disfunzioni del rapporto; e benché la nozione di contratto incompleto possa solo in parte considerarsi sinonimo di contratto di durata, poichè ricomprende anche altre tipologie contrattuali82, è fuori dubbio che la fattispecie a lungo termine sia caratterizzata da incompletezza.
Come già precedentemente osservato nel primo capitolo, l’incompletezza può derivare dalla presenza di costi transattivi (che comportano un atteggiamento delle parti orientato alla razionalità limitata), oppure da asimmetrie informative tra le parti o da imprevedibilità degli eventi.
Ognuna di queste cause presuppone una situazione informazionale diversa: nel caso dei costi transattivi, le variabili rilevanti sono osservabili ma le parti limiteranno gli sforzi previsionali, in quanto costosi; nel caso delle asimmetrie informative solo una parte ha consapevolezza piena delle circostanze incidenti sul rapporto e nel caso dell’imprevedibilità degli eventi invece le informazioni sono inosservabili.
82 Vedi paragrafo 3, pag. 11
Rispetto alle varie cause di incompletezza si pongono le varie ipotesi di amministrazione del contratto: la summa divisio è tra coloro che ritengono che i giudici debbano assumere un ruolo attivo nel completamento del contratto (cd. funzionalisti), e coloro che invece vogliono un atteggiamento passivo del giudice (cd. formalisti), così che si rispetti la volontà delle parti guardando al significato letterale delle dichiarazioni rese all’interno del testo contrattuale. Ovviamente i filoni non sono omogenei al loro interno.
Tra i funzionalisti abbiamo infatti coloro che privilegiano soluzioni ex ante e coloro che invece privilegiano soluzioni ex post: i primi sono i teorici delle norme dispositive (cd. default rules, che ritengono che i legislatori o i giudici debbano delineare norme diverse in base alla causa di incompletezza). Nel caso la causa fosse la razionalità limitata (giustificata dai costi transattivi ex ante) la regola migliore sarebbe quella ispirata a ciò che le parti avrebbero fatto se al momento della conclusione del contratto la contrattazione non avesse avuto costi transattivi; nel caso di cause imprevedibili, mutando le parti fondamentali del rapporto, le parti non avrebbero contrattato o lo avrebbero fatto su basi diverse, perciò la migliore soluzione sarebbe quella di consentire la dissolubilità del rapporto e lasciare alle parti la possibilità di rinegoziare; nel caso di causa opportunistica83, sarebbero opportune norme dispositive sanzionatorie (cd. penalty default rules), funzionanti in modo opposto alle comuni norme dispositive, perché ispirate a una soluzione che almeno una delle due parti non gradisce. La maggior critica a questa visione è stata quella di essere troppo ancorata al momento di formazione del contratto.
Coloro che privilegiano soluzioni ex post ritengono infatti che il complesso delle informazioni per la composizione della controversia sia maggiore al momento dell’eventuale pronuncia del giudice, rispetto a quello di conclusione del contratto, perciò per essi la strategia di interpretazione e integrazione del contratto deve fare più attenzione alla fase esecutiva: i giudici possono intervenire sul contratto nell’ipotesi del suo fallimento (cioè del contenzioso tra le parti), e hanno la possibilità di decidere i casi non rimanendo necessariamente vincolati a ciò che è scritto nell’accordo, avendo il compito di esaminare il quadro normativo complessivo; a tale teoria si riportano anche i fautori della teoria relazionale. In tale ipotesi l’atteggiamento da seguire sarebbe identico qualunque sia la causa di incompletezza.
83 Ovvero informazione rilevante strategicamente trattenuta per sé da una parte.
La maggiore critica a questa visione è quella che ritiene troppo grave la compromissione dell’autonomia privata rispetto alla possibilità di intervento del giudice.
Passando alla concezione formalista, contraria all’attivismo giudiziale, coloro che vi aderiscono assumono come punto centrale la razionalità delle parti: per loro la strategia migliore di fronte al contratto incompleto sarebbe quella di rinunciare ad ogni forma di integrazione e rimettersi ad un’interpretazione letterale, a prescindere dalla causa di incompletezza; così le parti avrebbero il corretto incentivo a redigere contratti incompleti. Tale posizione poggia però su un assunto sbagliato: la corrispondenza tra le parole usate e i rispettivi significati, per cui i giudici sono esattamente in grado di capire quello che le parti hanno scritto; la volontà delle parti è quindi espressa in un testo che va solo seguito e limitatamente spiegato dal giudice.
Non curanti di questa obiezione ci sono addirittura alcuni che arrivano a sostenere che i giudici sono incapaci di adottare decisioni che massimizzino l’efficienza, indipendentemente dall’adozione di una prospettiva ex ante o ex post; tale incapacità determina errori anche nella prospettiva di un’interpretazione letterale e l’unica certezza è che i giudici sbaglieranno. Perciò le parti avranno un incentivo a redigere il contratto in modo da predisporsi alla rinegoziazione così da scongiurare ogni attivismo del giudice.
Buona parte di queste teorie, confrontate con le complessità dei contratti di durata, non hanno prodotto risultati significativi. L’ampio dibattito sulle regole dispositive si è posto su un piano troppo generalista per poter conservare utilità anche per i contratti a lungo termine; la loro ambizione di generalità e astrattezza produce soluzioni imprecise e inutili, senza contare la chiara tendenza ad una concezione sincronica del contratto, e la concentrazione dell’attenzione sulla sua formazione. Nell’ottica del contratto di durata poi, diviene privo di senso anche il ragionamento formalista per cui l’interpretazione letterale trasmette un segnale che scoraggia la contrattazione incompleta, poiché se l’incompletezza è inevitabile quest’ultima spiegazione è troppo semplicistica.
Dato molto importante è stato il progressivo passaggio da una concezione di razionalità perfetta (che ha favorito la preservazione del dogma della volontà), per cui le parti sono i migliori giudici dei propri interessi e quindi la risposta per le patologie non può che essere un assoluto astensionismo da parte dei giudici, ad una visione più complessa e realistica, che ritiene che in situazioni di incertezza gli individui non agiscono calcolando razionalmente costi e benefici delle
decisioni alternative da prendere, perché il processo decisionale è affetto da imprecisioni cognitive, e anche quando tutta l’informazione necessaria fosse disponibile essi cadono in errore a causa delle imperfezioni dell’intelligenza umana. L’individuo quindi non tende alla massimizzazione del proprio interesse, ma alla soddisfazione delle proprie aspirazioni sulla base delle risorse e delle possibilità individuate.
Occorre domandarsi se tale rivisitazione del concetto di razionalità non abbia implicazioni anche per quanto riguarda i contratti di durata, strumenti che governano eventi futuri e incerti.
Tre considerazioni discendono dall’analisi di questa nuova razionalità
in rapporto ai contratti di durata:
1) un modello meno perfetto e caratterizzato da difetti si avvicina di più ad un referente soggettivo reale e a canoni di comportamento proposti dalle norme giuridiche;
2) la derivazione giuridica dei contratti di durata dalla nozione economica di intermediate-market transaction comporta che essi siano contratti tra imprenditori o tra imprese, perciò il referente soggettivo dell’analisi giuridica non è unitario e il riferimento alla razionalità degli individui impone una distinzione tra difetti che affliggono la cognizione delle persone fisiche e quelli che affliggono le imprese;
3) una razionalità perfetta giustificava il fatto che giudici e legislatori dovessero tenersi a distanza dall’autonomia privata: la razionalità limitata suggerisce invece che in alcune circostanze le parti possano essere supportate dall’esterno affinché si producano soluzioni efficienti.
Un modello che potrebbe essere utile è quello proposto dall’art. 11761
cc. che sarebbe capace di esprimere un parametro realistico.
Se alle disfunzioni tipiche dei contratti di durata (risoluzione per inadempimento se c’è compromissione di fiducia, fattispecie riconducibili all’hold up e onerosità sopravvenuta) si aggiunge anche che la razionalità è limitata e che l’estensione nel tempo rende verosimile l’errore, un’opzione di aggiustamento ex post della relazione ad opera del giudice appare più plausibile, poiché egli gode di una migliore qualità delle informazioni che hanno inciso e continuano ad incidere sulla relazione commerciale. La vicenda di lunga durata è sempre nelle mani delle parti ma se viene portata alla cognizione del giudice non può rimanere insoluta; ciò che il giudice può o deve fare dipende dalle norme che riguardano la fattispecie ed è su questo che si deve focalizzare l’attenzione.
Vari argomenti sono stati mossi per giustificare la teorizzazione di un diritto dei contratti di durata più sensibile alle reali esigenze dei traffici economici e dei contraenti sofisticati, più attento alle specificità oggettive della fattispecie, ai condizionamenti esterni e gli effetti esterni di essa; un riconoscimento, insomma, della necessità che tali relazioni abbiano norme dispositive particolari.
Come abbiamo visto la teoria della razionalità limitata fa intuire che i contratti possono essere caratterizzati da incompletezza, per cui il problema di integrazione non è semplice come nel caso della piena razionalità: in questa ipotesi si presuppone che il contratto sia completo, perciò se sopravvengono eventi che alterano l’economia del rapporto, i rimedi si riducono all’alternativa tra risoluzione o manutenzione.
Nella contrattazione di durata le parti generalmente si attengono ad una direttiva di autoregolazione del contrato, che è sapientemente organizzato in modo che alcune parti restano volutamente indeterminate, così che i bisogni emergenti abbiano nel prosieguo del rapporto adeguata soddisfazione84; il problema che si pone è se esiste negli ordinamenti un vero e proprio obbligo di rinegoziare in caso di volontà incompleta, quale fonte abbia e quali siano i poteri del giudice in caso di fallimento di un aggiustamento spontaneo.
Preclusivo della soluzione efficiente e dell’aggiustamento spontaneo è il clima non cooperativo che può svilupparsi nel rapporto, determinando una situazione contraria a quella relazionale.
La necessità che venga data la precedenza a tentativi dei contraenti di completamento o aggiustamento o rinegoziazione e che questo avvenga al riparo da spinte non cooperative richiede una segmentazione temporale nelle procedure, che il diritto attuale dei contratti non offre, per la sua caratteristica sincronica ancorata all’alternativa adempimento/risoluzione.
Si è fatta quindi spazio la necessità di trovare dei rimedi di tipo diacronico, più rispettosi della dinamica relazionale, in quanto la dinamica del contenzioso ordinario sarebbe in contrasto col carattere cooperativo che imporrebbe il ricorso a meccanismi che pongano le parti in condizione di aggiustare la relazione senza comprometterla.
Arbitrati e procedure conciliative sono stati ritenuti idonei come rimedi alternativi per comporre conflitti all’interno dei contratti di durata, ma la loro convenienza è non generalizzabile e in più la figura del mediatore in Europa è ancora poco conosciuta e guardata con
84 L’incompletezza in tali casi quindi è voluta, attiene ad una scelta razionale, e solo in alcuni casi deriva da errore o disattenzione.