Roberto Panetta
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IL GRADO DI GRAVITÀ DELL’INADEMPIMENTO CONTRATTUALE
CAPITOLO PRIMO
1. Il problema dell’importanza dell’inadempimento.
La risoluzione del contratto è, come noto, subordinata, in via generale, al requisito della non scarsa importanza dell’inadempimento imposto dal- l’art. 1455 c.c.
Tale requisito assolve la funzione di elemento impeditivo della risolu- zione, limitando l’iniziativa demolitoria del creditore a tutte quelle circo- stanze in cui gli interessi in gioco possono dirsi sicuramente compromessi al punto da non potersi considerare la sussistenza di un interesse residuo al mantenimento del rapporto. Almeno in relazione all’opposto interesse a vedere sciolto il negozio.
Non è propriamente esatto dire che si tratta di definire un requisito utile a tutelare il creditore, perché anche l’inadempiente, che si oppone alla risoluzione, è, a sua volta, un creditore, che, in quanto tale, ha interesse a che la realizzazione del proprio diritto non venga esposta a rischio di frustrazione anche da un minimo difetto della propria prestazione.
Si tratta piuttosto di stabilire in che misura il contratto rimanga vinco- lante quando la sua attuazione va incontro a qualche inconveniente imputa- bile ad una delle parti: se il benché minimo difetto di realizzazione, impu- tabile ad una delle parti, esponga il programma contrattuale al rischio della frustrazione a tutela dell’interesse della controparte dell’inadempiente, o se il mancato adempimento debba essere grave, in quanto non facilmente elimi- nabile con il reciproco impegno a dare attuazione, correttamente, al regola- mento di interessi programmato (1).
(1) In questo senso, XXXXX, Sull’importanza dell’inadempimento ex art. 1455 c.c.: lo sviluppo di un calcolo applicativo, in Studi in onore di Xxxxxxxx Xxxxxxxx, a cura di DALLA TORRE, Milano, 2010, 1230 ss. che evidenzia come si tratti di stabilire per la parte adempiente fino a che punto le si possa imporre l’impegno a dare attuazione al regolamento contrattuale
— la “unzumutbarkeit” di tale impegno teorizzato dalla dottrina tedesca — realizzando il suo interesse con mezzi compatibili con la conservazione del contratto e quando, invece, un tale impegno, di conservazione del contratto, diviene inesigibile (“unzumutbar”). Al riguardo, si ricorda che il nuovo codice civile tedesco si mostra meno incline a valorizzare l’esigenza di stabilità delle contrattazioni, disponendo all’art. 323 che, in caso di prestazione “non
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IL GRADO DI GRAVITÀ DELL’INADEMPIMENTO CONTRATTUALE
La comprensione del significato che l’importanza dell’inadempimento assume con riguardo all’istituto della risoluzione del contratto risente peral- tro dell’incerto indirizzo giurisprudenziale che ne ha segnato lo sviluppo (2). Numerose, inoltre, sono state le critiche mosse al concetto di “importanza dell’inadempimento” ritenuto, sin dagli anni sessanta del secolo scorso, eccessivamente generale (o forse, generico) e idoneo a riporre nelle mani del giudice una potestà troppo ampia ed incontrollabile (3).
La definizione dell’inadempimento rilevante ai fini della risoluzione del contratto fornita dalla dottrina non risulta, peraltro, univoca. Da una parte, si legge che l’inadempimento deve essere di non scarsa rilevanza (4) o di non lieve entità; dall’altra, che si deve trattare di un inadempimento sufficiente- mente grave (5) o notevole (6).
L’importanza notevole o la gravità degli inadempimenti è richiesta dalla disciplina specifica di singoli contratti. È il caso, ad esempio, dell’art. 1564
c.c. in cui il legislatore, in tema di somministrazione, si preoccupa di più ampiamente descrivere il concetto in parola, definendolo di “notevole im- portanza” al punto “da menomare la fiducia nell’esattezza dei successivi adempimenti”. È altresì il caso dell’art. 2286 c.c. in cui si afferma che “l’esclusione di un socio può avere luogo per gravi inadempienze delle obbli- gazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale [omissis]” (7).
Alcune norme, di contro, pur non contenendo un riferimento letterale alla non scarsa importanza dell’inadempimento, collegano l’esercizio del rimedio risolutorio all’esistenza di determinate fattispecie di inadempimento, accompagnate da non meglio definite circostanze. È il caso, ad esempio,
conforme al contratto” (nicht vertragsgema), il creditore non può recedere dal contratto se la violazione dell’obbligo è irrilevante (unerheblich). Va tutttavia rilevato che la regola soggiace al più generale principio di buona fede in forza del quale l’abuso del potere di risoluzione finisce per essere sanzionato.
(2) A questo riguardo, utili indicazioni sono fornite da IUDICA, Risoluzione per inadem- pimento, in Riv. dir. civ., 1983, 1986 e 1991, II, rispettivamente a 184, 574 e 748 ss.
(3) In particolare, si vedano le critiche di KLITSCHE DE LA GRANGE, Risoluzione per inadempimento e potestà del giudice, in Riv. dir. civ., 1964, I, 46, il quale considera la regola dell’importanza dell’inadempimento come il “fossile” di una specie che non esiste più.
(4) XXXXXXX, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 1993, 424 secondo il quale occorre che l’inadempimento di una parte sia tale da rendere non più giustificata la controprestazione dell’altra.
(5) LUMINOSO, in LUMINOSO-CARNEVALI-COSTANZA, Della risoluzione per inadempimento, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, a cura di XXXXXXX, Delle obbligazioni, I, 1, Bologna-Roma, 1990, 25.
(6) Relazione al codice civile del Ministro Guardasigilli, Roma, 1942, n. 661
(7) Al riguardo, si veda PALADINI, L’atto unilaterale di risoluzione per inadempimento, Torino, 2013, 75 ss. che ricostruisce il processo di aggravamento del requisito della “non scarsa importanza” nella disciplina dei contratti tipici.
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CAPITOLO PRIMO
dell’art. 1480 c.c. che, in tema di vendita di cose parzialmente altrui, attribuisce al compratore la facoltà di chiedere la risoluzione del contratto quando deve ritenersi, secondo le circostanze, che egli non avrebbe acqui- stato la cosa senza quella parte di cui non è divenuto proprietario; è altresì il caso dell’art. 1584 c.c. che, in ambito di diritti del conduttore in caso di riparazioni del bene, ricorda come “[omissis] se l’esecuzione delle riparazioni rende inabitabile quella parte della cosa che è necessaria per l’alloggio del conduttore e della sua famiglia, il conduttore può ottenere, secondo le circo- stanze, lo scioglimento del contratto”.
È evidente che la coesistenza di una disciplina generale dettata dall’art. 1455 c.c. e di numerose decodificazioni particolareggiate del requisito della “non scarsa importanza” dell’inadempimento impongono di valutare come tali diverse discipline possano trovare non equivoca applicazione.
Al riguardo, secondo una prima opinione, ai fini della risoluzione del contratto rileverebbero esclusivamente le ipotesi di inadempimento accolte nelle discipline particolari, in quanto inserite in disposizioni speciali che escluderebbero l’operatività dell’art. 1455 c.c. Da ciò consegue che il giudice, nel procedere alla risoluzione del contratto, dovrebbe verificare solamente la corrispondenza dell’inadempimento alla fattispecie legislativamente prede- terminata. Esclusivamente quest’ultima fornirebbe i parametri cui ci si deve attenere per valutare la gravità dell’inadempimento ai fini della risoluzione del contratto. Di conseguenza, la disposizione contenuta nell’art. 1455 c.c. rivestirebbe una funzione residuale e troverebbe applicazione solamente in assenza di una espressa previsione normativa dell’inadempimento (8).
Di diversa opinione un’altra parte della dottrina che ritiene come l’art. 1455 c.c. abbia valore di norma generale applicabile a tutte le fattispecie di risoluzione e, quindi, anche quando l’ordinamento prevede espressamente delle ipotesi tipiche di inadempimento grave. In questo modo, si ritiene che, contenendo la disposizione in commento un regime meno oneroso per l’esperimento del rimedio risolutorio, la parte adempiente si troverebbe avvantaggiata, non dovendo sottostare a criteri di valutazione della gravità dell’inadempimento talvolta più severi (9).
(8) In questo senso, ALESSI, Risoluzione per inadempimento e tecniche di conservazione del contratto, in Riv. crit. dir. priv., 1984, 55 ss.; XXXXXXX, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 1993, 425 ss.
(9) MESSINEO, Dottrina generale del contratto, Milano, 1952, 438 ss. secondo il quale il requisito dell’importanza dell’inadempimento costituisce un principio valido per qualsiasi procedimento di risoluzione. Dello stesso avviso, MIRABELLI, Dei contratti in generale, in Commentario del codice civile, Torino, 1982, 606 ss.
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2. Criteri di valutazione della gravità dell’inadempimento. La volontà delle parti.
La volontà delle parti svolge certamente il ruolo preminente nella determinazione della gravità dell’inadempimento. Sono le parti stesse che, nell’esercizio dell’autonomia contrattuale, individuano le condizioni a cui la parte offesa, se lo avesse previsto, non avrebbe stipulato il contratto.
La rilevanza attribuita alla volontà delle parti si spiega in base al collegamento del rimedio risolutorio con la teoria della condizione. Precisa- mente, essa è riconducibile all’orientamento sviluppatosi nel vigore del codice del 1865, in base al quale si riteneva che determinate forme di inadempimento potessero condizionare risolutivamente il rapporto, in rela- zione alla volontà manifestata dalle parti (10).
In questo modo, il riconoscimento dell’esistenza di una condizione inespressa, o, almeno, non chiaramente esplicitata, portava con sé la ricerca di una volontà ipotetica dei soggetti coinvolti nella vicenda negoziale. A fronte di tale incertezza, si è assistito a tentativi di precisazione di tale criterio: l’assenza di una volontà reale viene — nel tempo — sostituita da una ricostruzione della volontà secondo criteri di determinazione medi e l’ina- dempimento viene considerato “grave” quando induce a ritenere che le parti non avrebbero concluso il contratto se ne avessero avuto conoscenza (11).
Il richiamo alla volontà delle parti non trova alcun riscontro normativo nelle disposizioni sulla risoluzione del contratto, ove il prevalente ed esclu- sivo parametro di valutazione è fornito dall’interesse creditorio, nel quale detta volontà è stata concretizzata (12).
Timide tracce di riferimento alla volontà delle parti vengono individuate nell’art. 1480 c.c., a norma del quale il compratore può risolvere il negozio quando, secondo le circostanze, risulta che non avrebbe acquistato la cosa senza la parte di cui non è divenuto proprietario. Il tenore letterale della
(10) Si veda al riguardo OSTI, Appunti per una teoria della sopravvenienza, in Riv. dir. civ., 1913, I, 493 ss., secondo il quale la risoluzione avviene in quanto — a causa dell’ina- dempimento — si verifica uno stato tale di cose che se le parti lo avessero previsto al momento della conclusione non avrebbero concluso il contratto. Nello stesso senso, VIVANTE, Le obbligazioni, in Trattato di diritto commerciale, IV, Milano, 1935, 153.
Termine estratto capitolo
(11) In questo senso, secondo XXXXXXXX, Valutazione dell’inadempimento ai fini della risoluzione, in Giur. compl. cass. civ., 1955, 60, il disposto dell’art. 1455 c.c. va interpretato nel senso che l’inadempimento è grave allorquando abbia portato all’equilibrio funzionale delle reciproche attribuzioni delle parti un turbamento tale da lasciar ritenere che le parti stesse, se lo avessero previsto, non avrebbero stipulato il contratto.
(12) XXXXXXX, L’importanza dell’inadempimento, Torino, 1995, 23 ss. in cui l’Autrice descrive come sia complesso coniugare un criterio volontaristico con il dettato della norma che attribuisce un valore esclusivo all’interesse di una delle parti.
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CAPITOLO SECONDO
Il tema della non scarsa importanza dell’inadempimento e dei diversi gradi di gravità della violazione del regolamento contrattuale trova spazio in numerosi contratti tipizzati, anche solo socialmente.
Tra questi, il leasing è certamente uno degli esempi più rilevanti che consente di ben apprezzare come, a fronte di un criterio generale di valutazione dell’inadempimento (grave o meno grave) rivelatosi insufficiente a rispondere alle esigenze di certezza del diritto e, quindi, di prevedibilità degli esiti di un rapporto negoziale, il legislatore abbia inteso intervenire, legiferando ben poco, ma incidendo direttamente e soprattutto sul tema in parola, ritenendolo, con tutta evidenza, di tale importanza da non poter essere disciplinato dal solo e generale criterio di cui all’art. 1455 c.c.
1. La parabola evolutiva del leasing finanziario.
Con il termine leasing si allude a quella operazione negoziale in forza della quale una parte (concedente) conferisce all’altra (utilizzatore) il godi- mento di un bene verso il pagamento di un canone periodico con la particolarità che, alla scadenza del contratto, l’utilizzatore potrà scegliere se restituire il bene ovvero esercitare l’opzione di acquisto del medesimo versando il prezzo residuo.
Elaborato nella prassi statunitense ed apparso in Italia a partire dagli anni sessanta, tale categoria contrattuale deve, senza dubbio, la sua diffusione alle vantaggiose agevolazioni fiscali rispetto ad un acquisto immediato senza il ricorso ad alcun finanziamento. Tuttavia, a differenza dell’ordinamento giuridico di provenienza, il leasing nel nostro Paese ha, per lungo tempo, scontato la mancanza di una apposita regolamentazione demandando agli operatori del diritto il delicato compito di individuarne la controversa natura giuridica e la disciplina applicabile soprattutto in relazione alla fase patolo- gica del rapporto (id est la risoluzione).
Ed invero, prima della legge per il mercato e la concorrenza n. 124/2017 del 4 agosto 2017 (c.d. Legge Concorrenza) il negozio in esame, attesa l’assenza di una positivizzazione normativa, veniva tradizionalmente ricondotto nel- l’alveo dei contratti “atipici” ex art. 1322 c.c. La sua circolazione nei traffici
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commerciali consentiva, infatti, di inquadrarlo come contratto solo “social- mente” tipico cui faceva da contraltare la mancanza di un substrato normativo. Più precisamente, nell’ambito dei rapporti di leasing vengono ricom- prese tre macro-categorie: il leasing operativo, il leasing finanziario e, da
ultimo, il sale and lease back.
Non potendo, in questa sede, esaurire l’analisi di tutte e tre le figure, l’attenzione verrà rivolta esclusivamente al leasing finanziario quale sottotipo negoziale interessato da una travagliata evoluzione giurisprudenziale e nor- mativa che offre degli interessanti spunti di riflessione proprio in tema di risoluzione e di gravità dell’inadempimento che ne sta alla base.
Com’è noto, nella locazione finanziaria la società di leasing acquista il bene dal fornitore o produttore, per conto del soggetto utilizzatore al quale viene concesso il godimento del suddetto bene verso il pagamento di un canone periodico. L’alterità soggettiva tra società concedente e fornitore- produttore consente di distinguere tale contratto dal leasing operativo ed anche dallo schema tipico della locazione.
Da qui, i dubbi in merito alla natura giuridica di tale regolamento negoziale e, pertanto, della relativa disciplina applicabile.
Con un indirizzo inaugurato dapprima nel 1989 (1) e poi consacrato con una pronuncia a Sezioni Unite del 1993 (2) e recepito quasi pedissequamente fino agli ultimi arresti (3), la Suprema Corte ha introdotto la nota distinzione tipologica tra leasing “traslativo” e leasing “di godimento” cui, per quello che più strettamente ci interessa, corrispondeva un diverso regime in caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore.
Il leasing veniva definito di godimento ove l’interesse perseguito dall’uti- lizzatore era quello di conseguire la materiale disponibilità di un bene (spesso a rapida obsolescenza e strumentale all’esercizio dell’attività di impresa) ed il potere di sfruttamento per tutta la vita economica del medesimo, coincidente con la durata del rapporto, di tal che alla scadenza del contratto il valore residuo della res era irrisorio e, di conseguenza, anche il relativo prezzo
(1) Trattasi delle sentenze gemelle Cass., 13 dicembre 1989, nn. 5569, 5570, 5571, 5573, 5574, in Giur. it, 1990, I, 1, 379 con nota di BONFANTE.
(2) Cass. Sez. Un., 7 gennaio 1993 n. 65, in Xxxx.xx, 1990. In seguito alle summenzionate sentenze “capostipite”, la distinzione tra leasing finanziario e di godimento è stata riproposta a più riprese dalla giurisprudenza di legittimità, si x. Xxxx, Sez. III 18 novembre 1998 n. 11614, in Contratti, 1999, 683; Cass. Sez. I 9 aprile 2003 n. 5552, in Giur. it, 2004 n. 559, Cass. Sez. III 19 dicembre 2006 n. 17145, in Obbl. e contr., 2006, 773; Cass. Sez. III 29 aprile 2015 n. 8687, in Vita not., 2015, 807. Per una puntuale ricostruzione dell’evoluzione giurisprudenziale in merito alla distinzione tra leasing di godimento e traslativo si v. DE NOVA, Leasing, in Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., XIII, Utet, 1995.
(3) Per le pronunce più recenti cfr. ex multis Cass. Sez. I 7 settembre 2017 n. 20890, in NGCC, 2018, I, 2; Cass. Sez. III 31 ottobre 2019 n. 27999, in Dir. e giust., 2019; Cass. Sez. III 24 gennaio 2020 n. 1581, in DeJure.
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CAPITOLO SECONDO
d’opzione per l’acquisto della proprietà. I canoni periodici versati dall’utiliz- zatore, dunque, costituivano il corrispettivo per il godimento della cosa. In- quadrato nei suddetti termini, il leasing di godimento era, pertanto, sorretto da una causa di finanziamento con scopo di godimento e veniva sussunto, ai fini della risoluzione, nell’ambito dei contratti a prestazione periodica e con- tinuata ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1458 c.c. con conseguente appli- cazione della regola della irretroattività degli effetti risolutori. Ne conseguiva che i canoni riscossi dalla società concedente non venivano intaccati dalle tradizionali conseguenze restitutorie della risoluzione.
Al contrario, il leasing “traslativo” veniva stipulato al fine di far conse- guire all’utilizzatore la proprietà del bene concessogli in godimento e, trattandosi di una res connotata da una lunga obsolescenza, essa conservava un valore economico considerevole alla scadenza del contratto superiore al prezzo di opzione. Tale fattispecie, pertanto, si configurava alla stregua di un
contratto con causa di finanziamento a scopo traslativo in cui i canoni periodici in parte remuneravano il godimento del bene, in parte rappresen- xxxxxx il corrispettivo per il trasferimento e, come tale, assimilabile alla vendita con riserva di proprietà. In caso di inadempimento dell’utilizzatore, quindi, veniva invocata l’applicazione analogica dell’art. 1526 c.c. che, in ossequio al principio della retroattività degli effetti risolutori, prevede la restituzione delle rate già riscosse salvo il diritto del concedente al pagamento di un equo compenso per il godimento del bene. Più precisamente, la Suprema Corte, a Sezioni Unite, a partire dal 1993 ha statuito che “la risoluzione della locazione finanziaria, per inadempimento dell’utilizzatore, non si estende alle prestazioni già eseguite, in base alle previsioni dell’art. 1458, co. 1, c.c. in tema di contratti ad esecuzione continuata e periodica ove si tratti di “leasing” cosid- detto di godimento, pattuito con funzione di finanziamento, rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto (con conseguenziale marginalità dell’eventuale opzione), e dietro canoni che con- figurano esclusivamente il corrispettivo dell’uso dei beni stessi. La risoluzione medesima, invece, si sottrae a dette previsioni, e resta soggetta all’applicazione in via analogica delle disposizioni fissate dall’art. 152ł c.c. con riguardo alla vendita con riserva della proprietà, ove si tratti di “leasing” cosiddetto traslativo, pattuito con riferimento a beni atti a conservare a quella scadenza un valore residuo superiore all’importo convenuto per l’opzione, e dietro canoni che scon- tano anche una quota del prezzo in previsione del successivo acquisto cui la concessione in godimento assume funzione strumentale” (4).
Rinviando a quanto si dirà nel prosieguo, è utile anticipare sin da ora che l’art. 1526 c.c. è stato da sempre considerato inderogabile dalla giurispru-
(4) Cass. Sez. Un., 7 gennaio 1993 n. 65, cit.
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denza (5), la quale commina, altresì, con la sanzione della nullità eventuali patti contrari a tale disposizione.
Appare dunque evidente che la dicotomia leasing di godimento-leasing traslativo, lungi dall’essere un mero esercizio teorico, si riflette in maniera dirompente sul regime giuridico applicabile in caso di risoluzione del rapporto per inadempimento dell’utilizzatore al punto che, in mancanza di un’apposita qualificazione adoperata dalle parti, vengono enucleati una serie di indici sintomatici che consentono di ricostruire la volontà negoziale in un senso o nell’altro. Tra essi assumono rilievo determinante: i) la natura del bene oggetto del contratto nonché la sua rapida ovvero lunga obsolescenza tecnica ed economica, ii) il valore residuo della res alla scadenza del rapporto e la sua entità rispetto al prezzo d’opzione ed, infine, iii) la funzione svolta dai canoni periodici.
Tuttavia, il binomio leasing traslativo-leasing di godimento, sebbene sia stato avallato dalla giurisprudenza e sia divenuto diritto vivente già a partire dal 1989, non è stato condiviso in maniera unanime dalla dottrina e non sono mancate pronunce, sebbene isolate, di senso opposto.
Prima dell’indirizzo formatosi con le storiche sentenze gemelle del 1989, la Suprema Corte aveva, talvolta, negato la possibilità di una sovrapposizione tra leasing traslativo e vendita con riserva di proprietà sull’assunto del differente profilo causale che denota le due operazioni.
Il fondamento giustificativo della locazione finanziaria non risiederebbe “nell’acquisto della proprietà di un bene con una particolare agevolazione nel pagamento del prezzo, bensì in un finanziamento per l’acquisto della disponi- bilità immediata di quel bene” (6) contro la restituzione del finanziamento medesimo maggiorato di interessi e remunerazione del capitale. Ragionando
(5) Si vedano Cass. Sez. III 24 giugno 2002 n. 9161 in Dir. e Giust., 2002, 79; Cass. Sez. III 27 settembre 2011 n. 19732, in DeJure, in cui i giudici di legittimità conferiscono all’art. 1526 carattere inderogabile trattandosi di “norma imperativa con valore di principio generale di tutela di interessi omogenei e strumento di controllo dell’autonomia negoziale delle parti”. Più di recente, sulla natura imperativa della predetta disposizione cfr. Cass. Sez. I 29 marzo 2019
Termine estratto capitolo
n. 8980, in il Fallimento, 2019, 6. 760 ss. In particolare, la Suprema Corte, occupandosi dell’applicazione ratione temporis della legge Concorrenza ai contratti risoltisi prima della dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore, ha statuito che “[...] l’applicazione, sebbene in via analogica della disciplina dettata in tema di risoluzione per inadempimento del contratto dall’art. 152ł c.c. al leasing traslativo, non sia sussidiaria rispetto alla volontà delle parti, bensì inderogabile, comportando, nel caso di inadempimento dell’utilizzatore, la restituzione dei canoni già corrisposti, salvo il riconoscimento di un equo compenso in ragione dell’utilizzo dei beni, oltre al risarcimento die danni”.
(6) Cass. 6 maggio 1986 n. 3023, in Riv. it. leasing, 1986, 141. In senso conforme cfr. Cass. 28 ottobre 1983, n. 6390, in Foro it., 1983, I, 2997; Cass. 15 ottobre 1988, n, 5623 in Giur. it., 1989, I, 1, 833.
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CAPITOLO TERZO
1. La valutazione di gravità dell’inadempimento nei singoli contratti tipici.
La disciplina della risoluzione per inadempimento presenta connotati peculiari in innumerevoli contratti tipici ai quali l’autonomia privata fa ampiamente ricorso per soddisfare le più svariate esigenze (commerciali, abitative e così via). Senza pretesa di esaustività, si esamineranno alcune previsioni speciali in si cui assiste ad una deviazione dalla disciplina generale prevista agli artt. 1453, 1455 c.c. Difatti, il codice civile e le leggi speciali sono costellate da numerose disposizioni in cui è il legislatore stesso a valutare in astratto la rilevanza dell’inadempimento in un’ottica di maggiore certezza e stabilità dei traffici giuridici e di tutela della parte considerata contrattual- mente debole.
2. La vendita con riserva di proprietà.
Nell’ambito della vendita con riserva di proprietà, si rinvengono criteri derogatori rispetto alla disciplina generale della risoluzione per inadempi- mento, volti a sottrarre il compratore da possibili abusi da parte delle imprese venditrici (artt. 1525 e 1526 c.c.).
Al fine di comprendere le peculiarità di tale disciplina, giova inquadrare brevemente il contratto in parola, il quale, comunemente definito “vendita a rate”, è uno strumento largamente impiegato nella prassi commerciale grazie alla capacità di favorire l’acquisto di beni mobili, con una sua discreta diffusione anche per le vendite immobiliari, mediante il pagamento rateale del prezzo.
Tale fattispecie contrattuale trova compiuta disciplina agli artt. 1523 ss. c.c., ove emerge, quale tratto distintivo, la previsione dell’attribuzione im- mediata al compratore del godimento del bene con assunzione dei rischi tipici della proprietà, al momento della conclusione del contratto, mentre il diritto reale resta in capo al venditore.
Il trasferimento del diritto di proprietà si realizza, dunque, solo al momento dell’integrale pagamento del prezzo, che viene posticipato rispetto all’atto della stipulazione.
Si assiste così ad un differimento dell’effetto reale traslativo con la conseguenza che il venditore è, e rimane, titolare di un diritto di proprietà sul
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IL GRADO DI GRAVITÀ DELL’INADEMPIMENTO CONTRATTUALE
bene alienato, limitato, al contempo, dal concorrente diritto di godimento dell’acquirente (1).
La prima vistosa deroga agli effetti tipici che conseguono al principio del consenso traslativo (art. 1465 c.c.), si rinviene all’art. 1523 c.c., con il quale si stabilisce che il compratore, pur acquistando la proprietà solo con il pagamento dell’ultima rata, assume i rischi sin dal momento della consegna. Trattasi di una deviazione rispetto al principio del res perit domino che risponde ad esigenze di tipo equitativo: il compratore, infatti, ha già ottenuto il possesso e il godimento della cosa senza aver dovuto corrispondere immediatamente il prezzo dovuto. Risulterebbe ingiusto, pertanto, attribuir- gli anche il vantaggio della esenzione dai rischi del perimento del bene (2).
Ne consegue che l’acquirente sarà tenuto a pagare l’intero corrispettivo se la cosa perisce o si deteriora, anche per causa a lui non imputabile.
A ben vedere, la vendita con riserva della proprietà presenta notevoli vantaggi per le parti coinvolte e risulta, per una serie di aspetti, più competitiva rispetto allo strumento, maggiormente diffuso, del contratto preliminare trascritto.
Da un lato, il venditore ottiene la massima garanzia per l’adempimento dell’obbligazione di pagamento data dalla permanenza in capo allo stesso del diritto reale sino all’integrale corresponsione del prezzo, dall’altro, individua con certezza l’acquirente dell’immobile e si libera dai rischi del perimento o deterioramento del bene, e, più in generale, dalle conseguenze derivanti dalla responsabilità civile connessa alla titolarità dell’immobile.
L’acquirente, invece, non ha bisogno di alcuna cooperazione del vendi- tore per l’acquisto della proprietà che dipende esclusivamente dall’adempi- mento della sua obbligazione di integrale pagamento del corrispettivo.
Alquanto complessa risulta la ricostruzione della natura giuridica del contratto in esame.
In primo luogo, si osserva che il compratore sarebbe titolare di un diritto reale, benché sui generis, consistente nella capacità di utilizzare il bene e di
(1) In tal senso, si veda Cass., Sez. II, 22 marzo 2006, n. 6322, in Mass. Giur. it., 2006, Cass., 3 aprile 1980, n. 2167, in Mass. Giur. it., 1980, la quale ha statuito che: “La vendita con riserva della proprietà, normalmente attuata nelle compravendite mobiliari, può essere applicata anche alle vendite di immobili, ed è tipica delle vendite a rate o a credito, in cui l’effetto traslativo della proprietà viene differito al momento del pagamento dell’ultima rata di prezzo”. Si veda in dottrina, LIPARI, Vendita con riserva di proprietà, in Enciclopedia del diritto, XLVI, Milano, 1993, 526, GRECO, COTTINO, Della vendita, in Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 1470-1547, Bologna-Roma, 1981, 433, BIANCA, La vendita e la permuta, in Tratt. Vassalli, Torino, 1972, 522 ss., RUBINO, La compravendita, in Trattato, diretto da CICU, MESSINEO, Milano, 1962, 432.
(2) Si veda a questo riguardo, CATTANEO, La vendita, Milano, 2020, 383, CAGNASSO, COTTINO, Contratti commerciali, in Trattato di diritto commerciale, diretto da COTTINO, Padova, 2010, 116 ss.
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CAPITOLO TERZO
detenerlo nel proprio interesse, tenendo adeguatamente in considerazione anche l’interesse del venditore (3).
Il carattere reale troverebbe conferma nella previsione dell’opponibilità della riserva di proprietà ai creditori del compratore ex art. 1524 c.c.
L’acquirente potrebbe, altresì, azionare le tutele proprie dei diritti reali, petitorie e possessorie, e cedere il diritto reale di godimento a terzi, che diverrebbero proprietari solo con il pagamento integrale del prezzo.
Autorevole dottrina rileva che la vendita in esame andrebbe qualificata come un negozio sottoposto alla condizione sospensiva dell’integrale paga- mento del corrispettivo dovuto (4).
A tal riguardo, gli effetti obbligatori della vendita si producono imme- diatamente, atteso che con la stipula del contratto nasce l’obbligo di conse- gna del bene, l’obbligo di pagare il prezzo, ancorché questo sia differito, e si verifica il passaggio del rischio di perimento del bene. L’effetto sospensivo riguarda, dunque, solo il trasferimento della proprietà (5).
Pertanto, è stato sostenuto che si tratterebbe di una proprietà sottoposta a condizione risolutiva, ove l’evento è dato dall’inadempimento del compra- tore stesso (6).
A tale ricostruzione si obietta che il riacquisto da parte del venditore non ha carattere retroattivo e che la risoluzione non consegue in maniera auto- matica all’avveramento della condizione, atteso che sarà il venditore a doversi attivare, come meglio si osserverà oltre, secondo i limiti e le cautele previste dagli artt. 1525 e 1526 c.c.
Come anticipato, anche la disciplina della risoluzione per inadempi-
(3) Per maggiori approfondimenti sul punto si veda, RUBINO, La compravendita, Milano, 1962, 428, XXXXXXX, La vendita obbligatoria, Milano, 1957, 221 ss. LUMINOSO, La vendita, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 2014, 694 ss.; ALCARO, Vendita con riserva della proprietà, in I contratti di vendita a cura di VALENTINO, II, Torino, 2007, 752 s., CATTANEO, Riserva della proprietà e aspettativa reale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1965, 945 ss.; XXXXX, Le situazioni soggettive attive del compratore nella vendita con riserva della proprietà, in Riv. dir. comm., 1965, I, 477 ss.
(4) Sul punto si rinvia a BARBIERA, Garanzia del credito e autonomia privata, Napoli, 1971, 228 ss.; XXXXXXXX, Condizione, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, 784. In giurisprudenza, si veda Cass., Sez. I, 12 novembre 1998, n. 11433, in Mass. giur. it., 1998. In senso conforme, Cass., Sez. II, 8 aprile 1999, n. 3415, in Riv. not., 2001, 5, 473, con nota di XXXXXXXX, Vendita condizionata al pagamento del prezzo e vendita con riserva di proprietà.
(5) In tal senso, GENGHINI, PERTOLDI, I singoli contratti, Vicenza, 2020, 272.
(6) Si veda, XXXXXX, La proprietà risolubile nella teoria del negozio condizionato, Milano, 1975, 195, LIPARI, Vendita con riserva di proprietà, in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, 526; TULUI, Osservazioni sulla natura giuridica della vendita con riserva di proprietà, in Riv. dir. comm., 1980, I, 335.
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IL GRADO DI GRAVITÀ DELL’INADEMPIMENTO CONTRATTUALE
mento presenta connotati peculiari e derogatori rispetto al regime ordinario previsto dagli artt. 1455 e 1456 c.c.
Invero, l’art. 1525 c.c. prevede che “nonostante patto contrario, il man- cato pagamento di una sola rata, che non superi l’ottava parte del prezzo, non dà luogo alla risoluzione del contratto, e il compratore conserva il beneficio del termine relativamente alle rate successive”.
L’applicazione di tale norma è stata estesa ai sensi dell’art. 125, comma 1 del D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (T.U.B) anche ai contratti di credito al consumo, nei casi di concessione di un diritto reale di garanzia sul bene acquistato con il denaro ricevuto in prestito.
L’art. 1525 c.c., quindi, esclude la risoluzione del contratto, nonostante patto contrario, per il mancato pagamento di una sola rata che non superi l’ottava parte del prezzo ed esclude la decadenza dal beneficio del termine per il pagamento delle rate successive.
Affinché possa ricorrere la risoluzione del contratto, quindi, l’inadem- pimento dovrà riguardare una sola rata, ovvero più rate, il cui ammontare complessivo superi l’ottava parte del prezzo.
Più discussa è invece l’ipotesi in cui l’inadempimento riguardi più di una rata consecutivamente, il cui ammontare — però — non superi l’ottava parte del prezzo.
In adesione al dato letterale della norma, potrebbe sostenersi che un simile inadempimento non possa comportare la risoluzione del rapporto contrattuale, stante il mancato superamento della soglia fissata dal legislatore. Al contrario, secondo autorevole dottrina (7), la tutela del compratore non opererebbe in caso di mancato pagamento di più di una rata, anche se di valore complessivo inferiore all’ottava parte del prezzo, in quanto il perdu- rare dell’inadempimento potrebbe minare la fiducia del creditore-venditore e costituire indice di una maggior gravità nell’inadempimento.
Si desume, dunque, che con la disposizione in esame il legislatore ha inteso fissare una soglia minima di gravità dell’inadempimento al fine di tutelare adeguatamente il compratore, ritenuto parte debole del rapporto
contrattuale perché esposto ad una situazione di subalternità economica rispetto al venditore. Mediante la deroga al principio di cui all’art. 1455 c.c., si vuole evitare che una situazione di difficoltà transitoria dell’acquirente possa compromettere in maniera definitiva il suo acquisto.
Termine estratto capitolo
(7) A tal proposito, XXXXXXXX, La vendita di cose mobili, in Il codice civile. Commentario, diretto da XXXXXXXXXXX, BUSNELLI, Milano, 2004, 720, GRECO, COTTINO, Vendita, in commentario del codice civile, a cura di SCIALOJA, BRANCA, Bologna, Roma, 1962, BIANCA, La vendita e la permuta, Torino, 1993, 616.
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CAPITOLO QUARTO
1. La gravità dell’inadempimento nel contratto di appalto.
La scelta di concludere la disamina dei contratti tipici, anche solo socialmente, con il negozio dell’appalto nasce da una preliminare constata- zione che ha colorato l’esame di ogni regolamento contrattuale: la scelta di deviare dall’art. 1455 c.c., arrivando a svuotare lo stesso di significato e di utilità sia teorica che pratica, assume connotati diversi in relazione ai numerosi contratti analizzati per culminare nell’appalto ove può rintracciarsi l’espressa volontà del legislatore di rendere sostanzialmente irresolubile questo negozio.
Difatti, a differenza degli altri contratti, il legislatore non prevede una soglia di gravità individuata, magari, con una valutazione quantitativa delle condotte violative, ma decide di deviare dal criterio generale dell’art. 1455 c.c., promuovendo un giudizio di natura squisitamente qualitativo, ossia la totale inidoneità dell’opera a raggiungere lo scopo prefissato come requisito utile ed indispensabile alla demolizione per inadempimento del negozio.
In tal modo, come si vedrà, saranno davvero pochi i casi in cui l’appalto risulterà risolubile e gli altri rimedi, non ultimo quello risarcitorio, saranno gli unici presidi a disposizione del committente che veda la propria opera inutile o scarsamente utilizzabile.
2. Diffida ai sensi dell’art. 1662 c.c. e assegnazione di un termine per il corretto adempimento.
Come brevemente anticipato, il rimedio risolutorio assume, nell’ambito del contratto di appalto, una rilevanza ben maggiore di quella che riveste negli altri contratti.
Del pari, il presupposto per l’azione di risoluzione del contratto di appalto si erge a requisito di straordinaria importanza e gravità, distinguen- dolo, anche a questo riguardo, dagli altri contratti tipici interni.
Un’ulteriore caratteristica del rimedio risolutorio nell’ambito dell’ap- palto è che esso ricorre tanto nella forma di anticipatory breach in virtù del disposto dell’art. 1662 c.c., quanto nel caso di inadempimento conclamato e definitivo in forza dell’art. 1668 c.c.
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IL GRADO DI GRAVITÀ DELL’INADEMPIMENTO CONTRATTUALE
Nello specifico, se il committente rileva, nel corso dell’opera, che l’esecuzione non procede in ottemperanza alle regole dell’arte o secondo quanto pattuito, può assegnare un termine entro il quale l’appaltatore deve uniformarsi rispetto a quanto rilevato.
Tale termine, a differenza di quanto statuito all’art. 1454 c.c., sembra essere rimesso alla totale discrezionalità del committente, quasi a voler consentire a quest’ultimo di poter risolvere immediatamente il contratto. In realtà, il committente, prima della risoluzione del contratto, è tenuto ad assegnare un termine all’appaltatore per consentire a quest’ultimo di potersi conformare alle regole dell’arte o al dettato contrattuale. Tale termine deve, quindi, essere “congruo”, non potendo sostanziarsi in un periodo temporale non utile alla materiale messa in opera di tutte quelle attività correttive idonee a soddisfare l’interesse del committente. La “congruità” del termine deve poi essere valutata in base all’attività correttiva necessaria a raggiungere l’obiettivo sollevato dal committente, alle regole dell’arte da rispettare e ad ogni altro fattore della produzione necessario all’adempimento. In caso di lite, la valutazione su questo punto si ritiene rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito.
Le differenze con la disciplina di cui all’art. 1454 c.c. sono molteplici: l’art. 1662 c.c. trova applicazione con riguardo ad una obbligazione in corso di esecuzione e per la quale non è ancora scaduto il termine assegnato per l’ultimazione dell’opera; l’art. 1454 c.c., invece, trova applicazione in rela- zione ad un’obbligazione che avrebbe dovuto essere già adempiuta e per la quale il creditore assegna un ulteriore termine per l’adempimento.
In altre parole, l’art. 1662 c.c. opera nell’ambito di un inadempimento non ancora conclamato ma solo di un pericolo attuale di un inadempimento futuro, mentre l’art. 1454 c.c. trova applicazione in relazione ad un inadem- pimento già pienamente verificatosi e per il quale il creditore concede un termine suppletivo.
Inoltre, in caso di diffida ai sensi dell’art. 1662 c.c., che si fondi su rilievi del committente non solo fondati, ma anche non contestati dall’appaltatore, il giudice non potrà escludere la risoluzione del contratto per aver ricono- sciuto di scarso interesse la prestazione rimasta inadempiuta; di contro, in caso di diffida ad adempiere di cui all’art. 1454 c.c., il giudice potrebbe negare la risoluzione del contratto qualora riconosca di scarso interesse la prestazione inadempiuta, non integrandosi quindi il requisito di non scarsa importanza dell’inadempimento di cui all’art. 1455 c.c.
Ancora. L’art. 1662 c.c. non sanziona l’inadempimento del contratto, ma l’atteggiamento dell’appaltatore che si rifiuta di eseguire, o comunque che non esegue, le direttive del committente e che non pone rimedio a quei difetti o a quelle deviazioni, rispetto alle regole del capitolato o dell’arte, che il
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CAPITOLO QUARTO
committente ha riscontrato nelle sue verifiche e nei suoi controlli in corso d’opera.
È evidente che tra la disciplina dell’art. 1454 c.c. e quella dell’art. 1662
c.c. vi è una evidente differenza data dall’oggetto della contestazione mossa: per mezzo della diffida ad adempiere, si contesta un inadempimento e, in forza dell’art. 1662 c.c., si rimprovera un atteggiamento.
Il fatto che, nell’ambito di un contratto come quello di appalto, in cui il risultato tangibile assume rilevanza decisiva, un atteggiamento possa essere destinatario di una intimazione come quella ex art. 1662 c.c. ben rappresenta come il contratto in parola preveda, pur implicitamente, una serie di risultati intermedi (oltre a quello finale) e, laddove l’interesse creditorio sia frustrato anche solo in ragione di un obiettivo intermedio, la legge riconosce al committente il potere di correggere immediatamente la condotta dell’altra parte, al punto da legittimare anche la risoluzione.
In forza della diffida ex art. 1662 c.c., il committente può quindi risolvere anticipatamente il contratto di appalto per inadempienze e irregolarità che non devono costituire necessariamente inadempimenti di non scarsa impor- tanza, ma che, a lavori ultimati, legittimerebbero la richiesta di eliminazione dei difetti o di riduzione del prezzo, ai sensi dell’art. 1668 comma 1 c.c.
Ne discende che l’atteggiamento rimproverato può essere, in tale mo- mento, non grave ma che, in forza di un giudizio prognostico, lo stesso può sfociare, al termine dei lavori, in un inadempimento di non scarsa impor- tanza.
È chiaro quindi che, a differenza della disciplina generale ex art. 1453 ss. c.c., la gravità dell’inadempimento che rileva attiene ad una condotta non ancora verificatasi e che, invece, si rappresenta solo in potenza. Al tempo dell’intimazione ex art. 1662 c.c., l’atteggiamento destinatario di rimprovero può addirittura essere di minima importanza, ma ciò che rileva è la valuta- zione prognostica sulla gravità che meglio si rappresenterà nel futuro.
L’inutile decorso del termine senza che l’appaltatore abbia provveduto all’eliminazione integrale dei difetti lamentati, porta automaticamente alla risoluzione del contratto. A seguito dello scioglimento del contratto per mezzo del meccanismo dell’art. 1662 c.c., al committente spetta il risarci- mento dei danni patiti a seguito del comportamento inadempiente dell’ap- paltatore. A tal fine, occorre accertare che le irregolarità e le inadempienze riscontrate siano concrete e rilevanti ai fini del raggiungimento del risultato pattuito nel contratto. Saranno quindi liquidati i danni relativi alle spese sostenute per la parte dell’opera eseguita e da sostenere, in conseguenza della
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IL GRADO DI GRAVITÀ DELL’INADEMPIMENTO CONTRATTUALE
mancata ultimazione dell’opera stessa, nonché i danni relativi al ritardo nella consegna dell’opera e al suo mancato utilizzo nei termini originariamente intesi (1).
3. La gravità dell’inadempimento e il principio di buona fede nell’appalto.
Il tema della gravità dell’inadempimento assume importanza anche in relazione ad un altro elemento, quale l’applicazione del principio di buona fede oggettiva.
Difatti, nella dialettica contrattuale che spesso sfocia, come già visto, in inadempimenti concorrenti o reciproci, una parte giustifica (o tenta di giustificare) la propria violazione del regolamento contrattuale sulla base del presunto o accertato inadempimento dell’altra parte.
È evidente che ricadiamo nell’ambito dell’eccezione di inadempimento disciplinata dall’art. 1460 c.c. che, come sappiamo, ammette tale condotta purché sia animata da buona fede.
Tutto si sposta quindi nella valutazione in concreto di cosa sia, nell’am- bito di un determinato rapporto contrattuale, una condotta in buona fede e, di conseguenza, quale sia l’eccezione di inadempimento legittima.
Ed è proprio a questo riguardo che riscontriamo come il tema della gravità dell’inadempimento possa risultare d’aiuto nella valutazione da com- piersi: in estrema sintesi, se gli inadempimenti reciproci si bilanciano in termini di gravità, tale condotta sarà da ritenersi legittima in quanto in buona fede.
In tema di appalto, il committente può trovarsi a non adempiere l’obbligazione di pagamento, invocando l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c. e adducendo a giustificazione della propria condotta il fatto che l’appaltatore si sia, per esempio, rifiutato di eliminare i vizi o le difformità dell’opera. Ebbene, laddove i vizi o difformità, pur esistenti, siano di scarsissimo rilievo rispetto all’importanza e alla complessità dell’intera costruzione e al notevole ammontare del saldo dovuto, tale condotta sarebbe da ritenersi senz’altro illegittima. A maggior ragione, questo accade laddove la spesa occorrente per eliminare i modesti vizi riscontrati sia insignificante rispetto alla somma, notevolmente maggiore, dovuta dal committente. Pertanto, il rifiuto di pagare l’intero saldo del corrispettivo è ritenuto un mero pretesto per evitare
Termine estratto capitolo
(1) X. XXXXXX (a cura di), Artt. 1ł55-1702 Appalto-Trasporto, in Commentario al Codice Civile, Milano, 2010, 143.
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CAPITOLO QUINTO
1. La risoluzione per grave inadempimento nella vendita internazionale di beni mobili.
La regola dell’importanza dell’inadempimento, presente nel nostro or- dinamento, trova un preciso riferimento nella nozione di “fundamental breach” prevista nella disciplina della vendita internazionale di beni mobili. La nozione di essenzialità dell’inadempimento di cui all’art. 25 della Convenzione di Vienna sui contratti di vendita internazionale di beni mobili riveste un significato di centrale importanza all’interno di tale disciplina
speciale (1).
Infatti, ai sensi della richiamata disposizione, il contratto di compravendita non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti non costituisce un fundamental breach. In caso contrario, il compratore potrà agire solamente per la eliminazione della difformità, per la riduzione del prezzo e il risarcimento del danno. Al fine di stabilire l’esistenza di un siffatto inadempimento, si do- vranno, in sintesi, valutare le ripercussioni dello stesso sul rapporto contrat- tuale, con particolare riguardo alla posizione del compratore.
Nell’ambito della Convenzione di Vienna, la risoluzione del contratto è disciplinata in modo unitario: nessuna distinzione, né in termini di presup- posti né di disciplina, viene operata tra risoluzione e recesso o tra risoluzione giudiziale e di diritto; di contro, la Convenzione prevede, in via generale, lo scioglimento del contratto a seguito di dichiarazione unilaterale della parte interessata, il cui esercizio è subordinato all’esistenza di un fundamental breach.
(1) Sull’argomento, in generale, si segnala, tra gli altri, XXXXXXX, Uniform Law for International Sales Under The 1980 United Nations Convention, Deventer, 1982; Commentary on the International Sales Law. The 1980 Vienna Sale Convention, a cura di XXXXXX, BONELL, Milano, 1987; La Convenzione di Vienna sui contratti di vendita internazionale di beni mobili, a cura di XXXXXX, in Le nuove leggi civili commentate, Padova, 1989; KRUISINGA, (Non-) conformity in the 1980 UN Convention on Contracts for the International Sale of Goods: a uniform concept, Antwerp, Oxford, New York, 2004 che, partendo, dal concetto di no- conformity del bene oggetto di compravendita, offre un excursus dei vari gradi di difettosità dello stesso fino a giungere al “fundamental breach” quale requisito per la risoluzione del contratto.
139
IL GRADO DI GRAVITÀ DELL’INADEMPIMENTO CONTRATTUALE
2. Il fundamentalbreach nella Convenzione di Vienna e in altri ordina- menti.
Ai sensi dell’art. 25 della Convenzione di Vienna “a breach of contract committed by one of the parties is fundamental if it results in such detriment to the other party as substantially to deprive him of what he is entitled to expect under the contract, unless the party in breach did not foresee and a reasonable person of the same kind in the same circumstances would not have foreseen such a result”.
Numerosi ordinamenti hanno introdotto il requisito del fundamental breach come presupposto per l’esercizio della domanda di risoluzione. È il caso della Scandinavian Sales Law, della Estonian Law of obligations, così come del Netherlands Wetboek o della Chinese Contract Law.
Allo stesso modo, i vari progetti di unificazione europea del diritto dei contratti, come gli Unidroit Principles for International Commercial Contracts oppure i Principles of European Contract Law o ancora l’European Union’s Draft Common Frame of Reference hanno introdotto la valutazione di essen- zialità dell’inadempimento come presupposto per il valido esercizio del rimedio demolitorio.
Parimenti, l’art. 323 (1) BGB prevede che la parte adempiente possa fondare l’azione di risoluzione sul presupposto di un inadempimento essen- ziale, sebbene, salvo i casi più gravi (2), debba riconoscere all’obbligato un termine suppletivo per porre rimedio all’inadempimento prima di esperire un’azione demolitoria.
L’art. 25 della Convenzione di Vienna non fornisce di per sé un rimedio alle parti; piuttosto, stabilisce il presupposto di un apparato rimediale previsto dalla medesima Convenzione. È il caso, ad esempio, dell’azione di risoluzione prevista dagli artt. 49 (1) (a), 51 (2), 64 (1) (a), 72 (1) o 73 (1), (2) che trova giustificazione, in tutti casi, in un “fundamental breach” (3). Inoltre, l’esistenza di un inadempimento essenziale è presupposto per la sostituzione di beni non conformi ai sensi dell’art. 46 (2) della Convenzione, in quanto tale rimedio è ritenuto talmente rilevante nell’economia complessiva del
(2) Nello specifico, ai sensi dell’art. 323 (2) BGB, il rifiuto ad adempiere, il ritardo rispetto ad un termine essenziale, l’impossibilità ad adempiere per l’obbligato costituiscono i casi in cui un termine suppletivo per rimediare all’inadempimento non sia dovuto.
(3) Dalla lettura dei richiamati disposti della Convenzione di Vienna emerge come l’azione di risoluzione possa essere validamente esercitata quando l’inadempimento, totale o parziale, attuale o potenziale, così come il difetto di conformità siano di natura essenziale.
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CAPITOLO QUINTO
rapporto da essere paragonabile, nei suoi effetti, ad un’azione di risolu- zione (4).
La nozione contenuta nell’art. 25 della Convenzione colora, quindi, una serie di rimedi apprestati dalle disposizioni di diritto uniforme, pur conser- vando, in relazione a ciascuno di esso, la sua struttura basilare. Risulta, al riguardo, determinante l’accertamento che, a seguito di un inadempimento, derivi all’altra parte un pregiudizio tale da privarla sostanzialmente di ciò che questa avrebbe potuto lecitamente attendere dal contratto.
È bene notare che la rilevanza del pregiudizio viene tuttavia esclusa quando la parte inadempiente non abbia previsto il risultato e — soprattutto
— neanche un soggetto, con le medesime competenze e qualità, posta nella medesima situazione, avrebbe potuto prevederlo.
Al riguardo, la dottrina ha ritenuto che l’essenzialità dell’inadempimento non rileva per quanto concerne il “se” della risoluzione del contratto, ma mira a fornire indicazioni sul “quando” (5). In altre parole, l’essenzialità dell’inadempimento sarebbe, ad avviso della richiamata dottrina, un requi- sito da ottenersi nel tempo e che solo al suo conseguimento può esercitarsi l’azione di risoluzione. Ne discende che gli altri inadempimenti che non abbiano raggiunto tale grado di importanza rimarrebbero nella sfera degli altri rimedi apprestati dal legislatore, quale l’eliminazione del vizio, ove possibile, la riduzione del prezzo o il risarcimento del danno.
In tal modo, osserva altra dottrina, si rischia però di spostare in avanti il limite oltre il quale la risoluzione del contratto può trovare applicazione, richiedendosi un pregiudizio tale da privare sostanzialmente la parte di ciò che essa aveva diritto di attendersi dal contratto (6). E ciò mal si concilia, ad avviso di tale dottrina, con la più corretta e fedele interpretazione del dettato della Convenzione che distingue tra obbligazioni principali e secondarie e che non fa discendere automaticamente dalla violazione di un’obbligazione principale il rimedio risolutorio. Al riguardo, si pensi all’inutile scadenza del termine di adempimento che costituisce, invero, obbligazione principale. Ebbene, da tale fattispecie non discende immediatamente la risoluzione del contratto che è invece subordinata alla decorrenza, altrettanto inutile, di un
successivo termine per rimediare all’inadempimento già verificatosi. Ri- guardo ad altre obbligazioni principali, invece, non è previsto l’istituto del termine di grazia e la risoluzione è in tali casi possibile quando l’inadempi- mento risulta essenziale ex art. 25.
(4) In questo senso, SCHLECHTRIEM, XXXXXXXXX, Commentary on the UN Convention on the International Sale of Goods (CISG), Fourth Edition, Oxford, 2016, 420 ss.
(5) XXXXXX, Die wesentliche Vertragsverletzung-Probleme des Art. 25 WKR und Paral- lelen im osterreichischen Recht, 0000, Xxxxxxxxxxx xxx Xxxxxxxxxx, 7 ss.
(6) In questo senso, CUBEDDU, L’importanza dell’inadempimento, cit., 199 ss.
141
IL GRADO DI GRAVITÀ DELL’INADEMPIMENTO CONTRATTUALE
Ne discende che non vi sarebbe un processo generalizzato di ingrave- scenza dell’inadempimento per mezzo del quale una violazione del pro-
xxxxxx negoziale acquisti essenzialità nel corso del tempo; vi sarebbe, invece, un superamento di distinzioni formali tra obbligazioni, al fine di maggiormente concentrare l’attenzione sul dato oggettivo dell’inadempi- mento e sulla serietà dello stesso (7).
Tale approccio è, altresì, confermato dal fatto che, nell’ambito dei progetti preparatori della Convenzione, i numerosi tentativi di meglio iden- tificare la soglia di importanza dell’inadempimento sono stati respinti. Ciò ha avuto luogo alla Conferenza de l’Aja del 1964 e più tardi nei lavori Uncitral, nell’ambito dei quali sono prevalse le proposte in favore di una non chiara esplicitazione del grado di importanza dell’inadempimento a fronte del quale il contratto può essere risolto (8).
È evidente che, a fronte della scelta di non operare una chiara esplici- tazione del requisito dell’importanza dell’inadempimento, la definizione dell’art. 25 Convenzione è stata destinataria di numerose critiche per la sua vaghezza e per aver mancato di offrire alle parti un riferimento più preciso e cost-effective (9). Di contro, altra parte della dottrina ha ritenuto che la scelta operata, ai tempi della redazione della Convenzione, sia stata proprio nel segno di garantire alle parti un sistema più efficace, alla luce del fatto che gli effetti restitutori della risoluzione si appalesano più costosi e meno efficienti dell’instaurazione di un giudizio per il risarcimento dei danni conseguenti ad un inadempimento non essenziale (10). In questo senso, l’art. 25 della Convenzione, elevando il grado di importanza e lasciandolo nella sua vaghezza e indipendenza dall’elemento soggettivo che caratterizza la parte inadempiente (11), ha consentito di poter limitare il ricorso al rimedio
(7) Dello stesso avviso, SCHLECHTRIEM, XXXXXXXXX, Commentary on the UN Convention on the International Sale of Goods (CISG), cit., 421 che ricorda come “a definition of the threshold beyond which a contract may be avoided must necessarily relate to the obligations under the particular contract and to the actual breach of them which has occurred. In contrast, any abstract definition must expect criticism, if it (wrongly) treats the question not as a matter to be assessed according to the circumstances, but by applying a formula under which all fact can be neatly subsumed”.
(8) Al riguardo, si veda EORSI, A Propos the 1980 Vienna Convention on Contracts for the International Sale of Goods, in American Journal of Comparative Law, 1983, 336 ss.
Termine estratto capitolo
(9) In questo senso XXXXXXXX, XXXXX, The political economy of International Sales Law, in International Review of Law C Economics, 2005, 446, 455, 474 come altresì ricordato da XXX XXXXX, The Politics of European Sales Law, Kluwer Law International, 2008, 94 ss.
(10) In questo senso, GREBLER, Fundamental Breach of Contract Under the CISG: A Controversial Role, in ASIL Proc., 2007, 101, 407-13.
(11) XXXX, The Concept of Fundamental Breach of Contract under the United Nations Convention on Contracts for the International Sale of Goods (CISG), in Review of the
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