LA PEDAGOGIA DEL CONTRATTO PER LA PROMOZIONE DI UN USO ADEGUATO DELLE ICT A SCUOLA.
Corso di dottorato in “Formazione pedagogico-didattica degli insegnanti” Scuola delle Scienze Umane e del Patrimonio Culturale
Settore Scientifico Disciplinare: M-PED/03
TESI DI DOTTORATO DI RICERCA INTERNAZIONALE IN REGIME DI CO-TUTELA E RILASCIO DI DOPPIO TITOLO
LA PEDAGOGIA DEL CONTRATTO PER LA PROMOZIONE DI UN USO ADEGUATO DELLE ICT A SCUOLA.
LA PEDAGOGÍA DE CONTRATO PARA LA PROMOCIÓN DE UN USO ADECUADO DE LAS TICS EN EL AULA.
DOTTORE XXXX XX XXXXXX | COORDINATORE XXXXXXXXXX LA MARCA |
TUTOR (Università degli studi di Palermo) XXXXXXXXXX XX XXXXX | CO-TUTOR (Universidad de Xxxxxx) XXXXXX XXXXXX XXXXX XXXXXXXX XXXXXXX XXXXXXX |
CICLO XXIX A.A. 2016/2017
DOCTORADO EN EDUCACIÓN
Convenio de Cotutela para el Xxxxx xx Xxxxxxxxx xxxxx xx Xxxxxxxxxxx xx Xxxxxx -Xxxxxx- y la Università degli Studi di Palermo -Italia-
TESIS DOCTORAL:
LA PEDAGOGÍA DE CONTRATO PARA LA PROMOCIÓN DE UN USO ADECUADO DE LAS TICS EN EL AULA.
LA PEDAGOGIA DEL CONTRATTO PER LA PROMOZIONE DI UN USO ADEGUATO DELLE ICT A SCUOLA.
Doctorando
XXXX XX XXXXXX
Directores: Xxxxxx Xxxxxx Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxxx Xx Xxxxx
A me stessa. Alla persona che ero,
alla persona che sono diventata.
E di chi sarà il coraggio, allora, se non sarà il mio?
Se si spegne quella luce, resto io.
Indice
Indice I
Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione a Scuola. Quadro normativo 11
2.1 Il Piano ForTic e i PON 26
2.2 Il Piano Nazionale per la Scuola Digitale 2007 29
2.3 Il piano Nazionale Scuola Digitale 2015 30
2.3.2 Competenze e contenuti 32
2.4 Lo stato della Scuola Digitale 36
3.1 Il “Programa de Nuevas Tecnologías de la Información y la Comunicación” (PNTIC) 39
3.4 Agenda Digital para España 44
3.5.2 Situazione infrastrutturale 49
3.5.2.1 Numero di alunni per PC 50
3.5.2.2 Connessione a Internet 50
3.5.2.3 Tipologia e ubicazione della tecnologia 51
Tecnologia mobile in classe. Opportunità e sfide educative 53
1. I rischi connessi alla tecnologia 56
1.1 Tempi e spazi del consumo mediale 56
1.2 L’accesso e la gestione delle informazioni 57
1.4.1.1 Il cyber bullismo in Europa: alcuni dati 68
1.4.1.2 Il cyber bullismo in Italia: alcuni dati 71
1.4.1.10 Cyberbashing o Happy Slapping 80
2. Le opportunità offerte dalla tecnologia 86
2.1 Tempi e spazi del consumo mediale 87
2.2 L’accesso e la gestione delle informazioni 89
2.3 Il ruolo dell’adulto 91
2.4 La Digital Wisdom 92
2.4.1 Prudenza 93
2.4.2 Fortezza 95
2.4.3 Temperanza 95
2.4.4 Fede 96
3. Fronteggiare le sfide, godere delle opportunità. Il punto di vista pedagogico, dal protezionismo alla partecipazione 97
CAPITOLO 3 101
La Pedagogia del Contratto 101
1. La Pedagogia del Contratto. Accenni storici 108
2. Pedagogia del contratto e contratto pedagogico: definizione, elementi fondativi e progettazione 109
3. Definire la pedagogia del contratto: errori concettuali 112
3.1 Contratto pedagogico 112
3.2 Contratto didattico 113
3.3 Contratto o patto formativo 114
3.4 Netiquette 114
4. Tipi di contratto 115
4.1 Contratto didattico 115
4.2 Contratto di riuscita 116
4.3 Contratto di progetto 116
4.4 Contratto di risoluzione di conflitto 117
4.5 Contratto istituzionale 117
5. Il contratto e le TIC: una proposta per minimizzare i rischi 118
5.1 Analisi del contesto classe 120
5.2 Una buona pratica: il percorso presso la rete di scuole del CFP Zanardelli 121
CAPITOLO 4 131
Studio empirico 131
1. Introduzione 133
2. Ipotesi di ricerca 134
3. Obiettivi 134
4. Metodologia 135
5. Strumenti 136
5.1 Validazione degli strumenti 138
6. Campione 141
7. Discussione dei risultati 144
7.1 Il questionario 144
7.2 Il focus group 164
7.2.1 Rappresentazione della tecnologia 164
7.2.2 Aspetti positivi e negativi della tecnologia in classe 165
7.2.3 Regole d’uso della tecnologia in classe 167
7.2.4 I temi caldi del contratto pedagogico 169
7.2.4.1 Ruoli e responsabilità nella negoziazione delle regole 171
8. Conclusioni 172
9. Prospettive di ricerca 173
CONCLUSIONI 177
CONCLUSIONES 183
Allegati 189
Bibliografia 191
L’incontro con i testi di Xxxxxxxx Xxxxxxx, insegnante e direttore dell’Institut National de Recherche Pédagogique, è stato illuminante: egli individua una strategia che, riconoscendo sia all’adulto che al ragazzo la capacità critica di definire bisogni e aspettative, poggia le basi sulla negoziazione e sul confronto tra le parti al fine di raggiungere un obiettivo che sia concordato e che quindi soddisfi la necessità del ragazzo di diventare autonomo, senza per questo sminuire l’importanza dell’adulto nel processo educativo (Xxxxxxx, 2002).
La strategia indicata da Xxxxxxx, che prende il nome di pedagogia del contratto di fatto non prevedeva, nelle pagine dello studioso, l’applicazione all’ambito delle tecnologie didattiche. Per questo motivo ho voluto approfondire gli studi in merito, conducendo una ricerca che mirasse a comprendere se la strategia enunciata da Xxxxxxx abbia valenza pedagogica anche quando si tratta di regolamentare l’uso delle tecnologie in classe.
Nella stesura del testo ho deciso di adottare una struttura ad imbuto, che parta dal macrocontesto per giungere all’analisi del micro: nel primo capitolo si condurrà una ricognizione degli aspetti normativi legati all’adozione delle tecnologie didattiche in ambito scolastico, che tanta parte hanno avuto nel declinare la visione e l’utilizzo che dei dispositivi si è fatto in classe. Nello specifico si è cercato di approfondire le prospettive europea, italiana e spagnola, andando a cercare leggi, provvedimenti e finanziamenti in favore della tecnologizzazione delle aule scolastiche, chiudendo ogni paragrafo con un’analisi della diffusione dei dispositivi.
Nel secondo capitolo si è cercato di comprendere che tipo di impatto abbia l’utilizzo delle tecnologie nella pratica didattica. Per farlo, si è condotta un’analisi dei principali rischi connessi ad un uso non consapevole ed educato dei digital device, a cui è seguito lo studio di quelle che invece sono opportunità che questi strumenti offrono, specie in ambito didattico. Queste due sezioni sono state costruite in modo speculare; per questo motivo non possono essere considerate esaustive: non si è parlato di tutti i rischi e di tutte le opportunità connesse all’uso delle tecnologie, ma solo degli aspetti legati ai
tempi e agli spazi del consumo mediale, all’accesso e alla gestione delle informazioni, al ruolo dell’adulto e alla contrapposizione tra digital wisdom e cyberstupidity, termini con cui Xxxx Xxxxxxx si riferisce rispettivamente alla competenza digitale come a quella capacità di trovare soluzioni pratiche, creative e appropriate al contesto e, in opposizione, all’incapacità di scegliere ambienti, linguaggi e strumenti adeguati alla diffusione di un messaggio, con conseguente messa in atto di comportamenti a rischio.
Nel terzo capitolo si è cercato di individuare una strategia in grado di prevenire i comportamenti devianti di cui si è parlato nel secondo capitolo, al fine di favorire un uso responsabile delle tecnologie.
Con la ricerca presentata nel quarto capitolo si è cercato di provare questa ipotesi, attraverso la somministrazione di strumenti quantitativi (questionario) e tecniche qualitative (focus group) ad un gruppo di insegnanti il cui agire didattico può essere considerato una buona pratica.
Dalla ricerca emergono alcuni dati interessanti: i docenti immaginano il contratto pedagogico come un insieme di regole, come un accordo condiviso tra docenti, alunni e famiglia basato sul dialogo e sulla negoziazione. Nonostante sia uno strumento utilizzato solo da poco meno della metà del campione coinvolto (48%), l’81% dell’altra metà ne percepisce l’utilità e ne auspicherebbe l’introduzione nella propria scuola.
El encuentro con los textos de Xxxxxxxx Xxxxxxx, profesor y director del Instituto Nacional de Investigación Pedagógica ha sido esclarecedor: encuentra una estrategia que, reconociendo tanto al adulto cuanto al niño la capacidad crítica de definir necesidades y expectativas, se basa en la negociación y el enfrentamiento entre las partes con el fin de alcanzar un objetivo que sea acordado y que por eso pueda satisfacer la necesidad del niño de ser autónomo, sin por eso disminuir la importancia del adulto en el proceso educativo (Meirieu, 2002).
La estrategia indicada por Xxxxxxx, que toma el nombre de pedagogía de contrato, de hecho, no preveía su aplicación al campo de la tecnología educativa. Por esta razón, quise profundizar los estudios sobre ese tema, realizando una investigación que intentara comprender si la estrategia enunciada por Xxxxxxx tiene valor pedagógico, incluso cuando se trata de regular el uso de la tecnología en el aula.
Respecto a la escritura del presente texto he decidido adoptar una estructura de embudo que empieze con un estudio del macroentorno para llegar a uno del microentorno: el primer apartado llevará a cabo un estudio de las leyes relativas a la adopción de la tecnología educativa en las escuelas, dado que ha sido muy importante en la delineación xx xx xxxxxx x xx xxx xx xxx xxxxxxxxxxx xx xx xxxx.
En concreto, se ha intentado profundizar la perspectiva europea, italiana y española, buscando leyes, medidas y financiación para las clases basadas en la tecnología, cerrando cada sección con un análisis de la difusión de los dispositivos.
En el segundo capítulo se ha tratado de entender qué tipo de impacto tiene el uso de la tecnología en la práctica escolar. Para ello, se ha hecho un análisis de los principales riesgos relacionados con un uso no consciente y educado de dispositivos digitales, al que sigue el estudio de las oportunidades ofrecidas por estas herramientas, sobre todo en el ámbito educativo. Estas dos secciones se han construido en imagen especular, por lo que no pueden considerarse exhaustivamente. Aunque no se ha hablado de todos los riesgos y
todas las oportunidades relacionadas con el uso de la tecnología, sì se han abordado los aspectos relacionados con los tiempos y los espacios de consumo mediático, el acceso y la gestión de la información, el papel de los adultos y el contraste entre la sabiduría y la estupidez digitales, términos con los que Xxxx Xxxxxxx habla de competencia digital como capacidad de encontrar soluciones practicas, creativas y apropriadas al contexto con la ayuda de las tecnologías y, por el contrario, la incapacidad de elegir entornos, lenguajes y herramientas adecuados para vehicular un mensaje, generando comportamientos de riesgo.
En el tercer capítulo se ha tratado de identificar una estrategia capaz de prevenir las conductas desviadas de las cuales se ha discutido en el segundo capítulo, con el fin de promover el uso responsable de la tecnología.
En el cuarto capítulo se ha presentado la investigación propiamente dicha, contrastando la hipótesis, a través de los datos extraídos mediante la administración de instrumentos cuantitativos (cuestionario) y técnicas cualitativas (focus group) a un grupo de docentes cuya acción educativa puede considerarse como una buena práctica.
La investigación revela algunos resultados interesantes: los docentes ven el contrato pedagógico como un conjunto de reglas, un acuerdo compartido entre profesores, alumnos y padres basado en el dialogo y la negociación. A pesar de ser una herramienta utilizada sólo por poco menos de la mitad de la muestra (48%), el 81% perteneciente a la otra mitad percibe su utilidad y agradecería su introducción en su escuela.
Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione a Scuola. Quadro normativo
1. La prospettiva europea
In occasione del Consiglio Europeo tenutosi a Lisbona il 23 e 24 Marzo 2000, l’Unione Europea riconobbe, nei recenti e rapidi cambiamenti sociali dovuti alla globalizzazione e al dilagare di una nuova economia basata sulla conoscenza, la necessità di trasformare in modo radicale l’economia europea. Si trattava di cambiamenti che interessavano ogni aspetto della vita delle persone, che richiedevano quindi l’impegno fermo da parte dell’Unione al fine di creare le infrastrutture del sapere, promuovere l'innovazione e le riforme economiche, e modernizzare i sistemi di previdenza sociale e d'istruzione.
L’UE si prefisse quindi un obiettivo: «diventare l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale» (Unione Europea, 2000). Per raggiungere questo obiettivo, si propose di migliorare le politiche in materia di società dell’informazione e di ricerca e sviluppo, velocizzare le riforme strutturali già in atto nel territorio europeo per diventare sempre più competitivi e innovativi, investire nelle persone, combattere l’esclusione sociale, sostenere le prospettive di crescita.
1.1 Il Piano eEurope
Per raggiungere il sopracitato obiettivo, favorendo così il passaggio ad un’economia digitale basata sulla conoscenza, l’Unione Europea invitò il Consiglio Europeo e la Commissione Europea ad elaborare un piano d’azione globale che avrebbe chiamato eEurope (Commissione Europea, 1999), un’iniziativa volta ad abbracciare il cambiamento suscitato dalla società dell’informazione attraverso l’adozione di una serie di misure, quali la liberalizzazione delle telecomunicazioni, l’istituzione di un quadro giuridico per il commercio elettronico e il sostegno alle industrie e alla ricerca.
I principali obiettivi di eEurope (Commissione Europea, 1999) erano:
o facilitare l’ingresso nell’era digitale di ciascun cittadino, ciascuna abitazione, scuola e amministrazione, attraverso la diffusione del collegamento a Internet;
o favorire la padronanza degli strumenti digitali, sostenendo una cultura imprenditoriale che finanziasse e sviluppasse nuove idee;
o fare in modo che questo processo non creasse emarginazione, ma rafforzasse la fiducia dei consumatori e potenziasse la coesione sociale.
Per riuscire a conseguire questi obiettivi, la Commissione Europea (1999) propose dieci azioni da attuare in collaborazione con gli Stati membri, l’industria e i cittadini:
1. permettere ai giovani l’ingresso nell’era digitale
2. abbassare i costi di accesso a Internet
3. accelerare il commercio elettronico
4. garantire l’accesso a Internet ad alta velocità a studenti e ricercatori
5. produrre tessere intelligenti per un accesso elettronico sicuro
6. portare al massimo il capitale di rischio disponibile per le PMI ad alta tecnologia
7. permettere la partecipazione alla cultura elettronica alle persone con disabilità
8. abilitare l’accesso ai servizi sanitari online
9. sviluppare trasporti intelligenti
10. permettere l’accesso alle informazioni delle pubbliche amministrazioni
Tra queste, due sono in particolare le azioni che si riflettevano direttamente sulla scuola e sull’istruzione e che quindi ci interessa analizzare in questa sede: la prima e la quarta. Con il punto 1 ci si prefiggeva l’intento di diffondere la cultura digitale dentro e fuori le mura scolastiche, perché diventasse una delle conoscenze di base per tutti i giovani europei. Per raggiungere lo scopo, diventava fondamentale iniziare ad utilizzare Internet e in generale le risorse multimediali nelle aule, adeguando l’istruzione all’era
digitale. Si chiese quindi agli Stati membri di dotare tutte le scuole di accesso a Internet entro la fine del 2001 e fare in modo che entro la fine del 2003, al termine degli studi, tutti gli allievi avessero acquisito una cultura digitale.
Per evitare l’esclusione e l’emarginazione di alcuni cittadini da questo processo, l’UE incentivò la concorrenzialità e la conseguente diminuzione dei prezzi dell’accesso a Internet (punto 2); il rischio altrimenti era quello di creare
«disuguaglianze relative all’accesso dei giovani alle nuove tecnologie», per dirla con Xxxxxxx (2010, p. 77). Lo statunitense, infatti, qualche anno dopo rispetto al Consiglio Europeo di Lisbona, riportò quanto dichiarato durante un’intervista rilasciata al network televisivo PBS da due importanti personalità di Philadelphia, l’allora Sindaco Xxxx Street e l’allora Presidente del People’s Emergency Center Xxxxxx Xxxxx (2005). Per il primo, i ragazzi e le loro famiglie «dovrebbero essere connesse oppure sono condannate a restare indietro e, in molti casi, non saranno più in grado di riprendersi»; sulla stessa linea troviamo la Guard, la quale dichiarò che i bambini che vivono in case dove non siano presenti i pc «non saranno in grado di tenere il passo del mercato, [né dei] loro compagni di scuola», concludendo che è «molto importante portare competenze informatiche e la connessione a Internet in quante più abitazioni possibile».
Rispetto invece al secondo punto di interesse, ossia garantire Internet ad alta velocità per i ricercatori e gli studenti, l’obietto dell’UE era quello di consentire l’accesso alla Rete a tutti coloro che lavoravano nei settori dell’istruzione e della Ricerca, assicurando cooperazione e interattività tra le varie Università.
Per riuscire a centrare il bersaglio, l’Europa si propose di adeguare i sistemi di istruzione e formazione alle nuove esigenze dettate dal nascere della società dei saperi, attraverso tre azioni fondamentali: lo sviluppo di centri locali di apprendimento desinati soprattutto ai gruppi di giovani e adulti disoccupati o le cui competenze rischiavano di diventare obsolete nel giro di poco tempo; la promozione di nuove competenze di base, in particolare nelle tecnologie dell'informazione; un sistema di qualifiche più trasparenti.
A un anno dal lancio di eEurope, durante la Comunicazione al Consiglio europeo di primavera (Commissione Europea, 2001a) tenutasi a Stoccolma il 23 e 24 marzo 2001, la Commissione Europea presentò una Relazione strategica in cui condusse un'analisi dell'impatto dell'iniziativa eEurope sulla società della conoscenza, suddividendola in tre snodi: Internet più economico, più rapido e più sicuro; investimento nelle risorse umane e nella formazione; promozione dell'uso di Internet.
Rispetto al secondo punto, che è quello che in questa sede più ci interessa analizzare, le scuole dotate di computer e collegamento a Internet erano davvero molte (Eurobarometro, 2001): in media, il 94% delle scuole europee utilizzava computer per la didattica e il 79% aveva a disposizione una connessione a Internet, e i dati erano sostanzialmente analoghi in quasi tutti gli Stati membri. La percentuale di PC per studente era però relativamente bassa: in media, ad ogni PC erano collegati 10 allievi, ma se si parla di connessione, il rapporto era di 1:22, pur con notevoli differenze tra Stati membri. Se ne dedusse che erano molti gli Stati dell’Unione che ancora dovevano lavorare molto sulla digital literacy, così come richiesto da eEurope. Rispetto all’ambito lavorativo, il 23% delle persone con una occupazione dell'UE aveva beneficiato di una formazione in informatica, anche se erano molto ampie le differenze tra i vari Stati, in molti dei quali i corsi erano di qualità molto bassa.
Di fronte a questi dati, per favorire il raggiungimento degli obiettivi prefissati con eEurope, si diede vita ad un piano d’azione denominato eEurope 2002 (Commissione Europea, 2001a), che si sviluppò intorno ai tre nodi della precedente Comunicazione: Internet meno costoso, più rapido e sicuro; investire nelle persone e nelle competenze; stimolare l'uso di Internet. Per meglio sviluppare il secondo punto, che come anticipato è quello che risulta essere particolarmente interessante in questa sede, si tentò di far entrare i giovani nell’era digitale attraverso tutta una serie di azioni, che compresero il collegamento delle scuole alle reti di ricerca, con facile accesso a Internet e alle risorse multimediali; la disponibilità di piattaforme di apprendimento online destinate a docenti, studenti e genitori; la formazione dei docenti alle
tecnologie digitali, e infine l’adattamento dei programmi scolastici e l’integrazione delle TIC. Oltre a questo, eEurope 2002 chiese agli Stati membri di garantire ai giovani l’idoneità a lavorare in una situazione di continuo mutamento economico, favorendo l’acquisizione delle competenze indispensabili perché ciò avvenisse, attraverso posti di formazione e di apprendimento e prevenendo “l’esclusione digitale”. Si identificarono in particolare quattro settori dove risultava urgente agire con interventi mirati: la formazione degli insegnanti, l’incontro tra curricoli scolastici e le potenzialità offerte da Internet, la possibilità di accesso a risorse multimediali di qualità elevata mediante collegamenti a banda larga e colmare la carenza di competenze informatiche. Gli obiettivi che ci si prefissò di raggiungere erano:
o un computer multimediale ogni cinque allievi;
o realizzare programmi di formazione relativi alle tecnologie digitali, specialmente per gli insegnanti;
o adeguare i programmi scolastici includendo l’uso dei nuovi strumenti di apprendimento e insegnamento basati su Internet e sulla multimedialità;
o portare la banda larga a scuola;
o promuovere l'offerta di contenuti e servizi didattici multimediali di alta qualità, nonché ambienti di apprendimento virtuale adeguati;
o sostenere la ricerca sulle tecnologie avanzate e sugli standard per l'apprendimento per via elettronica (eLearning);
o affrontare il problema della carenza di qualifiche nell’ambito delle TIC agendo sulle cause strutturali, promuovendo la formazione lungo tutto l'arco della vita e favorendo la cooperazione tra parti sociali, istituti di insegnamento e altri soggetti interessati.
Come recita la “Valutazione finale del piano d'azione eEurope 2005” (Commissione Europea, 2009a), «A fine 2002, tuttavia, non era ancora possibile stabilire una correlazione chiara tra il successo della messa in linea dei paesi europei e la creazione di nuovi posti di lavoro e nuovi servizi». Per questo motivo il Consiglio Europeo riunitosi a Barcellona nel Marzo 2002
(Consiglio Europeo, 2002) invitò la Commissione ad elaborare un nuovo piano d'azione per conseguire «la diffusione della disponibilità e dell'uso delle reti a banda larga in tutta l'Unione entro il 2005», nonché la «sicurezza delle reti e dell'informazione, eGovernment, eLearning (rispetto al tema dell’eLearning si veda la “Proposta di decisione del Parlamento Europeo e del Consiglio recante adozione di un programma pluriennale (2004-2006) per l’effettiva integrazione delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni (TIC) nei sistemi di istruzione e formazione in Europa (programma e-learning)”, Bruxelles, 19 Dicembre 2002), eHealth ed eBusiness». Ne seguì quindi eEurope 2005 (Commissione Europea, 2002a), approvato dal Consiglio europeo di Siviglia nel Giugno 2002, il cui scopo principale fu quello di tradurre la connettività richiesta e promossa dal piano precedente in un aumento della produttività economica e un miglioramento della qualità e dell’accessibilità dei servizi per tutti i cittadini europei, grazie a una banda larga protetta e disponibile per tutti, cercando di prevenire l’esclusione sociale di quelle persone che, per problemi legati all’età, alla salute o ad altro si trovassero in condizione di non poterne fruire.
Tra i principali obiettivi che eEurope 2005 si prefisse di raggiungere entro il 2005 (Commissione Europea, 2002b) troviamo lo sviluppo di servizi pubblici online, eGovernment, eLearning, eHealt, eBusiness, un’infrastruttura di informazione protetta, banda larga a prezzi concorrenziali e diffusione delle buone pratiche.
Come si può notare, rispetto al tema dell’apprendimento, si incoraggiò l’eLearning, a favore del quale furono varate una serie di misure che prevedevano la diffusione dell’accesso a Internet a banda larga di tutte le scuole e le Università, l’accesso a Internet per tutti gli studenti e i ricercatori, il lancio di piani di ricerca sulla diffusione di reti e piattaforme automatizzate fondate su infrastrutture di calcolo ad alte prestazioni, e infine l’avvio di azioni formative destinate agli adulti per permettere l’acquisizione delle competenze necessarie a lavorare nella società della conoscenza.
1.2 Il Xxxxx x0000
Dalla Valutazione finale del piano d'azione eEurope 2005 (Commissione Europea, 2009a) emerge che uno dei grandi meriti da riconoscere a eEurope 2005 è quello di aver tenuto alta l’attenzione sulle TIC e di aver favorito lo sviluppo di iniziative politiche di rilievo che hanno condotto ad i2010: Una società dell’informazione per la crescita e l’occupazione (Commissione Europea, 2005), un’iniziativa varata nel giugno 2005 al fine di sviluppare gli strumenti politici necessari a favorire l’economia digitale. Tra le priorità del piano, la promozione di un ambiente competitivo per i servizi di comunicazioni elettroniche e i media, il rafforzamento della ricerca dell’innovazione delle TIC e lo sviluppo di una società dell’informazione inclusiva.
Come è possibile notare da questo riassunto, risulta evidente che le politiche adottate dall’Unione Europea hanno condotto gli Stati membri ad una progressiva entrata nell’era tecnologia, anche se con alcuni squilibri. È altrettanto evidente, però, che le iniziative citate si basano fondamentalmente sull’ipotesi che la presenza di tecnologie per l’informazione e la comunicazione basti a migliorare la competitività economica dei Paesi e il processo di insegnamento e apprendimento in ambito educativo. Si sono attivate strategie di formazione, che sono però risultate insufficienti a promuovere lo sviluppo di competenze digitali che potessero davvero produrre dei cambiamenti (Commissione Europea, 2010a). La tecnologia da sola, infatti, non basta a migliorare i processi o a produrre innovazione (Xxxxxx-Xxxxxxxxx & Xxxxxxx, 2006; Xxxxxxxx & Xxxxxxx, 2012). Alcune ricerche basate su PISA 2012 (OECD, 2012) sottolineano infatti che il semplice accesso alle tecnologie digitali non produce automaticamente risultati di apprendimento migliori, anche se se ne fa un uso miratamente pedagogico (Unione Europea, 2015). Si è pensato a dotare scuole, e non solo, di attrezzature materiali, ma non ad attrezzarle culturalmente per far fronte alla novità (Maragliano, 2004).
1.3 Europe 2020
Per ovviare a questo e ad altri problemi, nel 2010 si è dato il via al programma Europe 2020 (Commissione Europea, 2010b), che si basa su 7 aree di intervento:
1. «Unione dell’innovazione»: mira a migliorare le condizioni e l’accesso ai finanziamenti per ricerca e innovazione;
2. «Gioventù in movimento»: punta a migliorare l’efficienza dei sistemi d’insegnamento, ad agevolare l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, attraverso programmi finanziati dall’UE, e a creare piattaforme che aiutino i giovani a trovare un lavoro in altri paesi dell’UE;
3. «Agenda digitale europea»: si propone di accelerare la diffusione della rete Internet ad alta velocità e delle TIC;
4. «Un’Europa efficiente sotto il profilo delle risorse»: promuove il passaggio verso un’economia a basse emissioni di CO2, un maggiore ricorso alle fonti energetiche rinnovabili, lo sviluppo delle tecnologie verdi e di un settore dei trasporti più moderno;
5. «Una politica industriale per l’era della globalizzazione»: si prefigge di migliorare il contesto in cui operano le piccole e medie imprese.
6. «Un’agenda per nuove competenze e per l’occupazione»: si propone di modernizzare i mercati del lavoro e di consentire alle persone di realizzarsi sviluppando le loro competenze e migliorando la flessibilità e la sicurezza nell’ambiente di lavoro. Vuole anche aiutare i lavoratori a trovare più facilmente un impiego in altri paesi dell’UE, in modo da far incontrare meglio offerta e domanda di lavoro.
7. «Piattaforma europea contro la povertà»: si propone di garantire la coesione sociale e territoriale aiutando i poveri e gli emarginati ad accedere al mercato del lavoro e diventare membri attivi della società.
Di questi sette punti, quello che più ci interessa è quello relativo all’Agenda Digitale, la quale punta a sfruttare tutte le potenzialità delle
tecnologie per l’informazione e la comunicazione per favorire l’innovazione, lo sviluppo economico e il progresso.
Relativamente all’ambito educativo, vengono evidenziate (Commissione Europea, 2010a) alcune lacune che è necessario colmare per poter raggiungere gli obiettivi di Europe 2020; tra questi la mancanza di alfabetizzazione digitale e di competenze informatiche. Per ovviare a questa carenza, la Commissione inserisce l’alfabetizzazione e le competenze digitali fra le priorità del Fondo sociale europeo, identificando al contempo quelle che sono le competenze dei tecnici e degli utenti delle TIC.
Attraverso il processo di alfabetizzazione mediatica i cittadini saranno messi nella condizione di saper comprendere i messaggi veicolati attraverso i media e di saper esprimere opinioni diverse, sviluppando al contempo i valori della tolleranza e del dialogo.
In questo senso, si inizia a incoraggiare l’avvio di progetti di ricerca sull’alfabetizzazione mediatica, nonché conferenze e manifestazioni che aprano dibattiti sull’importanza di inserire questa competenza nel curriculum scolastico (Commissione Europea, 2009b).
Si prevedono altresì corsi di formazione volti a sviluppare la consapevolezza dei rischi derivanti dal trattamento dei dati personali diffusi tramite le TIC.
Per il conseguimento di tutti questi obiettivi, si prevede di predisporre strumenti informativi relativi ai contenuti digitali e ai motori di ricerca, campagne di sensibilizzazione sulle tecniche della comunicazione commerciale online, incontri sul trattamento dei dati personali, e infine giornate sull’economia della creatività e sui diritti d’autore.
Prima di vedere quale sia lo stato attuale, si propone di seguito una tabella riassuntiva dei progetti messi in atto negli ultimi due decenni dall’Unione Europea di cui si è parlato fin qui:
Progetto | Periodo di riferimento | Obiettivi |
Piano eEurope | 2000-2002 | Facilitare l’ingresso nell’era digitale attraverso la diffusione del collegamento a Internet; favorire la padronanza degli strumenti digitali; prevenire l’emarginazione |
Piano eEurope 2002 | 2002 | Internet meno costoso, più rapido e sicuro; investire nelle persone e nelle competenze; stimolare l'uso di Internet |
Piano eEurope 2005 | 2002-2005 | aumentare la produttività economica, migliorare la qualità e dell’accessibilità dei servizi per tutti i cittadini europei, prevenire l’esclusione sociale, sviluppare servizi pubblici online, eGovernment, eLearning, eHealt, eBusiness, sviluppare un’infrastruttura di informazione protetta, banda larga a prezzi concorrenziali e diffusione delle buone pratiche |
Piano i2010: Una società dell’informazione per la crescita e l’occupazione | 2005-2010 | favorire l’economia digitale, promuovere un ambiente competitivo per i servizi di comunicazioni elettroniche e i media, rafforzare la ricerca dell’innovazione delle TIC e lo sviluppo di una società dell’informazione inclusiva. |
Europe 2020 | 2010-2020 | accelerare la diffusione della rete Internet ad alta velocità e delle TIC, promuovere l’alfabetizzazione e lo sviluppo delle competenze digitali, avviare corsi di formazione per lo sviluppo della consapevolezza dei rischi derivanti dal trattamento dei dati personali diffusi tramite le TIC |
Tabella 1. Progetti relativi alle TIC promossi dall'UE dal 2000 ad oggi
1.4 Lo stato attuale
Complessivamente, secondo i dati raccolti dall’Ufficio Statistico dell’Unione Europea (Eurostat, 2015) gli sforzi sembrano aver dato qualche risultato, aumentando il livello di digital literacy tra i cittadini europei: le persone che nel quinquennio 2007-2012 hanno dimostrato di possedere per lo meno un livello intermedio di competenza informatica è aumentato dal 47% al 50%, mentre nel periodo 2007-2013 gli utenti in grado di sfruttare le
potenzialità di Internet sono passati dal 30% al 47%. Chiaramente, parte del merito va alla diffusione delle tecnologie, che grazie agli interventi portati avanti negli anni dall’UE hanno permesso una maggiore familiarità con le tecnologie, sia in ambito personale che lavorativo. Bisogna riconoscere però che la parte di popolazione europea con deficit di alfabetizzazione digitale è ancora grande, fattore che rischia di causarne l’esclusione da una società e un’economia basate sulla conoscenza digitale. Infatti nel 2015 solo il 55% della popolazione europea dimostra di possedere digital skills di base e il 74 % possiede digital communication skills (Eurostat, 2016a).
Con rispetto alla dotazione tecnologica, nel 2015 (Eurostat, 2016b) quattro famiglie europee su cinque possedevano una connessione a banda larga.
Figura 1. Percentuale di famiglie con connessione a banda larga. Fonte: Eurostat (2016b)
La mappa in Figura 1 mostra la proporzione di famiglie dotate di connessione a banda larga fissa o mobile nel 2015. Come si può notare, gli Stati dove questa è maggiormente diffusa sono gli Stati del nord Europa; in particolare è l’Olanda a registrare la più alta percentuale di famiglie che ne dispongono.
Internet è fruito quasi da tutti: solo un cittadino europeo su 6 non lo ha mai usato. Questo dato dipende in larga parte dalla diffusione sempre più massiccia degli smartphone, che rendono la rete accessibile anche in movimento, spesso a costi relativamente contenuti. All’inizio della rivoluzione digitale, infatti, il non uso da parte di un solo cittadino su sei sarebbe stato impensabile, considerando che l’accesso al web era consentito solo a chi avesse la possibilità di accedere ad un pc fisso, che peraltro spesso era presente solo al lavoro. Questo ha ridotto il digital divide, quanto meno tra gli haves e gli have not, tanto che dal 2010 la percentuale di persone che non avevano mai utilizzato Internet è scesa dell’11%; resta però evidente che, come si anticipava poco sopra, il possesso non è garanzia di alfabetizzazione.
L’obiettivo dell’Agenda Digitale di Europa 2020 è di far scendere la percentuale di persone che non hanno mai usato Internet di un ulteriore 1%, passando dal 16% di ora al 15%, forti dei risultati ottenuti negli ultimi 5 anni.
2. La prospettiva italiana
Il percorso di introduzione delle tecnologie nelle scuole italiane fonda le sue radici negli anni Ottanta del Novecento, quando l’allora Ministero della Pubblica Istruzione iniziò ad offrire a docenti e studenti la possibilità di sperimentare l’uso dei computer attraverso l’installazione di laboratori informatici. Per essere precisi, però, il Piano Nazionale per l’Informatica (Ministero della Pubblica Istruzione, 2001) del 1985 garantì la sperimentazione solo ai docenti di matematica e fisica delle scuole secondarie di II grado; bisognò attendere gli anni Novanta perché si cominciasse a pensare agli strumenti tecnologici come a un valido supporto nella didattica di tutte le discipline, convinzione che portò all’elaborazione del Programma di Sviluppo delle Tecnologie Didattiche (PSTD, 1997-2000) (Ministero della Pubblica Istruzione, 2010a). Per la prima volta si pensò all’innovazione
tecnologica non come qualcosa di carattere settoriale, bensì come la possibilità, rivolta alle scuole di ogni ordine e grado, di dotarsi stabilmente di attrezzature multimediali, scelte liberamente da ogni istituto sulla base delle necessità registrate. Gli obiettivi principali del PSTD erano fondamentalmente tre:
o educare gli studenti alla multimedialità e alla comunicazione, facilitando l’acquisizione di abilità quali esprimersi, ricercare, elaborare, rappresentare la conoscenza e collaborare, sfruttando le tecnologie per la crescita culturale e lo sviluppo di un atteggiamento critico nei loro confronti;
o rendere più efficace l’insegnamento e l’apprendimento;
o migliorare la professionalità docente attraverso la formazione e la fruizione delle tecnologie per consultare banche dati, confrontarsi con colleghi vicini o lontani, lavorare cooperativamente, accedere a contenuti per l’autoformazione.
Per raggiungere questi risultati, Il PSTD progettò due tipologie di intervento: l’installazione di due postazioni telematiche per scuola ad uso dei docenti con relativo corso di prima alfabetizzazione e il finanziamento di un laboratorio multimediale per scuola, con possibilità di un collegamento a Internet.
2.1 Il Piano ForTic e i PON
Nel 2000 fu varato ForTic (Piano Nazionale di Formazione degli Insegnanti sulle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione) (Ministero della Pubblica Istruzione, s.d.) (MIUR, 2002), un piano formativo di durata quadriennale (2002-2005) destinato a circa 180.000 docenti di ogni ordine e grado erogato in modalità blended (MIUR, 2001), che mirava a raggiungere sia i docenti non alfabetizzati che coloro che invece avevano una certa familiarità con le funzioni informatiche di base. Lo scopo del piano fu triplice: fornire nozioni di base ai docenti con scarsa o nessuna competenza
nell’uso delle TIC, formare “consulenti” esperti nelle metodologie e nelle risorse didattiche offerte dalle TIC, preparare “responsabili” delle infrastrutture tecnologiche della scuola o di reti di scuole.
Con ForTic si parlò per la prima volta della necessità di formare insegnanti che non fossero solo in grado di trasmettere conoscenze tecniche specifiche, ma che fossero capaci di cambiare il modo di fare scuola, utilizzando proficuamente le tecnologie nella didattica quotidiana. Lo scopo era quello di formare i docenti affinché fossero alfabetizzati, ma anche in grado di distinguere potenzialità e limiti della tecnologia e della rete.
L’ex MPI, nel frattempo diventato MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), si rese conto che, se da una parte era necessario che la scuola si attrezzasse per fornire adeguato supporto nell’acquisizione di conoscenze e abilità, dall’altra, doveva essere in grado di offrire a tutti la possibilità di navigare e accedere alle conoscenze, provando così a colmare il gap che si stava venendo a creare tra gli have e gli have not (Xxxxxxx, 2010).
Per questo motivo gli obiettivi di ForTic furono ripresi dal Piano di Azione eLearning (Commissione delle Comunità Europee, 2001), presentato al Consiglio e al Parlamento Europeo il 28 marzo 2001, che affiancò al piano di formazione modifiche di tipo infrastrutturale. In particolare il PAeL si prefiggeva, nell’arco di qualche anno, di arrivare a dotare tutte le scuole di un accesso a Internet, raggiungere il rapporto di 5-15 allievi per computer, garantire la disponibilità di servizi di supporto e di risorse didattiche online, infine di predisporre piattaforme di apprendimento virtuali destinate a insegnanti, studenti e genitori.
Il progetto nazionale ForTic fu poi rinnovato per il periodo 2005-2008 (Marconi, 2010), secondo le stesse modalità del quadriennio precedente. Le macro-aree di intervento furono due: una di taglio pedagogico-didattico e l’altra più tecnica. Per i neofiti il Ministero previde l’erogazione, su piattaforma e-learning, di un corso di auto-formazione di base rispetto all’uso delle TIC come risorse didattiche e pedagogiche; tra gli argomenti: risorse
digitali, Internet e social software, LIM, applicativi per la scrittura multimediale, organizzazione e rappresentazione dell’informazione, ecc.
Nello stesso periodo si emanò il Programma Operativo Nazionale (PON) “La Scuola per lo Sviluppo” 2000-2006 (Ministero della Pubblica Istruzione, 2010b), un piano di sostegno finanziario allo sviluppo scolastico e formativo di sei regioni del mezzogiorno (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna, Sicilia) che si proponeva di favorire il progresso della società della conoscenza e dell’informazione attraverso lo sviluppo di competenze di base e trasversali e la costituzione e il potenziamento di reti di comunicazione, sia interne che esterne, negli istituti scolastici.
Nonostante gli investimenti e gli interventi del triennio 1997-2000, il PON registrò la necessità, specie nelle regioni del Sud Italia, di proseguire con i lavori infrastrutturali e funzionali che stavano avendo luogo all’interno delle scuole. Questo perché alcune di esse, tra cui gli istituti professionali e tecnici, erano ancora in attesa del completamento della dotazione tecnologica, mentre molte altre, come le scuole dell’obbligo e i licei, non avevano ancora beneficiato degli investimenti statali.
Per questo motivo, grazie al Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR), si installarono, potenziarono o aggiornarono, secondo la necessità e l’obiettivo formativo specifico delle scuole, gli apparecchi tecnologici e informativi già in dotazione e le reti telematiche e di comunicazione, al fine di permettere l’acquisizione di competenze tecnologiche ai giovani.
Furono quindi realizzati, all’interno delle scuole secondarie superiori, laboratori scientifici e tecnologici, artistici, informatici, multimediali, linguistici e biblioteche, mentre, a livello territoriale, si predisposero mediateche, banche dati, laboratori di produzione e sale di presentazione di materiali multimediali, al fine di supportare la formazione a distanza.
I PON furono poi rinnovati per il settennio 2007-2013 (MIUR, 2009), questa volta facendo riferimento a sole quattro regioni del sud: Campania, Calabria, Sicilia e Puglia. In questa occasione ciò che si cercò di ottenere fu un livello di competenza e di capacità di apprendimento di giovani e adulti più
elevato e una maggiore attrattività della scuola, anche da un punto di vista degli ambienti, prevedendo spazi scolastici più sicuri, accoglienti e funzionali all’apprendimento, con lo scopo di prevenire l’abbandono precoce.
Attraverso un’attenta analisi dei bisogni condotta dal MIUR, emerse che i docenti, sia del primo che del secondo ciclo di istruzione, rilevavano come particolarmente importante per il loro percorso di formazione un aiuto nell’“utilizzo delle tecnologie informatiche e della comunicazione (TIC) nella pratica didattica”. Per questo si progettarono una serie di interventi che mirarono a creare le condizioni per il miglioramento del servizio scolastico, tra i quali:
o l’incremento di dotazioni tecnologiche e di laboratori di matematica, scienze e lingue, con l’obiettivo di favorire lo sviluppo delle competenze chiave1 per l’apprendimento permanente, individuate dalla Commissione Europea nel 2006;
o la progettazione di percorsi dedicati a docenti e personale scolastico, volti a formare sulle ICT e a promuovere l’autorialità online attraverso la creazione di siti web, blog, ecc., con l’obiettivo di accrescere la diffusione, l’accesso e l’uso delle tecnologie nella scuola.
2.2 Il Piano Nazionale per la Scuola Digitale 2007
A livello nazionale, invece, per supportare il cambiamento culturale in atto, il MIUR avviò il Piano Nazionale per la Scuola Digitale (MIUR, 2015a), un progetto che, a partire dal 2007, diede centralità agli ambienti scolastici nel processo di insegnamento-apprendimento, e che quindi portò alla luce il bisogno di installare la tecnologia nel maggior numero di scuole, così che potesse usufruirne il maggior numero di studenti possibile. Nel periodo 2007-2012 si sono quindi predisposte tutta una serie di azioni volte alla
1 Comunicazione nella madrelingua, comunicazione nelle lingue straniere, competenza matematica e competenza di base in scienza e tecnologia, competenza digitale, imparare ad apprendere, competenze sociali e civiche, spirito d’iniziativa e imprenditorialità, consapevolezza ed espressione culturale.
digitalizzazione della scuola. Tra le più rilevanti possiamo sicuramente citare Xxxxxx XXX (2008-2012), un piano quinquennale che ha previsto l’assegnazione di oltre 35 mila Lavagne Interattive Multimediali e l’erogazione di corsi di formazione a oltre 72 mila docenti all’uso sia tecnico che didattico delle stesse; Azione Cl@ssi 2.0 (2009-2012), che ha visto la realizzazione di ambienti di apprendimento innovativi in 416 classi di ogni ordine e grado, attraverso l’acquisto di dotazioni tecnologiche e percorsi di supporto e formazione destinati ai rispettivi docenti; Azione Scuol@ 2.0 (2011), grazie alla quale 14 istituti scolastici hanno potuto attivare strategie utili a coniugare l’innovazione didattica con nuovi modelli di organizzazione delle risorse umane e infrastrutturali dell’istituzione scolastica; Azione Editoria digitale scolastica (2010), con la quale 20 istituti scolastici, ripartiti tra i vari ordini e gradi di scuola, sono stati messi nella condizione di poter produrre contenuti digitali; una serie di accordi tra il MIUR e le Regioni (2012), che hanno consentito di assegnare altre 1.931 LIM e di formare altre 905 Cl@ssi 2.0 e 23 Scuole 2.0; Azione Centri Scolastici Digitali (CSD) (d.l 18 ottobre 2012, n. 179), con cui 45 scuole situate nelle piccole isole o nelle zone montane sono state dotate di infrastrutture tecnologiche che le hanno collegate a scuole situate in centri urbani. Con Xxxxxx XxXx (d.l. 104/2013) sono stati stanziati 15 milioni di euro per portare o migliorare la connettività wireless in 1.554 scuole. Con Azione Poli Formativi sono poi state individuate alcune istituzioni scolastiche (dette appunto Poli Formativi) a cui è stato assegnato il compito di organizzare e gestire corsi di formazione sul digitale rivolti ai docenti, attivando strategie di peer education. In tutto sono stati creati 38 poli formativi interprovinciali e 18 regionali, che hanno dovuto far fronte a oltre 25 mila richieste di docenti di ogni ordine e grado.
2.3 Il piano Nazionale Scuola Digitale 2015
Il Piano Nazionale Scuola Digitale 2015 (MIUR, 2015a) ha inteso sottolineare che parlare solo di digitalizzazione non è sufficiente, che la via non
è, o almeno non solo, la dimensione tecnologica, bensì quella epistemologica e culturale, poiché l’inclusione digitale si basa più sulla conoscenza, che non sull’accesso e l’uso (Ertad, 2010). Usando un termine caro a Xxxxx Xxxxx (2010), l’obiettivo, insomma, è di riuscire ad addomesticare le tecnologie, farle diventare quotidiane e diffuse, secondo l’accezione che a questo termine danno Ferrari e Rivoltella (2010a). Per questo motivo il PNSD è suddiviso in tre grandi parti: una prima relativa agli strumenti, quindi ai cambiamenti che è necessario apportare a livello infrastrutturale, una seconda riguardante competenze degli studenti e contenuti digitali e infine una terza focalizzata sulla formazione e l’accompagnamento dei docenti.
Per cominciare, anche se il punto focale vuole essere di carattere culturale, risulta imprescindibile parlare di accesso: per poter usufruire delle potenzialità della tecnologia, la connettività presente nelle scuole deve essere abilitante, permettere di poter lavorare ad una velocità sufficiente, ad esempio, ad usufruire del cloud computing o dei contenuti multimediali per la didattica presenti in Internet; per questo il Ministero per lo Sviluppo Economico sostiene il Piano Nazionale Banda Ultralarga, che punta, entro il 2020, a garantire un accesso alla Rete diffuso, in ogni aula, laboratorio, corridoio e spazio comune. Uno degli scopi del PNSD è creare spazi e ambienti (non solo classi, ma anche laboratori, “atelier creativi”, biblioteche, ecc…) in cui la tecnologia possa naturalizzarsi, integrarsi quotidianamente nella didattica grazie alla presenza di diversi dispositivi hardware e software che permettano di costruire attività didattiche trasversali adatte ai bisogni degli studenti. La strada che si sta percorrendo rispetto all’adozione dei device è quella del BYOD, acronimo di bring your own device, un modello tecnologico che, secondo la definizione che ne dà il Ministero della Provincia di Alberta, in Canada (Alberta Education, 2012), prevede che gli studenti portino a scuola i propri device per l’apprendimento. Questo sistema rende più economico e
rapido il processo di diffusione delle tecnologie, perché non solo non si duplicano i costi, ma si evita anche di dover investire del tempo per apprendere il funzionamento del nuovo strumento (MacGibbon, 2012); inoltre, come evidenzia Xxxxxxx (2015), favorisce la personalizzazione degli apprendimenti e l’integrazione dei vari contesti di apprendimento, sia formali che informali.
Per completare la digitalizzazione della scuola, il MIUR sta poi chiedendo alle scuole di dotarsi del registro elettronico, uno strumento già lanciato e reso obbligatorio con il DL 95/2012, ma che si è diffuso in modo disomogeneo nelle scuole del territorio, allo scopo di rendere la comunicazione scuola-famiglia più immediata e agevole, permettendo così ai genitori di essere informati rispetto a ciò che accade nella vita scolastica dei propri ragazzi.
Le proposte relative a questo ambito che arrivano dal PNSD sono sostanzialmente tre: lo sviluppo del pensiero computazionale, l’uso di risorse digitali di qualità e aperte (OER) e l’individuazione delle competenze chiave che gli studenti devono possedere alla fine del percorso scolastico.
Attraverso l’iniziativa Programma il Futuro2 promossa da MIUR e CINI (Consorzio Interuniversitario Nazionale per l'Informatica) nell’anno scolastico 2015-2016 oltre 1.000.000 di studenti e 15.000 docenti appartenenti a più di 5.000 scuole si sono avvicinati al pensiero computazionale (MIUR, s.d.); questi numeri sono però destinati ad aumentare; infatti l’intenzione è di estendere questo progetto a tutte le scuole, comprese le scuole dell’infanzia, per le quali il PNSD 2015 sta sviluppando nuove sperimentazioni sempre più improntate allo stile laboratoriale.
L’utilizzo di contenuti digitali di qualità deve essere sostenuto da un piano di alfabetizzazione all’information retrieval3 e all’uso delle risorse
2 Maggiori informazioni sono reperibili al sito web: xxxx://xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx/
3 L’Information Retrieval (IR) (letteralmente: reperimento delle informazioni) è un processo di ricerca di materiali (generalmente documenti) di natura non strutturata (generalmente testi)
presenti in Rete, puntando a stimolare lo sviluppo di quella che Xxxx chiamerebbe intelligenza collettiva (1996) e a promuovere la condivisione di contenuti didattici e opere digitali, attraverso l’uso delle Risorse Educative Aperte (Open Educational Resources, OER).
Infine, uno degli obiettivi individuati dal Piano Nazionale Scuola Digitale 2015 è quello di formare e sostenere i docenti affinché diventino facilitatori di percorsi didattici innovativi volti a potenziare le competenze necessarie ad ogni studente per svolgere compiti in ambiente digitale e potersi destreggiare in un contesto storico-culturale come quello attuale, dato che possedere competenze digitali, oltre che “tradizionali”, è diventato fondamentale per diventare buoni eCitizens, ovvero cittadini digitali consapevoli, aggiornati e creativi (MIUR, s.d.; OECD, 2015a).
Al momento, tra le competenze ritenute basilari dal MIUR per diventare consumatori critici e produttori di contenuti, ossia, come direbbe Xxxxxxx (2007), prosumers, troviamo le competenze logiche e computazionali, tecnologiche e operative, argomentative, semantiche e interpretative, insomma, competenze trasversali che permettano il problem solving, la concretizzazione delle idee, il pensiero critico e divergente, secondo l’accezione di Xxxxxxxx (1950).
Al momento a chi esce dalla scuola secondaria di primo grado si richiede un uso consapevole delle tecnologie della comunicazione, la capacità di ricercare e analizzare le informazioni, di distinguere quelle attendibili da quelle che necessitano di approfondimento, controllo e verifica e di saper interagire con persone di tutto il mondo.
Per agevolare lo sviluppo delle competenze chiave per il XXI secolo, il MIUR propone alla scuola di impostare il lavoro docente sulla didattica per competenze, ponendo così al centro della progettazione trasversalità, condivisione e creazione collaborativa. In questo modo, le tecnologie
che soddisfano un bisogno informativo a partire da fonti molto estese (generalmente memorizzate su computer) (Xxxxxxx, Xxxxxxxx, & Xxxxxxx, 2008, trad. in Xxxxxxxxxx, 2008).
diventerebbero non solo strumento di alfabetizzazione, ma tema di alfabetizzazione esse stesse.
A partire da quanto detto fin qui, il MIUR si impegna ad individuare dimensioni, ruoli e contorni delle competenze digitali che ci si aspetta che ciascuno studente sviluppi entro il 2018.
Come ricordato dall’OCSE (2015a), la formazione professionale specifica degli insegnanti è uno dei punti fondamentali da toccare quando si parla di innovazione tecnologica. Il digitale dovrebbe essere una opportunità da vivere, non qualcosa da subire; per questo motivo il MIUR (2015a) riconosce che è necessario rafforzare la preparazione di tutto il personale delle scuole di ogni ordine e grado, chiedendo il sostegno di chi l’innovazione la promuove per interesse personale, perché si faccia portatore di atteggiamenti e metodologie, contaminando abitudini e pratiche dei colleghi.
Perché la formazione sia davvero capillare, saranno formati:
o i docenti neoassunti, come già avvenuto per l’A.S. 2014/2015 per i
28.000 docenti neo-immessi in ruolo,
o il personale docente in ruolo, la cui formazione è stata resa obbligatoria per la prima volta dal documento ministeriale La Buona Scuola (legge 107/2015),
o gli “animatori digitali”, docenti (uno per scuola, scelto dal Dirigente Scolastico) responsabili della diffusione dell’innovazione a scuola,
o i Dirigenti Scolastici, perché si facciano promotori di politiche di innovazione, promuovendo curricoli per le competenze digitali,
o i Direttori dei Servizi Generali e Amministrativi (DSGA), che avranno un ruolo importante nelle pratiche di dematerializzazione e nell’agevolare la partecipazione a bandi, gli acquisti di tecnologia, ecc.
La formazione avrà lo scopo di aiutare lo sviluppo di competenze trasversali e di facilitare l’apprendimento pratico di una varietà di modelli e metodologie considerate efficaci in contesto internazionale. Inoltre sarà continua, volta a diffondere pratiche didattiche fondate sull’interazione tra metodologie, contenuti, dispositivi ed ambienti.
Per permettere tutte le azioni previste dal PNSD 2015 fino a qui descritte, il MIUR ha stanziato 1.094,5 milioni di euro fino al 2020, suddivisi come indicato dalla tabella che segue.
2015 | 2016 | 2017 | 2018 | 2019 | 2020 | TOT | |
Fondi Buona Scuola | |||||||
Fondi Buona Scuola – PNSD | 90 | 30 | 30 | 30 | 30 | 30 | 240 |
Fondi Buona Scuola – Formazione | 10 | 10 | 10 | 10 | 10 | 50 | |
Fondi Buona Scuola – Alternanza (ricadute) | 10 | 10 | 10 | 10 | 10 | 50 | |
PON “Per la Scuola” FESR 2014-2020 | |||||||
Cablaggio interno (Wi-fi) | 88,5 sul triennio 2015-2017 | 88,5 | |||||
Atelier Creativi per le competenze di base | 40 sul triennio 2015-2017 | 40 | |||||
Laboratori Professionalizzanti in chiave digitale | 140 sul triennio 2015-2017 | 140 | |||||
Ambienti per la didattica digitale | 140 sul triennio 2015-2017 | 140 | |||||
Registro elettronico (scuole primarie) | 48 sul triennio 2015-2017 | 48 | |||||
PON “Per la Scuola” FESR 2014-2020 | |||||||
Formazione | 25 | 15 | 15 | 15 | 15 | 85 | |
Competenze | 20 | 20 | 20 | 20 | 20 | 100 | |
Altri fondi MIUR | |||||||
Legge 440/97 | 3 | 4 | 4 | 4 | 4 | 4 | 23 |
Piano ICT | 15 | 15 | 15 | 15 | 15 | 15 | 90 |
1.094,5 |
Tabella 2. Le risorse del Piano Nazionale Scuola Digitale 2015. Fonte: MIUR (2015)
Come si può notare, insieme ai fondi stanziati dal MIUR saranno messi a disposizione anche i fondi PON “Per la scuola” 2014-2020, in continuazione con quanto già realizzato negli anni precedenti, con la differenza però che in
questo settennio l’intervento sarà esteso a tutto il territorio nazionale, comprese le regioni del Centro-Nord, privilegiando i contesti più bisognosi. L’obiettivo del piano è di favorire la riduzione dei divari territoriali, rafforzare le scuole contraddistinte da maggiori ritardi, sostenere gli studenti con più difficoltà e promuovere le eccellenze, attraverso investimenti volti a potenziare le infrastrutture, le dotazioni tecnologiche, i laboratori e gli ambienti di apprendimento, puntando ad aumentare l’attrattività della scuola e a dotarla di ambienti di apprendimento più adeguati.
2.4 Lo stato della Scuola Digitale
Per riuscire a misurare gli effetti del processo di digitalizzazione della scuola, nel 2000 è stato istituito l’Osservatorio Tecnologico (OTE), un servizio di supporto telematico con il compito di effettuare rilevazioni periodiche sulla diffusione delle nuove tecnologie nelle scuole italiane. L’indagine ha assunto carattere censuario nel 2008, effettuando rilevazioni sulle dotazioni multimediali a cui le scuole aderivano su base volontaria, ma sempre con un ottimo tasso di risposta.
L’analisi relativa all’A.S. 2014/20154 (MIUR – Ufficio Statistica e Studi, 2015) si è articolata su 3 assi principali: a. dematerializzazione dei servizi, b. dotazione tecnologica dei laboratori e delle biblioteche, c. dotazioni tecnologiche delle aule.
a. Dematerializzazione e digitalizzazione dei servizi: il 99.3% delle istituzioni scolastiche che ha partecipato alla rilevazione dichiara di avere un proprio sito web, il 58.3% utilizza il web per la comunicazione scuola–famiglia, il 69.2% fa uso del registro elettronico di classe, il 73.6% utilizza il registro elettronico del docente e infine il 16.5% sfrutta le piattaforme online (es. Moodle) per la didattica. Dal punto di
4 Il tasso di risposta è stato del 97,6% per le istituzioni scolastiche statali e del 54,1% per le scuole paritarie, che per la prima volta hanno potuto partecipare all’investigazione. Tuttavia, visto il tasso di risposta piuttosto basso, si riportano, per questa tipologia di scuole, solo alcuni dati relativi agli aspetti della dematerializzazione dei servizi (MIUR – ufficio Statistica e studi).
vista amministrativo, invece, la situazione sembra essere più complessa: solo il 32% delle scuole infatti possiede un sistema informatico di gestione documentale e solo il 20% quello per la conservazione sostitutiva a norma di legge.
Rispetto all’uso dei libri di testo, tre sono le tipologie di adozione previste dal DM 781/2013: libro cartaceo con supporti digitali integrativi, libro cartaceo con versione digitale, materiali digitali. Nella secondaria di II grado gli usi risultano così distribuiti: 35%, 63,9% e l’1,1%; nella secondaria di primo grado invece le percentuali sono rispettivamente 33,2%, 66,1%, 0,7%. Esistono poi altre formule di adozione e utilizzo di contenuti, tra cui l’autoproduzione, che si attestano al 2% per il II grado e all’1% per il primo.
b. Dotazione tecnologica dei laboratori e delle biblioteche: nelle scuole statali sono presenti 65.650 laboratori, l’82,5% dei quali è collegato in rete (via cavo o wireless). Il 43,6% è dotato di LIM e il 16,9% di proiettori interattivi, considerati una valida alternativa alle LIM. In media ogni laboratorio dispone di quasi 9 computer.
c. Dotazioni tecnologiche delle aule: il 41,9% delle aule italiane dispone di LIM, il 6,1% di proiettori interattivi e il 70% di connessione a Internet (cablata o wireless).
Per misurare la diffusione dei PC nelle scuole si è calcolato il rapporto tra gli alunni e la somma dei computer presenti nei laboratori e nelle aule. L’indagine condotta dal MIUR indica che la situazione, a livello nazionale, è migliorata nell’ultimo anno, passando da 8,9 alunni per device (A.S. 2013–2014) a 7,9 nell’anno scolastico 2014-2015. Si evidenzia anche un significativo incremento dei dispositivi mobili in uso agli studenti, passando da 177 alunni per dispositivo mobile nel 2013/14 a circa 63 del 2014/15.
Nonostante la veloce diffusione delle ICT, la situazione italiana è caratterizzata da un gap notevole, in quanto esistono realtà sufficientemente dotate di tecnologie accanto ad altre dove le stesse scarseggiano. Se è vero infatti che il 41,1% delle scuole conta più di 10 computer o mobile devices per la didattica, il 7,9% delle scuole dispone invece di un solo computer e il 9,8% non ne dispone affatto. Bisogna sottolineare che la maggioranza degli studenti (62%) frequenta scuole appartenenti a quel 41%, però è importante tenere in considerazione anche il 9,2% che non può beneficiare delle potenzialità delle tecnologie in aula.
Ultimo appunto a riguardo: se è vero che le tecnologie si stanno sempre più diffondendo nelle scuole italiane, risulta però imprescindibile fare presente che non sempre la presenza sia sinonimo di uso. A suonare il campanello d’allarme è l’OCSE (2015b), che riferisce che i quindicenni italiani usano il PC in classe in media durante 19 minuti al giorno, contro una media OCSE di 25 minuti.
Questo dato può essere letto alla luce di quanto rilevato dall’indagine OCSE TALIS (2014), che riscontra una forte necessità di formazione alle ICT per la didattica da parte dei propri docenti, tanto da vedere l’Italia collocarsi in prima posizione rispetto alle altre nazioni OCSE: ben il 36% degli insegnanti ha infatti dichiarato di non essere sufficientemente preparato, a fronte di una media del 17%.
3. La prospettiva spagnola
Anche in Spagna, come in Italia, i primi computer fecero la loro comparsa nelle scuole negli anni ’80 del Novecento (Ministerio de Educación y Ciencia, 1988) grazie all’attuazione di piani, progetti e programmi educativi da parte sia del Governo centrale che dei governi regionali, che avevano come
scopo quello di dotare le scuole di infrastrutture tecnologiche, ma anche di formare i docenti (Adell & Area Xxxxxxx, 2015).
Inizialmente le tecnologie furono destinate solo allo svolgimento di compiti di segreteria e amministrazione, e solo in un secondo momento alla pratica didattica. In principio si previde che fossero installati solamente in aule dedicate, per cui i diversi insegnanti, per poter godere delle potenzialità della tecnologia, erano costretti a spostarsi con gli alunni, e quindi a prevedere dei momenti dedicati all’uso dei PC. Col tempo, invece, le tecnologie divennero sempre più presenti nelle aule scolastiche, e quindi anche nella pratica quotidiana dei docenti.
Nei prossimi paragrafi approfondiremo il percorso che ha portato le scuole spagnole alla situazione attuale, che analizzeremo nel paragrafo 3.3 del presente capitolo.
3.1 Il “Programa de Nuevas Tecnologías de la Información y la Comunicación” (PNTIC)
Come è facile immaginare, negli anni ’80 il numero di PC per istituto era veramente basso e le conoscenze tecnologiche molto limitate; per questo motivo furono definite le prime iniziative governative dedicate alla diffusione delle TIC in ambito educativo. I primi progetti a riguardo furono il Progetto Atenea (1985) e il Progetto Mercurio, che nel 1987 si fusero dando vita al Programa de Nuevas Tecnologías de la Información y la Comunicación (PNTIC) (Ministerio de Educación y Ciencia, 1988). L’obiettivo principale di questo programma era di introdurre le tecnologie in ambito educativo al fine di migliorare la qualità dell’insegnamento. Le azioni che si previdero si basarono quindi su quelle già immaginate per i due progetti da cui il programma nacque (Centro de investigación y Documentación Educativa, 1995):
o Progetto Atenea: inserimento di computer e software informatici all’interno dei centri (non universitari) che partecipavano al programma (Ministerio de Educación y Ciencia, 1991);
o Progetto Mercurio: introduzione di mezzi audiovisivi nell’insegnamento non universitario.
L’investimento economico da parte del Governo spagnolo fu importante: tra il 1985 e il 1990 furono spesi oltre 50 milioni di euro per dotare le scuole di PC e per formare i docenti (Ministerio de Educación y Ciencia, 1991).
Il Programma proseguì fino al 1992, sviluppandosi in tre fasi (Ministerio de Educación y Ciencia, 1988):
o Fase sperimentale (1985-1990): presero parte al programma 697 centri e si formarono 248 formatori in grado di formare, a cascata, i propri colleghi;
o Fase di sviluppo (1990-1992): si valutarono i risultati ottenuti durante la fase sperimentale, prevedendo eventuali modifiche al progetto sulla base delle criticità emerse; furono selezionati altri 290 centri e si creò la figura del coordinatore PNTIC a livello provinciale;
o Fase di generalizzazione (1992): si riconobbe come prioritaria la diffusione dei successi raggiunti nelle fasi precedenti. Il programma venne integrato nella Ley Orgánica General del Sistema Educativo (LOGSE).
Nei primi anni ’90 il programma subì una battuta d’arresto, innanzitutto per via della mancanza di fondi, ma anche perché gradualmente le tecnologie applicate all’educazione smisero di essere considerate una priorità a livello politico (Area, 2002).
Nel 2000 il Programa de Nuevas Tecnologías de la Información y la Comunicación (PNTIC) si unì al Centro para la Innovación y Desarrollo de la Educación a Distancia (CIDEAD), permettendo così la nascita del Centro Nacional de Información y Comunicación Educativa (CNICE), che negli anni divenne prima Instituto Superior de Formación y Recursos en Red para el Profesorado (ISFTIC), e poi Instituto de Tecnologías Educativas (ITE);
finendo per essere denominato Instituto Nacional de Tecnologías Educativas y Formación del Profesorado Educalab (INTEF5). Le principali funzioni riconosciute all’INTEF dalla normativa statale spagnola sono tre:
o la creazione e la diffusione di materiali digitali e audiovisivi relativi ad ogni area del sapere, che possano supportare insegnanti di qualsiasi disciplina in tutti i gradi di scolarità nell’utilizzo delle TIC nella pratica didattica;
o la realizzazione di programmi formativi mirati all’applicazione delle TIC in aula;
o la gestione del portale in cui vengono condivise le risorse e la creazione di ambienti che permettano lo scambio di esperienze e risorse tra i docenti.
3.2 Il Plan Avanza
La Spagna, come tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, prese parte al piano eEurope di cui si è discusso nel paragrafo 1.1.
Per riuscire a conseguire gli obiettivi fissati a livello europeo, si sentì la necessità di dare vita ad un piano nazionale, denominato Plan Avanza (2005- 2008), approvato dal Consejo de Ministros il 4 Novembre 2005, che si sviluppava in quattro grandi parti (Ministerio de Industria, Turismo y Comercio, 2009), riportati nella tabella 3.
5 L’Instituto Nacional de Tecnologías Educativas y de Formación del Profesorado ha assunto
l’attuale nome solo con l’entrata in vigore del Real Decreto 257/2012.
Area | Investimento | Obiettivi |
Cittadinanza digitale | 856 mln/€ | Incremento di abitazioni con tecnologia |
Cittadini in grado di utilizzarla nella quotidianità | ||
Inclusione sociale e riduzione del digital divide | ||
Economia digitale | 2.579 mln/€ | Presenza più massiccia di TIC nelle imprese |
Contesto digitale | 1.344 mln/€ | Diffusione della banda larga |
Aumento della fiducia nella sicurezza delle TIC | ||
Impulso al tema dell’identità digitale | ||
Sviluppo di nuovi contenuti digitali | ||
Educazione e servizi pubblici digitali | 297 mln/€ | Passaggio dall’educazione tradizionale ad un’educazione più vicina all’era digitale |
Diritto a relazionarsi con la Pubblica Amministrazione per via digitale |
Tabella 3. Struttura del Plan Avanza
3.2 Il Plan Avanza2 e la Estrategia 2011-2015
Al termine quadriennio del Plan Avanza si condusse una valutazione che verificasse gli esiti del piano, attraverso la quale si identificarono una serie di priorità su cui era necessario lavorare (Fundación Orange, 2011):
o L’aumento della dotazione tecnologica nelle micro imprese;
o Il potenziale dell’industria di contenuti digitali;
o Un minor ricorso al commercio elettronico rispetto alla media dell’Unione Europea (10% contro il 17%);
o Un senso di diffidenza verso Internet;
o La necessità di incentivare l’uso del DNI elettronico (Documento Nacional de Identidad, un documento che corrisponde alla Carta d’Identità italiana);
o La consolidazione delle piattaforme e lo sviluppo di contenuti educativi.
Per dare una risposta a queste priorità, si creò il Plan Avanza2 (2009- 2012), nel quale furono investiti 1.497 milioni di euro, costruito da cinque linee guida (Ministerio de Industria, Turismo y Comercio, 2009): sviluppo del settore delle TIC nelle PMI, servizi pubblici digitali, infrastrutture, formazione rivolta ai cittadini e alle PMI, fiducia, sicurezza, accessibilità.
Per favorire il raggiungimento di tutti gli obiettivi che la Spagna si era posta con Avanza2, nonché quelli fissati dall’Agenda Digitale Europea, di cui si è discusso nel paragrafo 1.3, il Consejo de Ministros del 16 Luglio 2010 approvò la Estrategia 2011-2015, il cui obiettivo fondamentale, in linea con quello dei progetti sopracitati, era contribuire al processo di ripresa dalla crisi economica e creare posti di lavoro nell’ambito delle TIC (Fundación Orange, 2011).
Nel 2010, però, in conseguenza alla crisi economica che colpì la Spagna e non solo, il Governo spagnolo si vide costretto a diminuire il budget destinato al progetto di un 20%, passando dagli iniziali 1.400 milioni di euro previsti a
1.100 milioni di euro (Fundación Orange, 2011).
Questa diminuzione ebbe grandi conseguenze per la Spagna, perché si vide frenata nel suo processo di convergenza con gli obiettivi europei, per poter investire i capitali in manovre che avessero una ricaduta più immediata sull’economia.
3.3 Escuela 2.0 2009-2012
Durante l’Anno Scolastico 2009-2010 la scuola spagnola6 sperimentò il programma Escuela 2.0, appoggiato dall’INTEF e approvato dal Consiglio dei Ministri il 4 Settembre 2009 (Adell & Area Xxxxxxx, 2015). Il programma previde una cofinanziazione tra Governo nazionale e Governi regionali per un totale di 200 milioni di euro, da destinarsi inizialmente ai soli studenti di quinta primaria delle scuole pubbliche, per poi essere esteso nel tempo alla sesta
6 Il programma Escuela 2.0 si sviluppò in tutte le comunità autonome, con eccezione di Madrid e Valencia, che non firmarono gli accordi bilaterali con il Ministerio de la Educación.
primaria e ai primi due anni della ESO (INTEF, s.d.). Il budget complessivo venne così suddiviso: il 95% servì per l’acquisto di infrastrutture e il restante 5% per la formazione dei docenti (Xxxxxxx, Fàbregues, Xxxxxxxx, & Xxxxxxxxx-Xxxxx, 2014).
Gli assi di intervento principali del programma erano:
o aule digitali: fornire PC portatili agli studenti e ai docenti, creando aule digitali standardizzate;
o garantire la connessione a Internet a tutti i dispositivi presenti in classe e, in orari particolari, nelle case degli studenti;
o promuovere la formazione dei docenti sia da un punto di vista tecnologico che metodologico e sociale rispetto all’integrazione della tecnologia nella pratica didattica, nonché la conoscenza e capacità di creare artefatti digitali da utilizzare in aula;
o coinvolgere studenti e famiglie nell’acquisizione, custodia e uso delle tecnologie.
Il programma durò solo un triennio, chiudendosi con l’Anno Scolastico 2011-2012. Nonostante la sua vita fu molto breve, Escuela 2.0 riuscì a segnare la scuola spagnola, poiché introdusse il modello 1:1, che si stava diffondendo già in Nord America, Australia, Europa, ma anche in alcuni Paesi in via di sviluppo, attraverso il programma One Laptop per Child promosso dal MIT (Massachusetts Institute of Technology) (Adell & Area Xxxxxxx, 2015; Area Xxxxxxx, et al., 2014).
3.4 Agenda Digital para España
Come ci ricordano Adell e Area (2015), negli ultimi anni la Spagna, anche per xxx xxxxx xxxxx economica che ha colpito il Paese, ha investito poco per dotare le scuole pubbliche di nuova tecnologia e di connessioni a Internet. Ciononostante, il 15 Febbraio 2013 è stata approvata l’Agenda Digitale per la Spagna (Ministerio de Energía, Turismo y Agenda Digital, s.d.), che si è
posizionata in continuità con gli obiettivi fissati dall’Agenda Digitale Europea 2020. Nello specifico, l’Agenda Digitale spagnola si compone di sei obiettivi (Ministerio de Industria, Energía y Turismo, 2013):
1. favorire lo sviluppo di reti e servizi per garantire la connettività digitale al fine di predisporre infrastrutture e servizi che possano condurre allo sviluppo di una vera e propria società ed economia digitale;
2. sviluppare l’economia digitale per la crescita, la competitività e l’internazionalizzazione dell’impresa spagnola;
3. migliorare la eAmministrazione e adottare soluzioni digitali per andare verso una amministrazione sempre più efficiente e digitale, al passo con la popolazione e le imprese;
4. rafforzare la fiducia in ambito digitale al fine di promuovere un ambiente digitale sicuro per tutti;
5. favorire ricerca e sviluppo nell’ambito delle TIC, perché la Spagna possa contare su un’industria delle TIC in grado di fare fronte alle sfide e alle necessità del contesto digitale di oggi;
6. promuovere l’inclusione e l’alfabetizzazione digitale, nonché la formazione di nuovi professionisti delle TIC, per garantire a tutta la popolazione di fare parte della società e dell’economia digitale.
3.5 Lo stato attuale
In Spagna l’Educazione è di competenza di ciascuna Comunità Autonoma, che può scegliere di realizzare o meno un progetto sulla base delle necessità del territorio, come è stato, ad esempio, con il progetto Escuela 2.0, che come abbiamo visto, non è stato realizzato nelle Comunità di Madrid e Valencia. Per avere un’idea globale di come le varie Comunità si siano mosse in relazione all’introduzione delle tecnologie dell’informazione e la comunicazione nelle aule, riporteremo i dati derivanti da un’analisi comparata multilivello tra i diversi progetti e piani attuati in tutto il territorio spagnolo
condotta da alcuni ricercatori delle Università di Catalunya e Barcelona (Xxxxxxx, Fàbregues, Xxxxxxxx, & Xxxxxxxxx-Xxxxx, 2014).
Infine si analizzerà l’aspetto più legato alla questione infrastrutturale, a partire da quanto dichiarato dal Ministerio de Educación, Cultura y Deporte (MECD), che in un documento del 2016 rendiconta i dati relativi alle TIC nei centri educativi non universitari, escludendo i centri di Educación Infantil e di Educación Especial (Ministerio de Educación, Cultura y Deporte, 2016).
Xxxxxxx, Fàbregues, Xxxxxxxx e Xxxxxxxxx-Xxxxx nel 2013 hanno analizzato le diverse politiche regionali spagnole a partire da due diversi punti di vista: le logiche e le componenti operative.
Le logiche prese in considerazione sono quattro: lo sviluppo economico, lo sviluppo sociale, la riforma educativa e il miglioramento nella gestione dell’educazione:
o lo sviluppo economico: tra tutte le Comunità Autonome, sono soprattutto le Baleari, il Xxxx Xxxxx e La Rioja ad aver investito nelle TIC allo scopo di favorire il miglioramento della condizione economica del territorio. Nella visione di queste tre Comunità, infatti, se i giovani saranno in grado di manipolare e governare gli strumenti offerti dalle tecnologie, riusciranno ad essere più competitivi nel mercato del lavoro, garantendo benefici all’intero Paese;
o lo sviluppo sociale: sono la maggior parte le Comunità che, più o meno dichiaratamente, si pongono come obiettivo quello di migliorare la condizione di vita della popolazione. Soltanto le Baleari, Castilla y Xxxx, Castilla-La Mancha e Galicia non accennano a questa lógica;
o la riforma educativa: nella maggior parte delle Comunità Autonome (Aragón, Canarias, Cantabria, Castilla-La Mancha, Cataluña, Extremadura, Galicia e Madrid) l’attenzione si focalizza sul tema della revisione del tradizionale processo di insegnamento-apprendimento, al
fine di migliorare la qualità del processo educativo, intervenendo anche sulle metodologie didattiche, se necessario;
o il miglioramento nella gestione dell’educazione: migliorare l’efficienza nell’organizzazione e nella gestione delle scuole, nonché rendere più agevole la comunicazione tra i diversi istituti e tra gli stessi e le famiglie costituiscono la priorità per Asturias, Castilla y Xxxx e Navarra, che inseriscono la gestione dell’educazione in cima alla lista degli obiettivi da raggiungere attraverso i diversi progetti di inserimento delle TIC nelle classi.
Parlando di componenti operative, invece, gli autori dell’articolo fanno riferimento allo sviluppo delle infrastrutture, alla formazione dei docenti e al supporto tecnico, ai cambiamenti curricolari e pedagogici, allo sviluppo di contenuti, nonché ai sistemi di gestione dell’educazione. Nello specifico, a riguardo le diverse Comunità si sono così organizzate:
o lo sviluppo delle infrastrutture: in tutte le Comunità Autonome, ad eccezione di Castilla y Xxxx, i programmi per l’introduzione delle TIC nella pratica didattica contemplano azioni per lo sviluppo delle infrastrutture, quindi l’acquisto e l’installazione di device, connessione a Internet e server nei diversi istituti. L’introduzione física delle tecnologie in classe è vista diversamente nelle Comunità: in alcuni casi, come nel programma ALTHIA di Castilla-La Mancha (2005), viene percepita come un mezzo per raggiungere obiettivi didattici (miglioramento degli apprendimenti, modifica della metodologia docente, ecc.), in altri casi come il fine stesso del progetto, ritenendo che il solo inserimento dei digital device comporterà un miglioramento della qualità dell’educazione. La maggior parte delle Comunità, come l’Andalucía, si situa nella prima categoria, mentre altre, come il Xxxx Xxxxx, nella seconda, in quanto si pongono come obiettivo di incentivare l’uso degli strumenti tecnologici, non generare un
cambiamento a livello educativo, motivo per cui non prevedono l’erogazione di corsi di formazione;
o la formazione dei docenti e il supporto tecnico: come già si accennava al punto precedente, non tutte le Comunità hanno previsto la formazione, sia tecnica che didattica, dei docenti, come nel caso del Xxxx Xxxxx. Altre Comunità come Baleares, Galicia e Madrid si situano in posizione intermedia, ossia i loro progetti non considerano la formazione docenti, ma i hanno dei programmi di formazione permanente dedicati agli insegnanti che comprendono elementi relativi alle tecnologie didattiche. Tutte le altre Comunità, invece, prevedono tra i propri obiettivi specifici la formazione docenti, in quanto strumento indispensabile per una migliore introduzione dei dispositivi nel processo di insegnamento-apprendimento;
o i cambiamenti curricolari e pedagogici: perché la capacità d’uso delle tecnologie possa diventare competenza mediale, le Comunità Autonome spagnole hanno compreso che è necessario integrare trasversalmente la tecnologia nel curricolo scolastico, non limitarsi a usarla come mezzo per facilitare e velocizzare alcuni processi. Per favorire il cambiamento curricolare e la trasformazione delle metodologie didattiche, tutti i Governi Autonomi hanno costruito portali educativi in cui sono state inserite risorse e guide che fossero di aiuto ai docenti nel processo di inserimento delle TIC in tutte le aree di insegnamento;
o lo sviluppo di contenuti: la creazione di contenuti destinati a studenti e insegnanti a cui si faceva cenno poco sopra ha visto collaborare la comunità educativa e il settore editoriale. In quasi tutte le Comunità in un primo momento docenti e professionisti dell’educazione hanno iniziato a creare e condividere artefatti educativi all’interno dei portali realizzati dalle diverse giunte, mentre più di recente si è iniziato a promuovere accordi con le case editrici per la realizzazione di contenuti digitali. Le Comunità che più hanno investito, in termini di aspettative,
su questi strumenti sono Cataluña, Galicia e Xxxx Xxxxx che, avendo una lingua ufficiale propria, intravedono la possibilità di aumentare il materiale presente nella loro lingua, nonché la visibilità del territorio;
o la gestione dei sistemi educativi: per tutti i Governi Autonomi il miglioramento della gestione dei sistemi educativi rappresenta il punto cruciale dei progetti di inserimento delle TIC nell’aula. Due sono gli obiettivi fondamentali: facilitare il lavoro dei professionisti dell’educazione, sia a livello amministrativo che accademico, attraverso un sistema di gestione interna che garantisca velocità e affidabilità ai processi di iscrizione, controllo e valutazione degli studenti; migliorare la comunicazione con gli alunni e le famiglie, garantendo una comunicazione in tempo reale.
La conclusione a cui giungono Xxxxxxx, Fàbregues, Xxxxxxxx e Xxxxxxxxx-Xxxxx attraverso la lettura dei dati fin qui presentati è che la Spagna, dall’inizio degli anni 2000, ha iniziato a soddisfare più le richieste del mercato del lavoro che le necessità pedagogiche o educative (Xxxxxxx Xxxxxx, 2010), con la conseguente introduzione delle tecnologie in classe in modo acritico, sia a livello nazionale che regionale. Questo approccio la rende un ottimo esempio di introduzione disordinata delle TIC, dove l’accento viene posto sulla dotazione infrastrutturale piuttosto che sull’adeguatezza dei nuovi strumenti alle necessità del contesto (Mominó, Xxxxxxx, & Xxxxxxx, 2008; Xxxxxx & Xxxxxx Xxxx, 2012), non contemplando gli effetti indesiderati o imprevisti che l’introduzione delle tecnologie potrebbe causare (Warschauer, 2007).
3.5.2 Situazione infrastrutturale
Sia l’Observatorio Nacional de las Telecomunicaciones che la Sociedad de la Información e il Ministerio de Educación per valutare la penetrazione delle TIC nel sistema educativo spagnolo si basano solo sulle cifre: la quantità di PC
per alunno, la velocità della connessione a Internet, ecc., dimenticandosi di verificare l’effettivo uso di questi strumenti nella pratica quotidiana e l’impatto sull’insegnamento (Xxxxxxx, Fàbregues, Xxxxxxxx, & Xxxxxxxxx-Xxxxx, 2014). Vale però la pena leggere i dati diffusi dal Ministerio de Educación, per comprendere almeno i risultati ottenuti con l’investimento di grandi somme di denaro in infrastrutture.
3.5.2.1 Numero di alunni per PC
Durante l’anno scolastico 2014-2015 il numero medio di studenti per computer è di 3:1, con una media leggermente più bassa nel caso delle scuole pubbliche (2,8 bambini per PC, contro i 3,9 delle scuole private). Rispetto alla densità dei vari Comuni, è possibile affermare che il rapporto bambini per PC è nettamente più basso nei Comuni con meno di 1.000 abitanti, con una media di 1,6, e più elevato invece nelle Città con più di 500.000 abitanti, dove si registra un PC ogni 4 studenti. Anche a livello regionale la situazione è abbastanza diversificata, vedendo ai poli opposti la Comunidad de Extremadura e il Xxxx Xxxxx da una parte, con una media rispettivamente di 1,6 e 1,7 studenti per PC, e Región de Murcia, Comunidad de Madrid e Comunitat Valenciana dall’altra, che superano i 5 alunni per PC.
3.5.2.2 Connessione a Internet
La connessione a Internet è presente praticamente in tutti gli Istituti spagnoli (99,9%), con percentuali pressoché identiche indipendentemente dal grado e dalla tipologia del centro (pubblico o privato). Le percentuali rimangono molto alte anche quando si indaga la possibilità di accedere a Internet dalle singole classi, e non solo da un’aula appositamente dedicata, come ad esempio l’Aula Informatica; in questo caso la media è del 92,7%, con un piccolo scarto tra le scuole primarie, dove la connessione è presente nelle classi nel 90,8% dei casi, e le scuole secondarie e professionali, dove si sale al 94,6%.
Di anno in anno, inoltre, le scuole sembrano dotarsi di una connessione sempre più veloce. Il 68,4% delle scuole ha raggiunto una velocità superiore ai 5 Mb (nel’A.S. 2013-2014 erano il 59,4%) mentre le scuole che sono arrivate a fruire di una connessione da oltre 20 Mb sono passate dal 12% al 25,6%.
Rispetto alla tipologia di connessione, si rileva che l’86,8% dei centri possiede una connessione wireless, media superiore a quella dell’anno precedente di 3,7 punti percentuali. La connessione wi-fi è più presente all’interno delle scuole private, dove la percentuale è del 90% contro l’85,7% dei centri pubblici. A livello regionale, le Comunità dove è più diffuso il wi-fi nelle scuole sono Principado de Asturias (99,5%), Galicia (98,5%), Andalucía (98,0%) e Xxxx Xxxxx (98,0%), mentre le meno fornite sono Navarra (54,2%), Canaria (58,1%) ed Extremadura (72,2%).
3.5.2.3 Tipologia e ubicazione della tecnologia
I PC fissi e portatili sono assolutamente le tecnologie più presenti all’interno delle scuole spagnole, coprendo rispettivamente il 51,2% e il 45,2%. Molto meno diffusi sono invece i Tablet, che raggiungono una diffusione del 3,6%. Le scuole dove questi ultimi sono più presenti sono le private, dove raggiungono il 7,1%, mentre sono praticamente inesistenti nelle scuole secondarie e professionali 0,9%.
La maggior parte delle tecnologie si trova all’interno delle aule in cui quotidianamente si fa lezione (51,3%), mentre il 24,5% si trova nelle Aule di Informatica, il 5,1% negli Uffici Amministrativi e il 18,8% in altri locali della scuola. La classi di primaria delle scuole pubbliche sono quelle che registrano una più alta percentuale di PC all’interno delle classi in cui si fa lezione (56,4%).
Tecnologia mobile in classe. Opportunità e sfide educative
La prima parte del presente elaborato ci ha brevemente illustrato la situazione tecnologica europea, con un affondo relativo alle questioni italiane e spagnole. Ciò che appare chiaro ad un sguardo generale è che da quando è diventata un bene economicamente accessibile, si è sempre cercato di portare la tecnologia all’interno delle aule scolastiche, anche se non senza generare timori di ogni sorta: come ci ricordano Legrottaglie e Ligorio (2014), ci si è soffermati sul suo utilizzo in ambito didattico, sui cambiamenti che avrebbe necessariamente comportato (Bruni, 2013; Xxxxxxx, 2013; Cesareni, 2006; Xxxxxxxxxx & Xxxxxxxx, 2012), sulla possibilità di migliorare gli apprendimenti (Xxxxxxx, 2008; Tondeur, xxx Xxxx, xxx Xxxxx, & Xxxxxx, 2008), nonché sulle dinamiche sociali che genera (Xxxxxxxxx, Xxxx, & Xxxxxx, 2002; Xxxxxxxxxxx & Xxxx, 2002; Xxxxxxxx, Xxxxxxxxxxx, Xxxxxxxx, Xxxxxxxxxx, & Xxxxxxxxx, 1999; Xxxxxxx, 2006).
La diffusione sempre più rapida, nel privato come in classe, della tecnologia mobile (ad esempio gli smartphone, i notebook o i tablet), che per sua natura è facilmente trasportabile ovunque e incentiva l’autorialità e la condivisione, ha fatto sorgere nuovi interrogativi: come gestire la quantità di tempo che gli studenti passano, per diletto o per studio, con i dispositivi in mano? Come rendere i ragazzi responsabili nella produzione e condivisione dei contenuti? Come riconoscere un sito o un’informazione attendibile? Come gestire le relazioni sociali online?
Provare a dare delle risposte a queste e a molte altre domande apre a tutta una serie di questioni che assumono allo stesso tempo, sulla base della prospettiva da cui le si guarda, il carattere di un rischio o di un’opportunità. Proviamo a condurre una breve analisi, per capire quali siano i termini in gioco.
1. I rischi connessi alla tecnologia
Come è possibile immaginare, i rischi derivanti da un uso inconsapevole e non responsabile della tecnologia sono molti. Si tratta di comportamenti agiti soprattutto per via delle caratteristiche che Rivoltella (2010a) riconosce alla tecnologia: facilità, autorialità e socialità, a cui possiamo aggiungere l’immediatezza offerta dall’introduzione sul mercato delle app, ovvero applicazioni che hanno reso possibile svolgere qualsiasi tipo di attività in modo semplice, immediato e rapido.
Molti sono i comportamenti che, in base a come vengono agiti, possono assumere una connotazione di rischio. Proviamo ad analizzare quelli che più spesso hanno ricadute in ambito didattico, senza pretesa di esaustività.
1.1 Tempi e spazi del consumo mediale
Una delle sfide che accompagnano la tecnologia è la sempre maggior difficoltà di controllo delle pratiche di consumo dei ragazzi da parte degli adulti per via della portabilità e della facilità di accesso alla connessione a Internet (Xxxxxxxxx & Rivoltella, 2008). Se un tempo, infatti, le tecnologie si trovavano in uno spazio fisso e condiviso, come poteva essere il salotto di casa (Xxxxxxxxxxx, 2007) o l’aula informatica a scuola, grazie alle tecnologie mobile oggi è possibile svolgere qualsiasi tipo di attività in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento (Baron, 2008, Favaretto, 2013). Anzi, gli smartphone oggi offrono la possibilità di accedere a tutta una serie di funzioni che prima erano proprie di diverse tecnologie (Rivoltella, 2006); si parla in questo caso di “convergenza digitale”, ossia di integrazione tra nuovi e vecchi media, di emancipazione del contenuto dal supporto (Xxxxxxxxx & Rivoltella, 2008); tra le altre cose, infatti, gli smartphone consentono di scattare foto, girare video, accedere alla rete, condividere post, link, immagini, ecc., essendo sempre in contatto con gli amici e con tutti coloro che appartengono alla propria rete.
Queste attività possono essere svolte in modo semplice e immediato, con un tocco di schermo, il che rende difficile non solo il controllo del tempo, ma anche delle modalità di fruizione; per fare un esempio: considerando che il primo cellulare dotato di fotocamera e videocamera fu il J-Sh04, prodotto nel 2000 da Sharp per l'operatore giapponese di telefonia mobile J-Phone (Dello Iacovo, 2013), fino ad una quindicina di anni fa era semplice cogliere uno studente nell’atto di fotografare un compagno o l’insegnante durante la lezione, visto che doveva essere dotato di fotocamera; oggi invece può farlo in modo più semplice, quasi senza farsi notare. Per questo tempi e spazi del consumo mediale costituiscono una sfida per le scuole che inseriscono, ad esempio, i tablet nella pratica didattica: risulta quasi impossibile per un insegnante essere sempre in grado di garantire che gli studenti stiano seguendo la lezione attraverso lo schermo, o che non stiano piuttosto guardando un video, leggendo un post su Facebook o giocando.
1.2 L’accesso e la gestione delle informazioni
Come si è detto, con le tecnologie mobile si ha largo accesso alla rete e a tutto il materiale in essa contenuto: nei vari siti, blog o social network è riposta una quantità di informazioni incredibile, che l’utente non sempre è in grado di gestire. Tutti questi contenuti sono resi disponibili grazie alla modalità di fruizione del Web 2.0 da parte dell’utente; per chiarezza, risulta opportuno fare un piccolo affondo rispetto a questo termine, il quale risulta strettamente associato a Xxx X'Xxxxxx per via della “Web 2.0 Conference” che la O'Xxxxxx Media indisse a San Xxxxxxxxx il 5-7 Ottobre 2004 (X'Xxxxxx, 2005). Il carattere “2.0” indica uno stato dell’evoluzione del World Wide Web rispetto a una condizione precedente; infatti:
«è mutuato direttamente dallo sviluppo software nel quale la notazione puntata indica l’indice di sviluppo e successivo rilascio (release) di un particolare software. In questo caso la locuzione pone l'accento sulle differenze rispetto al cosiddetto
Web 1.0, diffuso fino agli anni Novanta, e composto prevalentemente da siti web statici, senza alcuna possibilità di interazione con l'utente eccetto la normale navigazione tra le pagine, l'uso delle e-mail e dei motori di ricerca» (Wikipedia, s.d.).
Il Web 2.0, al contrario, permette agli utenti di generare contenuti, e non solo di prelevarli, condividendoli in uno spazio comune online; per questo motivo si parla di user-generated content.
Le sfide legate all’accesso e alla gestione delle informazioni reperibili online sono molte, come evidenzia anche Rivoltella nel suo testo “Le virtù del digitale” (2015), in cui individua quelli che dovrebbero essere i comportamenti virtuosi da agire nel web. Secondo la sua analisi, a caratterizzare la gestione delle informazioni è la virtù della prudenza, che ha a che fare con l’equilibrio, la consapevolezza e la moderazione, è:
«quell’istinto che ci aiuta a guardare o non guardare, a leggere o a tralasciare di leggere. Ci aiuta quindi a decidere in modo da non essere soffocati o aggrovigliati dai media. Inoltre la prudenza ci insegna a non accettare tutto, a vagliare le notizie, a esigere i riscontri, le fonti, ad aspettare le conferme. Ci guida, insomma, nel retto giudizio» (Martini, 1993).
Nelle parole del Cardinal Xxxxxxx ritroviamo tutti i punti fondamentali per condurre un’analisi della questione: innanzitutto riguarda la quantità di informazioni presente in Internet e il senso di soffocamento che queste a volte provocano; riguarda la capacità di giudizio in merito alla qualità di ciò in cui ci imbattiamo, e infine la capacità di scelta rispetto alla messa online dei propri dati personali.
Mutuando una metafora turistica, Rivoltella (2015) chiede di porre l’attenzione su due aspetti: viaggiare informati e viaggiare sicuri.
Viaggiare informati
Il primo aspetto si concentra sulla capacità che l’utente dovrebbe avere di saper gestire una ricerca efficace in uno spazio in cui di informazioni ce ne sono a iosa e dove quantità non è sempre sinonimo di qualità. Non lo è nel senso stretto della qualità dell’informazione, che spesso è inutile, datata o addirittura falsa, e non lo è nel senso della capacità di rielaborazione dell’utente. In questo senso si parla di infobesity, un’obesità da troppe informazioni che finisce per compromettere le nostre performance, anziché aiutarci. Il perché ce lo spiegano alcuni partner della Bain & Company (Xxxxxx, Xxxxxxx, & Root, 2013).
«Why does infobesity compromise performance? It’s mostly because we human beings can process only so much data. An uncontrollable flood of it overwhelms us, and we feel stressed. Our systems shut down, and our capacity to absorb additional information actually decreases. To cope with the flood, our brains develop tricks and habits. We rely more on information that is closer to home than on information from a distant source».
La sfida in questo caso è di essere in grado di comprendere quali siano le informazioni davvero utili per arrivare alla formazione di un pensiero, per effettuare una scelta ragionata, per condurre una ricerca e via dicendo.
Come si diceva, il secondo punto riguarda la capacità di saper fare distinzione tra informazioni e spazzatura, tra siti autorevoli e non. Uno studio della Harvard Good Works Project (Xxxxxxx, 2006) ha dimostrato che spesso i ragazzi ritengono attendibile un sito solo perché possiede una grafica accattivante, e che si fidano di più dei siti “professionali” piuttosto che dei materiali prodotti da “dilettanti” (Xxxxxx, 2008); senza però possedere le competenze necessarie per distinguere tra “professionale” e “dilettante” (Xxxxxxx, 2010). Inoltre risulta molto spesso difficile determinare la gerarchia delle fonti (Rivoltella, 2015), per via delle pratiche di embedding e condivisione, tipiche del web 2.0, che richiedono di andare all’indietro alla
ricerca della fonte principale, il più delle volte non citata da chi condivide un link.
Inoltre, non sempre chi scrive è un soggetto autorevole e competente. L’autorialità garantita dal Web 2.0 permette a chiunque di pubblicare contenuti senza passare dagli apparati che storicamente si sono occupati di vagliare le informazioni, come le case editrici, le televisioni, le radio, ecc., provocando una disintermediazione generalizzata (Xxxxxxx, 2007) che, se da un lato democratizza l’accesso, dall’altro permette la veicolazione di contenuti anche a chi non possiede le competenze per farlo. Per questo motivo Ramonet (2012) parla di “ecologia dell’informazione”, cioè della necessità di liberare l’informazione da tutte quelle notizie e informazioni non veritiere che abbassano la qualità dei contenuti della rete.
Viaggiare sicuri
La gratuità dei servizi di cui usufruiamo online presuppone un diverso metodo di pagamento, non monetario, che permetta all’azienda fornitrice del servizio di mantenersi in vita. Nel caso del Web 2.0 il “pagamento” avviene attraverso la cessione delle informazioni riguardanti i nostri gusti personali, le nostre abitudini di consumo, le nostre preferenze, ai vari motori di ricerca, social network, applicativi, ecc., i quali le riutilizzeranno per scopi commerciali. Il più delle volte questa riflessione non viene condotta dagli utenti, che a volte per comodità, a volte per semplice non curanza, tendono a regalare alla rete ogni sorta di informazione, compresi i dati più personali e sensibili, come il numero di telefono, l’indirizzo di casa o il numero di carta di credito, ma anche foto o video che li ritraggono in momenti assolutamente personali, senza accompagnare la condivisione con una riflessione sul percorso che questi dati, una volta online, faranno. Nel caso della condivisione dei dati sensibili, i rischi che si corrono sono sostanzialmente due: da un lato, affidare un a pubblico potenzialmente illimitato dati circa la propria posizione, i propri spostamenti, ecc. potrebbe agevolare il lavoro di possibili avventori, o far perdere il controllo della situazione all’utente, come è capitato ad una 16enne
olandese nel 2012 (Rame, 2012), che invitando gli amici alla sua festa di compleanno attraverso i Social Network, non ha pensato di rendere privato l’evento, ricevendo così la visita di circa 20.000 persone. Dall’altro lato c’è invece la possibilità di affidare dati relativi a carte di credito, contri correnti ecc., a pagine non sicure, che potrebbero usare queste informazioni in modo illecito.
Un ultimo elemento da considerare quando si parla di “viaggiare sicuri” è l’esposizione della propria identità online, una delle pratiche più diffuse tra chi frequenta i Social Network, come evidenziano Xxxxxxx e Xxxxxx (2014). Si condivide qualsiasi cosa, anche afferente alla sfera più intima della persona, con un pubblico che si presume essere composto da amici, al fine di costruirsi una reputazione online basata su like e commenti. Ciò a cui spesso non si pensa, però, è che la condivisione è una pratica irreversibile: se è vero che è possibile eliminare un contenuto dalla propria pagina Facebook, ad esempio, è altrettanto vero che non solo questo rimarrà nei server del sito, secondo i tempi e le modalità descritte nei Termini di Contratto, ma che potrebbe essere già stato salvato e ricondiviso da tutti coloro che, seppur per pochi secondi, potrebbero esservisi imbattuti. La pratica dello screenshot, lo sappiamo, è molto diffusa, e generalmente prevede una condivisione del post o dell’immagine immortalata con amici che, probabilmente, diversamente non vi avrebbero avuto accesso.
1.3 Il ruolo dell’adulto
Sulla scia di quanto sostenuto da Xxxxxxx nel 2001, molti sono gli adulti che oggi ritengono che l’attuale generazione di studenti sarebbe caratterizzata da innate competenze nell’impiego delle tecnologie e dotata di modalità cognitive diverse rispetto alle generazioni precedenti. Nonostante, come già anticipato nelle pagine precedenti, questa teoria sia stata ampliamente superata, persino dallo stesso Xxxxxxx, sono rimasti in molti a che credere che le agenzie educative, tra le quali la scuola, non sarebbero più in grado di formare le nuove
generazioni di adulti. Uno dei problemi più spesso portati a galla è quello del cosiddetto knowledge gap, cioè il disallineamento dell’adulto e del minore rispetto alla conoscenza e alle pratiche relative alla tecnologia (Xxxxxxxxx & Rivoltella, 2008), una disconoscenza di certi fenomeni popolari che dimostra una lontananza generazionale che spesso rende difficile all’adulto legittimarsi agli occhi dei ragazzi (Rivoltella, 2013). Questo fenomeno porta con sé almeno due effetti: da un lato gli adulti di riferimento (genitori, docenti, educatori, ecc.) non si sentono più in grado di tenere il passo dei più giovani (Scurati, 1998); dall’altro lato gli studenti, che come già detto sono in grado di reperire online un’infinità di informazioni, spesso finiscono per non fidarsi più dei contenuti trasmessi dagli adulti, come ha ben rappresentato Glasbergen in una sua vignetta del 2007 che vediamo qui di seguito nella figura 2:
Figura 2. Vignetta di Glasbergen, 2007
In entrambi i casi, il rischio maggiore è che gli adulti, consapevoli che i loro ragazzi siano spesso più esperti di loro nell’uso delle nuove tecnologie, siano portati ad adottare l’approccio del laissez-faire, convinti del fatto che i giovani non abbiano bisogno di essere istruiti o protetti dalle nuove tecnologie, proprio perché le conoscono e le padroneggiano meglio di chi dovrebbe insegnare loro ad utilizzarle (Xxxxxxx, 2010). Secondo il pensiero di Xxxxxxx questo tipo di approccio ha tre difetti fondamentali: non affronta il problema delle differenti possibilità di accesso alle diverse tecnologie da parte dei giovani (participation gap), presume che questi siano in grado di riflettere attivamente e in autonomia sulle esperienze che fanno attraverso i media (trasparency problem), e assume che siano in grado, senza l’aiuto di un adulto, di sviluppare le norme etiche necessarie a far fronte ad un mondo variegato e complesso come quello della rete (ethics challenge). Risulta evidente che l’adulto deve ritrovare quindi la consapevolezza del proprio ruolo, che inevitabilmente sarà differente rispetto a quello generalmente ricoperto, ma non per questo meno centrale. Per dirlo con le parole di Xxxxxxxxxx (2005), i ragazzi «possono avere un’esperienza maggiore di questi mezzi di comunicazione rispetto a molti adulti, ma ciò che più manca loro è l’esperienza del mondo reale a cui paragonare le rappresentazioni dei media, e questo può rendere loro più difficile rilevare inesattezze e pregiudizi». Proprio per questo motivo, sebbene possano potenzialmente raccogliere molte più informazioni online rispetto a quelle che un docente potrebbe mai fornire loro, è altrettanto vero che non necessariamente i ragazzi saranno in grado di comprendere quell’informazione, o di distinguere tra un contenuto valido o meno, poiché i contenuti che è possibile reperire online, se non mediati da un adulto, possono andare oltre la capacità di rielaborazione dei ragazzi (La Marca, 2014).
1.4 La Cyber Stupidity
Nel testo “Brain Gain: Technology and the Quest for Digital Wisdom” (Xxxxxxx, 2012), a cui qui si fa riferimento nella sua versione tradotta in
italiano (La mente aumentata. Dai nativi digitali alla saggezza digitale, 2013), Xxxxxxx contrappone i termini digital stupidity e digital wisdom. In questo elaborato, però, si farà riferimento alla stupidità digitale nei termini di cyber stupidity, in quanto in Italia ha trovato maggior fortuna e diffusione (Rivoltella, 2015).
Se nel 2001 Xxxx Xxxxxxx ha introdotto la dicotomia nativo-immigrante digitale, tutta fondata su una questione anagrafica, nel 2010 lo stesso ha riaperto il dibattito, basando questa volta la dicotomia sui termini saggio- stupido digitale (2013), facendo leva così sulla competenza.
Xxxxxxx (2001) utilizzò il termine “nativi digitali” per indicare quei soggetti che, nascendo negli anni Novanta, si sono trovati immediatamente a contatto con le nuove tecnologie digitali e sono cresciuti con esse. Questa generazione sarebbe caratterizzata da innate competenze nell’impiego delle tecnologie e dotata di modalità cognitive diverse rispetto alle generazioni precedenti, formate invece dagli “immigranti digitali”, soggetti «che, come tutti gli immigranti, alcuni meglio di altri, hanno dovuto adattarsi al nuovo ambiente socio-tecnologico», conservando però «il loro accento e i loro piedi nel passato»; una delle caratteristiche degli “immigranti digitali” sarebbe la loro abitudine di considerare Internet come una seconda scelta nel reperimento delle informazioni e di leggere i manuali di un software invece che procedere per prova ed errore, come invece farebbero i nativi.
La saggezza digitale oggi corrisponde a quella competenza digitale a cui fa riferimento la Commissione Europea (2006) parlando di competenze base per la cittadinanza (La Marca, 2014; Marzano, Montegiove, & Xxxxxxxxxx, 2014). La questione da porsi per capire se si è saggi o meno, quindi, è che uso si faccia delle risorse digitali con cui quotidianamente si entra in contatto. Non tutti, infatti, a prescindere dall’età anagrafica, sono in grado di gestire i nuovi ambienti e linguaggi a disposizione. Comunicare un concetto in un modo o nell’altro, diffondere una foto in un canale piuttosto che in un altro, sono già comportamenti che potrebbero rientrare nella sfera della cosiddetta stupidità digitale.
Si tratta di fenomeni nuovi che sollecitano una domanda: come possiamo costruire saggezza anche online? La risposta comporta due passaggi: la conoscenza dei diversi aspetti del digitale, incluse le derive e le patologie associate, e la padronanza dei linguaggi (gestire un forum, una chat, una pagina in Facebook, un blog sono cose simili, ma non identiche).
Alcuni tra i comportamenti che possiamo definire stupidi sono il gambling, il sexting, il cyberstalking, il flaming, il cyberharassement e il cyberbullying (Rivoltella, 2015). Secondo Xxxxx Xxxxxxx (2000) molti di questi sono in realtà sottocategorie del cyber bullismo, che in base a come si manifesta può essere chiamato flaming, harassment, denigration, impersonation, trickery, exclusion, cyberstalking e happy slapping.
Proviamo ad inquadrare ciascuno di questi fenomeni, per capire di che cosa si sta parlando.
Il termine cyberbullying, coniato dall’insegnante canadese Xxxx Xxxxxx (Xxxxxx, 2007) e introdotto in Italia per la prima volta nella Direttiva 16/2007 del Ministero della Pubblica Istruzione (2007), definisce quel «particolare tipo di aggressività intenzionale agita attraverso forme elettroniche», azioni intenzionali di carattere aggressivo, perpetrate persistentemente da una sola persona o da un gruppo, con il deliberato obiettivo di far male, mettere in imbarazzo, escludere o danneggiare un coetaneo (Xxxxxxxx, et al., 2012; Xxxxxx, Xxxx, Xxxxxxx, Xxxxxx, & Xxxxxxx, 0000; Xxxxxxx & Hinduja, 2006; Xxxxx, Xxxxxxx, Xxxxxxxx, & Xxxxxxx, 2006; Xxxxxxx, 2007).
Perché il bullismo sia cyber è necessario che sia agito attraverso strumenti digitali, quali sms, mms, foto, video, e-mail, chat, app di messaggistica istantanea, siti web, social network, telefonate, ecc. (Xxxxxxx & Hinduja, 2006; Xxxxx, Xxxxxxx, Xxxxxxxx, & Xxxxxxx, 2006). Questo è l’aspetto che rende il cyber bullismo controverso: se nel bullismo agito in presenza, una volta a casa, la vittima trovava generalmente un luogo sicuro, nella versione
online questo non avviene più (Xxxxxxxx & Xxxxx, 2007; Xxxxxx & Xxxxxxx, 2008), perché le informazioni sono trasmesse e quindi fruibili attraverso smartphone, tablet e computer, ossia quegli strumenti che, per svago o per lavoro, ci si ritrova sempre ad avere tra le mani. La tecnologia permette di infrangere i limiti temporali e spaziali imposti alle angherie agite di persona durante le ore e tra le mura scolastiche (Patchin & Hinduja, 2006; Tokunaga, 2010). Inoltre nel cyberbullismo il bullo potrebbe essere chiunque: non è più solo il compagno di scuola, d’oratorio o della squadra di calcio; potenzialmente è chiunque entri in contatto con noi attraverso il web. Potrebbe essere una persona conosciuta che si manifesta con il proprio nome e cognome oppure nascosto da un nickname, ma potrebbe anche trattarsi di un completo sconosciuto (Xxxxxxxx & Xxxxx, 2007). La percezione di anonimato che la mediazione dello schermo facilita fa diminuire il senso di responsabilità, dando vita a quel fenomeno che Xxxx Xxxxx, psicologo presso la Rider University di Xxxxxxxxxxxxx (New Jersey), definisce “The Online Disinhibition Effect” (Suler, 2004), ossia l’effetto che fa sì che le persone si sentano più libere, nel cyberspazio, di dire cose che altrimenti non direbbero o direbbero in modo differente. L’effetto di disinibizione online ha una doppia faccia: se da una parte, infatti, consente alle persone di aprirsi più liberamente, di confidarsi, di raccontare emozioni, desideri, paure molto più tranquillamente di quanto farebbero in una conversazione faccia a faccia, dall’altra fa emergere un lato più rude, critico, pieno di odio, rabbia, spesso minaccioso.
Questo senso di disinibizione è causato da differenti fattori, messi in luce dallo stesso Xxxxx (2004):
- Non mi conosci (anonimato dissociativo): online è possibile nascondersi dietro a un nickname e a un’immagine fittizia; questa possibilità
«fa miracoli riguardo all’effetto disinibitivo»: le azioni compiute online vengono percepite come separate dalla vita reale, e questo fa sentire chi scrive meno vulnerabile nell’aprirsi e raccontarsi agli altri, ma anche nel lasciarsi andare a comportamenti aggressivi, poiché, almeno apparentemente, la mediazione di un device sembra non obbligare gli utenti ad assumersi le
proprie responsabilità, portando in alcuni casi ad autoconvincersi che non si è davvero responsabili delle proprie azioni, che i comportamenti agiti non abbiano nulla a che fare con la vita reale. In questo caso di parla di “dissociazione”.
- Non puoi vedermi (invisibilità): la possibilità offerta da molti contesti online di entrare senza essere visti, ossia di visitare un sito, una chat, senza che le altre persone, comprese quelle che vi si trovano all’interno, se ne rendano conto, spinge gli utenti a visitare pagine e fare cose che altrimenti probabilmente non farebbero.
- Ci vediamo dopo (asincronismo): la comunicazione asincrona che caratterizza la maggior parte dei sistemi di comunicazione online, permettere di non affrontare subito la reazione dell’altro nel ricevere una notizia, ma di rimandare a un secondo momento, leggendo la sua risposta quando si sarà più disposti ad ascoltare. Se è vero che l’asincronismo permette lo sviluppo di pensieri più profondi, è altrettanto vero che può essere visto anche come possibilità di fuggire dalla conversazione a cui si è dato inizio, indipendentemente dal fatto che questa abbia una connotazione affettuosa od ostile.
- È tutto nella mia testa (introiezione solipsistica): spesso, quando si mantengono comunicazioni online con persone che non si conoscono, può capitare di “sentire” la voce dell’altro come se fosse nella propria testa nel momento in cui si legge un suo messaggio. Quello che accade è che si assegna all’altra persona una voce, spesso un volto, sulla base sia di come questi si presenta nella sua comunicazione via Internet, sia delle proprie aspettative, plasmandolo sull’immagine delle persone che l’interlocutore ci ricorda. Poiché alla persona si attribuisce un’immagine “reale” nella mente, spesso il dialogo effettivamente intercorso prosegue nella mente, come quando si fantastica di flirtare con qualcuno, di litigare col capo o di dire a un amico quelle cose che si tengono nascoste da tempo. Nella propria mente, le persone si sentono libere di dire e fare qualsiasi cosa, anche quelle cose che si avrebbe timore di concretizzare nella realtà. In questo senso, la comunicazione online può
diventare l'arazzo psicologico in cui la mente di una persona tesse questi giochi di ruolo fantastici, di solito inconsapevolmente e in modo disinibito.
- È solo un gioco (immaginazione dissociativa): alcune persone vivono la vita online come fosse un gioco con regole e norme diverse da quelle che si applicano alla vita di tutti i giorni (Xxxxx, 2002); questa convinzione le porta a credere che, spegnendo il pc, il “gioco” finisca, lasciando nel web e solo nel web l’identità assunta nel mentre, allontanando così quel senso di responsabilità che dovrebbe invece accompagnare ogni gesto che si compie.
- Noi siamo uguali (minimizzazione dell’autorità): poco importa chi siamo nella vita offline, online siamo tutti uguali. Uomini, donne, cristiani, musulmani, ricchi e poveri: chiunque disponga di una connessione a Internet ha la stessa possibilità di esprimersi degli altri. Online quello che conta non è chi siamo o che carica ricopriamo, bensì il nostro modo di comunicare, l’influenza che abbiamo sugli altri, ciò che abbiamo da dire. Proprio questo aspetto, però, sembra far venir meno, nelle interazioni online, quella paura della punizione che porta generalmente le persone a non esprimere apertamente i propri pensieri e a comportarsi in modo sconveniente di fronte alle autorità.
Abbiamo evidenziato i fattori che vanno a comporre l’effetto disinibitivo online. C’è un aspetto che bisogna però tenere in considerazione: il comportamento online dipende non solo dal fattore disinibitivo, ma anche dalle personalità, dalle differenze e predisposizioni individuali, le quali interagiscono con l’effetto in questione, causando il più delle volte solo una semplice deviazione dal comportamento quotidiano, o in alcuni casi cambiamenti molto più significativi e connotati negativamente.
1.4.1.1 Il cyber bullismo in Europa: alcuni dati
Nel 2016 il Parlamento Europeo ha diffuso alcuni dati relativi al rapporto tra i giovani e il cyberbullismo (Xxxxx Xxxxx, Xx Xxxxxx, Xxxxx, & Xxxxxx, 2016), facendo riferimento a molte altre ricerche, nazionali e
internazionali, condotte negli anni precedenti. Partiremo da qui per analizzare il fenomeno del cyber bullismo in Europa.
Nel 2014, secondo la ricerca “Net Children Go Mobile”, il 12% dei 3500 ragazzi tra i 9 e i 16 anni facenti parte del campione ha subìto azioni di cyberbullismo (Mascheroni & Cuman, 2014). In particolare, le vittime sembrano aumentare con l’aumentare dell’età: i più colpiti, infatti, sono i 13- 14enni, dato già evidenziato anche da Xxxxxxxx (2010), la cui ricerca aveva evidenziato una maggior incidenza del fenomeno della fascia 13-15 anni.
In molti Stati Europei si conferma questo trend: in Xxxxxx (Xxx Xxxxxxxx, xx xx., 0000), Xxxxxxxxxx Xxxx (Xxxxxxx & Xxxxxxx, 0000), Xxxxxxxxx (Xxxxxxxx, Xxxxxxxx-Xxxxx, & Xxxxxxx, 0000), Xxxxxxxxxx x Xxxxx Xxxxx (Dalla Pozza, Di Xxxxxx, Xxxxx, & Xxxxxx, 2016) le vittime hanno per lo più tra gli 11 e i 14 anni. Anche in Germania e Romania7 il risultato è lo stesso, ma in questi due Paesi si evidenzia una differenza di genere rilevante: i maschi risultano più colpiti nella fascia 10-13 anni, mentre le femmine nella fascia 13-
16. In Grecia sono le ragazze dai 12 ai 17 anni ad essere più vittime di bullismo online, mentre in Lussemburgo sono le ragazze di 11 anni. In Irlanda e Svezia (The Swedish media council, 2015) invece l’età dei ragazzi più colpiti risulta la più alta dell’Unione Europea: rispettivamente 15-16 e 17-18 anni.
Le vittime di cyberbullismo tendono ad essere più giovani rispetto ai propri bulli (Xxxxxxxxxx & Xxxxx, 2014), anche se poco si sa rispetto a chi siano i bulli, considerato che la maggior parte delle Nazioni Europee fatica a facilitare il dato, poiché spesso i bulli non ammettono di esserlo (Xxxxxxx, 2016) o non ne sono nemmeno consapevoli (Xxxxx Xxxxx, Xx Xxxxxx, Xxxxx, & Xxxxxx, 2016). I pochi dati che si sono ottenuti arrivano da Spagna (Xxxxxxxxx, Garitaonandia, Xxxxxxxx, & Xxxxxx, 2011), Polonia, Portogallo e Romania (Velicu, 2014), dove si rileva una prevalenza di bulli di 14 anni e oltre, che secondo una ricerca condotta dalle Università di Londra e Gothenburg
7 Le informazioni sono state raccolte il 23 Febbraio 2016 da un rappresentate di Save the Children Romania e il coordinatore del programma Xxxxx.xxxx (Xxxxx Xxxxx, Xx Xxxxxx, Xxxxx, & Xxxxxx, 2016).
sembrano essere i più rudi (Xxxxxx, Xxxxx, & Xxxxxx, 2013). Lo stesso studio evidenzia anche che gli atteggiamenti di prevaricazione sembrano diminuire con l’età, pur non dimenticando che è dimostrato che il cyberbullismo continua ad essere un comportamento agito in età adulta, come avviene in Italia, dove il 9,4% delle denunce di cyberbullismo raccolte da Telefono Azzurro nel biennio 2014-2015 riguardavano adulti che agivano ai danni di minori (Telefono Azzurro Helpline, 2015).
Rispetto al genere, come già si anticipava poco sopra, in generale non si riscontrano grandi differenze tra maschi e femmine, sia nel ruolo di vittima che di carnefice, anche se molti studenti ritengono che le ragazze siano più spesso protagoniste del fenomeno, in entrambi i ruoli (Xxxxxx, Xxxxx, & Xxxxxx, 2013). È vero però che in alcuni Stati appartenenti all’Unione Europea questa percezione viene confermata dai dati: come emerso dalle informazioni raccolte l’11 Marzo 2016 dal rappresentate del Centre for the Prevention of Risky Virtual Communication Behaviours, in Repubblica Ceca, ad esempio, le ragazze sono più aggressive dei ragazzi online, per via delle loro maggiori abilità linguistiche, mentre i ragazzi sono più spesso coinvolti in azioni di bullismo tradizionale, dove sono messe in gioco forza e violenza.
Net Children Go Mobile nel 2014 ha rilevato un’incidenza quasi doppia di ragazze vittime di cyberbullismo piuttosto che di ragazzi (X’Xxxxx & Dinh, 2015). Gli Stati in cui si nota questa prevalenza sono Belgio, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Latvia, Romania, Slovenia, Spagna, Svezia, Lussemburgo e Republica Ceca; in quest’ultimo, in particolare, il rapporto è 90% contro 10% (Xxxxxxxxxx & Xxxxxxx, 2013). In Austria e Germania la differenza è meno evidente, mentre in Polonia scompare del tutto (Xxxxxxxxxxxxx & Xxxxxxx, 2015). La Bulgaria è l’unico Stato dell’UE in cui i ragazzi costituiscano la maggioranza delle vittime (61%, contro il 30% delle ragazze) (Xxxxx Xxxxx, Xx Xxxxxx, Xxxxx, & Xxxxxx, 2016).
Ciò che le ricerche non riescono a chiarire, però, è se il numero delle ragazze vittime di cyberbullismo sia realmente più alto di quello dei loro compagni maschi o se in realtà, come suggeriva una ricerca canadese del 2006,
sia solo più comune tra le ragazze denunciare gli episodi di cui sono protagoniste (Xx, 2006), rivolgendosi ad amici e genitori (X’Xxxxx & Xxxx, 2015), mentre i ragazzi tenderebbero a nascondere la cosa.
Quando si tratta di aggredire, le ricerche condotte in Francia, Germania (Schneider, Xxxxxx, & Xxxxx, 0000), Xxxxxx (Xxxxxxxx & Xxxxxxxxxxx, 0000), Xxxxxxxxxxx (Steffgen, Vandebosch, Völlink, Xxxxxxxx, & Xxxxx, 2010) e Romania non evidenziano differenze di genere, quelle irlandesi rivelano che sono le ragazze le principali bulle (Xxxxx & Xxxxxxxx, 2013), mentre in Austria, Belgio ed Estonia i carnefici sono soprattutto i ragazzi.
1.4.1.2 Il cyber bullismo in Italia: alcuni dati
Secondo i più recenti dati ISTAT (Istat, 2015), nel 2014 poco più del 50% degli 11-17enni ha subìto qualche episodio offensivo, non rispettoso e/o violento da parte di altri ragazzi o ragazze nei 12 mesi precedenti; il 19,8% di loro subisce “tipiche” azioni di bullismo più volte al mese e nel 9,1% dei casi gli atti di prepotenza si ripetono una o più volte alla settimana. Ad essere più spesso vittime di bullismo sono, per età, i ragazzi tra gli 11 e i 13 anni (22,5%, a fronte di un 17,9% tra i 14-17enni) e, per genere, le femmine (20,9%, contro il 18,8% fra i maschi), anche se i maschi subiscono più spesso forme di aggressione dirette (17%) piuttosto che indirette (7,7%), mentre tra le ragazze la differenza è minima (rispettivamente 16,7% e 14%). Le prepotenze più comuni consistono in offese con brutti soprannomi, parolacce o insulti (12,1%), derisione per l’aspetto fisico e/o il modo di parlare (6,3%), diffamazione (5,1%), esclusione per le proprie opinioni (4,7%), aggressioni con spintoni, botte, calci e pugni (3,8%). I dati relativi al cyber bullismo sono invece più contenuti: tra i giovani che dichiarano di utilizzare il cellulare e/o Internet quotidianamente (rispettivamente 83% e 57%), il 5,9% denuncia di avere subìto ripetutamente azioni vessatorie tramite sms, e-mail, chat o sui social network. Anche in questo caso, però, sono le ragazze ad essere più spesso vittime di cyber bullismo (7,1% contro il 4,6% dei ragazzi). Secondo
Save the Children (2014) l’80% dei ragazzi ritiene che il fatto di passare alla dimensione online contribuisca (molto: 32%; abbastanza: 48%) ad aggravare tanto il danno inferto da portare la vittima a togliersi la vita. Quando si vede minacciato dai bulli, il 65% degli 11-17enni (60,4% dei maschi e 69,9% delle femmine) ritiene opportuno chiedere aiuto ai genitori, mentre il 41% sceglie di rivolgersi agli insegnanti (37,4% dei maschi e 44,8% delle femmine) (Istat, 2015), dato confermato anche dalla già citata ricerca condotta da Save the Children, secondo cui i ragazzi richiederebbero incontri a loro dedicati per comprendere meglio il fenomeno (54%), coinvolgendo in questo processo anche genitori (42%) e insegnanti (37%), perché siano in grado di aiutare figli e studenti accogliendo segnalazioni e controllando di più le attività dei ragazzi. Si chiede però anche un contributo più istituzionale, attraverso un controllo più serrato dei social network (35%), la previsione di punizioni più severe per i colpevoli (42%), la messa a disposizione di un numero telefonico (37%) e di una pagina nei social network (34%) dedicati per segnalazioni, nonché l’obbligo per i responsabili delle aziende di telefonia a vigilare in modo più efficace (19%).
Una più recente indagine condotta in Italia in occasione del Safer Internet Day 2015 (Save the Children, 2015) vede il bullismo e il cyberbullismo posizionarsi in cima alla classifica dei fenomeni sociali più pericolosi per i ragazzi di oggi, ricoprendo rispettivamente il primo (64%) e il quarto posto (38%).
Anche per via di questi dati, il MIUR recentemente si è attivato pubblicando le “Linee di orientamento per azioni di contrasto al bullismo e al cyberbullismo” (2015b), all’interno delle quali, per meglio far fronte al fenomeno, ha proposto una “riorganizzazione della governance”, prevedendo il trasferimento delle funzioni prima attribuite agli Osservatori regionali ai Centri Territoriali di Supporto (CTS), collocati a livello provinciale presso scuole Polo, basandosi «sulla considerazione che questi fenomeni coinvolgono soggetti, bulli e vittime, che vivono in una situazione di forte disagio e che […] necessitano dell'azione coordinata della comunità educante, almeno in alcune
fasi del loro percorso scolastico, per far fronte alle esigenze educative speciali che richiedono misure necessarie per un loro recupero sia da un punto di vista educativo che sociale». Inoltre, questo documento attribuisce alle scuole il compito di realizzare interventi mirati alla prevenzione del bullismo e del cyberbullismo, integrando all’offerta formativa attività finalizzate allo scopo. Per questo motivo si è prevista l’attivazione di un modello innovativo di formazione integrata per dirigenti, docenti e personale ATA che aiuti tutte queste figure nello sviluppo delle competenze necessarie a individuare tempestivamente eventuali situazioni di bullismo o cyberbullismo.
Come si diceva nel paragrafo 1.4, secondo la Xxxxxxx (2007) sono molti i comportamenti che si possono riconoscere come sottocategorie del cyberbullismo. Vediamoli in dettaglio.
Nelle comunità virtuali il flame (dall’inglese “fiamma”) è un messaggio violento, volgare, ostile e provocatorio diretto alla comunità o a un individuo specifico con lo scopo di suscitare una flame war (“guerra di fiamme”), ossia uno scambio di insulti paragonabile a una “rissa virtuale” (Cogo, 2012).
Non sempre il flaming ha un intento persecutorio: a volte deriva dall’incapacità del destinatario di leggere correttamente l’intenzione di un messaggio scritto, specie quando l’interazione è veloce, come nelle chat, dando vita a fraintendimenti e a situazioni di conflitto. Come il cyberbullismo, anche il flaming subisce le conseguenze dell’online disinhibition effect, per cui viene favorito dall’anonimato, dall’invisibilità dell’altro e dalla mancanza di contatto oculare. In un articolo pubblicato nella sezione Psychology del New York Times, Xxxxxxx (2007) addirittura sostiene che “online disinhibition effect” sia il nome tecnico del flaming.
Una forma di flaming è il trolling, dove il troll interagisce con gli altri tramite messaggi provocatori, irritanti, fuori tema o semplicemente senza
senso, con l'obiettivo di disturbare la comunicazione e fomentare gli animi (Xxxxxx & Xxxxx, 2002).
Come evidenziato da Xxxxxx e Saturno (2008), in alcuni contesti, come nelle chat dei videogiochi o nei forum, il più delle volte ad essere oggetto di flaming o di trolling sono i cosiddetti newbie, ossia i neofiti, coloro che per inesperienza sono portati a commettere errori, e per questo a diventare oggetto di discussioni aggressive. Questo fenomeno è denominato baiting o flame bait.
In alcuni casi, il flaming può diventare oggetto di denuncia, in quanto potrebbe costituire ingiuria, diffamazione o molestia, come ci ricorda il Ministero della Giustizia (2015) attraverso lo strumento iGloss@ 1.0, realizzato dall’Ufficio Studi, Ricerche e Attività Internazionali del Dipartimento Giustizia Minorile e dall’IFOS Master in Criminologia clinica e Psicologia Giuridica, nell’ambito di un progetto di ricerca sulle nuove forme di devianza e criminalità online in età evolutiva.
Letteralmente il termine harassment significa “molestia” e sta a indicare l’invio ripetuto di messaggi insultanti al fine di offendere chi li riceve (Xxxxxxx, Montegiove, & Xxxxxxxxxx, 0000; Yin, et al., 2009), generalmente per motivi di razza, sesso, identità politica o religiosa, senza che ci sia necessariamente intento persecutorio (Rivoltella, 2015).
Tra le caratteristiche distintive del cyberharassment troviamo la persistenza e la asimmetria di potere: le molestie infatti generalmente, ma non necessariamente, sono reiterate nel tempo, e la vittima si trova in posizione one down, ossia subisce passivamente le aggressioni o tenta di porvi fine usando un linguaggio ugualmente insultante, tendenzialmente senza successo (Gruppo IFOS, s.d.).
Comportamenti legati al cyberharassment si possono trovare non solo in siti, forum o gruppi dal preciso intento razzista; al contrario è considerato cyberharassment anche un commento dal tono volgare, che punti a insultare il
destinatario per via del colore della sua pelle, del suo orientamento sessuale, vero o presunto, come accade, ad esempio, quando si commenta una partita di calcio e ci si lascia andare con il linguaggio; questo tipo di atteggiamento sottende una subcultura razzista o sessista (Rivoltella, 2015), che emerge, a volte inconsapevolmente, quando si è alterati o ci si sente liberi di potersi esprimere perché tutelati dall’anonimato offerto dalla rete.
Come per il flaming, anche il cyberharassment può essere punito per legge, in quanto può costituire ingiuria, diffamazione, molestia e disturbo alle persone, e infine atti persecutori (Ministero della Giustizia, 2015).
Si parla di cyberstalking quando ci si trova di fronte a persecuzioni, molestie, denigrazioni e minacce reiterate nel tempo, agite allo scopo di incutere timore nella vittima. Nei casi più gravi, lo stalking può arrivare a comprendere atti di violenza fisica (d'Xxxxxx & Xxxxx, 2003; Xxxxxxx, Montegiove, & Xxxxxxxxxx, 2014). In alcuni casi il cyberstalking è la deriva dell’harassment: quando la vittima inizia a sentirsi in pericolo per via dei continui insulti e delle continue minacce, si inizia a parlare di persecuzione. In molti casi il cyberstalking prevede la diffusione online di materiale privato della vittima, come foto personali, anche di carattere sessuale, o lettere, messaggi, ecc. (Gruppo IFOS, s.d.).
In base alla gravità della situazione e al tipo di condotta adottata, dal punto di vista giuridico il cyberstalker può essere accusato di ingiuria, diffamazione, istigazione al suicidio, violenza privata, minaccia, atti persecutori e molestia e disturbo alle persone (Ministero della Giustizia, 2015).
La pratica della denigration consiste nell’invio di messaggi, pubblici o privati, o nella pubblicazione di commenti crudeli, offensivi, calunniosi allo scopo di danneggiare la reputazione di una persona in modo gratuito e con
cattiveria (Xxxxxx & Xxxxxxxxxx, 2009; Xxxxxx, Xxxx-Xxxxxx, Xxxxxxx, Xxxxxxxx, & Xxxxxx, 0000; Xxxxxxx, Montegiove, & Xxxxxxxxxx, 2014). Si parla di denigration quando, ad esempio, un utente diffonde online un pettegolezzo, un’immagine o un video, generalmente modificati a dovere, con lo scopo di deridere la vittima, che il più delle volte non è il destinatario del messaggio, come invece nel flaming e nell’harassment. In questo caso, spesso, i destinatari sono i coetanei, gli amici della vittima, o in generale gli utenti del web, che assistono all’episodio di bullismo talvolta passivamente, altre volte in modo attivo, diffondendo il contenuto in questione con gli amici, commentandolo o dimostrando apprezzamento attraverso il like in Facebook o il cuore in Instagram o Twitter. Nel secondo caso si parla di “reclutamento involontario” (Pisano & Saturno, 2008), in quanto il pubblico si trasforma a sua volta in carnefice, diventando parte attiva nella diffusione del pettegolezzo e generando una serie di effetti probabilmente non previsti da chi originariamente aveva dato il via all’azione denigratoria.
Dal punto di vista giuridico, nel caso della denigration i reati di cui si può essere accusati, sulla base della gravità e del tipo di azioni commesse, sono: ingiuria, diffamazione, interferenze illecite nella vita privata, pubblicazioni oscene e divulgazione di materiale pedopornografico; inoltre, sotto il profilo civile: abuso dell’immagine altrui, riproduzione e messa in commercio non consensuali del ritratto di una persona e infine violazione della privacy (Ministero della Giustizia, 2015).
Si parla di impersonation quando qualcuno si appropria dell’identità di un’altra persona, accedendo al suo account (essendo in possesso della password o avendola ottenuta attraverso appositi programmi) (Gruppo IFOS, s.d.; Xxxxxxxx, et al., 2012; Xxxxxxxxx, et al., 2010) o creando falsi profili (Xxxxxxx, Montegiove, & Xxxxxxxxxx, 2014), con il preciso intento di dare una cattiva immagine del proprietario, creargli problemi, danneggiare la sua
reputazione, attraverso l’invio o la condivisione di messaggi inappropriati (Xxxxxxx, 2007). Esempio di impersonation sono l’adolescente che accede al profilo Facebook di un coetaneo e pubblica post a nome suo o contatta i suoi amici dicendo loro cose che il proprietario non avrebbe mai detto; oppure l’adulto che, accedendo all’indirizzo mail del collega, invia mail inappropriate al capo, con l’intento di causare dei problemi.
L’impersonation ha carattere intenzionale e ha fine solo nel momento in cui l’utente il cui profilo sia stato violato se ne rende conto e prende provvedimenti a riguardo (dal cambio password, alla chiusura del profilo, alla denuncia, in base alla gravità del caso). Non è detto, però, che il comportamento non possa ripetersi anche dopo che si siano presi provvedimenti.
Da un punto di vista giuridico, l’impersonation dà luogo a reati come la sostituzione di persona, l’accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, la detenzione e diffusione abusiva di accesso a sistemi informatici o telematici e la violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza. Nei casi di tentativi di phishing tramite invio di e-mail si parla invece di frode informatica (Ministero della Giustizia, 2015). Il phishing è una particolare tipologia di truffa realizzata online con lo scopo di ingannare gli utenti attraverso l’invio di messaggi di posta elettronica ingannevoli, in cui il mittente, fingendo di essere un istituto finanziario (banche o società emittenti di carte di credito) o un sito web che richieda l'accesso previa registrazione (web-mail, e-commerce ecc.), richiede al destinatario di fornire i propri dati di accesso al servizio. Nella e-mail solitamente è presente un link che apparentemente rimanda al sito della banca o della carta di credito in oggetto, ma che in realtà è collegato ad un sito allestito appositamente perché risulti identico a quello originale. Nel caso in cui l’utente dovesse fornire i dati richiesti dal fittizio istituto di credito, questi saranno messi a disposizione dei criminali. Sotto la dicitura di phishing troviamo anche i virus informatici, che si diffondo attraverso file allegati ai messaggi di posta elettronica; è possibile incontrarli celati da false fatture, contravvenzioni, avvisi di consegna pacchi,
che giungono in formato .doc o .pdf. Nel caso si tratti di un financial malware o di un trojan banking, il virus andrà a carpire i dati finanziari del malcapitato. Altri tipi di virus si attivano nel momento in cui vengono inseriti user id e password, nel qual caso si parla di keylogging, un virus in grado di fornire ai malintenzionati le chiavi di accesso agli account di posta elettronica o di e- commerce (Polizia di Stato, s.d.).
I fenomeni di outing e trickery sono due facce della stessa medaglia: in entrambi i casi vi è una persona che, dopo aver raccolto informazioni confidenziali dal suo interlocutore, le condivide online o tramite mezzi elettronici, senza il preciso consenso dell’altro (Gallina, 2009; Xxxxxxx, Montegiove, & Xxxxxxxxxx, 0000; Peebles, 2014). La differenza tra outing e trickery sta nel modo in cui si ottengono le informazioni: nel primo caso, la vittima condivide spontaneamente informazioni e confidenze con il suo interlocutore, che è generalmente una persona di cui si fida, mentre nel secondo caso la vittima è sollecitata con l’inganno a raccontare all’ “amico” segreti su se stesso o su terzi (Gruppo IFOS, s.d.).
Non sempre le informazioni raccolte vengono subito divulgate. In alcuni casi, il bullo chiede alla vittima di esaudire delle richieste, a volte anche di natura sessuale, pena la diffusione delle confidenze.
In questo tipo di fenomeno i due protagonisti hanno, almeno in teoria, un rapporto paritario, sono spesso amici, o quantomeno la vittima ne è convinta, anche se poi il bullo assume una posizione prevaricatoria.
Questo tipo di atteggiamento potrebbe, nei casi più gravi, arrivare a costituire reato, in particolare configurandosi come diffamazione, interferenze illecite nella vita privata e pubblicazioni oscene (Ministero della Giustizia, 2015).
Si parla di exclusion quando una persona viene deliberatamente esclusa da un gruppo di amici online con lo scopo di farla sentire emarginata (Xxxxxxx, Montegiove, & Xxxxxxxxxx, 0000; Xxxxxxxx, et al., 2012; Xxxxxxxxx, et al., 2010). È il caso di chi viene tenuto fuori da un gruppo di WhatsApp, da un gioco multiplayer, o da qualunque altra forma di ritrovo online solamente perché si senta escluso, perché abbia un numero relativamente contenuto di “amici” online, fattore che al giorno d’oggi per gli adolescenti spesso costituisce un elemento determinante per stabilire la leadership o il potere all’interno del gruppo (Pisano & Saturno, 2008).
Un termine molto usato in rete per indicare il fenomeno dell’exclusion è bannare, dal verbo inglese to ban, ossia vietare, proibire. Secondo la definizione che ne dà Garzanti nella sua versione online (2016), bannare significa “togliere a un utente che non ha rispettato le regole l’autorizzazione ad accedere a una sezione di un sito, un forum, una chat ecc.”; in altre parole, si tratta di una:
«azione punitiva intrapresa nei confronti di utenti che contravvengono alle regole delle comunità virtuali e dei social network, venendone conseguentemente esclusi. L’utente viene bannato perché i suoi comportamenti sono considerati lesivi, scorretti o molesti nei confronti di altri utenti, violando apertamente la netiquette (v.) della comunità o le condizioni di servizio del network: spam, discorsi offensivi, violenza o contenuti sessualmente espliciti sono normalmente oggetto di sanzioni. L’azione, presa a tutela della comunità, può essere temporanea o definitiva. L’utente è bannato in genere dall’administrator o dal moderatore oppure, in alcuni casi, anche da automatismi software. Il termine viene usato anche nell’ambito del posizionamento sui motori di ricerca, quando si incorre in una penalizzazione» (Treccani, 2012).
Nel caso dell’exclusion non è l’amministratore di un sito a bannare l’utente in questione perché irrispettoso delle regole, ma sono i suoi stessi “amici” a precludergli la possibilità di partecipare ad alcuni spazi condivisi online (Ministero della Giustizia, 2015).
Come si evince dalla definizione di Treccani, le regole di una comunità online sono generalmente definite netiquette, sostantivo derivante dalla crasi dei termini inglesi net (work) «rete» e (e)tiquette «etichetta». Nel linguaggio di Internet sta ad indicare l’insieme delle norme di comportamento, non scritte ma a volte imposte dai gestori, che regolano l’accesso dei singoli utenti alle reti telematiche, specificamente alle chat-lines (Treccani, 2013).
Parlando in termini legali, l’exclusion non costituisce reato, ma viene riconosciuta solo come condotta deviante (Ministero della Giustizia, 2015).
1.4.1.10 Cyberbashing o Happy Slapping
Si è in presenza di cyberbashing (letteralmente “maltrattamento online”) o happy slapping (traducibile come “schiaffo allegro”) quando una o più persone riprendono l’aggressione fisica e verbale di un compagno nella vita reale e la pubblicano online, spesso all’insaputa della vittima, raccogliendo consensi attraverso like, commenti, condivisioni, ecc. (Gruppo IFOS, s.d.). Anche in questo caso, attraverso la condivisione o l’apprezzamento dei contenuti condivisi, gli spettatori diventano bulli essi stessi, in quanto contribuiscono volontariamente alla diffusione del materiale.
Nel caso dell’happy slapping e del cyberbashing si parla di condotta deviante quando le aggressioni sono preparate, quindi recitate e non realmente agite con l’intenzione di far male. Quando si tratta di vere e proprie aggressioni, invece, si inizia a parlare di condotta criminale e si può essere accusati di percosse, lesioni personali, circostanze aggravanti, ingiuria, diffamazione, interferenze illecite nella vita privata. Inoltre, sotto il profilo civile, ci si trova di fronte ad abuso dell’immagine altrui, violazione della
privacy ed esposizione, riproduzione, messa in commercio non consensuale del ritratto della vittima (Ministero della Giustizia, 2015).
Usato per la prima volta dalla giornalista Xxxxxx Xxxxxxx nel 2005, il termine sexting deriva dalla crasi delle parole inglesi sex (sesso) e texting (inviare messaggi) e, come si legge nel Manuale per Insegnanti edito da Save the Children (Xxxxxxxxxxxxx, s.d.), identifica la pratica di condividere contenuti a sfondo sessuale attraverso gli smartphone o in generale attraverso Internet, dove per contenuto si intenda un testo scritto, ma anche immagini o video (Xxxxxx & Moon, 2010).
Questo fenomeno in Italia è stato rilevato a partire dal 2010 dall’Osservatorio Nazionale per l’infanzia e l’adolescenza (Carenzio, Ferrari, De Cani, Lo Xxxxxx, & Rivoltella, 2015); a livello Europeo invece la prima menzione su un documento ufficiale avviene nel 2012, in cui si definisce il sexting come uno dei rischi legati alla rete, insieme ai traumi psicologici causati da insulti trasmessi via web; alle molestie sessuali a bambini e giovani (cybermolestie, cyberbullismo o grooming); alle molestie morali reiterate esercitate da superiori gerarchici, colleghi o subordinati (mobbing); ai problemi sul lavoro dovuti all'ingerenza delle imprese nella vita privata dei loro dipendenti; agli annunci espliciti di prostituzione e di servizi di "accompagnamento" (escort); alla sessualizzazione dei bambini nel Social Network; alla ripetuta violazione della privacy, dell'onore e della dignità personale; agli attentati alla salute fisica e mentale degli utenti del web; all’incitamento alla violenza, al razzismo e alla xenofobia; alla diffusione di ideologie totalitarie (apologia al fascismo e/o al nazismo); nonché ai suicidi di giovani dovuti alla diffusione di pettegolezzi attraverso il web (Unione Europea, 2012).
Nonostante negli ultimi anni del fenomeno del sexting si sia abbondantemente discusso, non solo a livello ufficiale, ma anche attraverso la
stampa, per via dei molti casi venuti alla luce, le ricerche a riguardo sono poche. A livello europeo, i primi a diffondere dati in merito sono stati i ricercatori di EU Kids Online, nel 2011, mentre in Italia i primi dati, seppur limitati da un punto di vista territoriale, sono arrivati nel 2014 dal Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Informazione e alla Tecnologia (CREMIT) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e da una ricerca condotta da Telefono Azzurro e Doxa.
A livello Europeo, la ricerca EU Kids Online (Xxxxxxxxxxx, Xxxxxx, Görzig, & Xxxxxxxx, 2011), condotta in 25 Paesi Europei, ha dichiarato che nel 2010 il 15% dei ragazzi tra gli 11 e i 16 anni ha ricevuto messaggi o immagini a sfondo sessuale da coetanei e che il 3% ha inviato o pubblicato in prima persona contenuti di questo tipo. Il 25% dei ragazzi che hanno ricevuto contenuti a sfondo sessuale riferiva di esserne rimasto infastidito (molto o abbastanza per il 45%). Chi ha risentito di più della ricezione di messaggi o post di questo genere sono, parlando per genere, le ragazze (33%, contro il 17%) e, per fasce d’età, i più giovani (41% degli 11-12enni, 25% dei 13- 14enni, 20% dei 15-16enni). Tra coloro che sono rimasti turbati, il 40% ha bloccato la persona da cui hanno ricevuto il contenuto non desiderato, e il 38% ha eliminato l’immagine in questione. Il più delle volte, secondo quanto dichiarato, queste azioni hanno contribuito a risolvere il problema.
Sempre leggendo i dati della ricerca EU Kids Online, emerge che il 41% dei genitori dei ragazzi che dichiarano di aver ricevuto immagini a sfondo sessuale, esclude che il figlio possa essersi trovato in una situazione del genere, mentre il 56% dei ragazzi che siano stati destinatari di messaggi offensivi ignorano ciò che è capitato.
In Italia le percentuali sono differenti: rispetto all’invio e alla ricezione di messaggi e/o immagini a sfondo sessuale, gli adolescenti che hanno dichiarato di averne ricevuti sono il 4%, mentre coloro che hanno dichiarato di averne inviati sono solo l’1%. Le percentuali sono invece molto più in linea con quelle europee per quanto riguarda le reazioni di fronte alla ricezione: ad essere rimasti turbati sono il 26% dei giovani, tra i quali il 38% ha cancellato le
immagini una volta ricevute, mentre il 44% ha bloccato il contatto di chi le ha spedite. Le percentuali aumentano invece drasticamente rispetto alla media europea quando si parla di coinvolgimento dei genitori nelle pratiche dei figli: sono ben il 58% gli adulti che ignorano che i propri figli si siano imbattuti in post a sfondo sessuale, e sono il 71% coloro che disconosco la situazione di disagio vissuta dai figli a causa di post offensivi a loro destinati online.
Indagini più recenti condotte sul territorio italiano (Telefono Azzurro, Doxa Kids, 2014) hanno dimostrato che la diffusione del fenomeno sembra essere in aumento: la percentuale di adolescenti (12-18 anni) che dichiarano di conoscere qualcuno che ha fatto sexting è il 35,9%.
Le motivazioni che spingono gli adolescenti a fare sexting le ritroviamo invece nella ricerca Image.ME8 condotta dal CREMIT nel 2014. La ricerca (CREMIT, 2014) ha coinvolto 889 studenti di 20 scuole appartenenti alla sola provincia di Monza e Brianza, per cui i dati che andiamo a presentare non sono sicuramente estensibili a tutto il territorio nazionale. Vale però la pena menzionarli, visto che non ci sono altre ricerche che abbiano indagato le stesse aree. In particolare, i dati che ci interessa riferire in questa sede sono relativi alle motivazioni sottese al sexting: gli adolescenti (14-19 anni) hanno riferito che dietro all’invio di messaggi o immagini a sfondo sessuale c’è una motivazione puramente ludica: lo fanno soprattutto per divertirsi (20%), ma anche per fare colpo su qualcuno (12,6%), per essere popolare (11,6%) o per entrare in una relazione più intima con persone che già si conoscono (10,2%). Lo scherno non è invece tendenzialmente preso così tanto in considerazione: chi ha dichiarato di fare sexting per prendere in giro qualcuno è infatti solo l’8,7% del campione.
Da quanto traspare, insomma, non è tanto la motivazione che spinge l’azione a costituire il problema, quanto invece le conseguenze che questa scatena. Conseguenze che spesso sono ignote agli adolescenti. La ricerca Xxxxx.XX, infatti, ha fatto emergere un dato preoccupante: se è vero che di
8 Per maggiori informazioni sul progetto di ricerca, si veda il sito Internet xxx.xxxxxxx.xx
fronte alla richiesta di indicare che fine facciano le foto una volta condivise online, gli studenti hanno in maggioranza risposto che rimangono per sempre visibili online o che possono essere salvate dagli utenti della rete per utilizzarle a proprio piacimento (49,6%), c’è però una grande percentuale che risponde che non ne ha idea e che la questione non lo interessa (21,6%).
Come risulta facile immaginare, il problema del sexting è che, una volta condiviso, un contenuto diventa di tutti coloro che ne entrano in contatto: chiunque potrebbe ricondividerlo a sua volta, modificarlo, farlo diventare un meme, ossia un oggetto culturale, in genere una battuta, che diventa sempre più popolare attraverso la sua diffusione online 9. Insomma, non solo diventa parte del “CV online” della persona, ma può anche diventare oggetto di scherno da parte di altri, dando il via al fenomeno già citato in precedenza del “reclutamento involontario” (Pisano & Saturno, 2008), con tutte le conseguenze che sono state analizzate nel paragrafo 1.4.1 parlando di denigration.
Si definisce gambling il gioco d’azzardo, ossia l’atto di “puntare o scommettere una data somma di denaro, o oggetto di valore, sull’esito di un gioco che può implicare la dimostrazione di determinate abilità o basarsi sul caso” oppure come “qualsiasi puntata o scommessa fatta, per sé o per altri, con denaro o senza, a prescindere dall’entità della somma, il cui risultato sia imprevedibile ovvero dipenda dal caso o dall’abilità” (Gamblers Anonymous, 2000, citato in Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento Politiche Antidroga, s.d.).
Per parlare di questo fenomeno si utilizza il termine inglese in quanto più chiaro: in italiano, infatti, il verbo “giocare” risulta quantomeno ambiguo,
9 Per un approfondimento sul tema, vedere Xxxxxxx, P. (2012). The Language of Internet Memes. In Mandiberg M. (Ed.), The Social Media Reader (pp. 120-134). NYU Press; Börzsei L.
K. (2013). Makes a Meme Instead: A Concise History of Internet Memes, New Media Studies Magazine Iss. 7. In Internet: xxxxx://xxx.xx/X0X0xX
in quanto si riferisce a diverse forme di gioco, compreso quello infantile. In inglese, invece, esistono due differenti verbi per parlare di “gioco”: to play, quando ci si riferisce ad un insieme di regole che il giocatore debba rispettare, cercando di vincere facendo leva sulle proprie abilità, e to gamble, che fa riferimento ad un gioco basato unicamente sull’ottenimento di una ricompensa e sulla fortuna (Xxx Xxxxxx & Xxxxxxxx, 2008), ossia su quello che in italiano chiameremmo gioco d’azzardo.
In Italia non esistono vere e proprie ricerche relative alla diffusione del fenomeno, ma il Ministero della Salute, nel 2012, ha reso noto che il 54% della popolazione italiana sarebbe familiare al gioco d’azzardo. I giocatori considerati problematici si aggirerebbero intorno all’1,3%-3,8%, mentre coloro che rientrano nella definizione di giocatori patologici costituirebbero dallo 0,5% al 2,2% della popolazione. I dati però sono in continuo cambiamento, poiché si ritiene che la ludopatia sia la patologia da dipendenze in più alta crescita (Ministero della Salute, 2016).
Secondo quanto riporta Xxxxxx (2013), gli adolescenti e i giovani adulti sembrano essere molto più vulnerabili al gioco d’azzardo rispetto alla popolazione adulta (Xxxxxxxxxx, Xxxxxxxxx e Xxxxxxxxxx, 2007), anche se in Italia il team di Bastiani nel 2013 ha evidenziato che, nonostante siano meno i giocatori tra gli adolescenti che tra gli adulti (35,7% vs 45,3%), sembra che i più giovani siano più avvezzi al gioco d’azzardo in forma sia lieve (6,9% vs 5,8%) che severa (2,3% vs 2,2%).
Secondo quanto riferisce il Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università degli Studi di Padova, ad essere più facilmente attratti dal gambling sono i maschi (10%), che non solo giocano con più frequenza rispetto alle femmine, ma sono anche più facili al gioco d’azzardo a rischio e problematico (Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, s.d.).
Recentemente è stata condotta la prima ricerca italiana relativa all’impatto che il gambling online avrebbe sullo sviluppo di problemi di gioco d’azzardo tra gli adolescenti italiani (Xxxxxx, Xxxxxxxxx, Vieno, Siciliano, &
Xxxxxxxx, 2016), che va a confermare alcuni dei dati appena riportati. Dei 14.778 partecipanti alla ricerca, l’82,9% è stato classificato come giocatore non problematico, il 10,6% come a rischio, e il 6,5% come problematico. Lo stesso campione, negli ultimi 12 mesi, è stato identificato come non-gambler nel 15,3% dei casi, come non-online gambler nel 69,1%, e come online gambler nel 15,6%. Tra i non-online gamblers, i giocatori problematici costituivano il 4%, mentre il tasso di prevalenza tra gli online gamblers ha raggiunto il 21,9%. Meno del 10% degli online gamblers sono stati classificati come non a rischio, mentre oltre il 20% degli online gamblers è stato classificato come a rischio.
Ad essere considerati più a rischio sono i maschi, nonchè coloro che non vivono con la propria famiglia. Tra i giocatori, sia online che non online, risultano essere più a rischio coloro che dichiarano di fare un uso massiccio di smartphone, tablet, Internet cafè, videogames e televisione.
Inoltre il tasso di adolescenti con problemi legati al gambling è risultato cinque volte superiore tra gli online gambliers che tra i non-online gamblers, come già era emerso in studi precedenti sia sugli adolescenti (Xxxxxxxxx, Xxxxxxxxxx, & Xxxxx, 2012; Xxxxxxx, et al., 2011) che sugli adulti (Xxxxxxxxx, Xxxxxxx, Xxxxxxxxxxxx, & Xxxx, 2015a; Xxxxxxxxx, Xxxxxxx, Xxxxxxxxxxxx, & Hing, 2015b; Xxxx & Xxxxxxxxx, 2012; Xxxx & Xxxxxxxx, 2011). Sicuramente non si può dedurre, dai dati ricavati, una stretta causalità tra gioco d’azzardo agito online e gioco d’azzardo patologico, però si può affermare che il gambling online può costituire un ambiente di rischio per i giocatori più vulnerabili (Xxxxxxxxx & Xxxx, 0000; XxXxxxxxx & Xxxxxxxxx, 2013).
2. Le opportunità offerte dalla tecnologia
Come si è visto, sono molti i rischi legati all’uso delle nuove tecnologie, non solo in ambito didattico. Come quasi sempre accade, però, ad ogni rischio corrisponde un’opportunità da cogliere. Proprio per questo, come
abbiamo potuto vedere nella prima parte del presente elaborato, le Istituzioni da anni stanno lavorando per poter introdurre le tecnologie in ambito didattico, provando a sfruttare tutte le opportunità che queste sono in grado di offrire.
Per linearità e semplicità di pensiero, si propone un’analisi delle opportunità derivanti dall’uso delle tecnologie a partire dalla suddivisione condotta nel paragrafo 1 di questo secondo capitolo.
2.1 Tempi e spazi del consumo mediale
La tecnologia accorcia tempi e spazi (Xxxxxxxx & Xxxx, 2006; Xxxxxxx & Xxxx, 1999): si ha la percezione di trovarsi nello stesso spazio “fisico” in cui si trovano gli utenti con cui si interagisce, di vivere un tempo “condiviso” con loro; in poche parole, è più immediata la comunicazione, sono più vicine le persone. Ce lo dimostra anche l’uso quotidiano che facciamo dei diversi dispositivi tecnologici: possiamo leggere notizie di quotidiani stranieri, confrontarci con persone che vivono in continenti diversi dal nostro, seguire il live tweet relativo ad un determinato argomento, vedere luoghi lontani, conoscere e intrattenere conversazioni con persone di tutto il mondo, e tutto questo con un semplice tap sullo schermo, senza doverci muovere da casa.
Tutte queste opportunità possono essere sfruttate anche in ambito scolastico. Di fatto le tecnologie, soprattutto quelle mobile, permettono a studenti e docenti di accedere a moltissime risorse online, dai quotidiani, ai video, alle immagini, ai podcast, ai blog, entrando in contatto con realtà anche molto diverse dalla propria, con le quali si può interagire. Diventa possibile ottenere un’informazione e, in tempo reale, mettersi in contatto con gli esperti del settore, o con gli autori di un libro, di un articolo, di una pubblicità, non solo attraverso i classici numero di telefono ed e-mail, ma anche attraverso i Social Network. Gli studenti inoltre possono condividere online i prodotti dei loro lavori, sia individuali che di gruppo, sfruttando il sito della scuola, il blog di classe, una social classroom (es. Edmodo, Moodle, ecc.), gli applicativi per la creazione e condivisione di contenuti (es. SlideShare, Prezi, Padlet,